LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Luglio 19, 2007, 10:57:38 am



Titolo: Angelo PANEBIANCO.
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2007, 10:57:38 am
L’Europa e il riconoscimento di Hamas

Le illusioni del realismo

di Angelo Panebianco


Hamas, per bocca del suo leader Haniyeh (La Repubblica di ieri), ha ringraziato il ministro degli Esteri italiano Massimo D'Alema per le sue parole («Hamas è una forza reale che rappresenta tanta parte del popolo palestinese »). La presa di posizione del ministro italiano è il seguito di una iniziativa (la lettera a Tony Blair) assunta da dieci ministri europei, francese e italiano inclusi, e tende alla legittimazione di Hamas di fronte alla comunità internazionale. Come, con sentimenti opposti, ha colto anche l'ambasciatore israeliano Gideon Meir (nell'intervista al Corriere di ieri), Hamas ha così segnato un punto nel braccio di ferro con il presidente Abu Mazen, la cui posta è il diritto di rappresentanza dei palestinesi. Una parte d'Europa, dopo il colpo di stato a Gaza, sembra voler riconoscere il fatto compiuto e accettare gli integralisti di Hamas come interlocutori al posto del moderato Abu Mazen.

L'ambasciatore Meir ha ragione quando ricorda a D'Alema che anche Hitler vinse, come Hamas, democratiche elezioni e che quello dunque non può essere un argomento buono per legittimare dei fanatici estremisti, ma difficilmente questa constatazione può far cambiare idea alla parte di Europa più interessata a normalizzare i rapporti con i movimenti integralisti del Medio Oriente che alla sicurezza di Israele. C'è un'Europa che, scambiando per realismo le proprie illusioni, pensa di poter trattare con chiunque, anche con il diavolo, trovandovi comunque un tornaconto. Essendo secolarizzata essa non registra il fatto che movimenti politico-religiosi come Hamas o Hezbollah non hanno nulla in comune con i vecchi «movimenti di liberazione nazionale ».
La dimensione religiosa (e il fanatismo che essa alimenta) di questi gruppi sfugge alla sua comprensione. E favorisce l'illusione di poter negoziare con essi con reciproca soddisfazione. Lasciamo da parte il caso della Francia che in questo momento sta lanciando messaggi contraddittori (la firma del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner nella lettera dei dieci, in effetti, è in contraddizione con le posizioni del «Quartetto» di cui la Francia fa parte). E' possibile che Sarkozy non abbia ancora messo definitivamente a punto la sua posizione sul Medio Oriente, come sembrerebbe indicare la presa di distanze di Kouchner dalle parole di D’Alema. Prendiamo invece il caso dell'Italia il cui governo, grazie soprattutto all’attività del ministro degli Esteri, ha indubbiamente una posizione coerente.

C'è continuità fra le diverse iniziative del governo Prodi sulla scena mediorientale. Fin dai tempi della guerra del Libano (luglio 2006) quando D'Alema si dimostrò assai meno indulgente nei confronti di Israele che dei suoi nemici integralisti. Allora D'Alema legittimò Hezbollah con parole simili a quelle ora usate per Hamas: è una forza popolare, disse, radicata nella società libanese. Giudizio descrittivamente ineccepibile da cui veniva tratta l'eccepibile conclusione che il «dialogo» con Hezbollah fosse necessario. Il tutto sullo sfondo (è l'aspetto più importante) delle ottime relazioni che l'Italia ha instaurato con l'Iran e con la Siria, g l i stati-sponsor di Hezbollah e di Hamas. La coerenza è certa ma è lecito dubitare che l'arrendevolezza nei confronti degli estremisti e dei loro sponsor serva alla stabilità del Medio Oriente e, quindi, agli interessi dell' Italia e dell'Europa. Per fortuna, molte partite sono ancora aperte. C'è spazio per la resipiscenza. Per riconoscere, ad esempio, che buttare a mare i moderati (come oggi Abu Mazen) e legittimare gli estremisti è sempre stata, fra tutte le politiche concepibili, la peggiore.

19 luglio 2007
 
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO.
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2007, 05:26:41 pm
Editoriali

I democratici e la vocazione maggioritaria

Pd, alla ricerca dell’identità

di Angelo Panebianco


Nella prima grande assemblea del Partito democratico che ieri, a Milano, lo ha incoronato segretario, Walter Veltroni, in coerenza con ciò che aveva già sostenuto durante la campagna per le primarie, ha disegnato l'identità della nuova formazione. Il filo conduttore di un intervento che, per sua natura, non poteva che spaziare su tanti temi, è rappresentato dalla volontà, ribadita dal neosegretario, di fare del Pd un partito a vocazione maggioritaria, ossia un partito che, al pari di quanto fanno tanti in altri Paesi europei, possa legittimamente aspirare a vincere le elezioni e, se possibile, a governare da solo. Tutto l'intervento di Veltroni andava in quella direzione: ad esempio, nel passaggio in cui ha sostenuto che in caso di voto anticipato (che egli non auspica prima che si faccia la riforma elettorale e magari anche una riforma costituzionale) il Partito democratico si presenterebbe agli elettori da solo, o in alleanza con poche forze riformiste ad esso affini, sicuro che la coerenza e la nettezza della sua proposta politica lo renderebbero comunque competitivo nei confronti dell'alleanza di centrodestra.

Bisogna partire da qui, dall'idea del partito a vocazione maggioritaria, per tentare di comprendere come Veltroni si muoverà in una fase molto delicata in cui dovrà da un lato costruire e consolidare il nuovo partito e, dall' altro, fronteggiare la crisi della maggioranza parlamentare che sostiene il governo Prodi. Un fine così ambizioso necessita di mezzi adeguati. I mezzi riguardano sia il modo d'essere del nuovo partito, il suo profilo organizzativo, sia il contesto istituzionale in cui dovrà muoversi. Su tutt’e due i versanti Veltroni, se vorrà rimanere fedele al suo progetto, dovrà fronteggiare grandi difficoltà e schivare molte trappole. Dal punto di vista organizzativo un partito a vocazione maggioritaria non può che basarsi su una forte leadership monocratica. Avere adottato, come il Partito democratico ha fatto, un sistema di elezioni «aperto» anche ai non iscritti (le cosiddette primarie) per la scelta dei candidati alle cariche di partito è stato un passo assai importante in quella direzione. Ma la novità deve essere puntellata con altre innovazioni organizzative adeguate.

La discussione innescata dal direttore del Foglio Giuliano Ferrara sulla questione del tesseramento riguarda precisamente questo aspetto. Un partito che vive di primarie non può riproporre contemporaneamente le soluzioni organizzative (tessere, congressi, eccetera) dei vecchi partiti di massa. Deve darsi modalità diverse di organizzazione della partecipazione. Su questo tema, probabilmente, inizieranno fra poco molti conflitti sotterranei dentro la Costituente del Partito democratico. Una buona parte della vecchia classe dirigente, nata dalla fusione di Ds e Margherita, si sentirebbe minacciata e perderebbe peso a favore di Veltroni, il leader plebiscitato dalle primarie, se lo statuto che dovrà essere varato andasse in quella direzione. Dalle soluzioni organizzative che verranno adottate nei prossimi mesi capiremo se e quanto il neosegretario sarà condizionato nella sua azione dalle vecchie strutture partitiche, ereditate dal passato. Quanto maggiore sarà il condizionamento, tanto minore sarà lo spazio di manovra di cui Veltroni disporrà per dare carne e sangue al suo progetto. C'è poi il contesto esterno, la questione della riforma elettorale. Veltroni si è lasciato aperte molte strade (resistendo alle spinte di chi nel suo partito lo invitava, implicitamente, a una scelta netta e immediata).

In un passaggio efficace del suo discorso, snocciolando anche cifre sui voti ottenuti e i seggi conquistati, ha ricordato che nei grandi Paesi europei i partiti oggi governanti non governerebbero affatto se, in quei Paesi, i sistemi elettorali, anche quelli di tipo proporzionale, non contenessero comunque forti correzioni in senso maggioritario.Èun sistema elettorale del genere (un sistema, potremmo dire, che favorisca le aggregazioni anziché limitarsi a fotografare la distribuzione dei consensi esistente) che Veltroni, coerentemente con il suo progetto, auspica anche per l'Italia. Perché è così importante che Veltroni segua con determinazione e tenacia il suo sogno del partito a vocazione maggioritaria? Perché quel tentativo potrebbe favorire in Italia una grande svolta. Il contraccolpo non mancherebbe infatti anche a destra. Potrebbe infine nascere un sistema politico con due grandi Soli, due grandi partiti fra loro in competizione, circondati, ciascuno, da qualche piccolo pianeta. La condizione necessaria per passare dalla democrazia della paralisi e dell’impotenza alla democrazia governante.

28 ottobre 2007

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO.
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2007, 11:50:49 am
LA CRISI DEL MAGGIORITARIO

Una sconfitta italiana


di Angelo Panebianco


Alla fine degli anni Settanta, Prima Repubblica, Giuliano Amato propose per l'Italia un sistema maggioritario a doppio turno. In una riunione da lui convocata per ascoltare le reazioni di studiosi delle più varie estrazioni politiche, le critiche risultarono, se ricordo gli umori in sala, più numerose dei consensi. Ci fu persino qualcuno che, contrario al maggioritario, si spinse a dire che la democrazia, per essere davvero tale, necessita della proporzionale (nella tanto rimpianta Prima Repubblica queste sciocchezze erano la norma).

Oggi, dopo un quindicennio di peregrinazioni in agitate acque maggioritarie (o quasi), è ormai da tutti deciso che è bene fare dietrofront, tornare alla proporzionale, essendo quello l'unico sistema elettorale adatto all'Italia. Bene, forse è davvero così. Ma vorrei far notare che dovremmo allora riflettere su quale democrazia sia mai la nostra e sulle ragioni di un così clamoroso fallimento.

Nella Prima Repubblica c'era il Partito comunista. Allora, si diceva, solo la proporzionale, diluendo le tensioni fra maggioranza e opposizione, può sostenere la fragile democrazia italiana. All'inizio degli anni Novanta, crollato il Muro, si pensò che l'Italia potesse entrare nel novero delle democrazie normali ove l'alternanza al governo non costituisce un dramma per nessuno. E il sistema maggioritario venne scelto per accelerare la trasformazione e stabilizzarla. Tenuto anche conto del fatto che, fra tutte le grandi democrazie occidentali, solo la Germania e la Spagna utilizzano sistemi elettorali proporzionali (sia pure corretti). Si discuterà all'infinito se il fallimento del tentativo sia dipeso dal fatto, come ha sempre sostenuto Giovanni Sartori, che sbagliammo sistema maggioritario (a un turno unico anziché a doppio turno) oppure dal fatto che non adeguammo al maggioritario la Costituzione o, ancora, dal fatto che, varato il maggioritario, ci impegnammo allo spasimo per proporzionalizzarlo (con la quota proporzionale, con regolamenti parlamentari e sistema di finanziamenti che incoraggiavano la frammentazione, eccetera).

Ma la causa di fondo, forse, è un'altra: che l'alternanza (la quale pure abbiamo conosciuto in questo quindicennio di quasi-maggioritario) è rimasta un dramma, un trauma, per la parte del Paese che perde le elezioni. Per questo, forse, non possiamo permetterci il maggioritario. Si demonizzavano fra loro, nella prima fase della guerra fredda, Dc e Pci (ed era comprensibile). In seguito, però, venne ferocemente demonizzato Craxi. Oggi c'è Berlusconi, domani, probabilmente, un altro, e dopodomani un altro ancora. E la frammentazione degli schieramenti (causa «ufficiale » del fallimento del maggioritario), forse, è stata un modo involontario per continuare a diluire le tensioni.

C'è sempre qualcosa di «emergenziale», un grumo oscuro, nella vita della democrazia italiana. Per questo, forse, la proporzionale ci si confà. Purché si smetta di mentire. La proporzionale, con Cose Bianche, Cose Rosse e il resto, servirà forse alla nostra difficile democrazia per sopravvivere (altro che Germania) ma, di sicuro, non per vivere bene.

24 novembre 2007

da corriere.it


Titolo: Angelo Panebianco - Gli avversari del dialogo
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2007, 12:25:55 pm
IL BIPOLARISMO ITALIANO

Gli avversari del dialogo

di Angelo Panebianco


L'aspetto più importante dell'incontro fra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi sta forse nella sua valenza simbolica. Con il colloquio, e le successive dichiarazioni distensive, dei due leader più forti, si è voluto porre termine, simbolicamente, al bipolarismo feroce che caratterizza la storia italiana dal 1994, alla reciproca delegittimazione, allo scontro fra nemici. Al di là degli aspetti tecnici (quale legge elettorale? quali riforme costituzionali?) questo è il vero significato dell'incontro. Se infatti si vuole inaugurare una diversa fase politica, nella quale le coalizioni di governo possano formarsi fra simili, dotati di reali affinità programmatiche, e non fra diversi e lontani con il solo scopo di «battere il nemico », i leader rivali devono incontrarsi con rispetto e concordare nuove regole del gioco, tali da conseguire due obiettivi: assicurare che in futuro la competizione non possa degenerare in guerra e garantire a chi vince la possibilità di governare in ragione della sua interna coerenza programmatica.

Naturalmente, quest'ansia di normalità democratica dovrà essere messa alla prova: si tratterà di vedere se i tifosi, i sostenitori delle due parti, saranno d'accordo, accetteranno una riconversione, che implica un cambiamento di menta-lità, così profonda. Non è detto che ciò accada. Soprattutto perché in un quadro politico frammentato, sono tanti quelli che hanno troppo da perdere in una conversione alla normalità, e che soffieranno sul fuoco per bloccare il processo. Per quanto riguarda la sostanza (riusciranno i nostri eroi a fare, per lo meno, una decente legge elettorale?) è lecito essere scettici. Veltroni e Berlusconi condividono un interesse (a un sistema elettorale che favorisca i due grandi partiti) ma ciò li mette in rotta di collisione con altri potenziali partner. Ad esempio, se davvero giungessero a un accordo su una legge elettorale di tipo spagnolo (che sovrarappresenta i grandi) si troverebbero di fronte alle barricate erette da tutti gli altri. O accetteranno, alla fine, un compromesso al ribasso che non li favorirà oppure dovranno fronteggiare formidabili opposizioni.

Tra i due è messo meglio Veltroni. Se andrà ma-le, se il Parlamento non sarà in grado di fare una legge elettorale a lui gradita, egli potrà ripiegare sul referendum. Berlusconi, invece, è in guai più seri. Ha rotto con Gianfranco Fini, l'unico fra i suoi ex partner che avrebbe potuto spalleggiarlo nella ricerca di una legge elettorale che favorisse le grandi formazioni. E, col referendum incombente, rischia persino una rottura con Umberto Bossi, il solo alleato che non lo abbia ancora abbandonato. La nascita del Partito democratico (nel centrosinistra) e lo sparigliamento delle carte voluto da Berlusconi (nel centrodestra) hanno indubbiamente fatto entrare aria fresca e dato a molti la sensazione che, nel nuovo clima, si potesse uscire dai rifugi e togliersi gli elmetti, che i tempi plumbei della democrazia blindata fossero alla fine. È una bella sensazione anche se la storia passata del Paese non autorizza a scommettere molto sulla possibilità di un lieto fine.

02 dicembre 2007

da corriere.it


Titolo: Angelo Panebianco. La parabola del prodismo
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2008, 11:03:41 am
IL PROFESSORE E IL PD

La parabola del prodismo

di Angelo Panebianco


Nonostante nella giornata di ieri Romano Prodi si sia mostrato assai accondiscendente nei confronti di Walter Veltroni è illusorio credere che ora, dopo la caduta, il «prodismo» sia destinato a una immediata scomparsa, ad andarsene subito, in silenzio. E' stato troppo importante per la sinistra italiana: verosimilmente, la sua uscita di scena sarà lenta, accompagnata da potenti colpi di coda.

Che cosa è stato il prodismo? E, prima ancora, è legittimo parlare di prodismo? E' legittimo perché, come altri «ismi» importanti della nostra storia (dal degasperismo al berlinguerismo, dal craxismo al berlusconismo), quel termine designa non solo l'avventura personale di un leader e di un gruppo di uomini a lui fedeli ma anche una cultura politica: Prodi e i suoi, quando inventarono l'Ulivo, proposero al Paese un'idea di società e un progetto per il futuro le cui coordinate culturali affondavano in una certa tradizione del cattolicesimo politico.

Politicamente, il prodismo è stato il frutto di una anomalia altrettanto radicale di quella che ha caratterizzato la storia del centrodestra, l'una e l'altra figlie del caos e della destrutturazione partitica seguiti al crollo della Prima Repubblica. All'anomalia dell'imprenditore che fonda un partito, «inventa » il centrodestra e ne diventa capo inamovibile ha fatto da pendant, a sinistra, l'anomalia di un uomo privo di una propria base partitica di potere che, nonostante ciò, per ben due volte, nel 1996 e nel 2006, viene scelto dalla sinistra come candidato premier.

Quell'anomalia si spiega con il fatto che gli ex comunisti identificarono in Prodi, per le sue personali caratteristiche politico- culturali, la sua storia passata e le sue relazioni presenti, l'uomo che avrebbe potuto traghettarli verso la Terra Promessa, là dove il peccato originale sarebbe stato mondato, là dove gli «ex» sarebbero diventati, prima o poi, dei «post». Nel '96, Prodi era perfetto per il ruolo. Veniva dalla sinistra democristiana, da un mondo che aveva sempre dialogato col Pci e ne aveva condiviso i nemici (l'alleanza contro Craxi fu la progenitrice della successiva alleanza contro Berlusconi). In più, la sua fama di tecnocrate, la dote di relazioni con il business e con la finanza di cui disponeva e la sua concretezza padana promettevano di dare alla sinistra quel valore aggiunto di «modernità» di cui essa aveva allora disperatamente bisogno.

C'è una differenza fondamentale fra il Prodi che affronta le elezioni del 1996 e poi governa per due anni e il Prodi dal 2006 ad oggi. E' quella che corre fra un fenomeno politico nella fase iniziale, ascendente, e lo stesso fenomeno colto nel momento discendente della sua parabola.

Nel 1996 Prodi suscitò grandi attese nel «popolo di sinistra». Suscitò, per esempio, l'entusiasmo di tanti intellettuali (molti dei quali, già fiancheggiatori del Pci, si trovarono a proprio agio con un uomo della sinistra cattolica, per giunta professore, ossia uno di loro). Inoltre, più e meglio degli ex comunisti, egli sembrava in grado, usando le corde del cattolicesimo sociale, di «far ragionare» anche la sinistra estrema. Promise l'Europa, il mercato, l'equità sociale, la normalità democratica.

Mise in piedi una coalizione che non era solo «contro» (Berlusconi) ma che aveva anche qualche idea sul che fare per l'Italia. I suoi due anni di governo furono dominati dall'esigenza del rigore (Ciampi, al Tesoro, fu il suo alter ego) e dalla ricerca, coronata da successo, dell'ingresso nell'euro. Poi l'uomo «senza partito» venne messo da parte, tradito dalla sinistra estrema ma anche dal fatto che gli «ex» pensarono (sbagliando) di poterne ormai fare a meno. Richiamato in servizio nel 2006 (per le stesse ragioni per cui era stato incoronato dieci anni prima) si è trovato ad operare in tutt'altre condizioni. Era ormai diverso lui ed erano diversi i tempi. Nel 2006 la coalizione messa in piedi è stata, a differenza del '96, solo un'accozzaglia eterogenea creata per battere Berlusconi. La nuova legge elettorale ha avuto le sue colpe ma è falso che tutte le colpe siano della legge elettorale. Arrivato fortunosamente al governo, Prodi si è trovato privo di una «missione» e, per giunta, a capo dell'esecutivo più spostato a sinistra dell'intera storia repubblicana.
Era rimasta solo, del tempo che fu, l'aspirazione al rigore (con Padoa-Schioppa al posto di Ciampi), bilanciata, però, dalla forza del «partito della spesa» e dal fatto che ora Prodi, molto più che nel '96, si proponeva come il garante del rapporto fra moderati e sinistra estrema. Dietrologie a parte, è vero che l'incoronazione di Walter Veltroni a leader del Partito democratico ha dato al prodismo la botta definitiva.

A differenza di D'Alema (l'ultimo dei togliattiani), Veltroni è davvero un «post», uno che si è lasciato alle spalle il passato. La sua affermazione come leader ha reso superflui Prodi e il prodismo. Per un paradosso storico i prodiani furono i primi a volere il Partito democratico ma la sua nascita ha segnato l'inizio della loro fine politica. E' tutto qui il nodo della ormai famosa «vocazione maggioritaria». Nella visione che era stata dei prodiani il Partito democratico doveva essere il baricentro di una più larga Unione nella quale far convivere la sinistra estrema e quella moderata. Nella visione di un «post» senza complessi come Veltroni il Partito democratico deve diventare adulto camminando sulle proprie gambe. Non è che quella dei prodiani sia una visione «maggioritaria» e bipolare e quella di Veltroni no. Sono due modi diversi di declinare l'idea maggioritaria. Solo che in quella di Veltroni non c'è più posto per i mediatori fra sinistra moderata e sinistra estrema.
Al di là delle apparenze odierne la partita non è finita e Prodi non è uno che si fa mettere da parte. Chi scommette sul fatto che le tensioni interne al Partito democratico diventeranno fortissime scommette sul sicuro.


26 gennaio 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo Panebianco Il dialogo e le invettive
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2008, 03:01:06 pm
IN CAMPAGNA ELETTORALE

Il dialogo e le invettive

di Angelo Panebianco


Ci avviamo verso una campagna elettorale diversa da quelle che abbiamo fin qui conosciuto? I partiti si scontreranno duramente su proposte politiche alternative ma senza imporci un clima plumbeo da guerra civile, da contrapposte mobilitazioni contro il «nemico alle porte»? L'intenzione c'è. Almeno da parte dei due principali leader, Walter Veltroni e Silvio Berlusconi. Assumendo la leadership del Partito democratico, Veltroni ha reiteratamente asserito di voler costruire un partito per anziché un partito contro, un partito che si qualifichi per le soluzioni che propone piuttosto che per l'antiberlusconismo. A sua volta, Berlusconi lascia intendere che in caso di vittoria vuole inaugurare una fase di fair play verso l'opposizione e che farà di tutto per coinvolgerla nelle deliberazioni del governo. I due massimi leader sembrano avere preso atto del fatto che la contrapposizione selvaggia che ha caratterizzato la nostra storia recente ha portato il sistema politico alla paralisi e ha lasciato esausto il Paese.

La stessa richiesta fatta nei giorni scorsi da Veltroni di dare vita a una Grande Coalizione per le riforme istituzionali era sì finalizzata a ottenere il rinvio delle elezioni ma era anche, di per sé, una novità. Solo poco tempo fa sarebbe stato impensabile per un leader della sinistra proporre un'alleanza di governo con Berlusconi (allearsi con l'Uomo Nero?).

Il clima delle campagne elettorali condiziona le vicende del dopo-elezioni. Una campagna dura ma senza demonizzazioni renderebbe più facile instaurare condizioni di cooperazione su temi importanti fra la futura maggioranza e la futura opposizione. Ma è realistico credere alla possibilità di una campagna elettorale siffatta? Vi si oppone la nostra tradizione. Vi si oppone il fatto che la demonizzazione dell'avversario è in questo Paese per tanti un mestiere, un'attività politico-economica da cui dipendono remunerazioni, status, carriere. Vi si oppone il fatto che, da noi, molti, e non solo politici di professione, sembrano identificare interamente la politica e l'agire politico con l'invettiva (è sempre stato così ma da Mani Pulite in poi questo fenomeno si è grandemente accentuato): se lo spazio per l'invettiva si riducesse tutti costoro penserebbero di essere stati defraudati del loro «ruolo politico». Vi si oppone il fatto che negli stessi partiti di Veltroni e Berlusconi abitano tantissimi che diventerebbero afoni se la delegittimazione dell'avversario perdesse il peso determinante fin qui avuto.

Probabilmente, sarebbe necessario un forte ricambio del personale parlamentare, forze fresche disposte ad adottare uno stile più pacato e propositivo. E occorrerebbe la capacità dei leader di resistere alle pressioni di molti gruppi esterni: quei gruppi che vogliono una politica debole e delegittimata e sanno che un clima da guerra civile ne è la migliore garanzia.


06 febbraio 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo Panebianco Il partito dei cattolici
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2008, 03:54:38 pm
LA SCELTA CENTRISTA

Il partito dei cattolici

di Angelo Panebianco


La rottura fra Berlusconi e Casini è ormai certa. Occorre riconoscere a entrambi un grande coraggio. Berlusconi, scegliendo la separazione da Casini, mette a rischio una vittoria elettorale che era fin qui data per certa. Casini, rifiutando di entrare nel Popolo della Libertà alle condizioni di Berlusconi, sceglie una strada rischiosissima, quella della lotta per la sopravvivenza. Hanno certamente anche pesato ruggini personali. Ma forse la separazione definitiva delle loro strade era comunque inevitabile (se non fosse accaduto adesso sarebbe accaduto in seguito). Al fondo, infatti, c'era un dissenso strategico, non componibile.

Di tutti gli alleati di Berlusconi Casini era l'unico a non condividere l'idea che la politica italiana dovesse stabilmente imperniarsi su una competizione bipolare nella quale (come sempre accade nelle competizioni bipolari) il «centro» non è stabilmente occupato da alcun partito ma è, invece, il luogo in cui convergono, contendendosi gli elettori di centro, lo schieramento di destra e lo schieramento di sinistra. Fedele alla tradizione politica (quella democristiana) da cui proviene, Casini ha puntato tutto sul mantenimento di un partito di centro. Anche la sua preferenza per un sistema elettorale «alla tedesca» è sempre stata funzionale a quel disegno. L'incomponibilità dei disegni strategici ha reso «armata» e altamente conflittuale la coesistenza fra Casini e Berlusconi nel precedente governo di quest'ultimo. E l'avrebbe resa armata e conflittuale anche in una nuova esperienza di governo.

Da qui il rifiuto di Berlusconi di rivedere un film già visto. Si noti che questa divergenza strategica non è legata a dissensi di tipo programmatico. Nei resoconti giornalistici sulle trattative fra Berlusconi e Casini non si trovano tracce di dissensi programmatici (sulla politica economica, sulla politica estera, sui temi etici o su altro). Qual è allora il punto? Perché non solo Casini ma anche altri ritengono indispensabile la sopravvivenza di un partito di centro, di un partito capace di occupare in permanenza il centro? È all'interno del mondo cattolico che va cercata la risposta. Il partito di centro, infatti, nella tradizione italiana, è un partito di cattolici.

È l'espressione dell'organizzazione politica dei cattolici. Ma i cattolici, oggi, sono ampiamente presenti, e visibilissimi, in tutti e due gli schieramenti. Sono accasati nel Partito democratico come lo sono in Forza Italia e in An. Senza contare il fatto che se in queste elezioni ci sarà, come tutto lascia intendere, la lista per la moratoria sull'aborto promossa da Giuliano Ferrara, diversi elettori cattolici saranno fortemente tentati di votarla. E dunque perché un partito cattolico di centro? La risposta è chiara: la storia pesa. Una parte, non sappiamo quanto grande, del mondo cattolico, una parte dello stesso clero (alto e basso), si ricorda della Dc e pensa che senza un partito ispirato allo scudo crociato le esigenze dei cattolici non sarebbero sufficientemente tutelate in politica. Queste elezioni saranno, oltre a molte altre cose, anche un test sull'atteggiamento dei cattolici. Possono affidare le loro aspirazioni e le loro speranze al gioco bipolare della competizione fra sinistra e destra o devono di nuovo investire su un partito dei cattolici?

17 febbraio 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO.
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2008, 02:56:37 pm
IL NODO DELLA POLITICA ESTERA

Finanziare le missioni


di Angelo Panebianco



Gli osservatori che lamentavano con rassegnazione l'assenza dei temi di politica estera dalla campagna elettorale sono stati serviti. Con l'intervento dell'ex ministro della Difesa Antonio Martino, critico del nostro impegno in Libano, le successive precisazioni di Berlusconi, e le conseguenti polemiche, un aspetto cruciale della politica estera italiana, quello relativo alle missioni militari all'estero, ha fatto irruzione nell'agenda elettorale. Se si continuerà a discutere di politica estera e della difesa, naturalmente, c'è da scommettere che ciò avverrà nel modo approssimativo e propagandistico che è tipico delle campagne elettorali.
Proviamo allora a richiamare alcuni fatti. Nel passaggio dal governo Berlusconi al governo Prodi ci furono alcuni (pochi, anche se importanti) cambiamenti di sostanza anche se le maggiori discontinuità furono di tipo retorico- ideologico. I cambiamenti riguardarono la presenza italiana in Iraq e l'atteggiamento verso il conflitto israelo-palestinese. Sull'Iraq pesava il fatto che l'intero centrosinistra aveva dato un giudizio negativo sia dell'intervento americano sia della nostra successiva partecipazione. Ne seguì il ritiro della missione militare. L'altro punto di vera discontinuità riguardò Israele. Bisogna ricordare che il governo Berlusconi aveva innovato rispetto alla tradizione italiana: aveva schierato nettamente l'Italia al fianco di Israele. Con il governo Prodi, e soprattutto con l'azione del ministro degli Esteri Massimo D'Alema, l'Italia tornò all' antico, alla politica, di andreottiana memoria, di prevalente sostegno alla causa palestinese. In vari momenti, quella politica ha assunto, nelle parole del ministro, si trattasse dell'azione israeliana di contrasto a Hezbollah o delle ritorsioni contro Hamas, una forte connotazione anti israeliana.
Casi Iraq e Israele a parte, la principale differenza fra il governo Berlusconi e quello di Prodi stava nel fatto che il primo rimase unito sulle principali questioni internazionali e della sicurezza, mentre il secondo dovette fare i conti con forti divisioni interne. Ricordiamo che il governo Prodi, per aver voluto mantenere gli impegni assunti (Afghanistan, base di Vicenza) dovette sfidare fortissime turbolenze parlamentari e inciampò anche, nel 2007, in una crisi di governo.
Che cosa aspettarsi nel caso di un nuovo cambio della guardia? Ci sarebbe almeno un mutamento di sostanza e riguarderebbe Israele. Un nuovo governo Berlusconi archivierebbe il neo andreottismo. In fondo, anche la polemica sulla missione in Libano sembra avere avuto come bersaglio proprio quella politica. Ci si dovrebbero aspettare poi cambiamenti sul piano retorico-ideologico. A differenza del governo Prodi, un eventuale futuro governo Berlusconi non dovrebbe fare i conti con una componente interna antiamericana. Ciò lo renderebbe più libero di ribadire in ogni momento la propria solidarietà con gli Stati Uniti nelle varie crisi (sull'Iran, ad esempio).
Su tutto il resto è difficile fare previsioni. Di sicuro, né in Libano né in Afghanistan (le due missioni di cui si discute), chiunque vinca le elezioni, ci saranno cambiamenti non preventivamente concordati in sede Onu (Libano) o in sede Nato (Afghanistan). Forse, come afferma Berlusconi, verranno modificate le regole d'ingaggio dei nostri militari in Afghanistan ma difficilmente ciò potrà avvenire senza un coordinamento con Francia e Germania e senza che il governo coinvolga nella scelta anche l'opposizione (sinistra estrema esclusa). Molte cose non dipendono da noi e su molti aspetti della politica estera una certa continuità c'è sempre stata e ci sarà in futuro. C'è un punto però su cui la campagna elettorale dovrebbe fare chiarezza. Non si può discutere di impegni militari all'estero senza parlare di risorse. Il problema è stato sollevato dal ministro della Difesa Arturo Parisi ( Il Resto del Carlino, 15 marzo), il quale ha ricordato che, all'epoca del governo Berlusconi, l'allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti colpì duramente il bilancio della Difesa portandolo dai 19,8 miliardi del 2004 ai 17,8 del 2006 con danni per l'operatività delle Forze Armate. Il ministro osserva anche che la successiva opera di recupero ha solo in parte rimediato ai danni in precedenza prodotti.
Ecco un bel tema per la campagna elettorale. Le missioni militari sono un aspetto centrale della nostra presenza internazionale. Non sarebbe male quindi se, anziché prendere posizioni affrettate su questioni (come il nostro ruolo in Libano o in Afghanistan) che non dipendono solo da noi ma dalla nostra concertazione con altri Paesi, ci concentrassimo su ciò che sicuramente dipende solo da noi: quanti soldi il prossimo governo sarà pronto a impegnare per la sicurezza nazionale?


17 marzo 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo Panebianco. Pasticci con le ali
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2008, 03:57:14 pm
CORDATE

Pasticci con le ali

di Angelo Panebianco


Fino a qualche giorno fa niente sembrava in grado di animare la campagna elettorale. Si parlava soprattutto delle somiglianze fra i programmi dei due principali contendenti. Poi è esplosa la questione Alitalia. A tre settimane dal voto, è diventato il tema su cui le forze politiche (a cominciare da Berlusconi, con la sua proposta di una cordata italiana da contrapporre ad Air France) sembrano puntare per mettere in difficoltà gli avversari. Niente di peggio poteva accadere poiché, come ha osservato Sergio Romano (Corriere, 23 marzo), una questione così grave richiederebbe di essere trattata con una serietà che è difficile ottenere da forze politiche impegnate a sgambettarsi in una campagna elettorale.

Si intrecciano tre questioni. La prima riguarda i giochi interni al sistema dei partiti. Si sono delineate alleanze trasversali in cui ciascuno crede di avere la propria convenienza. Se Berlusconi, a nome del «partito del Nord», cerca di mettere in difficoltà Veltroni, i piccoli, a loro volta, hanno trovato un varco per picchiare duro sui grandi. Così, la Sinistra Arcobaleno apre a Berlusconi su Alitalia contro il Partito democratico (suo diretto concorrente a sinistra), mentre Casini, concorrente al centro del Popolo della Libertà, polemizza con Berlusconi e si schiera col Partito democratico.

La seconda questione (la più esplosiva, almeno in prospettiva) riguarda la spaccatura Nord/Sud, Milano contro Roma. E’ il problema del declassamento di Malpensa e delle sue vere o presunte conseguenze per lo sviluppo del Nord. E’ difficile non notare che le divisioni politiche su Malpensa rispecchiano abbastanza fedelmente la geografia elettorale italiana.

Infine, c’è la questione sindacale. I sindacati, corresponsabili del disastro Alitalia, cercano anch’essi di sfruttare le divisioni politiche e rinviare il momento in cui pagare il conto degli errori accumulati. Sarebbe interessante capire se davvero essi credono che i giochi del passato possano essere riprodotti all’infinito, se credono che, senza la vendita a un compratore credibile, il fallimento dell’azienda possa essere evitato.

Naturalmente, i sindacati possono ancora contare su sponde politiche di un certo peso (come segnala la dissociazione del ministro Bianchi dalla posizione ufficiale del governo Prodi). E’ un pasticcio colossale nel quale, per giunta, è difficile stabilire chi guadagnerà elettoralmente e chi perderà. Prendiamo il caso dell'elettorato del Nord. Ci sono certamente cittadini sensibili alla difesa di Malpensa da parte della Lega e di Forza Italia così come ce ne sono molti affezionati all'idea della «compagnia di bandiera». Ma ce ne sono anche altri che si domandano se non sia peggio lasciare le cose come stanno, col rischio di continuare a far pesare sui contribuenti (magari anche in violazione delle regole europee) i costi di un’azienda in dissesto che si sarebbe dovuto far fallire oppure vendere già molti anni or sono.

Pessimo argomento da campagna elettorale, il caso Alitalia è una buona dimostrazione di cosa succede quando i dibattiti accademici su «statalismo e liberismo» lasciano il campo alla politica vera e alla lotta sempre prosaica (anche se ammantata di sacri principi) fra gli interessi organizzati, aziendali, territoriali o sindacali che siano.

25 marzo 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I fallimenti dello Stato
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2008, 04:04:01 pm
POLITICA E MERCATO

I fallimenti dello Stato

di Angelo Panebianco


In tempi di recessione il mito del «despota benevolo», dello Stato che si fa carico del bene comune contro gli egoismi del mercato, riprende inevitabilmente forza. Il mercato viene messo allora sotto accusa a causa dei suoi «fallimenti » (oggi si tratta degli effetti di contagio della crisi finanziaria americana innescata dalla vicenda dei mutui subprime). In quei frangenti, un numero crescente di persone si rivolge allo Stato per ottenere protezione dalle conseguenze negative del malfunzionamento dei mercati. Nessuno, o quasi, sembra disposto a porsi la domanda: chi ci proteggerà dal protettore? Altrimenti detto, invocare più Stato contro i fallimenti del mercato è una prassi normale, comprensibile, nelle fasi recessive, ma questo non autorizza a dimenticare che i «fallimenti dello Stato » sono spesso più gravi, e possono avere conseguenze più catastrofiche, dei fallimenti del mercato. Noi italiani dovremmo saperlo meglio di chiunque altro. Si pensi alla società e all'economia meridionali: lì c'è sempre stato un massimo di intervento statale, di intermediazione pubblica, un massimo di Stato «protettore».

A qualcuno sembra che ciò abbia mai giovato alle condizioni della Campania, della Calabria o della Sicilia? A dispetto dei suoi tanti critici, la cosiddetta «globalizzazione », la brusca accelerazione dell'interdipendenza economico-finanziaria internazionale iniziata nei primi anni Novanta del secolo scorso, ha prodotto soprattutto effetti positivi: ha regalato una lunghissima fase di prosperità all'Occidente e, fuori di esso, ha strappato alla povertà milioni e milioni di persone. Inoltre, si è accompagnata a una diffusione delle libertà politiche nel mondo che non ha precedenti. Oggi, per la prima volta nella storia, democrazie e semi democrazie sopravanzano numericamente le autocrazie fra i regimi politici del mondo. Non è che la diffusione del mercato produca meccanicamente la diffusione delle libertà politiche. I rapporti fra mercato e democrazia sono complessi e in parte ancora oscuri: talvolta, lo sviluppo dell'economia di mercato aiuta l'affermazione della democrazia, altre volte è la democrazia che, consolidandosi, favorisce l'economia di mercato e, altre volte ancora (è il caso della Cina), l'economia di mercato coesiste a lungo con l'autocrazia politica. Però, è innegabile l'esistenza di una tendenza generale che vede associate la diffusione delle libertà economiche (di mercato) e quella della libertà politica.

Oggi si assiste a un’inversione di tendenza. Si chiedono, in America come in Europa, barriere contro la concorrenza, limiti alla circolazione dei capitali, eccetera. Ovunque si punta a un maggior ruolo nell'economia del comando politico. Ma, attenzione, il «ritorno dello Stato » non è di oggi. Possiamo dire che la sua rentrée sia iniziata dopo i fatti dell'11 settembre 2001. Ossia, con il ritorno della guerra dopo la decennale parentesi seguita alla fine della Guerra fredda. Gli anni Novanta sono stati infatti il vero decennio della globalizzazione, una sorta di Belle époque nella quale crollarono le spese militari, la diffusione della democrazia nel mondo assunse ritmi tumultuosi, l'economia di mercato portò benessere anche dove non se n'era mai visto, la politica sembrò per un momento ritrarsi dalla scena.

Dopo l'11 settembre, la politica (e dunque lo Stato), si riprese molti dei privilegi che aveva perduto nel precedente decennio. Come è inevitabile quando la sicurezza torna a essere un tema dominante. E ciò rallentò, come molti analisti osservarono, la corsa (che era stata sfrenata per tutti gli anni Novanta) della globalizzazione. Le spinte recessive di oggi sembrano portare a compimento il processo: la politica pare riacquistare pienamente un primato in precedenza indebolito. A riprova del fatto che non esistono nelle vicende umane processi «irreversibili» la spinta propulsiva propria della globalizzazione dei mercati, per effetto della rivincita della politica, probabilmente si affievolirà. Tutto questo è forse inevitabile ma a differenza di coloro che si limitano ad applaudire il ritorno della politica e auspicano che essa riesca a imbrigliare i mercati, io penso che ci saranno anche grossi prezzi da pagare: sotto forma di minor diffusione sia del benessere sia delle libertà.

Del comando politico non possiamo fare a meno soprattutto perché è a esso che affidiamo la nostra sicurezza. Rallegrarsene però non ha senso. Il comando politico è un «male necessario». In quanto tale va sempre preso con le molle, va maneggiato con prudenza. In fondo, come non ricordare che la democratizzazione della Russia venne bloccata da una guerra (Cecenia) e che l'autoritarismo di Putin è stato alimentato dal forte controllo statale sull'economia?

30 marzo 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo Panebianco. Il grande tabù delle elezioni
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2008, 04:11:53 pm
EUROPA, SARKOZY E SPESE MILITARI

Il grande tabù delle elezioni

di Angelo Panebianco


Le questioni di politica internazionale hanno una curiosa caratteristica: in campagna elettorale valgono meno di zero, non portano voti, se ne parla il meno possibile. Però, a elezioni concluse, sono quelle questioni a provocare alcune delle più gravi turbolenze, talvolta anche sismi capaci di fare oscillare violentemente i palazzi della politica. Il governo Berlusconi si trovò immerso nella temperie internazionale seguita agli attacchi dell'11 settembre 2001 e, dopo, fronteggiò formidabili opposizioni di piazza per il suo appoggio agli americani nella guerra in Iraq. Il governo Prodi, a sua volta, con la sua risicata maggioranza, si è trovato continuamente sulla graticola a causa dell'impegno in Afghanistan. Nulla fa ritenere che le cose possano andare diversamente per il prossimo governo. Tra i tanti omissis di questa campagna elettorale c'è anche una mancanza di riferimenti ai cambiamenti dello scenario europeo. La novità è data dal ruolo del presidente francese Sarkozy. Superando almeno in parte il vecchio asse franco-tedesco, Sarkozy si sta muovendo a tutto campo con l'intento di rilanciare il primato francese in Europa. La mossa più spettacolare è stata l'intesa con il premier britannico Gordon Brown. Ne è scaturita la promessa di Sarkozy di ricucire lo strappo di De Gaulle del 1966 (quando il generale fece uscire la Francia dall'organizzazione militare della Nato) abbinandola però a un deciso impegno per la difesa europea, un tema da sempre cavallo di battaglia dei britannici. La difesa europea promette quindi di diventare, in tempi difficili per l'Unione, uno dei nuovi motori dell'integrazione. Se così sarà, i Paesi che non saranno pronti a investire risorse su questo (costoso) fronte saranno tagliati fuori dal club degli stati europei influenti. Parlare di difesa europea significa parlare di spese militari. Veltroni e Berlusconi non vi accennano. Anche nei programmi dei due partiti mancano impegni espliciti e quantificabili. Il problema è serio anche perché pesa (in stridente contrasto con i nostri impegni nelle missioni di pace) una tradizione di disattenzione ai problemi della sicurezza: se, ad esempio, sono necessari tagli di bilancio, il settore della difesa è sempre il primo a essere colpito. La «nuova Europa» è un ambiente difficile e competitivo. Conta ormai assai poco essere stato un «socio fondatore». Ora si pesa solo per la forza che si ha e per il contributo che si è disposti a dare. Se la difesa europea, come pare, diventerà una questione davvero importante nei prossimi anni, l'influenza politica tornerà a essere misurata in Europa, almeno in parte, sulla base del più classico dei criteri: la forza e la qualità dell'organizzazione militare (dimmi quante divisioni hai e ti dirò quanto conti). I leader tacciono su un tema inadatto alla propaganda ma chi vincerà se lo ritroverà sulla scrivania.

07 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La vera forza della Lega
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 12:20:44 pm
LA PROVA DEL FEDERALISMO FISCALE

La vera forza della Lega


di Angelo Panebianco


Il successo elettorale della Lega Nord sembra avere sconcertato e stupito tanti osservatori. Sconcerto e stupore sembrano dipendere dalla circostanza che, eccezion fatta per una manciata di attenti analisti del fenomeno, la Lega, nonostante la sua storia ormai ventennale e il suo radicamento territoriale, resta ancora per tanti un oggetto misterioso, un enigma, giudicato più per le periodiche intemperanze verbali dei suoi leader che per la sua natura. Il riflesso pavloviano di molti è ancora quello (come accadeva agli albori della vicenda leghista) di liquidare il fenomeno sotto l'etichetta di «movimento di protesta».

In parte, ciò dipende dalla difficoltà di comprendere che cosa davvero sia un partito regionale o territoriale. Un partito regionale è un partito che sfugge alle classiche etichette destra/sinistra: imponendosi come portavoce di una certa area territoriale, che aspira a rappresentare in modo monopolistico, è un partito interclassista e comunitario. E' un partito-comunità. Per un gruppo politico siffatto, avere un ruolo nel governo nazionale è importante ma solo se ciò rende più efficace la sua azione a favore della comunità territoriale rappresentata. La sua vera forza sta nel controllo delle amministrazioni locali e in una presenza capillare sul territorio. Come ha osservato Andrea Romano (La Stampa), non si capisce la Lega Nord se non si tiene conto della capacità che Umberto Bossi ha avuto nel corso degli anni di fare crescere una classe dirigente locale, di giovani amministratori, spesso abili, e capaci di tenersi in sintonia con le domande dei loro amministrati.

Per questo, certi paragoni reggono poco. Non funziona accostare la Lega, partito territoriale insediato in alcune delle zone più ricche del Paese e che gode del consenso di ceti produttivi, ai movimenti classici di tipo ideologico, vuoi di estrema destra (come il lepenismo in Francia) vuoi di estrema sinistra (come la sinistra massimalista in Italia). Al di là di certe somiglianze superficiali con i movimenti estremisti (e senza negare che le spinte anti-politiche possano oggi avere avuto un qualche ruolo nel successo elettorale della Lega), un partito regionale come la Lega Nord vive e prospera in virtù di un rapporto «contrattuale», di scambio, su temi concretissimi, che toccano direttamente le loro vite e i loro interessi, con i propri rappresentati. A dare forza alla sua azione, a spiegare il suo radicamento e i suoi successi, sono due circostanze. In primo luogo, il fatto che un partito regionale non deve preoccuparsi, a differenza dei grandi partiti nazionali, delle «compatibilità» (se non quando non preoccuparsene danneggerebbe i territori rappresentati) e degli interessi nazionali. Ciò lo rende meno impacciato dei partiti nazionali che devono mediare fra tanti interessi, territorialmente diffusi, e fra loro contrastanti. In secondo luogo, il fatto che il comunitarismo territoriale che lo ispira gli permette di muoversi «come se» le popolazioni rappresentate fossero internamente omogenee. Per l'interclassismo comunitario, «se ci guadagna» il territorio, ci guadagnano tutti i suoi abitanti.

In questa prospettiva, per inciso, l'erosione dell'area dell'incompatibilità di interessi, e della conflittualità, fra datori di lavoro e salariati, dovuta ai cambiamenti intervenuti nella struttura economica e sociale, può contribuire a spiegare il tracollo della sinistra classista e certi significativi spostamenti di voto operaio verso la Lega.

Per capire meglio le specificità della Lega si pensi alle differenze fra il suo ruolo nel precedente governo Berlusconi e quello svolto dalla sinistra massimalista nel governo Prodi. La sinistra massimalista tenne il governo Prodi in scacco su tutti i temi possibili, dalla politica estera al welfare, fu fonte di continua instabilità. La Lega Nord, nel passato esecutivo di Berlusconi, invece, sostenne sistematicamente le politiche governative nel loro complesso, tenendo ferma la barra sui pochi ma cruciali temi che le interessavano: l'immigrazione, la devolution. Né si può ignorare, a conferma del carattere assai pragmatico dell'azione leghista, che il governo Berlusconi fu debitore nei confronti della Lega di un ministro del Lavoro (Roberto Maroni) cui si dovette, fra l'altro, uno dei provvedimenti più significativi di quel governo: la legge Biagi.

Poiché la natura della Lega non è cambiata, nulla lascia pensare che le cose andranno ora diversamente. La Lega si impegnerà nel governo sostenendolo lealmente ma chiedendo in cambio provvedimenti precisi sulle cose che stanno a cuore ai suoi rappresentati: sicurezza, immigrazione, federalismo fiscale.

Sulla sicurezza e sulle politiche dell'immigrazione, probabilmente, non incontrerà difficoltà dal momento che esiste, su questi temi, omogeneità di vedute nel centrodestra. Assai più delicato e complesso potrebbe risultare invece il tema del federalismo fiscale: agitato propagandisticamente per anni, questa volta il federalismo fiscale entrerà davvero nell'agenda politica, diventerà oggetto di vere decisioni. Qui potrebbero insorgere problemi, anche seri, fra il partito regionale (che punta a trattenere al Nord il massimo possibile delle risorse prodotte) e il partito nazionale, il Pdl, che deve mediare fra interessi diversi e che non può ignorare le domande, di tutt'altro tenore, del Mezzogiorno. La sintesi, difficile comunque, sarà resa verosimilmente ancora più ardua dalla fase recessiva che ci aspetta. E' lecito ipotizzare che proprio sul federalismo fiscale, nei prossimi anni, il centrodestra possa giocarsi il suo futuro, garantendosi sine die, o prima o poi perdendo, il sostegno del partito regionale.

17 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. IL CASO ICHINO
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 02:26:21 pm
IL CASO ICHINO

Lo spirito giusto

di Angelo Panebianco


All'indomani della vittoria del centrodestra era lecito chiedersi se le profferte di collaborazione con l'opposizione avanzate da Silvio Berlusconi durante la campagna elettorale sarebbero state subito accantonate. Non è stato così. La richiesta, clamorosa e senza precedenti nella storia della Repubblica, che Berlusconi ha fatto al giuslavorista Pietro Ichino, neoeletto nelle liste del Partito democratico, di entrare a far parte del nuovo governo, conferma che il vincitore delle elezioni punta effettivamente a una cooperazione ampia e a relazioni diverse da quelle del passato con l'opposizione parlamentare.

E' stata evocata la Francia di Sarkozy. Ma ci sono, fra Italia e Francia, troppe differenze di contesto, di uomini, di stili politici, perché il parallelo sia davvero convincente. Nel caso italiano vale assai di più il diffuso riconoscimento che i nostri problemi sono troppo gravi e complessi per poter essere avviati a soluzione perpetuando il clima da guerra civile e da muro contro muro che ha caratterizzato le precedenti esperienze di governo dal 1994 in poi.
Ichino ha declinato l'invito ma lo ha fatto con parole che non chiudono le porte alla possibilità di convergenze fra maggioranza e opposizione su quelle tematiche del lavoro di cui egli è uno dei massimi specialisti.

A differenza di Oscar Giannino che, su Libero, ha criticato la scelta di Ichino, penso che quest'ultimo non potesse fare altrimenti. Sia perché il passaggio di un neoeletto dall'opposizione al governo sarebbe stata giudicata severamente da molti della sua parte politica, sia, e soprattutto, perché Ichino si è dato un compito assai difficile: contribuire alla affermazione, dentro il massimo partito della sinistra italiana, di una visione moderna e realistica dei problemi del lavoro, una visione che a tutt'oggi conta fieri avversari nel sindacato ed è anche destinata, verosimilmente, a incontrare resistenze nello stesso Partito democratico. Come è testimoniato dalle polemiche che, da sinistra, hanno sempre accompagnato gli editoriali che sui temi del lavoro Ichino ha pubblicato per anni sul Corriere ma anche da certe reazioni stizzite che hanno seguito l'annuncio della sua candidatura al Parlamento.

Si è aperta una partita complessa e interessante. Molto, nei rapporti futuri fra governo e opposizione, dipenderà dalle ulteriori mosse di Berlusconi. Ma molto dipenderà dalle risposte dell'opposizione. Per esempio, se Veltroni darà vita a un governo-ombra, oltre alla qualità e alla preparazione delle persone scelte, conterà lo spirito con cui esso opererà. Se il suo compito non sarà solo quello di contrastare l'azione del governo (per far questo non c'è alcun bisogno di governi- ombra) ma anche di favorire convergenze fra maggioranza e opposizione su decisioni importanti, ecco che si tratterà di un'innovazione utile per il Paese. Andrebbe per esempio in quella direzione una rinuncia da parte della maggioranza ad esprimere la presidenza della commissione Lavoro di Palazzo Madama affidandola proprio a Ichino. Certi poveri di spirito (nonché violentatori della lingua italiana) chiamerebbero tutto ciò «inciucio». Si tratterebbe, invece, del superamento di una patologia che ci ha afflitto per anni, dell'avvento di una democrazia parlamentare civile e matura.


26 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il dialogo come metodo
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2008, 09:51:23 pm
L’APERTURA DEL PARLAMENTO

Il dialogo come metodo

di Angelo Panebianco


Il discorso con il quale il neo-presidente della Camera Gianfranco Fini ha salutato i deputati sembra uno di quei discorsi destinati a lasciare il segno. Con la sua elezione e con le sue parole, Fini è uscito del tutto dal cono d’ombra in cui — ma prima della vittoria di Gianni Alemanno a Roma— si era trovato relegato a causa delle modalità con cui era avvenuta l’aggregazione fra Forza Italia e An e del successo elettorale della Lega. Col suo discorso Fini ha inteso imporre una forte, personale impronta sulla legislatura che si apre ma anche, implicitamente, definire, dal suo punto di vista, l’identità del nuovo centrodestra. Almeno quattro passaggi del suo discorso sono apparsi finalizzati a questo scopo. In primo luogo, l’omaggio, irrituale, a Papa Benedetto XVI, che ha immediatamente seguito il più consueto omaggio al presidente della Repubblica. E' in nome del principio della laicità delle istituzioni, dice Fini, che il Parlamento deve riconoscere il ruolo della religione cristiana come cemento dell’identità culturale italiana. Con questo richiamo Fini ha inteso anche ricordare che il centrodestra, in Italia come al Comune di Roma, non mancherà mai di difendere l’identità cristiana del Paese. Questo aspetto è ulteriormente rafforzato da un altro passaggio, quello in cui, dopo avere reso omaggio alla Liberazione e alla riconquistata libertà, Fini ha sostenuto che oggi la minaccia non viene più dai totalitarismi ma dal relativismo culturale e morale. E' un altro punto su cui Fini ha voluto ribadire la sua consonanza con la lezione del Pontefice. Implicitamente, egli ha così anche affermato un aspetto centrale, dal suo punto di vista, dell’identità politica del centrodestra.

Ma ci sono almeno altri due passaggi, politicamente assai salienti. Il primo è quello in cui ha ringraziato due ex presidenti della Repubblica, Cossiga e Ciampi (ma, significativamente, non Scalfaro) per il contributo che diedero all’abbattimento degli steccati lasciati dalla storia e alla ricostituzione di una memoria condivisa. Tante cose sono accadute dai tempi di Fiuggi e Fini aveva già dato una fortissima accelerazione al superamento delle divisioni passate, soprattutto nella veste di ministro degli Esteri del precedente governo Berlusconi (il viaggio in Israele fu, a questo fine, decisivo). Ma ora, dopo la sua elezione e il suo discorso, un’epoca della storia della Repubblica si è davvero chiusa. Ci aspettano di sicuro altre divisioni ma non più quelle del passato. Da ultimo, Fini (come già Schifani in Senato) ha ribadito la necessità di un accordo fra maggioranza e opposizione sulle riforme. Più che un richiamo rituale è stata un’implicita presa di posizione contro tendenze di segno contrario che potrebbero facilmente manifestarsi. Alcune delle condizioni che giocavano a favore di un dialogo costruttivo fra maggioranza e opposizione si sono infatti indebolite. C’è una maggioranza che ha vinto tanto e potrebbe essere tentata (sbagliando) di «fare da sola» anche in materie in cui l’accordo con l’opposizione è indispensabile. E c’è un leader del Pd, Walter Veltroni, indebolito dalle sconfitte e, quindi, più condizionato, con meno margini per trattare con la maggioranza. Il richiamo di Fini è servito anche a ricordare alle due parti che senza collaborazione non si potrà fare il bene del Paese.

01 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I RIFIUTI E LA LINEA IERVOLINO
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2008, 05:50:11 pm
Editoriali

I RIFIUTI E LA LINEA IERVOLINO

La battaglia decisiva


di Angelo Panebianco


Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti (ma forse così non è) che in Campania, nella drammatica vicenda dei rifiuti, nelle prossime settimane e nei prossimi mesi non sarà in gioco solo la credibilità del neonato governo Berlusconi. L'immagine internazionale del Paese è stata orribilmente sfigurata a causa di quella vicenda. Senza un immediato e radicale cambio di rotta, senza un vero avvio di soluzione del problema, rischiamo di non potere mai più ridare (parole di sapore antico ma, credo, calzanti) l'onore perduto all'Italia. Di fronte al mondo come di fronte a noi stessi.

Occorre una grande concordia di intenti, una ferrea volontà di coordinamento degli sforzi fra tutte le istituzioni che contano, da quelle politiche (a tutti i livelli), a quelle ammini-strative, a quelle giudiziarie. Possibilmente, con l'impegno e il sostegno dell'intera società, della Chiesa, dei mezzi di comunicazione, eccetera. Anche perché si è ormai capito che la possibilità o meno di affrontare con successo la questione dei rifiuti dipenderà in larga misura dagli esiti del braccio di ferro fra lo Stato democratico e la camorra (che non intende rinunciare all'ultra-redditizio business dei rifiuti) per il controllo del territorio campano: una sfida che lo Stato democratico potrebbe benissimo perdere.

C'è dunque, finalmente, quella concordia di intenti? Solo in parte, a quanto sembra. Se il presidente della Regione campana Antonio Bassolino si dichiara pronto a cooperare lealmente con il governo, altri sembrano, incredibilmente, ignari della gravità della situazione. È impressionante, ad esempio, il resoconto ( La Stampa, 19 maggio) dello stillicidio di intralci posti, negli ultimi mesi, da alcune procure campane all'attività del commissario Gianni De Gennaro, al suo disperato tentativo di tamponare l'emergenza. Ed è ugualmente impressionante il contenuto dell'intervista rilasciata ieri al Corriere non da un passante ma dal sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino. Invece di appellarsi ai suoi cittadini perché collaborino con le pubbliche autorità, invece di lasciare da parte le polemiche e invitare tutte le istituzioni all'azione concorde, la Iervolino (rendendo così poco credibile la sua stessa dichiarazione di voler cooperare col governo) non rinuncia a sottolineare il suo ruolo di «antagonista » di Berlusconi e della maggioranza. Con varie battute sarcastiche, come quella sulla proposta di tenere segreti i siti delle discariche: «Che facciamo? Vestiamo gli operai da Cappuccetto Rosso e camuffiamo le scavatrici da carri di Babbo Natale?». Si vede che al sindaco di Napoli mette allegria stare seduta sulla tolda del Titanic.
La storia insegna che nelle grandi tragedie un ruolo importante, in negativo, lo svolge sovente l'inadeguatezza politica di chi occupa rilevanti posizioni pubbliche.

A Napoli e dintorni è in corso da mesi una sorta di guerriglia «a bassa intensità », scontri fra dimostranti e polizia, roghi di cassonetti, eccetera. Forse la camorra, come anche nella vicenda dell'assalto al campo Rom, sta mandando un messaggio al governo e, in realtà, all'intera società italiana, un messaggio del tipo «questo è territorio nostro, non provatevi a mettervi di mezzo». Sarà difficile per chicchessia mettersi di mezzo se le istituzioni non remeranno tutte con lo stesso ritmo e nella stessa direzione.


20 maggio 2008


da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Se lo Stato fallisce
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2008, 06:55:50 pm
DEMOCRAZIE

Se lo Stato fallisce


di Angelo Panebianco


Che cos’hanno in comune i due temi caldi di questi giorni, il braccio di ferro fra il governo e le comunità locali campane sulle discariche e il dibattito sulla necessità o meno di introdurre il reato di clandestinità? Pur essendo questioni diversissime esse condividono il fatto di sollecitare risposte a una domanda decisiva: quale «livello di statualità », quale grado di controllo territoriale da parte dello Stato, riteniamo compatibile con la forma di governo democratica? In linea di principio, le democrazie possono distinguersi fra loro per il fatto di essere associate a Stati «forti» (effettivo monopolio della forza, effettivo controllo sul territorio) oppure a Stati «deboli».

Nella realtà, naturalmente, è sempre una questione di grado: non esistono Stati così forti da esercitare un controllo totale sul territorio (caso francese: rivolta della banlieue) e, inoltre, esistono, sul versante opposto, vari gradi possibili di debolezza dello Stato. E' però un fatto che quando la debolezza supera una certa soglia lo Stato debole si trasforma in uno «Stato fallito». Se mai quella soglia venisse superata in un Paese occidentale anche la democrazia (che non può vivere in assenza di Stato) vi morirebbe immediatamente. La democrazia italiana ha sempre convissuto con uno Stato relativamente debole. Non foss'altro per la sua incapacità di stabilire un effettivo monopolio della forza nei territori storicamente controllati dalla criminalità organizzata.

La novità di questi anni è l’esplosiva miscela fatta di cambiamenti culturali (ampie fasce di cittadini sempre meno disponibili ad accettare il comando statale), inefficiente funzionamento della macchina amministrativa (apparati repressivi inclusi) e trasformazioni sociali (l'immigrazione ne è un aspetto). Tutto ciò ha ulteriormente indebolito il «grado di statualità», in termini di controllo delle risorse coercitive, della forza e di controllo territoriale, avvicinando così il Paese pericolosamente a quella zona rossa superata la quale ci sono solo lo «Stato fallito» e la conseguente anarchia. Poiché abbiamo una tradizione di Stato debole molti credono che l'ulteriore indebolimento che esso ha subito in questi anni (testimoniato, ad esempio, dai continui successi ottenuti fino a oggi dalle comunità locali in rivolta contro decisioni governative in materia di opere di pubblica utilità) non comprometterebbe la democrazia. Sbagliano clamorosamente.

Una democrazia si differenzia da un regime autoritario perché distingue in modo sufficientemente chiaro, sulla base di leggi e procedure codificate, ciò che è negoziabile e ciò che non lo è. E ciò che non è negoziabile (le decisioni assunte da organi democraticamente eletti) viene imposto. Anche con la forza, quando occorre. A patto naturalmente che lo Stato non sia ridotto a una finzione, non sia diventato così debole da non poterselo più permettere. Chi plaude come «democratica» la rivolta antidiscariche, forse non lo sa ma il «modello di Stato» che sta proponendo a tutti noi è il Libano. Anche la discussione sul reato di clandestinità ha molto a che fare con il livello di statualità ritenuto accettabile, opportuno, nonché compatibile con la democrazia. Il reato di clandestinità, com’è noto, è vigente in altre democrazie occidentali.

Da noi alcuni vi si oppongono solo per ragioni pragmatiche: sono quelli che dicono che a causa dell’inefficienza del nostro sistema giudiziario, l'introduzione di questo reato renderebbe impossibile espellere i clandestini. Forse hanno ragione. Però costoro hanno anche il dovere di proporre misure per ridurre quell'inefficienza (magari anche a costo di far strillare un po' l'Associazione nazionale magistrati e altre strutture sindacali). A occhio, però, direi che i «pragmatici » non sono in maggioranza fra coloro che si oppongono al reato di clandestinità. La maggioranza mi pare composta da quelli che difendono l'attuale basso livello di statualità, che vogliono che i confini nazionali restino porosi non solo di fatto ma anche di diritto. Sono persone (fra esse ci sono anche alcuni uomini di Chiesa) che ritengono un maggior controllo statale sul territorio incompatibile con la democrazia.

La storia, le tradizioni, pesano. Poiché la nostra è una tradizione di Stato debole molti pensano che solo uno Stato debole possa sposarsi con la democrazia. Costoro temono eventuali rafforzamenti del livello di statualità perché li interpretano tout court come manifestazioni di tendenze autoritarie in atto. Per la stessa ragione, essi ignorano o sottovalutano i segnali, accumulatisi negli ultimi anni, di «cedimento strutturale» del nostro sistema statuale. Talvolta, un eccesso di statualità può effettivamente innescare tendenze autoritarie e uccidere la democrazia. L'anarchia, però, è sempre in grado di produrre lo stesso risultato.

27 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Se la società civile scendesse in piazza
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2008, 11:45:54 am
RIFIUTI E DISFATTA DEL SUD

Se la società civile scendesse in piazza


di Angelo Panebianco


Nel suo L'armonia perduta, del 1999, a proposito di quell'invenzione culturale che è stata la «napoletanità», Raffaele La Capria scrive che essa «... fu l'approdo inevitabile di questa piccola borghesia che rinunciava a priori, per risolvere il problema della plebe, a ogni vero tentativo di trasformazione sociale. Che rifiutava a priori ogni tentativo di industrializzazione, in quanto comportava rischi e richiedeva investimenti, capacità imprenditoriali, cultura, proprie di una classe dirigente moderna e di una borghesia degna di questo nome».

Assillata dall'esigenza di controllare la plebe, la borghesia napoletana, per La Capria, diede vita a una forma di civiltà duttile e raffinata ma immobile, impermeabile alle esigenze della modernità.

L'ambivalente sentimento dello scrittore nei confronti della borghesia della sua città ritorna oggi negli interventi che egli dedica all'emergenza napoletana. Lo si coglie anche nelle riflessioni pubblicate ieri sul Corriere. Quell'ambivalenza dà luogo, mi sembra, a oscillazioni nel giudizio. C'è una differenza fra la prima parte, dove risponde a Ernesto Galli della Loggia, e la seconda dove esamina criticamente Il mare non bagna Napoli, il libro di Anna Maria Ortese. Nella prima parte, egli accusa l'Italia per quanto è accaduto e accade a Napoli. Il rischio è che il lettore vi veda (fraintendendo, credo, il vero pensiero di La Capria) una sorta di assoluzione per Napoli, un voler gettare sulle spalle di altri le responsabilità. Nella seconda parte, però, egli dedica un giudizio molto affilato e duro alla borghesia napoletana, della quale dice che essa non si è mai confrontata con il mondo e, pertanto, non è mai stata in grado di conoscersi: «Come si fa a essere classe dirigente se non si sa chi si è?».


Io credo che a Napoli oggi possa servire più questo duro giudizio sull'inettitudine della sua borghesia, della sua classe dirigente, che una chiamata di correo per l'Italia nel suo insieme. Perché nelle chiamate di correo è sempre insito il rischio, anche al di là delle intenzioni, di allontanare la responsabilità da chi in primo luogo la possiede. E' mia impressione che i napoletani, e in particolare proprio quella borghesia da cui fin qui, nella vicenda dei rifiuti, ci si è attesi invano uno scatto d'orgoglio, la manifestazione di un'inequivocabile volontà di prendere in mano il destino della propria città, non abbiano ancora misurato fino in fondo il baratro morale in cui Napoli è precipitata agli occhi del resto dell'Italia. Forse, per quella normale forma di cortesia che impronta le conversazioni private, i non napoletani evitano di calcare troppo la mano quando parlano con dei napoletani. Ma è purtroppo un fatto che, ad esempio, quando al Nord oggi si parla di Napoli (e la cosa non coinvolge solo elettori leghisti ma i più disparati ambienti, culturali e politici) smorfie e commenti carichi di disprezzo sono la regola. Il resto del Paese si sente danneggiato da Napoli due volte. In termini di immagine, perché la vicenda napoletana dei rifiuti coinvolge l'intera Italia agli occhi del resto del Mondo. E in termini di sforzo finanziario, perché quella storia costa cifre colossali ai contribuenti italiani.


Da quindici anni, o quanti ne sono passati da quando dura il problema dei rifiuti, afflitta da quegli antichi difetti acutamente individuati da La Capria, la società civile napoletana, quell'ambiente borghese fatto di professionisti, professori, imprenditori, giornalisti, magistrati, è stato silente, e quindi complice, degli errori inanellati dalla classe politica. Quella società civile non può fingere di non avere responsabilità possedendo essa le risorse culturali ed economiche che avrebbero potuto metterla in grado di esercitare un'influenza positiva, se solo lo avesse voluto.

Trovo stupefacente che quella classe borghese non abbia ancora sentito su di sé tutto il peso morale dell'emergenza e non si sia data da fare di conseguenza. Trovo strano, ad esempio, che essa non sia stata ancora in grado di portare in piazza mezzo milione, o più, di persone, con lo scopo di solidarizzare con chi, da De Gennaro a Bertolaso, ha tentato e tenta l'impossibile per rimediare, e di dire basta alle manovre dilatorie e alle «rivolte » suscitate ad arte, mediante le quali, da troppo tempo, si impedisce di porre termine a questa scandalosa situazione. Se quella reazione ci fosse stata, il clima e il vento sarebbero già cambiati e Napoli potrebbe guardare con più fiducia al futuro. Per i rifiuti ma forse anche per i suoi più generali problemi di sviluppo. L'assenza di quella reazione spiega anche l'incapacità delle istituzioni di cooperare fra loro (come mostra l'ultimo, devastante, intervento della magistratura), di remare nella stessa direzione.

Non dovrebbe essere questo il compito di intellettuali di grande prestigio come La Capria? Quello di spingere i propri concittadini ad abbandonare l'apatia, a muoversi per riconquistare un orgoglio e un onore oggi perduti? Anche i difetti più antichi e radicati di una classe dirigente che, in realtà, non sa dirigere più nulla, possono essere riscattati nelle situazioni di emergenza. Anzi, è solo in presenza di crisi gravissime che potenziali classi dirigenti, abituate a stare in ginocchio, riescono talvolta ad alzarsi in piedi.
In quasi tutto il Sud, non solo a Napoli, è da sempre radicata l'idea che tocchi agli altri, al Nord ricco oppure allo Stato, «risarcire» il Sud, risolvere i problemi della società meridionale. Ma è una tragica illusione. Gli «altri», si tratti dello Stato o di qualunque altra entità, anche ammesso (e non concesso) che lo vogliano, non potrebbero comunque riuscirci. Nessuno è in grado di aiutare davvero un altro se quest'ultimo non aiuta se stesso per primo.


31 maggio 2008(modificato il: 01 giugno 2008)

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il monito di Obama
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 04:27:51 pm
Il monito di Obama


di Angelo Panebianco


Probabilmente non è così esperto da mettere in conto tutte le conseguenze delle proprie dichiarazioni. Gli premeva solo segnare un punto contro il suo avversario, il repubblicano John McCain. Ma quando, alcuni giorni fa, Barack Obama, il candidato democratico, ha assunto una durissima posizione contro l'Iran, chiarendo che lo considera un nemico dell'America, egli ha lanciato, involontariamente, anche un messaggio all'Europa.

Soprattutto, a quella parte d'Europa tentata dall'appeasement con l'Iran. Riflettano quelli che in Europa pensano che con l'Iran bisogna fare solo affari, fingere che il presidente iraniano Ahmadinejad sia un pazzo isolato che non va preso sul serio quando ribadisce che Israele dev'essere distrutto e chiudere gli occhi di fronte all'espansionismo del-l'Iran in Medio Oriente e al suo programma nucleare. Non sappiamo se il «predicatore » diventerà presidente e se, diventandolo, darà vita a una politica estera mediocre e oscillante (come quella di Jimmy Carter) oppure di grande profilo come quella di altri presidenti democratici. Ma una cosa è sicura. L'America (eventuale) di Obama non cesserà di essere pronta alla durezza nei confronti delle più pericolose potenze revisioniste, quelle che si propongono di rovesciare a proprio vantaggio, anche con la forza delle armi, lo status quo (l'Iran di oggi è una potenza del genere nello scacchiere mediorientale). C'è quindi da scommettere che molto del favore che Obama raccoglie anche in Europa (la «buona America » contro quella cattiva di Bush) si ridurrà se egli diventerà presidente. Si noti che una politica dura nei confronti del-l'Iran porterà per forza altre conseguenze.

Non potrà essere abbandonato l'Iraq perché ciò permetterebbe all'Iran di dilagare senza contrappesi nella parte sciita di quel Paese. Nel Libano, dove l'Hezbollah filoiraniano si è ulteriormente rafforzato, si dovrà continuare a fronteggiarne la minaccia. La stessa cosa varrà per Gaza. E' un monito anche per noi italiani. Bene ha fatto il governo a non ricevere Ahmadinejad durante la sua visita alla conferenza della Fao e bene hanno fatto le forze politiche a tenersene distanti. Così come è giusto voler entrare nel gruppo 5+1 per partecipare all'azione internazionale coordinata contro la potenziale minaccia nucleare iraniana. Anche a costo di perdere commesse e affari. Poiché una guerra (che, purtroppo, ha forti probabilità di scoppiare se non ci saranno, nei prossimi anni, un cambio di regime in Iran o una sua rinuncia al nucleare militare) farebbe perdere a tutti molto di più. Come ha scritto Mario Ricciardi sul Riformista, trattare con i gangster politici si può e, talvolta, si deve, ma si può fare solo mettendo una pistola sul tavolo. Chi non la pensa così nel caso dell'Iran ne sottovaluta la minaccia oppure ha ragioni inconfessate per approvarne l'avventurismo (perché, ad esempio, detesta a tal punto Israele da considerarlo una pedina sacrificabile). L'Iran, si dice, è una società complessa ove sono presenti molte forze. Lo è di sicuro. Ma per permettere alle forze interne contrarie all'avventurismo dell'attuale gruppo dirigente iraniano di prevalere, occorre un Occidente compatto e deciso, tale da non lasciare al regime spiragli per giocare un Paese occidentale contro l'altro. Forse persino Obama non sarà molto diverso da Bush su questo punto.

08 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il ritorno all'antico
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 04:46:07 pm
GOVERNO E OPPOSIZIONE

Il ritorno all'antico


di Angelo Panebianco


Non se ne sentiva la mancanza ma la notizia è ufficiale: è tornato il «regime» con annessi «attentati alla Costituzione » e «derive autoritarie». La sinistra dura e pura, quella che oggi vuole dare lo sfratto a Walter Veltroni per connivenza col nemico, torna agli argomenti di sempre. Mobilita persino (lo ha fatto l’Unità ieri) i «reporter europei» contro il divieto di pubblicare le intercettazioni. È un dettaglio irrilevante, naturalmente, il fatto che nessuno di quei reporter europei (come i pubblici ministeri dei relativi Paesi) abbia mai potuto fare l’uso delle intercettazioni che si è fatto fin qui in Italia. La difesa del circo mediaticogiudiziario viene assimilata alla difesa della libertà di stampa.

Per inciso, chissà come si deve sentire Luciano Violante, nonostante l’autorevolezza di cui ha sempre goduto a sinistra sui temi giudiziari: avendo detto cose assai diverse da quelle che dice la «sinistra anti-regime», rischia di essere trattato da traditore. La battaglia anti-regime ha fatto male alla sinistra in passato. È stata una strada politicamente fallimentare. Se verrà imboccata di nuovo (e ce ne sono i segnali) farà ancora male alla sinistra. E anche alla democrazia italiana. Il paradosso è che la mobilitazione anti-regime non avviene in un Paese che soffre di iper-decisionismo ma del suo esatto contrario, di un’insuperabile debolezza decisionale. Nel 2001 Berlusconi aveva, sulla carta, una fortissima maggioranza ma questo non impedì che la sua azione venisse continuamente bloccata dai veti incrociati. L’illusione ottica si è ripresentata dopo le ultime elezioni.

La vittoria del centrodestra è stata così netta da far pensare che nulla avrebbe potuto impedire a Berlusconi di governare con vero piglio decisionista. Ma non può essere così in un sistema politico come il nostro. L’illusione ottica si sta dissolvendo. Il governo appare già oggi indeciso a tutto. Basti guardare alla girandola di norme che vengono inserite nei decreti (a immediata operatività) e, un istante dopo, ne escono per essere trasferite dentro disegni di legge: in un sistema indecisionista come il nostro, trasferire una norma da un decreto a un disegno di legge significa farla uscire dall’agenda politica. Prima che se ne discuta di nuovo, campa cavallo. A differenza di quanto accade in altre democrazie, in Italia ottenere grandi consensi elettorali e disporre di una grande maggioranza non garantisce la capacità decisionale del governo. Nonostante le differenze fra il governo Berlusconi e il governo Prodi (minor numero di partiti nella coalizione, maggioranza sicura in entrambe le Camere), non è detto che, in termini di capacità decisionale, a Berlusconi vada davvero molto meglio che a Prodi.

Perché restano inalterati i problemi di fondo della nostra democrazia: i debolissimi poteri di cui gode il premier e un numero di poteri di veto, diffusi a tutti i livelli del sistema istituzionale, più elevato di quello di altre democrazie. Basti guardare, ad esempio, alla capacità che hanno certi settori della magistratura campana (il commissario De Gennaro è stato esplicito su ciò) di bloccare o rallentare l’azione governativa nella vicenda dei rifiuti. È strano, o perlomeno prematuro, che si accusi un sistema politico cronicamente malato d’indecisionismo di essere un regime.

17 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Giudici, la svolta che serve ai democratici
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2008, 10:29:34 am
IL RAPPORTO CON I PM

Giudici, la svolta che serve ai democratici


di Angelo Panebianco


L’arresto del presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco e di altri dirigenti politici e amministrativi e l'incriminazione di molte altre persone nell’ambito di una inchiesta su presunte tangenti nella sanità ha scompaginato le file del Partito democratico di quella regione ricordando a tutti che i problemi dei rapporti fra giustizia e politica non riguardano solo Berlusconi. Come sempre accade in questi casi vengono poste pubblicamente domande destinate a restare senza risposta. Una per tutte: a parte l’esigenza di ottenere il massimo impatto mediatico, c’è stata anche qualche altra ragione dietro la decisione (ovviamente molto grave per le sue conseguenze) di procedere all’arresto della massima autorità politico- amministrativa della Regione? Ancorché indubbiamente meno spettacolare, una semplice incriminazione a piede libero non sarebbe ugualmente servita agli scopi dell’inchiesta? Una cosa è certa. Se mai Del Turco, alla fine, dovesse uscire pulito da questo affare giudiziario non ci sarà comunque mai alcuna sede disciplinare nella quale le suddette domande potranno essere poste a quei magistrati.

L’imbarazzo del Partito democratico è evidente. Il silenzio dei suoi vertici sulla vicenda abruzzese, durato per buona parte della giornata di ieri, è stato rotto solo a metà pomeriggio da una dichiarazione di Walter Veltroni che, mentre manifestava stupore e amarezza per l’arresto di Del Turco, riconfermava, un po’ ritualmente, la sua fiducia nella magistratura.

Ma forse, oggi, dal Partito democratico è lecito attendersi anche qualcosa d’altro. Forse anche per il Pd è arrivato il momento, dopo anni di silenzi, acrobazie e furbizie da parte dei partiti predecessori (Ds e Margherita), di smetterla di fare il pesce in barile sulle questioni della giustizia e dei rapporti fra magistratura e politica.

È lecito chiedere al Partito democratico: come pensate di tornare a essere forza di governo se non avete una vostra posizione sulla giustizia, una posizione che non si limiti a essere, come è sempre stato fin qui, una fotocopia di quella dell’Associazione nazionale magistrati?

Almeno da Mani pulite in poi la sinistra ha nel complesso finto (e comunque questo è il racconto che, per lo più, ha «venduto » all’elettorato e ai militanti o ha permesso che venisse venduto dai propri giornali di riferimento) che non ci fossero veri problemi nel rapporto fra giustizia e politica. Ha negato l’esistenza di un potere discrezionale eccessivo dei pubblici ministeri, ha finto di non vedere le continue invasioni di campo. Ha accreditato in sostanza l’idea che i problemi derivassero tutti, e soltanto, dalla natura corrotta del nemico del momento (Craxi, Berlusconi).

In mezzo a tanti convegni inutili, l’unico convegno davvero prezioso che purtroppo manca ancora all’appello è quello in cui il Partito democratico, pubblicamente e solennemente, sceglie la strada della discontinuità, di una svolta decisa nella sua politica della giustizia.

Solo dopo l’incresciosa manifestazione di Piazza Navona, il Pd ha preso le distanze dal partito di Di Pietro. Ma perché quella decisione non si riduca solo a furbizia tattica occorrono ora cambiamenti nelle concezioni e nelle scelte in materia di giustizia.

Non esistono dubbi che, senza una collaborazione fra maggioranza e opposizione una riforma dell'ordinamento della giustizia (separazione delle carriere, responsabilizzazione dei pubblici ministeri, eccetera) che lo renda coerente con lo spirito e i principi di una democrazia liberale e che riequilibri i rapporti (squilibrati ormai da quasi un ventennio) fra magistratura e politica, non potrà mai passare. È lecito dunque attendersi dalla massima forza di opposizione non solo qualche battuta utile per ottenere un titolo sui giornali ma un ripensamento serio delle proprie posizioni.

Luciano Violante, un esponente politico la cui influenza passata sulla politica della giustizia della sinistra sarebbe impossibile sottovalutare, sembra oggi uno dei pochi consapevoli della necessità di cambiamenti. In un intervento ieri sulla Stampa Violante ha criticato in termini che a me paiono ineccepibili la nuova versione della cosiddetta norma blocca-processi decisa dal governo. L'argomento che ha usato dovrebbe fare storcere il naso ai giustizialisti. Ha sostenuto che, se pure la nuova versione è meglio della precedente, produce anch'essa danni, lasciando in questo caso troppa discrezionalità ai magistrati. Violante, mi pare di capire, dichiara il suo favore per un sistema nel quale, come avviene in tanti Paesi occidentali (in passato si è tentato di farlo anche in Italia ma senza grandi risultati), Guardasigilli e Parlamento dettino annualmente alla magistratura le priorità. A me pare, però, che senza una riforma che, tra le altre cose, separi le carriere e tolga di mezzo l'obbligatorietà dell'azione penale, non sarà mai possibile ricondurre nell'alveo delle istituzioni democratico-rappresentative le grandi scelte di politica delle giustizia. Forse proprio Violante, con la sua autorevolezza, potrebbe oggi essere, insieme ad altri (come i radicali, oggi accasati nel Partito democratico, con il loro patrimonio di battaglie e proposte garantiste) uno degli uomini in grado di fare da battistrada a un nuovo corso, aiutare il Partito democratico a cambiare registro.

15 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. SINISTRA, AVVERSARI E GIUDICI
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 10:54:28 am
SINISTRA, AVVERSARI E GIUDICI

La doppia morale


di Angelo Panebianco


Ma perché la cifra stilistica della sinistra italiana deve essere per forza il doppio standard, la doppia morale?
Prendiamo l'ultimo caso in ordine di tempo. Il governo utilizza una norma vigente per dichiarare lo stato d'emergenza di fronte all'afflusso dei clandestini. Dalla sinistra partono bordate: razzismo, xenofobia, autoritarismo, intollerabile clima emergenziale.

Quella norma però è stata in passato utilizzata anche dal governo Prodi.

Come mai all'epoca nessuno fiatò? Come mai nessuno di quelli che oggi strillano accusò quel governo di razzismo e xenofobia? Perché i «sacri principi», quali che essi siano, devono sempre essere piegati alle esigenze politiche del momento? Non è forse un modo per dimostrare che in quei principii, utili solo come armi da brandire contro l'avversario, in realtà, non si crede affatto? La spiegazione più ovvia, più a portata di mano, quella che rinvia l'esistenza della doppia morale, del doppio standard, alle persistenti scorie lasciate in eredità al Paese dalla vecchia tradizione comunista, è insoddisfacente: spiega troppo o troppo poco. Certo, è vero, nella tradizione comunista il doppio standard era la regola. Per i comunisti esisteva un fine superiore, una nobile causa al cui raggiungimento tutto doveva essere subordinato e piegato. Il ricorso continuo alla menzogna, ad esempio, era giustificato dal fine superiore. Così come il doppio standard.

Si pensi alla sorte di certi leader democristiani: Fanfani, Andreotti, Cossiga. Su di essi il Pci riversò a più riprese ogni genere di accuse, spesso anche quella infamante di essere registi di trame paragolpiste. Però, se il vento cambiava , quei registi occulti delle peggiori trame si trasformavano in amici e «compagni di strada»: il giudizio politico-morale su di loro dipendeva dall'utile politico del momento. E la capacità di intimidazione culturale del Pci e delle forze che lo fiancheggiavano era tale da non rendere necessario rispondere a una domanda che, del resto, solo pochi osavano porre: ma come è possibile che oggi strizziate l'occhio a un tale che fino a pochi mesi fa accusavate dei più infami misfatti?

Qualcosa del genere, d'altra parte, accade ancora. Si pensi al caso di Umberto Bossi del quale non si è ancora capito se si tratta di un leader xenofobo e parafascista, praticamente un delinquente, una minaccia per la democrazia, oppure di una costola della sinistra, uno con cui, magari, si può essere disposti a fare un po' di strada «federalista» insieme. O meglio, abbiamo capito benissimo: Bossi continuerà ad essere, alternativamente, l'una o l'altra cosa a seconda di come evolveranno nei prossimi anni i suoi rapporti con Berlusconi. Dicevo che non ce la possiamo cavare tirando in ballo solo la tradizione comunista. Sarebbe sbagliato e anche ingiusto verso molti ex comunisti.

Tra i comunisti c'erano molte persone serie, rigorose, di qualità. Queste persone, quando presero atto che la superiore causa era un vicolo cieco, o un'impostura, cambiarono registro. Misero da parte quella doppia morale che, ormai, ai loro stessi occhi, non aveva più alcuna giustificazione morale e politica. Spesso, questi ex comunisti, rimasti all'interno dello schieramento di sinistra, sono tra le persone migliori in cui ci si può imbattere, quelle con cui anche liberali come chi scrive possono trovare punti di incontro e affinità, con le quali, comunque, non capita mai di provare quel fastidio che si può invece provare quando si incontrano certi esponenti, politici o intellettuali, della sinistra mai-stata-comunista. I quali, spesso, continuano, imperterriti, a usare il doppio standard e la doppia morale.

La sinistra attuale è un amalgama informe che mescola brandelli della vecchia tradizione comunista con tic e cliché culturali di derivazione azionista e del cattolicesimo di sinistra. Queste ultime due componenti sono, forse, ancor più responsabili della prima nell'alimentare oggi quel mito della superiorità antropologico- morale della sinistra che continua a giustificare il ricorso al doppio standard e alla doppia morale. Tutto ciò è bene esemplificato dagli atteggiamenti dominanti a sinistra sulle questioni di giustizia. Il «pieno rispetto» per la magistratura e la regola secondo cui «ci si deve difendere nei processi e non dai processi» sono nobili principi che vengono sempre invocati quando nei guai ci sono gli avversari di destra. Ma se in graticola finiscono esponenti della sinistra (a patto, naturalmente, che non siano «ex socialisti») la musica improvvisamente cambia. Diventa legittimo attaccare i magistrati e persino difendersi «dai processi».

Personalmente, ho forti perplessità sui comportamenti tenuti, nell'esercizio delle loro funzioni, da magistrati come la Forleo e, soprattutto, De Magistris, ma non sono affatto sicuro che ad essi si possano attribuire più scorrettezze di quelle imputabili a certi magistrati che in passato si occuparono di Berlusconi e di altri nemici della sinistra. Si guardi a come opera il doppio standard nelle valutazioni di processi e procedimenti giudiziari a seconda che vi siano coinvolti amici o nemici. Se, poniamo, viene scagionato un imprenditore «amico» si plaude all'impeccabile comportamento dei magistrati e non ci si impegna certo in «analisi» minuziose con lo scopo di fare le bucce ai risultati delle inchieste. Altrimenti, come ha giustamente osservato Pierluigi Battista sul Corriere due giorni fa, lo spartito cambia, il doppio standard impera. Questi signori, sempre impegnati a stilare pagelle e ad assegnare brutti voti a quelli che definiscono «sedicenti» liberali, non hanno mai capito che indice di liberalismo è usare un solo criterio, un solo metro di giudizio, sempre lo stesso, per gli amici e per gli avversari, e che fare un uso così platealmente strumentale dei principi significa non avere alcun principio. Quando qualcuno di loro finalmente lo capirà, avremo, e sarà un bene per il Paese, qualche esponente in meno della genia dei «moralmente superiori» e qualche liberale in più.

27 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il paradosso del federalismo
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2008, 11:35:21 am
UNA RIFORMA POCO DISCUSSA


Il paradosso del federalismo


di Angelo Panebianco


Non conosciamo ancora le sole cose che davvero contino in questa materia, e cioè i dettagli, ma siamo comunque abbastanza sicuri del fatto che stiamo per diventare (qualunque cosa ciò concretamente significhi) uno Stato «federale ». Dopo decenni di sforzi, alcuni coronati da successo e altri meno, di spostamento di poteri e competenze verso la periferia, Regioni e enti locali, sta per arrivare il «federalismo fiscale». Che del federalismo politico, almeno in linea di principio, è l'anima, la struttura portante. Lo reclama la Lega, lo hanno promesso Berlusconi e Tremonti, lo vogliono anche le Regioni e le amministrazioni locali, soprattutto del Nord, guidate dal centrosinistra.

Certo, saremo comunque uno Stato federale un po' strano, uno Stato federale con i prefetti: rimarremo, cioè, una mescolanza di vecchio centralismo napoleonico e di nuovo federalismo. Ma non c'è dubbio che se davvero arriverà il federalismo fiscale (se non sarà solo un bluff) la fisionomia del nostro sistema statale cambierà. Non subito, magari. Ma col tempo cambierà, e di parecchio. Però, c'è un però. Forse eravamo distratti quando la spiegazione è stata data ma non abbiamo ancora capito come la classe politica giustifichi di fronte al Paese una simile rivoluzione istituzionale e costituzionale. Non mi si fraintenda. Magari è un'idea eccellente (al Nord ne sembrano convinti quasi tutti, anche se poi, scavando un po', si scopre che ciascuno ha in mente un federalismo diverso da quello del suo vicino) ma bisognerà pur spiegarla al Paese, possibilmente andando al di là degli slogan e della propaganda di derivazione prevalentemente leghista. Per esempio: quale sarà l'utilità del federalismo fiscale, se c'è, per il Mezzogiorno?

Mentre si prepara una rivoluzione istituzionale, almeno potenzialmente, di immensa portata, come il federalismo fiscale, il Sud è silente. Sembra che la sola preoccupazione della classe politica meridionale sia quella di assicurarsi «compensazioni» adeguate (la quota del gettito fiscale che le Regioni più ricche dovranno comunque trasferire, tramite lo Stato centrale, alle Regioni più povere). Tutto qui? Il Sud non ha altro da dire? Solo garantirsi di essere sussidiato per l'eternità? In epoche intellettualmente più felici per il Mezzogiorno è esistito un pensiero meridionalista di grande qualità e spessore che ha guardato anche al federalismo come a un possibile motore di sviluppo, a unmezzo di emancipazione economica e sociale. Di quell'epoca e di quel pensiero non è rimasto nulla? Oggi non sembra arrivare alcun contributo di idee e di proposte alla «impresa federalista» dal Mezzogiorno d'Italia. Il federalismo parla solo, o prevalentemente, con accenti e inflessioni del Nord. Forse è anche per questo che la classe politica ha qualche difficoltà a presentarlo come un grande progetto per il Paese nel suo insieme.

L'assenza di spiegazioni articolate alimenta voci e chiacchiere. Come quella secondo cui solo con il federalismo fiscale si potranno ridurre le tasse. Questa, se permettete, è una bugia. Il livello di imposizione fiscale può benissimo scendere anche in uno Stato centralista. Anzi, col centralismo, di solito, è più facile decidere di ridurre la pressione fiscale. Il federalismo, per contro, può anche far lievitare, anziché contrarre, la spesa pubblica (rendendo così impossibile la riduzione delle imposte): perché, ad esempio, crescono i «costi di transazione», ossia i costi che dipendono dall'accrescimento dei livelli istituzionali e dalle aumentate negoziazioni fra Stato centrale, Regioni, enti locali. Ma, si dice, col federalismo fiscale, gli amministratori locali dovranno giustificare davanti ai loro elettori ogni tassa e la sua entità. E qui sorge un interrogativo che l'assenza di una discussione pubblica sul federalismo fiscale non aiuta a chiarire. Davvero le classi politiche locali, anche quelle del Nord (anche quelle leghiste), sono pronte a un simile salto nel buio?

Ha osservato giustamente Guido Tabellini (Il Sole 24 Ore, 31 luglio) che il federalismo fiscale può innescare comportamenti fiscali virtuosi solo a patto che si stabilisca un legame diretto fra spesa e prelievo: il politico locale sa che se non contiene le spese e le imposte pagherà un prezzo politico. Ciò è possibile solo se, trasferimenti perequativi dalle Regioni ricche a quelle povere a parte, i governi locali avranno ampi margini nelle scelte delle aliquote e le basi imponibili locali saranno ben visibili ai cittadini. Solo in quel caso l'aumento delle tasse, o la loro mancata riduzione, non verrà imputato dai cittadini allo Stato centrale ma agli amministratori regionali e locali. Veniamo da anni in cui le spese locali sono cresciute a dismisura perché ciò era nell'interesse di Comuni e Regioni (al Nord come al Sud): tanto, le tasse si pagavano prevalentemente al centro (allo Stato centrale) ed era solo sul centro che si scaricava quindi il malcontento.

Come la metterebbero Regioni e Comuni se, con un «vero» federalismo fiscale, la musica dovesse davvero cambiare? Non ne uscirebbero destabilizzate quasi tutte le amministrazioni regionali e locali attuali? Per esempio, è curioso il fatto che i leghisti vogliano più di tutti il federalismo fiscale e allo stesso tempo si oppongano (più o meno come si opponeva Rifondazione comunista nel passato governo Prodi) alla liberalizzazione dei servizi locali. Ma il federalismo (fiscale e non) non è per l'appunto voluto soprattutto al fine di favorire concorrenza, riduzione dei monopoli pubblici, comportamenti locali virtuosi? Urgono ragguagli sul perché stiamo per diventare uno Stato federale.

03 agosto 2008

da corriere.it



Titolo: Angelo PANEBIANCO. I profeti disarmati e la prepotenza di Putin
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2008, 04:28:00 pm
L’EUROPA DAVANTI ALLA CRISI GEORGIANA


I profeti disarmati e la prepotenza di Putin


di Angelo Panebianco


Machiavelli, le cui idee, dopo cinquecento anni, continuano a scandalizzare tanti, diceva che i profeti disarmati sono sempre destinati alla rovina. In Europa occidentale coltiviamo da tempo (con un’ossessione particolare dopo la fine della guerra fredda) l’idea che il Diritto e la Morale possano sostituire nel mondo la Forza e che l’Europa stessa, la sedicente «Europa civile», abbia una speciale missione da svolgere per attuare questo stupefacente disegno. Si tratta di una tragica illusione. Il diritto e la morale possono, nelle faccende internazionali, legittimare la forza (possono dare «più forza» alla forza) ma non possono sostituirla. Con la sola eccezione del Papa, gli altri, se vogliono contare e decidere del proprio destino, devono disporre anche di un bel po’ di «divisioni». Molti commentatori europei sostengono che, con la cosiddetta «mediazione », fra russi e georgiani, del presidente francese Sarkozy, l’Europa (l’Unione Europea) è tornata a contare nel mondo.

Ma se consideriamo freddamente i fatti dobbiamo ammettere che, al contrario, l’Europa esce malissimo da questa crisi. Ha solo mostrato una volta di più che essa non è neppure embrionalmente e, continuando così, non diventerà mai, un’entità politica. Per tre collegate ragioni. La prima è di immagine (ma nella politica internazionale l’immagine, e quindi il prestigio, contano tanto) e le altre due di sostanza. Con i militari russi che tuttora occupano spavaldamente ampie porzioni di territorio georgiano anche fuori dell’Ossezia e dell’Abkhazia, la cosiddetta mediazione europea è stata irrisa e sbeffeggiata. I russi, dedicandosi a ciò che essi chiamano «misure aggiuntive di sicurezza» (la distruzione, tuttora in atto, delle strutture militari georgiane) e procrastinando il più possibile il ritiro delle truppe, stanno chiarendo che, nei loro intendimenti, la Georgia (rea, tra l’altro, di fare transitare verso l’Europa energia non direttamente controllata dai russi) dovrà avere un futuro di «sovranità limitata ». L’Europa, con la sua cosiddetta mediazione, è oggi, agli occhi di tutto il mondo ex comunista (sia le vecchie colonie «interne » dell’Urss che i suoi vecchi satelliti) nient’altro che la complice, più o meno riluttante, di questo disegno russo. Un pessimo risultato di «immagine» davvero. La seconda ragione è di sostanza. In questa crisi l’Europa (occidentale) ha preso di fatto le distanze dagli Stati Uniti, li ha lasciati soli a condannare «senza se e senza ma» la Russia e a sostenere l’integrità della Georgia.

Con il doppio effetto di indebolire diplomaticamente gli Stati Uniti e di dare al risorto imperialismo russo la possibilità di sfruttare le divisioni occidentali al fine della ricostituzione della propria area di influenza. La prossima volta potrebbe toccare all’Ucraina. Noi europei faremo allora un’altra brillante mediazione? Davvero il mondo ex sovietico è oggi più sicuro di quanto sarebbe stato se l’Europa avesse fatto fronte unico con gli Stati Uniti nel contrapporsi politicamente alla Russia in questa crisi? La Polonia (che, oltre che della Nato, fa parte dell’Unione europea) è appena stata minacciata di possibile attacco nucleare visto che ospiterà lo scudo antimissilistico statunitense. La cosa, forse, ci riguarda. La terza ragione della pessima prova offerta dall’Unione in questa crisi (o meglio, dai suoi Paesi leader) riguarda lei stessa, i suoi rapporti interni. L’Europa occidentale ha dimostrato una sordità sconcertante di fronte alle paure dei Paesi ex comunisti, ivi compresi quelli che fanno oggi parte dell’Unione. Che i polacchi e i baltici fossero, insieme agli ucraini, a Tbilisi a sostenere il presidente georgiano Saakashvili, non è frutto di capricci o di una infantile volontà di disobbedire ai «grandi» dell’Unione.

Non si capisce perché abbiamo fatto l’allargamento europeo se non siamo disposti a farci carico delle paure degli ex satelliti di Mosca, quei Paesi che hanno sperimentato sulla propria pelle, per tantissimo tempo, i rigori del potere russo. In questa crisi, abbiamo purtroppo chiarito, non solo alla Georgia, all’Ucraina e agli altri Paesi ex sovietici, ma addirittura agli ex satelliti, quelli che sono già nell’Unione europea e quelli che sono in procinto di entrarci, che essi potranno sperare solo negli americani perché a noi, delle loro paure e della loro sicurezza, importa poco. Su queste basi non è possibile che l’Unione europea, l’Europa a ventisette, l’Europa dell’allargamento, possa immaginare di avere un qualsivoglia futuro politico. Ma, si dice, non possiamo isolare la Russia. Certo che non possiamo isolarla. Ci serve il suo gas, ci serve il suo appoggio nella crisi iraniana, ci serve che essa svolga un ruolo internazionale di cooperazione. Ma non possiamo permettere che essa usi il bastone e la carota con noi senza fare la stessa cosa nei suoi confronti.

Non possiamo dimenticare che la Russia è un regime semi-autoritario che usa da tempo politicamente, nella sua politica estera, le risorse del suo capitalismo di Stato e oggi, di nuovo, anche le sue risorse militari. Non possiamo dimenticare che la sua involuzione autoritaria (alimentata dalle «utili guerricciole » su cui ha scritto acutamente Sandro Viola qualche giorno fa) è la prima causa del suo risorgente imperialismo e che non si possono intrattenere con una democrazia autoritaria le stesse relazioni di fiducia reciproca che esistono fra democrazie liberali. E’ dall’involuzione interna della Russia che, prima di tutto, nasce (rinasce) la sua minaccia verso l’esterno (lo ha ricordato Filippo Andreatta sul Corriere di ieri). Dobbiamo tener conto delle «ragioni» della Russia ma non al punto di andare contro i nostri interessi vitali (per esempio, l’interesse a forniture di idrocarburi dal Caucaso non interamente monopolizzate dai russi o l’interesse a farci carico dei problemi di sicurezza di tutti i membri dell’Unione, presenti e futuri). Né possiamo dimostrare disinteresse, o peggio, per l’aspirazione alla libertà dei cittadini delle ex colonie russe. I russi sperano che l’Europa proceda sul cammino iniziato, che essa, prima o poi, porti a compimento il decoupling, lo sganciamento dagli Stati Uniti. Ai prepotenti piace avere a che fare con i profeti disarmati.

18 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il silenzio sui cristiani
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2008, 12:25:05 am
PERSECUZIONI ANTICATTOLICHE

Il silenzio sui cristiani


di Angelo Panebianco


Con l’eccezione della stampa cattolica, i mezzi di comunicazione non hanno dato risalto al fatto che ieri la Conferenza episcopale ha indetto una giornata di solidarietà con i cristiani perseguitati dai fondamentalisti indù (e una fiaccolata con l’appoggio di «Liberal» è prevista per mercoledì prossimo). Come se fosse una faccenda interna della Chiesa. Le notizie sulle uccisioni di cristiani che si verificano da alcune settimane nello Stato indiano di Orissa vengono naturalmente pubblicate (ieri sono state aggredite quattro suore dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta). Così come vengono (di solito) pubblicate le notizie sui periodici massacri di cristiani in certi Paesi islamici.

Ma quando queste cose accadono ci si limita a registrare i fatti, per lo più senza commenti. Eccezionalmente, fece scalpore, nel 2006, l’uccisione di un sacerdote italiano in Turchia ma la causa è da attribuire, oltre che alla nazionalità del sacerdote, al fatto che la Turchia ha chiesto di entrare nell’Unione Europea. Sembra che per noi, e per l’Europa, il fatto che in tante parti del mondo persone di fede cristiana vengano perseguitate e, con frequenza, uccise, non sia un problema sul quale occorra sensibilizzare l’opinione pubblica. Eppure i fatti sono chiari. In un’epoca di risveglio religioso generalizzato sono ricominciate in molti luoghi le guerre di religione ma con una particolarità: in queste guerre i cristiani sono solo vittime, mai carnefici.

Da dove deriva tanto disinteresse per la loro sorte? Sono all’opera diverse cause. La prima è data da quell’atteggiamento farisaico secondo il quale non conviene parlare troppo delle persecuzioni dei cristiani se non si vuole alimentare lo «scontro di civiltà ». Come se ignorare il fatto che nel mondo vari gruppi di fanatici usino la loro religione (musulmana, indù o altro) per ammazzarsi a vicenda e per ammazzare cristiani ci convenisse. D’altra parte, basta rammentare le reazioni europee al discorso di Ratisbona di Benedetto XVI. Venne biasimato il Papa, non i fanatici che usarono quel discorso per tentare di incendiare il mondo islamico. C’è anche una seconda causa. Sotto sotto, c’è l’idea che se uno è cristiano in Pakistan, in Iraq, in India o in Nigeria, e gli succede qualcosa, in fondo se l’è cercata. La tesi dei fondamentalisti islamici o indù secondo cui il cristianesimo altro non è se non uno strumento ideologico al servizio della volontà di dominio occidentale sui mondi extra occidentali sembra condivisa, qui da noi, da un bel po’ di persone.

Persone che credono che l’Europa debba ancora fare la penitenza per le colpe (alcune reali e altre no) accumulate nei suoi secolari rapporti col mondo extra occidentale. Ne derivano il silenzio sulla libertà religiosa negata ai cristiani, soprattutto nel mondo islamico, e il disinteresse per le persecuzioni che in tanti luoghi, islamici e no, subiscono. Ne deriva anche una sorta di illusione ottica che a molti fa temere di più i segnali di risveglio cristiano (del tutto pacifico) in Italia che tante manifestazioni di barbarie religiosa altrove. Nel frattempo, le religioni «altre», con l’immigrazione, acquistano qui da noi un peso crescente. È difficile che si riesca a fare «patti chiari» con gli adepti di quelle religioni. Almeno finché non avremo capito che il mondo è cambiato e che le nostre reazioni, per lo più automatiche, irriflesse, a quei cambiamenti, sono datate e inadeguate.

07 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. LA CRISI DEL ’29 ED OGGI
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2008, 03:58:34 pm
LA CRISI DEL ’29 ED OGGI


Le facili profezie


di Angelo Panebianco.


Spiegare l’ignoto attraverso il già noto, cercare di orientarsi di fronte agli eventi inattesi rifacendoci ai precedenti, alle nostre personali esperienze passate o alle esperienze di altri di cui siamo venuti a conoscenza, sono attività in cui tutti siamo continuamente impegnati, spesso anche inconsapevolmente. Si spiega anche così il fascino irresistibile che esercitano sempre le analogie storiche. L’analogia storica ha la rassicurante caratteristica di darci una spiegazione facile, di immediato consumo, di eventi che, in assenza del ricorso all’analogia, resterebbero incomprensibili, e dunque, proprio perché incomprensibili, ancora più spaventosi di quanto già non siano.

Gli sconvolgimenti del mercato finanziario americano, il protrarsi e l’aggravarsi di una crisi della quale non si vede la fine, l’alternarsi di salvataggi (le agenzie finanziarie Fannie Mae e Freddie Mac e a quanto pare anche il colosso assicurativo Aig) e di clamorosi fallimenti (la grande banca d’affari Lehman Brothers), con tutte le conseguenze a catena che ne derivano, ha reso irresistibile per i mass media il riferimento al ’29 e alla Grande Depressione degli anni Trenta. Una crisi cominciata con il crollo di Wall Street e propagatasi a tutto il mondo con effetti economici catastrofici e immani sconvolgimenti politici. Quella crisi portò in America alla reazione del New Deal di Franklin Delano Roosevelt ma diede anche il colpo di grazia alla Repubblica di Weimar spianando la strada del potere a Hitler. E fece vacillare, e anche crollare, molti altri regimi politici. Non solo a quella crisi, ma anche a quella crisi, va fatta risalire la catena di eventi che finì per far precipitare il mondo nella Seconda guerra mondiale. Nonostante il fascino dell’analogia, il ’29 c’entra poco con ciò che sta accadendo. Lo ha spiegato benissimo Alberto Alesina (Il Sole 24 Ore di ieri). La Grande Depressione fu l’effetto di politiche radicalmente sbagliate adottate dalla presidenza Hoover e dalla Banca Federale (restrizione della liquidità, misure protezioniste, comportamenti punitivi nei confronti degli «speculatori »). Un insieme di risposte sbagliate che portarono al disastro sia l’America che il resto del mondo.

Ci sono quindi due ottime ragioni per respingere l’analogia con il ’29. La prima è che la storia ci insegna più cose quando ce ne serviamo per evidenziare le differenze (fra ieri e oggi) e non soltanto le somiglianze. La seconda, di sostanza, è che gli ammaestramenti del passato pesano sull’oggi. La vera utilità del richiamo al ’29 e alla Grande Depressione è sempre consistita nel suo ruolo di spauracchio. Quel richiamo funziona come una profezia che si autofalsifica. Mette in moto comportamenti che ne assicurano la non evenienza. Come, ad esempio, mostrarono le reazioni efficaci alla gravissima crisi asiatica del 1997.

Naturalmente, come tutti gli esperti ci dicono, la crisi continuerà a dispiegarsi per un certo tempo, mieterà ancora molte vittime e richiederà, come auspica il governatore di Bankitalia Mario Draghi, un’azione internazionale concertata di ridisegno di molte regole. Ma prima o poi finirà lasciandoci in eredità, sperabilmente, mercati finanziari in tutto o in parte risanati.

Ciò che non è affatto chiaro è quali saranno le ricadute politiche della crisi. I «declinisti», i sostenitori della tesi secondo cui gli Stati Uniti sono una potenza ormai in declino, ne trarranno probabilmente la conclusione che questa crisi finirà per accelerare le dislocazioni di potenza già in atto nel sistema internazionale. Più la crisi finanziaria americana dura, maggiore è lo spazio di manovra politico a disposizione delle potenze emergenti. Alla fine, un’America ridimensionata dovrà cedere lo scettro di superpotenza e acconciarsi al ruolo di grande potenza in mezzo ad altre grandi potenze (Cina, Russia, India, e forse altre ancora). In un’altra, e opposta, interpretazione, la «distruzione creatrice» che è tipica (secondo l’economista Joseph Schumpeter) del procedere del capitalismo, eliminando ciò che non è più vitale, e risanando il sistema finanziario, finirà per dare rinnovato vigore alla potenza americana. A seconda di quale delle due interpretazioni risulterà corretta, la storia politica mondiale dei prossimi decenni prenderà una direzione o l’altra.

18 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il riformismo bocciato
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2008, 12:16:32 pm
Editoriali

DEMOCRATICI E CASO SCUOLA


Il riformismo bocciato


di Angelo Panebianco


Walter Veltroni, nell'eccellente discorso del Lingotto (27 giugno 2007) con cui ufficializzò la sua candidatura a leader del Partito democratico, e nei discorsi dei mesi successivi, mise a punto la carta di identità di una moderna sinistra riformista proponendola al neonato partito. Veltroni batteva allora con vigore su un tasto: il Partito democratico avrebbe sviluppato una reale capacità di intercettare le aspirazioni degli elettori e dei ceti sociali più dinamici e orientati alla modernizzazione del Paese, solo se avesse abbandonato, su un ampio arco di problemi, le posizioni conservatrici che avevano in passato caratterizzato la sinistra. La visione articolata da Veltroni appariva allora forte ed efficace ma restavano sospesi due interrogativi. Sarebbe egli riuscito a imporre un così radicale cambiamento di prospettiva a tanti militanti fino ad allora di diverso orientamento? Sarebbe riuscito, soprattutto, a ottenere un riposizionamento e un rinnovamento, culturale e di proposte, di quel sindacato (la Cgil in primo luogo) il cui appoggio è necessario a un partito di sinistra riformista? Non solo quel riposizionamento del sindacato non c'è stato ma è lo stesso Partito democratico a reagire oggi alle difficoltà suscitate dalla sconfitta ritornando sui propri passi, abbandonando la strada del rinnovamento, ridando spazio a quelle posizioni conservatrici che il Veltroni del Lingotto sembrava determinato a combattere.

Il miglior test per sondare lo «spessore riformista » di un partito italiano consiste nel valutare le posizioni che esso assume sulla scuola. La scuola pubblica è come l'Alitalia: rovinata da decenni di management interessato a garantirsi clientele e da un sindacalismo cui si è consentito di cogestirla con gli scadenti risultati (in tema di preparazione dei ragazzi) che i confronti internazionali ci assegnano. Solo che nel caso della scuola pubblica non ci sono cordate di imprenditori o compagnie straniere cui affidarla. Proprio nel caso della scuola il Partito democratico sta fallendo il test sullo spessore riformista. Perché ha scelto ancora una volta (come faceva il Pci/Pds/Ds) di accodarsi acriticamente alle posizioni della Cgil, di un sindacato che, in concorso con altri, porta pesanti responsabilità per lo stato disastrato in cui versa la scuola, un sindacato interessato solo alla difesa dello status quo (come è successo, del resto, nel caso di Alitalia fin quando ha potuto). Prendiamo la questione del ritorno al maestro unico deciso dal ministro Gelmini. Sembra diventato, per la sinistra, sindacale e non, il simbolo del «vento controriformista» che soffierebbe oggi sulla scuola. Al punto che, come è accaduto a Bologna, si arriva persino a far sfilare i bambini contro il ministro (nel solco di una tradizione italiana, antica e spiacevole, di uso dei bimbi per fini politici). Si fa finta di dimenticare che la riforma della scuola elementare del 1990, quella che abolì il maestro unico, fu un classico prodotto del consociativismo politico-sindacale che caratterizzava tanti aspetti della vita repubblicana. Nel caso della scuola funzionava allora un'alleanza di fatto fra Dc, Pci e sindacati. L'abolizione del maestro unico fu dettata esclusivamente da ragioni sindacali.

E' antipatico citarsi ma alla vigilia dell'approvazione della legge scrissi su questo giornale: «Nonostante le nobili e altisonanti parole con cui l'operazione viene giustificata la ratio è una soltanto: bloccare qualsiasi ipotesi di ridimensionamento del personale scolastico come conseguenza del calo demografico e anzi porre le premesse per nuove, massicce, assunzioni di maestri. Non a caso sono proprio i sindacati i più entusiasti sostenitori della riforma (…) Questa classe politica ha sempre trattato così la scuola, incurante delle esigenze didattiche ma attentissima a quelle sindacali» (Corriere della Sera, 22 novembre 1989). Veltroni e il Partito democratico dovrebbero spiegarsi: è quella cosa lì che, ancora una volta, vogliono difendere? Per il futuro vedremo ma la verità è che, fino a questo momento, il ministro Gelmini ha fatto pochi errori. I provvedimenti fino ad ora adottati sono di buon senso e per lo più tesi ad arrestare il degrado della scuola. Ma, anziché riconoscerlo e dare il proprio contributo di idee e di proposte (come dovrebbe fare un vero partito riformista, ancorché all'opposizione), il Partito democratico preferisce ripercorrere l'antica strada: quella della «mobilitazione», della sponsorizzazione dei sindacati, anche quando questi difendono posizioni indifendibili.

Non è casuale che proprio sulla scuola la Cgil si appresti a fare lo «sciopero generale ». Difende un potere di cogestione che viene da lontano e che ha contribuito a danneggiare assai la scuola (dove la quasi totalità delle risorse se ne va in stipendi a insegnanti troppo numerosi, mal pagati e mal selezionati). Un potere di cogestione che fino ad oggi ha sempre potuto contare sulla complicità di governi e opposizioni. Non è plausibile che nel Partito democratico siano tutti felici di queste scelte (che danno un brutto colpo alla credibilità del Pd come partito riformista). E infatti non è così. Ricordo un intervento critico di Claudia Mancina ( Il Riformista) sulle attuali posizioni del Pd sulla scuola. O le parole per nulla critiche nei confronti della Gelmini pronunciate (a proposito della polemica sull' impreparazione di certi insegnanti meridionali) da uno che di scuola se ne intende: l'ex ministro dell'Istruzione Luigi Berlinguer. Sarebbe bene che anche molti altri, dentro il Partito democratico, venissero allo scoperto. Ha senso continuare a trattare la scuola pubblica come un «dominio riservato» del sindacalismo?

28 settembre 2008


da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il nuovo mondo multipolare
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 11:56:34 am
LA FINE DEL SECOLO AMERICANO

Il nuovo mondo multipolare


di Angelo Panebianco


Oggi, in tutto il mondo, come è giusto, le preoccupazioni si concentrano sulle conseguenze immediate della crisi finanziaria, sui risparmi, sulle imprese, sul tenore di vita delle persone. Ma la crisi avrà anche potenti riflessi politici, forse cambierà il volto della politica mondiale.
Essendo troppi i fattori in gioco, è sempre impossibile prevedere il futuro ma è per lo meno plausibile immaginare che uno degli effetti della crisi sia quello di accelerare una tendenza già in atto: alla ridistribuzione del potere internazionale, al definitivo passaggio dall'unipolarismo (un mondo dominato da una sola superpotenza) al multipolarismo (un mondo spartito tra alcune grandi potenze).

Il ridimensionamento degli Stati Uniti, e la conseguente nascita di un mondo multipolare, dovrebbero essere, in questa ipotesi, gli esiti di una doppia crisi. Innanzitutto, una crisi di risorse: gli Stati Uniti, plausibilmente, avranno difficoltà crescenti a reperire le risorse finanziarie necessarie per continuare a svolgere il ruolo di superpotenza globale (per ragioni che ha spiegato, tra gli altri, sul
Corriere di martedì, Fareed Zakaria). In secondo luogo, una crisi di modello culturale, con la drastica perdita di appeal in giro per il mondo della «società aperta» (o libera) così come è stata fin qui incarnata dagli Stati Uniti.

Chiunque sia il prossimo Presidente degli Stati Uniti, la sua «agenda» sembra già predisposta: oltre ad agire per il superamento della crisi, egli dovrà anche gestire il ripiegamento americano. Da buon patriota, lo farà tentando di rallentare il processo e di diluirne nel tempo le conseguenze. La speranza di un mondo multipolare, senza più gli «arroganti» americani a farla da padroni, accomuna da tempo molti europei e la gran parte del mondo extraoccidentale. Quella speranza sta probabilmente per diventare realtà.
Quando la crisi finirà non sarà crollato il capitalismo ma sarà forse al tramonto il «secolo americano ». Gli Stati Uniti resteranno ancora per un certo tempo la più forte potenza militare ma il «gioco » sarà ormai multipolare e il divario con le altre grandi potenze tenderà a ridursi.

Ma un mondo siffatto sarà anche più «pacifico» e più «libero»? Penso di no, penso che sarà un mondo più pericoloso ancora di quello che abbiamo conosciuto e nel quale, inoltre, le prospettive della libertà (per milioni di persone) si faranno ancor più precarie di oggi.

La pace correrà rischi maggiori. L'esperienza storica suggerisce che un sistema multipolare sia più pericoloso tanto del sistema bipolare (1945-1989, l'età della guerra fredda) quanto di quello unipolare (dal 1989 ad oggi, l'età della superpotenza solitaria) che si sono succeduti dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Nel sistema bipolare le due superpotenze si controllavano a vicenda. Diedero così vita a uno stabile equilibrio (del terrore). La principale ragione della stabilità era che non esisteva una terza potenza così forte da poter alterare l'equilibrio alleandosi con l'una o l'altra delle due superpotenze.

Nel sistema unipolare, a sua volta, la stabilità dipendeva da uno squilibrio di potenza così accentuato da rendere impossibile per qualunque Stato sfidare militarmente gli Stati Uniti (la sfida all'America venne infatti dal terrorismo, da un gruppo transnazionale, non da un grande Stato). Invece, nei sistemi multipolari, con quattro o cinque grandi potenze, la guerra fra di esse è resa più probabile a causa di quei repentini cambiamenti di alleanze (tipici dei sistemi multipolari) che alterano l'equilibrio delle forze mettendo di volta in volta l'una o l'altra grande potenza sotto scacco.

Non è che nel multipolarismo prossimo venturo dovrà per forza scoppiare una guerra fra grandi potenze (grazie al Cielo non ne abbiamo più avuta una dalla Seconda guerra mondiale e speriamo di continuare così). È solo che le probabilità di tale guerra sono maggiori proprio in quel tipo di sistema internazionale. Si aggiunga il rischio protezionismo. Se, come è certo, usciremo dalla crisi attuale con più intervento statale nell'economia, ovunque nel mondo, non sarà poi tanto facile tenere a freno le spinte protezioniste (che l'intervento statale favorisce). Forse quelle spinte verranno contenute e forse no. Se non lo saranno, cresceranno i pericoli: il protezionismo, di solito, favorisce le guerre. Va notato inoltre che se il potere si distribuisce tra grandi potenze con regimi politici diversi è più difficile realizzare accordi di governance
(tipo Bretton Woods) di quanto non lo sia se a distribuire le carte sono solo potenze democratiche.

Al guaio di una pace più precaria va aggiunto quello di una libertà in ritirata. I cosiddetti «liberisti» si affannano a spiegare che la crisi finanziaria non è solo figlia del «fallimento del mercato» ma anche di un «fallimento dello Stato» (le leggi varate dall'Amministrazione Clinton). Ma non c'è niente da fare, il patatrac è senza rimedio. Ovunque nel mondo si levano attacchi contro il «liberismo selvaggio» (che è poi liberalismo tout court, come Piero Ostellino, su questo giornale, insiste giustamente a ricordare). Si assisterà ovunque a una perdita di credibilità del «sistema liberale» (capitalismo privato più democrazia liberale) e a una crescita di attrattiva dei sistemi autoritari e semi-autoritari (Cina, Russia). In fondo, non si sta dimostrando che capitalismo e crescita economica possono fare a meno della democrazia liberale? E non è forse questo un messaggio attraente per tanti tiranni in tanti luoghi? Dal '45 ad oggi (con un'accelerazione dopo la guerra fredda) abbiamo assistito a una impetuosa diffusione della democrazia nel mondo. Negare che ciò abbia avuto a che fare con il ruolo degli Stati Uniti significa negare l'evidenza. Con un'America in ripiegamento anche l'area di diffusione della democrazia potrebbe ridursi.

E l'Europa? Forse la gravità della crisi finanziaria la spingerà a fare un salto verso l'unità politica (e militare). Ma è improbabile. Nel mondo multipolare l'Europa sarà, più plausibilmente, un vaso di coccio, pronta a venire a patti con chiunque, forse anche a scoprire le virtù (nascoste) delle potenze illiberali. Come certi giornali inglesi ai tempi di Monaco per i quali Hitler non aveva avuto torto a prendersi i Sudeti e, in fondo, non era poi quel diavolo che si diceva che fosse.

10 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Dopo la crisi l'Atlantico è più largo
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2008, 12:41:36 pm
EUROPA E USA

Dopo la crisi l'Atlantico è più largo


di Angelo Panebianco


Come è stato spesso osservato, ogni volta che si diffonde l'idea che l'America sia entrata in una fase di declino, essa reagisce e, al suo interno, si mettono in moto processi che le danno nuovo slancio, una nuova giovinezza. Le profezie sul declino americano (come quella dello storico Paul Kennedy negli anni Ottanta) erano insomma, fino a oggi, «profezie che si auto-falsificavano ».

Magari andrà così anche questa volta. C'è però una differenza rispetto agli anni Ottanta. Allora, l'America aveva di fronte solo un rivale in declino (l'Urss) e le ricette reaganiane bastarono a rivitalizzarla, rivitalizzando l'intero Occidente. Oggi, la crescita delle potenze asiatiche sembra un fatto irreversibile. La crisi finanziaria potrebbe allora accelerare (come ho scritto sul Corriere il 10 ottobre) la tendenza, già in atto, alla ridistribuzione del potere, il definitivo passaggio da un sistema internazionale unipolare (una sola superpotenza) a un sistema multipolare (quattro o cinque grandi potenze). Non mi pare che la possibile emergenza di un sistema multipolare sia in contraddizione con la constatazione che l'America resterà comunque a lungo la più forte potenza militare né con il fatto che solo l'America ha tuttora le risorse per far ripartire un nuovo ciclo economico espansivo. Sarebbe un multipolarismo asimmetrico (come ha scritto Vittorio Emanuele Parsi), un sistema internazionale comunque diverso da quello che abbiamo conosciuto. Con regole diverse. La mia ipotesi è che un mondo del genere sarebbe più pericoloso (con più rischi di guerra) e più ostile alle libertà.

È stato il predominio indiscusso dell'America a favorire la diffusione della democrazia nel mondo (ci sono oggi molte più democrazie che in passato). Con un ridimensionamento, sia pure relativo, dell'America, quel processo perderebbe la spinta propulsiva. Che fine farebbe l'Europa in un sistema multipolare? Il multipolarismo è un sogno coltivato da molti europei desiderosi di sbarazzarsi degli arroganti americani. Al tempo dell'invasione del-l'Iraq, il francese Chirac e il tedesco Schroeder accarezzarono l'idea di dare vita, insieme alla Russia di Putin, a una coalizione capace di «bilanciare» gli Stati Uniti, come si fa, appunto, nei sistemi multipolari. All'epoca sembrava un soggetto da film di fantastoria. Ma domani? Per cavarsela in un mondo multipolare l'Europa avrebbe solo due possibi-lità: diventare in fretta un «Superstato» (gli Stati Uniti d'Europa) capace di trattare alla pari con le altre potenze o, in alternativa, mantenersi legata agli americani. Sul Corriere di ieri Mario Monti ha giustamente ricordato quale straordinario successo sia stato il raggiunto accordo fra i governi europei sulle misure per fronteggiare la crisi finanziaria. Un successo dei governi, come Monti ha sottolineato.

Penso si possa dire che abbiamo visto in azione una sorta di incarnazione della «Europa delle patrie» prefigurata a suo tempo dal generale de Gaulle. Proprio come de Gaulle sognava, il presidente Sarkozy sta oggi energicamente coordinando un'Europa dei governi impegnati a fronteggiare l'emergenza. La Commissione (che, insieme alla Corte di giustizia e alla Banca europea, rappresenta la dimensione sovranazionale dell'Unione) è invece emarginata. In una situazione da «stato d'eccezione», le decisioni spettano al potere vero, quello dei governi. Quali ne sono le implicazioni per un mondo multipolare? Raramente, in Italia almeno, il dibattito pubblico sull'Europa tiene conto dei risultati dei più seri «studi europei » (un filone sviluppatissimo nelle accademie e nei centri di ricerca occidentali). Esistono oggi molti bravi studiosi delle istituzioni europee. Sapete quanti di loro reputano possibile una prossima trasformazione dell'Unione in una Federazione, negli Stati Uniti d'Europa? Nemmeno uno. Gli studiosi possono sbagliarsi, per carità, ma la cosa più probabile è che l'Europa resti in futuro ciò che oggi è: un bizzarro amalgama di sovranazionalità (solo in certe materie) e di compromessi intergovernativi. Niente Stati Uniti d'Europa. Un'Europa che può scegliere la strada del massimo coordinamento nelle fasi di emergenza ma che è anche pronta a dividersi di nuovo (per esempio, sulla sicurezza) quando l'emergenza finisce.

Come farebbe un'Europa simile a fronteggiare il mondo multipolare, plausibilmente dominato dalla competizione fra grandi imperi? Sarebbe un vaso di coccio. Per difendere indipendenza e libertà, dovrebbe restare legata agli Stati Uniti e alla loro «egemonia liberale ». Se il «blocco transatlantico» resistesse, esso resterebbe comunque, anche con un'America in ripiegamento, la più importante concentrazione di potere politico, economico e militare. Ma resisterebbe quel blocco alle prevedibili tensioni? Se Barack Obama diventerà presidente ci sarà forse una nuova luna di miele fra Stati Uniti e Europa. Finita la luna di miele, l'insofferenza europea per gli americani e la voglia di prenderne le distanze (come si è visto ad agosto, in occasione della guerra russo-georgiana) torneranno a farsi sentire. Tanto più che dalla crisi finanziaria America e Europa usciranno in modi diversi. Lo ha scritto benissimo Salvatore Carrubba ( Il Sole 24 ore, 18 ottobre). Solo apparentemente America e Europa stanno reagendo allo stesso modo (con massicce iniezioni di statalismo) alla crisi in atto. Per l'America, infatti, si tratta di misure temporanee, prese obtorto collo (incoerenti con la sua radicata cultura individualista, liberale e libertaria). Per l'Europa (continentale), che nei decenni passati aveva subìto più che abbracciato con convinzione il liberalismo economico, si tratta invece di tornare, con le solite ricette socialdemocratiche (da chiunque gestite) e simil- keynesiane, allo statalismo di sempre.

Quando la crisi sarà superata, si scoprirà di quanto si siano allontanate, sul piano culturale prima ancora che su quello delle scelte politico-economiche, le due sponde dell'Atlantico. Pensare che il nuovo interventismo statale europeo possa restare a lungo senza effetti sui rapporti internazionali mi pare un'illusione. Comunque, vale la pena di parlarne. Sperando che, a forza di parlarne, diventi anche questa una profezia che si autofalsifica.

20 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO I rischi dei troppi no. (se sono troppi, dire si a chi? ndr)
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2008, 11:11:47 am
Editoriali

PARTITO DEMOCRATICO E RIFORME

I rischi dei troppi no


di Angelo Panebianco


La manifestazione di sabato scorso ha dato a Veltroni una rinnovata forza politica. È sperabile che egli se ne serva per sottrarsi alla trappola in cui sindacati e proteste studentesche, ma anche Berlusconi, lo hanno fin qui sospinto. La trappola consiste nel fare del Partito democratico il campione del «cartello dei no», di una coalizione di interessi che difende lo status quo in settori come la scuola o il pubblico impiego. Per il fatto che impiegati pubblici e insegnanti rappresentano una parte rilevante della constituency elettorale del Partito democratico, del bacino da cui provengono i suoi voti, l’attivismo del governo in quei settori crea obiettivamente un serio problema a Veltroni. Ma l’arroccamento, il «no» ad ogni provvedimento, spiegabile con la condizione di debolezza in cui l’opposizione si è trovata dopo le elezioni, rischia di diventare suicida. Due ministri in particolare, Brunetta (Pubblica amministrazione) e Gelmini (Istruzione), stanno toccando importanti santuari elettorali del Partito democratico. Ciò spiega l’astio nei loro confronti degli esponenti di quel partito e dei suoi giornali d’area (Il Riformista escluso). Tanto più che i due ministri si muovono in un modo insidioso per i difensori dello status quo. Non hanno fatto l’errore di proporre l’ennesima «Grande Riforma» della pubblica amministrazione o della scuola. In Italia le Grandi Riforme non portano da nessuna parte, finiscono con un buco nell’acqua. Brunetta e Gelmini si sono mossi invece pragmaticamente, mettendo in fila un provvedimento dopo l’altro.

Questo modo di procedere è insidioso per gli oppositori perché rende difficile dire sempre no. Si può contestare un provvedimento o l’altro ma si diventa poco credibili se li si contesta tutti. L’accresciuta forza politica di Veltroni dovrebbe aiutarlo a riprendere un cammino (prefigurato in campagna elettorale) teso a fare del Partito democratico una vera forza riformatrice. In materia di pubblica amministrazione come di scuola ciò può solo significare assumere posizioni davvero indipendenti da quelle del sindacato. Sulla scuola, ad esempio, la difesa sindacale della «quantità» (tanti insegnanti mal pagati) a scapito della qualità non dovrebbe più trovare, come fin qui è stato, l’appoggio del maggior partito di opposizione. Il che significa che il confronto con il governo dovrebbe spostarsi dal tema della quantità (no ai tagli, sempre e comunque) a quello della qualità (idee per migliorare la qualità dell’insegnamento). Né le cose dovrebbero andare diversamente nel caso dell’Università. Non siamo al ’68. Gli studenti occupanti godono dell’incoraggiamento aperto di quella parte della docenza che non desidera un uso più responsabile dei soldi pubblici.

Alcune delle Università più virtuose ed efficienti si sono già smarcate dalla protesta. Se il governo avrà su questo punto un ripensamento (magari anche spronato in questo senso dall’opposizione) ed eviterà l’errore di tagliare i fondi in modo uniforme, mettendo sullo stesso piano gli atenei efficienti e quelli inefficienti, se procederà premiando i primi e punendo i secondi, assisteremo finalmente a un bello scontro frontale (il Paese ha solo da guadagnarci) fra la buona Università e quella cattiva. Si tratti di scuola, di pubblica amministrazione o di università, il Partito democratico deve dunque ricalibrare la sua azione. Le proposte di riforma (in dieci punti) appena avanzate dal Pd in materia di istruzione sono ancora troppo generiche (è facile dire che si vuole premiare il merito; il difficile è farlo) e sembrano, più che altro, un mezzo per fare fuoco di sbarramento contro la Gelmini. Più di proposte generiche servirebbe, da parte del Pd, un serio ripensamento sui problemi dell’università e della scuola. Per esempio, ci vorrà pure, prima o poi, una pubblica spiegazione sul perché, a suo tempo, Luigi Berlinguer, ministro dell’istruzione del primo governo Prodi, venne bruciato, fatto fuori, quando tentò di introdurre (contro i sindacati) un po’ di meritocrazia negli avanzamenti in carriera degli insegnanti. Riflettere sugli sbagli del passato è l’unico modo per non ripeterli in futuro. E per non trovarsi (di nuovo) a marciare accanto a chi difende cause indifendibili.

30 ottobre 2008


da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Una società aperta
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2008, 11:47:41 am
LA DEMOCRAZIA USA

Una società aperta


Viene sanata la frattura della discriminazione razziale, che appariva come la principale macchia della democrazia Usa.

Il sogno americano ne esce vivificato e rinvigorito


di Angelo Panebianco


Nessuno oggi può sapere che cosa farà il nuovo presidente, che cosa diventeranno gli Stati Uniti nell’era di Barack Obama. Ma tutti, persino i tanti nemici dell’America sparsi per il mondo, sono costretti a riconoscere che la democrazia americana continua ancora oggi a disporre di doti che nessun’altra comunità politica possiede. «Se qualcuno pensava che l’America non fosse il Paese ove tutto è possibile...». Le parole con cui Obama ha iniziato il suo patriottico discorso di ringraziamento alla nazione che lo aveva appena eletto rendono perfettamente il senso di ciò che è accaduto.

Un giovane senatore afro-americano, di poca esperienza politica, con un passato di simpatie radicali e un background da outsider si è dapprima imposto contro un establishment democratico che gli era ostile, sconfiggendo alle primarie un cavallo di razza come Hillary Clinton, e ha poi conquistato la Casa Bianca contro un avversario di grande valore come John McCain (il cui spessore politico e la cui tempra morale, per inciso, tutti, anche quelli che gli erano ostili, hanno potuto misurare ascoltando il bellissimo discorso con cui ha riconosciuto la vittoria di Obama, e ha invitato i repubblicani a stringersi intorno al nuovo presidente).

È vero in generale che in tempi di crisi le personalità carismatiche hanno più probabilità di affermarsi. E, senza dubbio, la gravissima crisi finanziaria, con i suoi pesantissimi effetti sull’economia americana, ha favorito l’outsider Obama. Il successo del suo stile profetico e l’entusiasmo che ha suscitato in una parte così ampia degli Stati Uniti non sarebbero stati possibili senza il senso di smarrimento e la paura per il futuro che attanagliavano la società americana già prima che (sono passate solo poche settimane) la crisi rivelasse tutta la sua gravità con i fallimenti bancari e il crollo di Wall Street.

E, tuttavia, questo risultato non sarebbe stato comunque possibile se l’America non fosse ancora, nonostante tutte le sue trasformazioni, ciò che i suoi Padri Fondatori vollero che fosse: una società aperta e libera e una democrazia autentica le cui istituzioni non hanno subito l’usura del tempo e nella quale è sempre possibile per gli outsider di valore farsi strada ed affermarsi.

Centocinquant’anni dopo l’abolizione della schiavitù, cinquant’anni dopo la fine della segregazione razziale, un nero arriva alla Casa Bianca e sana così la frattura più grave, in passato sempre giudicata da tutti insuperabile, della storia degli Stati Uniti, quella che appariva come la principale macchia, il difetto peggiore, della democrazia americana. Almeno per ora il sogno americano ne esce vivificato e rinvigorito.

È sperabile che una ricaduta della vittoria di Obama consista, per lo meno in questa Europa che ha così tanto mostrato di apprezzare il neo-eletto presidente, in una maggiore disponibilità da parte di molti (per esempio, da parte di quei tanti intellettuali che l’America l’hanno sempre detestata senza comprenderla) a sforzarsi di capire qualcosa di più della società americana, della sua storia, della sua cultura politica, delle sue istituzioni. Un compito difficile, impegnativo, dal momento che per tanti europei l’America, con la sua storia diversissima dalla nostra, è sempre stata un enigma. Detestabile proprio perché incomprensibile. Detestabile per quel suo impasto di patriottismo e di religiosità così lontani dalla sensibilità di molti europei.

Detestabile per il suo individualismo. Detestabile per la sua disponibilità a tollerare livelli di disuguaglianza economica e sociale superiori a quelli tollerati in Europa. E detestabile anche per ciò che di quella disuguaglianza è sempre stata la contropartita: la mobilità e il dinamismo, alimentati dalla fiducia, propria di una società individualista, che a ciascuno sia possibile, almeno in linea di principio, innalzarsi contando sulle proprie forze e capacità anziché sulla protezione dello Stato. Le anchilosate, oligarchiche e demograficamente invecchiate società europee applaudono Obama ma in quell’applauso si nasconde un paradosso. Poiché la vittoria di Obama (ma anche la corsa del suo avversario McCain) mette in risalto ciò che rende l’America irrimediabilmente diversa dall’Europa. Perché nelle chiuse società politiche europee un Obama o un McCain (anche lui un outsider nella sua parte politica) non avrebbe nessuna chance.

Il neo-presidente dovrà fronteggiare immani problemi. Dovrà aiutare l’America a uscire dalla crisi, dovrà imparare a muoversi in un mondo ormai multipolare e dovrà contemporaneamente cercare di contrastare (in Iraq, in Afghanistan e in altri luoghi) potenti forze destabilizzatrici.

La «Repubblica imperiale» americana acquisterà certamente, con Obama, un nuovo stile. Ma i segni del passato saranno comunque visibili. Forse Obama ripercorrerà, in condizioni mutate, le orme di Franklin Delano Roosevelt (il presidente del New Deal), forse si ispirerà anche ad altri presidenti democratici, come Woodrow Wilson, con il suo idealismo internazionalista, o forse sceglierà non l’isolazionismo (oggi impossibile) ma un parziale ripiegamento, di tipo jeffersoniano, una parziale e selettiva riduzione dell’impegno americano nel mondo. Non lo sappiamo ancora. Sappiamo però che, quali che saranno le virtù e gli errori della nuova.

Amministrazione, di sicuro non ci saranno rotture radicali, non ci sarà alcun congedo dalla tradizione americana. Finita la luna di miele, quelli che detestavano l’America ricominceranno a detestarla e quelli che l’amavano continueranno a farlo. Per le stesse ragioni.

06 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I due ministri più osteggiati
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2008, 12:05:46 pm
BRUNETTA, GELMINI E IL PD

I due ministri più osteggiati

di Angelo Panebianco


Campagne di stampa contro Renato Brunetta, continue manifestazioni contro Mariastella Gelmini. Domandarsi perché Brunetta e Gelmini siano osteggiati dalla sinistra italiana più di qualunque altro membro del governo (ministri leghisti inclusi) significa interrogarsi sulla natura della suddetta sinistra, sul suo insediamento sociale, sulle domande dei ceti che ad essa fanno riferimento.

E significa chiedersi quali residue chance siano rimaste a quel progetto di «forza politica riformista » da cui nacque il Partito democratico.
I due ministri, fra mille difficoltà, stanno tentando di incidere due bubboni malati (pubblica amministrazione, istruzione) della nostra vita pubblica. Sono ambiti disastrati, soffocati da una ragnatela di rendite, piccoli privilegi, cattive abitudini, sprechi, inefficienze. E' più facile fallire che avere successo se si tenta di intervenire in questi settori ed è probabile che anche i tentativi di Brunetta e Gelmini alla fine falliscano. I due ministri, come chiunque altro, possono anche commettere errori ma stanno per lo meno tentando di fare qualcosa. Poiché fare l'opposizione a un governo non significa affatto picchiare duro su qualunque ministro, anche su quelli che un po' di «riformismo» tentano di praticarlo, non dovrebbe un'opposizione riformista cercare, proprio con quei due ministri, punti di incontro? Così formulata, la domanda è naturalmente ingenua.

La ragione per cui Brunetta e Gelmini sono oggi le bestie nere della sinistra è che essi stanno operando nel suo «territorio di caccia», nel cuore stesso della sua constituency elettorale: impiego pubblico e scuola. I dati sulla geografia sociale del voto sono inequivocabili: insieme ai pensionati, i dipendenti pubblici (in generale) e gli insegnanti rappresentano una parte preponderante del bacino elettorale della sinistra, del Partito democratico in primo luogo. Purtroppo per il Partito democratico e le sue aspirazioni riformiste, molti appartenenti a questi ceti (anche se non tutti) non chiedono riforme modernizzatrici ma una difesa dello status quo. Ad esempio, dietro alla radicalizzazione della Cgil ci sono di certo molte cause. Ma penso che l'attivismo dei ministri Brunetta e Gelmini abbia qualcosa a che fare con quel processo.

Stando così le cose, il Partito democratico è oggi in trappola. Da un lato, come qualunque altro partito, deve tener conto delle domande dei propri elettori. Tanto più che anche su pubblica amministrazione e scuola subisce il lavorio ai fianchi di Di Pietro e di una sinistra massimalista che spera di rientrare in gara nelle elezioni europee. Dall'altro lato, se si appiattisce su quelle domande, finisce per togliere ogni residua credibilità alla piattaforma modernizzatrice con cui si presentò alle elezioni. In queste situazioni solo la leadership può fare la differenza, smarcandosi dal fronte conservatore, proponendo nuove mete, mettendo in campo— anche su pubblica amministrazione, scuola, università — progetti seri, al di là degli slogan e della propaganda. Con il fine, in prospettiva, di conquistare nuovi territori di caccia, di agganciare elettori interessati alla modernizzazione del Paese.
Nel caso di Veltroni, in fondo, si tratterebbe di rileggere i propri discorsi dal Lingotto in poi e di proporre al Partito democratico di agire di conseguenza. Anche a costo di ridisegnare le proprie alleanze sindacali.

15 novembre 2008
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La politica e la libertà
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2008, 12:21:57 pm
CRISI E OLTRE

La politica e la libertà


di Angelo Panebianco


Ciò che più sgomenta della battaglia delle idee che la crisi sta alimentando è la voluttà con cui tanti si impegnano ad archiviare, attribuendola alla follia umana, quella rivoluzione liberale che prese l’avvio con le vittorie di Margaret Thatcher (1979) e di Ronald Reagan (1980) e i cui effetti si manifestarono ovunque. Dimenticando che quella rivoluzione fu una reazione alla crisi, economica e morale, degli anni Settanta.
E cancellando, con un tratto di penna, i benefici che ne derivarono: una trentennale crescita economica mondiale e una spettacolare accelerazione della globalizzazione, certo nutrita di squilibri e disuguaglianze, ma anche capace di diffondere benessere e libertà in tanti luoghi che queste cose non conoscevano. Oggi si torna a rivendicare il «primato della politica» e ci si fa beffe degli stolti che confidano nella libertà, anche in quella «economica».

Conviene ricordare a chi irride il «liberismo » qualche insegnamento della storia. Anche dopo il ’29 il primato della politica venne riaffermato con forza (il New Deal, il socialismo scandinavo, l’Iri, i piani quinquennali sovietici, il riarmo hitleriano) in variante democratica o totalitaria. E anche allora l’intellighenzia occidentale si buttò con entusiasmo ad inseguire i miti del momento, sostenendo che il «liberalismo» (giudicato un residuo ottocentesco) era finalmente al tramonto, che stava per nascere la luminosa era della «pianificazione ». Sappiamo come finì. Il primato della politica sfociò nel protezionismo selvaggio e tutto si concluse (dieci anni dopo l’inizio della grande crisi) con una guerra mondiale. Il rapporto fra la politica e il mercato è uno degli aspetti più complessi (e oscuri, difficili da mettere a fuoco) delle società contemporanee. Lo dimostra, per un verso, la tradizionale difficoltà del pensiero liberale (e della scienza economica di ispirazione liberale) di fare i conti con il ruolo della politica. Spesso, all’acuta, intelligente, analisi delle situazioni economiche, quel pensiero affianca una critica solo moralistica della politica (per la sua propensione a farsi influenzare dagli interessi delle lobbies e a sacrificare la razionalità economica alle esigenze del consenso). Ma la difficoltà di fare i conti con la complessità del rapporto fra politica e mercato è dimostrata anche dalla disinvoltura dei fautori del primato della politica, i quali ne esaltano la capacità di occuparsi del «bene comune » (redistribuzione, protezione dei più deboli) ma sembrano ignari degli «effetti collaterali», pesantemente negativi, che quel primato porta con sé.

Gli assertori del primato della politica hanno un grande vantaggio rispetto ai liberali. Consiste nel fatto che dalla politica tutti si aspettano la soluzione ai loro problemi e le attribuiscono ogni colpa delle mancate o cattive soluzioni. La politica è il deus ex machina che tutti invocano. È interessante il fatto che non solo la gente comune ma anche gran parte delle élites fatichino ad accettare l’idea che non tutto ciò che accade sia il prodotto di decisioni politiche. Essi mostrano di non riconoscere che molti accadimenti sono semplicemente il frutto del reciproco adattamento «spontaneo» fra i comportamenti di milioni e, a volte, miliardi di persone, l’esito aggregato, per lo più imprevisto e imprevedibile, di un gran numero di azioni ispirate da altrettante menti singole. Nonostante la secolarizzazione, gente comune e élites continuano a credere che tutto si debba alla volontà degli Dei. La differenza è che questa idea di onnipotenza è stata trasferita, proiettata, su uomini in carne ed ossa, i cosiddetti potenti della Terra. I più, misconoscendo il ruolo fondamentale degli aggiustamenti spontanei, credono nella sola esistenza delle «mani visibili». Siano esse di Roosevelt, di Clinton, di Bush. Ma anche di Sarkozy, Berlusconi, eccetera.

L’attesa salvifica che oggi circonda Obama è un esempio estremo di questo persistente atteggiamento. A me pare che in questo atteggiamento si annidino due errori. In primo luogo, l’errore di non riconoscere che l’onnipotenza della politica è solo un mito. Un mito lugubre, per di più. Con quanto più accanimento è stato perseguito tante più catastrofi si sono prodotte. Il grande lascito culturale (che oggi la crisi va disperdendo) delle rivoluzioni liberali di trenta anni fa —a loro volta, ispirate al liberalismo classico, sette-ottocentesco— stava nel rifiuto dell’onnipotenza della politica, nel riconoscimento che solo lasciando massima libertà agli individui e alla creatività individuale si fa il bene di una società, che compito del governo non è darci la «felicità» ma lasciarci liberi di cercare la nostra personale strada alla felicità. Il secondo errore consiste nel non vedere i costi del primato della politica, non saper contrapporre ai vantaggi di breve termine i costi dì medio-lungo termine. Nel breve termine la politica è sicuramente in grado di assicurare vantaggi. Per esempio, in una situazione di crisi, salvando il credito, tamponando gli effetti della disoccupazione, eccetera.

Ma il punto è che ciò che la politica ci dà con una mano oggi se lo riprenderà domani con gli interessi (in termini di controllo sulle nostre vite). Certamente, dobbiamo oggi affidarci a decisioni politiche per fronteggiare la crisi. E dobbiamo purtroppo accettare una più forte presenza dello Stato. Ma se non lo facciamo a malincuore, se ci mettiamo dentro un immotivato entusiasmo, se non ci rendiamo conto che si può accettare un temporaneo ampliamento del ruolo dello Stato in condizioni di emergenza solo pretendendo che lo Stato si impegni a ritirare di nuovo i suoi tentacoli quando l’emergenza sarà finita, contribuiamo a preparare un futuro persino peggiore del presente. È una questione di atteggiamenti culturali. In America esistono potenti anticorpi che impediranno degenerazioni permanenti del tipo «socialismo di Stato». In Europa continentale gli anticorpi sono più deboli (in Italia, poi, sono debolissimi). Il rischio, qui da noi, non è il «ritorno dello Stato» della cui invadenza, in realtà, nonostante tanti sforzi, non ci siamo mai liberati. Il rischio è che quell’invadenza torni a godere di piena legittimazione culturale. Il rischio è dimenticare che quanto più la politica si impiccia, quanto più pretende di dispensarci la felicità, tanto più si riduce, col tempo, la libertà di ciascuno di noi.

22 novembre 2008
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Ae non indigna la caccia agli ebrei
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2008, 11:05:02 pm
TERRORE JIHADISTA

Ae non indigna la caccia agli ebrei


di Angelo Panebianco


Mentre sono ancora frammentarie e confuse le notizie sui protagonisti, così come gli indizi sui mandanti, dell'attacco jihadista a Mumbai, gli analisti già ricominciano a dividersi, seguendo un canovaccio che è sempre lo stesso quando si tratta di terrorismo islamico. La divisione è fra chi ritiene che ogni singolo episodio terroristico, quale che sia la sua gravità, sia interamente spiegato dall'esistenza di conflitti locali (si tratti, di volta in volta, del Kashmir, della Palestina, del conflitto fra casa regnante ed estremisti in Arabia Saudita, dell'Afghanistan, dell'Iraq, eccetera) senza bisogno di prendere troppo sul serio le rivendicazioni dei jihadisti sul carattere «globale » della loro guerra contro apostati e infedeli, e chi invece ritiene che i conflitti locali siano fonti di alimentazione del jihad globale.

Non è una disputa accademica. Perché l'interpretazione che si adotta suggerisce linee di azione differenti. Se vale la prima interpretazione si tratterà, per l'Occidente, di agire pragmaticamente caso per caso, accettando il fatto di trovarsi per lo più di fronte a forme di irredentismo (Kashmir, Palestina), che usano strumentalmente la coperta dell'estremismo islamico, o di guerre civili che hanno per posta il potere all'interno di questo o quello Stato musulmano. Se vale la seconda interpretazione si tratterà di non perdere di vista il quadro di insieme e, per esso, il fatto che nel mondo islamico è da tempo in corso una lotta nella quale tanti gruppi estremisti (collegati tramite il web e le reti di solidarietà e finanziamento presenti in tutte le comunità islamiche, anche quelle europee) cercano di spostare a vantaggio delle proprie idee gli equilibri di potere all'interno della umma, della comunità musulmana nel suo insieme. In uno scontro di civiltà che usa la religione per distinguere musulmani buoni e cattivi e per identificare i nemici: i cristiani, gli ebrei, gli indù, eccetera.

Se si evitano le scelte ideologiche preconcette occorre riconoscere che tutte e due le interpretazioni contengono elementi di verità. Lo dimostra il caso di Mumbai. Hanno ragione quegli analisti che inquadrano la vicenda all'interno del conflitto indo-pakistano e delle sue connessioni con la guerra in Afghanistan. È plausibile che i burattinai stiano all'interno delle forze armate pakistane e che vogliano impedire la normalizzazione, sponsorizzata dagli Stati Uniti, dei rapporti fra Pakistan e India, sperando in una reazione indù antimusulmana: più sale la tensione, più essi possono segnare punti a proprio vantaggio all'interno del Pakistan nonché a favore dei propri alleati-clienti nella galassia talebana in Afghanistan. Ma ciò non spiega tutto. Fra gli ospiti degli hotel aggrediti erano gli americani e gli inglesi i più presi di mira. È dipeso solo dal ruolo degli angloamericani in Afghanistan? O non era anche un modo per lanciare agli islamisti sparsi per il mondo il messaggio secondo cui l'azione in corso era comunque parte di una più ampia lotta in cui il Grande Satana resta il nemico più importante? E, soprattutto, come si spiega l'attacco (anch'esso pianificato) al Centro ebraico, l'assassinio di un rabbino e di altri otto ebrei?

Cosa c'entrano gli ebrei con il conflitto indo-pakistano? Assolutamente nulla. Ma c'entrano moltissimo con l'ideologia jihadista e con il fanatismo antisemita che la caratterizza. Il richiamo più immediato è al caso di Daniel Pearl, il giornalista ebreo-americano rapito e sgozzato in Pakistan nel 2002. Il fatto che egli fosse ebreo ebbe una parte decisiva nel suo assassinio. L'attacco al Centro ebraico è la dimostrazione del fatto che il terrorismo islamico ha due facce, trae alimento da due radici: i conflitti regionali ma anche un'ideologia jihadista che ha per posta la riorganizzazione della umma, la comunità dei credenti, in chiave antioccidentale e della quale è un tassello essenziale la «guerra ai sionisti».

Per questa ragione, pur dovendo modulare le risposte a seconda delle condizioni locali, non conviene perdere di vista il quadro di insieme. Le battaglie «locali» (soprattutto quando si colpiscono anche ebrei e americani) ottengono una eco immediata in tutti i luoghi del mondo ove l'estremismo islamico alligna e favoriscono un proselitismo i cui effetti si manifesteranno in seguito, con altre azioni terroristiche, in altre parti del globo.

Per quanto riguarda noi europei di singolare nei nostri atteggiamenti verso il terrorismo islamico c'è l'indifferenza che spesso mostriamo per un aspetto della sua ideologia che dovrebbe, a rigore, apparirci ripugnante: l'antisemitismo. È una vecchia storia. La stessa Europa che ricorda l'Olocausto e si commuove davanti al film Schindler's List non prova particolare sdegno per l'antisemitismo diffuso nel mondo arabo, e musulmano in genere, di cui la «caccia all'ebreo» da parte dei jihadisti (anche a Mumbai) è una diretta conseguenza. Non casualmente, qui da noi trovò fertile terreno, dopo l'11 settembre, la favola secondo cui il jihadismo sarebbe colpa di Israele, un frutto delle persecuzioni israeliane nei confronti dei palestinesi. E vanno anche ricordati i sondaggi che registrano l'ostilità di tanti europei per Israele. Al fondo, sembra esserci una strategia inconsapevole e politicamente suicida. C'è l'idea che solo se neghiamo l'evidenza, ossia i veri caratteri dell'ideologia jihadista, solo se spieghiamo le sue manifestazioni violente come il frutto esclusivo di circostanze specifiche in luoghi lontani da noi, possiamo sperare di essere lasciati in pace.


30 novembre 2008
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Quando cambia il bersaglio
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2008, 11:19:00 am
GIUDICI E PD

Quando cambia il bersaglio


di Angelo Panebianco


Non siamo forse alla fine della stagione iniziata con la vicenda di Mani Pulite dei primi anni Novanta. Ci sono però due fatti nuovi.
Il primo è l'indebolimento di quegli elementari meccanismi di autodifesa che la magistratura usava per tutelare il proprio prestigio sociale e non offrire la gola scoperta a possibili interventi disciplinatori della politica. La furibonda guerra fra le Procure di Salerno e di Catanzaro ha mostrato all'opinione pubblica quanto sia malato il sistema giudiziario. Il rapido intervento del Csm, con drastiche sanzioni a entrambi i contendenti, è un tentativo di impedire un più ampio smottamento.

Anche se spettacolare questa guerra è però solo l'ultimo di una serie di episodi che hanno eroso il consenso di cui la magistratura godeva presso l'opinione pubblica. Fu grazie a quel consenso che alcune Procure assunsero, a partire dagli anni Novanta, il ruolo (informalmente politico) proprio delle «burocrazie guardiane». Cercarono, cioè, di mettere sotto tutela la classe politica, una cosa che è qualitativamente diversa dal normale controllo di legalità che i singoli magistrati svolgono nei Paesi democratici. La cosiddetta Seconda Repubblica ne fu condizionata. Né poteva essere diversamente. Poiché era stata la «rivoluzione dei giudici», come venne definita in gergo giornalistico, a dare il colpo mortale alla Prima Repubblica, era inevitabile che le Procure si trovassero a svolgere un ruolo politicamente sovraesposto nella Seconda. Un' amministrazione sapiente e accorta del rapporto con l'opinione pubblica era però la condizione indispensabile per lo svolgimento di quel ruolo. Venute meno sapienza e accortezza quel rapporto si è spezzato. La seconda circostanza è data dal parziale cambiamento dei «bersagli politici ».

Oggi la novità, suscettibile di modificare i rapporti fra politica e magistratura, è costituita dalla pluralità di inchieste su giunte di centrosinistra. L'azione delle Procure, da Mani Pulite in poi, ha sempre contato sul sostegno della sinistra nelle sue varie incarnazioni. Anche l'alleanza del Partito democratico con Di Pietro ha indirettamente ribadito questa tradizionale posizione. Ma in passato quel sostegno dipendeva dalla constatazione che a «farsi male» erano soprattutto gli avversari della sinistra. Adesso che a farsi male è anche il Partito democratico, è possibile che intervengano (non immediatamente, ma in futuro) cambiamenti di rotta. Le risposte della classe politica sono, al momento, insoddisfacenti. Il Guardasigilli dice, anche con riferimento alla guerra Salerno- Catanzaro, che tutto andrà a posto con le «riforme ».

Ma ammesso, e non concesso, che venga fatta una buona riforma dell'ordinamento giudiziario, solo un pregiudizio legalistico può far credere che cambiare le norme faccia anche cambiare d'incanto atteggiamenti e comportamenti. Gli effetti delle buone riforme si vedono, se si vedono, solo a distanza di anni. Al momento, sarebbe già tanto se passasse la legge sulle intercettazioni telefoniche. La sua assenza spiega perché non sia cessata quella forma di abuso che è la «pesca a strascico» (come l'ha argutamente definita Il Riformista), le intercettazioni diffuse, senza freni né regole. Se pretendiamo di essere una società liberale, la pesca a strascico, per lo meno, dovremmo vietarla.

07 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L’identità e gli apparati
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2008, 09:45:53 am
IL PD DOPO LA SCONFITTA ABRUZZESE

L’identità e gli apparati

di Angelo Panebianco


Dopo la catastrofica sconfitta in Abruzzo il Partito democratico è costretto a rifare i conti. Come ha scritto Massimo Franco sul Corriere di ieri, il problema del Pd non è la cannibalizzazione da parte dell’Italia dei Valori: il successo di Di Pietro, così come la scelta dell’astensione da parte di tanti elettori abruzzesi in precedenza di centrosinistra, sono i sintomi, non le cause.

Sono i sintomi di una malattia che se non verrà subito curata porterà il Pd all’autodistruzione. La malattia è presto detta: il Pd, al momento, non è né carne né pesce. È un partito senza identità. E se sei privo di identità perché mai gli elettori dovrebbero votarti? Troppo forte è risultato il divario fra i proclami sul nuovo riformismo e la realtà quotidiana. Da che cosa è fatta l’identità di un nuovo partito che, per giunta, si pretende riformista? Che cosa consente di definirlo nuovo? Che cosa consente di definirlo riformista? La novità dipende dal tasso di rinnovamento della classe dirigente. Il riformismo dipende dalla qualità delle policies, delle politiche che si adottano. La ragione per cui il Pd, fin dai suoi primi passi, è stato giudicato da tutti come la sommatoria dei Ds (gli ex Pci) e della Margherita (l’ex sinistra Dc) dipende dal fatto che la sua nascita non ha coinciso, né al centro né alla periferia, con un forte rinnovamento dei gruppi dirigenti.

Fin quando il grosso della maggioranza di quei gruppi continuerà ad essere composta da persone già dirigenti del Pci e della Dc non ci sarà alcun nuovo partito. Dal momento che quel vecchio personale non può che riproporre atteggiamenti e comportamenti adottati in un’altra epoca, ai tempi della sua socializzazione e delle sue esperienze nei vecchi partiti. Ma i rinnovamenti delle classi dirigenti non avvengono spontaneamente. Devono essere i leader a imporli. Per quanto riguarda poi il riformismo, tutto dipende dalle politiche che si adottano. Insieme alla qualità e alla novità degli uomini e delle donne che assumono ruoli dirigenziali, sono le politiche scelte a dare identità ai partiti.

Si badi: ho detto politiche, non proclami. Anche sotto il profilo delle politiche il Pd è risultato né carne né pesce. Messi da parte i buoni propositi della campagna elettorale, non è riuscito fin qui a svolgere un ruolo di partito di opposizione con solide e riconoscibili posizioni riformiste. Ha oscillato paurosamente. Incapace di chiarimenti interni definitivi fra le sue diverse anime, ha finito per apparire indeciso a tutto. Su scuola e università, a un certo punto, ha dato un calcio al suo preteso riformismo cercando persino di cavalcare la cosiddetta Onda. Sulle questioni economiche è apparso diviso fra la tentazione di seguire il radicalismo della Cgil e quella di assumere una linea più realistica. Sulla giustizia, non è riuscito a scegliere fra il giustizialismo di Di Pietro e la posizione riformista maturata negli ultimi tempi da Luciano Violante.

Forse, proprio la giustizia potrebbe diventare, per il Pd, il banco di prova di una identità riformista fin qui più proclamata che praticata. Affidi a Violante il compito di guidare i colloqui con la maggioranza sulla riforma della giustizia. Prenderebbe due piccioni con una fava. Si distanzierebbe da Di Pietro e darebbe al Paese un messaggio riformista. È anche così che si costruiscono le identità politiche.

17 dicembre 2008
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il garantismo degli amici
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2008, 11:34:31 pm
IL PD E LA QUESTIONE GIUSTIZIA

Il garantismo degli amici


di Angelo Panebianco


In una intervista al Riformista l'ex presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco, a proposito dei suoi ex compagni del Partito democratico, ha dichiarato: «Quelli del Pd sono garantisti a corrente alternata. Un garantista vero solidarizza innanzitutto con i nemici. Difendere gli amici è un'altra cosa: si chiama complicità ». Il commento di Del Turco stigmatizza le evidenti contraddizioni dei vertici del Partito democratico di fronte agli sviluppi delle inchieste giudiziarie che riguardano propri esponenti. La scarcerazione del sindaco di Pescara Luciano D'Alfonso ha spinto Walter Veltroni, per la prima volta da quando è segretario di quel partito, a prendere duramente le distanze dall'azione dei magistrati («fatti gravissimi», ha detto a proposito dell'inchiesta di Pescara) e ha anche obbligato il ministro- ombra della Giustizia Lanfranco Tenaglia ad accorgersi del fatto che «polizia e magistratura devono riscoprire una cultura delle indagini che si è troppo appiattita sulle intercettazioni» (verrebbe da dire: ben arrivato tra noi, onorevole).

Ne è conseguita, e anche questa è una novità, una presa di posizione polemica dell'Associazione Nazionale Magistrati nei confronti della leadership del Partito democratico. Che cosa significa tutto ciò? Che stiamo per assistere a uno spettacolare cambiamento di rotta del Partito democratico, alla fine del suo abbraccio (mortale) con Di Pietro, a una disponibilità a rompere finalmente con il «partito giustizialista» e a sedersi a un tavolo con la maggioranza per discutere seriamente di riforma della giustizia? È improbabile. Per due ragioni. La prima è che settori rilevanti del partito giustizialista si trovano all'interno del Partito democratico e occupano posizioni dirigenziali di rilievo. È falso che il giustizialismo sia appannaggio del solo partito di Di Pietro. L'alleanza elettorale con Di Pietro è stata fatta anche perché esistevano forti affinità ideologicoculturali fra i due partiti in materia di giustizia. È probabile che in questo momento, nelle stanze chiuse del Partito democratico, siano in corso scontri duri fra dirigenti di diverso orientamento. La seconda e più importante ragione ha a che fare con le caratteristiche di porzioni rilevanti di iscritti e anche dell'elettorato del Partito democratico. Un paio di settimane fa un'associazione di area composta da giovani sotto i trenta anni ha incalzato il Partito democratico sulla cosiddetta «questione morale».

Era solo il sintomo di un problema ben più ampio. C'è un'intera generazione di giovani politicamente attivi la cui «socializzazione primaria» alla politica è avvenuta a seguito degli eventi provocati dalla vicenda di Mani pulite. Questa generazione, nata dopo il crollo delle antiche ideologie, è cresciuta credendo fermamente in tre dogmi. Per il primo dogma, l'Italia sarebbe il Paese più corrotto della Terra o giù di lì. Per il secondo, l'etica è il solo metro di giudizio della politica e i «valori» (etici) vanno contrapposti agli «interessi » (sempre sordidi, per definizione). Ciò basta a spiegare perché tanti di questi giovani risultino poi sprovvisti degli strumenti necessari per pensare politicamente.

Per il terzo dogma, infine, i magistrati (mi correggo: i pubblici ministeri) sarebbero cavalieri senza macchia, angeli vendicatori che combattono eroicamente il Male della corruzione. Si aggiunga il fatto che tanti di questi giovani sono privi, causa il cattivo funzionamento di molte scuole, di buone conoscenze storiche, e il quadro è completo. Il successo che riscuotono i libri ispirati almoralismo giustizialista è perfettamente spiegabile. Occorrerebbero, da parte dei vertici della politica, grande capacità pedagogica, solide risorse culturali e disponibilità a un lavoro di lunga lena per dare a questi giovani strumenti di orientamento politico meno labili, meno inconsistenti. Ecco perché è improbabile attendersi dal Partito democratico svolte in materia di giustizia. Anche a costo di negare l’evidenza. L’evidenza è rappresentata da uno squilibrio dei poteri così forte da intaccare , come ha scritto Peppino Caldarola (sempre sul Riformista) la sovranità popolare. Il sindaco di Pescara, come, prima di lui, il presidente della Regione Del Turco, si è dovuto dimettere, non a seguito di una condanna da parte di un giudice al termine di un regolare processo, ma a causa dell’inchiesta di un procuratore. Con tanti saluti alla presunzione di non colpevolezza, e anche alla democrazia rappresentativa.

28 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Gli infortuni dell'Onu
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2009, 02:55:57 pm
PREGIUDIZI CONTRO ISRAELE

Gli infortuni dell'Onu


di Angelo Panebianco


C’è una differenza fra la guerra del Libano del 2006 e l’attuale conflitto a Gaza. Questa volta, sono molti di più i governi disposti a riconoscere le ragioni di Tel Aviv. Per conseguenza, anche l’opinione pubblica internazionale, e occidentale in particolare, non si è compattamente e pregiudizialmente schierata contro Israele. I regimi arabi moderati, che temono più di ogni altra cosa le aspirazioni egemoniche dell’Iran (alleato e protettore di Hamas) mantengono, nonostante l’opposizione delle piazze, un atteggiamento prudente. La fazione palestinese moderata di Abu Mazen (sanguinosamente cacciata da Gaza, nel 2007, dai miliziani di Hamas) considera Hamas l’unica responsabile dell’attacco israeliano. Anche in Europa il vento è in parte cambiato.

I governi tedesco, italiano e dei Paesi dell’Europa orientale hanno preso chiare posizioni a favore del diritto di Israele a difendersi dai missili di Hamas. E i l Presidente Sarkozy, nonostante la tradizione francese (poco sensibile alle ragioni di Israele), sarà obbligato, nel suo prossimo tentativo di mediazione, a tenerne conto. Comincia a farsi strada la consapevolezza che fra le molte asimmetrie del conflitto c’è anche quella rappresentata dal diverso valore attribuito dai contendenti alla vita umana. Per gli uomini di Hamas, come per Hezbollah in Libano, la vita (anche quella degli appartenenti al proprio popolo) vale talmente poco che essi non hanno alcun problema a usare i civili, compresi i bambini e le donne, come scudi umani. Per gli israeliani, le cose stanno differentemente. Cercano di limitare il più possibile le ingiurie alla popolazione civile anche se, naturalmente, la natura del conflitto esclude che essa non sia coinvolta. L’attacco dell’esercito, appena iniziato, volto a bloccare definitivamente Hamas, è stato a lungo ritardato. Tra le ragioni del ritardo c’era anche il timore per l’alto costo in vite di civili che l’attacco potrebbe comportare.

Insomma, di fronte alla complessità del problema e alla diffusa consapevolezza che non si può negare a uno Stato il diritto di difendersi da un’organizzazione di fanatici votati alla distruzione di quello stesso Stato, c’è questa volta, in giro, meno voglia di dare addosso pregiudizialmente a Israele. Ma con un’eccezione di assoluto rilievo: le Nazioni Unite. Richard Falk, «relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi», rappresentante dell’Human Rights Council (Consiglio per i diritti umani) delle Nazioni Unite, sta usando la sua carica, e la sponsorizzazione dell’Onu, per fare propaganda pro-Hamas e antisraeliana. Le sue tesi «sull’aggressione israeliana » a Gaza sono esattamente le stesse di Hamas. Il caso di Richard Falk è interessante perché ci aiuta a capire come vengano trattati i «diritti umani» alle Nazioni Unite. Ebreo americano, già professore di diritto internazionale a Princeton, Falk è quello che in America si definisce un radical. E dei più accesi. Fra le sue molte imprese si possono ricordare il suo giudizio entusiasta sull’Iran di Khomeini (un «modello per i Paesi in via di sviluppo», lo definì arditamente nel 1979) e i suoi dubbi, alla Michael Moore, sulla «verità ufficiale» americana sull’11 settembre. Nel 2007 paragonò la politica israeliana verso i palestinesi a quella della Germania nazista nei confronti degli ebrei. È persona non grata in Israele.

La nomina di Falk (con il voto contrario degli Stati Uniti), nel marzo 2008, a rappresentante per i territori palestinesi del Consiglio per i diritti umani, un organismo dominato da Paesi islamici e africani, ebbe un solo scopo: quello di predisporre un corpo contundente da usare contro Israele. È un altro clamoroso infortunio dell’Onu. Dopo quello che, alcuni anni fa, portò la Libia, nella generale incredulità, alla presidenza della Commissione per i diritti umani (poi abolita). Se l’Onu si occupasse seriamente di diritti umani dovrebbe mettere sotto accusa un bel po’ dei propri Stati membri, ossia tutti gli Stati autoritari o totalitari (dalla Cina a quasi tutti i regimi del mondo musulmano). Ma non può farlo. In compenso, i diritti umani vengono spesso usati come proiettili per colpire le democrazie occidentali e Israele. Anche se creare una «Lega delle democrazie» è risultato fino ad oggi impossibile, un maggiore coordinamento fra i Paesi democratici in sede di Nazioni Unite sarebbe quanto meno auspicabile. Al fine di imporre a certi suoi organismi comportamenti più decorosi. Nonostante il credito di cui l’Onu continua a godere, è un fatto che, nelle crisi internazionali, sanno spesso muoversi con maggiore credibilità, pur con le loro magagne e imperfezioni, i governi delle democrazie. Per lo meno, devono rispondere del proprio agire alle loro opinioni pubbliche e hanno comunque (non c’è Guantanamo che tenga) carte più in regola degli altri anche in materia di diritti umani.

04 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un conflitto nuovo. La crisi di Gaza
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2009, 01:04:50 am
La crisi di gaza

Un conflitto nuovo


di Angelo Panebianco


Chiunque abbia, se non altro per ragioni anagrafiche, un passato, è portato a leggere i conflitti di oggi alla luce degli schemi mentali di ieri. Per decenni il conflitto israeliano-palestinese venne interpretato in Occidente con gli schemi della guerra fredda. A lungo, dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra l'Urss e Israele, quel conflitto fu parte, pur con le sue peculiarità, del confronto politico e militare fra mondo occidentale e mondo sovietico. Per tutti coloro che in Europa occidentale simpatizzavano per l'Urss e per «la lotta dei comunisti a favore dell'emancipazione del Terzo Mondo», Israele era un avamposto dell'imperialismo americano.

Contavano anche le peculiarità del conflitto e i loro riflessi in Europa. Dopo il '73, con la crescita del prezzo del petrolio e l'uso politico dell'energia da parte dei Paesi produttori, trattare con i guanti governi e opinione pubblica arabi diventò vitale per un'Europa assetata di energia: la causa palestinese acquistò pertanto sempre maggiore popolarità fra noi mentre le ragioni di Israele di fronte al «rifiuto arabo» persero progressivamente terreno nella considerazione delle opinioni pubbliche europee (anche fra molti di coloro che erano schierati contro l'Urss su altri fronti). Se a ciò si sommano le memorie antiche, le influenze, più o meno sotterranee, del pregiudizio cristiano antigiudaico, si comprende molto degli atteggiamenti europei verso il conflitto israeliano-palestinese, per lo meno dalla fine degli anni Sessanta in poi. Il passato pesa sul presente ed è comprensibile che riflessi automatici portino ancora oggi tanti a leggere l'attuale scontro a Gaza con le categorie del passato. Ma è singolare che ciò avvenga al prezzo di una grande rimozione. Sono due i fatti nuovi che hanno determinato un cambiamento qualitativo del conflitto israeliano- palestinese e che tanti sembrano voler rimuovere.

In primo luogo, l'irruzione della religione, e più precisamente dell'islam politico, nel conflitto. Certo, il conflitto israeliano-palestinese continua ad essere anche ciò che è sempre stato: uno scontro fra due popoli per il dominio territoriale. Ma da tempo non è più soltanto questo. Il rafforzamento di movimenti come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano ha cambiato radicalmente il quadro. Come il fatto che quei movimenti siano interni a una galassia islamista che, in ogni angolo del mondo, si riconosce nelle stesse parole d'ordine e afferma la propria identità contro gli stessi nemici (i musulmani moderati, l'Occidente corrotto e materialista, l'entità sionista, gli infedeli, a qualunque credo appartengano). In queste condizioni, pensare alle soluzioni del conflitto nei modi che erano ancora plausibili ai tempi degli accordi di Oslo non è più possibile. «Pace contro territori» è un compromesso realistico (anche se, ovviamente, difficile da imporre agli estremisti delle due parti) se i principali attori in gioco hanno scopi esclusivamente politici.

Ma diventa assai più arduo se per una delle parti in gioco (nel caso specifico, Hamas e, dietro Hamas, l'intera galassia dell'estremismo islamico mondiale) rinunciare alla distruzione di Israele significherebbe violare un tabù religioso, peccare di blasfemia. Il secondo fatto nuovo, che cambia la natura del conflitto, è dato dallo scontro per l'egemonia fra l'islam sciita guidato dall'Iran e quello sunnita. Non è un caso che, nella vicenda di Gaza, i governi arabi sunniti si siano fin qui mossi con prudenza. Nella speranza, non dichiarata, che Israele riesca a ridimensionare Hamas (gruppo sunnita ma legato all'Iran). E non è un caso, come mostra l'assenza di sommovimenti anti-israeliani in Cisgiordania, che anche Fatah, il movimento oggi guidato da Abu Mazen, speri nel ridimensionamento degli odiati «nemici-fratelli» di Hamas. Nulla di tutto ciò si spiegherebbe se i due fatti citati (l'irruzione dell'islam politico e il ruolo dell'Iran) non avessero cambiato i termini del conflitto israeliano-palestinese. Ma la rimozione incombe.

Sorprende, ad esempio, scorrere un recente intervento sul conflitto a Gaza, apparso su Repubblica, dell'ex ministro degli Esteri Massimo D'Alema, uomo informato dei fatti, e constatare che né la parola Iran né la parola jihad vi trovino posto. È come se per D'Alema nulla di sostanziale fosse cambiato nel corso degli anni: quello israeliano-palestinese viene ancora interpretato come uno scontro fra uno Stato e un movimento irredentista, un conflitto, vecchio di mezzo secolo, per il dominio territoriale in Palestina. Se non che, il conflitto israeliano-palestinese è questo ma non è più soltanto questo. A causa del carattere politico-religioso di Hamas e della volontà di potenza iraniana. Segni di rimozione appaiono anche le reazioni di certi laici nonché di esponenti di spicco della Chiesa cattolica di fronte alla preghiera di massa organizzata dalla fratellanza musulmana contro il nemico sionista (al termine di raduni in cui si bruciano le bandiere di Israele), di fronte cioè a manifestazioni che vedono impegnati i sostenitori di Hamas presenti all'interno dell'islam italiano ed europeo. Se la paura del fondamentalismo islamico può spiegare le reazioni flebili e sommesse di molti di quei laici, il caso della Chiesa cattolica, come ha mostrato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di ieri, è più complesso.

La Chiesa sembra oggi divisa fra la sua antica diffidenza (quando non si tratti di aperta ostilità: vedi le parole del Cardinal Martino su Gaza) per Israele, e la presa d'atto, ben chiara negli scritti e nei discorsi di Papa Benedetto XVI, del fatto che la violenza del fanatismo religioso sia oggi la minaccia più grave per la civile convivenza. E anche per le prospettive di pace in Palestina.

12 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I media come arma
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2009, 07:44:47 pm
LA GUERRA A GAZA

I media come arma

di Angelo Panebianco


Le polemiche innescate dai contenuti della trasmissione televisiva «Anno Zero» sulla guerra di Gaza possono aiutarci a riflettere su un aspetto cruciale di questo conflitto (come di altri che lo hanno preceduto): il ruolo dei mass media, delle televisioni in primo luogo, non come strumenti di informazione
sulla guerra ma come armi della guerra e nella guerra.

E' qualcosa che va al di là delle tradizionali forme di propaganda, più o meno pianificata, che hanno sempre accompagnato i conflitti e li accompagnano tuttora. La prima volta che si comprese appieno il nuovo (e imprevisto) ruolo attivo giocato dalle televisioni nei conflitti asimmetrici fu all'indomani della conclusione della guerra del Vietnam: si disse allora, con qualche esagerazione ma anche con qualche elemento di verità, che gli Stati Uniti avevano perso quella guerra non nelle risaie e nelle giungle dell'Indocina ma nelle case americane dove ogni sera il piccolo schermo faceva entrare le immagini delle devastazioni prodotte dai bombardamenti statunitensi.

Da allora, nessun governo o gruppo armato impegnato in una guerra ha più dimenticato che le immagini televisive e i commenti che le accompagnano sono parte integrante, non accessoria, dei conflitti, e dei conflitti asimmetrici soprattutto: è da essi che dipende lo spostamento, a favore di uno dei belligeranti, dell'orientamento delle opinioni pubbliche delle democrazie occidentali. E poiché nelle democrazie i governi devono tenere conto delle opinioni pubbliche, lo spostamento di queste ultime da una parte o dall'altra non è senza effetti internazionali: spinge o può spingere i governi delle democrazie ad esercitare pressioni diplomatiche a favore del belligerante che ha conquistato il sostegno dell'opinione pubblica.

Il caso di Gaza (una guerra che forse è ora giunta a conclusione) è da manuale. Dal punto di vista strettamente militare la disparità delle forze fra l'esercito israeliano e Hamas era massima. Hamas ha avuto quindi a disposizione, in questa guerra, soprattutto una carta e l'ha giocata fino in fondo: le vittime civili. Il calcolo era semplice: più vittime civili ci sono (e non possono non esserci vittime civili data la natura del conflitto), più i networks televisivi ne parlano, più è probabile che le opinioni pubbliche, soprattutto europee, si schierino contro Israele e che, infine, la «comunità internazionale » (leggi: le democrazie occidentali) sia costretta a tenerne conto. La contromossa israeliana (vietare l'ingresso a Gaza ai giornalisti finché durano i combattimenti) è parte della stessa logica.

Si considerino gli scopi bellici dei due contendenti. Per Israele «vincere» significava ridimensionare Hamas militarmente (mettere il gruppo in condizione di non lanciare più missili sul territorio israeliano) e politicamente (creare le condizioni per una successiva riconquista del potere a Gaza, a spese di Hamas, da parte della fazione palestinese moderata, Fatah). Per Hamas, invece, «vincere» significava sopravvivere, quali che fossero le perdite subite, essere ancora in grado di riorganizzare le forze per colpire di nuovo Israele fra qualche tempo. Come in Libano nel 2006: Hezbollah «vinse» la guerra semplicemente perché sopravvisse all'offensiva israeliana. In queste condizioni, e data questa disparità degli obiettivi dei due contendenti, usare i civili come scudi era per Hamas una necessità di guerra, il solo modo per tentare di ottenere una pressione internazionale tale da fermare Israele. Il che, dal punto di vista di Hamas, avrebbe significato vincere. Per Israele valeva la regola contraria: meno civili cadono, meno è probabile che la comunità internazionale si metta di mezzo. Per questo, la guerra è stata condotta simultaneamente in due ambiti diversi (sul terreno e sui mass media). Il contenzioso sul numero di vittime civili (ovviamente difficile da stabilire, dato che i combattenti di Hamas sono mescolati alla popolazione) diventa parte integrante della guerra. Come mostra anche il fatto che le notizie, più o meno attendibili, sui caduti civili sono, fra tutte le notizie di guerra, quelle a cui i mass media danno in assoluto più risalto.

Per i sostenitori occidentali di Israele le vittime civili sono, in parte, una tragica conseguenza della natura di questa guerra e, in parte, il frutto dell'azione deliberata di Hamas. Per gli avversari di Israele sono invece la prova della natura criminale di quello Stato. Le televisioni svolgono un ruolo nel far pendere la bilancia dell'opinione pubblica da una parte o dall'altra. Però, va subito aggiunto, a mò di correttivo, il fatto che contano anche le più generali condizioni politiche in cui si svolge il conflitto. Se il calcolo di Hamas, come sembra ora possibile, si rivelerà alla fine sbagliato non sarà perché l'arma di guerra massmediatica sia di per sé spuntata o debole, ma perché essa è stata neutralizzata, almeno in parte, dall'atteggiamento prudente tenuto per tutta la durata del conflitto dai governi arabi (spaventati dall'alleanza fra Hamas e l'Iran) e dalla ostilità dei palestinesi di Abu Mazen per Hamas. Insieme alla compattezza della società israeliana nel sostenere l'azione del proprio esercito e all'efficacia di quella stessa azione (niente a che vedere con quanto avvenne in Libano nel 2006), questi fattori hanno giocato un ruolo importantissimo nella guerra. Hanno impedito o ritardato uno spostamento massiccio, «a slavina», delle opinioni pubbliche occidentali a favore di Hamas.



18 gennaio 2009
DA corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Logorare stanca
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2009, 11:20:54 am
IL PD E LE CORRENTI

Logorare stanca


di Angelo Panebianco


I partiti correntizi, le cui leadership si reggono su coalizioni di correnti interne, hanno una naturale tendenza all'immobilismo. I capicorrente hanno interesse a che il leader non si rafforzi troppo e giocano a frenarne le iniziative. Nel Partito democratico si sta riproducendo lo stesso schema che abbiamo già visto in azione prima delle elezioni, un anno fa, all' epoca del dialogo (poi fallito) fra Veltroni e Berlusconi sulla riforma della legge elettorale.

Allora, i capicorrente si diedero da fare per far fallire un progetto di riforma - la proposta Vassallo/Ceccanti - che, se attuato, avrebbe rafforzato il peso parlamentare dei due grandi partiti e, per conseguenza, anche il peso politico dei rispettivi leader (di Veltroni nei confronti dei suoi capicorrente, di Berlusconi nei confronti dei suoi alleati). Oggi la storia si ripete, identica. Un accordo fra Partito democratico e Popolo della Libertà prevede uno sbarramento del quattro per cento alle elezioni europee. E' stato stipulato da Veltroni con il preventivo consenso dei capicorrente del suo partito.

Ma adesso, quegli stessi capicorrente si sono messi al lavoro per sabotarlo dando ascolto alle proteste dei piccoli partiti di estrema sinistra. Che i piccoli partiti strillino è naturale e, dal loro punto di vista, legittimo. Ma perché i capicorrente del maggior partito di opposizione si preoccupano di quegli strilli? Per due ragioni. La prima, tipica dei partiti di corrente, è il loro interesse a che il segretario resti politicamente debole in attesa del momento in cui sarà possibile sostituirlo. La seconda ragione è che tendendo una mano ai piccoli partiti essi intendono anche dare la botta finale alle velleità maggioritarie del segretario. Si tratta di seppellire definitivamente la veltroniana «vocazione maggioritaria» e tornare alle «vaste alleanze» del tempo che fu.

Lo stesso schema vale per ogni materia in cui esista la possibilità di accordi ragionevoli fra la maggioranza e il Partito democratico. Vale, ad esempio, per la giustizia. Di Pietro, da solo, non avrebbe la forza di far fallire un accordo fra Berlusconi e Veltroni ma i capicorrente del Partito democratico possiedono quella forza. Vale, come si è visto, per la riforma dei contratti di lavoro: la spaccatura fra la Cgil e gli altri sindacati si è subito tradotta in una divisione dentro il partito, con Veltroni a favore dell'accordo e D'Alema e Bersani contrari, insieme alla Cgil. Ci sono due problemi, però.

E' vero che «logorare il segretario fingendo di sostenerlo» è una tecnica antica, tipica dei partiti di corrente (nella vecchia Dc veniva usata continuamente) ma, nel caso del Partito democratico, la sua condanna all'immobilismo a causa dei poteri di veto interni, la sua conseguente incapacità di giocare un ruolo nazionale contrattando con la maggioranza accordi su materie cruciali, non si risolvono solo in un logoramento del segretario ma anche del partito nel suo complesso. E' vero, inoltre, che la posta in gioco riguarda la politica delle alleanze.

Ma se il progetto veltroniano condensato nello slogan «partito a vocazione maggioritaria» è fallito o langue, non è detto che il progetto alternativo - un'alleanza che si estenda dal «centro» di Casini ai residui frammenti della vecchia sinistra comunista - possa dimostrarsi più realistico, oltre che di superiore appeal.


02 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Quel silenzioso terzo partito
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2009, 11:53:39 am
POLITICA E CASO ENGLARO

Quel silenzioso terzo partito

di Angelo Panebianco


Proviamo a riprendere fiato. Il conflitto fra i difensori del «diritto alla libertà di scelta» e i difensori della «sacralità della vita» è degenerato nel modo in cui sappiamo. La violenza dello scontro ha coinvolto le istituzioni al massimo livello e ha spaccato il Paese. Due partiti nemici (si badi: ho detto nemici, non avversari) si fronteggiano e nessuno sa come andrà a finire. Come sempre in questi casi, è scattato, nei due campi, l'ordine di mobilitazione generale, la militarizzazione delle coscienze è in corso, e la consegna, per le opposte schiere, è di non fare prigionieri. Eppure, nonostante la violenza del conflitto, e la polarizzazione che l'accompagna, non è così facile (come vorrebbe farci credere la propaganda dei due contrapposti partiti) spazzare via i dubbi che le persone di buon senso, quali che siano le loro convinzioni morali, devono per forza nutrire di fronte a una vicenda come quella di Eluana. Anche se non è detto che i protagonisti ne abbiano piena contezza, l'intrattabilità politica del tema trova una eco nei «trasversalismi » e in certe contorsioni che si manifestano in queste ore nell'arena pubblica.

Se il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, sceglie di non seguire il leader dello schieramento cui appartiene, aprendo così una frattura difficilmente ricomponibile, ecco che Antonio Di Pietro, l'arcinemico di Berlusconi, dichiara di dare libertà di coscienza ai suoi parlamentari sul provvedimento del governo, ammettendo così implicitamente il proprio accordo con la scelta del premier di tenere in vita Eluana. E si noti che anche alcuni settori del Pd sono orientati a votare a favore. Ormai le cose si sono spinte troppo in là, è troppo tardi per fermare il processo che si è messo in moto ma è giusto per lo meno dare testimonianza del fatto che, oltre ai due partiti che si scontrano, ne esiste anche un terzo, per lo più silenzioso, e che, comunque vada la vicenda, è già stato sconfitto. È il partito di chi pensa che la Politica, la Democrazia, il Diritto, e tutte le altre più o meno utili astrazioni che siamo soliti invocare per imporre faticosamente un minimo di ordine nella vita associata dovrebbero essere tenute fuori dalla porta al di là della quale sono in gioco, come in questo caso, le questioni ultime dell'esistenza. È il partito di chi pensa che occorrerebbe coltivare, nella riservatezza e nella discrezione, una zona grigia, protetta da una necessaria ipocrisia, nella quale le decisioni sul caso singolo (sempre diverso, almeno per qualche aspetto, da qualunque altro caso singolo) restano affidate alla sensibilità e alla pietas del medico che ha in cura il malato e ai sentimenti delle persone che lo amano. Che è quanto si è sempre fatto, checché ne dicano certi sepolcri imbiancati. È il partito di chi pensa che quelle situazioni debbano essere sottratte al clamore delle «battaglie di principio». Condivido quanto ha detto Emanuele Severino (sul Corriere di ieri): a scontrarsi sono due forme di violenza. I due partiti millantano certezze assolute che, su questa terra almeno, a nessuno è dato di possedere.

Fa francamente effetto (e non è un bell'effetto) vedere, nei telegiornali, le opposte fazioni mobilitate e schierate, a Udine e in altri luoghi, l'una a difesa della vita di Eluana e l'altra a difesa del suo diritto a morire. Credo che, in queste ore, nessuno incarni lo spirito dei due partiti contrapposti meglio di Marco Pannella e di Giuliano Ferrara, due uomini stimabilissimi per il coraggio, la passione e l'onestà intellettuale con cui difendono le cose in cui credono. Schierati sugli opposti lati della barricata Pannella e Ferrara hanno tuttavia una cosa in comune: credono entrambi che tocchi alla legge, e alla democrazia che fa le leggi, il compito di imporre la soluzione. Per il diritto del singolo a scegliere, sempre e comunque (Pannella). Per l'intangibilità della vita, sempre e comunque (Ferrara). Anche se la differenza è che, per Ferrara, l'intervento del Parlamento dovrebbe essere la risposta di emergenza a una sentenza emessa in assenza di legge. Spiacente ma sono in disaccordo con entrambi. Deploro fortemente la giuridicizzazione (e l'inevitabile politicizzazione che l'accompagna) di questioni come questa. La legge è uno strumento che gli uomini hanno inventato per ridurre l'arbitrio, per trattare in modo il più possibile simile casi simili. Le «buone» leggi (non sempre le leggi sono buone) rappresentano effettivamente un utile strumento, ancorché imperfetto, per favorire uguali trattamenti e affermare principi universalistici in molte situazioni.

Ma non credo affatto che una legge possa davvero regolare le questioni-limite di cui qui parliamo. Data l'estrema variabilità dei casi, e le profonde, irriducibili, differenze fra le persone, una legge che offre una buona soluzione per un caso può risolversi in una intollerabile forma di violenza in un altro caso. D'altra parte, dire leggi significa dire tribunali. Proprio il caso di Eluana mostra quanta fragilità, quante incongruenze, quante contorsioni, siano contenute nelle sentenze dei tribunali su vicende come la sua. Lo stesso discorso vale per la democrazia. Con tutte le sue brutture e volgarità, è pur sempre la migliore forma di governo, dal momento che consente di risolvere le controversie senza spargimenti di sangue, con il voto anziché con le armi. Da qui però ad affidarle le decisioni sulla vita e sulla morte ce ne corre, o ce ne dovrebbe correre assai. Parlamenti e tribunali, insomma, dovrebbero essere tenuti lontani da queste cose, a conveniente distanza di sicurezza. Certo, i progressi della medicina modificano continuamente le situazioni e la politica subisce un'inevitabile pressione a intervenire. E può anche accadere, in qualche caso, che un Parlamento riesca a sfornare una legge (ci credo poco, ma l'eventualità non può essere scartata a priori) che rappresenti un buon punto di equilibrio fra opposte, e forse ugualmente rispettabili, esigenze. Se non c'è verso di tenere le grinfie dello Stato, ancorché democratico, lontano dalle questioni estreme, che almeno si evitino gli eccessi. La politicizzazione della morte è il misfatto più grave che una democrazia possa commettere.

09 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I confini della politica
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2009, 06:20:46 pm
La legge sul fine vita

I confini della politica


di Angelo Panebianco


La frittata è fatta. Non c'è modo di tornare indietro. Lo scontro sui contenuti della legge che deve, con delicato linguaggio burocratico, «regolamentare il fine vita » dilanierà il Paese per molti anni. Forse era inevitabile. Come poteva un Paese iper politicizzato come il nostro non arrivare, prima o poi, a politicizzare anche la morte? Resta da sapere come verrà, alla fine, regolamentato il fine vita, se con la legge voluta dai neo guelfi o con il referendum contro la legge brandito dai neo ghibellini.
L'aspetto più impressionante della feroce disputa in atto è l'esibizione, da parte dei vari esponenti delle due fazioni, di certezze, oltre che di muscoli. Una volta tolti dal mazzo coloro che sono di tempra troppo debole per essere in grado di coltivare il dubbio, che dire degli altri? Come possono esibire certezze in una materia che per sua natura non le ammette? Pur con le dovute eccezioni, molti, mi sembra, stanno esibendo certezze per ragioni politico- strumentali. Come sempre accade quando una questione viene politicizzata, essa entra nel tritacarne delle logiche di schieramento. La questione del fine vita è ora diventata un'altra posta in gioco nel conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani: un conflitto transitorio, contingente, che tuttavia, nel caso in questione, va a incastrarsi in una divisione antica, quella fra guelfi e ghibellini.

Due madornali errori di valutazione, a me pare, sono stati commessi da chi ha voluto gettare fra i piedi del Paese una questione di tale portata. Il primo è stato di avere sopravvalutato le capacità della democrazia di gestire questo problema. La democrazia può occuparsi di tutto, tranne che dell'essenziale (le questioni della vita e della morte, appunto). Non è attrezzata per fronteggiare un conflitto filosofico radicale fra opposte concezioni della vita.

I fautori della «sacralità della vita», i neo guelfi, sbagliano di grosso a volere imporre per legge a tutti i loro valori (la sacralità della vita è un concetto privo di senso per chi non crede in Dio). Facendo ciò essi attentano a quel pluralismo degli orientamenti di cui solo può vivere una società liberale. Ma sbagliano anche i fautori della «libertà di scelta». Costoro la fanno troppo semplice, banalizzano in maniera inaccettabile il problema. Non è vero che essi si limitano a rivendicare un «diritto» che i credenti sono liberi di non praticare. Perché pretendendo una legge che riconosca quel diritto essi, per ciò stesso, intendono fare prevalere la loro concezione della vita e della morte, imporre il principio secondo cui la decisione sulla morte di un uomo è nell'esclusiva e libera disponibilità di quell'uomo. Un principio che non può non ripugnare ai fautori della diversa e opposta concezione.

Non è un caso che anche nelle società più liberali, dove i diritti di libertà sono più solidi (e più rispettati che da noi), su questi temi possano esplodere conflitti micidiali. Non stiamo parlando di un diritto qualitativamente simile ai più tradizionali diritti di libertà. Proprio perché la democrazia non è fatta per fronteggiare conflitti filosofici di questa portata, sia le prassi ispirate al principio della sacralità della vita sia quelle ispirate al principio opposto della libertà di scelta, dovevano (come si è sempre fatto) rimanere «al di qua» dello spazio pubblico, affidate al silenzio, agli sguardi e alle parole a mezza bocca scambiate fra i medici e gli assistiti o fra i medici e le persone affettivamente vicine agli assistiti. In un precedente intervento («Quel silenzioso terzo partito », Corriere del 9 febbraio) avevo parlato dell'importanza di preservare una zona grigia protetta (così mi ero espresso) da una «necessaria ipocrisia». Qualche amico, pur favorevole alle mie tesi, ha criticato l'uso del termine ipocrisia. Penso invece che fosse appropriato. In queste questioni l'ipocrisia non è, come si suole dire, una manifestazione del vizio che rende omaggio alla virtù. È essa stessa virtù. È la virtù grazie alla quale si possono cercare empiricamente (al riparo dai riflettori) soluzioni atte a ridurre le sofferenze dei malati senza offendere la sensibilità e le credenze delle persone coinvolte. Contemporaneamente, è la virtù che consente di non trasferire nella pubblica piazza ciò che non è assolutamente idoneo ad essere esposto in piazza.

Il secondo micidiale errore è stato quello di credere che solo la «legge» possa salvarci dall'arbitrio, dei medici o di chiunque altro. È un effetto di quell'ideologia italiana che assume che tutti i problemi debbano avere una soluzione «giuridica». È il riflesso di un Paese schizofrenico che, da un lato, ha della legge una visione cinica («la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici», recita il detto) e, dall'altro, non sa evitare di farne un feticcio. Ma in un ambito come quello qui considerato la legge non riduce l'area dell'arbitrio. Anche ammesso, e non concesso, che possa eliminare le forme di abuso fin qui forse praticate, essa ne genera comunque altre. La legge è uno strumento troppo grossolano, troppo rozzo: pretendendo di imporre uguale trattamento in casi diversissimi, essa crea, più o meno involontariamente, le condizioni per nuovi arbitrii.

Senza contare che la legge, di sicuro, è il luogo più inadatto, più inospitale, per depositarvi visioni ultime della vita. Checché ne pensino i feticisti della legge, ci sono molte più cose in cielo e in terra di quante non ne possano contenere i loro codici e i loro commi. Qui siamo dunque, purtroppo. E non ne usciamo. Due ragioni, o due torti, si fronteggiano. Il problema verrà affrontato a colpi di maggioranza (e nessuno, per favore, se ne lamenti: è la democrazia, bellezza). Vorrà dire che faremo l'alternanza, a seconda di chi vince e di chi perde le elezioni, anche delle concezioni della vita e della morte. Davvero un bel risultato.


23 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Usa, i pericoli del nuovo corso
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2009, 06:18:39 pm
LA STRATEGIA ANTICRISI DI OBAMA

Usa, i pericoli del nuovo corso


di Angelo Panebianco


No, we cannot. L'inquietudine e le preoccupazioni per i primi passi dell'Amministrazione Obama, per il modo in cui il nuovo Presidente americano sta reagendo alla crisi economica, crescono fra gli osservatori. Tutti sappiamo che le decisioni dell'America ci riguardano, che la crisi mondiale, là cominciata, può finire solo se l'America farà le scelte giuste contribuendo a ricostituire la fiducia perduta dei mercati e ponendo le condizioni per il rilancio, in tutto il mondo, della crescita. Il dubbio che serpeggia è che il nuovo Presidente possa non rivelarsi all'altezza, che la Presidenza Obama possa un domani, quando verrà il momento dei bilanci, mostrare di avere qualcosa in comune con l'Amministrazione (repubblicana) di Herbert Hoover, la quale, con le sue scelte sbagliate, aggravò la crisi seguita al crollo di Wall Street del 1929.

Certo è che fin qui i mercati hanno reagito con scetticismo o addirittura negativamente a tutti gli annunci e a tutte le decisioni prese dall'Amministrazione. Ciò nonostante, Obama sembra deciso a pagare le cambiali contratte in campagna elettorale con la sinistra americana: piano sanitario nazionale, rivoluzione verde, massicci investimenti pubblici, tasse più elevate per gli alti redditi. La dilatazione della spesa pubblica implica un cambiamento epocale, il passaggio a una fase di forte presenza statale nella vita economica e sociale americana. Ma è proprio quella la ricetta giusta per rassicurare i mercati e rilanciare consumi e investimenti? Se lo sarà, la Presidenza Obama risulterà un successo e non solo l'America ma tutto il mondo ne verranno beneficiati. Altrimenti, la crisi si aggraverà e ci vorranno molti più anni di quelli che oggi gli esperti prevedono per uscirne. Nell'attesa, possiamo però già valutare alcune conseguenze che la crisi, e le prime risposte dell’Amministrazione Obama, stanno determinando in tutto il mondo.

Tramonta rapidamente l'immagine di un'America che doveva il suo grande dinamismo alla valorizzazione massima dell'iniziativa individuale e che, come tale, si proponeva quale modello da imitare per le altre società. Se anche l'America «sceglie» lo Stato, il massiccio intervento pubblico, cosa possono fare quelle società che hanno sempre avuto una fiducia assai minore nelle virtù dell'individualismo, nelle benefiche conseguenze collettive della valorizzazione della libertà individuale? Due aspetti delle risposte, pur fra loro assai differenziate, che i governi, americano ma anche europei, stanno dando alla crisi, dovrebbero essere attentamente valutate. Il primo riguarda la pericolosa rotta di collisione che, in situazione di crisi, può determinarsi fra le ragioni dell'economia e quelle della democrazia. La logica economica, in queste situazioni, può entrare in conflitto con la logica politica.

I governi prendono decisioni volte a rassicurare l'opinione pubblica e a sostenere, con politiche pro-occupazione e misure di segno egualitario (più tasse sui ricchi), il consenso nazionale, decisioni che tuttavia possono aggravare o prolungare nel tempo la crisi. Blandire Main Street (l'uomo della strada) scaricandone tutti gli oneri su Wall Street può essere un'ottima mossa politica nel breve termine, ma i costi di medio e lungo termine potrebbero rivelarsi assai elevati. Il secondo aspetto riguarda gli effetti sugli atteggiamenti culturali diffusi. Nel momento in cui si radica l'idea secondo cui il mercato è il «Dio che ha fallito», si afferma per ciò stesso la pericolosa illusione che la salvezza possa venire solo dallo Stato. Si dimentica il fatto essenziale che tanto il mercato quanto lo Stato, in quanto istituzioni umane e per ciò imperfette, possono fallire ma che i fallimenti dello Stato sono in genere assai più catastrofici di quelli del mercato. Quando il mercato fallisce provoca grandi, ancorché temporanee, sofferenze (disoccupazione, drastica riduzione del tenore di vita delle persone, povertà).

I fallimenti dello Stato, per contro, si chiamano compressione delle libertà (sempre), oppressione politica (spesso) e, nei casi estremi, tirannia e guerre. Oggi, i Robin Hood di tutto il mondo (i nostri, i Robin Hood italiani, sono addirittura entusiasti) lodano Obama che toglie ai ricchi per dare ai poveri. Finalmente, come si sente continuamente ripetere, lo «strapotere del mercato» è finito. Dimenticando che quello «strapotere» ci ha dato decenni di crescita economica impetuosa con molte ricadute virtuose in ambito politico (si pensi a quanto si è diffusa e radicata nel mondo la forma di governo democratica). Tornare all'epoca dello «strapotere dello Stato» è certo un'idea attraente per coloro che detestano il mercato, e la competizione che ne è l'essenza. Ma che succede se lo strapotere dello Stato impedisce di rilanciare la crescita, e ci fa precipitare in un mondo di conflitti neo-protezionisti? Lo sceriffo di Nottingham sarà pure stato sconfitto ma non resterà, a quel punto, abbastanza bottino per sfamare i poveri.

01 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il mercato nell'angolo
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2009, 05:16:17 pm
IL CASO PREFETTI

Il mercato nell'angolo


di Angelo Panebianco

La decisione, da ricondurre soprattutto alla volontà del ministro del Tesoro Giulio Tremonti, di affidare ai prefetti il monitoraggio sulle attività del credito ha i caratteri delle decisioni importanti: per i suoi aspetti simbolici e per i suoi presumibili effetti pratici. Lasciamo da parte gli aspetti più contingenti collegati a quella decisione: la rivalità fra Tesoro e Bankitalia, la scontata opposizione dei banchieri, eccetera.
Non è possibile comprendere il senso della decisione senza inquadrarla nella più generale azione intrapresa dal ministro Tremonti e senza tener conto del rapporto fra la posizione culturale che Tremonti ha autonomamente elaborato (e che, grazie al suo ruolo politico e istituzionale, è ormai un pezzo importante della «identità» del centrodestra) e le quotidiane decisioni che egli assume in qualità di massima autorità di governo dell' economia. Il ministro del Tesoro, infatti, è portatore di una visione, indubbiamente coerente, sullo stato del mondo nella congiuntura presente e di idee (fino ieri giudicate dai più non ortodosse, forse anche bizzarre) su come l'Occidente dovrebbe agire per fronteggiare una crisi che, per lui, è morale prima che economica. E' ovvio che ci sia un rapporto fra quella visione (articolata da Tremonti, oltre che in altri luoghi, nel libro «La paura e la speranza») e le decisioni prese. Certo, senza calcare troppo la mano sulla cogenza di quel rapporto, dal momento che, ovviamente, un ministro prende le sue decisioni sulla base dei vincoli e degli stimoli che la realtà gli impone. Ma un rapporto fra le due cose (la visione e le decisioni), benché allentato e mediato, comunque c'è.
Per quanto riguarda le decisioni del ministro (quella sui prefetti a parte), al netto delle opposte propagande, sembra convincente la tesi di molti osservatori neutrali, secondo cui Tremonti si è mosso fin qui con equilibrio, adottando una linea di azione che mira a tamponare gli aspetti più gravi della crisi tenendo però conto dei vincoli che gravano sul Paese a causa del debito pubblico. Ciò che l'opposizione giudica colpevole inazione sembra piuttosto il frutto di un calcolo in base al quale la massima prudenza è necessaria per camminare sull'orlo dell' abisso senza precipitarvi dentro. Né sembra sbagliata la tesi di Tremonti secondo cui una crisi mondiale da indebitamento ha poche probabilità di essere curata facendo ancor più debiti. Si tratta di un' implicita critica (che mi pare condivisibile) alle scelte dell'Amministrazione Obama e uno stop anticipato a chi vorrebbe, a casa nostra, fronteggiare la crisi dilatando ulteriormente il debito.
Il problema vero, a me pare, sta, più che in molte delle decisioni fin qui prese, nella visione di Tremonti e negli effetti a lungo termine che essa può esercitare sul futuro del Paese.
Fulcro di quella visione è l'idea che il primato del mercato abbia condotto il mondo occidentale in un vicolo cieco, in una crisi morale e ora anche economica, e che occorra ristabilire il primato della politica attraverso regole dotate di forte caratura etica, al servizio del bene comune. Il rifiuto dell'idea che i mercati abbiano capacità di autoregolazione e che perciò sia necessaria una forte guida politica è ben illustrato dalla polemica di Tremonti contro gli «economisti » e dalla contestuale rivalutazione dei «giuristi». Tremonti ha cercato, oltre che in altri luoghi culturali, in una corrente liberale, l'ordoliberalismo della scuola di Friburgo (un gruppo di economisti e giuristi tedeschi di ispirazione liberale attivi nella prima metà del secolo scorso) i suoi referenti. E' la scuola a cui si ispira la cosiddetta «economia sociale di mercato». Essa combina meriti e una potenziale ambiguità.
L'ambiguità sta nel fatto che, nell'economia sociale di mercato, l'accento può cadere, a seconda delle circostanze, sul sostantivo mercato oppure sull'aggettivo sociale. Se cade sul mercato, ne deriva che lo Stato (come nell'ispirazione originaria della scuola di Friburgo) deve limitarsi a porre regole che consentano al mercato di autoregolarsi senza produrre effetti «tossici». Se invece l'accento cade sul «sociale », allora la politica è chiamata a svolgere, tramite le sue regole (il diritto) un ruolo assai più attivo, di controllore diretto. C'è insomma il rischio di dare vita a uno Stato interventista che spazzi via l'autonomia del mercato. Era questa la sostanza della polemica insorta nel 1949 entro la Mont Perelin Society (una celebre associazione di studiosi liberali) fra l'economista austriaco Ludwig von Mises e l'esponente dell'ordoliberalismo Walter Eucken.
In ogni caso, è questo il problema italiano. Nella nostra situazione, infatti, ciò che Tremonti chiama «mercatismo» ha goduto solo di un'effimera popolarità in tempi recenti. Noi veniamo da una tradizione di controllo statale sull'economia. Anche la Costituzione non è una solida barriera. I costituenti erano anch'essi antimercatisti. Al punto di negare alla libertà economica, per la costernazione dei liberali, la qualifica di diritto fondamentale di libertà (la libertà economica è per la Costituzione solo un «interesse legittimo», subordinato alle più generali esigenze politiche e sociali). E' questa anche la ragione per cui l'appello da parte dell'opposizione alla Costituzione contro l'uso dei prefetti (lo ha notato Alberto Mingardi sul
Riformista) è un'arma spuntata.
Non è sorprendente, allora, che Antonio Di Pietro sia favorevole alla scelta di Tremonti: vi vede una possibilità di commissariamento indiretto dell' economia non incompatibile con la sua visione da sempre favorevole, sulla scia dell'esperienza di Mani Pulite, a un forte interventismo delle procure nella vita economica. L'elemento accomunante è la sfiducia nell'autonomia e nella capacità autoregolativa dei mercati.
E' possibile che nel breve termine molte scelte del ministro Tremonti si rivelino appropriate per fronteggiare l'emergenza. Una volta superata la crisi mondiale, nel lungo termine, il rischio è che l'eredità lasciata al Paese consista più in un ritorno agli antichi vizi che nell'acquisizione di nuove virtù. Al di là e contro, certamente, le reali intenzioni di Tremonti.


16 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Se l'Occidente è più debole
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2009, 11:22:10 am
DIRITTI UMANI E GIOCHI DEL MEDITERRANEO


Se l'Occidente è più debole


di Angelo Panebianco


Quando la crisi economica sarà superata il mondo ci apparirà assai cambiato. Si modificheranno gli equilibri di potenza fra aree geografiche e fra Stati. E i mutamenti nella distribuzione del potere avranno ripercussioni su tanti aspetti della vita degli abitanti del pianeta. L'esito più probabile è un ridimensionamento, sia pure relativo, del peso politico del mondo occidentale nelle vicende internazionali, una riduzione della sua capacità di imporre i propri valori, le proprie concezioni, le proprie istituzioni. Una vittima illustre sarà probabilmente quel «regime dei diritti umani» affermatosi, sia pure in modo lento, tortuoso e imperfetto, dopo il 1945, nell'epoca della Pax Americana: un'epoca in cui il primato politico americano traeva, pur con una elaborazione originale, nutrimento e forza dalle influenze di una più antica cultura europea. In anni recenti, dominati da diffusi risentimenti nei confronti degli Stati Uniti, si è spesso dimenticato quanto stretto fosse quel collegamento. Ma tanto la nascita delle Nazioni Unite quando la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (gli eventi che hanno dato impulso a tutte le successive iniziative per la promozione dei diritti dell'uomo) non furono frutti del caso ma della visione e della volontà degli Stati Uniti.

Roosevelt progettò l'Onu ispirandosi a quella Società delle Nazioni voluta alla fine della prima guerra mondiale da un altro Presidente americano: Woodrow Wilson, portabandiera di un internazionalismo democratico nutrito di utopia che non nascondeva il suo debito verso la migliore cultura liberale europea. A sua volta, la Dichiarazione universale del '48 sarebbe stata impensabile se non fosse stata preceduta e ispirata da documenti che hanno fatto la storia dell'Occidente moderno, dalla Dichiarazione di indipendenza americana alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino della Rivoluzione francese. Il giusnaturalismo cristiano, il costituzionalismo liberale, le rivoluzioni democratiche occidentali sono le vere fonti di quell'insieme, nutritissimo, di norme e istituzioni che dopo il '45, al riparo della potenza americana, si è sviluppato al fine di offrire qualche protezione alle persone contro la tirannia. Cosa resterebbe di quelle norme e di quelle istituzioni nel momento in cui il primato americano venisse meno e, più in generale, ciò che siamo soliti chiamare Occidente vedesse drasticamente ridimensionata la propria capacità di influenza? L'indebolimento relativo del mondo occidentale, sul piano economico, era già in atto da tempo. Negli ultimi anni si è tanto discusso dello spostamento verso l'Asia del potere economico mondiale. L'incertezza riguardava solo i tempi. La crisi potrebbe accelerare il processo. Gli indizi non mancano. Da un lato, la comunità euro- atlantica vive un momento assai difficile, esemplificato dalle divergenze fra l'Amministrazione americana e i principali governi europei su diagnosi e terapie per affrontare la crisi economica.

Al G20 di Aprile, probabilmente, un qualche compromesso verrà trovato (per tenere buoni i mercati) ma la divisione c'è e l'America non dispone di risorse di leadership tali da poter imporre agli europei le proprie soluzioni. Per giunta, gli europei stessi sono divisi: alcuni cercano, all'interno di una formale unità di intenti (come ha osservato André Glucksmann sul Corriere di ieri), di trovare da soli la via alla salvezza. Dall'altro lato, sembra chiaro che se la crisi verrà superata moltissimo si dovrà al cosiddetto G2, alla capacità di Stati Uniti e Cina di coordinare fra loro le misure anticrisi. Superata la crisi, potremmo trovarci con un'America almeno in parte politicamente ridimensionata, un'Europa ulteriormente indebolita e forse anche più divisa, e una grande potenza autoritaria ormai detentrice della co-partnership nel governo degli affari mondiali. Che accadrebbe ai diritti umani? Con una Cina autoritaria che uscisse rafforzata dalla crisi o anche con una Russia semi-autoritaria che consolidasse ulteriormente la sua capacità di ricatto energetico nei confronti dell'Europa, crescerebbe il tasso di ipocrisia a cui dovremo adattarci: Tibet, quale Tibet? Omicidi di Stato in Russia? Ma quando mai? Peraltro, abbiamo già prove abbondanti di cosa succede alle istituzioni dei diritti umani quando l'egemonia occidentale si indebolisce. È un po' ciò che accade a una democrazia quando al suo interno agisce un partito totalitario: esso usa le libertà democratiche per scavare la fossa alla democrazia.

Le istituzioni dei diritti umani cambiano segno se l'Occidente ripiega. Accadde alla Conferenza Onu contro il razzismo di Durban del 2001, trasformata in una manifestazione di razzismo antisemita da tirannie islamiche e africane. Sarebbe successo di nuovo nella prossima Conferenza sul razzismo di Ginevra se la reazione americana prima e italiana poi non avessero spinto anche i più riluttanti fra i Paesi europei a imporre cambiamenti radicali del testo che la Conferenza sarà chiamata ad approvare. Per inciso, c'è un altro caso, che ci riguarda da vicino, in cui l'azione dei nemici dei diritti umani si manifesta: quei Giochi del Mediterraneo che si terranno a Pescara fra un paio di mesi e dai quali i fautori arabi della distruzione di Israele ne hanno ottenuto l'esclusione. Il ministro degli esteri Frattini, che ha avuto grandi meriti nell'azione per impedire una Durban 2, sostiene, con rammarico, che non è più possibile fermare la macchina dei giochi. Forse non è più possibile ma sarebbe stato necessario muoversi per tempo. Una luce assai sinistra illuminerà quei giochi dal primo giorno all'ultimo. Contro la convinzione di chi pensa che la storia proceda in modo inesorabile, non c'è ragione per credere che i diritti umani siano destinati ad affermarsi sempre più. Ci sono invece ragioni per credere il contrario. Figli della cultura occidentale, i diritti umani, come la democrazia politica, sono legati al destino dell'Occidente, ne seguono e ne seguiranno la parabola.

23 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La lunga partita a tre
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2009, 09:15:10 am
La lunga partita a tre


di Angelo Panebianco


L'identità del nuovo partito, del Popolo della Libertà, è risultata chiaramente definita nel discorso con cui il premier Silvio Berlusconi ha concluso i lavori del congresso. Nonché nel dialogo che Berlusconi ha pubblicamente intavolato con l'altro protagonista dell'evento, il presidente della Camera Gianfranco Fini, a proposito della riforma della Costituzione. Chi pensa che il Popolo della Libertà sia solo una Forza Italia allargata ad An forse sbaglia. C'è una differenza essenziale (sul piano simbolico-identitario ma con inevitabili ricadute politiche) fra Forza Italia dal 1994 in poi e il neonato partito. Forza Italia, così come Berlusconi volle all'inizio e come ancora ribadì nella campagna elettorale del 2001, era (simbolicamente) il partito della «rivoluzione liberista»: meno tasse, meno Stato, più liberalizzazioni, più libertà di impresa. Il Popolo della Libertà si configura invece (sempre simbolicamente, ben inteso) come il partito della «riforma dello Stato»: della Costituzione, della pubblica amministrazione, eccetera.

È vero che la riforma dello Stato era comunque un elemento ben presente nell'identità di Forza Italia (Berlusconi parlava già nel 1994 di riforma dello Stato). Ed è ugualmente vero che il suo precedente governo diede vita a una profonda riforma della Costituzione poi bocciata dagli elettori in un referendum. Ma è anche vero il fatto che la riforma della Costituzione e dello Stato veniva allora invocata come strumento per una più efficace realizzazione della promessa rivoluzione liberista. Era quest'ultima la meta finale, era quest'ultima la vera ragion d'essere di Forza Italia (ricordate lo slogan «meno tasse per tutti»?) così come il suo leader la proponeva agli italiani. Non è più così nel Popolo della Libertà. La rivoluzione liberista è andata definitivamente in soffitta. E non solo perché questi tempi di crisi registrano ovunque il prepotente ritorno dello Stato. Il cambiamento era in atto da tempo. La campagna elettorale di Berlusconi nel 2008 era già molto diversa dalle sue campagne precedenti. A fare da apripista, in larga misura, era stato l'attuale ministro del Tesoro Giulio Tremonti che già da tempo proponeva una visione dei rapporti fra Stato e mercato assai lontana dal liberismo (o liberalismo economico) delle origini. Scomparsa la rivoluzione liberista, resta, e diventa costitutiva dell'identità del nuovo partito, la riforma dello Stato.

Da mezzo, da strumento, la riforma dello Stato diventa il fine. Non è casuale che Renato Brunetta sia stato il ministro più applaudito dal congresso. Come non è casuale che gran parte dell'intervento di Berlusconi abbia riguardato i temi della Costituzione, della pubblica amministrazione, della scuola, dell'università, dei servizi pubblici in genere. E, naturalmente, l'identificazione del Popolo della Libertà con la riforma dello Stato è rafforzata dal fatto di essere esso il «partito del governo», la forza di sostegno dell'azione quotidiana dell'esecutivo, nonché dei suoi progetti futuri. Si sono sprecati in questi giorni i confronti fra la Dc e il Popolo della Libertà ma si dimentica una differenza simbolica essenziale: la Dc era il gestore/custode della Costituzione e dello Stato, il Popolo della Libertà si presenta come il campione del cambiamento costituzionale e statuale. Né potrebbe essere altrimenti, essendo proprio di tutte le leadership carismatiche proporre radicali cambiamenti, mai la tranquilla gestione dell'esistente. Poi, simboli e identità a parte, c'è, naturalmente, la politica. Osservando la politica si può forse essere scettici sulla possibilità di una «stagione costituente». Richiederebbe, come ha giustamente sostenuto Fini e come Berlusconi (ma con molti distinguo) gli ha concesso, il coinvolgimento dell'opposizione.

Ma, nonostante le aperture di Massimo D'Alema, è dubbio che l'opposizione possa essere alla fine disponibile. Se non altro perché, essendo gran parte degli elettori del centrosinistra affezionata, oggi come nel '94, allo schema «Berlusconi uguale autoritarismo», difficilmente il Partito democratico potrebbe mettere la propria firma su una riforma della Costituzione che (come vuole Berlusconi) avesse, tra i suoi elementi qualificanti, il rafforzamento dei poteri del capo del governo. Più che al rapporto fra maggioranza e opposizione sarà dunque alla dialettica fra Berlusconi, Fini e Bossi che occorrerà guardare per capire se e in che misura le affermazioni di principio e le rivendicazioni identitarie di oggi avranno effetti, e quali, sulla fisionomia dello Stato democratico di domani.

30 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. IL NORD TRA PDL E LEGA
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2009, 09:33:36 am
IL NORD TRA PDL E LEGA

Che cosa chiede la classe media


di Angelo Panebianco


Come conferma­no le tensioni di questi giorni (de­creto sicurezza, questione del referen­dum sulla legge elettora­le) il vero tallone d'Achil­le dell'altrimenti fortissi­mo governo Berlusconi è dato dalla rivalità fra la Lega e il Popolo della li­bertà: una rivalità la cui posta, come si sa, è l'ege­monia sul Nord e, in par­ticolare, sul Lombar­do- Veneto. In questa lot­ta per l'egemonia la parti­ta che davvero conta ri­guarda la questione della rappresentanza politica di un insieme di ceti, so­ciologicamente assai arti­colati al loro interno, che un tempo si sarebbero detti «ceti borghesi» o classe media indipenden­te: piccoli e medi impren­ditori, professionisti, commercianti, artigiani. E' quell'insieme di ceti da cui dipende da sempre il dinamismo economico, la ricchezza, il benessere del Lombardo-Veneto. Data l'importanza e il pe­so economico di queste regioni, inoltre, è eviden­te che chi riesce ad assu­mere la rappresentanza piena della classe media indipendente, e a stabiliz­zare il rapporto con essa, si garantisce una duratu­ra posizione di centralità nel sistema politico italia­no.

La ragione per cui la partita per l'egemonia su questi ceti si disputa solo fra Popolo della libertà e Lega, dipende dal fatto che le opposizioni, date le loro caratteristiche, non sono in grado di par­tecipare alla gara. Non lo è l'Udc, un partito che, tradizionalmente, ha i suoi punti di forza nel Mezzogiorno. Non lo è, per ragioni diverse, il Par­tito democratico. Il para­dosso del Partito demo­cratico è che mentre esso dispone al Nord di alcuni eccellenti amministrato­ri, perfettamente in gra­do di dialogare con suc­cesso con la classe media indipendente, non è inve­ce capace di farlo in quan­to partito. Data la preva­lente incidenza, come ri­sulta dalla geografia so­ciale del voto del 2008, di lavoratori dipendenti (con una sovrarappresen­tazione di dipendenti pubblici) e pensionati, fra i suoi elettori, il Parti­to democratico è condan­nato, anche per la stessa provenienza sociale dei suoi iscritti e militanti, a farsi soprattutto portavo­ce degli interessi sociali organizzati dai sindacati, Cgil in testa, a scapito di altri interessi.

Il fallimento del proget­to veltroniano, del «parti­to a vocazione maggiori­taria », è dipeso anche dal fatto che il Pd non è riu­scito a presentarsi, a nord dell'Emilia-Roma­gna, come un interlocuto­re credibile per la classe media indipendente. So­lo una partita politica a due, dunque. Ma anche una partita resa assai complessa dal fatto che, per ragioni diverse, sia il Popolo della libertà che la Lega incontrano più difficoltà di quante i loro dirigenti siano disposti ad ammettere nell'assicu­rarsi la piena fiducia di quei ceti, nell'interpretar­ne le esigenze e nel tute­larne gli interessi.

Sottoposti a un regime di elevata fiscalità e pena­lizzati dalle inefficienze del sistema pubblico, questi ceti chiedono, da sempre, meno tasse e me­no burocrazia. Oggi, pres­sati dalla crisi, chiedono anche sostegni e agevola­zioni da parte dello Stato. Dal 1994 in poi il grosso della classe media indi­pendente del Nord aveva trovato in Berlusconi il proprio campione e in Forza Italia il proprio par­tito di riferimento.

Ma le cose sono cambiate, almeno in parte, con la nascita del Popolo della liber­tà. Il Popolo della libertà non è Forza Ita­lia: la fusione fra Forza Italia e An lo ha reso di gran lunga il più forte partito na­zionale ma ne ha anche meridionalizzato l'insediamento. Il baricentro del Popolo della libertà, a differenza di quello della vecchia Forza Italia, gravita oggi più verso il Sud che verso il Nord.

Per la competizione della Lega, certo, ma anche perché le politiche che posso­no essere proposte con successo al Sud sono diverse da quelle che possono miete­re consensi al Nord.

Il successo della Lega nelle elezioni del 2008, forse, non sarebbe stato così pro­nunciato se non si fosse diffusa nell’elet­torato la percezione di un relativo sposta­mento di attenzione da parte dell'allora costituendo Popolo della libertà verso al­tri interessi geografici e sociali. Come pro­va il sostanziale abbandono da parte del gruppo dirigente dell'ex Forza Italia degli antichi slogan sulla «liberazione fiscale». La meridionalizzazione non ha spezzato del tutto ma ha certamente incrinato il rapporto fra il Popolo della libertà e la classe media indipendente del Nord. E il recupero, pur possibile, si rivela comun­que assai difficile.

Porte aperte per la Lega, dunque? E’ la Lega destinata a vincere definitivamente la battaglia per l'egemonia?

Così suggeriscono i sondaggi ma dei sondaggi è sempre bene diffidare. Già, perché anche la Lega deve affrontare gros­si problemi se vuole diventare permanen­te punto di riferimento di quei ceti. Pren­diamo il caso del federalismo fiscale. La Lega lo ha voluto a tutti i costi, e quale che ne sia il costo. Ma il federalismo fisca­le in Italia non può che essere «solidale»: tradotto dal politichese, significa che le regioni che fanno un cattivo uso del dena­ro raccolto con i trasferimenti (per esem­pio, mantenendo in piedi sistemi sanitari inefficienti) si vedranno garantito il dirit­to di continuare a farne un cattivo uso.

Nessuno conosce il costo dell'operazio­ne ma si è capito che sarà elevato. In que­sto caso, sarà la classe media del Nord a pagare il prezzo più alto. La Lega, la cui identità fa tutt'uno con il federalismo fi­scale, potrebbe a quel punto essere addi­tata come la vera responsabile degli effet­ti negativi della riforma. Ce n'è comun­que abbastanza per alimentare diffidenze e sospetti verso la Lega.

La condizione della classe media indi­pendente settentrionale è davvero para­dossale: da un lato, è corteggiatissima ma, dall'altro, fatica oggi a trovare una si­cura rappresentanza delle proprie istan­ze. La lotta per l'egemonia sul Nord sem­bra destinata a durare molto a lungo.


12 aprile 2009
da corriere.it



Titolo: Angelo PANEBIANCO. Chi è presente stavolta ha torto
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2009, 11:55:42 am
CONFERENZA DI GINEVRA

Chi è presente stavolta ha torto


di Angelo Panebianco


Si apre oggi a Gine­vra, sotto i peggiori auspici, la Confe­renza delle Nazioni Unite sul razzismo. Gli oc­cidentali sono arrivati a questo appuntamento di­visi. Gli Stati Uniti, Israele, il Canada, l’Australia e l'Ita­lia hanno confermato che non parteciperanno non essendoci garanzie che la Conferenza, i cui lavori preparatori sono stati do­minati dai Paesi islamici, non si risolva anche que­sta volta (come accadde nella precedente conferen­za di Durban nel 2001) in un atto di accusa contro Israele e contro l'Occiden­te. Olanda e Germania hanno dato all'ultimo mo­mento forfait. La Gran Bre­tagna e la Francia, invece, hanno scelto di essere pre­senti. Così come il Vatica­no. Il presidente iraniano Ahmadinejad, già arrivato a Ginevra, è stato ricevuto con tutti gli onori dalle massime autorità elveti­che (il che ha suscitato una dura protesta di Israe­le) e sarà fra i primi a pren­dere la parola nella tribu­na messagli a disposizio­ne dall'Onu. Molte cose non vanno, evidentemen­te, se a una Conferenza sul razzismo, che dovreb­be essere espressione dell' impegno delle Nazioni Unite in difesa dei diritti umani, può impunemen­te prendere la parola un si­gnore che ritiene la Shoah una «invenzione» e presie­de un regime che ha al proprio attivo l'assassinio di centinaia di oppositori politici.

Comunque vada a fini­re la Conferenza, tre lezio­ni si possono già trarre da questa vicenda. La prima è che se l'Occidente si divi­de, coloro che puntano a usare le istituzioni interna­zionali in chiave antiocci­dentale hanno facile gio­co. Se ci fosse stato un blocco compatto dei Paesi occidentali a difesa di principi per essi irrinun­ciabili, quei Paesi islamici che giocano sulle divisio­ni dell'Occidente avrebbe­ro dovuto tenerne conto, e la stessa Conferenza di Ginevra avrebbe forse avu­to un diverso avvio. I Paesi europei che, insieme al Va­ticano, hanno scelto co­munque di andare alla Conferenza forse riusci­ranno a impedire che essa si risolva in una Durban bis ma corrono anche un rischio: il rischio che la lo­ro presenza contribuisca a dare legittimazione inter­nazionale a regimi politici che fanno quotidianamen­te strage di diritti umani a casa loro e che non hanno le carte in regola neppure in materia di razzismo es­sendo noti campioni di propaganda antisemita.

La seconda lezione è che i diritti umani non possono essere facilmen­te separati dal contesto culturale occidentale che li ha generati. La dichiara­zione dei diritti dell'uomo del 1948 e le tante altre di­chiarazioni, convenzioni e istituzioni promotrici dei diritti umani che l'hanno seguita, erano espressioni della tradizione occidenta­le. Rispecchiavano il pre­dominio politico-militare, economico e culturale, del mondo occidentale. Nel momento in cui l'Occi­dente perde peso politico, altri, con alle spalle altre e diverse tradizioni cultura­li, si impadroniscono di quelle istituzioni, e del connesso linguaggio dei diritti umani, cambiando­ne radicalmente l'ispira­zione e il significato.

È proprio in nome dei «diritti umani» (nel senso che essi danno a queste parole) che i Paesi islamici cercano oggi di imporre a tutto l'Occidente una drastica limitazione della libertà di parola e della li­bertà di stampa, erigendo barriere giuridiche che rendano la religio­ne islamica non criticabile. Hanno tentato di farlo con la risoluzione 62/154 dell'Assemblea delle Nazioni Unite. E sono tornati alla carica (salvo recedere a fronte delle proteste occidentali) nei lavori prepara­tori del documento che dovrà essere approvato dalla Conferenza di Ginevra. Chi pensa che i diritti umani siano «transculturali», anzi­ché connotati culturalmente, che siano cioè un minimo comun de­nominatore potenzialmente in grado di essere condiviso da tutti, do­vrebbe riflettere, ad esempio, su quale compatibilità possa mai esser­ci fra i diritti umani nel modo in cui li intendono gli occidentali e la sharia, la tradizionale legge islamica. La terza lezione che si può trar­re dal pasticcio della Conferenza di Ginevra riguarda l'impossibilità di separare diritti umani e politica. A Ginevra «si fa» e «si farà» poli­tica, ossia la questione del razzismo e dei diritti umani verrà usata come arma propagandistica ai fini della competizione di potenza e delle connesse negoziazioni politiche. Come è inevitabile che sia.

La presenza di Ahmadinejad a Ginevra, in particolare, merita at­tenzione. Dal suo discorso, ovviamente, nessuna persona sana di mente si attende un contributo per la «lotta contro il razzismo». Si cercherà piuttosto di capire, leggendo tra le righe, se ci sarà o no qualche segnale di disponibilità alla trattativa sul nucleare iraniano e sugli altri dossier mediorientali da parte dei settori del regime che Ahmadinejad rappresenta o se la risposta alle aperture del presiden­te americano Obama sia già contenuta per intero nella condanna a otto anni per spionaggio appena inflitta alla giornalista america­na- iraniana Roxana Saberi. Sapendo, naturalmente, che Ahmadi­nejad è comunque un presidente in scadenza e che dovrà, nel giu­gno prossimo, affrontare il giudizio degli elettori. Un risultato (para­dossale) la Conferenza sul razzismo lo ha comunque già ottenuto: ha offerto al presidente di un regime assai poco rispettoso dei diritti umani (comunque li si definisca) una tribuna internazionale da cui iniziare la sua personale campagna elettorale.


20 aprile 2009


  da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I due ostacoli alle riforme
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2009, 05:52:16 pm
IL PREMIER FORTE E I SUOI CONTRAPPESI

I due ostacoli alle riforme


di Angelo Panebianco


Per la prima volta da quando è finita la Prima Repubbli­ca, le celebrazioni del 25 aprile sono avvenu­te in un clima di concor­dia nazionale anziché di contrapposizioni. E’ un’ot­tima cosa in sé ma anche un segnale di incoraggia­mento che potrebbe favo­rire una ripresa del dialo­go fra maggioranza e op­posizione sulla riforma della Costituzione. Vanno in quel senso anche le pa­role appena pronunciate dal segretario del Pd, Da­rio Franceschini, il quale, riconoscendo l’errore commesso quando il cen­trosinistra approvò da so­lo la riforma del titolo quinto della Costituzio­ne, chiede al governo di non procedere, in mate­ria costituzionale, a colpi di maggioranza.

La ripresa del dialogo sulla riforma costituziona­le, del resto, è resa neces­saria dalle circostanze. Non è pensabile che si possa introdurre in Italia il federalismo fiscale (una misura che compor­terà una radicale trasfor­mazione dello Stato) sen­za toccare la Costituzione nei suoi rami alti, nel cir­cuito Governo-Parlamen­to. E certamente, se ripre­sa del dialogo ci sarà, es­sa dovrà tenere conto dei paletti che su questo te­ma ha posto il Capo dello Stato nel suo intervento della scorsa settimana. Conclusa la tornata eletto­rale delle europee e delle amministrative è probabi­le che il dialogo riparta.

Nonostante la sua ne­cessità, una convergenza maggioranza/opposizio­ne sulla riforma della Co­stituzione, è tuttavia resa difficile dalla persistenza di due ostacoli. Capire quale sia la natura degli ostacoli forse non aiuterà a superarli ma potrà alme­no introdurre un po’ di chiarezza nella discussio­ne.

Il primo ostacolo è di ordine culturale. Il secon­do è di ordine politico.
L’ostacolo culturale ri­guarda il mancato accor­do su cosa possa essere in Italia un «contrappe­so ». Posto che la riforma della Costituzione impli­chi un rafforzamento del potere istituzionale del Capo del governo, quali sono i contrappesi possi­bili, a garanzia del fatto che un premier troppo forte non finisca per eser­citare un potere incontrol­lato? Che sia necessario rafforzare i poteri istitu­zionali del premier è sem­pre stata un’idea condivi­sa da molti (era condivi­sa, ad esempio, dai princi­pali schieramenti all’epo­ca della Bicamerale).

Nasce dalla constatazio­ne che la Costituzione del ’48, per ragioni tante vol­te citate (in primis, il ri­cordo ancor fresco della dittatura), aveva conces­so solo deboli prerogati­ve al Capo del governo. Non ci si faccia ingannare dalla forza che concentra in sé oggi il premier Ber­lusconi: si tratta di una forza che ha ragioni politi­che, non istituzionali. Quando Berlusconi usci­rà di scena, se non saran­no intervenute modifiche costituzionali, torneremo rapidamente alla regola italiana dei Capi di gover­no deboli (l’ultimo è stato Romano Prodi). Dunque, serve effettivamente raf­forzare i poteri istituzio­nali del premier. Ma, allo­ra, quali contrappesi biso­gna contestualmente pre­disporre? Il problema può essere così riassunto: deve restare il Parlamen­to il principale contrappe­so oppure occorre accetta­re un depotenziamento del ruolo del Parlamento e fare affidamento su altri contrappesi (il Presiden­te della Repubblica, la Corte Costituzionale, le re­gioni)?

A me pare che se si vuole rafforzare i poteri istituzionali del premier occorra puntare sulla seconda alternativa.
Non è possibile accrescere i poteri del premier lasciando inalterati quelli del Parlamento. Il solo caso noto di forte capo dell'esecutivo abbinato a un forte Parlamento è quello del presidenzialismo statunitense.

Ma non solo il presidenzialismo non è all'ordine del giorno in Italia. Esso è anche di difficile esportabilità (come provano i tanti fallimenti sperimentati dai presidenzialismi latinoamericani).
Il semipresidenzialismo francese (quando il Presidente controlla la maggioranza parlamentare), il governo del premier britannico (finché regge l'assetto bipartitico) implicano invece che il capo dell'esecutivo, presidente o premier, domini, oltre che l'esecutivo, anche il Parlamento. Il Parlamento non è, in quei Paesi, un vero contrappeso.
Diverso è il caso del Cancellierato tedesco ma solo perché il federalismo, tramite la Camera alta, contribuisce a limitare il potere del Cancelliere.

Comunque sia, è questo l'ostacolo che dovrebbe essere superato per ottenere una convergenza fra maggioranza e opposizione sulla riforma della Costituzione: occorre un accordo che identifichi, in modo realistico, a quali contrappesi affidare il bilanciamento di un rafforzato potere esecutivo.
Un accordo richiederebbe sia il riconoscimento da parte del centrodestra che i contrappesi sono comunque necessari sia l'abbandono da parte del centrosinistra (dove questa idea è tradizionalmente più radicata) della convinzione che il Parlamento debba restare un forte contrappeso.

Il secondo ostacolo è di ordine politico-strutturale. Nasce dall’asimmetria fra centrodestra e centrosinistra. Il centrodestra è dotato attualmente di una forte leadership.
Il centrosinistra no. E' naturale, quindi, che il centrodestra sia più interessato del centrosinistra a una riforma costituzionale che rafforzi il Capo del governo. Ciò, però, non dipende solo dal fatto che il centrosinistra è oggi all'opposizione e, comprensibilmente, non vuole dare ulteriori vantaggi a Berlusconi. Data la sua incapacità di dotarsi di una leadership forte, il centrosinistra avrebbe problemi ad accrescere il potere dell'esecutivo anche se fosse maggioranza: la struttura oligarchica del centrosinistra frenerebbe il rafforzamento del potere del premier anche in quel caso (se il premier diventa troppo forte, gli oligarchi perdono potere).
L'ostacolo rappresentato dall’asimmetria fra centrodestra e centrosinistra mi sembra più importante dell'ostacolo culturale.

Gli orientamenti culturali hanno certamente una loro forza autonoma ma, alla lunga, finiscono quasi sempre per piegarsi al gioco delle convenienze e degli interessi. Ancorché necessaria, una convergenza fra maggioranza e opposizione sulla riforma della Costituzione sembra poco probabile finché permarrà quella cruciale asimmetria.

28 aprile 2009
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La sfida crudele di un regime
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2009, 11:40:32 am
DELARA GIUSTIZIATA IN IRAN


La sfida crudele di un regime


di Angelo Panebianco


In Iran, una giovane pittrice, Delara Darabi, è stata giustiziata per omicidio dopo un processo che Amnesty International ha giudicato non equo, non rispettoso dei diritti della difesa. Amnesty non è l’oracolo e la valutazione sui procedimenti giudiziari che comportano pene capitali è sempre controversa. Ma la notizia segue di poche settimane quella sulla condanna a otto anni «per spionaggio» alla giornalista americana-iraniana Roxana Saberi e contribuisce a ribadire la fosca reputazione del regime. Non più fosca di quella di altri regimi autoritari, naturalmente.

Ma con la differenza che l’Iran è una grande potenza regionale le cui scelte in gran parte decideranno se ci sarà pace o guerra in Medio Oriente nei prossimi anni. Sfrondata dagli usuali toni retorici, la questione della violazione sistematica dei diritti umani incide in due modi sui rapporti internazionali. Da un lato, radicalizza la distanza, culturale e psicologica, fra i regimi democratici e i regimi autoritari. Dall’altro, in caso di gravi contenziosi geo-politici, rende difficile trovare forme di risoluzione pacifica delle controversie: nessuno può fidarsi di nessuno. Ad esempio, nel caso dell’Iran e della sua volontà di diventare una potenza nucleare, a fare paura non è la bomba nucleare iraniana in sé.

A fare paura è la bomba nucleare in mano a un regime come quello degli ayatollah. Contro l’opinione di coloro che mettono sullo stesso piano i regimi autoritari e quelli democratici ricordando le magagne di questi ultimi, si può osservare che la differenza resta comunque netta. Non è che i primi violino i diritti umani e i secondi no. La differenza è che nel caso dei regimi autoritari la violazione di quei diritti è la norma, rispecchia la quotidianità dei rapporti fra potere politico e sudditi, mentre nel caso dei regimi democratici è l’eccezione. Quando una dura politica repressiva all’interno si sposa, come in Iran, a una politica estera «rivoluzionaria », a una proiezione aggressiva verso l’esterno (programma nucleare, appoggio ad Hamas e Hezbollah, aspirazione all’egemonia regionale, minacce a Israele, radicale contrapposizione ideologica all’Occidente), i margini di manovra per chi aspira a instaurare un modus vivendi con la potenza in questione diventano quasi nulli.

Persino quando ci sarebbe, come c’è nei confronti dell’Iran, l’interesse a trovare un accomodamento: contro l’Iran sarà infatti difficile stabilizzare l’Iraq, trovare soluzioni al conflitto israeliano-palestinese, concentrare ogni sforzo nella guerra afghano-pachistana. Né il pugno chiuso di Bush né (finora) la mano tesa di Obama hanno prodotto risultati. L’Iran non dà segnali di voler normalizzare i suoi rapporti con il resto del mondo. Sfortunatamente, la normalizzazione non può esserci, e non ci sarà, senza significativi cambiamenti del regime. Quanto meno, senza cambiamenti che segnalino il passaggio dalla fase rivoluzionaria (iniziata con Khomeini nel 1979 e mai terminata) a quella post-rivoluzionaria. Il giorno in cui avvenisse quel passaggio, l’inaugurazione di una politica estera più cauta e pragmatica potrebbe accompagnarsi alla decisione di migliorare l’immagine internazionale del regime. Ne conseguirebbe una minore propensione a fare uso del pugno di ferro nei confronti degli iraniani. Al momento, però, di tutto questo non c’è traccia alcuna.

03 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un dialogo senza ambiguità
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2009, 11:15:26 am
IL PAPA E L’ISLAM, LA FORZA DI UNA SCELTA

Un dialogo senza ambiguità


Benedetto XVI è giunto oggi a Tel Aviv dopo la sua prima tappa in Giordania. Questo lungo viaggio in Terra santa del Papa avrà certamente an­cora molti momenti sa­lienti ma un primo bilan­cio è reso possibile dal­l’accoglienza che gli è sta­ta fin qui riservata e dalle parole, forti e inequivoca­bili, che egli ha già pro­nunciato sui rapporti fra il cristianesimo, l'ebrai­smo e l'islam.

Il viaggio del Papa è di estrema delicatezza. Non solo perché si svolge nei luoghi che sono, oggi co­me mille anni fa, il terre­no di incontro/scontro fra le tre religioni mono­teiste. E non solo perché è proprio lì, in Medio Oriente, che si addensa­no, si sovrappongono e si intrecciano i più gravi ele­menti di conflitto che mi­naccino oggi la stabilità mondiale. E' di estrema delicatezza anche perché il Papa vi è giunto prece­duto da una lunga scia di polemiche e incompren­sioni che hanno fin qui se­gnato i suoi rapporti sia con l'ebraismo che con l'islam.

Sul Monte Nebo, in Giordania, Benedetto XVI ha colto l'occasione per ri­badire con solennità quanto ha peraltro già detto e scritto in molte oc­casioni. Ha affermato con enfasi quanto speciale sia il rapporto fra cristianesi­mo e ebraismo, quanto «inseparabile» sia il vin­colo che li unisce. Forse non tutte le incompren­sioni spariranno di colpo ma sono state poste le ba­si per un loro superamen­to. Benedetto XVI ha par­lato così agli ebrei ma an­che, contestualmente, ai cristiani. Ha voluto dire agli uni e agli altri che an­che gli ultimi detriti so­pravvissuti dell'antico an­tigiudaismo cristiano de­vono essere spazzati via senza indugio dalle co­scienze. Inoltre, la sua presenza in Israele oggi, nella condizione presen­te, vale più di mille rico­noscimenti diplomatici. E' un'implicita affermazio­ne del diritto all'esistenza dello Stato di Israele con­tro coloro che vorrebbero cancellarlo.

Altrettanto delicato, e forse anche più delicato, è il rapporto con l'islam. E non solo a causa degli eventi che seguirono il di­scorso di Ratisbona. E' più delicato anche per­ché il Papa è impegnato in una assai difficile e complessa operazione che investe, al tempo stes­so, la sfera religiosa e quella mondana. Una ope­razione complessa che na­sce dal riconoscimento, più volte ribadito da Bene­detto XVI, che il rapporto fra il cristianesimo e l'islam è di natura diversa da quello che lega il cri­stianesimo e l'ebraismo. Quella relazione speciale che c'è, e va riconosciuta, fra cristianesimo ed ebrai­smo, non c'è, non ci può essere, fra cristianesimo e islam. Ciò che il Papa sta cercando di fare (un aspetto che era rimasto non chiarito, irrisolto, al­l’epoca del pontificato di Giovanni Paolo II, e an­che in occasione del viag­gio che quel Papa fece in Terra santa) è di togliere ogni ambiguità al dialogo con il mondo musulma­no, in modo da renderlo davvero proficuo sgom­brando il campo dai ma­lintesi.

Ciò che il Papa vuol fare è di chiarire che fra cristianesimo e islam non ci può essere dialogo religioso (le due fedi sono, su questo terreno, inconciliabili) ma ci deve essere invece, fra cristiani e musulmani, un incontro inter-culturale e civile (un dialogo che potremmo anche definire laico). Anche per ribadire questo il Pontefice è rimasto in meditazione ma non ha pregato durante la sua visita alla moschea Hussein. E' un mo­do, l'unico modo, per spazzare via equivoci e ipocrisie rendendo possibile il rispetto reciproco e un dialogo forse foriero di buone conseguenze per le persone, cristiani e musulmani, coinvolte.

In Giordania, per lo meno, il senso della presenza del Papa sembra essere stato compre­so dagli islamici che lo hanno accolto. Così come sono state comprese le parole che il Papa ha dedicato alla condanna della violenza ammantata di motivi religiosi. Benedet­to XVI, naturalmente, è stato attento a non mettere a carico del solo mondo islamico (oltre a tutto, ciò non sarebbe stato nemmeno veritiero) la tentazione e la pratica della violenza. Ma è certo che le sue parole sulla violenza (così come quelle rivolte ai cristia­ni del Medio Oriente sul ruolo delle donne) rappresentano una sponda che il capo della cristianità ha offerto a quella parte del mondo islamico che patisce la violenza dei fondamentalisti ancor più di quanto la patiscano gli occidentali.
La presenza del Papa, e i suoi atti e le sue parole, sono assai dispiaciute ai fondamentalisti, nonché a quei personaggi ambigui, di confine (il più celebre dei quali è Tariq Ramadan), che circola­no e predicano in Occidente. Ed è un bene che sia così. Il viaggio del Papa può aiutare l'azione degli uomini, musulmani, ebrei o cristiani, alla ricerca di una pacifica convi­venza proprio perché ricorda a tutti quanta mistificazione ci sia nell'uso a scopi politici della religione e nella violenza che quell'uso porta sempre con sé.


Angelo Panebianco
11 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il paradosso del nuovo Fini
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2009, 11:02:34 am
Editoriali           

LE MOSSE DI UN LEADER


Il paradosso del nuovo Fini


Il presidente della Camera Gianfranco Fini sta vivendo la fase forse più paradossale della sua carriera politica. Nel corso del tempo egli è andato sviluppando idee, sicuramente frutto di una sincera, e forse anche sofferta, maturazione personale, che oggi lo portano a differenziarsi, talvolta anche aspramente, su molti temi, dal governo e dalla maggioranza di cui fa parte. Si tratti dei modi per contrastare l’immigrazione clandestina, della questione della laicità e dei rapporti fra Stato e Chiesa, del caso Englaro o del ruolo del Parlamento, le prese di distanza di Fini dal governo ormai non si contano. Così facendo Fini ha finito per trovarsi nella curiosa situazione di essere applaudito soprattutto da quella parte del Paese che, riconoscendosi nell’opposizione, non lo voterebbe mai. Fini è un politico navigato e dunque è lecito chiedersi (anche se è difficile rispondersi): a quali elettori si rivolge, quale parte del Paese aspira a rappresentare?

La «buona politica» è, e sempre deve essere, una ben dosata combinazione di convinzione e di convenienza. Una politica senza convinzione e tutta convenienza è una politica opportunistica: è l’acqua in cui sguazzano i piccoli politici, i trasformisti di professione. Ma nemmeno una politica fatta solo di convinzione è una buona politica. Essa facilmente si riduce a testimonianza morale, a predica inutile. Il buon politico deve essere un uomo di convinzioni, comunque maturate, ma anche dotato di quel forte istinto del potere che gli permetta di costruirsi una strategia in grado di mobilitare consensi, appoggi, voti. Nel caso di Fini si individua la convinzione ma non si capisce quale sia la convenienza.

Le idee che oggi Fini difende sono certamente frutto di una lunga maturazione. Ad esempio, risale ormai a diversi anni fa la sua proposta (che fece infuriare il partito di cui era allora il leader, Alleanza nazionale) di concedere il voto agli immigrati. Ciò nonostante, appare assai grande la distanza fra il Fini che oggi manifesta le sue perplessità sui «respingimenti » e il Fini che ieri tuonava contro il governo Prodi, colpevole a suo giudizio di debolezza nella lotta contro l’immigrazione clandestina. La sua stessa difesa, contro l’irruenza del premier, del ruolo e delle prerogative del Parlamento, sembra qualcosa di più di una semplice difesa d’ufficio da parte del presidente della Camera. Sembra anche una forte presa di distanza dalle posizioni presidenzialiste (come tali, in Italia, sempre innervate di un certo antiparlamentarismo) che lo stesso Fini sosteneva fino a poco tempo addietro.

Si potrebbe anche guardare con simpatia, e con una certa ammirazione, un leader politico che ha avuto il coraggio di rimettersi in gioco e di rivedere criticamente tante sue posizioni precedenti. Ma resta la domanda: a quale strategia si lega questa evoluzione? Esistono nel Paese tanti potenziali elettori di centrodestra disposti a seguire Fini (contro Berlusconi e contro Bossi), attratti dalle sue idee su ciò che dovrebbe essere una destra moderna? Se quei tanti elettori ci sono, Fini avrà avuto ragione e la sua risulterà una «buona politica » (una giusta combinazione di convinzione e convenienza). Ma se non ci sono, allora anche i convinti applausi che egli oggi riceve dai giornali d’opposizione non gli serviranno a nulla. Poiché politica e testimonianza morale sono incompatibili.

di ANGELO PANEBIANCO
24 maggio 2009(ultima modifica: 25 maggio 2009)

 da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Europa dimenticata
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2009, 07:51:46 pm
Il discorso di Barack

Europa dimenticata


E’ un’ovvietà il fatto che i di­scorsi politici, come qualun­que altro discorso, assu­mano significati diversi per gli ascoltatori in ragio­ne delle differenti caratte­ristiche e identità degli ascoltatori stessi. Appa­rentemente meno ovvio, ma non meno vero, è il fatto che lo stesso discor­so può acquistare, nella mente di un qualunque ascoltatore, significati di­versi col passar del tem­po, in ragione degli even­ti verificatisi dopo che quel discorso è stato pro­nunciato. Tutti nel mon­do (sia quelli che lo han­no approvato sia quelli che lo hanno criticato) hanno colto le grandi no­vità contenute nel discor­so pronunciato da Barack Obama in Egitto, il fatto che egli abbia affrontato con un approccio comple­tamente nuovo (una nuo­va chiave di lettura, un nuovo lessico) il rapporto fra America e Islam. Il suo messaggio è sicura­mente piaciuto a quella parte del mondo islamico che non vuole rimanere intrappolata nello «scon­tro di civiltà». Ed è la stes­sa ragione per cui è pia­ciuto a tanti europei, non­ché a tutta quella parte dell’America che ha vota­to per Obama e vuole la­sciarsi il più rapidamente possibile alle spalle le ten­sioni accumulate durante l’amministrazione Bush.
 
Ma poiché i discorsi poli­tici assumono sempre si­gnificati diversi a secon­da dell’identità degli ascoltatori, è anche possi­bile che il messaggio di Obama venga letto come un indizio, se non una prova, della debolezza del­l’America da parte di altri settori dell’universo isla­mico: quel vasto mondo fondamentalista/tradizio­nalista (assai più ampio dell’area dei terroristi e dei loro simpatizzanti) che sull’opposizione ideo­logica all’Occidente, e al­l’America in particolare, ha fondato fin qui una parte importante della sua capacità di penetra­zione e di diffusione fra i musulmani. A quel mon­do, infatti, non può sfug­gire che, se Obama rap­presenta, come sicura­mente rappresenta, una novità, culturale prima ancora che politica, egli è anche il Presidente di un’America gravemente indebolita dalla crisi, un’America che forse, a crisi finita, non disporrà più delle risorse di cui di­sponeva in precedenza, che avrà forse più difficol­tà di un tempo a imporre, nelle aree turbolente del pianeta, la propria volon­tà e le proprie soluzioni.

È possibile dunque che nei prossimi mesi si mani­festi una divisione dentro il mondo islamico fra la parte che vorrebbe ri­spondere positivamente alla mano tesa di Obama e la parte che la intenderà solo come un segno di de­bolezza da sfruttare cini­camente. E, probabilmen­te, prevarrà l’una o l’altra parte del mondo islamico in ragione degli eventi che seguiranno o non se­guiranno alle parole. Il di­scorso pronunciato da Obama, fra qualche tem­po, verrà riletto in un mo­do o in un altro a seconda di ciò che l’Amministra­zione americana sarà sta­ta in grado di fare. Oba­ma si è assunto, certo con­sapevolmente, col suo di­scorso, un compito assai rischioso. Deve, in primo luogo, mostrare al mon­do islamico che l’America è comunque ancora forte e determinata nella con­duzione di quelle che con­sidera «guerre giuste» (conflitto afghano-pachi­stano). Deve, e questo è persino più difficile, rilan­ciare il processo di pace israeliano-palestinese.

Obama deve rilanciare il processo di pace senza spezzare i legami (oggi tesi co­me mai in precedenza) con Israele, senza svenderne la sicurezza, e senza farsi bloc­care dal rifiuto arabo e dall’estremismo di Hezbollah e Hamas. E deve venire a ca­po del contenzioso con l’Iran. Accettando l’idea di un Iran dotato del nucleare civile (notoriamente convertibile con facilità ad usi militari) Obama ha fatto una scom­messa assai rischiosa. La scommessa è che l’Iran «rivoluzionario», l’Iran degli ayatollah, sia ormai pronto per una politi­ca pragmatica, di «accomodamento», per una politica post-rivoluzionaria. Se è co­sì, Obama vincerà la partita. Ma se non è così, se l’Iran resterà ancora a lungo uno stato rivoluzionario, teso alla modifica ra­dicale dello status quo mediorientale, al­lora la politica del presidente americano si rivelerà un fallimento, e il Medio Orien­te entrerà in un nuovo ciclo di instabilità e di guerre.

C’è un aspetto del discorso di Obama, ma in realtà anche di molti suoi discorsi precedenti, che, indirettamente, riguarda noi europei. Si è detto, credo con ragio­ne, che Obama è, in virtù delle sue espe­rienze e della sua formazione, un multi­culturalista capace di unire patriottismo e orgoglio americani con l’empatia per le culture extraoccidentali. Ciò con cui noi europei dovremo misurarci è il fatto che per lui sembra meno rilevante la catego­ria di Occidente e, quindi, anche il rappor­to con l’Europa e con le radici europee della storia americana. Lo si è potuto con­statare anche ieri in Francia durante le ce­lebrazioni del sessantacinquesimo anno dallo sbarco in Normandia. Al discorso (peraltro, bellissimo) del presidente fran­cese Sarkozy, centrato sui legami fra Fran­cia e Stati Uniti, e Europa e Stati Uniti, che il D-Day permise di rilanciare e di rin­saldare, Obama ha risposto con un mes­saggio, come sempre retoricamente abi­le, tutto rivolto agli americani in patria e al sacrificio dei combattenti americani di allora. L’Europa (a parte il pezzo di spiag­gia in cui si svolse la storica battaglia), in quel discorso, praticamente, non c’era. Nel bene e nel male, è un problema con cui noi europei dovremo fare i conti.


Angelo Panebianco
07 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La svolta delle città
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 06:16:33 pm
La svolta delle città


Per aiutare i lettori ad orientarsi, di fronte ai risultati di questa tornata di elezioni, occorre prima di tutto rammentare che europee e amministrative sono fra loro diversissime. Dal punto di vista della politica interna italiana (tralascio qui gli aspetti che riguardano la composizione del Parlamento europeo) le elezioni europee sono un evento più mediatico che di sostanza. Hanno a che fare con questioni di «immagine», non con gli equilibri politici. In termini di immagine è vero che Berlusconi non ha raggiunto l’obiettivo dello «sfondamento» elettorale. Però, attenzione a non scambiare ciò per l'inizio di un declino politico. La verità è che il Popolo della Libertà, persino in elezioni «bizzarre» e anomale come quelle europee (con la loro alta astensione), mantiene sostanzialmente i suoi consensi e supera largamente il centrosinistra. E ciò accade nonostante si tratti del principale partito di governo che, in quanto tale, opera in una situazione di grave crisi economica. E che deve fronteggiare l’ascesa della Lega. Il partito di Berlusconi, in realtà, segue un trend che è generale in Europa e che vede le forze di centrodestra prevalere nettamente su quelle di centrosinistra.

La conferma viene dal voto più importante ai fini della dinamica politica interna, le amministrative. Qui si sta realizzando un netto successo del centrodestra e del suo leader Berlusconi, ottenuto in elezioni che tradizionalmente avvantaggiavano il centrosinistra. Persino nella «rossa » Firenze il Pd riesce a strappare solo un ballottaggio al Comune. Nelle amministrative, molto più che nelle europee, emergono le gravi difficoltà in cui si dibatte la principale forza di opposizione, il Partito democratico. Esso tiene a fatica nelle storiche aree del vecchio insediamento, Emilia Romagna e Toscana. Ma, per fare altri esempi importanti, viene sostanzialmente espulso definitivamente dalla Lombardia, dove perde anche storiche roccaforti come Pavia e Cremona e subisce, a Milano, il sorpasso del candidato del centrodestra Podestà sul presidente uscente della Provincia Penati. È nettamente distaccato dal centrodestra in Veneto. Arretra in Campania e perde definitivamente la Provincia di Napoli. Cala anche in altre aree di suo tradizionale insediamento come Umbria, Marche, Basilicata. Politicamente poi, la croce che il Partito democratico si è portato addosso nell’ultimo anno, Di Pietro, risulta ulteriormente appesantita. A destra, i forti successi della Lega al Nord in Province e Comuni accrescono la spinta alla competizione fra le due forze di governo, Lega e Popolo della Libertà. Si rafforzano le tendenze emerse nelle elezioni politiche del 2008. Il vero luogo della competizione è, al momento, tutto interno all’area di governo. E la cosa è preoccupante. A lungo andare, non fa bene alla democrazia la presenza di una opposizione democratica debolissima, in crisi di idee e di identità e che, troppo spesso, non sa trovare toni e argomenti che la rendano una plausibile alternativa di governo.

Angelo Panebianco
09 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Referendum, antidoto ai troppi partiti
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2009, 09:58:19 pm
Sistema elettorale

Referendum, antidoto ai troppi partiti


Gli italiani saranno chiamati il 21 giugno a votare per un referendum che propone di modificare la legge elettorale in vigore. Come risulta dai sondaggi, tanti italiani sono ancora disinformati, non sanno nulla dei quesiti referendari. E, inoltre, una gran parte delle forze politiche li incita alla astensione. Anche in queste sfavorevoli circostanze è però giusto continuare a discuterne.

La mia prima osservazione è che diversi criti­ci del referendum hanno avanzato una obiezio­ne che non sembra leale. Hanno sostenuto che quello che uscirebbe da una vittoria dei «sì» nel referendum non sarebbe comunque un buon si­stema elettorale. L'obiezione non mi pare leale perché in Italia non esiste l'istituto del referen­dum propositivo. Non si può dunque sottoporre al voto popolare il sistema elettorale che si prefe­risce (io, per esempio, preferisco di gran lunga i sistemi elettorali maggioritari, con collegi uni­nominali). Col referendum abrogativo si può so­lo incidere su leggi esistenti. Il referendum ten­ta semplicemente di migliorare quella che in tanti giudichiamo una pessima legge elettorale. Non può fare nulla di più. Per onestà nei con­fronti dei lettori devo precisare che mentre scri­vo questo articolo mi trovo in flagrante conflitto di interessi. Faccio parte del comitato promoto­re del referendum e certamente intendo difen­dere, insieme al referendum, la coerenza e la va­lidità della mia scelta.

Che cosa intendevano (intendevamo) fare i proponenti del referendum, soprattutto con il quesito più importante, quello che chiede di spostare dalla coalizione di partiti alla singola lista il premio di maggioranza? Intendevano (in­tendevamo) contrastare l'aspetto più grave e pe­ricoloso della legge elettorale in vigore: il fatto che essa non contiene alcun anticorpo contro la frammentazione partitica (e ricordo che fra tutti i pericoli che può correre una democrazia quelli che vengono da un eccesso di frammentazione partitica sono di gran lunga i più gravi). Ma, si obietterà: alle ultime elezioni, nonostante la leg­ge in vigore, la frammentazione partitica è stata drasticamente ridotta. E’ vero ma la causa è sta­ta esclusivamente una decisione politica: la scel­ta di Walter Veltroni di sbarazzarsi dell'antica co­alizione di centrosinistra e di puntare sul «parti­to a vocazione maggioritaria».

Fu quella decisione che, ricompattando la si­nistra (anche se non del tutto: Veltroni commi­se poi il gravissimo errore di allearsi con Di Pie­tro), obbligò anche la destra a un analogo ricom­pattamento (con la nascita del Popolo della Li­bertà). Ma ora Veltroni è fuori gioco e anche il partito a vocazione maggioritaria è stato messo in soffitta.

Alle prossime elezioni il Partito democratico tornerà, presumibilmente, a una più tradiziona­le politica delle alleanze (ed è plausibile che, per diretta conseguenza, si manifestino tendenze di­sgregative anche a destra). La legge elettorale in vigore tornerà allora a sviluppare le sue letali tossine, alimenterà di nuovo la frammentazione partitica. Se non si fa qualcosa (e l'unico «qual­cosa » possibile è, al momento, il referendum) il sistema politico italiano sarà di nuovo tra pochi anni, come è stato negli ultimi decenni (fino al 2008), il più frammentato dell'Europa occidenta­le.

Come sempre quando si ragiona di sistemi elettorali le critiche più serie e argomentate alla proposta referendaria sono state avanzate da Giovanni Sartori. Sartori fa due obiezioni. La pri­ma: con il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum un partito che raggiungesse, ponia­mo, solo il trenta per cento dei voti potrebbe ag­giudicarsi il premio di maggioranza conquistan­do la maggioranza assoluta dei seggi. La secon­da: poiché il premio di maggioranza va alla lista più votata la legge verrebbe aggirata con la for­mazione di liste-arlecchino formate da tanti par­titi che si metterebbero insieme solo per conqui­stare il premio di maggioranza e si dividerebbe­ro di nuovo il giorno dopo le elezioni. Si tratta di obiezioni serie ma mi permetto di fare due osservazioni. La prima è che, certamente, è in teoria possibile che un partito con solo il trenta per cento dei voti conquisti il premio di maggio­ranza e quindi la maggioranza assoluta dei seg­gi. Però, questo è vero anche nel caso dei siste­mi maggioritari: nulla vieta, in teoria, che un partito si aggiudichi la maggioranza dei collegi (e quindi la maggioranza dei seggi) ottenendo però, su scala nazionale, un numero di voti limi­tato. In un sistema maggioritario ciò può accade­re se nei collegi sono presenti molti partiti. Più in generale, nei sistemi maggioritari, è quasi sempre la minoranza elettorale più forte che si aggiudica la maggioranza dei seggi.

In pratica, però, non credo che se si votasse con il sistema elettorale che uscirebbe dal refe­rendum correremmo questo rischio: gli elettori sarebbero portati a concentrare i loro voti sulle due formazioni più forti (è l'effetto del cosiddet­to «voto utile» o strategico). Mi azzardo addirit­tura a fare una previsione: se si votasse con il sistema elettorale proposto dal referendum ci sarebbe un duello all'ultimo voto fra Popolo del­la Libertà e Partito democratico, e il partito che fra i due uscisse perdente supererebbe comun­que la soglia del quaranta per cento dei voti (per effetto, appunto, del «voto utile»).

E vengo al problema delle liste-arlecchino. Sartori ha ragione: molti piccoli partiti si aggre­gherebbero al carro dei due partiti più grandi. Però, la loro libertà d'azione dopo il voto verreb­be compromessa. Una cosa, per un piccolo parti­to, è disporre di un proprio simbolo e di autono­mo finanziamento pubblico. Una cosa completa­mente diversa è rinunciare al simbolo (e, con es­so, a un rapporto diretto, non mediato, col pro­prio elettorato) e dover per giunta fare i conti, per la spartizione dei finanziamenti, con il grup­po dirigente del grande partito a cui ci si è aggre­gati. Non credo che, dopo le elezioni, quei picco­li partiti disporrebbero ancora di molta libertà d'azione. Se così non fosse, d'altra parte, perché mai la Lega dovrebbe essere, come è, così feroce­mente contraria al referendum? E perché mai Di Pietro (oggi politicamente molto più forte ri­spetto a quando vennero raccolte le firme del referendum) si sarebbe ora schierato per il «no» dopo avere sostenuto per tanto tempo il «sì»?

I nemici di Berlusconi temono che, con il nuo­vo sistema, egli possa rafforzarsi ulteriormente. Osservo che è sbagliato giudicare i sistemi elet­torali alla luce di preoccupazioni politiche con­tingenti. Prima o poi, Berlusconi dovrà comun­que lasciare il campo. Invece, il rischio, esaspe­rato dall'attuale legge elettorale, di un'eccessiva frammentazione partitica peserà a lungo su di noi. Se non riusciremo, con il referendum, ad aiutare la classe politica a porvi rimedio.


Angelo Panebianco
13 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La prudenza e il dilemma degli Usa
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2009, 09:40:00 am
La prudenza e il dilemma degli Usa

IL DILEMMA DELL’OCCIDENTE


Ciò che è accaduto ha tutta l'aria di essere un salto di qualità irreversibile nel conflitto che oppone l'ala dura del regime iraniano ai riformisti. La manifestazione non autorizzata degli oppositori è stata affrontata con la violenza dagli apparati repressivi. Un attentatore kamikaze si è contemporaneamente fatto esplodere presso il mausoleo di Khomeini (e si tratta, come ognun capisce, di un fatto di grande impatto simbolico). Soprattutto, Mousavi, il candidato sconfitto alle elezioni per la Presidenza, si è ribellato apertamente alla Guida Suprema Khamenei, è sceso in piazza con gli oppositori, si è dichiarato pronto a morire e ha chiesto l'azzeramento delle elezioni («i brogli erano pianificati da mesi» ha detto). Non sappiamo come finirà questa prova di forza, anche se al momento le carte migliori (gli apparati della forza, le milizie armate) sembrano essere saldamente nelle mani di Khamenei e di Ahmadinejad. Sappiamo però che il mondo occidentale deve ora fronteggiare un terribile dilemma.

Prima che arrivassero le nuove notizie sulla prova di forza in atto a Teheran, le difficoltà di fronte a cui si trova l'Occidente erano ben illustrate da una apparente contraddizione. Nello stesso momento in cui l'Unione Europea (con fermezza) e l'Amministrazione Obama (con circospezione) condannavano i brogli elettorali e le violenze del regime contro gli oppositori, l'Italia confermava di avere invitato, in accordo con gli Stati Uniti, il ministro degli Esteri iraniano Mottaki a partecipare alla conferenza sull'Afghanistan che si terrà a Trieste, in occasione del G-8, dal 25 al 27 giugno. Cinica realpolitik?

No, la contraddizione era figlia di un dilemma autentico. Da un lato, c'è infatti la necessità di assicurarsi la collaborazione di una potenza regionale del peso dell'Iran per venire a capo della guerra in Afghanistan (e per stabilizzare l'Iraq). Dall'altro lato, c'è il fondato timore che l'evoluzione in atto in Iran, la scelta della Guida Suprema Khamenei di sostenere Ahmadinejad, e la possibile, definitiva, sconfitta delle componenti riformiste, possano irrigidire ulteriormente le posizioni internazionali del regime. Con gravissimi rischi per la pace.

Non c'è, al momento, molto che dall'esterno si possa fare per favorire un' evoluzione della politica di Teheran che sia coerente con le aspirazioni di libertà di tanti iraniani e foriera di cambiamenti nella politica estera del regime. Anzi, come è illustrato dal dibattito americano (di cui il New York Times ha dato ieri un ampio resoconto) è anche possibile che un aperto sostegno occidentale, soprattutto americano, agli oppositori di Ahmadinejad e di Khamenei possa risultare controproducente, possa essere proprio ciò che serve all'ala dura del regime per gridare al complotto internazionale e sbarazzarsi con la violenza degli oppositori.

Ciò spiegherebbe, secondo questa interpretazione, la cautela diplomatica fin qui tenuta da Obama nonostante la netta presa di posizione, quasi unanime, del Congresso a favore degli oppositori scesi in piazza a Teheran. Se la situazione precipita è difficile che Obama possa mantenere a lungo la posizione prudente assunta. Se, come allo stato degli atti sembra probabile (ma c'è sempre, in questi frangenti, la possibilità di svolte repentine e imprevedibili), il regolamento di conti in atto mettesse completamente fuori gioco le componenti più moderate del regime, la politica estera iraniana diventerebbe ancora più pericolosa di come oggi è. Finora, gli estremismi di Ahmadinejad erano, a detta degli specialisti di politica iraniana, parzialmente frenati dalla necessità, per Khamenei, di tenere conto dell'equilibrio delle forze fra le diverse componenti del regime. Rotto quell'equilibrio, spostato definitivamente il baricentro verso l'ala dura, sarebbe difficile immaginare una politica estera iraniana meno aggressiva. Tanto più che i fallimenti economici interni richiederebbero, per essere nascosti, una escalation della conflittualità con il mondo esterno. Con ricadute sul conflitto israeliano-palestinese, sull'Iraq e su altri scacchieri. Nel suo discorso in Egitto di due settimane fa Obama ha proposto al mondo islamico di voltare pagina. Una parte di quel mondo ha accolto con favore l'invito. Ma un'altra parte no. Quel discorso, pur innovativo, aveva un punto debole. Che succede se gli «uomini di buona volontà» delle diverse civiltà e religioni non riescono a tenere sotto controllo i fanatici e i propagatori d'odio? L'universo politico (come scriveva il giurista Carl Schmitt) è in realtà un «pluriverso»: oltre che per le possibilità di compromesso lascia sempre spazio per differenze e odi irriducibili. Mentre si offre il dialogo occorre disporre anche di strategie alternative. E' il tema di una discussione che appare assai serrata all'interno dell'Amministrazione americana. Se in Iran la situazione precipita, se la fazione di Ahmadinejad, sostenuta da Khamenei, si sbarazza, anche fisicamente, degli oppositori, Obama dovrà presto dotarsi di qualche carta di riserva.

Angelo Panebianco
21 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Anatomia di una crisi
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2009, 11:11:33 am
LA CRISI DELLA SINISTRA ITALIANA

Il ventennio di rimozioni

Anatomia di una crisi


Da diversi mesi il tema rimbalza da un Paese all' altro («Le Monde », ad esempio, vi ha dedicato due dense pagine di analisi e commenti qualche giorno fa) e le elezioni europee, con i pessimi risultati conseguiti dai partiti socialisti e affini, hanno reso ancora più accesa la discussione. Non c'è praticamente forza di sinistra in Europa che non si ponga una domanda: come mai, in tempi di massiccio ritorno dello Stato nella gestione dell' economia, di critica al mercato, di indebolimento della fiducia liberale nella capacità di autoregolazione dei mercati, i partiti socialisti (e affini) non riescono ad approfittarne? Non dovrebbero essere proprio i partiti socialisti, antichi alfieri dell'intervento dello Stato e dell' uso della spesa pubblica per fini di ridistribuzione della ricchezza, i naturali punti di riferimento politico degli elettori in questo tempo di crisi?

Il problema è assai complesso e richiede risposte (o tentativi di risposta) a più livelli. Bisogna tener conto della tendenza generalema anche delle specifiche situazioni nazionali. Sul piano generale si può forse sostenere (come chi scrive ha fatto sul «Corriere Magazine» un paio di settimane fa) che i partiti socialisti non possano approfittare della situazione creata dalla crisi economico-finanziaria perché non esistono più, in Europa, le condizioni sociali e politico-culturali che favorirono i loro successi nel XX secolo. Nelle attuali società individualiste gli antichi ideali di «giustizia sociale» e di uguaglianza a cui i partiti socialisti finalizzavano l'intervento dello Stato e l'espansione dei sistemi di welfare state, non hanno più corso. In tempi di crisi, certamente, si invoca l'intervento dello Stato ma per ragioni squisitamente pragmatiche (bloccare la disoccupazione, tamponare gli effetti sociali perversi della crisi). Nelle ricche società europee di oggi a nessuno, o quasi, importa più nulla di quella «società degli uguali» che i partiti socialisti offrivano come meta degna di essere perseguita in tempi di assai più rigide disuguaglianze di classe. E le destre sono oggi sufficientemente pragmatiche e spregiudicate per gestire l'intervento dello Stato senza bisogno di caricarlo di ingombranti significati ideologici.

Le risposte generali, però, corrono sempre il rischio di essere generiche. Bisogna per forza guardare anche alle specificità dei casi. Ad esempio, i laburisti britannici (con la rivoluzione di Blair) e i socialisti spagnoli si erano già liberati dei miti e delle ideologie otto-novecentesche. Oggi pagano soprattutto il fatto di avere governato a lungo nella fase che ha preceduto lo scoppio della crisi.

Neppure per capire i guai della sinistra italiana, del Partito democratico, bastano le risposte generali. Anche qui bisogna tener conto delle specificità. La principale delle quali è che la sinistra italiana paga il conto, oltre che delle difficoltà che l'accomunano ai partiti socialisti europei, anche di un ventennio di rimozioni e trasformismi. La verità è che se Berlusconi non fosse esistito, se non fosse entrato in politica nel 1994, la sinistra italiana se lo sarebbe dovuto inventare. Da quindici anni Berlusconi, con la sua presenza, aiuta la sinistra a non fare i conti con se stessa, con il vuoto in cui è precipitata dopo il crollo del muro di Berlino.

In tutto questo tempo, Berlusconi è servito alla sinistra italiana per non guardarsi allo specchio. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto che lo specchio non è in grado di riflettere alcuna immagine. Checché se ne dica, un tentativo, uno solo, di costruire una nuova identità c'è stato. Lo ha fatto Walter Veltroni. Il suo discorso del Lingotto era più o meno questo. Ma ci sono limiti a ciò che un leader può fare. Nel caso specifico, c'erano anche i limiti del leader.

Incapacità di fare i conti col passato, rimozioni e trasformismi. Di che altro sarebbero il sintomo, ad esempio, gli inopinati omaggi che gli uni o gli altri continuano di tanto in tanto a tributare a Enrico Berlinguer, ossia all'ultimo dei grandi capi del comunismo italiano? Come si è chiesto Giovanni Belardelli sul «Corriere » di ieri, a chi e a che serve Berlinguer nella società attuale?

O, ancora, era davvero pensabile che la sinistra (da Mani Pulite fino alla recente alleanza con Di Pietro) potesse trovare una identità politica di ricambio facendosi megafono dell'Associazione Nazionale Magistrati? O che potesse diventare competitiva con la destra, soprattutto al Nord, senza contrastare apertamente le correnti sindacali più conservatrici in materia di legislazione del lavoro, di scuola o di pubblica amministrazione? O che potesse acquisire credibilità a fronte del più esplosivo fenomeno del nostro tempo, l'immigrazione, innalzando solo il vessillo della «solidarietà »? Non è un caso che anche molti dei cosiddetti «giovani », più o meno emergenti, del Pd, per lo meno a una prima occhiata, sembrino vecchi quanto i loro nonni.

La migliore osservazione sul Partito democratico l'ha fatta Claudio Velardi, ex collaboratore di Massimo D'Alema: al Pd, dice Velardi, serve un «pazzo», nell'accezione positiva del termine, uno che si prenda il partito sparando sul quartier generale. Un leader che unisca estro, solidità culturale e credibilità. E la caparbietà necessaria per dedicarsi a un lungo lavoro di ricostruzione culturale e politica. Senza farsi condizionare troppo dai vecchi oligarchi del partito o da centri di potere esterni.

Angelo Panebianco

30 giugno 2009
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I veri ostacoli delle riforme
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2009, 09:44:10 am
LE RESISTENZE SOCIALI E TERRITORIALI

I veri ostacoli delle riforme


Forse bisognereb­be scavare più a fondo di quanto in genere non si faccia quando ci si interro­ga sul perché sia così diffi­cile per i governi italiani, di destra o di sinistra, fare riforme incisive a favore della concorrenza. Quelle mancate riforme, dopotut­to, contribuiscono a spie­gare due decenni di bassa crescita (in un’epoca di grande espansione del­l’economia internaziona­le) e sappiamo che, se non si faranno, anche la ri­presa potrebbe risultare difficile e stentata una vol­ta superata la crisi mon­diale. Ma, forse, quelle ri­forme sono rese estrema­mente difficili dal fatto che, se attuate, potrebbe­ro destabilizzare la demo­crazia italiana e, persino, mettere a rischio la stessa unità del Paese. Insom­ma, c’è probabilmente qualcosa di più, dietro al­le riforme mancate, della resistenza delle solite lob­bies.

Sul Corriere del 28 giu­gno scorso Mario Monti ha elencato i settori che dovrebbero essere interes­sati dall’azione riformista: «... la riduzione struttura­le della spesa pubblica corrente, anche attraver­so la riforma delle pensio­ni, la formazione del capi­tale umano, le infrastrut­ture, una maggiore con­correnza per aprire i mer­cati e ridurre le rendite, la liberalizzazione dei servi­zi e specialmente dei ser­vizi pubblici locali». Effet­tivamente, sappiamo che sono quelle le riforme che servirebbero per dare un nuovo slancio all’eco­nomia italiana e metterla in condizione di sfruttare al meglio le occasioni che le si presenteranno quan­do la crisi mondiale fini­rà. Ciò che invece non sap­piamo, ciò che è più diffi­cile prevedere, è quali sconvolgimenti sociali po­trebbero derivare da radi­cali interventi riformatori in tutti quei settori.

Nonostante la tradizio­nale turbolenza della no­stra vita politica, la socie­tà italiana, nel corso dei decenni, sembra essersi ben adattata a vivere in condizioni di bassa cresci­ta. Al punto che la perpe­tuazione dei suoi equili­bri, sociali e territoriali, pare dipendere ormai pro­prio dall’assenza di incisi­ve riforme liberalizzatrici in una serie di settori stra­tegici. In altri termini, se­condo questa ipotesi, ciò che obbliga da decenni l’economia italiana a fun­zionare a basso regime è anche ciò che assicura al Paese condizioni di stabi­lità sociale e territoriale. In queste condizioni, ten­tare di dare molta più po­tenza alla macchina richie­derebbe modificazioni drastiche e subitanee di radicatissime abitudini so­ciali, la messa in discus­sione di equilibri consoli­dati, la penalizzazione (al­meno a breve termine) di vaste aree territoriali oggi garantite dalle rendite, grandi, piccole, e anche piccolissime, assicurate dai mercati protetti. Con conseguenze, sociali e po­litiche, assai poco prevedi­bili.

Una delle ragioni, forse la più importante, per cui la società italiana risente oggi meno di altre degli effetti della crisi mondia­le, è dovuta proprio alla presenza di quei fattori che ne hanno frenato la crescita nei decenni prece­denti. Dipende dal fatto che, accanto al welfare «ufficiale», quello gestito dallo stato, c’è anche un esteso welfare «occulto» che tutela tante famiglie italiane a vari livelli di reddito. Ci sono protezioni e fringe benefits assicurati ai tanti dalle innumerevoli corporazioni, le rendite garantite dalla spesa pubblica (sprechi inclusi), i benefici assicurati ai singoli dall’economia sommersa. Non casualmente, a soffrire di più a causa della crisi sono fino ad oggi quei settori della piccola impresa e del commercio (come ha osservato Dario Di Vico sul Corriere del 2 luglio) che sono tra i pochi davvero esposti alla concorrenza di mercato.

Dall’elenco di Monti estraggo il caso che conosco meglio, quello della formazione del capitale umano. E’ la questione dell’istruzione. Sarebbe auspicabile una riforma meritocratica dell’Università (Francesco Giavazzi, su questo giornale, 3 luglio) e della scuola in generale. Ed è vero che il ministro Gelmini è sinceramente interessato a farla. Ma potrà mai il Parlamento (nelle sue componenti di destra e di sinistra) consentire davvero incisive riforme meritocratiche nel settore dell’istruzione? Ne dubito. E non certo a causa della resistenza di qualche «barone» o di qualche preside di liceo. A causa del fatto, piuttosto, che verrebbero scossi equilibri territoriali, locali, consolidati.

Prendiamo il caso dell’Università. In Italia ci sono centri universitari ottimi, centri universitari così così e centri universitari pessimi. Questi ultimi godono di esteso sostegno e di granitiche complicità nelle comunità territoriali di appartenenza. Una riforma meritocratica (che, se fosse davvero tale, dirotterebbe i finanziamenti sui centri e i ricercatori migliori) li metterebbe in ginocchio. E che cosa credete che accadrebbe? Quei pessimi centri universitari sono pur sempre erogatori di stipendi e rendite, e grazie ad essi vive anche un esteso indotto cittadino. Inoltre, essi contano sulla complicità delle famiglie le quali, pagando tasse basse, assicurano comunque ai propri figli diplomi dotati di valore legale. Ci sarebbero probabilmente rivolte in stile Reggio Calabria 1970. I sindaci, i sindacati, i deputati locali (di destra e di sinistra) farebbero barriera in difesa del pessimo centro universitario minacciato.

Ciò che vale per l’istruzione vale, credo, per tutti gli altri settori che dovrebbero essere interessati da incisive riforme. In molti casi, colpire la rendita può significare mettere a rischio o, per lo meno, in grave sofferenza, anche i legami fra le diverse aree territoriali del Paese. Ciò significa che non bisogna fare quegli interventi riformatori? Bisogna farli di sicuro, a meno che non ci si rassegni definitivamente all’idea che la democrazia italiana possa reggere solo se si accettano bassi tassi di crescita (anche a crisi superata) e forse, in prospettiva, un ulteriore impoverimento complessivo. Ma bisogna anche individuare le strategie utili per attutire gli inevitabili, probabilmente fortissimi, contraccolpi.

Angelo Panebianco
06 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La concretezza di un successo.
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2009, 09:15:07 am
IL G8 E LE ASPREZZE ITALIANE

La concretezza di un successo


Dal punto di vista dell’Italia, il G8 è stato un vero successo. Il no­stro Paese ha svolto al me­glio il suo ruolo di anfitrio­ne e le posizioni del gover­no italiano su importanti dossier hanno trovato uno spazio che pochi osservato­ri, nei commenti della vigi­lia, avevano previsto.

Prima dell’incontro, mol­ti temevano (o auspicava­no, a seconda dei punti di vista) che le vicende priva­te di Berlusconi potessero provocare qualche atto di clamorosa contestazione del primo ministro italiano da parte dell’una o l’altra delegazione. Con conse­guenze pesantissime per l’Italia. Non è accaduto. In più, le autorità italiane han­no dimostrato di sapere ge­stire con efficacia un avve­nimento complesso come il G8. Presidente della Re­pubblica e presidente del Consiglio si sono mossi in sintonia. E anche le opposi­zioni (con l’eccezione di Di Pietro) hanno mantenuto un comportamento alta­mente responsabile. Come il presidente della Repub­blica aveva richiesto. E co­me è necessario quando so­no in gioco gli interessi na­zionali. In quei frangenti, il governo non rappresenta una parte ma l’intero. Ed è bene che così sia considera­to dalle forze politiche e dai cittadini.

Anche la scelta di tenere il G8 all’Aquila si è rivelata felice. Non erano mancate le perplessità dopo la deci­sione di Berlusconi, all’in­domani del terremoto, di spostare dalla Maddalena all’Aquila la sede del verti­ce. Quelle perplessità, so­prattutto in riferimento al­le delicate questioni della sicurezza, non apparivano infondate. Ma anche su questo piano Berlusconi ha scommesso e ha vinto. Tenere il vertice nelle zone terremotate, di fronte alla città devastata dal sisma, ha dato un segno di concre­tezza, di contatto con la re­altà, ai colloqui su quei di­sastri del mondo a cui i go­vernanti dei più importan­ti Paesi dovrebbero trovare rimedi.

E’ stato scritto in questi giorni che il G8 è morto, che all’Aquila se ne sono ce­lebrati i funerali. E’ così. Il G8 non è più rappresentati­vo della reale distribuzione della ricchezza e del potere nel mondo. Tanto è vero che lo si è dovuto aprire, anche in questa occasione, alle altre grandi potenze economiche, Cina in testa. Noi italiani, al pari degli al­tri europei, non possiamo rallegrarcene. Il G8 era un luogo nel quale i Paesi eu­ropei, e fra essi anche l’Ita­lia, erano in grado di eserci­tare una vera influenza. Lo hanno dimostrato proprio il vertice dell’Aquila e il ca­so italiano. L’Italia ha avuto un ruolo centrale in questo vertice non solo dal punto di vista cerimoniale, in quanto Paese ospitante, ma anche dal punto di vi­sta sostanziale: ad esem­pio, le posizioni sostenute dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti in materia di riforma delle regole del sistema finanziario hanno qui trovato sostegni e am­pie convergenze.

Difficilmente, ci sarà al­trettanto spazio per le posi­zioni dell’Italia o di altri Pa­esi europei nei vertici allar­gati (il G20) che, inevitabil­mente, finiranno per sosti­tuire del tutto il G8 nei prossimi anni. Più che il ri­schio c’è la certezza di un drastico indebolimento delle capacità negoziali e di una altrettanto drastica perdita di influenza dei Pa­esi europei, spesso fra loro litigiosi e divisi, in quei fu­turi consessi dominati, ol­tre che dagli Stati Uniti, dai colossi asiatici e da altre po­tenze emergenti. Per ora, gustiamoci la riuscita del vertice e la buo­na figura che l’Italia vi ha fatto.

Da oggi ricomincia, con le asprezze di sempre, la solita politica italiana.


Angelo Panebianco
11 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. CORTE SUPREMA E TRASPARENZA
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2009, 10:21:24 am
CORTE SUPREMA E TRASPARENZA

Quelle domande ai giudici Usa


Come è nella tradizione della democrazia americana, l'audizione di fronte alla Commissione giustizia del Senato di Sonia Sotomayor, designata come giudice della Corte Suprema dal Presidente Obama, è stata, per lei, una prova assai dura. Ha dovuto difendere il proprio passato come giudice della Corte d'Appello federale di fronte alle domande incalzanti dei senatori. La Sotomayor è di origine ispanica. La sua affermazione secondo cui una «saggia donna ispanica» sarebbe un giudice migliore di un «uomo bianco», l'ha esposta alla accusa di alcuni senatori repubblicani di praticare una sorta di razzismo alla rovescia. La Sotomayor ha dovuto spiegare che quel discorso era solo volto a interessare alla carriera giuridica un pubblico latino giovane che, per lo più, se ne tiene lontano. Ha dovuto poi replicare all’obiezione di essere una «attivista liberal », più interessata a modificare la legge che ad applicarla. E ha dovuto render conto delle posizioni assunte in cause riguardanti dispute razziali.

La Sotomayor non è il primo giudice designato alla Corte Suprema che viene messo in graticola dai senatori e non sarà l'ultimo. L'audizione è un interrogatorio ove abbondano le domande scomode, che serve al Senato per confermare o rifiutare la designazione presidenziale del candidato (e all'opinione pubblica per valutare le qualità del giudice designato e l'operato del Senato) ed è un'istituzione cruciale della democrazia americana. Dà trasparenza al processo decisionale mediante il quale un’assemblea rappresentativa avalla o respinge la nomina di un giudice della Corte.

Per la sensibilità europeo- continentale ciò può apparire strano ma questo modo di procedere non toglie affatto prestigio alla Corte Suprema. Al contrario, lo rafforza. Le istituzioni americane sono diversissime dalle nostre. Figlie di un'altra storia e di un'altra cultura politica.

Però in quelle istituzioni c'è un insegnamento che vale anche per noi.

La nostra (europea, e italiana in particolare) è una tradizione di chiusure corporative e di mancanza di trasparenza. Basti pensare al fatto che in Italia le critiche al modus operandi della magistratura vengono spesso trattate dai suoi rappresentanti come delitti di lesa maestà, subdoli tentativi di «delegittimazione ». Oppure, si pensi a come vengono designati i giudici della Corte Costituzionale. Siamo sicuri che il prestigio della Corte verrebbe indebolito se i candidati designati dovessero affrontare pubblicamente una batteria di domande, sul modello americano, da parte del Senato?

L'America è una democrazia che combina la gelosa difesa dell'indipendenza dei giudici (a tutti i livelli) con il rifiuto dell'esistenza di caste burocratiche chiuse, impermeabili al controllo democratico. Nella tradizione europeo-continentale, invece, le magistrature sono tecno- burocrazie separate dal processo democratico.

In considerazione dell'accresciuto peso che queste tecno- burocrazie svolgono nella nostra vita associata, avvicinare un poco, su questi aspetti, le due sponde dell’Atlantico, non sarebbe forse sbagliato.

Angelo Panebianco
15 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La debole unità di un Paese
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2009, 11:23:46 pm
I PARTITI E LA CONTESA TRA NORD E SUD

La debole unità di un Paese


Dobbiamo davve­ro preoccuparci per l’unità futu­ra del Paese? Di che cosa è sintomo la sciatteria fin qui dimo­­strata, e denunciata da Er­nesto Galli della Loggia, nella preparazione delle celebrazioni per i cento­cinquanta anni dell’unità d’Italia? E, ancora, che co­sa indicano le voci intor­no alla possibile nascita di una «lega sud» che po­trebbe domani contrap­porsi frontalmente al «partito del nord»? Davve­ro la Lega Nord ha ormai «vinto», quanto meno sul piano culturale, come ha scritto Alessandro Campi sul Riformista , tal­ché l’unità morale del Pae­se sarebbe già irrimedia­bilmente svanita?

I processi storici sono il frutto delle azioni degli uomini e delle organizza­zioni a cui gli uomini dan­no vita. E’ ormai dalla fi­ne della Seconda guerra mondiale che l’unità del Paese dipende dalla capa­cità integrativa, o federati­va, svolta da alcuni partiti politici. In quella che, convenzionalmente, vie­ne chiamata Prima Re­pubblica, l’unità del Pae­se dipendeva dal ruolo fe­deratore svolto dalla De­mocrazia Cristiana. Fu la Dc il partito che tenne in­sieme l’Italia impedendo alle sue storiche fratture (Nord/Sud, Stato/Chie­sa) di acutizzarsi dispie­gando tutta la loro poten­ziale capacità disgregati­va. Nel suo ruolo di parti­to di maggioranza relati­va la Dc legava fra loro il Veneto e la Sicilia, la Lom­bardia e la Calabria, il Friuli e la Campania, il Trentino e il Lazio.

Nella «Repubblica dei partiti», la Democrazia Cristiana, per oltre un quarantennio, garantì il mantenimento del lega­me fra le diverse parti del Paese. Era quello, e non altro, il mastice in una fa­se storica, seguita alla dit­tatura e alla sconfitta belli­ca, in cui l’eredità risorgi­mentale era stata seria­mente lesionata e logora­ta sul piano politico-sim­bolico. La Lega Nord, a mio avviso, non è stata la causa di nulla. La sua comparsa, nei primi anni Novanta, fu, semmai, un effetto. L’effetto di un lun­go periodo dominato da una (sciagurata) pedago­gia negativa sul Risorgi­mento e l’Unità d’Italia: per rinfrescarsi la memo­ria converrebbe riprende­re in mano qualcuno fra i tanti manuali di storia pa­tria circolanti nella scuo­la pubblica, soprattutto a partire dagli anni Settan­ta.

Dunque, piaccia o me­no, è ai partiti politici che bisogna guardare per ca­pire quale sorte sia riser­vata all’unità del Paese. Se ci si pone da questo punto di vista, effettiva­mente, l’estrema precarie­tà della situazione che vi­viamo salta agli occhi. Al­la Dc è sì succeduto un al­tro partito federatore ma si tratta di un federatore fragilissimo. Si osservi la mappa elettorale del Pae­se. Il partito federatore, subentrato alla Democra­zia Cristiana, è il Popolo della Libertà, primo parti­to sia al Nord che al Sud. E’ la conseguenza di quan­to accadde negli anni No­vanta. Spazzati via i parti­ti della Prima Repubblica fu allora Silvio Berlusco­ni, insieme ai suoi alleati, a colmare il vuoto lascia­to dalla Democrazia Cri­stiana.

Ma il Popolo della Li­bertà ha due evidenti pun­ti di debolezza. Il primo è che si tratta di un conteni­tore mal amalgamato, na­to dalla recentissima fu­sione di Forza Italia e An. Un contenitore che si è formato solo per mante­nere competitivo il cen­trodestra nel momento in cui è stato creato il Parti­to democratico.

Dovesse quest’ultimo dividersi (e la pos­sibilità sicuramente esiste), il Popolo della Libertà subirebbe dopo poco la stessa sor­te. Il secondo, e più importante, elemento di debolezza consiste nel fatto, naturalmen­te, che si tratta di un partito carismatico, il cui destino è strettamente legato alla sorte politica di Berlusconi.

Che succederà al Popolo della Libertà quando Berlusconi lascerà la scena politi­ca? Si frantumerà, come è probabile, se­guendo la sorte di tanti altri partiti carisma­tici? Oppure sperimenterà quel raro feno­meno che viene detto «istituzionalizzazio­ne del carisma», sopravvivendo politica­mente al suo fondatore? Nessuno è oggi in grado di rispondere. Il problema, però, è che la chiave per comprendere quale sarà il futuro del Paese (della sua unità) è conte­nuta proprio nelle risposte a queste doman­de.

Immaginiamo il caso peggiore, il caso in cui, uscito di scena Berlusconi, il Pdl si fran­tumasse in due tronconi, uno di cen­tro- nord e uno meridionale. In fondo, le manovre in corso in Sicilia e l’agitazione dei deputati e dei ministri meridionali pos­sono essere lette anche come un’anticipa­zione di quella eventualità. La nascita di un blocco politico meridionale «indipenden­te » esaspererebbe le spinte centrifughe. Ve­nuto a mancare il «mastice partitico», Nord e Sud entrerebbero politicamente in rotta di collisione. La débâcle, finanziaria e di prestazioni, della Sanità meridionale, og­gi sotto i riflettori, è solo un aspetto, ancor­ché gravissimo, delle tensioni che si vanno accumulando e che mettono in sofferenza l’unità del Paese. Cosa accadrebbe ove ve­nisse meno il federatore?

L’eventualità, nel dopo-Berlusconi, di una divisione del centrodestra in due tron­coni territorialmente contrapposti, si capi­sce, non dispiacerebbe all’attuale gruppo dirigente del maggior partito di opposizio­ne, il Partito democratico. Sulla base del principio che fra i due litiganti, eccetera. Ma il Partito democratico versa in una crisi di identità difficile da risolvere e che può facilmente ridurlo alle dimensioni di un partito regionale (emiliano-toscano e poco più). Difficile che trovi la forza e la spinta per trasformarsi nel nuovo federatore del Paese.

È ormai un luogo comune storiografico che in Italia, data la debolezza dello Stato, i partiti abbiano svolto un ruolo di supplen­za diventando gli (involontari) garanti del­la coesione sociale e politica.

Se quella tesi è vera, è alla evoluzione dei partiti che dobbiamo guardare per capire cosa ne sarà in futuro dell’unità d’Italia. Le idee, le visioni, le tradizioni (e le divisioni) culturali contano tantissimo. Ma è ciò che gli uomini scelgono di farne, per calcoli contingenti, a decidere le sorti politiche dei Paesi.



Angelo Panebianco
26 luglio 2009
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Dal moralismo al riformismo
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2009, 03:19:50 pm
IL PD E LE INCHIESTE GIUDIZIARIE

Dal moralismo al riformismo


Analizzando la si­tuazione creatasi in Puglia a segui­to delle inchie­ste sulla sanità che vedo­no coinvolti i partiti di cen­trosinistra, Antonio Maca­luso ( Corriere , 31 luglio) si è chiesto maliziosamente «… se i pesanti attacchi di tutto il fronte dell’opposi­zione nei confronti del pre­sidente del Consiglio e dei suoi comportamenti — si­curamente discutibili — non abbiano talvolta volu­to coprire i timori per quel­lo che l’inchiesta avrebbe potuto portare alla luce». È probabile che sia così. Ma la vicenda pugliese, se non fosse usata come mez­zo per regolamenti di con­ti interni, potrebbe diven­tare la dimostrazione del fatto che non tutto il male viene per nuocere. A patto che ci sia un leader abba­stanza coraggioso per prendere di petto il vero problema che attanaglia il Partito democratico, la ta­ra che impedisce a quel partito di darsi una credi­bile identità riformista. Mi riferisco al fatto che esso non è mai stato in grado di impostare in modo sa­no e corretto, di fronte a se stesso e all’opinione pubblica, la questione del rapporto fra morale e poli­tica.

Detto così, lo riconosco, suona tutto un po’ astratto e accademico ma, in real­tà, mi riferisco a due con­cretissimi problemi di cui, non casualmente, nessu­no parla nel confuso dibat­tito precongressuale del Pd. Il primo riguarda il fat­to che la debolezza politi­co- culturale del Pd lo con­danna a essere un partito «eterodiretto», un partito che, nelle scelte che davve­ro contano, subisce il pe­sante condizionamento di alcuni «giornali di riferi­mento ». Il secondo riguar­da l’incapacità di sbaraz­zarsi dell'alleanza con Di Pietro: come potrebbe sba­razzarsene, tenuto conto che il Pd non dispone al momento delle armi cultu­rali necessarie per combat­tere quello che è ormai il suo più insidioso competi­tore? Le domande che il congresso del Pd dovreb­be porsi sono le seguenti: quale futuro politico può avere un partito che si pre­senta come riformista ma la cui componente identi­taria principale, quella che trasmette soprattutto di sé, è il moralismo? E, anco­ra: è il moralismo una ri­sposta giusta o sbagliata ai delicati problemi di etica pubblica che la democra­zia deve quotidianamente fronteggiare?

All'origine della grande tara, della scelta del mora­lismo come elemento ide­ologico dominante della identità della sinistra italia­na, ci sono probabilmente gli eventi del quinquennio 1989-1994, il periodo che va dalla caduta del Muro di Berlino all'ingresso in politica dell’Uomo Nero, Silvio Berlusconi, passan­do per Mani Pulite. Orfana del comunismo, la sinistra non seppe far altro, anche aggrappandosi agli aspetti peggiori dell’eredità di Ber­linguer (la diversità antro­pologica, l’austerità), che mettersi a gridare «al la­dro ». In parte, per blandi­re le procure impegnate nelle inchieste sulla corru­zione, offrendo loro una al­leanza politica di fatto (e sperando così di limitare i danni) e in parte perché non aveva altra identità a cui aggrapparsi.

Oltre a tutto, il passaggio dal comuni­smo al moralismo, dalla rivoluzione comu­nista alla «rivoluzione dei Santi», favorì il matrimonio dell’ex Pci con la sinistra de­mocristiana, anch’essa allo sbando dopo la fine della Dc. La ciliegia sulla torta fu l’arri­vo di Berlusconi: di fronte all’Orco, simbo­lo di tutti i vizi e le turpitudini del Paese, occorreva che i buoni, i santi, gli incorrotti, facessero blocco insieme: per lo meno, que­sta è stata la favola raccontata per quindici anni agli elettori del centrosinistra. Ma le favole funzionano solo se le si riconosce co­me tali. Se le si scambia per descrizioni del­la realtà portano alla rovina.

Ancora una volta, quel genio della comu­nicazione che è Berlusconi, pur in grave dif­ficoltà a causa della sua disordinata e scon­siderata vita privata, li ha battuti usando quattro paroline magiche: «non sono un santo». Tutti sanno infatti che di santi, su questa terra, ne circolano davvero pochi, e nemmeno i moralisti lo sono (anche se fin­gono, per convenienza politica, di esserlo). Sposando il moralismo, quali che siano i vantaggi politici a breve, ci si scotta sem­pre. In primo luogo, non si possono affron­tare correttamente le questioni di etica pubblica. In termini di etica pubblica, il problema non è mai «combattere i corrot­ti » (l’accertamento dei reati di corruzione spetta alla magistratura penale). Il proble­ma è invece incidere sulle condizioni, sulle circostanze, che accrescono o diminuisco­no la propensione alla corruzione. Persino Madre Teresa di Calcutta, santa donna (uno dei pochi santi in circolazione nel XX secolo), avrebbe probabilmente avuto pro­blemi con la giustizia se le avessero affida­to un assessorato regionale alla Sanità in certe zone del Mezzogiorno.

In secondo luogo, sposando il morali­smo, riducendo la politica a una questione di santi e di reprobi, ci si imbatte sempre, prima o poi, in qualcuno che si dichiara più santo di te. La principale ragione per cui il Pd subisce da mesi e mesi, senza rea­gire, l’offensiva di Di Pietro, è che, dopo quindici anni di confusione fra moralismo e etica pubblica, esso si ritrova con buona parte dei suoi elettori e militanti in sinto­nia ideologica con il dipietrismo.

Eppure, prendere di petto queste que­stioni è vitale per il Pd. L’occasione per fare un salto dal moralismo al riformismo, per affrontare a muso duro il «partito morali­sta », potrebbe consistere nell'accoglimen­to della richiesta del presidente della Re­pubblica di un accordo bipartisan sulle in­tercettazioni. La politica moralista è sem­pre stata intrecciata con le questioni di giu­stizia. Imboccando la strada di un accordo con il centrodestra sulle intercettazioni, il Pd potrebbe cominciare a sciogliere quel­l’intreccio. Scegliendo di porre fine a una ventennale, opportunista, politica di fian­cheggiamento della Associazione Naziona­le Magistrati, scegliendo di non chiudere più gli occhi di fronte agli eccessi dell'attivi­smo giudiziario, il Pd comincerebbe a rego­lare i suoi conti anche con il dipietrismo e le sue finte virtù. In nome e per conto di una identità riformista finalmente in can­tiere.

In un mondo di peccatori, quel poco di etica pubblica che è possibile salvaguarda­re richiede lucido e pragmatico riformi­smo. Lasciando alla Chiesa il compito di proclamare i santi.


Angelo Panebianco
03 agosto 2009
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La politica non è lotta tra bene e male (dice lui!).
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2009, 04:38:13 pm
IL DIBATTITO SU MORALISMO E RIFORMISMO

La politica non è lotta tra bene e male

   
E' possibile liberare dalla gabbia mentale in cui sono imprigionati coloro che confondono politica e morale, che credono che moralità e moralismo siano sinonimi, che pensano che la politica sia una guerra fra l'armata della luce e quella delle tenebre? In un editoriale del 3 luglio ho sostenuto che il Partito democratico dovrebbe scrollarsi di dosso l'ipocrita impalcatura moralista che si è costruito. Che nel Pd ci sia una divisione fra riformisti e moralisti è dimostrato dalle reazioni a quell'articolo.

Linda Lanzillotta, prendendo lo spunto dal­le inchieste pugliesi, ha fatto un ineccepibile intervento (Corriere del 4 agosto) sulla neces­sità di una riforma del sistema della sanità che separi politica e amministrazione: un esempio cristallino di ciò che intendevo, nel­l’editoriale citato, per approccio riformista ai problemi di etica pubblica. Però, sempre sul Corriere del 4 luglio, si po­teva anche leggere la sdegnata replica al mio articolo di Franco Monaco, democratico doc come la Lanzillotta, ma di altra pasta. Quello di Monaco sembrava un comunicato dell’uffi­cio stampa dell’Italia dei Valori. È la presenza di tanti Monaco a spiegare l’impossibilità per il Pd di scindere le proprie sorti da quelle di Di Pietro, di fare il salto dal moralismo al rifor­mismo.

Anche se è difficile oggi separare la questio­ne del moralismo da quella della presenza in politica di Silvio Berlusconi proverò a farlo. Perché ci sono anche, mi ha ricordato Mario Pirani ( La Repubblica , 7 agosto), ottime ragio­ni politiche per criticare Berlusconi. L’inter­vento di Pirani, uno dei pochi editorialisti di Repubblica da cui non mi senta culturalmen­te agli antipodi, mi ha richiamato alla mente certi rituali del Pci, dove il reprobo veniva at­taccato da uno che egli non riteneva troppo diverso da sé. Pirani elenca i tratti di Berlusco­ni (il conflitto di interessi, gli attacchi alla ma­gistratura, eccetera) che richiedono di essere combattuti. Bene, ma faccio notare a Pirani che la sua ricostruzione è troppo squilibrata. Berlusconi, dice Pirani, è un unicum nel pano­rama conservatore: non è Sarkozy, la Merkel o Cameron. Sì, ma uno sguardo storico aiuta a capire. Noi non abbiamo avuto de Gaulle. Né la secolare alternanza fra conservatori e laburi­sti. Noi avevamo un sistema bloccato domina­to da democristiani e comunisti. Berlusconi è un unicum ma è il prodotto di un altro uni­cum: la rivoluzione giudiziaria che spazzò via i partiti moderati e che, anch’essa, non ha con­fronti con quanto accaduto in altre parti d’Eu­ropa. Inoltre, come Pirani sa, i conflitti di interes­se sono, per le democrazie, difficili da gestire (vedi il caso Bloomberg a New York).

Da noi, certo, il problema è reso ancor più acuto a cau­sa delle televisioni. Ma imporre all’imprendi­tore che assume certi ruoli di vendere le azien­de significa ignorare le regole del mercato: poiché vendere per legge è uguale a svendere tanto vale stabilire che agli imprenditori sia interdetta la politica. È fattibile? In altri termini, Pirani ha ragione ma fino a un certo punto: dimentica le cause che hanno «prodotto» Berlusconi e sottovaluta la com­plessità, e la difficile trattabilità, dei problemi che la presenza in politica di figure come la sua comportano. Mi meraviglio poi che Pirani adotti un atteg­giamento così acritico sulla questione del rap­porto fra Berlusconi e la magistratura. Ricor­do che nei primi anni Novanta io e Pirani, con­sapevoli dei guasti di un sistema giudiziario fondato sull’onnipotenza del pm, eravamo fra i pochi a invocare la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Possibile che Pirani abbia cambiato idea al punto di vedere nello scontro fra Berlusconi e certi settori del­la magistratura solo la lotta fra un impunito e i suoi irreprensibili accusatori? Se così fosse, sarebbe Pirani, e non io, come egli mi accusa, a sfogliare le favole dei fratelli Grimm.

È infi­ne strano che un fine analista sembri non comprendere il vero segreto del successo di Berlusconi dal ’94 in poi: il fatto che in un Pae­se iperstatalista, dominato fino a quel momen­to dai grandi «collettivi» (il Partito, il Sindaca­to, la Corporazione) abbia fatto irruzione un imprenditore che si è appellato allo spirito in­dividualista, che ha proposto una «via indivi­dualista alla felicità». Si può deprecare il fatto ma non sottovalutarlo. Personalmente, ciò che soprattutto non sopporto di Berlusconi è la distanza, per me intollerabile, fra le promes­se e le realizzazioni (di liberazione degli indivi­dui da «lacci e lacciuoli», nelle sue esperienze di governo, se n’è vista poca) ma, di sicuro, non sono fra quelli che deprecano l’appello al ruolo dell’individualità.

Torno sulla questione del moralismo. A for­za di campagne moralistiche, nel corso dei de­cenni, si è messa larga parte delle nuove gene­razioni nell’impossibilità di capire alcunché di politica. Le si è addestrate a pensare la poli­tica nei termini infantili e menzogneri della lotta fra il bene e il male, le si è condannate a non vedere la complessità del mondo e la sua ineliminabile ambiguità, anche morale. Non molti, ormai, riescono a distinguere fra la mo­ralità (che investe una dimensione personale: riguarda il rapporto fra me, i miei atti e la mia coscienza e, per chi ci crede, Dio) e il morali­smo, che è una tecnica di combattimento poli­tico. I moralisti sono di due tipi: quelli che ci credono e quelli che si fingono. Quelli che ci credono pensano che invocare di continuo la moralità sia un modo di testimoniare la pro­pria appartenenza alla schiera dei buoni. Sa­rebbero inoffensivi se la loro ingenuità non ve­nisse sfruttata da altri, i veri utilizzatori del moralismo come tecnica politica. Da coloro, cioè, che in un mondo di esseri imperfetti e peccatori, si attribuiscono virtù che non han­no e si ergono a giustizieri morali. Sono i re­sponsabili della propagazione di una immagi­ne farsesca della politica, come luogo del con­fronto fra luce e tenebre.

La loro presenza ren­de difficile affrontare i temi di etica pubblica. Questi ultimi riguardano, per lo più, problemi di convenienza collettiva: ad esempio, convie­ne abbassare il tasso di corruzione, per gene­rare condizioni di fiducia sociale e incentivi allo sviluppo, per migliorare le condizioni di vita. Ma parlare di queste cose con i moralisti è fiato sprecato.

Angelo Panebianco
14 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Una battaglia dimenticata
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2009, 03:31:24 pm
I PARTITI E LA RIDUZIONE DELLE TASSE

Una battaglia dimenticata


Diceva Adam Smith, padre dell’economia moderna, che perché in un Paese si dia «opulenza» occorrono tre condizioni: la pace, una «leggera tassazione» e una buona amministra­zione della giustizia. So­stituiamo «opulenza» con «crescita economica sostenuta» e guardiamo, usando quelle lenti, al ca­so italiano degli ultimi de­cenni. La pace fortunata­mente c’era ma il livello troppo alto di tassazione e il cattivo funzionamen­to della giustizia (si pensi alla giustizia civile, quella che più incide sugli affa­ri) bastano a spiegare — se crediamo ad Adam Smith — perché l’Italia abbia avuto per così tanti anni, prima che esplodes­se la crisi mondiale, tassi di crescita bassissimi. La domanda che oggi tanti si pongono è: quando la crisi finirà, quando l'eco­nomia mondiale tornerà a crescere, l’Italia ricomin­cerà ad arrancare, come ha fatto nei decenni scor­si, dietro ai nostri partner europei e occidentali più importanti? Ciò è assai plausibile se non verran­no rimosse le cause della bassa crescita del passa­to. Qualche buona notizia forse c’è. Ad esempio, se la riforma del processo ci­vile, voluta dal ministro Alfano, riuscisse davvero, come il ministro promet­te, a rendere più rapidi i procedimenti giudiziari, verrebbe meno un tradi­zionale impedimento al buon funzionamento del­la nostra economia.

Resterebbe comunque l’altro handicap, un livel­lo di tassazione troppo elevato. Francesco Giavaz­zi, su questo giornale (26 agosto), ha chiesto al pre­mier Berlusconi di torna­re alle sue (non attuate) proposte «rivoluziona­rie » dell’esordio, del 1994 e del 2001, in materia di fi­scalità: si riducano drasti­camente le tasse, dice Gia­vazzi, puntando sulla cre­scita per alleviare la pres­sione del debito pubbli­co. Altri economisti non concordano: avendo noi sulle spalle il terzo debito pubblico del mondo, dob­biamo muoverci, essi di­cono, con la massima prudenza e gradualità. La­sciando ai tecnici del­l’economia la discussio­ne sul fatto se sia meglio procedere con una tera­pia d’urto in fatto di rifor­me (Giavazzi, ma anche Giacomo Vaciago sul So­le 24 ore ), con uno shock, oppure con lentezza e gradualità (la «corrente continua» di cui ha parla­to il ministro dell’Econo­mia Giulio Tremonti), bi­sogna anche ricordare che la questione ha im­portanti implicazioni po­litiche, tocca problemi di consenso e di coesione delle coalizioni elettorali che sostengono le diver­se forze politiche.

Le circostanze forgiano e alimentano gli interes­si. In un regime di basse tasse gli interessi contrari a innalzamenti della pres­sione fiscale sono potenti e rappresentano un forte deterrente per i governi. In un regime di tasse alte, come quello italiano, vale l’opposto: è il «partito del­le tasse» a rappresentare la costellazione di interes­si più potente, quella che ha i mezzi per opporsi con forza a modificazioni dello status quo fiscale.

In Paesi occidentali con una storia diversa dalla nostra, il partito delle tasse è normalmen­te rappresentato dalla sinistra (mentre a destra sono più forti gli interessi alla riduzione della pressione fiscale). Nel nostro Paese non è così: il partito delle tasse taglia trasversalmente de­stra e sinistra, è ben rappresentato in tutti e due gli schieramenti.

Se ci limitiamo alle forze di governo sembra plausibile sostenere che il Pdl sia diviso fra una parte che vorrebbe rispondere positivamente al­la domanda di riduzione della pressione fiscale che viene da settori consistenti dell’elettorato di quel partito e la parte che, vivendo di inter­mediazione pubblica, teme che una riduzione delle tasse porti con sé una contrazione dell’am­montare delle risorse a disposizione. Le molte­plici lobby della spesa pubblica sono, e sono sempre state, le componenti più forti e aggressi­ve del partito delle tasse.

Del tutto speciale è poi il caso della Lega. La Lega ha sempre impostato la sua polemica poli­tica sui «soldi» ma ne ha fatto, in coerenza con un’ispirazione territorial-comunitaria, più una questione di rapporto fra Roma e il Nord («Ci teniamo noi i nostri soldi») che una questione di minor pressione fiscale sui cittadini. Per inci­so, credo che questa sia anche la ragione princi­pale per la quale la Lega, pur in crescita, non potrà non incontrare un limite nella sua espan­sione elettorale al Nord.

La crisi e il debito ci opprimono e non ha torto Tremonti quando dice che governare si­gnifica prendere decisioni qui e ora per affron­tare i problemi che incombono. Però, se sia­mo tutti d’accordo che senza forti riduzioni della pressione fiscale non c’è crescita seria (e pare difficile che questa tesi, a sostegno della quale abbondano le osservazioni storiche, pos­sa essere smentita da qualcuno), allora biso­gnerebbe, quanto meno, indicare una prospet­tiva, un percorso, che ci porti, con tutte le cau­tele e le gradualità del caso, verso un regime di fiscalità meno esosa, per le imprese e per i cittadini. Tremonti lascia intendere che sarà il federalismo fiscale, «la madre di tutte le rifor­me », come egli la chiama, a sciogliere molti nodi. Può essere che sia così ma può anche es­sere che il fortissimo partito delle tasse riesca a piegare il federalismo fiscale alle sue esigen­ze. È successo tante volte, in tanti Paesi, non solo in Italia, che riforme istituzionali concepi­te per raggiungere certi scopi siano state piega­te dagli interessi costituiti al servizio di scopi differenti. Dubito che il federalismo fiscale, se non accompagnato da misure incentivanti la riduzione delle tasse, possa essere, da questo punto di vista, una panacea.

Checché ne dicano i suoi nemici la crescita economica è un valore, perché porta con sé più benessere, più libertà e anche la possibilità, se lo si vuole, di politiche volte ad assicurare una maggiore equità (la crescita non garantisce di per sé equità ma la sua assenza comporta sem­pre iniquità). Per ottenerla non si conosce stru­mento migliore della «leggera tassazione» di cui parlava Adam Smith.

Angelo Panebianco
31 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
  da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I COSTI DI UNA FRATTURA IMPREVISTA
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2009, 12:11:29 pm
I COSTI DI UNA FRATTURA IMPREVISTA

Le scelte politiche dei cattolici


Singoli eventi non possono modifica­re le relazioni fra istituzioni ma pos­sono accelerare tendenze in atto. Il caso Boffo, pur nella sua gravità, non cau­serà il riposizionamento della Chiesa nei confronti del sistema politico italia­no. Può però accelerarlo.

Ricapitoliamo il percor­so compiuto. Tramontata l’epoca dell’unità politica dei cattolici, scomparsa la Dc, la Chiesa (italiana) si adattò al nuovo mondo bi­polare. Il bipolarismo pre­sentava per essa un van­taggio e uno svantaggio. Il vantaggio era che, non es­sendo la Chiesa monoliti­ca, le sue componenti, in ragione dei loro differenti orientamenti, potevano trovare interlocutori, a be­neficio dell’istituzione, in entrambi gli schieramen­ti. Lo svantaggio era che il feroce bipolarismo italia­no rischiava di trasferire i suoi veleni nella Chiesa ac­crescendo, oltre il limite di guardia, la conflittuali­tà interna. La fortuna del­la Chiesa, per un lungo pe­riodo, fu di contare, alla te­sta della Conferenza epi­scopale, su un uomo co­me il Cardinale Camillo Ruini, capace, con energia e finezza politica, di garan­tire una navigazione sicu­ra in acque insidiose.

Dal ’94 ad oggi, dire «bi­polarismo » significa dire Berlusconi: nel senso che è stata la presenza di Ber­lusconi (più delle leggi elettorali) ad assicurare, grazie ai consensi e agli odi che ha suscitato, la di­visione del Paese, il bipola­rismo politico. Nei gover­ni Berlusconi la Chiesa ita­liana trovò più di un inter­locutore ben disposto: il centrodestra assunse in to­to , creando frustrazione nelle sue frange laiche, la rappresentanza delle istanze della Chiesa (fe­condazione assistita, op­posizione ai Dico, testa­mento biologico, ecc…). Il prezzo, per la Chiesa, fu di scontentare quella parte di sé e del più generale mondo cattolico ostili a Berlusconi. Ma era un prezzo che poteva essere pagato fin quando il cen­trodestra fosse rimasto un interlocutore affidabile.

Oggi le cose sono in mo­vimento. La Chiesa, come tutti, deve prendere atto che il ciclo politico di Ber­lusconi è comunque nella fase discendente. Al massi­mo, entro qualche anno, dovrà concludersi. E, co­me tutti, la Chiesa deve an­che chiedersi se il bipolari­smo sopravvivrà all’uscita di scena di Berlusconi. In più, le vicende personali del premier e ora il caso Boffo, sembrano avere in­nalzato il livello di conflit­to all’interno dell’istituzio­ne. Garantire l’unità, trova­re una sintesi, impedire conflitti laceranti, è ades­so, per i vertici della Chie­sa italiana, difficile.

E’ evidente che la Chie­sa, confusamente, si inter­roga sulle opzioni disponi­bili: mantenere un rappor­to privilegiato con il cen­trodestra tenendo a freno gli avversari interni? Pun­tare su un «partito cattoli­co » di centro (una mi­ni- Dc) che tuteli i suoi in­teressi quali che ne siano le alleanze? Cercare nella sinistra un nuovo interlo­cutore? La prima opzione è resa complessa dalle vi­cissitudini del premier e dai loro contraccolpi. La seconda rischia di risulta­re velleitaria. La terza de­ve fare i conti con l’egemo­nia esercitata sulla sini­stra da moralisti che si am­mantano di «virtù repub­blicane » e che incarnano un nuovo partito ghibelli­no. Alla fine, i nodi verran­no sciolti dalla politica. A decidere, anche delle scel­te della Chiesa, sarà la sor­te del bipolarismo: in so­stanza, la capacità o meno del centrodestra di supera­re la crisi di successione senza disgregarsi.

Angelo Panebianco
06 settembre 2009
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da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. PD - Un'offerta inesistente
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2009, 11:02:43 am
IL PROFILO POLITICO DEL PD

Un'offerta inesistente


Il Partito democratico si avvia verso il congresso. La lotta precongressuale è stata aspra ma ciò non è servito a guarire la malattia di quel partito: la scarsa credibilità della sua «offerta politica» complessiva, l'assenza di un insieme di idee e di proposte potenzialmente in grado di convincere una parte rilevante di quegli elettori che, fin qui, si sono tenuti alla larga dal Partito democratico. Di più: mi pare che ci sia, in settori significativi del Pd, la sfiducia nella possibilità stessa che una forte offerta politica possa essere confezionata. Come altro si può interpretare il fatto che il gruppo dirigente oggi non speri, per vincere di nuovo, nelle virtù e nelle capacità proprie ma unicamente negli incidenti di percorso altrui? Non è forse vero che, per tornare al governo, il Pd si affida solo alla speranza di una uscita di scena di Berlusconi e della disgregazione del centrodestra? Non è forse vero che esso ripone le proprie chances, anziché nella capacità di attrarre elettori, in quella di attrarre alleati? Puntare tutte le proprie carte, piuttosto che sulle possibilità di sfondamento nell'arena elettorale, sulle manovre nell'arena parlamentare, significa sostituire la tattica alla strategia, sperare che il tatticismo e le capacità manovriere possano sopperire ai ritardi culturali e alle inadeguatezze politiche.

Quando Massimo D'Alema dice che un partito del 27-30 per cento può andare al governo solo costruendo alleanze, rivela la sua sfiducia nelle possibilità di crescita autonoma del partito. Una sfiducia della quale è peraltro facile identificare l'origine: va cercata in una pagina di storia ormai chiusa, quella del partito comunista.
Non critico D'Alema per questo: tutti noi siamo condizionati dalle nostre esperienze passate. Ma è un fatto che pensare che un partito del 30 per cento sia condannato a rimanere tale è un portato di quella esperienza. All'epoca del bipolarismo Usa/Urss il Partito comunista non aveva possibilità di espansione al di là di una certa soglia elettorale. Poteva accrescere la propria influenza politica e, eventualmente, entrare nell'area di governo, solo grazie alla sua capacità di costruire alleanze. È quello schema che, consapevolmente o meno, D'Alema oggi ripropone. Ma nel mondo attuale, senza più conventio ad excludendum, guerra fredda e partiti comunisti, quello schema dovrebbe essere buttato via. Perché, nelle nuove condizioni, un partito del 27/30 per cento (alle precedenti elezioni) può benissimo, se azzecca la proposta politica, se intercetta la domanda del Paese, sfiorare la maggioranza dei consensi (e magari, se poi governa male, tornare al 27 per cento o anche meno alle elezioni successive). Capisco il fatto che, in politica, le proposte degli avversari siano sbagliate per principio. Ma la verità è che l'idea del «partito a vocazione maggioritaria» di Walter Veltroni non era affatto sbagliata. Nasceva dalla presa d'atto che, nel dopo guerra fredda, un partito di sinistra (non comunista), se centra la proposta politica, può benissimo giocarsela «alla pari» con la destra. L'idea era eccellente ma venne realizzata male. La proposta politica non fu abbastanza innovativa e ci fu l'errore dell’alleanza con Di Pietro.

Certo, poi ci vogliono anche le alleanze. Ma le alleanze vengono dopo la proposta politica. È nella proposta politica la vera debolezza del Pd. Ne deriva un circolo vizioso: la debolezza dell'offerta politica genera problemi di identità che alimentano la sfiducia, la quale a sua volta impedisce di agire creativamente per modificare l'offerta politica. Faccio solo l’esempio di un problema nel quale la debolezza, di visione e di proposte, del Pd è evidente: la questione dell'immigrazione. Si tratta di una questione decisiva. Nel XXI secolo è uno dei due o tre temi su cui ci si gioca, in Europa, il destino politico. I punti di criticità sono due: il problema dell'immigrazione clandestina e quello dell'immigrazione islamica. Sull'immigrazione clandestina il Pd balbetta. Affiorano qui i cascami di ammuffiti terzomondismi di origine comunista e cattolica.
La sola cosa che il Pd sa fare è accusare di razzismo il governo. Ma davvero la politica detta dei respingimenti (in presenza di una colpevole latitanza dell'Unione Europea nel contrasto all'immigrazione clandestina) può essere così liquidata? Zapatero, il premier spagnolo, non risulta iscritto alla Lega Nord. Ma tratta con la massima durezza l'immigrazione clandestina. Non è forse nell'interesse dei Paesi europei mandare messaggi chiari alle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani?
E, ancora, davvero il reato di clandestinità (che esiste in tante democrazie) è una infamia? Che lo descriva così qualche vescovo poco interessato al fatto che l'Italia possieda dei confini (il reato di clandestinità è proprio questo: la dichiarazione secondo cui i confini dello Stato non sono una finzione o una barzelletta) è comprensibile, ma se lo fa un partito di opposizione esso si condanna a non diventare forza di governo. C'è poi la questione dell'immigrazione islamica. Bisognerebbe smetterla di gridare all'islamofobia tutte le volte che qualcuno ricorda che l'immigrazione islamica è quella che comporta le maggiori difficoltà di integrazione e, in prospettiva, i rischi più seri. Come dovrebbero insegnarci le imprudenti politiche della Gran Bretagna e dell'Olanda, «dialogo» e «accoglienza» non risolvono il problema. Perché non ci siano penosi risvegli fra qualche anno, occorre dettare condizioni chiare. Ma quelli del Pd, quando discutono di immigrazione, sembrano disinteressati al tema. Era solo un esempio, anche se rilevante. Costruire una offerta politica adeguata ai tempi può essere, per il Pd, una impresa faticosa, destinata anche a suscitare forti conflitti interni.

Ma, almeno, sarebbero conflitti da cui potrebbero nascere serie elaborazioni culturali e sforzi di immaginazione politica. Molto meglio che stare seduti sul greto del fiume, ripetendo fino alla noia vecchi slogan, e aspettando, inerti, di vedere passare sull'acqua il cadavere del nemico.

di ANGELO PANEBIANCO

10 settembre 2009
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Titolo: Angelo PANEBIANCO. LE RAGIONI DELLA MISSIONE IN AFGHANISTAN
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2009, 04:06:48 pm
LE RAGIONI DELLA MISSIONE IN AFGHANISTAN


Un impegno sul terrorismo

Oggi, nel giorno dei funerali dei sei pa­racadutisti caduti a Kabul, l’Italia uffi­ciale si stringerà, con compo­stezza e rispetto, intorno ai no­stri soldati. Come è certamen­te nei sentimenti di tutti e co­me l’opinione pubblica esige. Oggi non si sentiranno le «stecche» che si sono udite nel giorno dell’attentato. E’ im­portante che quelle stecche non si sentano più. Le questio­ni di guerra hanno questo di diverso rispetto alle normali lotte fra i partiti per, ponia­mo, l’accaparramento di cari­che di presidenti di Regione: ci va di mezzo la vita dei solda­ti. Come ha osservato Emma Bonino ( Il Riformista , 19 set­tembre) il nemico ascolta, ec­come: ci ascoltava quando, al­l’epoca del governo Prodi, la sinistra estrema minacciava sfracelli se non ce ne fossimo andati presto dall’Afghanistan e oggi ascolta le dichiarazioni (poi rettificate) di Umberto Bossi. Per questo, tali questio­ni non possono essere trattate dai partiti come se fossero fac­cende interne. Ciò non signifi­ca che non si debba partecipa­re, insieme agli alleati, a una riflessione collettiva su come fronteggiare le nuove, sempre più difficili, condizioni del conflitto in Afghanistan. Al di là di eventuali revisioni di stra­tegia militare o politica, c’è un dirimente punto politico, co­me ha notato Sergio Romano, sul Corriere del 19 settembre, e come ha riconosciuto il mi­nistro della Difesa Ignazio La Russa ( Il Corriere , 20 settem­bre): si tratta di rinnovare ogni sforzo affinché al Paese torni ad essere ben chiara la posta in gioco. Non è solo un problema italiano. E’ un pro­blema europeo. Oltre che in Italia anche in Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Spagna, nelle opinioni pubbli­che tende oggi a prevalere la richiesta di ritiro. Negli anni immediatamente successivi al­l’ 11 settembre 2001 era ancora chiaro agli europei il perché della presenza militare in Af­ghanistan. In seguito, man mano che andava sbiadendo la memoria dell’11 settembre e i talebani, ricostituite le forze, ricominciavano a combattere con crescente efficacia, le clas­si dirigenti europee non sep­pero rimotivare le opinioni pubbliche. E’ il senso della presenza europea in quel tea­tro che è andato perduto. Va urgentemente (ri) spiegato al­le opinioni pubbliche che una vittoria talebana a Kabul desta­bilizzerebbe il Pakistan, e il fondamentalismo islamico tornerebbe a galvanizzarsi ovunque (anche in Europa). E’ per evitare che i kamikaze si mettano all’opera qui da noi che siamo in Afghanistan.

Poiché la guerra va ora ma­le per gli occidentali, si è diffu­sa la tesi (consolatoria) secon­do cui ciò che là accade avreb­be poco a che fare con il terro­rismo islamico. Dipendereb­be dalle lotte fra i pashtun e le altre etnie, dai riflessi della ri­valità indo-pachistana, eccete­ra. Questi elementi esistono. Ma sarebbe cecità non vedere che il conflitto ha due facce: la prima legata alle specificità locali e la seconda alle sorti del terrorismo internazionale. Ma come la mettiamo, qui da noi in Italia, si sente ripete­re, con l’articolo 11 della Costi­tuzione? L’articolo 11 venne scritto perché i costituenti ave­vano in mente le guerre di ag­gressione del fascismo. Sono quelle guerre che la Costitu­zione vieta. Significa far torto alla intelligenza e al patriotti­smo dei costituenti sostenere che essa ci impedisce di parte­cipare, con gli alleati, ad azio­ni militari tese a contrastare (oggi in Afghanistan, domani forse in Somalia e in altri luo­ghi) la diffusione del terrori­smo.

Angelo Panebianco
21 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: TESTAMENTO BIOLOGICO, LA SOLUZIONE POSSIBILE (secondo Panebianco)
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2009, 11:04:17 am
 TESTAMENTO BIOLOGICO, LA SOLUZIONE POSSIBILE

La zona grigia tra vita e morte


Approvato nel marzo scorso dal Senato, il dise­gno di legge sul fine vita dovrebbe approda­re alla Camera entro qual­che settimana. Il testo vara­to dal Senato risente pesan­temente dei violenti scon­tri ideologici esplosi a feb­braio, in occasione della tragica conclusione della vicenda di Eluana Englaro. La scelta di interrompe­re, in ottemperanza a una sentenza di tribunale, l’ali­mentazione artificiale alla Englaro spaccò il Paese in due, diede luogo a una con­trapposizione feroce fra due visioni (su questo pun­to è già intervenuto sul Cor­riere della Sera Giovanni Sartori), due concezioni della vita e della morte, e del diritto di ciascuno (ri­vendicato dagli uni, nega­to dagli altri) a decidere della propria morte.

Oggi, a distanza di mesi, placate (ma fino a quan­do?) le passioni ideologi­che, sembra essersi aperto uno spazio di manovra per uscire dal cul de sac in cui la vicenda Englaro aveva sospinto il Paese. Un certo numero di deputati del Po­polo della Libertà (molti dei quali vicini al presiden­te della Camera Gianfran­co Fini) ha mandato una lettera aperta al presidente del Consiglio, pubblicata dal Foglio (23 settembre), proponendo una revisione del testo approvato dal Se­nato.

Si chiede che la legge si limiti a fissare dei paletti, ad affermare principi gene­rali (il rifiuto sia della euta­nasia che dell’accanimen­to terapeutico) abbando­nando però «l’iper-regola­mentazione giuridica» che caratterizza l’attuale testo. Si tratta, dice la lettera, di fare una legge ispirata alla «persuasione che il rappor­to con la malattia, con le cure e con la morte (…) ap­partenga a uno spazio per­sonale di cui la legge può prudentemente fissare i confini 'esterni' ma non i contenuti 'interni', che so­no interamente affidati al­le relazioni morali e profes­sionali che legano il mala­to al suo medico e ai suoi congiunti». Questa lettera, portando alla luce il disa­gio di alcune componenti della maggioranza, ha ria­perto una discussione che sembrava ormai chiusa.

Per capire i termini del­la questione occorre fare uno sforzo di immagina­zione, fingere che sulla vi­cenda non pesi, come inve­ce pesa, la «politica». Per politica intendo cose co­me la preoccupazione del governo di garantirsi, tra­mite la legge sul fine vita, un solido rapporto con la Chiesa, la fronda di Gian­franco Fini all’interno del Pdl, l’interesse dell’opposi­zione ad allargare le divi­sioni nella maggioranza, i conflitti, che fanno da sfon­do a tutta la vicenda, fra clericali e anticlericali, fra berlusconiani e antiberlu­sconiani, eccetera. Convie­ne mettere in parentesi tut­to ciò e ragionare solo sul­la questione del fine vita.

Un buon punto di par­tenza può essere la teoria (che ha apparentemente poco a che fare col tema) formulata dall’economista Friedrich von Hayek sul rapporto fra la conoscenza e il mercato. Per dimostra­re che i sistemi di mercato sono superiori ai sistemi di pianificazione Hayek so­stenne che i pianificatori falliscono sempre per difet­to di conoscenza.

Il pianificatore centrale, nonostante i suoi deliri di onniscienza, difetta delle conoscenze «localizzate», relative alle specifiche situazioni «locali», sempre diversissime le une dalle altre, in cui sono quotidianamente coinvolti gli attori economici (produttori e consumatori) e che solo essi possono conoscere. Da qui la superiorità dei sistemi economici decentrati (di mercato) rispetto ai sistemi economici pianificati.

Applichiamo la teoria al tema del fine vita. Le situazioni estreme con cui si confrontano i medici sono fra loro diversissime: dal punto di vista clinico e dal punto di vista del rapporto con ciascun paziente, i suoi familiari, eccetera. L’altissima variabilità delle situazioni rende la legge (l’equivalente del pianificatore centrale di Hayek) uno strumento inadatto a regolamentare nel dettaglio i casi: una disposizione di legge che va bene per un caso non va bene per un altro. Da qui la necessità che (come, tacitamente, si faceva prima che il tema venisse politicizzato) sia lasciato spazio alla discrezionalità e al giudizio del medico, in accordo col paziente o con i suoi familiari, sul caso singolo. Perché solo la conoscenza che essi (e non la legge) hanno del caso singolo, può permettere di fare le scelte più appropriate, di muoversi nel modo migliore nel terreno accidentato che separa l’eutanasia da una parte e l’accanimento terapeutico dall’altra. A febbraio, deplorando la politicizzazione del tema che il caso Englaro aveva provocato, chi scrive si espresse sul Corriere (9 e 23 febbraio) a favore del mantenimento di una «zona grigia» da preservare contro le intrusioni dello Stato (e la violenza che sui casi singoli quella intrusione avrebbe sicuramente provocato). La si chiami zona grigia o in un altro modo, di questo si tratta. Il problema è evitare «l’iper-regolamentazione giuridica».

Come sostengono, giustamente, gli estensori della lettera sopra citata.

C’è però una possibile obiezione. L’ha formulata l’on. Alfredo Mantovano, sostenitore dell’attuale testo di legge. Dice Mantovano (sul Foglio , 25 settembre): attenzione, il caso Englaro è nato da sentenze della magistratura, ideologicamente orientate, che forzavano le leggi vigenti nella direzione dell’eutanasia. Lasciare discrezionalità e decisione ai medici e ai familiari significa, in realtà, rimettere nelle mani dei giudici le scelte ultime in tema di vita e morte. Se non vogliamo che siano i giudici a decidere, deve essere il Parlamento a farlo. La preoccupazione di Mantovano è legittima. Osservo però che egli manifesta una eccessiva sfiducia nella capacità di auto-organizzazione della società (riferita in questo caso, al rapporto fra medici e pazienti). Il ricorso al giudice ci sarebbe solo nelle situazioni in cui quella capacità di autorganizzazione venisse meno. Per ogni singolo caso che approdasse in tribunale ce ne sarebbero moltissimi altri che non ne avrebbero bisogno. Che poi ci siano settori della magistratura che spesso pretendono di legiferare sostituendosi al Parlamento è vero ma è un problema generale, che di sicuro non riguarda solo la questione del fine vita.

Visto che una legge sembra a questo punto necessaria, che almeno essa sia il più possibile «liberale». Intendendo per tale una legge che lasci alle persone spazi di autonomia «dallo Stato» e che scommetta sulla responsabilità degli informati e competenti sul caso singolo.

Accettando anche quelle possibilità di errore che, come sempre nelle umane cose, accompagnano la responsabilità e la libertà.

Angelo Panebianco

30 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La stabilità di un governo - (si ma quale governo?)
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2009, 11:01:45 am
 IL PREMIER E I TIMORI DEL COMPLOTTO

La stabilità di un governo


I capigruppo del Pdl di Camera e Senato hanno lanciato l'al­larme contro un pre­sunto piano eversivo che sarebbe in atto per «fare fuori» Silvio Berlusconi, per costringerlo alle di­missioni. Sono i «fanta­smi del 1994» a essere sta­ti implicitamente evocati. Nel '94, ricordiamo, la ca­duta del governo Berlu­sconi fu propiziata dalla garanzia offerta ai «con­giurati » che non ci sareb­bero state immediate ele­zioni anticipate. Ma al Quirinale oggi siede un vero custode della Costitu­zione come Giorgio Napo­litano e questa è la miglio­re garanzia che i fantasmi del '94, comunque, non si materializzeranno. I due capigruppo hanno reagi­to a un «clima» (soprat­tutto la sentenza ai danni di Fininvest sulla vicenda Mondadori, arrivata po­chi giorni prima della pro­nuncia della Corte costitu­zionale sul Lodo Alfano). Ma sbagliano, fanno il gio­co dei loro avversari, sce­gliendo la strada della drammatizzazione. Certa­mente, ci sono settori del­la sinistra politica, non­ché dell'establishment economico-finanziario, che sognano la «spalla­ta ». Come mostrano le in­dulgenze e le coperture che quei settori danno agli strampalati allarmi sul «fascismo alle porte» e sulle «minacce per le li­bertà democratiche». Ma è difficile che nuovi aspi­ranti congiurati possano portare a compimento i loro disegni.

Il governo Berlusconi conta su un'ampia e soli­da maggioranza. E conti­nua a godere di forti con­sensi nel Paese (più forti, stando ai sondaggi, di quelli di qualunque gover­no del recente passato al secondo anno di legislatu­ra). Non sembrano esser­ci le condizioni per una sua liquidazione tramite congiure di Palazzo. Nep­pure in caso di bocciatura del lodo Alfano. A propo­sito del quale è ovviamen­te lecito pensarla come si vuole. Chi scrive pensa che il lodo Alfano sia un ombrello utile per garanti­re la stabilità dei vertici istituzionali della Repub­blica. Soprattutto dopo che (come ha ricordato Giuliano Ferrara sul Fo­glio ) tra i demagogici svi­luppi della cosiddetta «ri­voluzione giudiziaria» del 1993 ci fu l'eliminazio­ne della protezione assi­curata dall'articolo 68 del­la Costituzione. Tanto più in un Paese in cui, come tutti sanno (compresi quelli che fanno finta di non saperlo), accanto a tanti magistrati che fan­no solo il loro lavoro, ce ne sono altri che perse­guono disegni politici. Ga­rantire che i risultati elet­torali non vengano annul­lati dall'azione di chi fos­se tentato di usare le risor­se giudiziarie per costruir­ci sopra carriere politiche è una garanzia minima che la democrazia deve dare a se stessa.

Berlusconi ha tutti gli strumenti per governare. Per giunta, ha dimostrato in varie occasioni, dalla vi­cenda dell’immondizia in Campania al terremoto dell'Abruzzo, al G8, alla gestione della crisi econo­mica, di saperlo fare. A lui e ai suoi conviene im­pegnarsi solo nell'azione di governo (facendo ma­gari, finalmente, anche certe riforme promesse e non attuate: per fare un solo esempio, non si do­vevano abolire le Provin­ce?), smettendola di se­guire sul terreno della drammatizzazione coloro che, forse pensando di va­lere poco, disperano di es­sere capaci di sconfiggere Berlusconi in campo aper­to, in una normale, demo­cratica, competizione elet­torale.

Angelo Panebianco
06 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Quei produttori da ascoltare
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2009, 10:21:32 pm
IL PDL, LA LEGA E LE PICCOLE IMPRESE

Quei produttori da ascoltare


Che cosa sta acca­dendo nei rappor­ti fra il governo e quel mondo di piccole imprese del Nord che, oltre a essere la vera spina dorsale del nostro si­stema economico, è sem­pre stato anche, fin dai gior­ni del suo ingresso in politi­ca nel 1994, il nucleo duro, la componente più impor­tante, del seguito elettorale di Silvio Berlusconi? Da di­versi mesi le approfondite inchieste di Dario Di Vico pubblicate dal Corriere do­cumentano il disagio e le grandi difficoltà che vive ogni giorno questo cruciale (per le sorti del Paese) ceto sociale. La situazione deve avere raggiunto livelli dav­vero allarmanti se ieri perfi­no Il Giornale (per la pen­na, come sempre lucida, di Nicola Porro), commentan­do l'incontro nel Varesotto (a Vergiate) di una nutrita platea di piccoli imprendi­tori con Bossi e Tremonti, notava che in quel mondo «… l'umore è pessimo. An­cora, miracolosamente, non si è tradotto in aperta contestazione alla gestione di questo governo …. Ma la riserva di pazienza … è in via di esaurimento».

Tradizionalmente sotto­rappresentata nella Prima Repubblica, la classe media del Nord (piccoli e medi im­prenditori, artigiani, profes­sionisti, commercianti) vi­de improvvisamente cam­biare il proprio rapporto con la politica nel 1994. Le elezioni di quell'anno sono ricordate soprattutto per il successo di Berlusconi e del suo partito, Forza Italia, costruito in pochi mesi. Ma il cambiamento forse più profondo riguardò gli equi­libri territoriali della rap­presentanza: per la prima volta nella storia repubbli­cana, sotto il traino di For­za Italia e della Lega, il Nord, e segnatamente la Lombardia, acquistava una centralità nelle istituzioni rappresentative che non aveva mai avuto in prece­denza.

Il «vento del Nord» manifestò, da allora, i suoi effetti con la massima in­tensità. Si può ritenere che le formidabili resistenze che l'allora outsider Berlu­sconi suscitò subito nel si­stema politico, ma anche nel sistema della grande im­presa e nell'insieme delle corporazioni che erano sta­te i pilastri di sostegno del­la Prima Repubblica, fosse­ro anche (non solo, ma an­che) alimentate da una furi­bonda «lotta per la rappre­sentanza »: la lotta fra il Nord emergente e quegli ambiti, territoriali e profes­sionali, tradizionalmente sovrarappresentati nell'are­na politica, che avevano usufruito, durante la Prima Repubblica, di canali privi­legiati di accesso ai Palazzi romani.

Nel 1994 Berlusconi con­quistò i ceti medi del Nord innalzando la bandiera del­la liberazione fiscale e della rivolta contro l'eccesso di burocrazia statale. Il suo successo fu tale che l'altro attore che aspirava a rap­presentare quei ceti e che preesisteva a Forza Italia, la Lega di Bossi, si trovò rele­gato in un ruolo comunque importante ma secondario. Perché oggi le cose sono in movimento? Per tre ra­gioni, fondamentalmente. La prima è che Forza Italia, essendo confluita nel Popo­lo della Libertà, ha inevita­bilmente acquisito un profi­lo meno «settentrionale» di un tempo. La sua capaci­tà di ascolto è diminuita: deve tener conto anche de­gli interessi e delle aspira­zioni di altre zone del Pae­se. La seconda è che la Lega ha affinato al massimo la sua capacità di azione sul territorio e si pone come l'interlocutore più presente e affidabile nel dialogo con i ceti medi del Lombar­do- Veneto. Aspira, e i più recenti risultati elettorali la confortano, a sostituire il Pdl come rappresentante unico di quegli interessi.

Agevolata anche da una struttura partitica che per livello di organizzazione e coesione ricorda un po' il Pci emiliano o toscano di qualche decennio fa. Il Pdl, poco coeso, diviso al suo interno in una pluralità di sottogruppi in competizione e senza presenza capillare sul territorio, perde progressiva­mente terreno a favore della Lega. La terza ragione ha a che fare con l'azione del governo. Ammainate le antiche bandie­re della liberazione fiscale, delle liberalizzazioni e della de-burocratizzazione della vita economica, il governo Berlu­sconi non dispone, al momento, di una proposta forte, di alto profilo, con cui arginare la concorrenza della Lega.

Assai più esposti ai colpi del mercato, per nulla protetti, a differenza della grande impresa, i piccoli imprenditori vedono sommarsi, ai mali antichi, le conseguenze del­la crisi. Il governo garantisce ascolto e provvedi­menti ma la questione della rappresentanza, per questi ceti, resta apertissima. E' evidente che una parte di essi è già passata o si appresta a passare sotto le ali protettive della Lega, ma è altrettanto evidente che un'altra, forse più nu­merosa parte preferirebbe farne a meno.

La Lega infatti, con la sua ideologia comuni­tario- territoriale, e una prassi coerente con quella ideologia, suscita anche diffidenze, pro­mette protezione ma non sempre innovazione, rappresentanza sindacale di interessi territoriali ma non necessariamente dinamismo sociale. Pre­figura una società relativamente chiusa, ancorché efficacemente difesa nei suoi interessi quotidiani, più che una società dinamica e aperta. Anche se va ri­conosciuto che la Lega è riuscita nel tempo a creare una classe di amministratori locali spesso competenti e con au­tentica capacità di ascolto nei confronti dei ceti produttivi.

L'abbandono da parte del governo dell'antica proposta «liberista» che fu della Forza Italia delle origini è certo dovu­ta anche alla esigenza di fronteggiare la crisi, di attutirne gli effetti, senza destabilizzare i conti pubblici (che è quanto il ministro Tremonti, e l'esecutivo nel suo insieme, sono fin qui riusciti a fare con successo). Però è anche indubbio che in questo modo il Pdl si è trovato sprovvisto delle sue armi più efficaci nella sfida con la Lega per la rappresentanza dei ceti medi del Nord.

In Germania il partito liberale ha riscosso un grande suc­cesso con la sua battaglia antitasse. Anche nel Nord d'Italia quello sembra essere il miglior terreno su cui chi ne avesse voglia e capacità potrebbe sviluppare un'azione efficace­mente competitiva nei confronti della Lega e della sua uto­pia comunitaria.

Angelo Panebianco

11 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Re: Angelo PANEBIANCO. L’estremista, il fazioso e il pluralista
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2009, 03:56:48 pm
CATEGORIE DI UNA (BRUTTA) STAGIONE

L’estremista, il fazioso e il pluralista


Viviamo in una fa­se, simile ad al­tre della nostra storia, di incana­glimento della lotta politi­ca, siamo immersi in un clima di guerra civile vir­tuale. Siamo, pur con i no­stri difetti, una democra­zia ma rispettabili pensa­tori di altri Paesi, aizzati da demagoghi nostrani, vengono a spiegarci che viviamo sotto una dittatu­ra. Abbiamo un dibattito pubblico apertissimo ma c’è chi racconta che la li­bertà di stampa è minac­ciata. Alcuni parlano del­­l’Italia come se si trattas­se dell’Iran o della Birma­nia. Abbiamo libere e re­golari elezioni ma una parte non esigua degli elettori dello schieramen­to sconfitto non ricono­sce la legittimità del go­verno in carica (ma la stessa cosa facevano certi elettori dell’attuale mag­gioranza quando governa­vano i loro avversari).

E’ in questi momenti che conviene tornare ai «fondamentali»: che co­sa permette a una demo­crazia di sopravvivere? Di quali virtù o qualità deve essere dotata la cittadi­nanza democratica? La de­mocrazia è un regime mo­derato. Ha bisogno che a guidare i governi siano sempre forze moderate, di destra o di sinistra, e che le componenti estre­miste siano tenute a ba­da. Ma perché ciò accada occorre che, fra i cittadi­ni, prevalgano certi atteg­giamenti anziché altri. Nelle democrazie, in tut­te, la maggioranza dei cit­tadini ha interesse nullo, scarso o sporadico per la politica. E’ sempre una minoranza, magari consi­stente ma pur sempre mi­noranza, a seguire con continuità le vicende poli­tiche. Sono gli atteggia­menti prevalenti in que­sta minoranza a dettare tono e qualità della demo­crazia.

Sono tre i tipi umani che più frequentemente si incontrano in tale mi­noranza: l’estremista, il fa­zioso, il pluralista. Li indi­co nell’ordine che va dal meno al più compatibile con la democrazia. Gli estremisti veri e propri, così come qui li intendo, sono (fortunatamente) sempre pochi, anche se rumorosi e, spesso, peri­colosi. La loro presenza dipende da certe caratteri­stiche della politica, dal fatto che la politica, più di qualunque altra attivi­tà umana, si presta ad es­sere il luogo in cui si pos­sono scaricare le frustra­zioni personali. Per l’estremista la politica è una grande discarica nel­la quale egli getta la parte peggiore di sé. L’estremi­sta è uno che odia. Odia se stesso in realtà ma tra­sforma l’odio per se stes­so in odio per il «nemico politico». La politica, da­ta la sua natura competiti­va e conflittuale, si presta bene per questa operazio­ne. Lo sventurato giovane che su Facebook si è chie­sto perché nessuno abbia ancora ficcato una pallot­tola in testa a Berlusconi è una vittima del clima che gli estremisti alimen­tano (per inciso, quel brutto incidente potreb­be essere la sua fortuna: se non è uno stupido ri­fletterà, capirà che un uo­mo è tale solo se pensa con la sua testa, se non si fa comandare o suggestio­nare dal clima dominante negli ambienti che fre­quenta).

Poi c’è il fazioso. A differenza dell’estremi­sta il fazioso, come qui lo intendo, non è un caso psichiatrico. Però è spaventato dalle opinioni in contrasto con la sua. Nei mezzi di comunicazione cerca più conferme ai suoi pregiudizi che informazioni o dibattiti di idee. È rassicurato dall’idea che esista, in materia di politica, la «verità», unica, chia­ra, indiscutibile, e che egli, essendo onesto e intelligente, la conosca. Per lui, quelli che non vogliono accettare la verità in cui egli crede sono disonesti o stupidi.

Il fazioso teme lo stress che gli procure­rebbe il riconoscimento che il mondo è dav­vero complesso e ambiguo. Ha bisogno di contare su un quadro di certezze: di qua il bene, di là il male. Un grande economista, Joseph Schumpeter, diceva che spesso eccel­lenti persone, brave nel loro mestiere, sono in grado di parlare con competenza e matu­rità dei problemi della loro professione ma regrediscono all’infanzia appena comincia­no a parlare di politica: il Bene, il Male, le fate e gli orchi, gli sceriffi col cappello bian­co e i banditi col cappello nero. Il fazioso, essendo spesso tutt’altro che stupido, vive con patimento la sua contraddizione: la coe­sistenza, in lui, dell’orrore per le opinioni di­verse dalla sua e del riconoscimento della necessità del pluralismo delle opinioni in una democrazia.

C’è infine il pluralista. Accetta il fatto che il mondo sia complesso e, dunque, che non ci sia, sui fatti contingenti della politica, una Verità acquisita per sempre. Accetta che il problema sia, ogni giorno, quello (fati­coso) di impadronirsi, confrontando le opi­nioni e riflettendo sui fatti, di quel poco di precarissima «verità» che si riesce ad affer­rare. Senza abdicare alle proprie convinzio­ni più profonde non teme di ascoltare pare­ri diversi. Pensa che, se sono ben argomen­tati e presentati con garbo, possano anche arricchirlo.

Quanto più nella minoranza che si inte­ressa con continuità di politica prevale il ti­po pluralista, tanto più la democrazia è sal­da e sicura. Non è questione di destra o sini­stra o, attualmente, di berlusconiani e anti­berlusconiani. Ci sono faziosi e pluralisti di ogni tendenza. Ad esempio, la differenza fra un fazioso antiberlusconiano e un plura­lista antiberlusconiano è che per il primo Berlusconi è il nemico mentre per il secon­do è solo un avversario.

C’è poi la questione dell’uovo e della galli­na. Ci sono fasi in cui, entro la minoranza che segue la politica, i pluralisti si trovano in difficoltà e sembrano quasi soccombere di fronte alla prepotenza dei faziosi (sempre seguiti da un imbarazzante codazzo di estre­misti). È difficile stabilire se in quei momen­ti i faziosi prevalgono perché aizzati dalle ur­la di furbi demagoghi o se, invece, i furbi demagoghi hanno successo a causa dell’esi­stenza di una folta pattuglia di faziosi.

Angelo Panebianco

19 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'emergenza meridionale
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2009, 11:20:04 pm
IL SUD TRAVOLTO DALLE INCHIESTE

L'emergenza meridionale


L’inchiesta che coinvolge l’ex ministro della giustizia Cle­mente Mastella, alcuni suoi familiari ed esponenti dell’Udeur è l’ultimo tassel­lo che si aggiunge alle affol­latissime cronache politi­co- giudiziarie campane. Ha scioccato tutti il caso di Castellammare di Stabia: il camorrista con tessera del Pd che ha ammazzato un consigliere comunale del suo stesso partito. Poi c’è stata la sconsolata intervi­sta ( Corriere , 20 ottobre), di fatto una dichiarazione di impotenza, di Enrico Mo­rando, commissario straor­dinario del Partito demo­cratico in Campania. Men­tre, a pochi giorni ormai dalle primarie del Pd, si di­scute se sospenderle o no in Campania, date le condi­zioni in cui versa il partito (come dimostrano i tesse­ramenti gonfiati dalle lotte di corrente). Una débâcle per il Pd in una regione nel­la quale la sinistra è domi­nante da decenni. Si ag­giunga, per completare il quadro campano, che an­che a destra, nelle fila del­l’opposizione, non se la passano bene. Come mo­stra il conflitto, interno al Pdl, sulla candidatura alle regionali di Nicola Cosenti­no, a sua volta coinvolto in un’indagine per presunte relazioni con la camorra.

Premesso che l’unico modo per salvaguardare un minimo di civiltà è te­nersi abbarbicati alla pre­sunzione di non colpevo­lezza per qualunque inda­gato, resta che i discorsi che si sentono fare sanno di vecchio. Si può continua­re a guardare il dito anzi­ché la luna e raccontarsi che il problema sono le «in­filtrazioni » criminali nei partiti o il clientelismo dei politici. Ma significa pren­dersi in giro. I partiti, orga­nizzati o no, pesanti o leg­geri, sono strutture che si adattano all’ambiente. L’ambiente è il Paradiso? I partiti saranno composti da angeli. L’ambiente è l’in­ferno? Prevarranno i diavo­li. L’ambiente chiede soste­gno al mercato? E’ ciò che i partiti daranno. L’ambien­te chiede spesa pubblica e clientelismo? I partiti sod­disferanno la richiesta.

Non è dai partiti ma dal­la società che dovrebbe partire la bonifica. Il pro­blema (che sta mettendo a rischio l’unità stessa del Pa­ese) della Campania, come di vaste zone del Sud, è che non c’è più da decenni un progetto plausibile per lo sviluppo nel Mezzogior­no. Non ce l’ha la destra co­me non ce l’ha la sinistra. A meno che non si dica che il progetto per il Mez­zogiorno sia il federalismo fiscale (si può immaginare l’effetto catartico del fede­ralismo fiscale su Castel­lammare di Stabia). O la banca del Sud. O i piani per una «Lega Sud» (che sarebbe anche una buona idea ma solo se il suo slo­gan fosse «mettiamoci a fa­re denaro», ossia impegna­moci per lo sviluppo, anzi­ché «dateci i denari»).

Forse sarebbe il caso di convenire che in ampie zo­ne del Sud (non in tutte, certo) mancano attualmen­te le condizioni minime che rendono praticabile la democrazia locale (comu­nale, provinciale, forse an­che regionale) e che un commissariamento centra­le si rende, per quelle zo­ne, e per molti anni, indi­spensabile. In modo da co­ordinare interamente dal centro sia la guerra alle or­ganizzazioni criminali sia l’imposizione (per lo più, contro le classi dirigenti lo­cali) di progetti di svilup­po. Occorrerebbe un accor­do di ferro fra maggioran­za e opposizione. Siccome quell’accordo non si può fa­re, continueremo ad ascol­tare impotenti le notizie che arrivano dalla Campa­nia e da altre zone del Sud lamentando le solite infil­trazioni, la solita corruzio­ne, il solito clientelismo.

Angelo Panebianco

22 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
DA CORRIERE.IT


Titolo: PANEBIANCO. Il provincialismo che frena le riforme (untori pro-silvio?).
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2009, 09:57:25 am
TIMORI DI UN ESECUTIVO FORTE

Il provincialismo che frena le riforme


C’ è la tenue possibilità, come ha os­servato Ser­gio Romano (il Corriere, 1˚novembre) che l’elezio­ne di Pier Luigi Bersani a segretario del Partito de­mocratico contribuisca a rendere meno irrespirabi­le l’aria del Paese. C’è l’inte­resse del governo ad evita­re, per il futuro, continui scontri frontali con l’oppo­sizione: la sponsorizzazio­ne della candidatura di Massimo D’Alema alla cari­ca di responsabile della po­litica estera della Unione europea è una mossa che va in quella direzione. Ma c’è anche un interesse di Bersani a superare il clima da guerra civile. Bersani, la cui tradizione politica di provenienza teneva in gran conto il realismo, sa bene che quel clima può favorire solo gli estremi­sti. Alla lunga, la «politica delle urla» danneggia le forze moderate di sinistra. Si tratta di una possibili­tà tenue. I «combattenti della guerra civile» non molleranno l’osso, hanno troppo da perdere. Se ci sa­rà, su certi temi, dialogo fra maggioranza e opposi­zione, si può scommettere che Bersani verrà accusato dai suddetti combattenti di essere un traditore.

Ma Bersani si gioca il fu­turo del Pd. Sa che deve da­re del suo partito l’immagi­ne di una «forza tranquil­la », capace di occuparsi con serietà dei problemi del Paese.
Solo così può sperare di attrarre, nel Nord d’Italia soprattutto, quella parte di elettorato che oggi non lo voterebbe ma che potrebbe domani cambiare idea, che potreb­be abbandonare il centro­destra se il Partito demo­cratico fosse capace di co­struirsi una reputazione di seria e dinamica forza ri­formista.

Per qualificare così il proprio partito Bersani de­ve cercare il dialogo con la maggioranza là dove più accentuato è l’attivismo ri­formista del governo.
La­voro, scuola- università, pubblica amministrazione sono àmbiti nei quali il go­verno, comunque si giudi­chi la sua azione, ha mo­strato una forte caratura ri­formista.
Che deve fare l’opposizione? Continuare a dire che «è tutto sbaglia­to, è tutto da rifare», oppu­re tentare di dialogare apertamente col governo cercando reali punti di in­contro per poi poter riven­dicare una parte del meri­to dei provvedimenti adot­tati?

Se sui temi suddetti, e anche su altri (per esem­pio, le questioni degli sgra­vi fiscali alle imprese o del­la potatura della spesa im­produttiva) il Pd fosse ca­pace di presentarsi con proposte costruttive ver­rebbe certo accusato di in­telligenza col nemico dai guerrafondai ma potrebbe guadagnare credibilità agli occhi dell’elettorato più centrista.

C’è poi il capitolo delle riforme istituzionali. Qui il terreno però è decisa­mente minato. Capire do­ve sono collocate le mine è importante. Sulla rifor­ma della giustizia, nono­stante l’opera, comunque preziosa, di pontieri di pre­stigio come Luciano Vio­lante, le possibilità di azio­ne bipartisan sembrano, al momento, scarse o nul­le.
È improbabile che il go­verno presenti un proget­to di riforma che possa ot­tenere l’avallo della Asso­ciazione nazionale magi­strati.
E senza quell’avallo è difficile che il Pd sia in grado di accordarsi col go­verno.

Probabilmente, la que­stione della riforma della Costituzione (tranne negli aspetti che toccano il te­ma della giustizia) divente­rà, di nuovo, come tante al­tre volte in passato, un ter­reno di seria discussione fra maggioranza e opposi­zione.

Le fondazioni che fanno ca­po a Gianfranco Fini e a Mas­simo D’Alema ci lavorano su da qualche tempo. E Violante ha ricordato i punti su cui, in Parlamento, è forse possibile trovare una intesa: «Trasfor­mare il Senato in Camera del­le Regioni, lasciare a Monteci­torio la legislazione ordinaria e il potere di dare e togliere la fiducia, ridurre il numero dei parlamentari e rafforzare i po­teri del presidente del Consi­glio » ( Il Foglio , 31 ottobre).

Pur auspicando che un’in­tesa si trovi, mi permetto di essere scettico. A meno che non cambino certe condizio­ni. Di riforma della Costitu­zione si parla dai tempi di Craxi e sono sempre falliti tut­ti i tentativi di farla. Le re­sponsabilità di questi ripetuti fallimenti non sono solo del­la classe politica. Sono anche di quelle forze, esterne alla classe politica in senso stret­to, che hanno il potere di le­gittimare oppure di delegitti­mare l’operazione di riforma. Penso, in particolare, ai pro­fessori di diritto costituziona­le. Fin quando la maggioran­za dei costituzionalisti, come fino ad oggi è stato, manterrà un atteggiamento conservato­re, le possibilità di cambia­mento consensuale della Co­stituzione continueranno ad essere ridotte. Immaginiamo che si trovi un accordo sui punti indicati da Violante, ivi compreso il più controverso: il rafforzamento dei poteri del capo del governo. Non ci sarebbe immediatamente una straordinaria mobilitazio­ne di costituzionalisti di pre­stigio contro la «deriva auto­ritaria », contro il «fascismo alle porte»? E quella mobilita­zione, sfruttata dalle forze po­litiche e dai giornali contrari all’accordo, non avrebbe un potente effetto delegittiman­te sull’intera operazione? Co­sì è stato in passato. Perché le cose dovrebbero oggi cam­biare?

In una eccellente ricostru­zione- analisi della vicenda che apparirà sul numero di novembre di Le nuove ragio­ni del socialismo (e la cui let­tura consiglio a quei politici, di maggioranza e di opposi­zione, che vogliano seriamen­te imbarcarsi nell’impresa), Augusto Barbera mostra be­nissimo quanto il provinciali­smo, l’incapacità di confron­tarsi con le esperienze costi­tuzionali europee — britanni­ca, spagnola, tedesca — pesi sui pregiudizi, non solo dei politici, ma anche di molti co­stituzionalisti.
Fare le rifor­me costituzionali non è solo una questione affidata alle possibilità di accordo fra maggioranza e opposizione. È anche una questione di ag­gregazione di consenso fra coloro che sono ritenuti com­petenti e legittimati a dire la loro sull’argomento.

Convincere la cultura costi­tuzionalista del Paese che la democrazia richiede governi istituzionalmente forti è un lavoraccio: troppi costituzio­nalisti pensano ancora il con­trario. Ma è un lavoraccio ne­cessario, se si vuole arrivare a risultati. Altrimenti, la ripre­sa del dialogo sulle riforme costituzionali sarà solo, co­me altre volte, una scusa per instaurare, per qualche me­se, un clima meno avvelena­to fra le forze politiche. Me­glio di niente. Ma troppo po­co, forse, per le esigenze del Paese.

Angelo Panebianco

03 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il presidente sconosciuto
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2009, 11:36:23 am
 SE VAN ROMPUY GUIDERA’ L’EUROPA

Il presidente sconosciuto


Dal trattato di Li­sbona, ora che con la ratifica della Repubbli­ca Ceca è caduto l'ultimo ostacolo formale che ne impediva la messa in ope­ra, nessuno si aspetta mi­racoli. Ma ci si aspetta che arresti la crisi delle istitu­zioni europee iniziata con la mancata ratifica del trat­tato costituzionale a segui­to dei referendum france­se e olandese del 2005 e il contraccolpo che ne è se­guito: la marcata «rinazio­nalizzazione » della politi­ca europea, il passaggio a una fase in cui i governi europei, con le loro specifi­che esigenze, hanno occu­pato tutta la scena. Dalle disposizioni del trattato ci si attende più forza per le istituzioni dell’Unione e più efficienza per i suoi processi decisionali. Ci si aspetta, più in generale, condizioni favorevoli al riavvio del processo di in­tegrazione.

Ma l'Unione, anche con il nuovo trattato, resta un sistema complesso nel quale elementi di sovrana­zionalità e potere degli Sta­ti sono obbligati a convive­re. E la loro convivenza comporta inevitabilmente difficoltà e incongruenze. Come mostrano le stesse dinamiche connesse alla «partita» delle nomine previste dal trattato di Li­sbona: la nomina del presi­dente del Consiglio euro­peo e quella dell'Alto rap­presentante dell'Unione per gli affari esteri e la poli­tica della sicurezza. In en­trambi i casi, anche se in modo diverso, si pone il problema della ricerca di un difficile equilibrio fra esigenze nazionali (dei sin­goli Stati) ed esigenze eu­ropee (dell'Unione nel suo complesso). La principale esigenza europea è che le cariche di presidente e di responsabile della politica estera si consolidino e ac­quistino col tempo cre­scente prestigio: in una pa­rola, che si «istituzionaliz­zino ». L'inizio è decisivo. Una falsa partenza (per esempio, dovuta alla scel­ta di candidati di basso profilo) potrebbe compro­mettere l'operazione, to­gliere forza alle cariche previste dal trattato. Il pro­blema è se, e fino a che punto, l'esigenza europea si concilia con le esigenze nazionali, i calcoli e le aspettative dei governi più coinvolti in questa partita. Prendiamo il caso della presidenza del Consiglio europeo. C'è (o c'era) sul tavolo un'unica candidatu­ra di grande prestigio, quella di Tony Blair. Ma è traballante o forse già tra­montata e va rafforzando­si l’ipotesi di una guida af­fidata all’attuale primo mi­nistro belga Herman van Rompuy. Blair ha, o aveva, profilo e statura giusti per dare forza e slancio alla Presidenza del Consiglio. Ma poi ci sono le esigenze nazionali, non necessaria­mente congruenti con l'in­teresse europeo. A parte la convenienza dei conserva­tori britannici, probabili vincitori delle prossime elezioni, a non avere un av­versario politico interno come Blair alla testa dell' Unione, c'è la più generale circostanza che i governi dei grandi Stati possono preferire per quella carica uomini di più bassa statu­ra politica: qualche rispet­tabile figura sconosciuta ai più, troppo debole per dare lustro alla carica ma malleabile e disposta a se­guire docilmente le istru­zioni dei governi che più contano in Europa.

Anche nel caso della nomina del re­sponsabile della politica estera il proble­ma della composizione fra interessi nazio­nali e interesse europeo si pone. Ma in modo diverso rispetto al caso precedente: qui sono in campo solo nomi di prestigio. Noi italiani siamo direttamente coinvolti in questa partita in virtù della scelta del governo Berlusconi di appoggiare la can­didatura di Massimo D’Alema. Una candi­datura forte anche in Europa, per la statu­ra del personaggio (già primo ministro e poi ministro degli Esteri nell’ultimo gover­no Prodi). Alla candidatura di D’Alema si contrap­pone, fino a ora, solo quella dell’attuale ministro degli Esteri britannico David Mi­liband. È evidente dove stia, nel caso della candidatura di D’Alema, l’interesse nazio­nale italiano così come le nostre principa­li forze lo interpretano: non solo si ottie­ne per un prestigioso politico italiano una carica così importante ma, in più, la sponsorizzazione del governo, se l’opera­zione andasse in porto, avrebbe l’effetto di migliorare i rapporti fra maggioranza e opposizione.

C’è poi, anche in questo caso, l’interes­se europeo. Esso può essere soddisfatto dall’alto profilo dei candidati. Ma dal pun­to di vista europeo, c’è un ulteriore proble­ma: come la politica estera dell’Unione verrebbe influenzata dalla scelta dell’uno o dell’altro? L’Alto rappresentante ha in­fatti, almeno sulla carta, considerevoli po­teri. Può incidere davvero (anche se, natu­ralmente, sempre coordinandosi con i go­verni che contano) sulle scelte dell’Unio­ne. E i dossier su cui dovrà lavorare sono davvero delicati: rapporti con gli Stati Uni­ti, rapporti con la Russia, e tutte le esplosi­ve questioni mediorientali. Sia D’Alema che Miliband sono politici di razza, non banderuole, e conosciamo i loro convincimenti. È presumibile che la politica estera della Ue risulterebbe par­zialmente diversa a seconda che l’uno o l’altro divenisse «ministro degli Esteri» europeo.

Sono note, ad esempio, certe riserve che la candidatura di D’Alema suscita in Italia e fuori d’Italia, non certo per la per­sona (il cui valore è considerato fuori di­scussione) ma per un aspetto, soprattut­to, della sua passata esperienza di mini­stro degli Esteri: la sua politica di allora per il Medio Oriente, il suo filo arabismo, e la sua posizione meno comprensiva per le ragioni di Israele che per quelle dei suoi nemici. D’altra parte anche per Mili­band non mancano le riserve, se non al­tro data la tradizionale posizione della Gran Bretagna, critica di molti aspetti del­la costruzione europea. Sarebbe utile se i diversi candidati per le cariche in gioco fossero chiamati a esporre preventivamente di fronte all’opi­nione pubblica europea le loro intenzioni sulle più delicate questioni che ha di fron­te a sé la Ue. Ciò aiuterebbe forse a trova­re il giusto equilibrio fra i legittimi inte­ressi nazionali e l’altrettanto legittima esi­genza degli europei di conoscere quale politica i prescelti contribuirebbero a co­struire.

Angelo Panebianco

09 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Se l’Islam diventa partito
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2009, 04:44:46 pm
PERCHE’ PREOCCUPA L’ANNUNCIO SPAGNOLO

Se l’Islam diventa partito


La politica demo­cratica è struttu­ralmente vincola­ta a un orizzonte di breve periodo. La natu­ra del sistema democrati­co spinge gli uomini poli­tici ad occuparsi solo dei problemi che agitano il presente. Le altre grane, quelle che già si intravedo­no ma che ci arriveranno addosso solo domani o dopodomani non posso­no essere prese in consi­derazione. A differenza di ciò che fa la migliore me­dicina, la politica demo­cratica non si occupa di prevenzione. Se così non fosse, una notizia appena giunta dalla Spagna do­vrebbe provocare grandi discussioni entro le classi politiche di tutti i Paesi eu­ropei, Italia inclusa. La no­tizia è che, come era pri­ma o poi inevitabile che accadesse, c’è già su piaz­za un partito islamico che scalda i muscoli, che è pronto a presentarsi con le sue insegne nella com­petizione elettorale di un Paese europeo. Si tratta del Prune, un partito fon­dato da un noto intellet­tuale marocchino, da an­ni residente in Spagna, Mustafá Bakkach.
Ufficial­mente, il suo intento pro­grammatico è di ispirarsi all’islam per contribuire alla rigenerazione morale della Spagna. In realtà, cercherà di difendere e diffondere l’identità isla­mica. Avrà il suo battesi­mo elettorale nelle elezio­ni amministrative del 2011. Se otterrà un succes­so, come è possibile, solle­verà un’onda (ce lo dico­no i flussi migratori e la demografia) che attraver­serà l’intera Europa. L’ef­fetto imitativo sarà poten­te e partiti islamici si for­meranno probabilmente in molti Paesi europei.
A quel punto, la strada della auspicata «integrazione» di tanti musulmani che ri­siedono in Europa diven­terà molto ripida e imper­via. Perché? Perché la scel­ta del partito islamico è la scelta identitaria, la scelta della separazione, dell’au­to- ghettizzazione. Si po­trebbe anche dire, para­dossalmente, che quando nasceranno i partiti isla­mici sarà possibile valuta­re davvero quale sia, per ciascun Paese europeo, il reale tasso di integrazio­ne dei musulmani. Per­ché è evidente che il mu­sulmano integrato (per fortuna, ce ne sono già moltissimi), quello che vi­ve quietamente la sua fe­de e non ha rivendicazio­ni identitario-religiose da avanzare nei confronti del­la società europea in cui risiede e lavora, non vote­rà per il partito islamico. A votarlo però saranno co­munque molti altri, sia per adesione spontanea (in nome di un senso di separatezza identitaria) sia a causa della pressio­ne degli ambienti musul­mani che frequentano.

Al pari del partito isla­mico spagnolo, si capisce, ogni futuro partito islami­co europeo dichiarerà (e non ci sarà ragione di cre­dere il contrario) di rifiu­tare la violenza. Non po­trà infatti rischiare (pena il fallimento del progetto politico) vicinanze o con­taminazioni con cellule terroriste più o meno atti­ve o più o meno dormien­ti in Europa. Ma ciò non toglie che l’ideologia dei partiti islamici sarà co­munque quella tradiziona­lista/ fondamentalista.

Sarà l’ideologia della cosiddetta Rinascita islamica, impregnata di valori antioccidentali e, alla luce del metro di giudizio europeo, illiberali. Si tratterà di forze illiberali che useranno la politica per strappare nuovi spazi, risorse e mezzi di indottrinamento e propaganda. Per questo, il loro ingresso nel mercato politico-elettorale europeo bloccherà o ritarderà a lungo l'integrazione di tanti musulmani. Che fare? La politica democratica non può facilmente difendersi da questa insidia. Però le possibilità di successo o di insuccesso dei partiti islamici nei vari Paesi europei dipenderanno da un insieme di condizioni.

Conteranno certamente anche le maggiori o minori chances che ciascun singolo musulmano avrà di ben inserirsi nel lavoro, e di poter accedere, per sé e per la propria famiglia, a condizioni di benessere (ma guai a credere che basti solo questo per annullare le spinte identitarie). Conteranno anche, e forse soprattutto, le caratteristiche istituzionali dei vari Paesi europei. Si difenderanno meglio, io credo, le democrazie dotate di sistemi elettorali maggioritari (che rendono difficile l’ingresso di nuovi partiti) rispetto a quelle che usano l’una o l’altra variante del sistema proporzionale.

La Gran Bretagna ha commesso errori colossali con la sua politica verso l’immigrazione musulmana. Il suo scriteriato «multiculturalismo» ha finito per consegnare all’Islam, e anche all’Islam più radicale, importanti porzioni del suo territorio urbano (al punto che oggi la Gran Bretagna deve persino fronteggiare il fenomeno dei numerosi cittadini britannici, di lingua inglese, che combattono in Afghanistan insieme ai loro correligionari talebani). Tuttavia, quegli errori sono forse ancora rimediabili. Il sistema maggioritario rende infatti molto difficile l’ingresso nel mercato politico britannico di un partito islamico. Diverso è il caso dei Paesi ove vige la proporzionale nell’una o nell'altra variante: l'ingresso è relativamente facile e la politica delle alleanze e delle coalizioni, tipicamente associata ai sistemi proporzionali, garantisce influenza e potere anche a piccoli partiti. Una circostanza che i futuri partiti islamici potranno sfruttare a proprio vantaggio. Da antico, e non pentito, sostenitore del sistema maggioritario penso che quella qui descritta rappresenti una ragione in più per adottarlo.

Angelo Panebianco

18 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il bipolarismo al tramonto (realtà distorte pro silvio)
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2009, 03:44:45 pm
SEGNALI A DESTRA (E A SINISTRA)

Il bipolarismo al tramonto


Prosegue il lento di­sfacimento della trama bipolare. For­se scopriremo in se­guito che il bipolarismo (competizione e alternanza fra due schieramenti) ha rappresentato una parente­si nella storia repubblica­na. Una parentesi che ha coinciso con l'era Berlusco­ni. E' iniziata con la «disce­sa in campo» del 1994 e fini­rà nell'istante in cui Berlu­sconi (inventore e federato­re del centrodestra che non lascia eredi politici) uscirà di scena. Ma, contrariamen­te a ciò che pensano alcuni, la fine del bipolarismo non porterà stabilità. Verosimil­mente, almeno per una lun­ga fase, accrescerà instabili­tà e ingovernabilità.

L'ultimo scontro fra Gianfranco Fini e la Lega è solo un altro episodio che segnala il disfacimento in atto del bipolarismo. Che cosa ha detto in realtà Fini parlando di razzismo? Ha ri­badito ciò che si sapeva, os­sia che, quando Berlusconi se ne andrà, egli romperà l'alleanza con la Lega. Sen­za più federatore, il centro­destra si spaccherà: da una parte, presumibilmente, Tremonti e Bossi asserra­gliati nel fortilizio nordista, dall'altra parte ciò che reste­rà del fu-Popolo della Liber­tà. E qui entrano in gioco i calcoli (e le illusioni) di co­loro che dall'esterno spera­no in quel risultato. I calco­li, prima di tutto, del Parti­to democratico. Comprensi­bilmente, il neosegretario Bersani punta le sue carte sulla speranza che, dopo Berlusconi, il centrodestra si disintegri. Ciò che forse Bersani non considera è che la disgregazione del centrodestra scatenerebbe un terremoto anche nel centrosinistra. Le prime ele­zioni del post-Berlusconi le vincerà probabilmente il Partito democratico (per una ragione meccanica: vin­ce chi aggrega i suoi, perdo­no quelli che vanno alle ele­zioni divisi) ma c'è la possi­bilità che si tratti di una vit­toria di Pirro. Il tramonto del bipolarismo susciterà potenti spinte centrifughe dentro lo stesso Partito de­mocratico. Sarà durissima governare con forti divisio­ni interne, con l'ingombran­te alleanza del populismo autoritario di Di Pietro e con una parte assai signifi­cativa del Nord all'opposi­zione. E' difficile che possa essere un'esperienza lunga e di successo.

Poi ci sono i calcoli di co­loro che grazie alla disgre­gazione del centrodestra sperano di poter confezio­nare una grande formazio­ne neo-centrista. E' il so­gno della nuova Dc. Richie­de un cambiamento di si­stema elettorale (proporzio­nale con o senza sbarra­mento). L'illusione sta nel credere che un forte partito neo-centrista, magari pron­to ad allearsi al Partito de­mocratico in un nuovo «centrosinistra» (nell'acce­zione della Prima Repubbli­ca), possa stabilizzarsi subi­to, senza passare per un lungo periodo di rodaggio. E senza fare i conti con il ruolo della Lega al Nord.

Se finirà il bipolarismo, il periodo di instabilità che seguirà sarà, presumibil­mente, assai lungo. Avre­mo per un certo tempo più disgregazioni che aggrega­zioni dentro il sistema poli­tico. Uno scenario che po­trà essere scongiurato solo se Tremonti, Fini e gli altri maggiorenti del centrode­stra troveranno un nuovo punto di incontro. Oggi ciò appare, però, poco probabi­le. Né sembra che Berlusco­ni abbia la forza o la volon­tà per favorire una tale evo­luzione. La fragilità della politica italiana sta nel fat­to che i suoi equilibri pog­giano interamente sulle spalle di un uomo solo. Quando egli uscirà di scena quegli equilibri salteranno. Dopo di che ci aspetterà, probabilmente, un'altra in­terminabile «transizione». In stile italiano.

Angelo Panebianco

25 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. (saper scrivere per mistificare non da' onore. ADmin).
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2009, 09:19:52 am
La via d’uscita dall’estremismo


L’intervento di Fabrizio Cicchitto alla Camera due giorni fa, dedicato all'identificazione, nomi e cognomi, di quelli che egli considera i «mandanti morali» dell'aggressione fisica al premier, è stato del tutto sbagliato e inopportuno. Non aiuta il clima politico. Soprattutto, non aiuta il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, a sciogliere i nodi che egli sa di dover sciogliere. Sarebbe anche nell'interesse del centrodestra, e del Paese, che questo avvenisse.

Possiamo mettere in questi termini il problema dell’opposizione. La sua componente estremista ha un capo riconosciuto, con un profilo netto, Antonio Di Pietro. Bersani, invece, deve ancora dimostrare di saper essere, al di là della carica politica, il capo riconosciuto, con un profilo altrettanto netto, della componente democratica dell'opposizione. Quando si dice che il Pd dovrebbe rompere l'alleanza con Di Pietro si dice una cosa giusta ma banale. Si perde di vista che «rompere con Di Pietro» sottintende una complessa operazione politica che, per essere attuata, ha bisogno di una leadership coi fiocchi. Si tratta di un'operazione che implica sia la resa dei conti con il «dipietrismo interno» al Partito democratico sia una ricalibrazione dei rapporti con le forze esterne (certi magistrati, certi giornali, eccetera), che sul dipietrismo interno al Pd hanno sempre fatto leva per condizionarne la politica.

Opporsi alla persona di Berlusconi o opporsi alle politiche del governo? La risposta rivela la concezione della lotta politica, nonché il giudizio sullo stato della nostra democrazia, di ciascun singolo oppositore. Da quando c’è Berlusconi le due anime hanno convissuto e, quasi sempre, quella antiberlusconiana pura ha prevalso, essendo stato fin qui l'antiberlusconismo il vero ancoraggio identitario della sinistra.

E’ evidente che Bersani, per la sua storia personale, ambirebbe a portare il Pd fuori dall'orbita del massimalismo antiberlusconiano, dare a quel partito ciò che esso non ha: un chiaro profilo riformista. E’ anche evidente che egli (legittimamente) si preoccupa di non perdere consensi. Poiché il massimalismo antiberlusconiano è ben presente nell'elettorato e fra i militanti del Pd un’operazione che separi nettamente i destini politici degli estremisti da quelli dei riformisti appare, sulla carta, assai rischiosa.

Ma qui entra in gioco la questione della leadership. Immaginiamo che Bersani batta il pugno sul tavolo e dica: «Di Pietro non è un alleato ma un avversario da isolare e i dipietristi interni al partito sappiano che non sarà più tollerato chi tiene il piede in due staffe. A loro volta, le forze esterne che pretendono di condizionarmi sappiano che la linea politica del Pd la detto solo io a nome della maggioranza congressuale che mi ha espresso. Se vogliono opporsi a me e logorarmi si accomodino ma sia chiaro che, così facendo, favoriranno il centrodestra ». Gli antiberlusconiani duri e puri (anche quelli del Pd) griderebbero al tradimento ma ciò potrebbe essere compensato dalla scoperta, da parte degli elettori di sinistra, del fatto che c'è ora in circolazione un leader riformista forte e vero, dal profilo netto, che potrebbe domani anche portarli alla vittoria.

La politica, si dice, è ormai troppo debole per non essere condizionata da forze esterne. Tramontata l’epoca dei partiti di massa, è solo la leadership che può ridare forza alla politica.

Angelo Panebianco

17 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il piede in due staffe (anche i lacchè scrivono)...
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2009, 05:27:26 pm
Il piede in due staffe

Una delle ragioni per le quali non conviene prendere troppo sul serio l'attuale revival di discussioni sulle «riforme costituzionali» è che le trattative sulle riforme sono come i negoziati internazionali: non portano a nulla se l'uno o l'altro (sia esso un partito politico o uno Stato) dei supposti protagonisti della trattativa è debole e diviso al suo interno, il che lo rende un negoziatore poco efficace e poco affidabile. Questa è la situazione in cui versa oggi il Partito democratico.

La conclusione del congresso di quel partito, come era forse prevedibile, non lo ha ricompattato e stabilizzato. Nonostante gli sforzi di Bersani, si fatica a intravedere una linea chiara. Se Bersani dice una cosa qualsiasi, gli esponenti della minoranza lo rimbeccano immediatamente sui giornali. A volte, dicono cose opposte a quelle che sostiene il segretario persino certi esponenti della stessa maggioranza (caso Rosy Bindi). Il Partito democratico è preda di una specie di «congresso permanente» che alcuni, o molti, confondono con la democrazia. I partiti di governo, tenuti insieme dai dividendi del potere, possono permettersi un simile coro di voci discordanti (talvolta, ne sono persino avvantaggiati). I partiti di opposizione non possono.

Le difficoltà della leadership sono ben rispecchiate nel modo in cui il Pd si avvia verso le elezioni regionali. In Lazio non ha ancora trovato un candidato da opporre a una sfidante fortissima come Renata Polverini, in Puglia la questione Niki Vendola ne sta da tempo dilaniando le carni. La Campania è già praticamente persa. Piemonte e Liguria, se i sondaggi sono attendibili, sono in bilico. Il Pd rischia assai grosso. Un quasi-cappotto alle regionali suonerebbe come una campana a morto. È tradizione, in Italia, che l'opposizione ottenga lusinghieri successi alle elezioni regionali. Una sconfitta del Pd testimonierebbe, a un tempo, della buona salute di cui continuano a godere i partiti di governo e della malattia che attanaglia il maggior partito di opposizione.

La malattia si chiama crisi di identità e le incertezze del partito sulla questione delle alleanze ne sono la spia. L'amletico dubbio è: rompere con Antonio Di Pietro e allearsi con l'Udc (peraltro determinante in molte regioni) adottando con decisione quello stile di opposizione pacata e responsabile che è nelle corde di Bersani o perseverare in un’alleanza che spaventa e allontana i moderati?

La minoranza del partito vuole che con Di Pietro non si rompa. Alcuni esponenti vicini a Massimo D'Alema vorrebbero il contrario.
Sapendo peraltro che mettere fine all'alleanza con Di Pietro significherebbe attirarsi gli strali, e le consuete accuse di tradimento, di quei mezzi di informazione che campano sull’antiberlusconismo radicale. Come sempre, quando un partito è tirato per la giacca in direzioni opposte, a prevalere, almeno temporaneamente, è il «centro», in questo caso rappresentato da coloro che ritengono conveniente tenere il piede in due staffe: corteggiare l'Udc e non spezzare il rapporto con Di Pietro. Ma in politica quelli che tengono il piede in due staffe rischiano molto: rischiano di essere considerati da chi li osserva «né carne né pesce». È la condizione peggiore che si possa immaginare quando si tratta di andare a chiedere ai cittadini consensi e voti.

Angelo Panebianco

30 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le fermezza e l'ipocrisia
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2010, 07:01:12 pm
Le fermezza e l'ipocrisia


Sappiamo da tempo che l'immigrazione è il fenomeno che forse più inciderà sul futuro dell'Europa. Conteranno sia la quantità dei flussi migratori che la qualità delle risposte europee. In Italia sembriamo tuttora impreparati ad affrontare in modo razionale e convergente un fenomeno col quale conviviamo ormai da anni. Ci sono almeno tre temi su cui non c'è consenso nazionale e, per conseguenza, mancano codici di comportamento e pratiche comuni fra gli operatori delle principali istituzioni. Non c'è consenso, prima di tutto, su che cosa si debba intendere per «integrazione» degli immigrati. A parole, tutti la auspicano ma che cosa sia resta un mistero. Ad esempio, si può ridurla alla questione dei tempi per la concessione della cittadinanza? O ciò non significa partire dalla coda anziché dalla testa?

Poiché nulla meglio delle micro-situazioni getta luce sui macro-fenomeni, si guardi a che cosa davvero intendono per «integrazione» certi operatori istituzionali. Ciò che succede, ormai da diversi anni, in molte scuole, durante le feste natalizie (e le inevitabili polemiche si infrangono contro muri di gomma) è rivelatore. Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni. Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell'integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà. E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri.

C'è poi, in secondo luogo, la questione dell'immigrazione islamica. Tipicamente (le critiche di Tito Boeri - 23 dicembre - e di altri, alle tesi di Giovanni Sartori - 20 dicembre - sulla difficoltà di integrare i musulmani, ne sono solo esempi), la posizione fino ad oggi dominante fra gli intellettuali liberal (e cioè politicamente corretti) è stata quella di negare l'esistenza del problema. Come se in tutti i Paesi europei, quale che sia la politica verso i musulmani, non si constati sempre la stessa situazione: ci sono, da un lato, i musulmani integrati, che vivono quietamente la loro fede, e non rappresentano per noi alcun pericolo (coloro che, a destra, ne negano l'esistenza facendo di tutta l'erba un fascio sono altrettanto dannosi dei suddetti liberal) ma ci sono anche, dall'altro, i tradizionalisti militanti, rumorosi e assai numerosi, più interessati ad occupare spazi territoriali per l'islam nella versione chiusa e oscurantista che a una qualsiasi forma di integrazione. E lascio qui deliberatamente da parte i jihadisti e i loro simpatizzanti. Salvo osservare che i confini che separano i tradizionalisti militanti contrari all'uso della violenza e i simpatizzanti del jihadismo sono fluidi, incerti e, probabilmente, attraversati spesso nei due sensi. Negare il problema è, francamente, da irresponsabili.

Ultima, ma non per importanza, c’è la questione dell’immigrazione clandestina, che porta con sé anche i fenomeni legati allo sfruttamento da parte della criminalità organizzata (e il caso di Rosarno ne è un esempio). Non c’è nemmeno consenso nazionale sul fatto che i clandestini vadano respinti. Da un lato, ci sono settori (xenofobi in senso proprio) della società che non hanno interesse a tracciare una linea netta fra clandestini e regolari essendo essi contro tutti gli immigrati. Ma tracciare una linea netta non interessa, ovviamente, neanche ai fautori dell’accoglienza indiscriminata.

Non ci sono solo troppi prelati e parroci che parlano ambiguamente di accoglienza senza mettere mai paletti (accoglienza verso chi? alcuni? tutti? Con quali criteri? Con quali risorse?). Ci sono anche operatori istituzionali che ci mettono del loro. Un certo numero di magistrati, ad esempio, ha deciso che il reato di clandestinità è in odore di incostituzionalità. Immaginiamo che la Corte costituzionale si pronunci domani con una sentenza favorevole alla tesi di quei magistrati. Bisognerebbe allora mandare a memoria la data di quella sentenza perché sarebbe una data storica, altrettanto importante di quelle dell’unificazione d’Italia e della Liberazione. Con una simile sentenza, la Corte stabilirebbe solennemente che ciò che abbiamo sempre creduto uno Stato non è tale, che la Repubblica italiana è una entità «non statale». Che cosa è infatti il reato di clandestinità? Nient’altro che la rivendicazione da parte di uno Stato del suo diritto sovrano al pieno controllo del territorio e dei suoi confini, della sua prerogativa a decidere chi può starci legalmente sopra e chi no. Se risultasse che una legge, regolarmente votata dal Parlamento, che stabilisce il reato di clandestinità, è incostituzionale, ne conseguirebbe che la Costituzione repubblicana nega allo Stato italiano il tratto fondante della statualità: la prerogativa del controllo territoriale. Né si può controbattere citando il trattato di Schengen, che consente ai cittadini d’Europa di circolare liberamente nei Paesi europei aderenti. Schengen, infatti, è frutto di un accordo volontario fra governi e, proprio per questo, non intacca il principio della sovranità territoriale.

La questione dell’immigrazione ricorda quella del debito pubblico. Il debito venne accumulato durante la Prima Repubblica da una classe politica che sapeva benissimo di scaricare un peso immenso sulle spalle delle generazioni successive. In materia di immigrazione accade la stessa cosa: esiste un folto assortimento di politici superficiali, di xenofobi, di educatori scolastici, di intellettuali liberal, di preti (troppo) accoglienti, di magistrati democratici, e di altri, intento a fabbricare guai. Fatta salva la buona fede di alcuni, molti, probabilmente, pensano che se quei guai, come nel caso del debito, si manifestassero in tutta la loro gravità solo dopo un certo lasso di tempo, non avrebbe più senso prendersela con i responsabili.

Angelo Panebianco

08 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La rivoluzione mancata del pdl
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2010, 03:00:12 pm
La rivoluzione mancata del pdl

Il paradosso delle tasse


In materia di tasse Silvio Berlusconi ha un grande merito e un altrettanto grande demerito. Il merito è che la questione della riduzione drastica delle tasse entrò nella agenda italiana grazie a lui. Ai tempi della Prima Repubblica il tema era tabù. La Lega di Bossi, è vero, ne aveva parlato prima ma, in quel caso, le tasse erano solo un elemento fra gli altri entro la cornice del rivendicazionismo identitario-territoriale. Il demerito di Berlusconi è di non avere dato seguito alla promessa. Sergio Rizzo ( Corriere, 11 gennaio) ha ricostruito in modo esauriente la storia degli annunci e delle promesse mancate. Per arrivare a oggi, quando nel giro di pochi giorni Berlusconi ha rilanciato il vecchio progetto delle due sole aliquote per poi subito accantonarlo.

L’occasione mancata risale al governo Berlusconi del 2001-2006. Si andò vicino al traguardo con la legge delega, predisposta da Giulio Tremonti, che introduceva le due aliquote. Poi i contrasti nella maggioranza bloccarono il progetto. Berlusconi non fu capace di imporre ai suoi alleati una riforma su cui si giocava l’identità politica sua e di Forza Italia. Perché ora dovremmo credere che la grande riforma fiscale si farà, se non venne fatta allora, in un’epoca di espansione economica internazionale?

Il paradosso delle tasse può essere così riassunto: la storia di un quindicennio mostra che Berlusconi è inaffidabile quando promette la riforma fiscale. Al tempo stesso, c’è la quasi certezza che se la riforma non verrà fatta da lui non verrà fatta da nessun altro.
Non dal centrosinistra che sulle tasse ha ereditato gli atteggiamenti della classe politica della Prima Repubblica e che, per cultura, e per gli interessi della sua constituency elettorale, è ostile a riduzioni generalizzate della pressione fiscale. Ma nemmeno dal centrodestra, nel quale, tolta la componente di Forza Italia (e neppure tutta) del Pdl, sono presenti tanti politici che sulle tasse non hanno mai condiviso fino in fondo le idee (o i sogni?) di Berlusconi.

Certo, per ridurre le tasse occorre prima tagliare la spesa pubblica (campa cavallo). Oppure, come sostiene il «partito liberista» (da Antonio Martino a Oscar Giannino, ad Alberto Mingardi), occorre rovesciare le priorità: fare in modo che sia una drastica riduzione delle tasse a imporre la contrazione della spesa pubblica. Ci sono nodi tecnici da sciogliere, e conti da far quadrare, come il ministro Tremonti ricorda. Ma ci sono anche nodi politici. Ridurre le tasse significa destabilizzare clientele e corporazioni che vivono di spesa pubblica, colpire gli interessi cresciuti al riparo di un’alta fiscalità. E favorire cambiamenti di mentalità, fare accettare anche nelle aree del Paese che non ci credono l’idea che un livello troppo alto di tassazione sia un indicatore della scarsa libertà dei cittadini.

Con lodi o biasimi, a seconda degli orientamenti, gli ultimi decenni verranno ricordati nei libri di storia come quelli della «era Berlusconi». Ma se Berlusconi non riuscirà a rivoluzionare il fisco, nemmeno il più benevolo degli storici vi aggiungerà mai la parola «liberale».

Angelo Panebianco

16 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il bipolarismo senza equilibrio
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2010, 08:48:12 pm
Il bipolarismo senza equilibrio

La nostra vita pubblica, apparentemente immobile, sembra vivere in realtà di oscillazioni radicali, sembra evolvere passando da uno squilibrio all’altro. Da noi, si tratti di rapporti fra politica e giustizia, fra pubblico e privato, o fra maggioranze e opposizioni entro il sistema dei partiti, non si trovano mai o quasi mai «punti di equilibrio» soddisfacenti. Nei rapporti fra politica e magistratura, ad esempio, siamo passati dal dominio della politica con debole o nulla indipendenza dei magistrati (nei primi decenni della Prima Repubblica) alla situazione opposta del predominio giudiziario sulla politica. Forse, l’episodio emblematico che consacrò la svolta fu, nel 1993, il proclama televisivo con cui l’allora pool di Mani Pulite affossò il decreto Conso sulla questione della corruzione. Da uno squilibrio all’altro, insomma.

La stessa cosa vale per i rapporti fra pubblico e privato. O è il pubblico (che poi significa sempre politica, partiti) a dominare il privato oppure è il privato che si appropria del pubblico. Anche qui, si danno, per lo più, oscillazioni da un estremo all’altro.

Anche se guardiamo ai rapporti fra i partiti, fra le maggioranze e le opposizioni, la situazione non è diversa. In Italia sembra esserci spazio solo per le alleanze formali, cementate dalla comune gestione del potere, e per le contrapposizioni totali alimentate da linguaggi e toni da scontro di civiltà (ma anche accompagnate, come è inevitabile perché il sistema non crolli, da frequenti accordi sottobanco).

Guardiamo all’oggi. Il bipolarismo richiederebbe una prevalenza della moderazione sull’estremismo, una convergenza al centro. Non è necessario che ciò accada continuamente (anche nei sistemi bipolari più stabili si danno inevitabilmente momenti o episodi di lotta feroce) ma è necessario, perché il sistema duri, che moderazione e convergenza al centro siano, almeno, le tendenze prevalenti. In Italia non è così. La caratteristica italiana è che mentre i fautori della moderazione sono per lo più contrari al sistema bipolare, i difensori del bipolarismo sono contrari alla moderazione.

Lo si vede in ogni zona del sistema partitico. Nel centrodestra le cose appaiono solo un po’ più confuse e complesse a causa degli effetti dell’esercizio del potere, del ruolo di Berlusconi, e della presenza della Lega (un partito di rappresentanza territoriale che, in quanto tale, ha un rapporto solo strumentale con il bipolarismo)

La tendenza— che però, ripeto, riguarda l’intero sistema politico— è invece visibilissima nel caso del maggior partito di opposizione, il Partito democratico. Qui, spingono chiaramente per la moderazione coloro che vorrebbero far saltare il bipolarismo mentre i difensori del bipolarismo cavalcano l’estremismo. Lo si è visto, qualche mese fa, nella gara per la segreteria nazionale. Il segretario uscente, Dario Franceschini, difendeva il bipolarismo usando però i toni e gli argomenti dell’estremismo giustizialista. Lo sfidante Pier Luigi Bersani sceglieva invece una linea assai più moderata (opposizione ferma sì ma senza massimalismi) mentre i dalemiani che lo sostenevano non facevano mistero della loro crescente insofferenza per l’alleanza con Di Pietro.

Questa moderazione, però, non era funzionale all’idea di fare del Pd una componente stabile del gioco bipolare. Ciò che si intravedeva era un diverso disegno. Il progetto era quello di sacrificare il bipolarismo sull’altare di una alleanza con i centristi di Casini (in attesa del botto finale: la disgregazione del centrodestra dopo l’eventuale uscita di scena di Berlusconi).

Fra il bipolarismo massimalista (Franceschini) e l’anti-bipolarismo moderato (Bersani) il «popolo democratico» scelse allora il secondo.
Il progetto di Bersani e D’Alema è ora stato sconfitto in Puglia. Se è vera l’ipotesi che da noi si procede solo passando da uno squilibrio all’altro, nel caso del Pd il pendolo dovrebbe ora di nuovo spostarsi verso l’irrigidimento massimalista. È probabile che assisteremo a una progressiva chiusura anche di quei piccoli spiragli di dialogo sulle riforme che si erano recentemente aperti. A maggior ragione se, come è possibile, le elezioni regionali andranno male per il Partito democratico. Ed è anche molto probabile che una nuova svolta massimalista del Pd non dispiaccia a Berlusconi. Nel breve termine, essa darebbe infatti ulteriori vantaggi al centrodestra.

A destra come a sinistra sono deboli le forze disponibili a far funzionare il sistema bipolare tramite moderazione e convergenze al centro. Le forze contrarie sono più consistenti.

Ricorrere a espressioni come « punto di equilibrio » , «equilibrio fra i poteri» (e ad altre espressioni ancora in cui figuri la parola «equilibrio») significa affidarsi a un linguaggio metaforico. Si vuole indicare, semplicemente, il consolidamento di prassi, di comportamenti, che raccolgano l’approvazione, se non di tutti, quanto meno dei più. Perché, si tratti di rapporti fra politica e magistratura, fra pubblico e privato, o fra maggioranze e opposizioni, non si riesce quasi mai a creare sufficiente consenso diffuso non sui contenuti (dove il dissenso e il conflitto sono legittimi e necessari) ma sul modo in cui quei rapporti dovrebbero correttamente svilupparsi? Perché queste oscillazioni fra estremi opposti? Le ragioni sono complesse e ciascuno può scegliere le risposte che preferisce. La più semplice è che, a tutte le latitudini, in alto e in basso, fra le élite come fra i cittadini comuni, mentalità, cultura e sensibilità liberali siano tuttora pressoché introvabili.

Angelo Panebianco

28 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. (pistolotto pro-silvio e anti-Obama...
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2010, 12:18:10 pm
OBAMA E L’EUROPA MAI COSÌ DISTANTI

Il divorzio atlantico


La visita di Silvio Berlusconi in Israele non è stata solo un successo personale del premier italiano. Non ha soltanto ribadito agli israeliani (e ai loro nemici), ma anche all’opinione pubblica italiana, che il deciso schieramento dell’Italia a fianco del «più grande esempio di democrazia e libertà del Medio Oriente» rappresenta — come ha osservato giustamente Peppino Caldarola sul Riformista — la più forte discontinuità di politica estera fra i governi del centrodestra berlusconiano e tutti i precedenti governi italiani.

Quella visita, che dà ulteriore forza alla posizione energica assunta sulle questioni della difesa di Israele e del nucleare iraniano dal cancelliere tedesco Angela Merkel, ha anche varie implicazioni di politica internazionale. Soprattutto, contribuisce a segnalare all’Amministrazione Obama che la distratta negligenza con cui il presidente ha trattato gli storici alleati europei dell’America nel suo primo anno di governo è stata forse uno dei suoi più gravi errori politici (da cui non sembra abbia voglia di emendarsi, come dimostrerebbe, se venisse confermato, anche il recente annullamento della sua visita in occasione del prossimo vertice, fissato per maggio, fra Unione Europea e Stati Uniti).

Noi europei, per lo più con ragione, siamo soliti lamentarci di noi stessi, della nostra incapacità di darci quel tanto di coesione necessaria per parlare al mondo con una sola voce (continua a mancare quel numero telefonico unico che Henry Kissinger non trovava quando voleva comunicare con l’Europa). E sappiamo che questo stato di cose durerà probabilmente ancora per generazioni, se mai finirà. Inoltre, è più che lecito, e anche Obama ha ragione a farlo, rimproverare gli europei per la loro mancanza di nerbo quando si tratta di concorrere con l’America a fronteggiare le minacce. I tanti «no», soprattutto tedeschi e francesi, alla disperata richiesta di Obama di un maggiore impegno in Afghanistan, stanno lì a dimostrare di quanta poca determinazione alcuni dei principali Paesi europei siano dotati quando ci sono in gioco questioni cruciali per la sorte del mondo occidentale, come il contenimento dell’islamismo radicale o la stessa sopravvivenza della Nato.

Detto tutto il male che si può dire dell’Europa, resta però il fatto che Obama, fin dai primi giorni del suo insediamento, ha probabilmente sbagliato i calcoli. Ha pensato che fosse ormai tempo di ridimensionare il peso e il ruolo di quella speciale «relazione transatlantica » fra Stati Uniti ed Europa, che è stata, per cinquant’anni, uno dei pilastri della stessa potenza americana nel mondo. Non si è reso conto che se andasse in pezzi la «comunità euro-atlantica», il declino americano, comunque in atto (un declino che spaventa tanti e rallegra tanti altri) potrebbe solo subire un’accelerazione. Nonostante i suoi continui omaggi al multilateralismo, Obama è stato fin qui altrettanto «unilateralista » del suo predecessore Bush. Ha pensato che i vecchi alleati democratici fossero solo un ingombro, non un punto di forza, per le relazioni internazionali dell’America.

Come ha osservato Robert Kagan in un recente scritto molto critico sull'attuale Presidenza, la svalutazione delle relazioni euro-atlantiche da parte di Obama discende, almeno in parte, da una visione che, volendo liquidare l'eredità wilsoniana (la tradizione di interventismo democratico che si fa risalire al presidente Woodrow Wilson) in tutte le varianti, assume l'alleanza e il rapporto privilegiato con le democrazie (europee, ma non solo) come non più vitale per gli interessi dell'America. Per Obama, nel suo primo anno di Presidenza, era invece vitale solo cercare intese realistiche con chiunque (persino all'Iran è stata tesa la mano, ed è stata ritirata solo perché gli iraniani l'hanno morsa) sulla base dell'irenico, e sbagliato, presupposto che sia sempre possibile mettersi d'accordo, trovare comunque una convergenza su interessi comuni. Gli esiti non sono stati fin qui brillanti.

Il rapporto privilegiato che Obama pensava di stabilire con la Cina (il G2) non ha soltanto spaventato altri Paesi asiatici (come l'India), è anche stato privo di buoni frutti. I cinesi hanno detto «no» a tutte le richieste americane (il viaggio di Obama a Pechino fu per molti versi umiliante). Adesso fa la voce grossa (forniture d'armi a Taiwan, scontro su Internet, visita preannunciata del Dalai Lama a Washington), ma sapendo bene di non poter rompere con il principale creditore dell'America. L'indecisione strategica è evidente. Così come è evidente nel caso dell'Iran. Si è passati da una fase in cui, alla ricerca di chissà quali concessioni del regime iraniano, si scelse di non sostenere la rivolta popolare, a una fase in cui si torna a un atteggiamento duro e deciso (sperando che la Russia, ma soprattutto la Cina, non impediscano un'azione concertata della comunità internazionale contro il nucleare iraniano).

La grande forza dell'America, dopo la seconda guerra mondiale, è sempre consistita nel fatto che, pur trattando e negoziando con le tirannie, essa non perdeva di vista l'importanza del suo rapporto privilegiato con le altre democrazie, europee in primo luogo. L'Amministrazione Obama sembra non averlo capito. Per giunta, e nonostante le tante magagne dell'Europa, quale altro vero alleato l'America potrebbe mai trovare per contrastare la minaccia del terrorismo islamico? Tenuto conto che l'Europa, per geografia, risorse e storia, è, da un lato, la più esposta al pericolo e, dall'altro, quella dotata della migliore expertise per muoversi con una qualche efficacia nello scenario mediorientale. Forse il declino della potenza americana è inarrestabile, come molti ritengono, a causa del deterioramento della forza economica che la sosteneva e dell'emergere di altre potenze. Forse, come pensano altri, non c'è nulla di già scritto, di predeterminato, in queste faccende. E' però plausibile aspettarsi un'accelerazione del declino se la dirigenza americana penserà di poter fare a meno di quel rapporto con l'Europa che per tanto tempo ha contribuito ad assicurare a noi la libertà e agli Stati Uniti il primato.

Angelo Panebianco

05 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La corruzione e i partiti
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2010, 12:03:21 pm
DIRIGENTI ELETTI E SELEZIONE CHE NON C’E’

La corruzione e i partiti


Il caso del senatore Di Girolamo ma anche quanto documentano tante inchieste della magistratura sulla politica locale chiamano direttamente in causa le modalità di reclutamento della classe politica, al centro e alla periferia (le vicende giudiziarie che coinvolgono, rispettivamente, la Protezione civile ma anche Telecom e Fastweb toccano invece aspetti diversi). Come sempre, quando scoppia una emergenza giudiziaria, e tanto più se ci si trova alla vigilia di qualche importante scadenza elettorale, si invocano e si propongono nuove regole, soprattutto per quanto riguarda la composizione delle liste elettorali. È giusto che i partiti, in questa situazione, si diano delle norme stringenti nella selezione dei candidati. Proporre nuove regole, più o meno moralizzatrici, ha lo scopo di tranquillizzare un’opinione pubblica allarmata e sconcertata. Ma che servano davvero a risolvere, alla radice, il problema della qualità dei reclutamenti dei politici è un altro discorso. Ci sono due aspetti da considerare. Il primo riguarda la natura dei partiti: la loro plasticità e permeabilità. I partiti sono strutture camaleontiche, che si adattano all’ambiente in cui operano, e sono anche, inevitabilmente, condizionati, sia per il reclutamento del personale politico sia per quanto riguarda le influenze che su quel personale sono esercitate dall’esterno, da gruppi, aziende, notabili (ma anche, in certe zone, organizzazioni criminali), che nei diversi territori sono dotati delle maggiori risorse. Ne discende che le battaglie moralizzatrici (anche ammesso, e non concesso, che vengano intraprese con reale convinzione e con reale volontà) tese a bonificare i partiti sono destinate a sicuro fallimento se non si procede prima, o almeno contestualmente, a bonificare l’ambiente.

È inutile, ad esempio, stupirsi delle «infiltrazioni mafiose » nei partiti se parti ampie delle economie dei territori in cui le infiltrazioni avvengono sono in mano alla criminalità. Per bonificare con speranze di successo i partiti bisogna intervenire sull’economia di quei territori. Tramontata l’epoca che alcuni (ma non chi scrive) ritengono gloriosa dei partiti di massa ideologici, i partiti sono ormai quasi esclusivamente comitati elettorali e rimarranno tali. La loro permeabilità all’ambiente resterà, pertanto, elevatissima. E il reclutamento del personale politico continuerà a esserne condizionato. Il secondo aspetto importante riguarda l’opacità delle relazioni fra gruppi di affari e il personale politico. Qui bisogna davvero intendersi. Non si riuscirà mai a dare la trasparenza necessaria alla attività delle lobbies che operano sul piano locale e sul piano nazionale se continueremo a demonizzarle (come la nostra cultura politica ha sempre fatto) anche a prescindere dalla individuazione di specifici e circostanziati reati penali. Le lobbies, in tutte le democrazie, sono una costante. Imporre la trasparenza necessaria per contrastare le attività illecite richiede, come contropartita, la piena accettazione pubblica delle attività lobbistiche. I vescovi hanno levato giustamente la loro voce contro i perversi rapporti fra politica e affari nel Mezzogiorno. Ma è un problema che non si risolve se non ci si fa venire nuove idee su come combattere l’economia parassitaria (l’economia che vive di distribuzione di risorse pubbliche) nel Sud del Paese.

C’è poi il fatto che non bisognerebbe avanzare richieste contraddittorie. È più che lecito, ad esempio, criticare l’attuale legge elettorale perché, fra le altre cose, spezza il rapporto fra l’eletto e il territorio. Ma come si concilia questa critica con la richiesta di usare la ramazza contro i comitati d’affari locali? Se, cambiando legge elettorale, si rinforzano i legami fra eletti e territorio (per esempio, reintroducendo le preferenze) anche i rapporti fra i candidati, gli eletti e gli interessi dei gruppi locali che fanno affari con la politica non possono che rafforzarsi. Chi scrive è sempre stato un fautore del sistema maggioritario con collegi uninominali. Perché mi sembra il sistema elettorale che meglio favorisce la competizione fra opposti schieramenti politici. Ma mentirei se sostenessi che con il collegio uninominale si allenterebbe la dipendenza degli eletti dai gruppi di interesse locali. Probabilmente, quella dipendenza potrebbe solo accrescersi. Il fervore con cui, improvvisamente, si cerca di trovare «nuove regole» è comprensibile. Ma non porterà da nessuna parte senza interventi ben più incisivi e importanti sugli ambienti sociali ed economici in cui i partiti operano. Ad esempio, scordatevi la possibilità di avere nel Sud partiti puliti e lustri se la realtà meridionale, per tante parti, resta quella che è. Anche se una certa, diffusa mentalità legalistico-formalistica porta tanti a non comprenderlo, una nuova «regola», quale che essa sia, per esempio in materia di composizione delle liste, se cade in un ambiente con essa incompatibile, verrà necessariamente aggirata o stravolta. Passata l’emergenza, tutto ricomincerà più o meno come prima.

Angelo Panebianco

26 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un partito prigioniero (il solito gufo di silvio).
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2010, 09:15:21 am
IL PD E L’IPOTECA DI PIETRO

Un partito prigioniero


La tragicommedia non è ancora finita. Per ora il «golpe » (come certi oppositori, dotati, come ognun vede, di senso della misura e dell’equilibrio, hanno subito definito il decreto salva-liste) è stato bloccato da un Tar. Ieri la lista pdl nella provincia di Roma ha subito un nuovo stop. Vedremo gli sviluppi. Al momento, si constatano due conseguenze. La prima è data dal grave danno d’immagine che il centrodestra si è auto-inflitto e di cui è il solo responsabile. La seconda riguarda gli effetti sull’opposizione. La reazione del Partito democratico fa riflettere. È possibile che abbia ragione Giuliano Ferrara («Il Foglio», 8 marzo): il Pdl aveva fatto un clamoroso autogol ma il Pd non è stato poi capace di approfittarne. I dirigenti del Pd avrebbero potuto dire: accertato che i nostri avversari sono dei pasticcioni, noi che abbiamo a cuore la sorte della democrazia e che non possiamo accettare che una competizione democratica venga svuotata di significato per assenza del nostro principale antagonista, sosterremo le scelte che farà il presidente della Repubblica per sanare questa anomala situazione. Sarebbero usciti da questa vicenda a testa alta, come l’unico partito importante dotato di senso delle istituzioni. Ma ciò avrebbe anche richiesto che il Pd fosse un partito diverso da ciò che è, un partito forte, capace di decidere da solo la propria agenda politica, non un partito debole e etero- diretto, un partito che l’agenda, nei momenti critici, se la fa dettare sempre da altri, si tratti dei giornali di riferimento o di Antonio Di Pietro.

All’indomani del decreto, incapaci di sfruttare il grande vantaggio tattico che il Pdl aveva loro offerto, i dirigenti del Partito democratico si sono subito infilati in una trappola. Parlo della manifestazione di sabato prossimo. Se non verrà annullata, risulterà per il Pd un boomerang e un pasticcio politico, in qualche modo summa e specchio di tutte le sue debolezze. I dirigenti del Pd possono negarlo quanto vogliono ma la manifestazione avrebbe necessariamente il carattere di una presa di posizione contro il capo dello Stato e non solo contro il governo. Il decreto salva-liste, infatti, è stato firmato e difeso da Napolitano. In questa situazione, la stella di Di Pietro, oggi vero leader morale dell’opposizione, brillerebbe: egli è infatti il solo non-ipocrita della compagnia, quello che dice pane al pane, quello che ha chiesto subito l’impeachment per il capo dello Stato. Si badi: se fosse vera la tesi (ma i costituzionalisti sono assai
divisi) secondo cui il decreto crea un grave vulnus al processo democratico, allora Di Pietro avrebbe mille volte ragione a proporre
l’impeachment. Quello del Pd risulterebbe dunque un capolavoro politico alla rovescia. Consentirebbe (e ha già consentito) al centrodestra, responsabile del pasticcio, di fare la vittima e di ergersi a difensore del presidente della Repubblica.

L’intera vicenda si presta a considerazioni amare sulla qualità, la tempra e la professionalità della classe politica, di destra e di sinistra. Sulle debolezze (tante e complesse) del centrodestra avremo modo di ragionare in seguito. Per quanto riguarda il Pd, basti ricordare che esso, incapace di tracciare una linea di divisione netta fra sé e il movimento giustizialista, incapace di combattere i giustizialisti (apprezzati da tanti anche al suo interno), ha finito per abbracciarli. E questo è il risultato.

Angelo Panebianco

10 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Quelle inutili nostalgie
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2010, 10:34:20 am
LA PRIMA REPUBBLICA VA RIMPIANTA?

Quelle inutili nostalgie


Di fronte al marasma in cui è quotidianamente immersa la nostra vita pubblica attuale è comprensibile che tanti ripensino con nostalgia alla Prima Repubblica, trasfigurata nel ricordo e idealizzata come un’oasi di ordine politico e di pace. Un «luogo» ove erano inimmaginabili la volgarità dell’oggi, e ove (come si sente continuamente dire) i politici erano dei veri professionisti, misurati nelle parole e capaci di gestire con competenza situazioni difficili. Il contrario dello spettacolo di disordine, dilettantismo e sguaiataggine cui assistiamo. La nostalgia per il passato è uno dei più naturali e ricorrenti fra i sentimenti degli uomini. C’è gente che ricorda con nostalgia persino le guerre e altre catastrofi (magari perché, all’epoca, possedeva la cosa che tutti rimpiangono quando non c’è più: la gioventù). È accaduto anche in Russia: spaventati dal disordine successivo alla caduta dell’Urss, tanti russi si scoprirono nostalgici dei «bei tempi» del potere totalitario comunista. Dunque, non c’è nulla di strano nel fatto che tanti italiani oggi ricordino con nostalgia la Prima Repubblica. Ma ne vale la pena?

La Prima Repubblica non era affatto un luogo ameno, o un’irreprensibile democrazia. Era un regime partitocratico (il termine venne coniato allora) nel quale i tentacoli dei partiti si estendevano ovunque. La sua storia va divisa in due parti. Nella prima parte, l’Italia fu immersa in una guerra civile virtuale: da un lato i comunisti, di stretta osservanza sovietica, dall’altro lato i democristiani e i loro alleati. La Falce e il Martello e lo Scudo Crociato, che campeggiavano sulle loro bandiere, erano simboli di guerra, di armate al servizio di visioni della società e della politica mortalmente nemiche. L’inamovibilità della Dc, l'assenza di alternanza al governo, non erano casuali. Erano il prodotto necessario della natura degli attori politici. Se vogliamo capire, guardando allo scontro di oggi fra berlusconiani e antiberlusconiani, dove abbiamo appreso la sciagurata abitudine di trattare la politica come conflitto fra Bene e Male è a quell’epoca che dobbiamo rivolgerci. Nella seconda fase della Prima Repubblica, le contrapposizioni ideologiche si stemperarono un po', i nemici ideologici impararono a coesistere ma ciò non migliorò la condizione della nostra vita pubblica. Per certi versi, la peggiorò. Si aprì infatti l’epoca che Alberto Ronchey per primo battezzò della «lottizzazione», una selvaggia e continua spartizione delle spoglie pubbliche fra fameliche macchine partitiche.

Non esisteva una reale separazione dei poteri. Finché i partiti non cominciarono a indebolirsi (più o meno, dalla Presidenza Pertini in poi), ad esempio, i Presidenti della Repubblica erano comandati a bacchetta dalle segreterie di partito. La costituzione formale era una cosa ma ciò che contava era la costituzione materiale: le vere regole del gioco avevano ben poca attinenza con le regole formali (costituzionali). La Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità molti disastri. Ne cito quattro. L'assenza di alternanza andava a braccetto, nella Prima Repubblica, con un'endemica instabilità governativa. La conseguenza era l'incapacità della politica di concepire e attuare piani a medio termine nei suoi vari settori di competenza. Era costretta ad occuparsi solo del consenso immediato. Il dissesto idrogeologico, il decadimento di tante infrastrutture, la carenza di ospedali, carceri o scuole, da cui siamo tuttora afflitti, hanno la loro radice nell’incapacità della Prima Repubblica di attuare politiche di respiro nei vari ambiti. La pubblica amministrazione, oltre che come ricettacolo di clientele, fu utilizzata per assorbire manodopera intellettuale, soprattutto dal Mezzogiorno, senza riguardo per i suoi problemi di funzionalità. La sua celebre inefficienza, che tuttora ci opprime, è un regalo della Prima Repubblica. Con lo stesso cinismo venne sempre trattata (dai democristiani, in primo luogo) la scuola.

Usata per lungo tempo soprattutto come strumento di organizzazione di clientele, dopo il '68 diventò (come, in seguito, accadrà anche alla Rai) la principale sede di uno strisciante «compromesso storico»: il clientelismo dei democristiani si acconciò a convivere con la demagogia sindacale e con gli ideologismi anti-sistema di tanti ex sessantottini diventati insegnanti. Chi vuole capire quali siano le cause degli attuali guai della scuola è al quarantennio della Prima Repubblica che deve guardare. Infine, la Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità un colossale debito pubblico (una colpa più grave, per i suoi effetti, del finanziamento illecito dei partiti). Si consentì a tanti italiani di vivere al di sopra dei loro mezzi scaricandone i costi sulle generazioni successive. Anche i figli dei nostri figli continueranno, incolpevoli, a pagare quel conto. Ma, si dice, i partiti erano fonte di «professionalità » (sottintendendo: altro che i dilettanti attuali). Questo è vero ma la professionalità dei politici dell'epoca non impedì nessuno dei disastri che ho sopra ricordato. Ma, si dice ancora, c'era più decoro, meno volgarità imperante. Anche questo è vero, ma si dimentica qual era la causa del minor tasso di volgarità.

La società era meno libera, condizionata da modelli di comportamento assai più rigidi degli attuali. La volgarità di oggi è, per così dire, il lato oscuro della libertà. Siamo più liberi, e ciascuno fa uso di quella libertà come sa e come è portato a fare. C'è poi il capitolo magistratura (l'unico rispetto al quale persino un detrattore della Prima Repubblica, quale è chi scrive, ha qualche tentennamento). Siamo passati da una magistratura dipendente dal potere politico (almeno nella prima fase della Prima Repubblica) all’anarchia giudiziaria attuale, dove ci sono magistrati che vorrebbero avere diritto di vita e di morte sui governi (si tratti del governo Prodi o del governo Berlusconi) e assistiamo al fenomeno dei raider giudiziari, procuratori che costruiscono inchieste spettacolari (spesso destinate a finire in nulla) per poi costruirci sopra carriere politiche. Non siamo riusciti a trovare un accettabile punto di equilibrio fra la dipendenza di ieri e l'anarchia di oggi. La nostalgia è un sentimento rispettabile ma, come spiegano gli psicologi, non è sano. È nel presente che viviamo e sono i problemi di oggi che dobbiamo affrontare con gli strumenti di oggi. Non serve evocare un’età dell'oro che non è mai esistita.

Angelo Panebianco

15 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tremonti, Fini e le scelte del Pdl
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2010, 11:06:50 am
TRA RAPPRESENTANZA E CONFLITTUALITA’

Tremonti, Fini e le scelte del Pdl


Comunque vadano le elezioni regionali per il Popolo della libertà, i risultati difficilmente ne freneranno la conflittualità interna.
Per due ragioni. La prima è che il calendario politico è diverso dal calendario gregoriano. Secondo il calendario gregoriano mancano tre anni al 2013 e, quindi, alla fine della legislatura. Ma per il calendario politico ne mancano due. Nel senso che il governo ha ormai poco tempo per attuare i suoi programmi: due anni, forse anche meno. L’ultimo anno sarà elettorale e, a quel punto, ci si preparerà al duello, si scalderanno i muscoli, si fronteggeranno le manovre dei possibili «traditori », eccetera: l’attività dell’esecutivo verrà piegata a queste esigenze. Con la riduzione del tempo a disposizione del governo cresceranno nervosismo e conflittualità. La seconda ragione è che il Pdl è una costruzione assai fragile, l’aggregazione di una molteplicità di gruppi e gruppuscoli tenuti insieme solo dalla leadership di Berlusconi e sulla quale, per giunta, pesa il conflitto fra il premier e Gianfranco Fini. Molti dirigenti e parlamentari non possono non interrogarsi sul futuro del partito (e, quindi, sul loro futuro personale): sarà ancora Berlusconi a guidare il partito nella sfida elettorale del 2013? Oppure ragioni anagrafiche o anche l’usura politica lo obbligheranno a lasciare? E in tal caso che fine farà il Pdl?

Il Pdl è certamente molte cose. È, prima di tutto, una classica grande aggregazione di centrodestra. In quanto tale, ha attirato, come fanno sempre queste aggregazioni, una quota elevata di personale politico con esperienze di governo, nazionale o locale, in precedenti formazioni moderate. È l’aspetto che più lo avvicina alla Dc e che, per certi versi, lo rende erede (questione religiosa a parte) di quella esperienza. Ma il Pdl non è solo questo. È anche un partito che, attraverso la componente Forza Italia, ha reclutato un personale che proprio in Forza Italia ha fatto il suo apprendistato, un personale «chiamato alle armi» dal Berlusconi del ’94 e del 2001, quello del programma «liberista» (meno di tutto: Stato, burocrazia, tasse) e che ha il suo elettorato di riferimento in quella parte di cittadini, soprattutto al Nord, sensibili a quei temi. E c’è la componente An, con una storia e un insediamento sociale ed elettorale assai diversi da quelli di Forza Italia. Come potrà stare insieme in futuro questa aggregazione? Qualcuno potrà vincere la partita della successione a Berlusconi mantenendola unita? Al momento c’è un solo dirigente che ha messo il suo ingegno, le sue risorse culturali e la sua capacità di governo al servizio di un progetto che possiamo definire «post-berlusconiano», in grado, cioè, sulla carta, di andare oltre Berlusconi. È Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia si è mosso su tre piani: quello dell’azione di governo (tenendo in piedi il Paese nel mezzo della tempesta globale), delle alleanze sociali, che ha gestito con accortezza, e sul piano della proposta politico-culturale. Quanto a quest’ultima, è strano che non si siano notate certe somiglianze, forse involontarie, fra la posizione tremontiana e alcuni aspetti, oltre che del conservatorismo classico europeo, anche del neoconservatorismo americano: mix di mercato e Stato, recupero della tradizione religiosa, enfasi sulla centralità della coesione sociale, eccetera.

È un’offerta politica che potrebbe mordere su una parte significativa di quell’elettorato moderato cui Tremonti si rivolge. Inoltre, l’accento sulla coesione sociale ha anche l’effetto di spiazzare una sinistra in crisi di identità e con poche idee. Ma ci sono due «ma». Il primo riguarda il rapporto con la Lega. A parte Berlusconi, Tremonti è l’unico leader del Pdl che possa garantire l’alleanza con la Lega.
Ma potrebbe riuscirci, uscito di scena Berlusconi, senza perdere porzioni rilevanti del Pdl nel Centroitalia e nel Sud? Il secondo «ma» riguarda la parte di Forza Italia tuttora ancorata alle tradizionali posizioni liberiste del Berlusconi del ’94 e del 2001. Questa parte del partito non può riconoscersi nel tremontismo. Così come non vi si riconoscono quei settori di classe media indipendente del Nord che, da un lato, sono refrattari alle chiusure del comunitarismo leghista e, dall’altro, sono delusi dalla dismissione del programma liberista (sul deficit di rappresentanza di questi ceti i lettori del Corriere sono stati informati dalle approfondite inchieste di Dario Di Vico).

La dismissione del programma liberista è forse il problema che più pesa sulle prospettive del Pdl. È un fatto però che l’oppositore per antonomasia, Fini, non lo ha fin qui riconosciuto come il tema su cui costruirsi una posizione di forza per le sfide del dopo Berlusconi. C’era e c’è, insomma, un «posto vacante » ma Fini non lo ha occupato. Anziché scegliere la strada, che potrebbe rivelarsi sterile, della fronda continua, Fini avrebbe potuto contrapporsi a Tremonti (e a Bossi) in nome delle «ragioni» (abbandonate) del ’94, diventando punto di riferimento per quella parte dell’elettorato di centrodestra non catturabile né dalla Lega né dal tremontismo. Anche la polemica con Berlusconi, in questo caso, si sarebbe dovuta concentrare sulle incoerenze, sul divario fra promesse e realizzazioni, sull’abbandono del liberismo originario. Quella scelta sarebbe stata certamente in conflitto con la formazione personale e le esperienze passate di Fini ma, a ben vedere, non più di quanto lo siano le posizioni assunte sui temi etici o sull’immigrazione. E, in seguito, ci sarebbe stato tempo e modo per stipulare i necessari compromessi con il resto della dirigenza del partito. La storia è sempre imprevedibile, naturalmente. Al momento il futuro del Pdl appare incerto. E non si può scommettere su una riduzione della sua interna conflittualità. Tra le molte ragioni c’è anche il fatto che non è emerso ancora nessuno con la statura adeguata per occupare il «posto vacante». A meno che, a dispetto di pronostici, età e usura politica, quel posto non venga alla fine rioccupato, ancora una volta, da Berlusconi.

di ANGELO PANEBIANCO

25 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Popolare e borghese
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 07:45:48 am
IL NUOVO VOLTO DELLA LEGA

Popolare e borghese


Forse non bisognerebbe perseverare, a campagna elettorale conclusa, nell'errore commesso prima e durante la campagna, quello di sopravalutare l'influenza dei suoi risultati sulla stabilità del governo nazionale. Il governo in quanto tale è sicuramente uscito vincitore da un'elezione regionale che gli illusi credevano di trasformare in un referendum contro Berlusconi («Faremo come in Francia»).
Ma sarebbe sopravvissuto anche a una sconfitta. E i gravi problemi che ha sul tavolo e aspettano di essere affrontati sarebbero stati lì comunque. Saranno le scelte o le non scelte su quei problemi che in definitiva rafforzeranno o indeboliranno il governo. Né ha molto senso trarre chissà quali indicazioni dal forte astensionismo registrato. E' possibile, se non probabile, che alle prossime elezioni politiche (nel 2013) la tendenza astensionista non si confermi. La drammatizzazione, la trasformazione delle elezioni in «giudizi di Dio», funziona molto meglio nelle elezioni politiche che in quelle regionali. E lì, in genere, ha un effetto inibitore sull'astensionismo. Fine della storia. In seguito, fra qualche mese, quando di queste elezioni non importerà più nulla a nessuno, verranno pubblicate ottime analisi disaggregate dei dati e serie ricerche sui flussi elettorali, e sarà possibile capire nel dettaglio (ma la cosa, a quel punto, interesserà solo agli studiosi) che cosa è davvero successo nella pancia del Paese. Al momento, sono solo possibili valutazioni generiche e di massima. Intanto, notiamo un paradosso: Berlusconi premier ha molti più motivi di sorridere del Berlusconi leader del Pdl. Non solo la maggioranza di governo non è stata duramente punita, come di solito avviene, ma ha addirittura vinto le elezioni. Il Pdl, invece, è in seria difficoltà a causa della avanzata della Lega in tutto il Nord. Una crescita entro certi limiti prevedibile dal momento che i candidati leghisti alla Presidenza in Veneto e Piemonte non potevano non tirare la volata al loro partito ma anche una crescita che, per le sue dimensioni e proporzioni, pone un'ipoteca sul futuro del Pdl. E' la capacità competitiva del Pdl nell' area del centro-destra del Nord che dovrà essere soppesata nel prossimo futuro.

Inoltre, i successi registrati dalla Lega nelle tradizionali zone rosse (in certe aree dell'Emilia soprattutto) dovrebbero preoccupare sia il Pdl che il Partito democratico. Sembrano indicare che là dove la tradizione politica locale predilige i partiti popolari con vocazione per il radicamento territoriale, la Lega possiede sia notevoli capacità competitive nei confronti dei partiti d'opposizione che un tempo si sarebbero detti «borghesi» (come il Pdl), a debole radicamento, sia una certa potenzialità di espansione ai danni di forze popolari tradizionalmente dominanti (come, appunto, il Pd nelle zone rosse). Ma su questo solo l'analisi dei flussi elettorali potrà darci indicazioni più precise.

Soprattutto, bisognerà comprendere come è andato trasformandosi, e come ancora si trasformerà per effetto della crescita, il movimento di Bossi. I vecchi cliché, ma anche qualche vecchia buona analisi, non ci aiutano più a capire.

Se dalla destra dello schieramento ci spostiamo verso il centro, ci imbattiamo nell’Udc di Pier Ferdinando Casini. In fondo, in questa campagna, Casini aveva il progetto più ambizioso: dimostrare di essere il vero ago della bilancia della politica italiana, dimostrare ai due blocchi che si poteva vincere solo alleati con lui. Ha mostrato di essere determinante in Lazio, in Puglia (dove la sua mancata alleanza con il Pdl ha favorito l’affermazione di Nichi Vendola), in Liguria. Ma ha mancato l’en plein in Piemonte dove sosteneva la Bresso. Più grave ancora, lo spostamento a sinistra del baricentro dell’opposizione che queste elezioni prefigurano riduce il valore del capitale politico a sua disposizione. A sinistra, infatti, un’ulteriore radicalizzazione sembra un esito probabile. L’Italia dei Valori consolida le sue posizioni ed è ormai un interlocutore/ competitore/alleato di peso di cui il Partito democratico non può più fare a meno. C’è poi il fenomeno, per certi versi enigmatico e comunque non previsto dai sondaggi, rappresentato dai successi delle liste di Beppe Grillo.

E c’è la consacrazione di Vendola come potenziale leader nazionale. Quella che avrebbe dovuto essere, nel progetto da cui nacque quel partito, il motore, l’anima e la forza egemone del Partito democratico, ossia la componente riformista, esce male anche da queste elezioni. Si conferma il fatto, oggi come in passato, alla luce dell’intera storia della sinistra italiana, che il massimalismo paga più della moderazione, che i riformisti sono destinati a restare minoranza. Come, del resto, i liberali a destra.

Angelo Panebianco

31 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La Polonia e le vendette della Storia
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2010, 11:37:49 pm
EUROPA IN DIFFICOLTÀ

La Polonia e le vendette della Storia

Nulla è avvenuto in modo più superficiale, più acritico, dell'allargamento verso Est


Anche se non c'è alcun legame, ma solo una coincidenza temporale, fra il disastro aereo che decapitando in terra russa una parte importante della classe dirigente polacca ha risuscitato i fantasmi della Seconda guerra mondiale e le divisioni europee sulla questione del salvataggio della Grecia, i due episodi segnalano quanto gravi e complessi siano i problemi che attanagliano l'Europa. Non sono passati molti anni da quando gli europei, o molti di loro, parlavano dell'Europa come se si trattasse di un continente ormai al riparo dalle imboscate della storia. C'è stato un tempo in cui le elite europee credevano sinceramente che l'integrazione fosse una strada a senso unico e dalla quale l'Europa non sarebbe mai più tornata indietro. Molti pensavano che persino l'unificazione politica fosse a portata di mano, realizzabile nel giro di una o due generazioni. L'Unione godeva allora di grande prestigio (accresciuto dal successo della moneta unica) e la sua capacità di attrazione sui Paesi che non ne facevano parte era fortissima. Era l'epoca in cui si potevano immaginare ambiziose strategie e grandiosi piani di sviluppo (la strategia di Lisbona del 2000). In polemica con gli Stati Uniti, si favoleggiava di una Europa «potenza civile » che, con i suoi modi gentili e rassicuranti, avrebbe portato stabilità e benessere negli scacchieri caldi del Pianeta.

Poi le cose cominciarono a girare in un altro modo. Con l'allargamento, l'eterogeneità interna all'Unione aumentò, crebbero i contrasti e i rischi di paralisi dei processi decisionali europei. La guerra in Iraq, spaccando l'Europa in due fronti, uno a favore e uno contro gli Stati Uniti, rivelò poi l'esistenza di radicali divergenze nelle concezioni geopolitiche e nel modo in cui i governi europei definivano i rispettivi interessi nazionali (la cosa si è ripetuta durante la guerra russo- georgiana del 2008, quando proprio i polacchi assunsero le posizioni più intransigenti verso il rinascente imperialismo russo). Il colpo più duro fu la sconfitta della cosiddetta «costituzione europea » nel referendum francese del 2005. Proprio in uno dei Paesi-cardine dell'Unione l'elettorato sceglieva di dare un violento ceffone a quelle elite che avevano ritenuto i tempi maturi per una maggiore integrazione. La successiva adozione del trattato di Lisbona tamponò la ferita senza guarirla.

Guardiamo all'oggi. Possiamo scegliere una lettura immediata, più superficiale, delle attuali ragioni di crisi oppure una lettura che scavi alla ricerca delle forze più profonde. A una lettura immediata, molti problemi sembrano dipendere dagli atteggiamenti di una Germania emancipata dai complessi del passato e dalle linee guida dei suoi moderni fondatori, da Adenauer a Kohl. Nel caso della Grecia spetterà agli esperti valutare l'accordo raggiunto ieri, dopo un lungo travaglio, nell'Eurogruppo: la Germania, dopo essersi eretta a inflessibile ostacolo per una soluzione europea della crisi greca, ha scelto all'ultimo momento (anche tenendo conto dell'esposizione delle banche tedesche nella crisi) la via del compromesso. Importante per se stessa, l'evoluzione della crisi greca lo sarà anche, e soprattutto, per misurare le possibilità future di tenuta dell'eurozona. Quelle possibilità dipendono dalla continua capacità dei partner di convergere verso un interesse comune. Se si afferma la percezione di una incompatibilità fra gli interessi nazionali, la convergenza diventa ardua. Per ora si può solo osservare che rinunciando al suo tradizionale ruolo di leader dell'Europa, la Germania ha già mandato in pezzi l'asse franco-tedesco, l'antico motore dell'integrazione.

Ma si noti anche, cambiando luoghi e scenario, quanto la politica della nuova Germania condizioni la vicenda polacca. Le paure di Varsavia nei confronti dell’imperialismo russo, alimentate da una memoria che non può essere cancellata, sono esasperate dalla scelta tedesca di un matrimonio di interessi con la Russia di Putin e Medvedev. I Paesi dell'Est, Polonia in testa, sono sempre meno sicuri che l'Unione sia capace di dare loro adeguata protezione e una solidarietà non solo formale a fronte dei periodici ruggiti dell'orso russo. Se si scava a un livello più profondo, però, il problema non è più la politica della Germania. Il problema è che la storia pesa e, soprattutto quando viene negata, finisce per presentare il conto. Nulla è avvenuto in modo più superficiale, più acritico, dell'allargamento a Est. Bisognava sapere che quell'allargamento interessava Paesi che avevano riacquistato l'indipendenza nazionale dopo mezzo secolo di dominio sovietico e che le loro (comprensibilissime) preoccupazioni geopolitiche sarebbero state indirizzate a cercare protezione da un possibile, risorgente imperialismo russo.

Così come, più in generale, bisognava saper valutare il peso delle secolari divisioni dell'Europa. Non era possibile forzare troppo la mano nella direzione dell'unificazione politica senza provocare reazioni popolari che avrebbero messo a rischio persino il tantissimo di buono che l'integrazione economica e monetaria aveva dato all’Europa. Ci sono tempi e ritmi che vanno rispettati. Sempre guardando alle forze più profonde, è difficile non mettere in relazione l'attuale crisi dell'Unione con l'indebolimento del ruolo politico degli Stati Uniti. Agli europei, spesso, non fa comodo ricordarlo ma non ci sarebbe stato nessun processo di integrazione europea al di fuori del contesto di sicurezza garantito dopo la Seconda guerra mondiale, dagli Stati Uniti. Ciò suggerisce la possibilità che il futuro della comunità euro-atlantica e quello dell'integrazione europea siano fra loro più connessi di quanto di solito si creda e che il declino o il rilancio della prima possano coincidere con il declino o il rilancio della seconda.

Angelo Panebianco

12 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un favore alla Lega
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2010, 10:09:44 pm
IL PARADOSSO DEL CASO FINI

Un favore alla Lega


Accade continuamente che certe nostre azioni, volte a ottenere determinati risultati, producano effetti opposti, in contrasto con le nostre intenzioni. Una delle ragioni per le quali è possibile che il presidente della Camera Gianfranco Fini cerchi un accomodamento dell'ultimo minuto con Berlusconi consiste nel fatto che una scissione potrebbe ampliare ulteriormente gli spazi di manovra della Lega di Bossi. Sarebbe paradossale se proprio Fini, il leader che contrasta il peso politico della Lega nella maggioranza e nel governo, si trovasse nella condizione di favorirne involontariamente l'accrescimento anziché il ridimensionamento.

Nel breve termine, come ha osservato Stefano Folli ( Il Sole 24 ore), una scissione dei finiani potrebbe esaltare il ruolo della Lega nel governo non lasciando a Berlusconi altra scelta se non quella di rafforzare ulteriormente l'asse con Bossi. Ma le conseguenze di più ampia portata si avrebbero in sede elettorale (con o senza elezioni anticipate). Oggi, complici anche certe letture superficiali dei risultati delle regionali, la forza della Lega appare alquanto sopravvalutata. La Lega ha infatti ottenuto un grande successo ma con la complicità dell'astensione (l'astensionismo ha colpito il Pdl non la Lega). E’ plausibile che, nelle prossime elezioni politiche, riassorbito l'astensionismo, i rapporti di forza fra Lega e Pdl possano tornare più o meno ai livelli delle politiche precedenti. Ma se ci fosse una scissione le cose cambierebbero. Il Pdl apparirebbe al Nord ancor più fragile di quello che è e la Lega potrebbe avvantaggiarsene strappando molti elettori al partito di Berlusconi. L'egemonia leghista al Nord diventerebbe allora una «profezia che si autoadempie». La scissione finiana contribuirebbe al risultato.

Inoltre, quale che sia la consistenza delle truppe finiane, è probabile che il grosso di quelle truppe sia dislocato essenzialmente nel Centro-Sud, da Roma in giù. Fini potrebbe così trovarsi, involontariamente, alla testa di una specie di Lega Sud, con una capacità di attrazione nel Nord del Paese vicina allo zero o giù di lì. Sarebbe un passo in più verso uno scenario un po' fosco, quello di una netta divisione politicoterritoriale fra Nord e Sud.

D’altra parte, sono i numeri a dire che fino ad ora è stata solo la leadership di Berlusconi a tenere insieme le diverse anime territoriali della maggioranza. Fini ha però di fronte a sé anche un’altra opzione: fare ciò che fino ad oggi non ha fatto o non è riuscito a fare (come ha osservato Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere del 16 aprile). Evitare la scissione e costruire una corrente, interna al Pdl, dotata di un suo chiaro e riconoscibile programma, capace di parlare davvero all’elettorato di destra. In questo caso, Fini si doterebbe di una certa forza contrattuale da spendere nelle trattative con Berlusconi, Tremonti e Bossi sulle varie questioni interessate dall’azione del governo. È una strada sdrucciolevole: elaborare un programma siffatto (soprattutto, sulle questioni economiche) non è facile. Ma sembra anche, per Fini, l’unica possibilità. Limitarsi a fare il controcanto ogni volta che Berlusconi parla, come il Presidente della Camera ha fin qui scelto di fare, può strappare applausi alla sinistra ma, politicamente, non porta da nessuna parte. Con o senza scissione.

Angelo Panebianco

18 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I costi politici dei tagli
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2010, 12:42:50 pm
FEDERALISMO E SPESA AL SUD

I costi politici dei tagli

Riforma seria: un assetto federale serio riduce i trasferimenti dalle regioni ricche a quelle povere


La manovra in atto sui conti pubblici non è soltanto una mossa necessaria per tranquillizzare i mercati e salvare la stabilità monetaria.
È anche qualcos’altro: è una sorta di anticipazione, di prova generale, dei conflitti che si manifesteranno quando si tratterà di varare, con i decreti attuativi, il federalismo fiscale. Contenere e razionalizzare la spesa, ridurre il ruolo dell’intermediazione statale, eliminare gli sprechi? Semplice a parole, complicatissimo nei fatti. La resistenza della Lega sulla questione dell’abolizione di alcune Province è assai significativa. Così come è significativa la paura del partito berlusconiano che il blocco degli stipendi degli statali e le misure anti-sprechi possano aprire, soprattutto al Sud, grandi falle nel suo bacino elettorale.

Prendiamo il caso degli enti locali. I tagli indiscriminati, dice giustamente Luca Ricolfi (La Stampa, 28 maggio), trasmettono un senso di iniquità perché colpiscono allo stesso modo gli enti virtuosi e quelli viziosi. Verissimo, ma il fatto è che misure mirate, concentrate proprio là dove si annida lo spreco, sarebbero politicamente destabilizzanti: ovviamente, i tagli selettivi colpirebbero prevalentemente (non solo, ma prevalentemente) le istituzioni locali del Mezzogiorno. Tenuto conto che il consenso del Sud è decisivo al fine di vincere le elezioni, quale governo se li può permettere? Questa è la ragione per la quale da sempre (non solo oggi), quando si tratta di varare manovre di austerità, si ricorre a tagli e blocchi indiscriminati (alle università, agli enti locali, eccetera). Si ritiene (probabilmente, con ragione) che sia politicamente meno pericoloso permettere che un senso di iniquità si diffonda fra i virtuosi che scatenare la furibonda reazione dei viziosi. Se i tagli, infatti, si concentrassero su quei territori ed enti ove sono più forti gli sprechi dovrebbero colpirli ancor più pesantemente. È politicamente più accorto spalmare le misure restrittive su tutti, diluendone così l’impatto.

Due aspetti si sommano e frenano l’opera di razionalizzazione della spesa. C’è la volontà della politica di non rinunciare a nessuno degli strumenti locali di intermediazione di cui dispone. La Lega, con le sue posizioni in difesa delle Province o del controllo municipale sui servizi, non è diversa, sotto questo profilo, dai notabili politici meridionali: cambia solo il contesto in cui l’una e gli altri operano. E c’è poi, soprattutto, la questione del Mezzogiorno, che nessuno sa più come affrontare.

Ciò ci porta al problema del federalismo fiscale. È sempre stato presentato dai suoi sostenitori come la manna. Col federalismo fiscale, ci viene detto, si ridurranno le tasse, si razionalizzerà la spesa pubblica, migliorerà la qualità dei servizi sociali. Solo vantaggi, insomma, e nessuna controindicazione. Anche chi, come chi scrive, pensa che il federalismo fiscale sarebbe una buona cosa per il Nord, dubita fortemente che tutte queste belle conseguenze si avrebbero anche nel Centro-Sud. Per una ragione generale e per una più specifica. La ragione generale è che abitudini radicate e regole informali condizionano i comportamenti degli uomini assai più delle regole formali.

Se con le suddette abitudini e regole informali va a scontrarsi una nuova regola formale (poniamo, il federalismo) è assai probabile che quest’ultima abbia la peggio, che venga aggirata o piegata a vantaggio delle prime. Sono possibili eccezioni, naturalmente, ed è sperabile che il federalismo risulti appunto una di queste felici eccezioni. Ma lo scetticismo è lecito.

La ragione più specifica ha a che fare con le condizioni del Mezzogiorno. Il «non detto» del federalismo fiscale è che esso deve ridurre sensibilmente i trasferimenti dalle regioni ricche a quelle povere o, quanto meno, istituire rigidi paletti: così rigidi da obbligare il Sud (ma anche alcune regioni non virtuose del Centro e del Nord), a razionalizzare la spesa, migliorando altresì la qualità dei servizi erogati ai cittadini. Ma come può avvenire questo miracolo?

Un acuto osservatore del Mezzogiorno (Massimo Lo Cicero, Il Riformista, 25 maggio) ha notato che il Sud sta all’Italia come la Grecia sta all’Unione europea. In entrambi i casi si tratta di obbligare il soggetto inadempiente a una dura disciplina. Ma c’è una cruciale differenza. Non è difficile per l’Unione emanare un diktat per obbligare il governo greco a cambiare registro (altra cosa è che il governo greco faccia davvero ciò che deve). Qui il ricatto, il diktat, è per così dire «esterno». Ma nel caso del Sud non c’è possibilità di ricatto esterno. Per il governo si tratta di incidere sulle proprie aree di consenso elettorale, rischiando di regalarle all’opposizione o al ribellismo sociale, o a entrambi.

Per il federalismo fiscale ci sono tre possibilità. Non si fa perché, a causa della crisi, non sono affrontabili i suoi costi di avvio. In tal caso, però, la stabilità del quadro politico è a rischio. La Lega, a causa della sua stessa ragione sociale, non può accettare questa soluzione. Oppure si fa un finto federalismo (tutto cambia nella forma e nulla nella sostanza: nessuno perde niente). Però anche un finto federalismo ha le sue controindicazioni.

Persino un finto federalismo costa. Può funzionare solo se si escogita qualche trucco che posponga il più possibile nel tempo il pagamento del conto (come ha fatto Obama con la riforma sanitaria). Infine, si fa un vero federalismo, sapientemente disegnato. Ma un vero federalismo non può che far saltare, per le ragioni dette, quanto meno a breve termine, gli equilibri politici nelle regioni che più dovrebbero modificare il proprio modus operandi. Chi se ne assumerà la responsabilità? Sulla carta ci sarebbe anche una quarta possibilità: si ricorre a soluzioni istituzionali diverse a seconda delle condizioni dei diversi territori (federalismo al Nord, controllo centralizzato sulla spesa al Sud). La migliore ricetta. Se non fosse per un piccolo dettaglio: è politicamente impraticabile.

Angelo Panebianco

29 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_29/panebianco-costi-politici-tagli-editoriale_8cd948f6-6ae1-11df-9ae5-00144f02aabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. ERRORI SI’, MA TROPPA OSTILITA’
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2010, 05:16:38 pm
ERRORI SI’, MA TROPPA OSTILITA’

La fragilità di Israele


E’un noto circolo vizioso: l’ossessiva, e di per sé giustificata, ricerca di sicurezza da parte di chi vive in costante pericolo, può indurlo in errori che ne accrescono ancor di più l’insicurezza. È capitato ad Israele. Cadendo stupidamente nella trappola preparata dai simpatizzanti di Hamas e spargendo sangue, il governo israeliano ha fatto un regalo ai suoi nemici (e sarà un bene se ne pagherà il conto sul piano elettorale). E ha dato altra linfa alla generale ostilità per Israele, l’unico Paese al quale non si perdona niente. Pur essendo anche l’unico Paese che vive in permanente stato d’assedio dalla sua fondazione. Nulla misura la «popolarità» di Israele meglio dell’atteggiamento delle Nazioni Unite. Dove si passa spesso sopra ai delitti di qualunque sanguinario regime ma mai a quelli, veri o presunti, della democrazia israeliana. Lo si chiami pure lapsus freudiano ma molti ricordano la mappa del Medio Oriente che faceva mostra di sé all’Onu e sulla quale non v’era traccia di Israele. La volontà della maggioranza del Consiglio per i diritti umani di metterlo oggi sotto inchiesta (con i soli voti contrari di Stati Uniti, Italia e Olanda) è in linea con una consolidata tradizione onusiana di ostilità preconcetta verso quello Stato.

Alessandro Piperno (Corriere, 2 giugno) ha dato un giudizio che merita attenzione sui sentimenti odierni degli israeliani: «Mi sono fatto l’idea — scrive — che Israele sia un Paese in cui la gente, più o meno consapevolmente, si sente spacciata (...) Forse hanno capito di poter vincere qualche altra battaglia ma che alla lunga la guerra sarà perduta. Hanno constatato che la violenza non è più utile alla causa di quanto lo sia stata l’utopia del dialogo ». Contro la sopravvivenza di Israele giocano tre forze: la demografia, la geo-politica e i sentimenti di ostilità di tanta parte del mondo (rilevanti pezzi di Europa inclusi). La demografia, ossia i differenti tassi di crescita della popolazione ebraica e di quella arabo- israeliana. La geo-politica, ossia il declino della potenza americana e i suoi effetti sul Medio Oriente. La rottura dell’alleanza fra Turchia e Israele è parte di un più generale distacco dello Stato turco dal mondo occidentale, accelerato dalla perdita di potenza degli Stati Uniti. Israele ha fin qui dovuto la sopravvivenza alle sue armi e alla protezione statunitense. Se quest’ultima si indebolirà, le armi non basteranno ad assicurare la salvezza.

C’è poi l’avversione di tanta parte dell’opinione pubblica mondiale. Chi finge che il pregiudizio antisemita non c’entri nulla deve spiegare questa mancanza di equanimità verso la democrazia israeliana. E deve spiegare perché la legittima difesa dei palestinesi si accompagni spesso alla cecità di fronte alla natura dei movimenti islamisti e alla ferocia dei nemici di Israele. Ricordo una lettera che mi inviò un tale a seguito di un articolo sul conflitto arabo-israeliano. Dopo avermi accusato di negare l’evidenza, ossia la «natura criminale» di Israele, quel tale concludeva con una domanda: «Ma perché difende Israele, lei che non è nemmeno ebreo?».

Checché ne dicano i suoi nemici, Israele è una realtà fragile, precaria. Se un giorno venisse distrutto c’è chi brinderebbe anche in Europa. Ma quella tragedia anticiperebbe o accompagnerebbe una grande sconfitta occidentale: la vittoria di concezioni, modi di vita, istituzioni, antitetici ai nostri e a noi ostili.

Angelo Panebianco

04 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_04/panebianco-fragilita-israele_f043e192-6f98-11df-b547-00144f02aabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La questione non e’ padana
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2010, 12:36:46 pm
IL TEMA VERO: IL SUD ARRETRATO

La questione non e’ padana


Dalla Sicilia all’Alto Adige, tentazioni secessioniste non sono mancate.
Ora però andiamo a celebrare i centocinquanta anni dell’unità d’Italia mentre l’unità scricchiola più che mai. È un pessimo segno che la lotta politica (che ha sempre una dimensione simbolica) diventi competizione intorno a simboli nazionali: la bagarre nel consiglio comunale di Milano sulle «radici padane » della città, la polemica sull’esistenza o meno della Padania, le baruffe sull’inno di Mameli.

«Esiste» la Padania, intesa non come luogo geografico e nemmeno come semplice blocco di interessi, ma come vera nazione? Al momento sembra di no, tranne che nella mente dei militanti leghisti. Però, attenzione: le nazioni sono tutte, storicamente, comunità «inventate». Esistono o non esistono a seconda di quanti credono, o non credono, nella loro esistenza. Quando si scatena una competizione fra simboli e controsimboli non si può sapere come andrà a finire. Oggi la Padania non esiste sia perché l’imprenditore politico che ne possiede il copyright, Umberto Bossi, è ben lontano dall’avere, al Nord, la maggioranza dei consensi sia perché, a quanto sembra, nemmeno i cuori di molti elettori leghisti sono scaldati dalla Padania/ nazione. Votano Lega, stando ai sondaggi, per una varietà di motivi: economici (meno tasse e meno trasferimenti al Sud), antistatalisti (meno burocrazia centrale), di sicurezza (questione della immigrazione). Oppure perché solo i leghisti sono andati a parlare con loro nei paesi o nei quartieri. L’impacchettamento di questi variegati motivi, la loro ricomposizione entro un quadro simbolico coerente (la Padania) è un’operazione non ancora riuscita alla Lega ma non è detto che in seguito ciò non possa accadere.

Se la Padania (ancora) non esiste, che cosa fa scricchiolare l’unità nazionale? Il fatto che arrivino al pettine i nodi di un fallimento storico, dell’incapacità delle classi dirigenti di risolvere il problema del Sud. Non si può avere una «questione meridionale» che duri ininterrottamente per centocinquanta anni senza che, alla fine, ciò comporti gravi conseguenze politiche. Rispetto a ciò, la Lega è un effetto (il più appariscente), non una causa. Perché l’idea che il Sud sia una palla al piede che frena lo sviluppo del Paese, non circola solo fra i leghisti, ha una diffusione ampia. Per quale altro motivo, d’altra parte, il federalismo fiscale avrebbe potuto suscitare così tanto interesse?

Ne discende una logica conseguenza: è del Sud che ci si deve occupare. Perché se non si creano, e in fretta, le condizioni per uno sviluppo autonomo del Sud, saranno guai. Qui ci si scontra però con l’abulia delle classi dirigenti meridionali. Nelle regioni più disastrate non è in atto alcun piano di bonifica radicale delle istituzioni, niente che lasci intravedere una reale disponibilità a mutare comportamenti e abitudini. Nessuno crede che i servizi pubblici al Sud cesseranno, a breve, di essere scadenti e molto più costosi che in Lombardia o in Emilia, che tante scuole e Università del Sud smetteranno di distruggere capitale umano anziché crearlo o che le amministrazioni locali, con la loro inefficienza, cesseranno di frenare lo sviluppo.

Chi vuole difendere l’unità nazionale deve impegnarsi, con atti concreti, per cambiare le condizioni del Sud. Altrimenti, la lotta fra simboli e controsimboli avrà, alla fine, un esito scontato.

Angelo Panebianco

24 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_24/panebianco-editoriale-questione-padana_0da73670-7f4e-11df-a8d7-00144f02aabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le tante bugie tra nord e sud
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2010, 11:24:27 am
Vizi e pregiudizi contro lo sviluppo

Le tante bugie tra nord e sud


Non si verrà mai a capo della divisione Nord/Sud se non si aggrediranno certe costruzioni ideologiche che funzionano da schermo, che impediscono di vedere la realtà, e di fatto la legittimano e la perpetuano. Mi riferisco, in primo luogo, a quella «teoria del colonialismo interno» abbeverandosi alla quale sono cresciute intere generazioni di meridionali. È la teoria secondo cui, dall’Unità in poi, il Sud sarebbe stato vittima della colonizzazione, con annesso sfruttamento, del Nord. Come tutte le costruzioni ideologiche, la teoria mescola qualche verità e molte bugie. Essa ha dato luogo a una «sindrome da risarcimento» che ha legittimato per decenni un colossale trasferimento di risorse pubbliche dal Nord al Sud. Poco male se si fosse trattato di una «bugia utile», se fosse servita a colmare il divario, a creare nel Sud le condizioni per uno sviluppo economico auto-sostenuto. Ma quella strada ha portato solo a disastri: dilatazione della intermediazione politica, gonfiamento dei ceti politico- burocratici, parassitismo, corruzione, alimentazione della criminalità. Il contrario di ciò che serve allo sviluppo. Ma, nonostante l’evidenza, teoria del colonialismo interno e sindrome da risarcimento sono tuttora vive, influenzano gli atteggiamenti e i comportamenti di molti meridionali. Quale altra fonte di legittimazione potrebbe avere, ad esempio, la ventilata Lega del Sud?
ventilata Lega del Sud? Anche al Nord, naturalmente, abbondano stereotipi e costruzioni ideologiche. Nella diffusa idea che il Sud sia solo una palla al piede per lo sviluppo del Nord convivono verità (sull’oggettivo costo del Sud) e bugie. È falso che il Nord non pagherebbe alti prezzi facendo a meno del Sud. Amputata del Sud, quanto meno, l’Italia subirebbe un drastico declassamento in Europa, cesserebbe di essere uno dei quattro grandi Stati europei. È comunque ovvio che il Nord possiede le carte migliori. È un’asimmetria di cui le classi dirigenti del Mezzogiorno devono tener conto.
Il Sud ha di fronte due strade: la via «brasiliana» e la via «slovacca». Esistono certe interessanti analogie fra la storia dell’America Latina e quella del Sud d’Italia. Per un lungo periodo, le classi dirigenti latinoamericane coltivarono nei confronti degli Stati Uniti lo stesso atteggiamento di molti meridionali italiani nei confronti del nostro Nord. Attribuendo all’imperialismo yankee la causa del proprio sottosviluppo i latinoamericani si autoassolvevano da ogni responsabilità e, con i loro comportamenti, perpetuavano il sottosviluppo. Poi in alcuni Paesi (Brasile, Cile ed altri), le classi dirigenti si sono rinnovate rimuovendo alcuni degli antichi vizi. Anziché continuare ad imputare ad altri la colpa delle proprie disgrazie hanno inaugurato vere politiche di sviluppo che hanno dato in brevissimo tempo grandi frutti. Abbandonare la sciagurata teoria del colonialismo interno è necessario perché il Sud possa cominciare a seguirne le orme.
In alternativa, il Sud può scegliere la via slovacca. La Slovacchia era la parte più povera della Cecoslovacchia. Gli slovacchi tirarono troppo la corda, pretesero troppe risorse. Minacciarono anche la secessione. I cechi risposero: accomodatevi. E secessione fu. Sarebbe assai più utile per il Sud, e per l’Italia tutta, se il Mezzogiorno (magari sfruttando l’occasione del varo del federalismo fiscale) si decidesse ad imboccare la via brasiliana.

Angelo Panebianco

10 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_10/panebianco-bugie-nord-sud_2e713ebc-8be4-11df-9aa1-00144f02aabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. (ignora il tronco e si scandalizza per la pagliuzza)
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2010, 11:15:31 pm
Un consiglio (poco) superiore


Assai opportunamente il presidente della Repubblica ha posto il veto sul tentativo del Consiglio superiore della magistratura (Csm), che è ora in scadenza, di discutere di regole deontologiche in relazione a questioni come la nomina, fatta dagli stessi che compongono l’attuale Consiglio, di Alfonso Marra alla Corte d’Appello di Milano. Auspicando che sia il prossimo Csm ad occuparsene, Napolitano ha impedito che una eventuale presa di posizione del massimo organo di autogoverno della magistratura finisse per interferire con le indagini in corso. Di queste cose si occuperà, in seguito, il nuovo Csm, in un clima auspicabilmente più sereno. Resta, e resterà irrisolto, però, il problema rappresentato da una istituzione fondamentale del nostro sistema giudiziario, il Csm, che è destinata a non recuperare la sua antica credibilità senza seri interventi di riforma.

Carlo Federico Grosso, che del Csm è stato in passato membro laico, ha ricordato (La Stampa, 20 luglio) i due principali difetti del Consiglio: l’esasperato correntismo e i rapporti di scambio più o meno sotterranei con la politica. Notiamo che fra i due aspetti c’è una relazione: la competizione correntizia porta inevitabilmente le correnti ad intrecciare rapporti con le varie componenti della classe politica. Se il correntismo finisse, anche le relazioni con la politica potrebbero diventare meno opache. Ma, allo stato degli atti, far finire il correntismo è impossibile. Occorrerebbero quelle buone riforme, non solo del Csm ma della istituzione giudiziaria nel suo insieme, che, come è ormai abbondantemente provato, la classe politica non è in grado di attuare: la destra perché ha più intenti punitivi che riformatori nei confronti della magistratura, e la sinistra perché sa solo blandirla. Per ragioni diverse, né l’una né l’altra delle due componenti della classe politica è in grado di concepire e attuare un equilibrato progetto di riforma che sappia coniugare efficienza, funzionalità e rispetto dei principi liberali.

In questa situazione di stallo, però, da molti indizi risultano sempre più numerosi i magistrati che si rendono conto del fatto che, così come è, l’istituzione non funziona, che avrebbe bisogno di un forte rinnovamento. È più o meno ciò che succede in università. Molti di quelli che ci lavorano si rendono conto di quali siano i problemi ma nessuno di loro, singolarmente, può farci nulla. Forse bisognerebbe riportare indietro le lancette dell’orologio, ritornare ai tempi in cui i compiti del Csm erano più limitati. Il difetto del Csm, così come lo ha disegnato la Costituzione, è strutturale. È un organo i cui componenti sono eletti dagli stessi delle cui sorti decidono. Gli eletti si occupano, oltre che dei provvedimenti disciplinari che riguardano i loro elettori, anche delle loro nomine, trasferimenti, eccetera. Era inevitabile che, in queste circostanze, le correnti organizzate finissero per dominare il Csm e la lottizzazione diventasse, per diretta conseguenza, il criterio dominante nelle decisioni del Consiglio. Riportare fuori dal Consiglio (in organi giudiziari non elettivi) le valutazioni sulle capacità professionali e le decisioni su nomine e trasferimenti ridurrebbe, almeno in parte, verosimilmente, la pressione correntizia. Sarebbe un buon inizio. Per ridare al Csm il lustro e la credibilità perdute.

P.S. Tra i compiti del Csm ci dovrebbe essere anche quello di vigilare sulle dichiarazioni dei magistrati. Quella di ieri del pm di Caltanissetta, secondo il quale la verità sulle stragi sarebbe vicina e la politica potrebbe non reggerne l’urto, appare clamorosa e assai avventata. Cerchi la verità, ma non ne anticipi le conseguenze politiche.

Angelo Panebianco

21 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_21/consiglo-poco-superiore-panebianco-editoriale_31f1b120-9486-11df-91c3-00144f02aabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Governo del fare, che cosa resta?
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2010, 09:42:16 am
IL RISCHIO DI RIPETERE L’ESPERIENZA DI PRODI

Governo del fare, che cosa resta?


I numeri sembrano dare ragione a Fini e torto a Berlusconi. Con un gruppo parlamentare di più di 30 deputati, più numeroso del previsto, il presidente della Camera è ora in grado, plausibilmente, di ridurre l’(ex) fortissimo governo Berlusconi nelle condizioni in cui si trovava il precedente, fin dall’origine debolissimo, governo Prodi: una maggioranza troppo risicata, margini di manovra troppo stretti, una navigazione parlamentare disseminata di ostacoli. Tanto più che Fini, pur promettendo formalmente una sorta di «appoggio esterno» al governo, ha messo in chiaro che intende tenersi le mani libere sui temi che contano, dalla «legalità» (leggi: intercettazioni e riforma della giustizia) alle questioni che toccano l’unità nazionale (leggi: federalismo fiscale). In queste condizioni, che cosa resterà, nei prossimi mesi, di quel «governo del fare » che Berlusconi aveva promesso ai suoi elettori? E, inoltre, sarà disponibile Bossi a mantenere il sostegno a un governo che risultasse privo della forza necessaria per attuare il federalismo fiscale?

E non è solo una questione di numeri parlamentari. Ci sono anche i tanti effetti collaterali della fine del Popolo della Libertà nella sua versione originaria. È l’intero sistema politico che viene rimesso in moto, con conseguenze imprevedibili. È da vedere se Berlusconi avrà la forza per predisporre argini sufficientemente alti a difesa del governo. La principale conseguenza «sistemica» della rottura fra Berlusconi e Fini potrebbe essere quella di ridare rapidamente peso politico e importanza a un «luogo», per lungo tempo messo da parte, anche se mai spazzato via del tutto, dal sistema bipolare: il centro. Vediamo perché. Con la fine del Popolo della Libertà suonano le campane a morto anche per il Partito democratico. Le due aggregazioni nemiche si sorreggevano a vicenda. La fine dell’una annuncia la fine dell’altra. Il Partito democratico, del resto, era ormai sfibrato da troppe sconfitte e da troppe risse interne. Adesso che il Popolo della Libertà si è diviso, non c’è più alcun collante che possa tenerlo insieme. Il segretario del Pd, Bersani, lo sa. Per questo avrebbe bisogno (ma difficilmente la otterrà) di una immediata crisi di governo che lo rimetta in gioco. Salgono le azioni di Casini (corteggiatissimo da Berlusconi) e dell’Udc. E il «centro» può diventare una calamita capace di attirare molti potenziali transfughi del Pd. È possibile che in tempi rapidi, qualche mese al massimo, il centro, ossia l’area parlamentare che sta in mezzo fra Berlusconi e la sinistra, diventi piuttosto affollato. Anche perché l’avvenuto indebolimento parlamentare del governo apre per quest’area spazi fino a ieri insperati di manovra e di negoziazione. Chi scrive pensa che, pur con tutti i difetti manifestati, il sistema bipolare sia il più utile per il Paese. L’attuale legge elettorale premia le coalizioni contrapposte ma le leggi elettorali difficilmente resistono a cambiamenti troppo radicali degli equilibri politici.

Nei prossimi mesi ci saranno due aspetti da tenere d’occhio. Si tratterà di capire, in primo luogo, se Berlusconi potrà ancora attingere a una qualche riserva di risorse che gli consenta di governare il Paese pur nelle mutate condizioni. Si tratterà, in secondo luogo, di valutare le conseguenze sistemiche della rottura fra Berlusconi e Fini. Bisognerà cioè capire se questo divorzio risulterà, alla fine, un episodio importante ma dagli effetti circoscritti oppure, come sembra più plausibile, il punto di avvio di una valanga destinata a investire e, forse, a travolgere l’intero sistema politico.

Angelo Panebianco

31 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_31/panebianco-governo-fini-berlusconi_56b886ec-9c64-11df-80c5-00144f02aabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tre idee opposte di Repubblica
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2010, 10:08:31 am
BERLUSCONI, L’OPPOSIZIONE E LA LEGA

Tre idee opposte di Repubblica

Al termine della votazione sulla sfiducia a Caliendo, un finiano avrebbe esclamato: «È finita la monarchia». È una perfetta descrizione del passaggio dei finiani allo schieramento antiberlusconiano. Non nel senso superficiale di una loro diversa collocazione parlamentare, ma nel senso profondo dell’adesione a una «idea di repubblica» opposta a quella incarnata da Berlusconi.

È dal 1994 che a scontrarsi in Italia non sono solo schieramenti che rappresentano interessi diversi. La violenza verbale che accompagna il conflitto è spiegata dal fatto che a duellare sono idee diverse di repubblica. Sono ben tre e si fronteggiano dagli anni Novanta. Il bipolarismo, però, risolvendo la politica in un confronto fra due soli schieramenti, ha obbligato le fazioni sostenitrici di due di esse a stipulare fra loro un’alleanza strumentale. Nessuna di queste tre idee di repubblica ha fin qui prevalso sulle altre. L’Italia è quindi, dagli anni Novanta, in una condizione di stallo politico. A scontrarsi sono, prima di tutto, la variante berlusconiana della «democrazia plebiscitaria» e la «democrazia acefala» (senza un leader) sostenuta dalla maggioranza dei suoi nemici. C’è poi in campo una terza idea di repubblica, incarnata dalla Lega, e definibile, a seconda dei gusti, federalista, nordista o separatista.

La democrazia plebiscitaria nasce sempre per la comparsa di un capo carismatico. La sua caratteristica è la fragilità. Dipende dalle sorti di un uomo. O trova uno sbocco istituzionale (presidenzialismo, premierato: forme di democrazia che rafforzino il vertice del potere esecutivo) oppure si dissolve quando egli esce di scena. «Plebiscitarismo» è per molti sinonimo di tirannia. In realtà, indica solo il rapporto diretto fra un leader e i seguaci. Può darsi in certi regimi autoritari come nelle democrazie che hanno istituzionalizzato la dimensione plebiscitaria. La democrazia plebiscitaria è «sul piatto» in Italia da quando c’è Berlusconi. Ricchezza, controllo di televisioni e carisma sono state le sue risorse. Ma Berlusconi, a differenza di de Gaulle e di altri capi carismatici, ha fallito (ammesso, ma non è sicuro, che i suoi scopi andassero oltre le situazioni contingenti), non ha saputo dare uno sbocco istituzionale alla democrazia plebiscitaria.

I suoi nemici gli hanno opposto la difesa della democrazia acefala. Se la democrazia plebiscitaria ruota intorno a un singolo leader, la democrazia acefala ha una struttura oligarchica (più capi che si controllano a vicenda). La cosiddetta Prima Repubblica ne è un esempio. In essa i leader che cercavano di elevarsi al di sopra del resto dell’oligarchia (Fanfani, Craxi) suscitavano forti resistenze e venivano prima o poi abbattuti. La Costituzione del ’48, consegnandoci un esecutivo debole, ha dato vita a una forma di «parlamentarismo integrale» (come lo chiamava Gianfranco Miglio) che è un perfetto abito istituzionale per la democrazia acefala. Se i fautori della democrazia acefala sono stati in grado, quanto meno, di resistere al ciclone Berlusconi è perché hanno dalla loro la forza della tradizione e, con essa, il sostegno dei custodi della tradizione, come magistrati e intellettuali.

Si noti un altro aspetto. La democrazia acefala, a differenza di quella plebiscitaria, mal si concilia con il bipolarismo. Il bipolarismo, effetto combinato dell'abbandono della proporzionale e dell'irruzione di un capo carismatico, è fragile perché incompatibile con la tuttora vigente forma istituzionale della democrazia acefala. E' probabilmente destinato a scomparire quando uscirà di scena Berlusconi. In questa incompatibilità fra bipolarismo e forma istituzionale della Prima Repubblica c'è anche il vizio d'origine del Partito democratico. Nato sulla scia del bipolarismo, può esistere solo grazie ad esso. Ma il conservatorismo costituzionale che impregna la sua cultura politica gli impedisce di puntare a uno sbocco istituzionale (una riforma della Costituzione) che superi la democrazia acefala, mettendo così in sicurezza il bipolarismo.

La terza idea di repubblica è quella leghista. Ha conseguito grandi successi (ha imposto il federalismo come tema prioritario dell'agenda politica) ma non ha ancora ottenuto la vittoria decisiva. Mentre democrazia plebiscitaria e democrazia acefala sono «progetti» nazionali, quella di Bossi è una rivendicazione regionale: il federalismo è la via per dare forza alle regioni del Nord. L'alleanza fra Berlusconi e Bossi e il conseguente compromesso fra due idee di repubblica, plebiscitaria e federalista, sono stati possibili ma non senza tensioni. Basti pensare alla potenziale incompatibilità fra l'individualismo (che è la vera cifra culturale del berlusconismo) e il «comunitarismo» leghista. Questa è anche la ragione per cui non penso che i leghisti possano assorbire facilmente il grosso dell'elettorato berlusconiano del Nord, anche dopo l'eventuale uscita di scena di Berlusconi.
Si potrebbe ora scommettere su una vittoria della democrazia acefala, per quanto mal messi siano i suoi sostenitori. Possiedono la forza della tradizione, un atout che può rivelarsi decisivo dato il fallimento di Berlusconi, la sua incapacità di dare un ancoraggio costituzionale alla democrazia plebiscitaria.

Sarebbe però una vittoria di Pirro. Per tre ragioni. Perché la democrazia acefala può essere resa stabile solo dalla presenza di grandi partiti, forti e radicati. Ma in Italia non li resuscita più nessuno. In secondo luogo, perché necessita di un ambiente internazionale protetto (come era, per l'Italia, quello della guerra fredda, della politica dei blocchi). Nel sistema internazionale fluido e iper-competitivo di oggi la democrazia acefala è poco attrezzata per fronteggiare le sfide. In terzo luogo, perché la nostra storica divisione Nord/Sud si è ormai troppo acutizzata e i conflitti che suscita non possono essere facilmente smussati e sopiti con le tecniche tipiche della democrazia acefala. Lo stallo, il conflitto fra opposte idee di repubblica, è destinato a continuare. Resti o no in scena Berlusconi.

Angelo Panebianco

09 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_09/panebianco-repubblica-berlusconi_b5cc1788-a37c-11df-9c56-00144f02aabe.shtml



Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il compromesso più difficile
Inserito da: Admin - Agosto 17, 2010, 09:05:19 pm
RISCHIO DI CRISI SUL FEDERALISMO

Il compromesso più difficile

Forse la crisi di governo si verificherà a ottobre o, forse, l'esecutivo durerà, fra (pochi) alti e (molti) bassi, fino all'inizio del prossimo anno. Forse, il casus belli su cui si dissolverà formalmente la maggioranza sarà la giustizia, il terreno propagandisticamente propizio per campagne su temi come legalità e moralità. Ma sarà solo scena. Se crisi sarà, infatti, la ragione vera avrà a che fare con il federalismo, con la distribuzione delle risorse fra Nord e Sud. Non casualmente Bossi sta già mobilitando i suoi in vista di quello scontro. I finiani sanno bene, d'altronde, che i voti dovranno cercarseli al Sud. Sanno che avranno successo solo se riusciranno ad imporsi come una articolazione credibile di quella «Lega Sud» che - ormai è chiaro - non sarà mai un unico partito ma un'aggregazione politicamente eterogenea di molti partiti.

È il destino di tutte le forze politiche italiane. Partono per fare una cosa e finiscono per fare l'opposto. Ad esempio, i sedicenti «liberali» berlusconiani sono in realtà dei dirigisti. A loro volta, i sedicenti «riformisti» del Partito democratico sono in realtà dei conservatori. Allo stesso modo, i finiani volevano essere la «destra moderna e liberale» e faranno la Lega Sud.

È chiaro che quella fra Nord e Sud è la divisione che ormai più conta e che sta oscurando tutte le altre. Tre sono i possibili sviluppi. I primi due metterebbero a rischio l'unità nazionale. Solo il terzo potrebbe portare, col tempo, a una ricomposizione. La prima possibilità è che il federalismo sia imposto alle condizioni della Lega Nord. Il Sud interpreterebbe quella vittoria come una propria sconfitta, la legittimità del nuovo assetto sarebbe compromessa fin dall'inizio, le tensioni Nord/Sud crescerebbero ulteriormente. La seconda possibilità è una sconfitta della Lega Nord e il tramonto del progetto federalista. A ribellarsi, in questo caso, sarebbe il Nord (non solo quello che vota Lega). Il no al federalismo verrebbe interpretato come una prova della volontà del Sud di non rinunciare ai propri vizi, si tratti dei costi della politica locale o dei dissesti della sanità regionale. Anche in questo caso le tensioni fra Nord e Sud crescerebbero.

Coloro che pensano di ricreare i quieti equilibri (con annessi flussi di risorse) del passato, sbagliano i conti. Quegli equilibri non sono più ricostituibili. La terza possibilità è un compromesso soddisfacente per tutte le parti in campo: il Nord non abbandona il Sud al suo destino, il Sud accetta di iniziare un percorso, rigorosamente controllato, di bonifica amministrativa, unito a iniziative di stimolo (infrastrutture, defiscalizzazioni) per la crescita economica.

Pur necessario per salvaguardare l'unità nazionale, il suddetto compromesso è oggi meno probabile di quanto non apparisse un tempo. Per la sua natura di partito nazionale, radicato al Nord come al Sud, il Popolo della Libertà era nella condizione migliore per realizzare un compromesso soddisfacente. Ma, adesso, la rottura fra Berlusconi e Fini, e la prospettiva di una dura competizione fra i rispettivi partiti per i voti del Sud, rendono più difficile l'accordo. Sarà bene che i leader calcolino con attenzione le loro mosse. Se la prossima campagna elettorale si risolverà in uno scontro fra opposti egoismi regionali sarà poi difficile (chiunque vinca) rimettere insieme i cocci.

Angelo Panebianco

17 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_17/panebianco_compromesso_7e5e99c2-a9c3-11df-bd6c-00144f02aabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Democrazia «bipolare», una discussione necessaria
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2010, 04:31:10 pm
LEGGE ELETTORALE E SISTEMA MAGGIORITARIO

Democrazia «bipolare», una discussione necessaria


Il sistema elettorale attuale piace a pochissimi, persino fra coloro che se ne sono avvantaggiati. Tutti sappiamo che arriverà prima o poi il giorno in cui verrà sostituito o cambiato. Difficilmente la legge elettorale che porta la firma di Roberto Calderoli e che è in vigore dal 2005 potrà resistere ancora per molti anni.

Al momento, tuttavia, è più facile pensare di cambiarla che riuscirci. Per due ragioni. Perché il nucleo centrale dell’attuale maggioranza di governo (berlusconiani e leghisti) non ha interesse a cambiarla. E perché gli avversari della legge vigente sono divisi, sono in radicale disaccordo fra loro, hanno idee diversissime su cosa mettere al suo posto. Non c’è niente di male in ciò e sarebbe anzi sorprendente il contrario. Le diverse leggi elettorali non sono neutre rispetto alle chance di affermazione delle varie fazioni in campo e dei loro progetti politici. A rischio di semplificare eccessivamente, possiamo dire che il confronto principale è fra coloro che vogliono sbarazzarsi del bipolarismo (la contrapposizione fra due soli schieramenti inaugurata nel 1994) e coloro che vorrebbero rafforzarlo.

I primi pensano a un cambiamento della legge elettorale vigente che faccia saltare il premio di maggioranza (lo chiamerebbero «sistema tedesco» ma la sostanza sarebbe questa). Eliminato il premio, che obbliga a formare coalizioni prima del voto, il bipolarismo verrebbe travolto. Si tornerebbe all’assetto della Prima Repubblica, con le coalizioni di governo che si formano in Parlamento dopo le elezioni.
C’è chi pensa che tale assetto favorirebbe la ricostituzione di un grande rassemblement parlamentare «centrista» dotato di una formidabile rendita di posizione: la possibilità di contrattare la formazione dei governi sia con la sinistra che con la destra.

Al momento, è anche l’idea di quella parte del Partito democratico che si immagina perdente in un nuovo scontro elettorale con Berlusconi e per questo affida le proprie fortune politiche future a improbabili scenari di «governi tecnici» e riforma elettorale (il solito «sistema tedesco») che — così essi sperano—colpisca l’attuale premier. C’è poi la posizione di chi difende il bipolarismo, ma pensa anche che la legge elettorale attuale (con le sue liste bloccate) lo assicuri malamente, sacrificando troppo della rappresentatività sull’altare della governabilità. Una governabilità, per giunta, neppure garantita, date le altissime probabilità, dovute ai cattivi marchingegni di questa legge, di maggioranze diverse fra Camera e Senato. Sta qui, mi sembra, il senso che i promotori hanno voluto dare all’appello a favore dell’uninominale maggioritario pubblicato dal Corriere due giorni fa e al quale anche chi scrive ha aderito.

Non è una operazione nostalgia, come indicano la quantità e qualità di consensi e di adesioni che l’iniziativa sta suscitando nel Paese.
Non è solo il tentativo di resuscitare un movimento che, grazie alle intuizioni di Marco Pannella (che fondò la Lega per l’Uninominale nel 1986) e di Mario Segni (Movimento per la riforma elettorale, del 1987), portò poi al referendum del 1993 e alla chiusura di una lunga fase storica. È soprattutto il tentativo di tenere viva un’idea di democrazia (maggioritaria, bipolare, tendenzialmente bipartitica) che ai promotori dell’appello pare tuttora più allettante dei disegni concorrenti. E anche per ricordare a tutti che quando, fra qualche mese o qualche anno, verrà messa mano alla legge elettorale, con quella prospettiva si dovrà comunque fare i conti.

Angelo Panebianco

30 agosto 2010
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_30/panebianco_30214862-b3f6-11df-913c-00144f02aabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO ovvero la firma spiega tutto... (sic).
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2010, 12:26:04 pm
LE SCELTE DI FINI DOPO LA ROTTURA NEL PDL

Destra moderna o Lega Sud?


Nell’origine delle cose si può leggere anche la loro fine. Ufficializzando la rottura con Berlusconi e la nascita di Futuro e Libertà, Gianfranco Fini ha chiuso con una esperienza, quella del Popolo della Libertà, cui aveva aderito, a ridosso delle elezioni passate, non per intima convinzione ma perché costretto dal diktat dell’attuale premier. Banalmente, non si può stare a lungo dentro un partito carismatico se si detesta (personalmente e politicamente) il capo di quel partito e se si è detestati (personalmente e politicamente) da lui. Fini ha fatto un discorso di respiro, come devono essere i discorsi fondativi di nuove formazioni politiche. Ma non ha rinunciato a qualche tatticismo. Come altri hanno già osservato, si è lasciato aperte tutte le strade, dal patto di legislatura (nella cui praticabilità credono in pochi) all’interruzione, entro qualche mese, di questa esperienza di governo. Ha negato con forza una sua disponibilità a fare ribaltoni, a uscire dal perimetro del centrodestra, ma ha anche offerto una sponda a quella parte di opposizione che, prima di andare a nuove elezioni, spera di cambiare la legge elettorale.

Nel discorso di Fini c’erano molte cose, anche fra loro piuttosto eterogenee. Alcune, già presenti nel programma originario del Pdl e poi abbandonate per strada (dalle liberalizzazioni alla abolizione delle province alla privatizzazione delle municipalizzate), corrispondono a temi molto popolari presso l’elettorato di centrodestra, anche se, significativamente, indigesti per la Lega. Altre (questione dell’immigrazione) erano direttamente finalizzate a ribadire quanto ormai sia grande la distanza che separa Fini dal partito di Bossi.
Altre cose ancora servivano a recuperare aspetti di una antica identità (l’omaggio a Almirante, a Tremaglia e a Tatarella) che, oltre a piacere a una parte dei militanti, potranno rivelarsi preziosi al momento della prova elettorale. È infatti possibile che alle prossime elezioni, tenuto conto della vischiosità dei comportamenti elettorali, Futuro e Libertà si trovi a prendere la maggioranza dei suoi voti nel vecchio bacino dell’Msi (Lazio, Campania, Sicilia, eccetera). Altre cose, infine (giustizia) servivano a ribadire le ragioni della definitiva consumazione del rapporto con Berlusconi e Forza Italia.

Sono rimasti, o così sembra a chi scrive, non del tutto chiariti nel discorso di Fini alcuni aspetti cruciali. Sarebbe utile se il presidente Fini volesse precisare meglio il suo pensiero. Il primo è un tema forse importante più sul piano dell’identità che su quello pratico. Non si capisce bene cosa farà Futuro e Libertà sulle questioni costituzionali. La destra berlusconiana, quella stessa destra di cui Fini è stato sodale per sedici anni, dal ’94 ad oggi, ha sempre suscitato formidabili resistenze a sinistra a causa della sua piattaforma (in senso tecnico) rivoluzionaria o revisionista. In sostanza, quella destra (anche Fini fino a poco tempo fa) non condivide l’impianto della Costituzione del ’48 e propugna (senza riuscire a realizzarli) radicali cambiamenti costituzionali: da qualche forma di presidenzialismo o premierato a mutamenti in profondità (separazione delle carriere dei magistrati, riforma del Csm) dell’ordinamento giudiziario.

Nel suo discorso di Mirabello, ma anche in certi suoi interventi precedenti, Fini ha dato la sensazione di avere totalmente abbandonato le istanze revisioniste (anche le sue battute sul Parlamento ridotto a dipendenza dell’esecutivo sembrano andare in quella direzione). Antiberlusconismo a parte, questo congedo dal revisionismo costituzionale è forse ciò che più ha accreditato Fini presso la sinistra e, più in generale, presso tutti coloro che nella Costituzione così come è vedono un argine contro il «cesarismo» in generale, e quello berlusconiano in particolare. È corretta questa lettura? Futuro e Libertà sarà un partito totalmente «rappacificato» con la Costituzione del ’48? Come dicevo, il tema non è tanto importante dal punto di vista pratico (le riforme costituzionali, ormai è accertato, non si possono fare) ma lo è sul piano identitario. Anche la battuta di Fini sulla legge elettorale da cambiare non aiuta. Dire che si può scegliere fra l’uninominale e la reintroduzione delle preferenze è forse politicamente furbo (si strizza l’occhio all’opposizione) ma non serve a chiarire. Alla fin fine, come Fini sa, chi vuole l’uninominale pensa a un tipo di democrazia completamente diversa da quella di chi vuole la proporzionale con le preferenze (e, con essa, secondo un’antica formula non propriamente di destra, la «centralità del Parlamento»).

Il secondo tema riguarda il federalismo. Fini, va detto a suo merito, non ha eluso del tutto il problema. Ha riconosciuto che se, nella distribuzione delle risorse, si abbandona il criterio della spesa storica per passare a quello dei costi standard (architrave della riforma detta del federalismo fiscale) il Sud dovrà cambiare tanto del suo modo di usare le risorse pubbliche. Ma poi ha subito annacquato l’affermazione evocando il «federalismo solidale». Ma, come Fini sa bene, non c’è possibilità di introdurre veri cambiamenti se non si fanno pagare, nel breve termine, costi assai alti a tutta quella parte del Sud (ma anche a qualche pezzo del Nord) che vive grazie a un pessimo uso del denaro pubblico. Si può invocare quanto si vuole la «solidarietà » ma non c’è verso di introdurre il federalismo senza che questo comporti dolorose riconversioni. Il che non può non implicare, sotto il profilo politico, almeno nel medio termine, la destabilizzazione di settori rilevanti delle classi dirigenti del Mezzogiorno. Quel che si capisce è che Fini chiede, su federalismo e Sud, un compromesso.
Ma sta a lui e ai suoi, allora, dimostrare che un compromesso «virtuoso» è possibile, che evocare la solidarietà non sia solo un espediente per difendere l’esistente. Sta a lui, in sostanza, dimostrare che Futuro e Libertà, anche su questo terreno, è la destra moderna che egli ha evocato, e non l’ennesima variante di una qualsiasi «Lega Sud».

Angelo Panebianco

07 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_07/panebianco-destra-moderna-lega-sud_4e881f8a-ba3e-11df-a688-00144f02aabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Gli occhi chiusi dell'Occidente
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2010, 08:06:09 am
Gli occhi chiusi dell'Occidente


Nei nove anni trascorsi dall’11 settembre la sfida del radicalismo islamista non è stata sconfitta. È stata fatta solo una disperata, e costosissima, opera di contenimento. Ma la minaccia è sempre lì. Come lo è la volontà di ampia parte del mondo occidentale di non prendere atto della natura del problema. Consideriamo alcuni episodi recenti. Un pazzo esibizionista, Terry Jones, col suo sproposito, poi rientrato, di bruciare il Corano, non dovrebbe fare primavera ma centinaia di migliaia di persone che, in Afghanistan, in Kashmir (almeno 18 persone uccise) e in altri luoghi, fanno della minacciata azione del suddetto pazzo un pretesto per prendersela con i cristiani e l’intero mondo occidentale, fanno primavera, eccome. La «loro» malattia dovrebbe essere, ma non è, il nostro primo argomento di discussione. Oppure prendiamo il caso dei tanti occidentali che vivono sotto scorta perché, avendo manifestato idee contrarie all’Islam, sono minacciati di morte dai fondamentalisti. Non si sono mai visti in giro molti slanci di simpatia per queste persone né molto sdegno morale per la loro condizione. Si teme forse l’accusa di islamofobia? O, ancora, prendiamo il caso del banchiere Thilo Sarrazin. Ha scritto che non desidera vivere in una Germania islamizzata, popolata da islamici che neppure imparano il tedesco. È stato oggetto di linciaggio morale e di provvedimenti punitivi. Perché? Non ha diritto alle sue opinioni? E perché quelle opinioni vengono esorcizzate anziché discusse? Qualche risposta, nel caso dell’Europa, ce la dà il combinato disposto di flussi migratori e di tendenze demografiche. Le comunità islamiche sono in grande crescita. Già oggi l’Islam è qui la seconda religione. Inoltre, il differenziale demografico fra musulmani e non musulmani fa sì che entro pochi decenni, se il trend non si invertirà, la maggioranza dei giovani europei, dai vent’anni in giù, sarà di religione musulmana. Uno dei più prestigiosi missionari italiani, padre Piero Gheddo (come riporta Il Foglio, 10 settembre), parla, come già lo storico Bernard Lewis, di un’Europa alle soglie di un grande cambiamento, sul punto di essere fortemente condizionata, nelle sue leggi e nei suoi costumi, dalle pressioni di comunità islamiche in espansione. Il disagio suscitato dalla crescente presenza islamica spiega il montare di opposti eccessi nelle nostre società: un odio cieco e irragionevole per i musulmani in generale e, insieme, le timidezze, la voglia di fingere di non vedere le prepotenze dei fondamentalisti e il pericolo che rappresentano. La crescita della presenza islamica è un fatto irreversibile. Ma non è stata scritta la parola definitiva su quali rapporti si affermeranno fra musulmani e società europee. Nascerà, come si spera, un Islam «europeo», ove religione e piena accettazione dei princìpi occidentali di convivenza civile riusciranno a convivere? Oppure, prevarranno il rifiuto, la separazione e il conflitto? L’esito dipenderà, almeno in parte, dalle scelte degli europei: dalla loro capacità di valorizzare il ruolo dei leader non fondamentalisti, a scapito dei fondamentalisti, delle comunità musulmane, e dalle regole di convivenza che riusciranno a varare e a fare rispettare.

E dipenderà anche dal loro impegno nel fronteggiare la sfida militare del radicalismo islamico nei molti luoghi in cui si manifesta. Poiché si ha a che fare con un sistema di vasi comunicanti, se il radicalismo islamico dovesse collezionare sconfitte nei vari angoli del mondo, ciò avrebbe effetti positivi sugli orientamenti prevalenti nelle comunità musulmane europee (fra i giovani, soprattutto). Così come effetti di segno contrario, negativi, avrebbero le vittorie del radicalismo islamico. Bisognerebbe però sbarazzarsi della tesi minimalista che molti hanno adottato in Occidente (e che contribuisce a spiegare, ad esempio, il tiepido appoggio europeo all’impegno Nato in Afghanistan): la tesi secondo la quale una minaccia globale non esiste, essendo i vari conflitti in cui opera il radicalismo islamico figli solo di circostanze e situazioni locali. Per cui serie sconfitte occidentali in Afghanistan, in Medio Oriente o nel Corno d’Africa non avrebbero implicazioni altro che per l’Afghanistan, il Medio Oriente o il Corno d’Africa. Le cose non stanno così. Non c’è differenza fra quanto accade oggi e quanto è accaduto in altre vicende del passato, dalle lotte fra cattolici e protestanti nell’Europa del XVI secolo allo scontro globale fra comunisti e anticomunisti nel XX secolo. Quei conflitti traevano sempre nutrimento da circostanze locali fra loro diversissime, ma erano poi unificati da ideologie comuni e da solidarietà transnazionali che si concretizzavano in appoggi, finanziamenti, flussi di combattenti da un luogo all’altro. E dalla presenza di vaste reti di simpatizzanti. Non c’è incompatibilità, oggi come in passato, fra le ragioni locali dei vari conflitti e gli scopi sovrannazionali delle ideologie che li connettono. Un’Europa che trova comodo abbracciare la tesi minimalista non è, a sua volta, di grande aiuto per una America, già indebolita dalla crisi, guidata da un’Amministrazione che si mostra sempre più oscillante e incerta, priva di una salda strategia ai fini del contenimento dell’islamismo radicale. Eppure, almeno un’occasione per discutere seriamente di islam e Europa e delle complesse ramificazioni del problema, gli europei potrebbero ora coglierla. L’occasione dovrebbe essere rappresentata dai negoziati con la Turchia (dopo il referendum, vinto dal partito islamico al potere, sulle modifiche della Costituzione). La Turchia dei prossimi anni ci servirà forse a scoprire il grado di compatibilità fra liberaldemocrazia e islam. L’abbandono dei tratti più autoritari dell’eredità di Ataturk (il ridimensionamento del ruolo politico dei militari) aprirà la strada a una conciliazione piena fra islam e democrazia? O la democratizzazione sarà la levatrice di nuove forme di islamismo autoritario? Il test ci riguarda da vicino. Per l’importanza geopolitica della Turchia. Ma anche per ciò che potrà dirci sui futuri rapporti fra le democrazia europee e le comunità musulmane.

di Angelo Panebianco

14 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_14/panebianco_ochi_chiusi_occidente_143cd00c-bfbe-11df-8975-00144f02aabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un partito senza identità
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2010, 09:42:04 am
IL PD SULL’ORLO DELL’IMPLOSIONE

Un partito senza identità


Seguendo le sorti del Popolo della Libertà anche il Partito democratico è sull’orlo di una implosione? La mossa di Walter Veltroni, l’aggregazione di un «movimento» di contestazione della segreteria, non è solo un episodio dell’annoso duello fra Veltroni e Massimo D’Alema. La gravità delle condizioni in cui versa oggi il Pd è tale che difficilmente l’esito potrà essere qualcosa di diverso da una frattura irreversibile. La ragione di fondo è che il Pd è un partito di opposizione che non riesce a trarre profitto, in termini di consensi, dalle gravi difficoltà della maggioranza di governo.

E non può trarne profitto perché non è un corpo sano ma malato. C’è qualcosa di drammatico, e di rivelatore sia dei limiti delle classi politiche sia delle tendenze profonde del Paese, nel fatto che tutti i tentativi di costruire grandi forze «riformiste» falliscano in Italia. L’operazione non riuscì negli anni Sessanta dello scorso secolo con l’unificazione socialista. Poi non riuscì a Craxi. Infine, non è riuscita al Partito democratico. Per un verso, non c’è, e non c’è mai stata, per così dire già «preconfezionata», una domanda di riformismo sufficientemente forte e ampia nell’elettorato di sinistra.

Per un altro verso, ci sono limiti nella cultura politica delle classi dirigenti della sinistra che le hanno sempre rese incapaci di creare, con le loro azioni, le condizioni perché quella domanda crescesse e si diffondesse. Alla debolezza dal lato della domanda hanno sempre corrisposto la fragilità e l’incoerenza dal lato della offerta. Si guardi a cosa è successo dopo le elezioni. Mandato via Veltroni, il Pd non è stato più capace di trovare un baricentro politico. Alla più conclamata che praticata «vocazione maggioritaria » di Veltroni (che commise il fatale errore dell’alleanza con Di Pietro) si è sostituita una sorta di rassegnata presa d’atto del carattere irrimediabilmente minoritario del Pd. Da qui la ricerca di alleanze purchessia, l’oscillazione fra velleitari progetti di Union sacrée contro Berlusconi (tutti dentro, da Di Pietro a Fini), tatticismi politici (alleiamoci con i centristi di Casini, magari offrendo loro anche la presidenza del Consiglio) e fumosi slogan (il nuovo Ulivo).

Risultato: il Pd è oggi un partito senza identità, alla mercé degli incursori esterni, da Di Pietro a Vendola. Anziché elaborare proposte, costruirvi sopra una identità chiara, e solo dopo tessere le alleanze in funzione delle proposte e dell’identità, il Pd è partito dalla coda, dalle alleanze. Impantanandosi, non riuscendo a stabilire un rapporto forte con l’opinione pubblica. Dirlo è un po’ come sparare sulla Croce Rossa ma è un fatto che nulla può dare il senso della crisi di un partito di opposizione più della sua paura di nuove elezioni. Si spezza il rapporto fra Berlusconi e Fini? La maggioranza è a rischio? Che altro dovrebbe allora fare il maggior partito di opposizione se non chiedere, a gran voce, elezioni immediate? E invece no. Per paura delle elezioni si trincera dietro il pretesto della urgenza di una riforma elettorale (dimenticandosi di spiegare perché, se era così urgente, non la fece quando aveva la maggioranza, all’epoca dell’ultimo governo Prodi). È un vero peccato. La democrazia italiana avrebbe bisogno di un solido partito di sinistra riformista, sicuro di sé, delle proprie ragioni, della propria identità. Ma non è questo oggi l’identikit del Partito democratico.

Angelo Panebianco

18 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_18/un-partito-senza-identita-angelo-panebianco_d395f316-c2e3-11df-824c-00144f02aabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Dalla parte di un elettore
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2010, 09:41:50 am
TROPPE FAZIONI, NESSUNA CHIAREZZA

Dalla parte di un elettore

Con la verifica parlamentare del 29 settembre il governo cadrà oppure sopravviverà senza che gli italiani che non siano addetti ai lavori abbiano avuto la possibilità di capire le autentiche ragioni della crisi politica in atto. E' difficile che gli elettori del centrodestra, questioni di case a parte, abbiano davvero compreso quali siano i motivi della rottura fra Berlusconi e Fini. Così come, d'altra parte, è improbabile che gli elettori del centrosinistra siano stati in grado di spiegarsi i perché dello scontro (poi provvisoriamente rientrato) fra Veltroni e Bersani.

Nei primi anni Settanta, ai tempi della Dc, la politica italiana era giudicata incomprensibile dall'allora segretario di Stato americano Henry Kissinger. Lo era anche per tanti italiani. E le cose non sono molto cambiate. Perché la politica italiana è così poco trasparente per gli elettori? Perché, in democrazia, il grado di trasparenza, di comprensibilità della politica, è inversamente proporzionale al numero di fazioni presenti nell'arena. Nei casi (storicamente rari) dei sistemi bipartitici, la politica è una attività relativamente trasparente: ci sono due sole fazioni in gara per la conquista del governo e gli elettori sanno, almeno per grandi linee, che cosa comporti la vittoria dell'una o dell'altra.

Nei sistemi multipartitici, per contro, la politica è un gioco più complicato, più difficile da decifrare. Ma ci sono gradazioni. Più il sistema multipartitico è frammentato (più alto è il numero di fazioni) meno ci si capisce. Sul numero delle fazioni incidono molte cose ma la più importante è il sistema costituzionale. Molto dipende dal grado di dispersione o di concentrazione del potere che le istituzioni democratiche favoriscono. Dove il potere è più concentrato (nelle mani di un premier come in Gran Bretagna o di un Presidente come in Francia) e il governo è il vero «comitato direttivo» del Parlamento, la frammentazione è contenuta. In questo caso, non c'è solo più efficienza nell'azione dell'esecutivo, c'è anche maggiore capacità degli elettori di comprendere cosa stia bollendo nella pentola della politica.

Il nostro è sempre stato un sistema democratico con tante fazioni e tanti poteri di veto sulle azioni dei governi. A causa delle circostanze storiche in cui esso nacque, perfettamente rispecchiate in un testo costituzionale che non contiene antidoti contro la frammentazione. Quando, nei primi anni Novanta, crollò il sistema partitico sorto con le elezioni del '48, si aprì una finestra di opportunità: iniziarono gli sforzi per passare da un sistema politico ad alta diffusione del potere ad un altro ove il potere fosse più concentrato. Il cambiamento della legge elettorale, l'adozione di un sistema maggioritario imperfetto, fu il primo passo in quella direzione. Il secondo passo fu la scelta dell'elezione diretta di sindaci e presidenti di regione e di provincia. Poi il cammino si interruppe. Non ci fu mai quella riforma della Costituzione che avrebbe dovuto coronare e stabilizzare per sempre il passaggio da un sistema democratico frammentato, con poteri dispersi, ad uno più coeso.

L'ingresso in politica di Silvio Berlusconi diede ad alcuni la speranza, e ad altri il timore, che quella concentrazione del potere che era impossibile attraverso una revisione costituzionale lo fosse per via politica. Berlusconi, dividendo il Paese in due, e utilizzando risorse extraistituzionali (carisma, ricchezza personale, televisioni), diede la falsa impressione che un processo irreversibile di ricomposizione fosse in atto. Ma era solo apparenza, un'illusione. Che si dissolverà del tutto quando Berlusconi uscirà di scena. La frammentazione non è scomparsa e, con essa, e grazie ad essa, nemmeno la scarsa comprensibilità della politica italiana.

D'altra parte, la dispersione del potere avvantaggia molti. Dove esistono tante fazioni e tanti poteri di veto, ogni detentore di rendite piccole o grandi sa di essere più protetto contro l'azione del governo. C'è sempre qualcuno, qualche fazione, a cui ci si può rivolgere per bloccare decisioni sgradite. La frammentazione rende la politica debole, tutela e garantisce lo status quo, rende difficili i cambiamenti che potrebbero fare bene al Paese ma male a certi interessi costituiti. Chi preferisce, e in questo Paese sono in tanti, un'eccessiva dispersione del potere, attribuendole virtù che non possiede, scambiandola per la variante italiana del meccanismo democratico dei pesi e contrappesi, ha il diritto di farlo. Ma non ha il diritto di lamentarsi se poi la politica risulta incomprensibile.

Angelo Panebianco

27 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_27/panebianco-dalla-parte-elettore_a11a1506-c9f6-11df-9db5-00144f02aabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L’universita’ dimenticata
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2010, 12:08:44 pm
LA MAGGIORANZA E LA RIFORMA GELMINI

L’universita’ dimenticata

Il governo e la sua maggioranza, o ciò che ne resta, accumulano autogol. Non sono bastati la disastrosa gestione del conflitto fra Berlusconi e Fini e il suo impatto negativo, registrato dai sondaggi, sui consensi al governo. Adesso, la maggioranza è anche decisa a giocarsi credibilità e aperture di credito faticosamente ottenute, grazie al lavoro dei ministri migliori, presso settori qualificati dell’opinione pubblica. Mi riferisco al probabile affossamento della riforma universitaria. La riforma era in dirittura di arrivo (l’inizio della discussione alla Camera era prevista per il 4 ottobre). I capigruppo hanno deciso il rinvio al 14 ottobre.

Dieci giorni soltanto ma sufficienti per affossare il provvedimento. Infatti, il 15 ottobre comincia la sezione di bilancio e la discussione dovrà essere subito sospesa per almeno un mese. Non solo la riforma non arriverà in porto prima dell’inizio dell’anno accademico. Ma, probabilmente, a causa dei vincoli dei calendari parlamentari e delle risse nella maggioranza, finirà per slittare sine die (si veda la puntuale ricostruzione fatta oggi, su questo giornale, da Lorenzo Salvia). Con le probabili elezioni a primavera che ormai incombono, se ne riparlerà nella prossima legislatura.

La riforma del ministro Mariastella Gelmini è un ambizioso tentativo di ridare slancio all’istruzione superiore. Non è perfetta. Ci sono anche cose che non convincono. Ma è sicuramente il frutto di uno sforzo encomiabile di affrontare di petto i problemi dell’Università. Chi la rifiuta in blocco lo fa per faziosità ideologica oppure perché appartiene ai settori più conservatori del mondo universitario. Molti, però, fra gli universitari, si rendono conto che il provvedimento è indispensabile. I rettori più consapevoli della necessità della riforma e anche tanti professori la aspettano con più fiducia che apprensione. Ed è un merito della Gelmini e del suo lavoro. Anche gli imprenditori attendono il provvedimento essendo chiaro che miglioramenti sensibili del capitale umano (della preparazione dei nostri laureati) saranno necessari, nei prossimi anni, all’economia italiana. Il varo della riforma era insomma un test atteso da m o l t i p e r v a l u t a r e l’affidabilità dell’esecutivo.

Che fanno allora il governo (il «governo del fare» come piace definirlo al presidente del Consiglio) e la sua maggioranza? Rinviano la riforma e ne mettono a rischio l’attuazione. Mandano un altro pessimo segnale al Paese e mettono in difficoltà quei rettori che avevano dato fiducia alla Gelmini. Sembra difficile attribuire queste scelte sciagurate ad altro se non a una grave forma dimiopia politica. Varare una così importante riforma significherebbe dire al Paese: è vero, siamo immersi in risse continue, ma sappiamo anche, su questioni concrete come il destino dell’istruzione superiore, portare a termine i nostri progetti. Forse, ai capigruppo di maggioranza converrebbe ripensarci. Cosa resterà altrimenti? Solo la rissa quotidiana e la prospettiva, che non dovrebbe essere allettante per la maggioranza, di uscirne alla fine con le ossa rotte.

Angelo Panebianco

04 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_04/universita-dimenticata-editoriale-panebianco_d14d9270-cf73-11df-8a5d-00144f02aabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Musulmani d'Europa
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2010, 06:30:49 pm
Il commento

Musulmani d'Europa


La dichiarazione del cancelliere Angela Merkel («il multiculturalismo è fallito») è stata interpretata da tutti come una constatazione di fatto sugli errori della politica dell'immigrazione tedesca degli ultimi decenni ma anche come il segnale di una svolta imminente. Anche in Germania, come in tutto il resto dell'Europa, la questione degli immigrati è ora un problema politico di prima grandezza: dare risposte incoerenti con le domande dell'opinione pubblica può significare perdere le elezioni. È la nuova grande questione che divide, e dividerà a lungo, le democrazie europee e che va ad aggiungersi alle più tradizionali divisioni sui temi economici.

Partiti anti-immigrati sorgono come funghi e fanno pienoni elettorali in tanti Paesi europei. Dove questo non accade è solo perché i partiti più tradizionali, già insediati, hanno indurito per tempo il loro approccio all'immigrazione. Due giorni fa, il Sole 24 Ore ha pubblicato un'utile inchiesta sulle politiche europee dell'immigrazione mostrando un quadro assai differenziato. Si va dai Paesi fino ad oggi più accoglienti, come la Svezia o l'Olanda (che però stanno sperimentando forti rivolte anti-immigrati) a quelli più chiusi come la Grecia. Ma non è difficile immaginare che le varie democrazie europee, adattandosi alle domande delle loro opinioni pubbliche, col tempo finiscano tutte per convergere su politiche selettive, che mettano più filtri, e più rigorosi, di quelli utilizzati nel recente passato.

C'è la reazione delle opinioni pubbliche ma c'è anche un'incertezza obiettiva su come fronteggiare il problema. Nessuna delle due strade fin qui adottate, quella originariamente francese dell'assimilazionismo (chi arriva deve spogliarsi della precedente identità per abbracciare identità e cultura del Paese ospitante) e quella, originariamente anglosassone, del multiculturalismo, sembra funzionare. Il multiculturalismo, soprattutto, ben prima che lo riconoscesse la Merkel, appariva più un sogno da idealisti che una politica realisticamente praticabile. Il multiculturalismo prevede infatti che le varie culture presenti sul territorio vengano preservate, anche con leggi apposite, e che le diverse comunità culturali si autogovernino per tutti gli aspetti che riguardano la tutela della propria identità. Una società multiculturale è una società segmentata, divisa in tante comunità culturali che, si suppone, non sentendosi minacciate nelle proprie tradizioni, siano in grado di coesistere pacificamente. Ma il punto è che una società siffatta è difficilmente compatibile con la democrazia. Salvo specialissime eccezioni, può essere tenuta insieme solo con un alto grado di coercizione, in modo non democratico. Per questo, il multiculturalismo non è una politica adatta per le democrazie europee. Gran Bretagna, Olanda, Germania avevano scelto quella strada e ne hanno verificato l'impraticabilità.
Ma se la via francese (l'assimilazionismo) è difficilissima e quella multiculturale impraticabile, che fare allora? Assistere passivamente al montare dei conflitti?

Il problema della maggiore o minore capacità di convivenza con la nuova immigrazione dipende non da uno ma da un insieme di fattori: la qualità e il rigore dei filtri predisposti (le politiche dell'immigrazione in senso stretto), i cicli economici, la capacità di offrire servizi agli immigrati che lavorano, la capacità di reprimere i comportamenti illegali, eccetera. Ma dipende anche dalle tradizioni di provenienza e appartenenza degli immigrati. È inutile girarci intorno. Ci sono immigrati che, per la tradizione di provenienza, possono trovare un loro ruolo nei Paesi ospitanti (e col tempo, potranno forse anche essere assimilati nel senso francese del termine. E, se non loro, i loro figli) con relativa facilità. Episodi di intolleranza, anche gravi, ci sono e ci saranno. Ma nel complesso, molti immigrati, soprattutto dell'Est europeo, riusciranno ad inserirsi con successo nelle società europeo-occidentali.
C'è però il caso dell'islam. Non è casuale che proprio ai musulmani (e non agli altri immigrati) si faccia sempre riferimento quando si constata il fallimento del multiculturalismo. Ciò che ovunque in Europa si teme è che una crescita eccessiva delle comunità musulmane, grazie anche al differenziale demografico, finisca per imporre le trasformazioni più forti nelle regole di convivenza delle società europee. La domanda di cui nessuno conosce la risposta è la seguente: cosa può succedere quando due grandi civiltà, altrettanto forti e orgogliose, come quella europea-cristiana (oggi anche liberale e democratica) e quella islamica, che si ispirano a principi e norme antitetiche, e che, anche per questo, si sono aspramente combattute attraverso i secoli, si trovano a condividere lo stesso territorio e lo stesso spazio politico? La risposta dipenderà in parte da noi europei, dagli atteggiamenti che assumeremo e dalle politiche che adotteremo. Ma, in larga parte dipenderà anche dalla evoluzione del mondo islamico. Se il ciclo fondamentalista (connesso al cosiddetto «risveglio islamico») che ha investito l'islam mondiale negli ultimi decenni non si esaurirà presto, dovremo attenderci aspri conflitti e fortissime tensioni anche in Europa (altro che pacifica convivenza multiculturale). Se invece quel ciclo, raggiunto un picco e punte di massima espansione, andrà ad esaurirsi, come è possibile che prima o poi accada, allora nasceranno forse esperimenti inediti e interessanti: la democrazia potrà misurare il proprio successo anche sulla sua capacità di favorire la piena adesione dei musulmani immigrati alle regole della società aperta e libera. Oggi ciò non appare probabile. Ma è lecito, per lo meno, sperarlo.

ANGELO PANEBIANCO

21 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_21/panebianco_bd297000-dcd1-11df-bdeb-00144f02aabc.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Classe (per nulla) dirigente
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2010, 06:50:49 pm
IL COMMENTO

Classe (per nulla) dirigente


Rivolte urbane, guerriglie notturne, sindaci alla mercé delle piazze. Di nuovo la Campania. Di nuovo l'immondizia. Governo, Regione, Napoli, si palleggiano le colpe e magari è vero che le responsabilità sono di tutti. Ma resta che la Campania non si sa tirare fuori da una situazione che, come ha scritto accoratamente Giuseppe Galasso su questo giornale (il 24 ottobre) umilia l'Italia intera. Il vero dramma del Mezzogiorno non consiste nei gravissimi problemi che lo attanagliano. Consiste nel fatto che le sue classi dirigenti (politici, imprenditori, professionisti, intellettuali) siano incapaci di cercare soluzioni e rimedi. Nel politichese di alcuni anni fa si sarebbero dette prive di «progettualità», fallite. Non perdono un colpo quando si tratta di accusare Roma, lo Stato, di avere «abbandonato il Sud»: un'espressione che testimonia di uno stato di minorità, psicologica e culturale (sono i minori quelli che non si possono abbandonare). Ma ne perdono tanti quando si tratta di lavorare per cambiare le cose.

Nel centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia constatiamo che l'unità scricchiola, che si sentono rumori sinistri. Se non ci saranno novità la democrazia, così come funziona nel Mezzogiorno, e l'unità del Paese potrebbero presto entrare in rotta di collisione. L'esperienza storica ci dice che, spesso, la democrazia è un'ottima cura per molti mali: col tempo, fa fiorire una società civile basata sulla cooperazione e la fiducia, fa crescere il capitale umano e sociale, promuove lo sviluppo. Ma non ovunque. Di certo, sessant'anni di democrazia non hanno portato quei doni al Mezzogiorno. La democrazia è servita al Sud, più che per curarsi degli antichi vizi, per accrescere il proprio potere contrattuale nei confronti dello Stato e delle regioni più sviluppate.

Senza il Sud non si vincono le elezioni nazionali e questo dà a chi difende il Mezzogiorno così come è oggi una fondamentale arma di ricatto nei confronti di qualunque coalizione politica nazionale, di destra o di sinistra che sia. Le voglio proprio vedere, ad esempio, certe Regioni del Sud (quelle con i peggiori disastri nella Sanità) accettare senza fiatare il passaggio dalla spesa storica ai costi standard come prevede il progetto del federalismo fiscale, ben sapendo che ciò comporterebbe una drastica contrazione di risorse e l'obbligo di porre fine a sprechi e a parassitismo.

È in questo senso che unità del Paese e democrazia nel Mezzogiorno rischiano di diventare incompatibili. Non si può avere una questione meridionale perenne: alla lunga, si finisce per disfare ciò che il Risorgimento ha creato.

L'aspetto più grave non sta nella protervia dei maneggioni ma nei pensieri e nelle parole di tante persone per bene. Chiunque scriva di Mezzogiorno sa di cosa parlo. Quando si toccano questi argomenti si ricevono tanti messaggi dal Sud, spesso di professionisti o di insegnanti. Persone istruite, che fanno opinione nei rispettivi ambienti. Persone capaci di fare l'apologia del regno borbonico, di trattare Cavour e Garibaldi come criminali di guerra, di liquidare la storia dell'Italia unita come il frutto di un'odiosa colonizzazione. Questa forma di autoassoluzione, condita di leggende nere sull'unità d'Italia è, da sempre, la maledizione del Sud. Se non se ne libererà non cambierà mai nulla. E dei «doni» della democrazia resterà solo una capacità di ricatto sempre meno sopportata dal resto del Paese.

Angelo Panebianco

26 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_26/classe-per-nulla-dirigente-editoriale-angelo-panebianco_2e086226-e0c0-11df-b5a9-00144f02aabc.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'altra secessione
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2010, 09:17:32 am
Il sud contro il nord

L'altra secessione


Possiamo pensare alla politica come a una torta a due strati: c’è uno strato superficiale e uno sottostante. Lo strato superficiale è quello della politica politicienne su cui si concentra l’attenzione dei media: crisi di governo? Elezioni? Governi tecnici? Nuove sorprese sul piano giudiziario? Nuovi gossip? Poi c’è lo strato sottostante che sta in profondità. Mentre lo strato superficiale è o può essere soggetto a repentini cambiamenti, nello strato profondo i cambiamenti, ammesso che avvengano, richiedono tempi lunghissimi. Tra i due livelli ci sono influenze asimmetriche, di differente intensità (è più forte l’influenza dello strato profondo su quello superficiale che il contrario). Appartiene allo strato profondo la divisione Nord/Sud. Ciò che accade in quello superficiale, di volta in volta, può disvelare aspetti diversi di quella storica divisione, e può anche, in certe fasi, esasperarla, ma non l’ha creata e non può eliminarla.

L’esasperazione della frattura Nord/Sud che sperimentiamo da un ventennio ha la sua causa nella fine della Dc e del sistema di scambi mutualmente soddisfacenti (ampiamente finanziato con l’indebitamente pubblico) che la Dc garantiva fra i diversi territori. Quel sistema aveva assicurato per molti anni una certa tranquillità di superficie ma nella pancia del Paese anche allora si celavano umori cattivi. Qualcuno ricorderà «radio bestemmia », un esperimento di Radio Radicale degli anni Ottanta (non c’era ancora all’orizzonte nessuna Lega a minacciare secessioni). Per tre giorni il microfono fu lasciato, senza controllo, in mano agli ascoltatori: si cominciò con risse e insulti fra tifoserie calcistiche e si finì con una grande esplosione di odio viscerale fra terroni e polentoni.

In questi anni siamo stati soprattutto colpiti dal fenomeno più appariscente: il vento del Nord, il leghismo, con il suo secessionismo culturale e, potenzialmente, politico. Non abbiamo prestato abbastanza attenzione al fenomeno opposto e simmetrico, ma più silenzioso, meno visibile: il secessionismo culturale del Sud. La voglia di bruciare il tricolore non appartiene solo ai più esagitati fra i leghisti: anche dal Sud vengono lanciati cerini accesi.

Che altro è se non voglia repressa di bruciare il tricolore la rappresentazione del Risorgimento come uno stupro di gruppo ai danni del Mezzogiorno da parte di un Nord violento e rapace? La leggenda nera sull’Italia unita nasce subito dopo l’unificazione nutrendosi di fatti veri (l’occupazione piemontese, la spietata guerra al brigantaggio, il peggioramento delle condizioni delle campagne, la grande migrazione verso le Americhe) ma letti piattamente, senza spirito critico, senza inserirli in una visione più ampia, nella quale la partita del dare e dell’avere fra le regioni ricche e quelle povere svelerebbe il proprio carattere autentico: quello di un complesso interscambio che ha portato, nel lungo periodo, più vantaggi che svantaggi all’intera comunità nazionale. A causa dell’esasperazione della divisione Nord/Sud degli ultimi vent’anni, l’antica leggenda nera viene ora riproposta con forza dagli appartenenti alle classi colte meridionali.

Si può leggere di tutto: puntigliose rivalutazioni del Regno delle Due Sicilie, invettive contro Cavour e i piemontesi, criminalizzazione del Nord di ieri e di oggi. Da tante lettere che arrivano quando si scrive di questi argomenti si ricava la sensazione che molti meridionali appartenenti alle classi colte siano sinceramente convinti di due cose. La prima è che, se non ci fosse stata la colonizzazione del Nord, il Sud sarebbe ora qualcosa di simile alla Svizzera o all’Olanda. La seconda è che le classi dirigenti del Sud non abbiano responsabilità dei mali in cui il Sud si dibatte. Nella versione meno spudorata, o meno irrealistica, si parla più prudentemente (come fa il presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo) di complicità, di patti perversi fra Roma e le classi dirigenti meridionali.

Perché questa forma di secessionismo culturale danneggia il Sud (polemizzando con me, c’è caduto, sia pure da par suo, anche un finissimo osservatore come Ruggero Guarini su Il Foglio del 28 ottobre)? Perché giustifica e perpetua l’irresponsabilità delle classi dirigenti meridionali e garantisce in questo modo l’impossibilità di una svolta. Sembra che ci sia una sorta di «blocco sociale» composto da classi dirigenti che, spesso, hanno assai male amministrato e di classi colte che tengono loro bordone mal consigliando e mal giustificando.

È vero che ci sono anche segnali che vanno in una diversa direzione. C’è il fatto che il Sud (come il Nord) non è un blocco territoriale omogeneo: esiste anche un Sud produttivo e ben governato. Inoltre, anche in politica non tutto è sempre scontato: ad esempio, Gianfranco Micciché, tenendo a battesimo la sua costituenda Forza del Sud, ne ha parlato come di un movimento politico che deve spingere il Mezzogiorno a ritrovare il suo orgoglio, mettere al bando ogni sterile lamentela, impegnarsi per creare sviluppo e benessere. Si tratterà di vedere se alle intenzioni corrisponderanno i fatti e se le resistenze di quella consistente parte del Sud che non ne vuol sapere potranno essere superate.

Il secessionismo culturale del Sud, nonostante il suo successo e la sua diffusione, ha il fiato corto. A differenza di quello del Nord non può tradursi in secessionismo politico: non dispone dei soldi. Può però avere l’effetto di esasperare ulteriormente il secessionismo nordista. Infatti, anche il movimento leghista è a un bivio, spinto dai suoi stessi impulsi in direzioni diverse: la testa (la ragione) gli detta di cercare soluzioni federali; la pancia lo spinge verso la secessione: un esito che, se si realizzasse, abbasserebbe drasticamente il rango internazionale del Nord (per esempio, in Europa) con molte e pesanti ripercussioni negative.

Berlusconi, costruendo l’unico vero partito nazionale in circolazione (forte al Nord come al Sud) ha precariamente, avventurosamente, e provvisoriamente, surrogato il ruolo storico che era stato della Dc, tenendo di fatto insieme il Paese. Quando il suo partito si disferà (probabilmente ciò accadrà quando egli uscirà di scena), Nord e Sud si troveranno l’uno di fronte all’altro senza mediazioni, l’uno contro l’altro. E per l’unità d’Italia sarà l’ora della verità.

Però, forse, è imminente una crisi di governo, forse andremo presto a elezioni. Parlando di Nord e Sud ho divagato? Non mi pare. Perché, crisi o no, elezioni o no, è dallo strato profondo della torta che partono comunque gli impulsi più potenti. Da essi dipenderà, anche a breve, il futuro del Paese.

Angelo Panebianco

04 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_04/panebianco-altra-secessione_5583edd4-e7dc-11df-a6d6-00144f02aabc.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Cristiani invisibili
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2010, 12:07:30 am

IL SILENZIO SULLE PERSECUZIONI

Cristiani invisibili

Dopo l'attacco di gruppi riconducibili ad Al Qaeda contro una chiesa di Bagdad che provocò cinquanta morti e un centinaio di feriti il 31 ottobre scorso, una nuova ondata di attentati ha preso di mira, questa volta, le case abitate da cristiani: il bilancio provvisorio, probabilmente destinato a salire, è di almeno tre morti e decine di feriti. In Iraq è caccia aperta ai cristiani e, come dice monsignor Matoka, arcivescovo siro-cattolico di Bagdad, «il governo non fa nulla per fermare gli attentati». È facile, per gli occidentali, liquidare la questione come una delle tante tragiche conseguenze della guerra in Iraq. C'è del vero ma è anche una spiegazione insufficiente. Così come è insufficiente rilevare che ciò che sta accadendo è anche la conseguenza della forse prematura scelta americana di dichiarare chiusa la guerra in Iraq e di ritirare il grosso delle truppe. Un ritiro che ha lasciato l'Iraq in balia dei piani egemonici iraniani e sta vanificando il lavoro svolto, a suo tempo, dal generale David Petraeus: la guerriglia sunnita è ora in forte ripresa così come l'attivismo di Al Qaeda. I cristiani, inermi e quindi facili bersagli, sono vittime in uno scontro di potere fra gruppi islamici.
Ciò che così non si spiega, però, è perché i cristiani siano continuamente oggetto di attentati in una fascia che va dall'Indonesia all'India, dal Pakistan al Vicino Oriente e che si spinge fino ai territori islamici dell'Africa subsahariana. Le cifre sulla persecuzione dei cristiani nel mondo sono impressionanti. Ogni singolo caso ha certamente anche motivazioni «locali», è anche un portato di condizioni locali. Ciò è vero per definizione. Ma cosa lega la persecuzione dei cristiani nel mondo extraoccidentale, quale è il denominatore comune?

Normalmente, chi nega l'esistenza di qualsiasi cosa possa anche solo ricordare vagamente l'espressione «scontro di civiltà» non ha risposte da dare. Il denominatore comune, infatti, c'è: consiste nel fatto che le comunità cristiane, anche se composte da pachistani, iraniani, nigeriani, o anche se, come nel caso delle comunità del Medio Oriente, lì già presenti molti secoli prima che arrivasse l'Islam, vengono associate dai loro nemici al mondo occidentale, ne sono considerate quinte colonne. Uccidere cristiani, anche là dove essi hanno solo la religione in comune con gli occidentali, ha un grande valore simbolico: elimina una presenza «impura», la spazza via dai territori che agli occhi di chi uccide, e dei tanti che applaudono alle uccisioni, appartengono di diritto ai praticanti di un'altra religione e, contemporaneamente, sferra un altro colpo agli odiati occidentali.
Gli occidentali, però, fanno finta di niente, fingono di non vedere e non capire. La persecuzione dei cristiani non è un tema che sia mai davvero entrato nelle agende dei governi occidentali di Stati Uniti e Europa, sembra non riguardarli. Con tutto ciò che succede nel mondo, paiono pensare governi e opinioni pubbliche, perché dovremmo preoccuparci anche delle disgrazie dei cristiani non occidentali? Invece, dovremmo preoccuparcene. Il nostro sostanziale disinteresse serve a un bel po' di fanatici in giro per il mondo anche per prenderci le misure, per giudicarci. Ciò che vedono può indurli a pensare che siamo deboli e decadenti e che non c'è pertanto alcun motivo di fermare la mattanza.

Angelo Panebianco

11 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_11/cristiani-invisibili-angelo-panebianco-editoriale_8ec9b2ca-ed5b-11df-bb83-00144f02aabc.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il Partito delle Delusioni
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2010, 05:34:59 pm
Il Partito delle Delusioni


La vittoria di Giuliano Pisapia alle primarie milanesi del centrosinistra contro il candidato del Partito democratico Stefano Boeri rappresenta, come ha scritto sul Corriere di ieri Michele Salvati, una «secca sconfitta politica» per il gruppo dirigente di quel partito. Una sconfitta che si somma a tante altre batoste, come, a suo tempo, la vittoria di Nichi Vendola in Puglia contro il candidato ufficiale del Pd, la perdita di regioni tradizionalmente governate dalla sinistra, il successo, anche se per ora solo mediatico, della rivolta capeggiata dal sindaco di Firenze Matteo Renzi, e altro ancora.

Se la politica italiana è, come è, alla deriva, se la rottura del Pdl e il possibile declino di Silvio Berlusconi preannunciano una crisi di sistema destinata ad avere ripercussioni ovunque, è difficile pensare che possa cavarsela un partito di opposizione così mal messo come il Partito democratico. Talmente mal messo da non aver saputo nemmeno approfittare, in questi anni, della crisi economica per rimontare nei sondaggi (che è ciò che normalmente accade in democrazia: i consensi per l'opposizione crescono quando il governo deve fronteggiare una grave crisi).
Così come è fallita l'aggregazione a destra denominata Popolo della libertà sta fallendo l'aggregazione a sinistra denominata Partito democratico.

Quando nacque, il Pd suscitò molte speranze fra coloro che auspicavano un rinnovamento della cultura politica della sinistra. Ma le speranze andarono deluse. A poco a poco vennero fuori le magagne: il nuovo contenitore risultò privo di contenuti, più un mezzo per assicurare la sopravvivenza di spezzoni di vecchia classe dirigente che un partito (nonostante, va detto, la serietà degli sforzi iniziali dell'allora segretario Walter Veltroni) dotato di identità e capacità progettuale.

Forse il Pd cominciò a morire quando, nell'inverno 2007-2008, fallirono le trattative tra Veltroni e Berlusconi per una riforma, a vantaggio dei grandi partiti, del sistema elettorale. Se quelle trattative fossero andate in porto, il Pd sarebbe forse riuscito a mettere in sicurezza, oltre al bipolarismo italiano, anche se stesso. Probabilmente, avrebbe ugualmente perso le elezioni del 2008 ma, almeno, avrebbe monopolizzato l'opposizione e sarebbe stato in gara per giocarsi, con qualche chance di successo, la prova elettorale successiva. Non andò così. L'incapacità di elaborare e imporre una sua visione delle cose politiche ne fece un partito né carne né pesce, in balia delle pressioni esterne: prima succube dei giustizialisti, poi alla rincorsa dei centristi di Casini, e oggi anche di Fini, domani probabilmente risucchiato (ma, sicuramente, dopo avere perso per strada molti pezzi) dal radicalismo di Vendola e Di Pietro.

Non deve rallegrare il declino del Partito democratico.
Per chi, come chi scrive, è scettico sulle possibilità del cosiddetto «terzo polo» (spesso, quando si va alla verifica, i terzi poli risultano avere più leader che elettori), quel declino, insieme alla crisi del centrodestra, preannuncia lo sfarinamento del sistema politico vigente anziché la sua imminente ricomposizione su nuove basi. Le crisi di sistema sono lunghe, complesse e imprevedibili. Quando alla fine si affermeranno nuovi equilibri, difficilmente ne sarà protagonista il Partito democratico con la sua fisionomia di oggi.

Angelo Panebianco

16 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_16/panebianco-partito-delle-delusioni_5e948abc-f148-11df-8c4b-00144f02aabc.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Diciamo la verità sulla crisi
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2010, 11:51:18 am
RAZIONALITÀ POLITICA ED ECONOMICA

L'editoriale

Diciamo la verità sulla crisi


Se si leggono in controluce le tante analisi che gli economisti dedicano alla bufera che, dalla crisi greca a quella irlandese (ma Portogallo e Spagna sono già nel mirino), ha investito l'Europa monetaria, non è difficile scoprire quale sia oggi il vero nemico dell'euro, quello che ne minaccia la sopravvivenza: questo nemico è rappresentato dalla perdurante vitalità della democrazia.

Intendendo per tale l'unica democrazia che c'è, quella che, nonostante l'Europa, non si estende, continua a non estendersi, al di fuori dei confini nazionali. Sono le democrazie europee, necessariamente condizionate dagli orientamenti dei loro elettorati, a minacciare oggi la moneta unica. Quando si dice che fu la rigidità della cancelliera Angela Merkel, motivata dalla resistenza dell'elettorato tedesco a pagare per il malgoverno altrui, a fare precipitare la crisi greca e a trasformarla nel detonatore di una più vasta crisi dell'euro, si sta appunto dicendo che la democrazia entrò allora in rotta di collisione con le esigenze dell'Europa monetaria. Ed è ancora ai meccanismi democratici che si fa riferimento quando ci si interroga sull'eventualità che in Irlanda venga a mancare una maggioranza politica in grado di sostenere le misure di risanamento con effetti a catena sulla zona euro. O quando si attende col fiato sospeso una possibile sentenza della Corte costituzionale tedesca che dichiarando illegali i salvataggi dei Paesi in difficoltà tolga ogni residua difesa alla moneta unica.

Quando si dice che l'Europa è la nostra «casa comune» si dice una cosa vera ma incompleta. Bisognerebbe infatti precisare che questa casa comune è in realtà un condominio con ventisette appartamenti. I condomini, pur essendo obbligati a convivere, considerano davvero «casa» solo il loro appartamento mentre il condominio ha valore ai loro occhi unicamente per i servizi che riesce a garantire a ciascun condomino. Come in tutti i condomini, hanno più onori e oneri i proprietari di appartamento che dispongono di più millesimi. E, come in tanti condomini, si litiga, si cerca di scaricare il più possibile sugli altri i costi dei servizi comuni. Come spesso accade, inoltre, i condomini più sciatti, meno virtuosi (quelli che danneggiano il giardino o dimenticano aperti i rubinetti dell'acqua provocando danni negli appartamenti vicini) cercano di scaricare, in tutto o in parte, i costi della loro sciatteria sui condomini virtuosi.

L'immagine del condominio ci aiuta a mettere a fuoco un fatto che, parlando d'Europa, non bisognerebbe mai dimenticare, ossia la circostanza per cui i francesi, i tedeschi, e tutti gli altri (persino noi italiani), a oltre mezzo secolo dall'inizio del processo di integrazione europea, continuano a considerare la loro appartenenza nazionale molto più importante della loro comune appartenenza europea. Il «noi» Stato - nazionale (Francia, Germania, Spagna, eccetera) resta assai più sentito del «noi» Europa. E anche dove, come in Italia, le lacerazioni interne sono profonde (e lo stesso Stato unitario viene sempre più spesso messo in discussione) ciò non comporta affatto la sostituzione dell'identità nazionale con una identità europea. Per questo, le democrazie nazionali restano forti e vitali e il loro orizzonte non è al momento superabile.

Va precisato, per coloro che tendono a confondere giudizi di fatto e giudizi di valore, che qui si sta constatando un fatto senza fare apprezzamenti. Dal momento che è una scelta saggia guardare ai fatti per come sono, anche quando non ci piacciono, piuttosto che girare la testa dall'altra parte.

Possiamo spiegare la suddetta circostanza in vari modi. Possiamo vedervi il frutto di una eredità storica che continua a indirizzare le lealtà dei cittadini verso simboli nazionali. Oppure, possiamo spiegarla in termini di calcoli e convenienze: si preferiscono centri decisionali nazionali perché danno ai cittadini l'illusione di essere da loro più controllabili, e quindi più attenti ai loro interessi, rispetto a un lontano centro decisionale europeo. Comunque sia, resta che, stante la vitalità della democrazia nazionale, i leader devono continuare a rispondere ai loro elettori e che meccanismi democratici di centralizzazione delle decisioni e di legittimazione del potere a livello europeo non possono facilmente sostituirsi a quelli nazionali. È anche la ragione per la quale la Germania, frustrando l'aspettativa di tanti, non riesce ad essere il leader dell'Europa: un leader è tale se sa farsi carico delle esigenze degli altri, ma i governi tedeschi, come tutti i governi democratici, sono obbligati a mettere al primo posto le esigenze dei loro elettori.

Quando nacque l'euro tutti pensarono che esso non avrebbe retto nel lungo periodo senza un salto di qualità sul piano dell'integrazione politica. L'euforia di quei giorni spinse però molti a scommettere che sarebbe stata proprio la moneta unica, in virtù dei benefici che era in grado di dispensare, a fare prima o poi il miracolo, a obbligare gli europei a crearle un contraltare, o un contenitore, politico. Fu un calcolo sbagliato.

Se le cose stanno così, per salvare l'euro, dovremo inventarci cose diverse da quelle che di solito vengono proposte. È inutile continuare a inseguire il miraggio degli Stati Uniti d'Europa, di una democrazia continentale che oggi (per il futuro si vedrà) gli europei non vogliono e non chiedono. Meglio, senza ipocrisie, fare appello alle convenienze: conviene a tutti, anche agli elettori tedeschi, che l'euro non affondi. E sperare che, passata in un modo o nell'altro la nottata, si ricostituisca la compatibilità, oggi perduta, fra la razionalità politica (democratica) e la razionalità economica.

Angelo Panebianco

28 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_28/panebianco_75bbd4e4-fac5-11df-abbf-00144f02aabc.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Una proposta a Berlusconi
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 11:59:25 am
SCENARI PER IL 14 DICEMBRE

Una proposta a Berlusconi

Sull'Italia incombono in questo momento due crisi, una già in atto, politica, e una alle porte, istituzionale. La crisi politica, e lo spettro della crisi istituzionale, a loro volta, rischiano di innescare, a brevissimo termine, una terza crisi, di natura finanziaria.
La crisi politica è legata al venir meno della maggioranza parlamentare senza che esista una credibile alternativa.

La crisi istituzionale nasce dal fatto che la leadership di Silvio Berlusconi intorno alla quale, e contro la quale, si è fin qui organizzato l'intero sistema degli equilibri politici, non ha cambiato in quindici anni l'inadeguata architettura costituzionale della Repubblica: un assetto, ricordiamo, che si è tentato di riformare inutilmente per un trentennio, fin dai tempi in cui Bettino Craxi lanciò il progetto, poi fallito, della Grande Riforma. La leadership di Berlusconi, con la formidabile concentrazione di potere personale sempre contrastata, però, da fortissimi contropoteri, quello giudiziario in primo luogo che l'ha caratterizzata, ha fino ad oggi nascosto agli occhi dei più, sia fra i sostenitori che fra i suoi nemici, il problema istituzionale sottostante. Riassumibile in questi termini: non solo non esistono più i grandi partiti di massa che facevano da collante del sistema politico ma non esiste nemmeno alcun antidoto istituzionale che possa frenare, una volta uscito di scena Berlusconi, una frammentazione e una diffusione del potere incontrollate; un antidoto che possa impedire la formazione di governi di destra o di sinistra diversi, per coesione e capacità d'azione, dall'ultimo governo Prodi.

In altri Paesi, dove le istituzioni favoriscono la formazione di governi stabili a prescindere dalle persone, l'uscita di scena di un leader non crea sconvolgimenti. E non è vero che la fine di un ciclo che ha visto al comando un leader forte sia sempre sanzionata da una sconfitta elettorale. Tanto Charles de Gaulle in Francia che Margaret Thatcher in Gran Bretagna lasciarono il potere senza sconfitta elettorale de Gaulle perse un referendum, non le elezioni quando venne meno il consenso di cui godevano, soprattutto presso le classi dirigenti.

In Italia, per l'assenza di istituzioni in grado di garantire il passaggio delle consegne da un leader e da un governo forti a un altro governo altrettanto forte, le cose stanno diversamente. È questa condizione che fa della crisi politica in atto il detonatore probabile di una crisi istituzionale. E poiché i mercati finanziari ci vedono e ci sentono benissimo, questa doppia crisi ci mette nelle condizioni di essere tra le prossime vittime del terremoto che ha investito l'eurozona. Con una differenza rispetto agli altri Paesi già terremotati Grecia, Irlanda o sul punto di esserlo, una differenza che va a merito dell'azione svolta in questi anni dal governo in carica. Se finiremo nella morsa della crisi finanziaria non sarà perché il governo in carica ha mal governato l'economia. Sarà perché la crisi politico-istituzionale avrà aperto un varco che renderà possibile l'aggressione a un Paese oberato da un grande debito pubblico, da una fragilità economico-finanziaria che viene da lontano. Insomma, piove sul bagnato, la crisi politica non poteva presentarsi in una situazione internazionale peggiore.

Berlusconi è chiuso nel bunker in attesa del fatidico 14 dicembre.
Non ha un partito che possa imporgli di vedere ciò che non vuole vedere: ossia che, qualunque cosa accada il 14 dicembre, che egli non ottenga la fiducia o che la ottenga, sarà comunque in grossissimi guai. E il Paese con lui. Anche perché, dal punto di vista degli interessi del Paese, la data che più conta non è il 14 ma il 16 dicembre, quando si riunirà il Consiglio europeo per tentare di frenare lo smottamento in corso nell'Europa monetaria, per arginare il contagio. Se arriveremo all'appuntamento con un governo dimissionario o con un governo azzoppato, in sella solo per un paio di voti fortunosamente acchiappati, ci troveremo con la gola scoperta, pronta per essere azzannata, non potendo prendere impegni credibili che spengano la sete di sangue dei mercati.

Il dilemma di Berlusconi, a meno che egli non abbia il coraggio di sparigliare le carte, è semplice: se verrà battuto otterrà forse le elezioni ma con forti probabilità di non riuscire a vincerle, per lo meno al Senato, stante la legge elettorale in vigore. In caso di elezioni, è più facile scommettere sull'ingovernabilità che sulla formazione di una maggioranza coerente. Se invece il 14 dicembre Berlusconi otterrà la fiducia, si tratterà di una vittoria illusoria. Non potrà guidare un governo stabile ed efficiente se lo scarto a suo favore risulterà di pochi voti. Con il 51 per cento non si governa, diceva Enrico Berlinguer. È ancora così (in Parlamento almeno) ed è una delle nostre maggiori patologie. Anche in caso di fiducia, Berlusconi non risolverebbe dunque il problema del governo.

E allora che fare? È comprensibilissimo che Berlusconi voglia salvare una esperienza di governo che ha avuto, oltre ad aspetti negativi, anche diversi aspetti positivi. E che voglia anche difendere, in un Paese abituato ad adulare i vincitori e a calpestare i vinti, una esperienza politica personale che dura dal 1994. Ma se vuole tutto questo deve per forza uscire dal bunker. Deve avere il coraggio di offrire ai «terzopolisti», in nome dell'emergenza nazionale, un Berlusconi bis incardinato su poche e chiare proposte: oltre a mantenere l'impegno sul federalismo, deve assicurare interventi sull'economia (concordati sia con Tremonti che con Fini) che rassicurino i mercati e aprano vere prospettive di sviluppo. Deve offrire, inoltre, una disponibilità alla riforma elettorale: con l'unico vincolo che, a differenza di quelle fin qui ventilate, sia una riforma che salvaguardi il bipolarismo (cosa che Fini ha più volte detto di volere). E deve accantonare il tema della giustizia: non perché di una riforma della giustizia non ci sia bisogno (chi scrive pensa che sarebbe necessaria, eccome) ma perché è un fatto che Fini non la vuole e altri conflitti su quell'argomento, mentre il Paese rischia di incappare in una crisi finanziaria, risulterebbero incomprensibili agli italiani. Se poi la proposta verrà rifiutata, allora Berlusconi avrà almeno la possibilità di lasciare il terzo polo con il cerino acceso in mano, ad assumersi la responsabilità di una crisi al buio in un frangente così difficile.

Quella qui immaginata ci sembra l'unica possibile scelta saggia per Berlusconi, l'unica che potrebbe forse fare uscire il Paese dal cul de sac in cui si trova. Bisognerebbe però che Berlusconi trovasse in sé quelle risorse di saggezza e di coraggio che i leader raramente trovano nella fase declinante del loro ciclo politico.

Angelo Panebianco

05 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le elezioni che verranno
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2010, 02:31:36 pm
I LEADER E LE REGOLE DEL VOTO

Le elezioni che verranno


Lo sbocco politico dell'attuale situazione sembra inevitabile: elezioni a primavera, con il rischio che ci consegnino un Parlamento ingovernabile, senza una maggioranza stabile. Ma se gli attori che contano riuscissero a mettere da parte i tatticismi e a ragionare in termini strategici, ecco che potrebbe aprirsi una fase interessante, utile per il Paese.

Dopo il «ritiro» per k.o. tecnico sul voto di fiducia di Gianfranco Fini, sono solo tre i lottatori rimasti in gara: Berlusconi, Bossi e Casini. Le loro scelte decideranno il futuro. Bossi vuole le elezioni? Sembra di sì, lo ha ripetuto ieri. Sa che avrebbe un forte successo elettorale ma, essendo un politico lungimirante, sa anche che correrebbe dei rischi. Se i consensi per il suo alleato Berlusconi franassero al Sud e si formasse una nuova maggioranza imperniata sui centristi e sulla sinistra, Bossi si troverebbe escluso dal governo, forse per un periodo lungo. La sua promessa di federalismo diventerebbe via via meno credibile agli occhi degli elettori leghisti. Se così è, la partita che più conta è quella fra Berlusconi e Casini.

Casini ha un grosso problema: deve decidere cosa fare da grande, quando Berlusconi uscirà di scena. Essendo poco plausibile che voglia diventare il nuovo Prodi del centrosinistra, deve scegliere: vuole essere in permanenza il leader di una piccola formazione centrista che contratta di volta in volta con la destra e con la sinistra o vuole entrare in una gara per la leadership di un centrodestra alternativo alla sinistra? Vecchi riflessi democristiani lo spingono verso la prima opzione, la sua storia personale dovrebbe rendergli più attraente la seconda. Ma il presupposto di una gara per la leadership del centrodestra è che il centrodestra continui a esistere, che non si disgreghi.

Anche Berlusconi ha un grosso problema. Non vuole solo vincere le prossime elezioni e al Senato, con questa legge elettorale, difficilmente potrà vincerle. Deve anche mettere in sicurezza il Popolo della Libertà, assicurarsi che la sua eredità politica non si disperda al vento quando l'età gli imporrà di ritirarsi.

La soluzione, se c'è, passa per un cambiamento della legge elettorale sul quale possano incontrarsi, con diverse motivazioni, Berlusconi e Casini. Spetta a Berlusconi la prima mossa. Lui dovrebbe aprire le trattative. Ponendo però una condizione: che il bipolarismo venga preservato solo così potrà sopravvivere il centrodestra. Ciò significa chiedere a Casini, non di rinunciare al suo progetto neo-centrista, ma di ricalibrarlo, adattandolo a una condizione di perdurante bipolarismo. Casini potrebbe anche trarre ispirazione dalle sagge parole pronunciate recentemente su questi argomenti dal cardinale Camillo Ruini.

Le proposte fino ad oggi formulate dagli avversari della legge elettorale vigente andavano tutte nel senso della archiviazione dell'esperienza bipolare/maggioritaria dell'ultimo quindicennio. Quella archiviazione è l'obiettivo dei proponenti del cosiddetto «sistema tedesco». Ma è anche lo scopo di proposte apparentemente più modeste. Ad esempio, chiedere di conservare la legge attuale ma con un premio di maggioranza che si ottiene solo superando una certa percentuale di voti il 40 o il 45 per cento significa voler far rivivere al Paese l'esperienza del 1953 quando non scattò quel premio di maggioranza, voluto da Alcide De Gasperi, che la propaganda antidemocristiana dell'epoca definiva «legge truffa».

Significa voler dare vita a un sistema proporzionale da Prima Repubblica, mandare in cavalleria il bipolarismo, scompaginare centrodestra e centrosinistra. Significa puntare a un grande raggruppamento parlamentare «di centro» inamovibile, arbitro e protagonista - quale che sia, di volta in volta, il voto espresso dagli italiani - di qualunque possibile combinazione di governo.

Non è un progetto lucido. Non può infatti offrire garanzie di stabilità al Paese. Essendo ormai svaniti i partiti di massa, radicati nella società, che facevano da collante alla Prima Repubblica, il progetto neocentrista ci consegnerebbe un Parlamento allo sbando, un ritorno alle pratiche trasformiste del parlamentarismo ottocentesco, una maionese impazzita. Casini è troppo accorto per non rendersene conto. Per questo, potrebbe riconsiderare le sue idee in materia elettorale se Berlusconi facesse una buona proposta.

Berlusconi, dando retta ai fautori da sempre di questa soluzione come Marco Pannella e Mario Segni, dovrebbe farsi promotore del ritorno ai collegi uninominali e di una riforma compiutamente maggioritaria. Non dovrebbe farsi bloccare dalla vecchia idea secondo cui i collegi uninominali sarebbero poco adatti al centrodestra dal momento che esso dispone di un personale politico meno esperto, meno spendibile nei collegi uninominali, di quello di cui dispone la sinistra. Sia perché, rispetto agli anni Novanta, il personale della destra è diventato più esperto sia perché, su questo stesso piano, la sinistra è assai meno forte di un tempo. Con i collegi uninominali, destra e sinistra se la giocherebbero alla pari. In astratto, le scelte possibili sono tre. La prima è il maggioritario a un turno (il sistema britannico). Ma quel sistema piace solo a chi scrive e a pochi altri. Non è una opzione praticabile. Restano allora due possibilità: un maggioritario a doppio turno di tipo francese (con una soglia di esclusione alta fra primo e secondo turno) oppure quella variante del sistema elettorale australiano di cui chi scrive ha già dato conto ai lettori del Corriere il 12 ottobre scorso.

È, quest'ultima, una proposta suggerita da un gruppo di lavoro coordinato da Pietro Ichino (Pd) e a cui Stefano Ceccanti (anche lui del Pd) ha dato recentemente forma in un progetto di legge presentato al Senato: un maggioritario a turno unico ma con la facoltà per l'elettore di esprimere due voti anziché uno soltanto (una prima e una seconda scelta). Evitando i tecnicismi e detto in modo un po' approssimativo: in ciascun collegio vince il seggio il candidato che ottiene la maggioranza assoluta sommando prime e seconde scelte.

Con l'uno o l'altro sistema verrebbe preservato il bipolarismo ma le seconde e terze forze avrebbero buone chance di affermazione. Berlusconi disporrebbe di uno strumento più adatto della legge elettorale attuale per affrontare le prossime elezioni e metterebbe in salvo la sua eredità politica. Casini, a sua volta, potrebbe aspirare, per questa via, a svolgere in futuro un ruolo simile a quello che ebbe in Francia Giscard d'Estaing anziché ritrovarsi nella condizione dell'involontario genitore di un neotrasformismo parlamentare ormai fuori tempo massimo.

Angelo Panebianco

19 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Titolo: Angelo PANEBIANCO. La nostalgia dei conservatori di sinistra
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2010, 10:43:11 am
L'EDITORIALE

La nostalgia dei conservatori di sinistra

C'è qualcosa che accomuna l'opposizione della Fiom all'accordo Fiat-sindacati su Mirafiori e quella del Partito democratico alla riforma Gelmini dell'università, appena varata dalla maggioranza di governo. Sono le due più recenti manifestazioni di quella strenua difesa dello statu quo in qualunque ambito della vita sociale, politica, istituzionale, che è ormai da tempo la più evidente caratteristica della sinistra italiana, nella sua espressione sindacale come in quella politico-parlamentare. Si tratti di scuola, di rapporti di lavoro, di magistratura, di revisioni costituzionali o quant'altro, non c'è un settore importante della vita associata in cui il conservatorismo della sinistra non si manifesti con forza.

Forse ciò aiuta a spiegare una circostanza che sarebbe altrimenti incomprensibile: il fatto che l'opposizione di sinistra non si sia minimamente avvantaggiata in questi anni, stando ai sondaggi, delle gravi difficoltà di un governo che ha dovuto fronteggiare le conseguenze della crisi mondiale e che è stato inoltre investito da scandali e furibonde divisioni. Tanto è vero che tutti continuano a prevedere, in caso di elezioni, una vittoria (quanto meno alla Camera) del centrodestra.

La domanda che la sinistra italiana dovrebbe porsi è la seguente: perché nemmeno la forte disillusione di tanti italiani nei confronti di Berlusconi, il fatto che ormai più nessuno creda nella «rivoluzione liberale» sempre promessa e mai attuata spostano a sinistra l'asse politico del Paese? Può essere che la risposta giusta sia la seguente: dovendo scegliere fra ciò che ritiene un male (Berlusconi) e ciò che ritiene un male ancora maggiore (la sinistra), il grosso degli italiani continua a optare per la minimizzazione del danno, per il male minore. Una delle ragioni, forse, è che, tolta una cospicua ma minoritaria area di conservatori a oltranza, la maggioranza relativa degli italiani pensa che stare fermi condannerebbe il Paese alla decadenza economica e sociale e che risposte magari insufficienti, o anche sbagliate, ai problemi collettivi, siano comunque preferibili alle non risposte.

Ci sono due modi per fare opposizione a un governo. Il primo consiste nel contrapporre ai progetti governativi di modifica più o meno profonda dell'esistente, proposte diverse, che ovviamente si giudicano migliori, di modifica altrettanto o anche più profonda. Il secondo consiste nel difendere l'esistente. Quest'ultima è stata la scelta della sinistra in quasi tutti i campi di interesse collettivo. Ne è derivata una paurosa mancanza di idee nuove sul che fare, una mancanza di idee che ha fatto subito appassire la rosa appena sbocciata del Partito democratico.

Non è facile ricostruire le cause del conservatorismo della sinistra. Forse, una delle più importanti, è l'evidente nostalgia per la cosiddetta Prima Repubblica, che poi altro non è se non nostalgia per i tempi in cui la sinistra era rappresentata da un grande partito il Pci, rispettato e temuto da tutti, capace, pur dalla opposizione, di influenzare potentemente la vita pubblica e i costumi collettivi. Non avendo mai fatto davvero i conti con la storia comunista, la sinistra italiana, o ciò che ne resta, non ha saputo nemmeno fare i conti con tutto ciò che non andava nella Prima Repubblica. Ha finito per idealizzarla. Solo così si spiega il fatto che la sua opposizione alla destra sia sempre stata improntata al seguente ritornello: sono arrivati i barbari, i quali stanno distruggendo tutto ciò che di buono avevamo. Ma davvero era così buono ciò che avevamo? No, non lo era. Quasi tutti i problemi che ci attanagliano oggi (ne cito tre: debito pubblico, cattiva qualità dell'istruzione, cattivo funzionamento della giustizia) sono il frutto di pessime scelte della troppo mitizzata classe politica della Prima Repubblica, almeno dagli anni Settanta in poi. Il punto è che quella mal riposta nostalgia ha finito per alimentare una ideologia conservatrice, che si traduce nella pura e semplice difesa dalle minacce portate dai barbari di ciò che la Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità. C'è poi, certamente, a spiegazione del conservatorismo, una ragione più generale. Fronteggiare i nuovi problemi, dall'invecchiamento della popolazione alla immigrazione, alla accresciuta competizione internazionale, significa dare risposte creative che rimettano in discussione molte soluzioni del XX secolo che si ritenevano a torto definitivamente acquisite.

Non essendo in grado di trovare risposte creative, la sinistra si è ridotta a giocare solo sulla difensiva. C'è chi pensa che il conservatorismo della sinistra venga da lontano, sia una eredità di quella incapacità di fare i conti con la modernità che caratterizzava il vecchio Partito comunista: fu proprio in polemica col Pci, oltre che con la Dc, che i socialisti craxiani si appellarono allora a una idea di modernità che avrebbe dovuto far circolare in Italia aria nuova. Ma è vero che ci sono stati anche momenti (diverse importanti decisioni del primo governo Prodi ne sono un esempio) in cui la sinistra ha saputo, sia pure con fatica, uscire dal recinto della conservazione sociale. E, comunque, non ha mai potuto perseguire la vocazione conservatrice, sua o del suo elettorato, senza pagare il prezzo di aspri conflitti interni. Ciò forse spiega anche la sua nota schizofrenia: finché si tratta di gestire, assieme alla maggioranza, nel chiuso delle commissioni parlamentari, certi provvedimenti, la sinistra può anche esibire fervore riformista. È costretta però a metterlo da parte (il caso della riforma Gelmini è esemplare) non appena deve fare i conti con le sollecitazioni della parte più chiusa e conservatrice del suo elettorato. Forse il discorso di Walter Veltroni al Lingotto, con il quale si inaugurò la segreteria del neonato Partito democratico, è stato l'ultimo tentativo (poi fallito come a suo tempo fallì il tentativo craxiano) di disegnare i contorni di una sinistra non conservatrice. Dopo di che, il nulla. In altri Paesi, sinistre messe alle corde sono state capaci di reagire e di rinnovarsi, di inventarsi idee nuove e proposte. La sinistra italiana ne sembra incapace. Continua a denunciare i barbari per evitare di parlare a se stessa e al Paese di progetti per il futuro.

Angelo Panebianco

29 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_29/la-nostalgia-dei-conservatori-di-sinistra-angelo-panebianco_e5574c82-1318-11e0-8894-00144f02aabc.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Luoghi comuni tra Nord e Sud
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2011, 05:27:21 pm
Il commento

Luoghi comuni tra Nord e Sud


Umberto Bossi ha indicato date precise: fra il 17 e il 23 gennaio deve passare il «federalismo», ossia il decreto attuativo più importante, sul fisco municipale. Altrimenti, non resterà che il voto.
La scissione dei finiani non è stata in grado di abbattere il governo ma lo ha reso debolissimo nelle Commissioni parlamentari della Camera. Non è facile che il provvedimento passi. Soprattutto, non è facile che passi senza stravolgimenti e senza dilatazione delle spese.

Dalle notizie che circolano, sembra inoltre che non ci sia al momento la disponibilità del ministro Giulio Tremonti ad accettare le condizioni (quoziente familiare, cedolare secca sugli affitti) poste dall'Udc di Pier Ferdinando Casini per votare a favore. I giochi sono aperti e tutto da qui alla fine di gennaio può accadere. Per dare un giudizio fondato su che cosa sarà davvero (se sarà) il federalismo in Italia bisognerà aspettare di vedere quale provvedimento, con quali caratteristiche, verrà alla fine varato. Gli esperti sono al momento divisi, danno giudizi discordanti. C'è chi parla di tradimento delle intenzioni federaliste originarie, chi pensa che tutto si risolverà in una partita di giro, un passaggio di mano fra centro e periferia dell'esazione dei tributi, congegnato in modo da non favorire la responsabilizzazione fiscale degli enti locali, e chi invece sostiene che, per l'essenziale, ciò che si sta per varare sia autentico federalismo fiscale.

Se guardiamo alle condizioni politiche generali dobbiamo osservare come esse non siano affatto favorevoli alla complessa trasformazione denominata «federalismo fiscale». Il rischio più forte è che ne esca ulteriormente esasperata la divisione fra Nord e Sud. Si considerino i fatti: o il federalismo fiscale sarà una cosa seria, e allora comporterà tagli drastici alle capacità di spesa di molti comuni del Sud (oltre che di qualche comune del Nord), o questo non avverrà e sarà allora una farsa, una partita di giro appunto. Ma se tagli drastici alle capacità di spesa degli enti locali del Sud ci saranno, come sarà possibile conservare il consenso politico necessario nel lungo arco di tempo richiesto per portare il federalismo a regime?

Se sarà solo una partita di giro, le regioni produttive del Nord si sentiranno prese in giro e si accentuerà il loro distacco politico-psicologico dal Sud. Se sarà una cosa seria, provocherà probabilmente la rivolta politica di ampia parte del Sud.

Il federalismo richiederebbe una collaborazione senza remore fra le varie aree del Paese, una disponibilità a rimettersi in gioco dove è maggiore il ristagno economico e il fardello di politiche sbagliate unita alla assenza di atteggiamenti inutilmente punitivi da parte delle regioni più produttive e ricche. Collaborazione e disponibilità che non ci sono state. I segnali, anzi, sono di segno opposto. Sono di questi giorni le notizie sulle massicce assunzioni di precari da parte della giunta Lombardo in Sicilia. Nel rigoroso rispetto della tradizione. Ancora qualche anno fa si poteva immaginare il coinvolgimento del Sud in un percorso virtuoso di risanamento, la sua disponibilità a uno scambio fra meno risorse oggi e più sviluppo domani. Adesso che sono sorte varie Leghe Sud, quella ipotesi è meno credibile. Comunque vada l'iter parlamentare, si può scommettere che le prossime elezioni si giocheranno già tanti scaldano i muscoli a destra e a sinistra sul pericoloso crinale che contrappone Nord e Sud.

Angelo Panebianco

06 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_06/luoghi-comuni-tra-nord-e-sud--angelo-panebianco_b30f9e12-195a-11e0-b4e1-00144f02aabc.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I Nemici della Crescita
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2011, 05:17:36 pm
LA FORZA DI CHI NON COMPETE

I Nemici della Crescita


Due giorni fa il presidente Giorgio Napolitano ha esortato la politica ad assumere come obiettivo prioritario l'impegno a sostenere la crescita economica. Ma la politica è al momento troppo distratta da altre cose per dare a quell'appello l'importanza che merita. Inoltre, in una società abituata da troppo tempo a livelli di crescita più bassi dei propri dirimpettai e concorrenti si fatica a comprendere che assenza di sviluppo o sviluppo stentato configurano una vera e propria emergenza nazionale, finiscono alla lunga per avere conseguenze disastrose per qualsiasi società. Non importa quanto quella società sia ricca. Senza crescita, una società consuma più ricchezza di quanta ne produca e finisce su un piano inclinato al termine del quale ci può essere solo un impoverimento complessivo con gravi effetti sociali e gravi contraccolpi politici.

Per rilanciare lo sviluppo devono essere soddisfatte due esigenze: la prima riguarda il mondo delle imprese e il comportamento degli attori che operano in quel mondo, imprenditori e sindacati. La seconda riguarda le pratiche e i comportamenti di tutti gli altri attori sociali, politici e istituzionali. La prima esigenza è che i comportamenti dei soggetti dell'impresa siano coerenti con le condizioni in cui si svolge la concorrenza di mercato.

L'azione dell'amministratore delegato Fiat Sergio Marchionne, i referendum a Pomigliano e a Mirafiori, e la spaccatura fra la Fiom e gli altri sindacati hanno innescato una reazione a catena che sta investendo le relazioni industriali nel loro complesso, i soggetti che le animano, nonché, in prospettiva, i rapporti fra quei soggetti e la politica. Le nuove condizioni della competizione nel mercato globale - la cosiddetta, e malamente detta, globalizzazione - fanno saltare le vecchie pratiche «neo-corporative» (le varie forme di concertazione centralizzata a livello nazionale) e inevitabilmente cambiano anche la natura dei soggetti organizzati in campo, dalla Confindustria ai sindacati. Questi ultimi si dividono, forse definitivamente, fra quelli che accettano la sfida della competizione globale (e che puntano ad avere più salario in cambio di più produttività) e quelli che non la accettano e per questo rilanciano l'antica contrapposizione frontale fra capitale e lavoro. Dal punto di vista dell'interesse collettivo la ristrutturazione in atto sembra andare nella direzione giusta: attrezzando le imprese per la competizione globale essa spinge sul pedale della crescita.

Però, che il mondo delle imprese si dia da fare per competere sui mercati globali è solo una condizione necessaria per rimettere in moto lo sviluppo. Non è affatto una condizione sufficiente. Occorre anche che gli altri attori societari, quelli non direttamente esposti alla competizione, adeguino i loro comportamenti. Ciò è molto più difficile perché questi attori, a differenza delle imprese, hanno un rapporto mediato, e non diretto, con il mercato e le sue dure regole competitive. Soffrono anch'essi della mancanza di crescita ma non operano in prima linea: lavorano nelle retrovie, non hanno una visione diretta e immediata di ciò che accade al fronte. Protestano quando si accorgono che non ci sono più soldi per investimenti nei servizi o si oppongono ai tagli ma, in genere, non mettono in relazione la mancanza di risorse con il mancato o debole sviluppo.

Le ragioni per cui un Paese smette di crescere possono essere tante ma una delle migliori spiegazioni fa leva sul ruolo dei vested interests, degli interessi costituiti che danno vita a forti «coalizioni distributive», tese, cioè, a distribuire la ricchezza esistente anziché ad allargare la torta della ricchezza. Secondo questa interpretazione un Paese smette di crescere o ha una crescita troppo bassa quando le coalizioni distributive presenti sono più forti delle coalizioni produttive, di coloro che hanno interesse allo sviluppo. Per Mancur Olson, l'economista che propose questa interpretazione, così si spiega il fatto che negli anni Cinquanta il Giappone, l'Italia e la Germania abbiano sperimentato un boom economico mentre, nello stesso periodo, la Gran Bretagna arrancava penosamente. In quei tre Paesi la guerra non si era limitata a distruggere le infrastrutture materiali. Ne aveva anche distrutto le infrastrutture sociali, spazzando via le preesistenti coalizioni distributive. In Gran Bretagna ciò non era accaduto. Da qui la differenza.

Colpire rendite e mercati protetti è difficilissimo perché significa indebolire coalizioni distributive che nel nostro Paese sono diventate col tempo assai potenti. La loro forza era la principale causa della debole crescita economica anche prima che scoppiasse la crisi mondiale. Finita la crisi, se non si agirà per ridimensionarle, la condizione di bassa crescita persisterà.

Se l'obiettivo prioritario deve essere lo sviluppo economico, allora ogni intervento di riforma va finalizzato allo scopo. Prendiamo il caso del federalismo. Se ben congegnato, in teoria, può responsabilizzare i territori nell'uso del denaro pubblico, ridurre lo spazio per il consumo parassitario di risorse. Se fosse mal congegnato darebbe ragione a chi (Dario Di Vico, sul Corriere di ieri; Mario Deaglio sulla Stampa del 24 gennaio) teme effetti esattamente contrari: innalzamento della pressione fiscale, nuove opportunità di sfruttamento della ricchezza prodotta da parte di ceti parassitari locali: un rafforzamento, anziché un indebolimento, delle già forti coalizioni distributive. Sarà in grado la classe politica di fare una riforma federalista credibile da questo punto di vista? Se non serve allo scopo, allora è davvero meglio lasciar perdere.

Angelo Panebianco

27 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_27/panebianco-nemici-della-casta_1e853924-29da-11e0-88f8-00144f02aabc.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'Occidente si illude di contare
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2011, 06:39:28 pm

L'Occidente si illude di contare

Barack Obama sarà ricordato come un nuovo Jimmy Carter, il presidente che «perse» l’Iran, che subì la rivoluzione khomeinista del 1979? Forse, ma l’ironia sta nel fatto che se questo sarà il suo destino, non sarà lui a forgiarlo, non dipenderà da lui. Dipenderà da come evolverà la situazione in Egitto e negli altri Paesi mediorientali in ebollizione. Nonostante tanti commenti che in Occidente sostengono il contrario, è davvero poco ciò che l’America, per non parlare dell’Europa, può fare in questo frangente. Il destino dell’Egitto è in larghissima misura alla mercé delle scelte che prenderanno, in risposta ai moti popolari, gli attori egiziani che contano. Più che «auspicare » e «suggerire» (e tenere incrociate le dita) gli occidentali non possono fare. Per aver chiara quale sia la reale capacità di incidenza dell’America basti pensare al Pakistan: sia sotto Bush che sotto Obama l’America lo ha ricoperto di dollari senza però mai ottenere che esercito e servizi segreti pachistani smettessero di appoggiare i talebani.

È un aspetto della sopravalutazione delle capacità di controllo degli eventi da parte degli occidentali anche la discussione sulla mancata previsione di cosa stava accadendo. Che «prima o poi» le dittature, anche quelle che sembrano più solide, cadano, è inevitabile. Ma nessuno può pronosticare quando prima e quando poi. Molto spesso le dittature hanno una vita lunghissima. Non raramente sopravvivono anche alle crisi di successione.

L’unica cosa che, in termini molto generici, si poteva prevedere, e che difatti era stata ampiamente prevista, è che la crisi economica mondiale avrebbe alla lunga destabilizzato, qua e là, diversi regimi dittatoriali. La ragione è semplice: le dittature si garantiscono la stabilità «pagando in contanti» l’acquiescenza, distribuendo a cascata risorse a settori strategici della popolazione (è anche la ragione per la quale in quei regimi lo Stato è massicciamente presente nella economia). La crisi mondiale, riducendo il flusso di risorse, aveva ottime probabilità di gonfiare in diversi luoghi malcontento e opposizione facendo emergere per di più il peso della corruzione.Ma nessuno (nemmeno gli specialisti, gli studiosi dei singoli Paesi) era in grado di dire dove e quando sarebbero esplose proteste così forti da far cadere il regime. La slavina, partita dalla piccola Tunisia, ha investito l’Egitto, ma anche altri Paesi, come Algeria, Giordania, Yemen, sono coinvolti. Poiché l’Egitto è il più importante Stato dell’area, è sull’intero Vicino e Medio Oriente che la sua evoluzione interna inciderà. Il mondo occidentale vive questi eventi in preda a una profonda incertezza. Il Medio Oriente è da sempre il suo nervo scoperto, il suo tallone d’Achille: perché lì c’è Israele, perché lì c’è il petrolio, perché lì ci sono alcuni fra i suoi più inflessibili nemici. Se l’auspicio degli iraniani si realizzasse, se le forze dell’islamismo radicale prevalessero nei principali Stati dell’area (che accadrebbe il giorno in cui quelle forze riuscissero a vincere in Arabia Saudita?) sarebbe per tutti noi un disastro di proporzioni inimmaginabili.

Se si può fare poco per condizionare gli eventi, che almeno quel poco non consista di plateali errori. Obama ne ha già fatti quando, in polemica con la politica del suo predecessore, ha demoralizzato gli oppositori democratici del regime di Mubarak e di altre dittature mediorientali, togliendo ai gruppi interessati alla democrazia appoggio morale e finanziario. È evidente che una democratizzazione dell’Egitto e di altri Paesi dell’area è auspicabile. Non solo perché le persone vivono molto meglio nelle democrazie che nelle dittature. Anche perché le democrazie stabili (se e quando riescono a diventare stabili), a meno che non debbano lottare per la sopravvivenza, non esportano, in genere, troppa aggressività. Ma la democratizzazione è un processo difficilissimo. Può finire nel caos. Oppure, attraverso la democratizzazione, possono arrivare al potere forze illiberali (Hamas vinse regolarmente le elezioni a Gaza). In un contesto esplosivo come il Medio Oriente l’avvento di democrazie illiberali non significa pace ma guerra e catastrofi. L’incertezza occidentale ha dunque buone giustificazioni.

Tra gli errori che bisognerebbe evitare c’è anche quello di cadere nelle trappole propagandistiche che vengono tese da chi ha interesse a confondere ancor di più il già confuso mondo occidentale. È già cominciata sui mass media una operazione pubblicitaria tesa a «vendere» i Fratelli musulmani come un interlocutore tutto sommato accettabile per noi. In fondo, si dice, a differenza di Al Qaeda, non mettono (più) bombe. Ma il fatto che non mettano più bombe, che abbiano da tempo rinunciato alla violenza, non ne fa affatto un interlocutore. Ideologicamente non sono diversi da Al Qaeda e una loro vittoria finale in Egitto (possibile — esercito permettendo — essendo la Fratellanza l’unica forza politica ramificata e organizzata della società egiziana) configurerebbe precisamente un esito illiberale in grado di spostare in senso antioccidentale l’asse dell’intero Medio Oriente.

Se alla fine, sciaguratamente, prenderanno il potere o avranno comunque una forte influenza su di esso, bisognerà per forza cercare di venirci a patti. Ma, almeno, evitiamo di insultare la nostra intelligenza accettando di considerarli una «forza democratica » o giù di lì.

Gli esiti della trasformazione in corso incideranno sugli equilibri mondiali. A cominciare dai rapporti fra Stati Uniti ed Europa. Se gli esiti saranno positivi, se, ad esempio, il post Mubarak si risolverà in una transizione controllata verso un assetto stabile e meno opprimente del regime oggi in crisi, tutto bene. Ma se dovessero vincere in Egitto e altrove forze islamiche radicali, è facile scommettere che fra America ed Europa crescerebbero incomprensioni e divisioni. Nonostante l’oscillante Obama, l’America dovrebbe per forza scegliere una linea di contrasto. Per fare quadrato in difesa di Israele e per difendere i propri interessi strategici. L’Europa, che ama poco Israele, e che è debole e spaventata, faticherebbe assai a seguirla.

Angelo Panebianco

03 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_febbraio_03


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La loro libertà, le nostre paure
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2011, 10:51:19 am

L'ONDA DELLA RIVOLTA

La loro libertà, le nostre paure

Ha osservato giustamente Sergio Romano (Corriere, 13 febbraio) quanto sia paradossale il fatto che gli occidentali, gioendo per la cacciata di Mubarak, si siano trovati ad applaudire un colpo di Stato militare. Ma non è il solo paradosso. C'è anche una particolare circostanza, al tempo stesso ironica e tragica (e anche, in qualche misura, «scandalosa»), che spiega l'atteggiamento ambivalente degli occidentali verso le rivoluzioni mediorientali, e che può essere così riassunta: come possiamo toglierci dalla testa il «cattivo pensiero» secondo cui, nel complicato contesto mediorientale, dittature corrotte e repressive siano state comunque una garanzia di pace, sia pure precaria, e che la (eventuale) democratizzazione di quei regimi, egiziano in testa, possa sfociare nella guerra? Da un lato, come si può non solidarizzare con le persone, per esempio con quei tanti ragazzi, scese coraggiosamente in piazza per chiedere libertà? Abbiamo fatto benissimo a solidarizzare con loro. Se non lo avessimo fatto, avremmo mostrato di non credere nei valori di libertà in cui diciamo di credere. E, inoltre, come indicano anche le notizie degli scontri in corso in Iran, il contagio democratico potrebbe (ma il condizionale è d'obbligo) riaprire i giochi perfino nel più pericoloso Stato teocratico. Dall'altro lato, come è possibile incanalare i processi in corso in modo che i cambiamenti di regime non siano il detonatore di nuove guerre?

Tra le cose che sappiamo sulle democrazie c'è il fatto che, una volta che si siano stabilizzate, difficilmente si faranno la guerra fra loro. Non è che siano sempre più pacifiche dei regimi autoritari. Sappiamo solo che raramente le democrazie stabili si aggrediscono. Da qui l'idea, visionaria e utopica, secondo cui in un mondo composto esclusivamente di democrazie stabili, la guerra scomparirebbe. Si badi che questa idea non è rimasta relegata nel chiuso delle discussioni accademiche. Ha ispirato anche l'azione di diversi presidenti americani, da Woodrow Wilson a Ronald Reagan, da Bill Clinton a George Bush jr. Se la democrazia liberale, o qualcosa che vi si avvicini, prevarrà nel mondo islamico, pensavano, ad esempio, i neoconservatori raccolti intorno a Bush, la regione verrà pacificata, non ci saranno più attentati come quello dell'11 settembre, e persino la pace fra Israele, palestinesi e mondo arabo diventerà possibile.

Le cose sono però più complicate. Ci sono due precisazioni da fare. La prima è che se le democrazie stabili tendono ad instaurare fra loro rapporti pacifici, la regola non vale per i regimi in transizione verso la democrazia. Anzi, esistono prove del fatto che i regimi in via di democratizzazione possano essere particolarmente aggressivi anche verso i vicini democratici. Fin quando la democrazia non si stabilizzerà, è alto il rischio che le neo-élite uscite dalle prime libere elezioni incanalino verso un nemico esterno le tensioni che sempre accompagnano i cambiamenti di regime. Croazia e Serbia erano Paesi in via di democratizzazione all'epoca delle loro guerre.

La seconda precisazione è che i processi di democratizzazione non sfociano necessariamente in democrazie liberali. Spesso generano democrazie illiberali, regimi ibridi che mettono insieme istituti liberali (elezioni più o meno libere) e istituti illiberali (regole emergenziali finalizzate alla repressione degli oppositori). Una democrazia illiberale può essere estremamente aggressiva verso l'esterno, più aggressiva di certi regimi puramente autoritari.

Se applichiamo al contesto egiziano queste considerazioni, possiamo constatarne la rilevanza. I militari si sono affrettati a rassicurare il mondo sul mantenimento del trattato di pace con Israele. Ma come possono garantire che questa condizione permarrà anche dopo libere elezioni, dopo l'installazione di un governo democratico in un Paese ove, come in tutte le piazze arabe, l'ostilità per Israele è radicata da decenni nel popolo? Tra l'altro, i trattati di pace, pur formalmente in vigore, possono essere abrogati di fatto: ad esempio, un governo democratico, che dovrà comunque fare i conti con una forte presenza parlamentare dei Fratelli musulmani, continuerà, come la dittatura di Mubarak, a collaborare con Israele nel contrasto alle azioni belliche di Hamas a Gaza? È lecito dubitarne.

Si consideri un altro aspetto. La dittatura egiziana ha goduto per decenni dell'appoggio americano ed europeo. Nonostante Obama e gli altri occidentali si siano alla fine sganciati da Mubarak, il ricordo di quell'appoggio non può essere facilmente cancellato dalle menti degli egiziani. I leader che andranno a cercarne il voto in libere elezioni dovranno tenerne conto. È possibile, se non probabile, che la democratizzazione si accompagni, almeno all'inizio, a una forte affermazione di correnti antioccidentali e antiisraeliane. Con conseguenze geo-politiche facili da immaginare.

Si deve dunque sperare nella lungimiranza dei militari egiziani? In realtà, bisogna sperare nella gradualità dei processi in corso. Ad esempio, abbiamo ormai scoperto (anche grazie alle vicende afghane e irachene) che le elezioni libere devono essere il coronamento del processo di democratizzazione, il punto di arrivo, non di partenza. Prima, bisogna consolidare le istituzioni in grado di limitare i poteri del governo (corti costituzionali e altri contrappesi) nonché togliere gli infiniti vincoli, legali e burocratici, che gravano sulle libertà personali degli individui. Solo dopo il completamento di questo laborioso percorso, si potrà ragionevolmente sperare che libere elezioni non sfocino in democrazie illiberali, minacciose per i cittadini e per la pace.

Hanno ragione coloro che sostengono che la democrazia possa benissimo conciliarsi con la religione musulmana (come provano diversi regimi democratici esistenti nel mondo islamico) e che, anche in quel mondo, la democrazia, se ben consolidata, sia in grado di tenere a bada i fanatici. Ma il percorso che porta alla stabilizzazione delle democrazie, e al godimento dei loro buoni frutti, è lungo, accidentato e costellato di pericoli. La consapevolezza di ciò spiega l'ambivalenza occidentale.

Angelo Panebianco

15 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Gli alleati immaginari
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2011, 10:46:45 am
LA DEBOLE IDENTITA' DELLA SINISTRA

Il commento

Gli alleati immaginari

Nonostante i dinieghi del governo, il mondo politico continua a scommettere sulle elezioni anticipate. In tal caso, quali schieramenti si confronteranno? Sappiamo già quale sarà l'identità del centrodestra: lo guiderà di nuovo Berlusconi in alleanza con Bossi. È più confuso, al momento, il quadro dello schieramento opposto. Una volta scartata l'ipotesi, inverosimile e perdente, della «santa alleanza» di tutti gli antiberlusconiani, restano poche opzioni. Uno schema che circola, anche se smentito da alcuni dei diretti interessati, punta a mettere insieme «terzo polo» e centrosinistra. Nel caso in cui il centrodestra non riuscisse a riconquistare la maggioranza, lo schema prevede Pier Ferdinando Casini premier, alleato al Partito democratico, senza Di Pietro e con il sostegno esterno dei neocomunisti di Nichi Vendola. Proponendo Rosy Bindi come candidato premier e quindi, implicitamente, rinunciando a dar battaglia per le primarie, Vendola sembra avere offerto (tacitamente) la sua disponibilità.

Il diavolo fa le pentole eccetera e gli «schemi di gioco», costruiti a tavolino, risultano in genere diversi dal gioco effettivo. Ma, per un momento, prendiamo per buono il suddetto schema. Per funzionare ha bisogno, fra l'altro, che Vendola non ottenga un exploit elettorale. Se questo fosse il caso sarebbe difficile tenerlo fuori dalla porta.

Qualche settimana fa, il vicesegretario del Pd Enrico Letta ha dichiarato che, a suo giudizio, il «fenomeno Vendola» si sgonfierà (Corriere, 16 gennaio). Ma è più probabile che Vendola sia destinato a un forte successo nel suo schieramento (nonostante la sua prova non certo brillante come amministratore della Puglia). Concorrono tre ragioni. La prima ha a che fare con la sua personalità. La seconda con le caratteristiche delle culture politiche della sinistra. La terza, infine, con le «circostanze», le condizioni in cui versa il Partito democratico.

Possiamo sorridere delle ardite affabulazioni di Vendola ma non possiamo negare che si tratti di un personaggio non banale, dotato di un suo spessore e che ciò ne spieghi le notevoli capacità mediatiche. Vendola parteciperà alla campagna elettorale contando su due carte. Mentre i Democratici parleranno soprattutto di Berlusconi (di come farlo fuori), Vendola parlerà soprattutto di politica. Inoltre, avrà il vantaggio dell'autonomia. Gli altri sono eterodiretti, la loro agenda (le cose da dire e da non dire) è di fatto ispirata prevalentemente da centri di potere esterni alla politica partitica (procure, giornali di riferimento). Vendola, invece, può decidere in autonomia la propria agenda. Capacità mediatiche, autonomia e volontà di parlare di politica potrebbero farlo spiccare come una macchia bianca su sfondo nero entro lo schieramento di sinistra. Tanto più in una campagna elettorale che, è certo, emarginerà quasi ogni tema che non riguardi la condotta privata del premier e sarà trasformata, da destra e da sinistra, in un referendum su «Berlusconi o le procure».
Poi ci sono i contenuti del messaggio di Vendola. Ho ascoltato con attenzione alcuni suoi discorsi e sono arrivato alla conclusione che la combinazione «orecchino più Marx», per dire un particolare mix di elementi emozionali e razionali, sia una formula di grande efficacia.

Da un lato, la poesia, l'affabulazione post-moderna, i discorsi sull'amore, che possono fare presa sui più giovani e, dall'altro, un anticapitalismo aggressivo ma aggiornato ai tempi, mondato (quasi del tutto) di quegli elementi «vetero» che erano ancora presenti nei ragionamenti del pur bravo Fausto Bertinotti. Parlando di «politica» piuttosto che di «etica» (per lo meno, nel senso triviale che questa parola ha assunto qui da noi), Vendola è in grado di lanciare messaggi ottimistici, di speranza, per il futuro. In questo è simile a Berlusconi. Salvo, naturalmente, il fatto che i loro messaggi ottimistici hanno contenuti opposti. In una cultura politica nella quale non è affatto scomparso il ricordo del comunismo, perché un aggiornato messaggio neo-comunista lanciato da uno che sa usare i media non dovrebbe avere successo? Quando Vendola dice, ad esempio, che la sinistra deve strappare alla destra la parola «libertà» e poi dà a quella parola il significato che le dava Marx, perché questo non dovrebbe piacere a certi elettori di sinistra più delle cupe parole d'ordine del giacobinismo giudiziario? Perché, posti di fronte alla scelta fra il Capitale e il Codice Penale, non dovrebbero scegliere il Capitale? Naturalmente, un successo di Vendola sarebbe escluso se il Partito democratico fosse in buona salute, se ci fosse in campo una credibile piattaforma di sinistra liberal-riformista. Il che non è: come indica anche l'emarginazione di fatto del leader riformista di maggior spessore che il Partito democratico abbia espresso al Nord, Sergio Chiamparino. Il Partito democratico è un progetto abortito e nemmeno i grossi guai di Berlusconi (o qualche punto percentuale in più del solito suggerito dai sondaggi) bastano a cambiare le cose. È abortito quando ha dichiarato il fallimento della vocazione maggioritaria, quando ha sostituito i discorsi sulle alleanze ai discorsi sui contenuti, quando si è messo a inseguire ogni sorta di massimalismo su per i tetti di Roma, quando non è stato capace di creare un abisso che lo separasse dai giustizialisti, quando, insomma, ha riconosciuto di non avere una proposta forte e autonoma, sostenuta da gente sicura di sé e delle proprie idee, da presentare al Paese. È fallito per le ragioni che il sindaco di Firenze Matteo Renzi richiama ormai ogni giorno. Naturalmente, in politica, nulla è definitivo. Ma occorrerebbe una nuova generazione di leader per ridare slancio al Partito democratico. La crisi di credibilità di quel partito, speculare, per motivi diversi, a quella di Berlusconi, dà a Vendola la possibilità di affondare i denti nelle sue carni. Di quella crisi di credibilità è anche parte la «eresia» Fiom. Quella eresia non ci sarebbe stata se il Partito democratico fosse stato capace di portare su una seria piattaforma riformista il grosso di quella che un tempo era la sua gente, almeno nelle fabbriche. Anche un'alleanza di fatto con la Fiom, che in qualche misura è nelle cose, è un asset che Vendola potrebbe sfruttare abilmente. Chi ha creduto che l'anticapitalismo fosse ormai finito, morto e sepolto, definitivamente sostituito da altre e più nuove «narrazioni», dovrà probabilmente ricredersi.

Angelo Panebianco

20 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il vento arabo della libertà
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2011, 05:44:23 pm

Il vento arabo della libertà

Il giusto e l'utile

In politica si dà spesso uno spiacevole divario fra ciò che «è giusto» e ciò che «è utile», fra ciò che pensiamo sarebbe giusto fare alla luce dei principi che professiamo e ciò che sappiamo essere utile per i nostri interessi. In politica internazionale, poi, quel divario è la regola. Ciò contribuisce a spiegare l’elevato tasso di ipocrisia che, con buona pace di WikiLeaks, circonda i rapporti interstatali. Si finge di fare ciò che è giusto ma si opera per realizzare solo l’utile. Soltanto in rare, eccezionali, circostanze, il giusto e l’utile coincidono. Adesso, per l’Italia nei suoi rapporti con la Libia, e per l’Occidente tutto nei suoi rapporti con il Medio Oriente, è arrivato uno di quei momenti: fare ciò che è giusto per sostenere le ribellioni contro i tiranni coincide con l’utile, con il nostro interesse.

Nelle fasi di effervescenza rivoluzionaria va di moda criticare la Realpolitik, le commistioni e le complicità con i tiranni. Ma in circostanze normali, non rivoluzionarie, la Realpolitik è una necessità. Saremo tutti contenti se e quando i cinesi si libereranno del giogo autoritario ma, fino ad allora, continueremo a trattare con la dittatura. Non possiamo autoflagellarci per avere trafficato per decenni con i dittatori mediorientali, da Ben Alì a Mubarak, a Gheddafi. Lo imponevano gli interessi delle democrazie occidentali: nessun governante democratico può conservare il potere se non tutela l’interesse del proprio Paese così come esso viene definito dai gruppi interni, politici, sociali ed economici, che contano. E l’interesse richiedeva di coltivare quelle relazioni. Adesso però il gioco è cambiato e anche i nostri interessi in rapporto al Medio Oriente sono in via di ridefinizione. Il giusto e l’utile tendono ora a coincidere: contribuire, da parte nostra, a favorire in quei Paesi l’affermazione di regimi politici più accettabili per i loro cittadini è coerente sia con i nostri valori che con i nostri interessi. A che cosa siamo interessati? Siamo interessati al fatto che le transizioni in Medio Oriente non acquistino, col tempo, un segno antioccidentale.

Come opportunamente ricordava Pierluigi Battista sul Corriere di sabato, anche in Iran la rivoluzione contro il regime oppressivo dello Scià cominciò in nome della libertà ma sappiamo come andò a finire. Ci sono vitali interessi occidentali, di sicurezza ed economici, in gioco. Aiutare in modo non blando o episodico gli insorti può contribuire a prefigurare una situazione nella quale riusciremmo forse a esercitare una qualche influenza sulle condizioni post rivoluzionarie. Le sanzioni già decise dagli Stati Uniti contro Gheddafi, quelle che l’Onu sta adottando, e quelle che probabilmente varerà l’Unione Europea nei prossimi giorni, sono solo un primo passo. C’è un problema italiano in rapporto alla Libia e c’è un problema europeo in rapporto al Medio Oriente nel suo insieme. La vicenda libica ha posto il nostro Paese in prima linea. Ha detto il vero Pier Ferdinando Casini quando, primo fra tutti, ha denunciato il fatto che ciò che accade in Libia è per noi una emergenza nazionale che andrebbe affrontata con il massimo di coesione della classe dirigente.

Siamo i più esposti per gli intensissimi rapporti che abbiamo sempre coltivato con il regime libico, per gli approvvigionamenti energetici, per il volume dei nostri interessi in Libia, per le questioni di sicurezza coinvolte (la possibile ripresa di massicci sbarchi dall’Africa entro breve tempo). E siamo i più esposti anche perché, sfruttando la cattiva fama che ci hanno procurato in Libia le nostre storiche relazioni con Gheddafi, vari competitori occidentali potrebbero tra poco farsi avanti per subentrare all’Eni e al centinaio di imprese italiane che hanno fino a oggi operato in quel Paese. In queste condizioni, e per quanto difficile ciò possa essere, identificare per tempo i possibili interlocutori della «nuova Libia» e aiutarli in tutti i modi, anche finanziariamente, sia ora, contro i colpi di coda del regime morente, sia dopo, nel periodo della ricostruzione, è per l’Italia ancora più vitale che per gli altri Paesi occidentali. La sospensione del trattato Italia-Libia potrebbe non bastare. Se non avremo un ruolo da protagonisti in questa fase, non potremo sperare di averne uno a rivoluzione conclusa.

C’è poi l’Europa. I suoi interessi in Medio Oriente sono troppo importanti perché essa possa permettersi il lusso di non adottare, sia pure in accordo con l’alleato americano, una posizione al tempo stesso energica e lungimirante. I primi segnali sono pessimi. Scegliere, come le democrazie nordiche europee hanno fatto in questi giorni, lo «scaricabarile », rifiutare anche in via ipotetica l’idea di una gestione europea del possibile afflusso di profughi dal Nord Africa, la dice lunga sulla condizione in cui versa l’Unione. Lo tsunami politico mediorientale può essere quella «sfida esterna» ai più vitali interessi della sicurezza dell’Europa in grado di far fare un salto di qualità all’integrazione europea. Oppure, può essere lo scoglio che la farà definitivamente naufragare. La relazione è nei due sensi: la sfida mediorientale potrebbe indurre più coesione in Europa e più coesione le sarebbe necessaria per influenzare, magari ponendo mano a un piano straordinario di aiuti, il futuro del Medio Oriente: al fine di scongiurare derive fondamentaliste in Paesi privi di un passato democratico, e di impedire che la regione venga sconvolta, fra qualche tempo, da nuove guerre.

Concludo osservando che non bisognerebbe farsi prendere troppo la mano della cronaca perdendo di vista i tempi più lunghi della storia. Molti osservatori oggi dicono che le attuali rivoluzioni mediorientali condotte in nome della libertà segnano una sconfitta delle tesi sui conflitti di civiltà. A parte il fatto che non sappiamo ancora come andranno a finire quelle rivoluzioni, si consideri il caso dell’Arabia Saudita. Immaginiamo che la rivoluzione arrivi anche lì. Qualcuno può seriamente sostenere che a Riad si installerebbe un «governo democratico»? A vincere, proprio là dove il mondo più si rifornisce di energia, sarebbe, più facilmente, un fondamentalismo fanatico: un conflitto di civiltà al quadrato. La prudenza è una virtù indispensabile per commentare gli eventi di questi giorni.

Angelo Panebianco

27 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tre scenari per una crisi
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2011, 11:36:50 pm
L'ITALIA E IL FUTURO DELLA LIBIA

Tre scenari per una crisi

Non bisogna mai mettere con le spalle al muro un dittatore che non ha ancora abbandonato il potere


Per quanto essa sia elusiva, vaga e refrattaria a essere imprigionata in definizioni precise, dall'idea di «interesse nazionale» non si può tuttora prescindere. Nonostante i fiumi di inchiostro versati sui cambiamenti delle relazioni interstatali indotti dalla cosiddetta globalizzazione o, nel caso dei Paesi del Vecchio continente, dall'integrazione europea, l'interesse nazionale resta la principale bussola per coloro che devono decidere le politiche estere come per coloro che ne valutano gli effetti. Cruciali questioni di interesse nazionale, come tutti sanno, sono in gioco per l'Italia nella vicenda libica. A seconda degli esiti di quella crisi il nostro interesse nazionale verrà salvaguardato oppure gravemente danneggiato.

Allo stato degli atti, sembrano essere tre i possibili esiti della crisi libica. Nel primo scenario, Gheddafi viene sconfitto, abbandona il potere e gli subentra una nuova classe dirigente che, nonostante grandi difficoltà, si rivela capace di tenere insieme il Paese e di ristabilire normali relazioni con gli altri Stati. Nel secondo scenario, la guerra civile si protrae a lungo e la Libia sprofonda negli inferi, finisce nel girone riservato agli «Stati falliti», in compagnia di Paesi come la Somalia o l'Afghanistan. Nel terzo scenario, infine, Gheddafi riprende il controllo dell'intero territorio, Cirenaica compresa, al prezzo di un terribile bagno di sangue.

Il primo scenario, ovviamente, è il migliore per la Libia ma anche per noi italiani. Si tratterà di stabilire relazioni con una nuova classe dirigente che, presumibilmente, avrà anch'essa interesse a un buon rapporto con l'Italia, che avrà bisogno dei legami economici con noi, tanto più nella fase della ricostruzione post dittatura. Avevamo, è vero, eccellenti rapporti con Gheddafi, il che ci renderà sospetti ai loro occhi, ma è comunque un fatto che, fra gli occidentali, non siamo stati i soli a coccolarlo. Il realismo imporrà ai nuovi dirigenti libici di non rinunciare a una cooperazione vantaggiosa per entrambi i Paesi.

Gli altri due scenari, invece, ci danneggerebbero grandemente. Se la Libia diventasse uno Stato fallito, si trasformerebbe in una piattaforma adibita al trasferimento al di qua del Mediterraneo di fiumi di disperati, di caos, di criminalità e terrorismo, ossia dei frutti avvelenati che crescono sempre negli Stati falliti. E noi saremmo in prima linea, i primi a subirne le conseguenze. In uno scenario «somalo» diventerebbe prima o poi inevitabile un intervento militare della comunità internazionale volto a frenare il caos. Nonostante le insidie e l'alto rischio di fallimento a cui un intervento militare andrebbe incontro.

Ma anche il terzo scenario, quello che prevede un Gheddafi di nuovo vittorioso in Libia, sarebbe pessimo per noi.

In politica internazionale l'ipocrisia è la regola. Fino a ieri tutti, non solo noi italiani, fingevano di non sapere che Gheddafi fosse un turpe dittatore che aveva sempre fatto strame di diritti umani. Lo fingevano i governi, i banchieri, il Consiglio dei diritti umani dell'Onu, persino la prestigiosa Lse (la London School of Economics and Political Science di Londra) destinataria di generosi finanziamenti libici, e tantissimi altri. Adesso però l'incanto si è rotto, adesso Gheddafi è un paria, un ricercato dell'Interpol, un possibile imputato del tribunale penale internazionale. D'ora in poi, fare affari con lui diventerà molto difficile. Se Gheddafi riconquisterà la Libia, per l'Italia saranno dolori, pagheremo un costo economico salatissimo. Per non parlare della difficoltà di ristabilire rapporti di cooperazione su materie sensibili come il controllo dell'emigrazione dall'Africa.

La questione dei rapporti economici Italia-Libia ha due facce. C'è, in primo luogo, il destino del centinaio di imprese che operavano fino a pochi giorni fa in Libia e il futuro ruolo dell'Eni. Adesso che anche noi abbiamo scaricato Gheddafi, un vendicativo dittatore di nuovo in sella potrebbe decidere di spazzarci via a vantaggio di meno scrupolosi concorrenti. La Cina, soprattutto, un Paese che non ha problemi a trattare con i peggiori dittatori, sarebbe certo lieta di subentrare alle nostre e alle altre imprese occidentali. E c'è poi la questione dei fondi sovrani, dei cospicui investimenti dello Stato libico in Italia (la presenza in Unicredit, Finmeccanica, Eni, il ruolo della Banca libica con sede a Roma, eccetera). Per ora, in omaggio alle direttive Onu, abbiamo congelato, come altri Paesi, i beni della famiglia Gheddafi e ci siamo dichiarati pronti, per bocca del ministro degli Esteri Franco Frattini, a congelare anche i fondi sovrani se ciò verrà deciso dall'Onu o dall'Unione Europea. Ma è un tema delicatissimo. Da un lato, sarà impossibile per noi non ottemperare alle eventuali richieste in tal senso degli organismi internazionali. Dall'altro lato, sarà di particolare danno farlo dal momento che i libici sono uno dei principali investitori sulla nostra piazza e, per giunta, un congelamento dei loro capitali sarebbe un pessimo segnale per altri investitori. In ogni caso sarebbe per noi una perdita secca e pesante.

Posto dunque che non solo ai libici ma anche a noi conviene che Gheddafi se ne vada, si può constatare quanto siano state improvvide le dichiarazioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu del 26 febbraio secondo cui Gheddafi va processato di fronte al Tribunale penale internazionale, l'apertura di un procedimento a suo carico da parte del Tribunale dell'Aja, l'allerta dell'Interpol per impedire che egli e il suo entourage possano espatriare. Non bisogna mai mettere un dittatore che non ha ancora abbandonato il potere con le spalle al muro. Serviva un salvacondotto, non un processo. Magari Gheddafi è davvero pronto, come ha detto, a morire con le armi in pugno. Ma un salvacondotto, come alternativa al bagno di sangue, doveva comunque essergli offerto. E dovrà essergli offerto. Conviene anche agli entusiasti della cosiddetta «giustizia internazionale». Per dimostrare che fra i suoi effetti perversi non ci sia anche quello di prolungare le sofferenze dei popoli.

Angelo Panebianco
07 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La paura e la ragione
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2011, 12:16:25 pm
LA SCELTA NUCLEARE

La paura e la ragione

Non sappiamo ancora se i giapponesi riusciranno a impedire la fusione del reattore di Fukushima salvando il loro Paese da un disastro che sarebbe incomparabilmente maggiore di quello provocato dal terremoto e dallo tsunami. Tutti però abbiamo almeno potuto constatare un fatto: il contrasto fra l'ammirevole compostezza del popolo giapponese così duramente colpito e le assai meno composte reazioni occidentali. «Il paradosso del progresso materiale e tecnologico - ha scritto il Wall Street Journal in uno dei migliori commenti che si siano letti sulla vicenda - è che noi sembriamo diventare tanto più avversi al rischio quanto più il progresso ci rende maggiormente sicuri». Per un verso, è proprio grazie agli sviluppi tecnico-scientifici che abbiamo raggiunto eccezionali livelli di benessere e anche (proprio così) di sicurezza: fingiamo per lo più di non saperlo ma la vita quotidiana nelle società pre-moderne era infinitamente più insicura, brutale e breve, di quanto non sia oggi nelle società industriali. Per un altro verso, raggiunti tali livelli di benessere e di sicurezza sembriamo voler rifiutare anche i rischi che pure sono intrinseci allo sviluppo tecnico-scientifico.

È giusto interrogarsi sull'atomo e sui suoi pericoli, pretendere che si faccia tesoro delle esperienze dolorose e che si correggano gli eventuali errori, che i controlli siano esigenti, che la ricerca e le applicazioni della tecnologia della sicurezza siano sempre meglio sviluppate. Ma è anche necessario non smarrire il filo della razionalità. Senza rischi e assunzione di rischi non ci sarebbe mai stato alcun progresso tecnico-scientifico: quel progresso grazie al quale, nelle moderne società industriali, ad esempio, è crollata la mortalità infantile e gli uomini vivono assai più a lungo di un tempo. Non c'è dinamismo sociale possibile che non porti con sé pericoli.
Perché non è possibile rinunciare all'atomo? Perché, anche se non potremo liberarci ancora per lungo tempo dalla dipendenza dal petrolio, è vitale diversificare le fonti di energia e quella atomica resta, dopo petrolio e gas, la più importante.

Si noti che, nonostante l'aggravamento che ha fatto registrare nelle ultime ore la situazione nella centrale di Fukushima e l'allarme delle opinioni pubbliche, i governi dei Paesi occidentali che dispongono di centrali si sono impegnati, con vari accenti, ad innalzare i livelli di sicurezza, non certo a sbarazzarsi della energia nucleare. L'atomo comporta rischi? Certamente, ma si può agire, e si agisce in tutto il mondo per ridurli. D'altra parte, la controprova è data proprio dal Giappone: la schiacciante maggioranza delle centrali giapponesi ha resistito benissimo sotto l'impatto di un terremoto di violenza devastante.

Ci si potrebbe addirittura spingere a sostenere che la dipendenza dal petrolio (a parte i pesantissimi costi economici che impone a chi non lo possiede) comporti pericoli maggiori delle centrali, ossia dell'uso pacifico dell'energia nucleare. Dipendere, per i rifornimenti energetici, da aree ad altissima instabilità politica è infatti causa di rischi immensi. Immaginiamo che una nuova guerra scoppi prima o poi in Medio Oriente e che, come tanti paventano, vi vengano impiegate armi nucleari. Il petrolio mediorientale diventerebbe improvvisamente indisponibile. Che accadrebbe allora a tutti noi? Discutere i pro e i contro dell'atomo va benissimo. Ciò che non va è l'irrazionalità di chi, pretendendo l'impossibile, ossia eliminare il rischio, rinuncia semplicemente a vivere.

Angelo Panebianco

16 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: In questa guerra gli italiani rischiano di più - (soliti VELENI TRA LE RIGHE)
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2011, 11:32:57 am
OPERAZIONE «ALBA DELL'ODISSEA»

In questa guerra gli italiani rischiano di più


Abbiamo fatto la cosa giusta, l'unica possibile, aderendo alla «coalizione di volenterosi» impegnati, dietro mandato Onu, a bloccare l'azione di Gheddafi contro i ribelli di Bengasi. E sicuramente faremo bene a partecipare con tutti i nostri mezzi a questa azione internazionale. Non potevamo di certo tirarci indietro. Impedire a Gheddafi di fare un bagno di sangue in Cirenaica è sacrosanto.
Ciò premesso, qualche chiarimento in più lo dobbiamo a noi stessi, al Paese. Perché le guerre, come osservava giustamente Alberto Negri sul Sole 24 Ore di ieri, si sa come cominciano e non si sa come finiscono. E se anche l'opinione pubblica, forse, non lo ha ancora pienamente realizzato, siamo in guerra. In una guerra, per giunta, di cui non sono chiare le finalità e gli sbocchi possibili.

Poiché è noto che i soli bombardamenti sono di rado risolutivi per vincere una guerra, e manca al momento qualsiasi copertura legale internazionale per una azione di terra contro le forze di Gheddafi, sembra evidente che l'impegno occidentale in corso ha un obiettivo di minima e uno di massima: quello di minima è impedire a Gheddafi di sopraffare l'intera Cirenaica. Una azione occidentale «di successo» potrebbe allora sancire la definitiva divisione della Libia in due tronconi. Non possiamo non chiederci se a noi italiani converrebbe un simile esito. L'obiettivo di massima, a quanto si capisce, è infliggere così tanti danni alle forze militari di Gheddafi da spingere le tribù che lo sostengono a «scaricarlo», consentendo così la riunificazione del Paese. Sarebbe un risultato eccellente (un vero, pieno successo della coalizione occidentale) ma è difficile negare che se quello è l'obiettivo, allora si tratta di una scommessa ad altissimo rischio. Cosa faranno in realtà i gruppi che sostengono Gheddafi nessuno oggi può saperlo.

Si tenga poi conto del difficilissimo contesto internazionale: la Russia, dopo essersi astenuta sulla risoluzione 1973, ha ora assunto una posizione duramente ostile all'intervento occidentale. Anche la Cina è ostile ma più cauta. La Lega araba, il cui assenso aveva consentito agli Stati Uniti di rompere infine gli indugi e di passare all'azione, ora critica i bombardamenti ritenendoli al di là degli obiettivi della costituzione di una no-fly zone. Il che riflette il fatto che il mondo arabo è spaccato, diviso fra i nemici di Gheddafi e quelli che, come la Siria, l'Algeria e il Sudan, lo appoggiano.

Il modo in cui il mondo occidentale si è mosso fin dall'inizio in questa vicenda solleva molte perplessità. Obama ha rivelato, con le sue oscillazioni nelle settimane che hanno preceduto l'intervento, una irresolutezza strategica imbarazzante: il leader del mondo occidentale non dovrebbe permetterselo.

L'Europa ha fatto come al solito nei momenti di crisi: è andata in pezzi. La Germania non è il Lussemburgo e il fatto che si sia tirata fuori chiarisce definitivamente che l'Europa non dispone di una leadership all'altezza della gravità delle sfide. Anzi, non dispone di una leadership, punto. La Francia ha fatto il suo gioco: la Grandeur ha sempre un certo fascino per i francesi e Sarkozy aveva bisogno di riprendersi un po' della popolarità perduta. Ieri in Francia si sono tenute delle importanti elezioni cantonali (quando si dice le coincidenze), un test cruciale in attesa delle prossime presidenziali. Fare la guerra per spingere i concittadini a stringersi around the flag (intorno alla bandiera) è uno stratagemma classico della più classica realpolitik. La causa è nobile (salvare uomini dallo sterminio) e inoltre, il che non guasta, in Libia c'è la prospettiva di un grosso «bottino»: chi farà i migliori affari con gli insorti a guerra conclusa? Per la Francia, come per la Gran Bretagna, i rischi di guerra sono più che compensati dai possibili guadagni. L'Italia, invece, è in tutt'altra situazione. Noi siamo quelli che rischiano di più. Non solo economicamente ma anche fisicamente. Siamo il Paese più vicino e il più esposto alle ritorsioni. Per carità di patria sorvoliamo sulle contorsioni fatte in questi giorni dal nostro governo (e speriamo anche che rientri il dissenso, che non conviene a nessuno, della Lega). Limitiamoci a riconoscere che noi avevamo, e abbiamo, obiettivamente, fra gli occidentali, la posizione in assoluto più difficile. Il calcolo costi/benefici è diverso per l'Italia e per la Francia. Il che obbliga anche chi, come chi scrive, è favorevole alla nostra presenza nel conflitto, a guardare comunque con rispetto alle perplessità, tutt'altro che campate in aria, di alcuni esponenti politici (come quelle espresse dal sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano sul Corriere di ieri).

Noi italiani non siamo abituati a pensare alla politica internazionale in termini realistici. Non è passato in fondo troppo tempo da quando più di metà degli italiani stava sempre con gli americani a prescindere e i restanti italiani con i sovietici, sempre a prescindere. Siamo impreparati a un gioco in cui dobbiamo bilanciare solidarietà con gli alleati, perseguimento, quando è possibile, di «buone cause» e attenzione ai nostri interessi. Lo fanno gli altri, dobbiamo farlo anche noi. È una caratteristica di tutte le coalizioni di guerra: gli alleati hanno una causa comune ma anche interessi non coincidenti. Mentre a francesi e inglesi importa ridimensionare la nostra presenza in Libia noi abbiamo l'interesse opposto.

Dovremmo, in primo luogo, impegnarci fin da subito, a guerra ancora in corso, in un piano di ricostruzione della Libia. Su questo terreno, grazie ai nostri storici rapporti con quel Paese, abbiamo un possibile vantaggio rispetto agli alleati e dovremmo sfruttarlo al massimo. Abbiamo bisogno di riprendere l'iniziativa e siamo certamente in grado di farlo più nell'ambito economico-civile che in quello strettamente militare (ove il nostro apporto non potrà essere determinante).

Dovremmo, in secondo luogo, dimostrare al nostro Paese che la classe dirigente, di governo e di opposizione, è all'altezza della sfida che abbiamo di fronte. L'importanza della vicenda libica è tale che si rende necessario un dibattito parlamentare in cui maggioranza e opposizione spieghino agli italiani i tanti risvolti (sul piano militare, sul piano economico, su quello delle minacce terroristiche, su quello relativo agli sbarchi dei profughi) che ha per noi la guerra libica e mostrino, per una volta, la più ampia concordia di intenti possibile di fronte a una così grave crisi.

Abbiamo appena festeggiato i centocinquant'anni dell'Unità d'Italia. Dimostriamo che non era solo retorica, che non siamo sempre divisi, come per lo più diamo l'impressione di essere, in tante «patrie» (non solo la Padania ma anche la destra, la sinistra, eccetera) che hanno in comune solo il livore reciproco, che siamo capaci, in un gravissimo frangente, di convergere intorno ai nostri più vitali interessi nazionali. Se non ora, quando?

Angelo Panebianco

21 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Nazionalismi di ritorno
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2011, 10:44:30 am
MAI COSI' DIVISI IN GUERRA

Il commento

Nazionalismi di ritorno

La guerra libica ha messo a nudo la grave crisi in cui versa il mondo occidentale, la comunità euro-atlantica. Come già accadde nel 2003, all'epoca dell'invasione dell'Iraq, le due forze che hanno sempre dato coesione al mondo occidentale, ossia la credibilità della leadership americana e la solidarietà infra-europea, vacillano paurosamente. Ma oggi la situazione è persino più grave del 2003 perché, per gli effetti prodotti dalla crisi economica, l'America è molto più debole di allora e perché nel frattempo i rapporti fra gli Stati europei (dalla bocciatura del trattato costituzionale del 2005 alle disavventure dell'euro) si sono progressivamente deteriorati. E ora è sopraggiunta la crisi libica ad incattivire ulteriormente gli animi. È sperabile che a crisi conclusa si possano ristabilire in Europa le relazioni di un tempo. Ma non sarà facile.

C'è stata un'epoca in cui alcuni, di orientamento antiamericano, coltivavano l'illusione di un'Unione Europea capace di sbarazzarsi, grazie ai progressi dell'integrazione, del rapporto con gli Stati Uniti, di cominciare a muoversi sulla scena internazionale in modo indipendente e anche, eventualmente, in opposizione all'America. Era un'illusione. La comunità euro-atlantica (lo storico legame fra Europa e America) e l'integrazione europea, direbbe un giurista, simul stabunt vel simul cadent, sono legati a corda doppia, staranno o cadranno insieme. È grazie ai legami con l'America che l'integrazione europea è nata e si è sviluppata. Sembra plausibile che un indebolimento o una disarticolazione di quei legami non preluda a chissà quali traguardi dell'integrazione dell'Europa ma al suo declino.
La comunità euro-atlantica vacilla perché vacilla la leadership americana. Come hanno mostrato le oscillazioni dell'Amministrazione Obama, la sua incapacità di darsi un riconoscibile disegno strategico, a fronte delle rivoluzioni arabe. E come si è visto nella crisi libica. Le stesse tensioni fra i Paesi europei sono favorite, o esasperate, dal deficit di leadership americana. Ciò non dipende solo dalle personali indecisioni di Barack Obama. Esse ci sono ma non fanno altro che aggravare una crisi di credibilità dell'America che ha l'origine nel suo indebolimento politico complessivo. Poiché era il vigore di quella leadership il collante del blocco euro-occidentale, il suo appannamento ha riflessi destabilizzanti che acuiscono i problemi legati ai contenziosi infra-europei.

È inutile negarlo. Un'Italia lasciata fin qui sola dall'Europa a vedersela con gli sbarchi e, in più, con il sospetto che il vero scopo dell'impresa sia accrescere l'influenza anglo-francese in Libia a scapito dell'Italia, può lasciare strascichi pesanti, può influenzare l'opinione pubblica italiana rendendo in futuro meno europeista il Paese che, storicamente, lo è stato più di altri. L'intervista rilasciata ieri dal primo ministro francese François Fillon al Corriere è un prezioso passo distensivo. Ma occorrerà molta buona volontà da entrambe le parti per riportare alla normalità i rapporti fra Italia e Francia. Il tutto mentre la Germania, con la sua scelta di tirarsi fuori (e di cercare altrove, nel rapporto con le potenze emergenti, Cina, Russia, Brasile, nuove sponde politiche), chiarisce che l'Europa è politicamente acefala, senza un vero leader disponibile a fare la sua parte.

Ma, si potrebbe obiettare, questa è solo una faccia della medaglia. L'altra faccia è che una compattezza europea, e anche una leadership tedesca, ci sono e si manifestano su un diverso terreno, quello della governance economica dell'Europa. L'intesa raggiunta dal Consiglio europeo del 24-25 marzo, la riscrittura delle regole del «Patto di stabilità e di crescita» non segnano forse un salto di qualità proprio sul piano cruciale della governance e non annunciano progressi in tema di integrazione dei mercati? A parte il fatto che le sconfitte elettorali subite dal partito di Angela Merkel, e il suo oggettivo indebolimento, gettano ombre sulle reali possibilità di attuazione dell'intesa, le due cose possono benissimo, almeno per un certo periodo, andare insieme: si puntella l'euro, si impongono controlli più stringenti sulle finanze dei Paesi europei, si accresce il coordinamento politico-economico, mentre, su altri versanti, dove sono in gioco altre questioni (rifornimenti energetici e non solo), i rapporti politici si deteriorano, avvelenati dai sospetti e dalle polemiche. Alla lunga, le due tendenze finirebbero per entrare in rotta di collisione ma nel breve periodo possono anche coesistere.
Il ritorno del nazionalismo, un processo che era già in atto da tempo, che spinge alla competizione i Paesi europei, non è ovviamente una buona notizia in generale ed è pessima per l'Italia. Tenuto conto del fatto che l'Italia, alle prese con i suoi soliti problemi interni, è incapace di darsi compattezza a sostegno dei propri interessi nazionali. Il modo in cui ci siamo divisi sulla vicenda libica ne è solo (ma in un contesto particolarmente grave) l'ennesima conferma.

Riassumendo, la perdita di credibilità della leadership americana indebolisce la comunità euro-atlantica ed esaspera le divisioni fra i Paesi europei. L'indebolimento della solidarietà entro l'Unione, a sua volta, spinge gli Stati europei - alcuni (Francia, Gran Bretagna) con una baldanza che viene dalle loro tradizioni storiche, altri di malavoglia - a ripercorrere le antiche strade delle «politiche nazionali». Si tratta, nell'età ormai dominata da mega-potenze globali, solo di un'illusione, di un vicolo cieco? Nel medio-lungo termine, certamente. Nel breve periodo, è la strada che gli europei meglio conoscono (grazie al proprio passato), la sola che sanno percorrere quando cadono, una dopo l'altra, tutte le altre illusioni.

Una conclusione rapida e positiva della vicenda libica (con l'uscita di scena di Gheddafi), benché difficile da ottenere, migliorerebbe forse il clima europeo. In ogni caso, è da augurarsi che americani ed europei, magari spinti a ciò proprio dalle rivoluzioni arabe, si siedano prima o poi intorno a un tavolo per capire se sia possibile ridare slancio a una sfibrata comunità euro-atlantica. Senza la quale, nemmeno l'integrazione europea sembra destinata a un grande futuro.

Angelo Panebianco

03 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_03/


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La politica delle tribù
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2011, 10:32:09 pm
POCHI LEADER, TROPPI NOTABILI

La politica delle tribù

Come è naturale, l'opinione pubblica è oggi colpita soprattutto dalla ferocia degli scontri fra maggioranza e opposizione, si tratti di processo breve o di sbarchi di clandestini. L'attenzione è calamitata dalla radicalizzazione del conflitto politico, dalla sua acuta intensificazione, anche emotiva. Si perde di vista il fatto che c'è anche un altro processo assai rilevante in corso. È più silenzioso, meno spettacolare ma, forse, persino più preoccupante. Riguarda la decomposizione delle forze politiche esistenti.

Era già da tempo frantumato lo schieramento di sinistra e non ci sono lì prospettive di ricomposizione. La novità è la disarticolazione in corso nel Pdl, la formazione dominante del centrodestra. Lo strappo di Gianfranco Fini è stato solo l'inizio. Oggi, se si guarda al Pdl, si vede che è tutto un fiorire di raggruppamenti autonomi (da Scajola a Micciché ad altri) di variabile e mutevole consistenza. Il processo centrifugo non risparmia il livello locale: in vista delle elezioni amministrative, in molte situazioni, proliferano i candidati-sindaci di centrodestra in lotta fra loro. La crisi investe il centro come la periferia.

La classe politica, a destra e a sinistra, sembra disintegrarsi in una miriade di piccoli potentati autonomi. Questo sfarinamento pone ipoteche pesanti, forse più pesanti della stessa radicalizzazione, sul futuro della democrazia italiana, ne compromette, nel medio termine, la governabilità.

La frammentazione ha una spiegazione relativamente semplice anche se, purtroppo, non ci sono, per contrastarla, rimedi altrettanto semplici.
Bisogna, per capire, risalire all'epoca della distruzione dei partiti «storici», ai tempi delle inchieste giudiziarie dei primi anni Novanta. Si dissolsero allora formazioni politiche che avevano una lunghissima storia alle spalle e un antico radicamento nel Paese. Era la premessa di una permanente frammentazione del sistema partitico. In sintesi: se non ci sono i partiti, sostituiti da fragili contenitori elettorali, si torna, con gli aggiornamenti del caso, alla politica dei notabili dell'Italia pre-fascista o della Terza Repubblica francese.
Ad attutire e a mascherare il fenomeno intervennero allora la legge elettorale maggioritaria e, soprattutto, l'ingresso in politica di Silvio Berlusconi nel 1994. Spaccando in due il Paese, e creando una grande formazione (un grande contenitore elettorale) di centrodestra, Berlusconi impedì che la fine del vecchio sistema partitico dispiegasse tutti i suoi effetti. Era la sua forte leadership, la sua fama di invincibile macchina da guerra elettorale, a garantire la tenuta e la relativa coesione del contenitore. Adesso che quella leadership vacilla e che molti, a torto o a ragione, pensano che essa sia entrata nella fase declinante, la perdita di coesione non può più essere fermata. Il notabilato che Berlusconi aveva raccolto intorno a sé è costretto a rimettersi in gioco, deve andare alla ricerca delle vie migliori per assicurarsi la sopravvivenza politica.

Senza attribuire virtù taumaturgiche alle sole leggi elettorali, va detto che il sistema oggi in vigore, per come è congegnato, non serve per disincentivare lo sfarinamento politico. Non si sfugge al circolo vizioso: un accordo fra le principali forze politiche per interventi anti-frammentazione (come una nuova legge elettorale) sarebbe necessario, ma quelle forze politiche sono ormai troppo frammentate per poterlo stipulare.

Angelo Panebianco

09 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_09/


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le Ragioni degli Altri (visti da un berlusconiano viscido)
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2011, 05:05:01 pm
PERCHE' SIAMO COSI' DIVISI


Le Ragioni degli Altri

Ha ragione Michele Salvati quando osserva, sul Corriere di ieri, che berlusconiani e antiberlusconiani sono come nazioni nemiche e ferocemente ostili. Ma, forse, la malattia è assai più diffusa di quanto lui non pensi. Non riguarda solo i rapporti fra i politici.
Temo coinvolga, da una parte e dall'altra, una grande quantità di italiani. Per questo, a differenza di Salvati, non penso che possa essere efficace quella riscrittura delle regole che Walter Veltroni e Giuseppe Pisanu (Corriere, 15 aprile) vorrebbero affidare a un improbabile governo di emergenza. Il problema italiano sta al di là (o al di qua) delle regole. Consiste in un livello di inimicizia fra le fazioni superiore a quello che si riscontra normalmente nelle democrazie. Qualcosa che non si cura con nuove regole.

Credo si illudano quelli che pensano che quando uscirà di scena Berlusconi il livello di inimicizia che corrode la nostra vita pubblica crollerà. Non crollerà, resterà intatto l'antagonismo di fondo che coinvolge una parte cospicua degli italiani. Che cosa pensano gli elettori di sinistra di quelli di destra? Ascoltatene le conversazioni: pensano, per lo più, che gli elettori di destra siano degli stupidi (rincretiniti dalle reti Mediaset) oppure dei corrotti. Gli elettori di destra, a loro volta, ritengono che quelli di sinistra appartengano essenzialmente a due categorie, entrambe spregevoli: o sono in evidente malafede o sono dei sempliciotti aizzati da demagoghi senza scrupoli. Nessuna delle due parti è disposta ad ammettere che «gli altri», forse, hanno, oltre che interessi, anche valori diversi dai propri. Ciascuna contrappone i propri valori ai «disvalori» altrui. Il disprezzo è reciproco.

Anche se non ci sono ricerche che lo comprovino sospetto fortemente che gli italiani di destra e quelli di sinistra tendano a frequentarsi assai poco fra loro. Un indizio sta nel fatto che i matrimoni misti (fra esponenti della destra e della sinistra) «fanno notizia». Ciascuno sta rinserrato nella sua parrocchia, parla quasi esclusivamente con quelli della sua parte politica. Il livello di inimicizia, e di disistima reciproca, spinge alla non frequentazione e la non frequentazione, a sua volta, rafforza pregiudizi e ostilità.

Eppure, persino nel caso italiano, così frastagliato e frammentato, sarebbe possibile riconoscere, per chi fosse disposto a osservare le cose con un minimo di obiettività, le stesse divisioni valoriali che sono presenti in tante altre democrazie. Se destra e sinistra significano qualcosa, infatti, esse indicano posizioni diverse su due problemi: le libertà economiche e i diritti civili. Quanto al tema economico, la destra predilige normalmente la libertà rispetto alla eguaglianza e la sinistra l'eguaglianza rispetto alla libertà: la destra è, in materia economica, più «liberale» e la sinistra più «socialista». In tema di diritti civili, invece, le parti si invertono: la sinistra è più «libertaria» (si tratti di matrimoni fra omosessuali o di concessioni di diritti agli immigrati) e la destra è più «tradizionalista». Questa divisione fra una destra liberale e tradizionalista e una sinistra socialista e libertaria la si ritrova ovunque nel mondo occidentale. Variamente declinata a seconda delle specificità storiche di ciascun Paese.

Nel caso italiano non c'è dubbio che il grosso degli elettori di Berlusconi si sia riconosciuto in lui proprio perché lo ha percepito come il campione di quella configurazione valoriale convenzionalmente definita «destra». Così come gran parte degli elettori della sinistra vota in quel modo perché si riconosce in una diversa, e opposta, configurazione valoriale. Ma se le cose stanno così, perché allora la (naturale, normale) ostilità per i leader dello schieramento avverso non si accompagna mai al riconoscimento che gli elettori dell'altra parte non sono sciocchi o, peggio, esseri spregevoli ma persone con valori diversi dai propri? Le ragioni affondano nel nostro passato e spetta agli storici ricostruirle. Il feroce conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani è solo un episodio di una lunghissima storia di «non riconoscimento» reciproco, di negazione all'altro di ciò che si riconosce a se stessi (essere cioè portatori di valori opinabili ma legittimi) e, probabilmente, non sarà l'ultimo.

Se traduciamo tutto ciò sul piano delle «regole», arriviamo alla triste conclusione che non esistano regole che possano guarire la malattia. Il bipolarismo funziona male a causa di un eccesso di inimicizia. Ma se abbandoniamo il bipolarismo e torniamo ai vecchi metodi della proporzionale e dei governi «centristi», non miglioreremo le cose: la democrazia sarà ancora una volta inefficiente per l'immobilismo, per l'assenza di alternanza, e per il fatto di relegare le estreme nel ghetto antisistema. Una democrazia nella quale nessuno è disposto a riconoscere le ragioni dell'altro è condannata comunque all'instabilità e all'inefficienza. Su questo bisognerebbe lavorare prima di pensare alle regole.

Angelo Panebianco

17 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_17/


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'ARTICOLO 1 DELLA COSTITUZIONE
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2011, 06:22:27 pm
L'ARTICOLO 1 DELLA COSTITUZIONE

L'omaggio alla libertà


Una costituzione è fatta di principi e di regole che devono dare corpo ai quei principi. La dimensione simbolica di una carta costituzionale non è meno importante delle sue regole operative.

La questione dell'articolo 1 della Costituzione è tornata ora alla ribalta per l'iniziativa di un deputato del Pdl, Remigio Ceroni, che ne ha proposto una radicale revisione. L'iniziativa è figlia della situazione di conflitto politico feroce che stiamo oggi vivendo e seguirà, presumibilmente, la sorte di altre prese di posizione legate al clima del momento: finirà fortunatamente nel dimenticatoio.

Resterà però, al di là delle vicende contingenti, il problema rappresentato dalla formulazione del primo comma dell'articolo 1 il quale, come è noto, recita: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». All'Assemblea costituente due esponenti della cultura politica liberale, Ugo La Malfa e Gaetano Martino, avevano proposto una diversa versione che richiamava i «diritti di libertà» come primo fondamento della Repubblica. Ma la maggioranza (democristiani, socialisti e comunisti) scelse diversamente. Come ha ricordato Michele Ainis nel suo editoriale di ieri sul Corriere, la proposta di sostituire la parola «lavoro» con la parola «libertà» ritorna periodicamente. È stata avanzata formalmente qualche anno fa dai radicali e spesso rilanciata da altri uomini di cultura liberale, come Mario Segni o Renato Brunetta.

Ainis afferma che sarebbe superfluo un simile intervento dal momento che la libertà, secondo lui, già albergherebbe, «come noce nel mallo», nella democrazia evocata nello stesso articolo 1. Dissento da Ainis e spiego perché. La libertà degli individui (e non, come scrive Ainis, del «popolo» che è soltanto una astrazione) non è affatto già contenuta nella parola democrazia. Questa assimilazione non funziona né dal punto di vista concettuale né da quello storico ed empirico. Sul piano concettuale, democrazia e libertà sono cose diverse (hanno anche una origine storica diversa). Tanto è vero che quando usiamo, per brevità, la parola «democrazia» siamo quasi sempre costretti a precisare che ci stiamo riferendo a una sua particolare versione, quella liberale appunto, la liberaldemocrazia, la versione che combina democrazia e libertà e non ad altre forme di democrazia (popolare, consigliare, eccetera). Né l'assimilazione regge sul piano empirico. Non solo è perfettamente concepibile una democrazia illiberale ma, per giunta, ne esistono in giro molti esemplari: l'attuale Federazione Russa è un esempio.

Ecco perché non si dà alcuna ridondanza se la Repubblica democratica viene fondata sulla libertà anziché sul lavoro. Ma non sono quisquilie, dirà qualcuno? Non abbiamo problemi più seri di cui occuparci? Se la dimensione simbolica di una costituzione è importante, allora quisquilie non sono. I liberali di questo Paese hanno sempre vissuto con grande disagio e come prova del proprio stato di esigua minoranza, il fatto che la nostra carta d'identità collettiva, anziché con un omaggio alla libertà, si aprisse con una formulazione che rivelava la lontananza di tanti membri della Assemblea costituente dai principi della tradizione liberale.

Viste le numerose conversioni (verbali) al liberalismo a cui abbiamo assistito dopo la caduta del comunismo forse sarà il caso, quando se ne troverà il tempo, di porre termine a quel disagio.

Angelo Panebianco

22 aprile 2011(ultima modifica: 23 aprile 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_22/


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Distanti e divisi, i nodi del centrodestra
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2011, 08:49:44 am
DOPO LE AMMINISTRATIVE

Distanti e divisi, i nodi del centrodestra

Difficilmente Bossi romperà l'alleanza col premier

Vorrà ricontrattarla e Berlusconi ha poco tempo


Cosa prefigurano per il futuro politico del Paese il terremoto milanese e, più in generale, i risultati di questa tornata amministrativa? L'unica cosa che possiamo prevedere con un discreto grado di sicurezza è quale sarà, per effetto di questi risultati, la configurazione del centrosinistra alle prossime elezioni politiche. Invece, è buio pesto per quanto riguarda l'altro versante dello schieramento: il centrodestra. Possiamo dire che a sinistra c'è stato un chiarimento, le incertezze strategiche che hanno condizionato l'azione del Partito democratico negli ultimi mesi si sono dissolte, sono state spazzate via dai «fatti», ossia dai numeri.

Queste elezioni amministrative hanno archiviato il progetto - da sempre attribuito a Massimo D'Alema - che prevedeva una alleanza fra Partito democratico e il cosiddetto Terzo polo di Pier Ferdinando Casini e l'emarginazione delle Estreme (Di Pietro e forse anche Vendola). I successi dei candidati delle Estreme (ma anche del movimento di Grillo) e la mancata affermazione elettorale del cosiddetto Terzo polo chiudono la partita.

Il centrosinistra si presenterà alle prossime elezioni con una coalizione in cui le Estreme esigeranno, e otterranno, un ruolo di comprimari, una coalizione il cui asse sarà nettamente spostato a sinistra. Professionisti di lungo corso quali sono quelli del Pd sanno, naturalmente, che una coalizione del genere correrà grossi rischi, sanno che un tale profilo sarà comunque poco congruente con gli orientamenti di fondo del Paese, sanno che potrebbe ripetersi lo scenario dei primi Anni Novanta (vittoria nelle amministrative del '93, sconfitta nelle politiche del '94). Ma sanno anche che c'è, rispetto ad allora, una fondamentale differenza: è data dal fatto che per Berlusconi si avvicina, verosimilmente, il momento della conclusione della sua avventura politica, e ciò può gettare nel marasma il centrodestra.

Una coalizione «di sinistra», anziché di centrosinistra, non vincerebbe mai contro un centrodestra forte ma potrebbe vincere (e persino con una certa facilità) contro un centrodestra demoralizzato, privo di un leader trainante, e dilaniato dalle divisioni.

Nella sconfitta del centrodestra (che diventerebbe disfatta totale se la Moratti, come a questo punto è possibile, perdesse al secondo turno) c'è qualcosa persino di più grave del referendum su se stesso platealmente perduto da Berlusconi proprio a casa sua: c'è una perdita di contatto con la realtà, con gli umori e con le vere aspettative dell'elettorato. In genere, è proprio ciò che accade ai leader e alle classi dirigenti in declino. Giuliano Ferrara ha ragione quando dice che la campagna elettorale del centrodestra è stata un colossale errore dall'inizio alla fine. E nulla lo illustra meglio del caso di Milano. È normale che l'opposizione cerchi di politicizzare il voto comunale ma non è normale che lo facciano le forze che hanno governato la città: a queste ultime serve invece, per lo più, enfatizzare la dimensione amministrativa, valorizzare i risultati che l'amministrazione comunale ritiene di avere raggiunto: anche perché, tolta una fascia di votanti «ideologici» (che votano a destra o a sinistra a prescindere), ci sono poi sempre molti elettori che non dimenticano la posta in gioco, ossia la qualità della «loro» vita nella «loro» città.

Avendo perso il contatto con la realtà, Berlusconi ha imposto una politicizzazione del voto milanese che non ha giovato al sindaco uscente. Adesso ha poche alternative: se tenta solo di sopravvivere navigando a vista non sopravviverà. Né sopravviverà il centrodestra. Egli deve, in accordo con Tremonti, fare ciò che è lecito aspettarsi da un governo di centrodestra: dare una vera sferzata pro-crescita all'economia, liberare gli ingessati «spiriti animali» del capitalismo italiano, venire incontro alle domande dei ceti medi indipendenti, affrontare, con misure straordinarie, il nodo e il blocco dell'economia meridionale. E deve inoltre decidersi a preparare seriamente e con cura la propria successione. Si ritiene, in genere, che una formazione politica non possa sopravvivere all'uscita di scena del capo carismatico che l'ha creata. È vero spesso ma non sempre. Spetta a Berlusconi operare perché la dissoluzione del centrodestra, altrimenti inevitabile, non si compia nel giro di pochi anni o pochi mesi.

Poi ci sono i riflessi sul rapporto fra Pdl e Lega. Se le incertezze strategiche del Pd sono state spazzate via dai risultati del voto, quegli stessi risultati aprono una fase di incertezza strategica per Bossi. Difficilmente egli romperà l'alleanza con Berlusconi: dove potrebbe andare? Ma è certo che vorrà ricontrattarla. Berlusconi ha di fronte a sé poco tempo e moltissime cose da fare.

Angelo Panebianco

18 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_18/


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Anatomia di un declino
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2011, 11:07:36 am
UNA LEADERSHIP IN DIFFICOLTA'

Il commento

Anatomia di un declino

C'è una parte del suo tradizionale elettorato che non crede più in Berlusconi. Non è che si sia spostato a sinistra. Non lo ha fatto. Nemmeno si è spostato sulla Lega. Ha semplicemente smesso di votare Berlusconi. Perché? I guai giudiziari del premier ne hanno certamente logorato l'immagine ma non credo sia questa la ragione principale del distacco. Non si trovano spiegazioni plausibili se ci si limita a cercarle in superficie, nelle contrapposte propagande: «di qua la libertà, di là il comunismo» come dice la destra; «di qua la vera democrazia, di là la destra eversiva e populista» come replica la sinistra. Sono argomenti buoni per comizi e articoli di editorialisti-militanti un po' esagitati, e utili per soddisfare pubblici «propaganda-dipendenti». Ma non spiegano nulla. La vera ragione sta nel fatto che quella parte di elettorato che aveva votato Berlusconi contro la «società corporativa», sperando che egli la smantellasse (o, quanto meno, la indebolisse fortemente) ha constatato che ciò non è avvenuto e ora si è stancata, non crede più alle sue promesse.

Sfruttando il vuoto di potere che si era creato nei primi anni Novanta e le nuove regole del gioco (maggioritarie) Berlusconi mise in piedi, fin dal suo ingresso in politica nel 1994, una coalizione sociale fortemente eterogenea (più eterogenea di quella della sinistra). Usò il linguaggio «liberale» dell'appello al mercato, della riduzione del peso della politica, della de-regolamentazione, per attirare a sé quella parte di elettorato, prevalentemente (ma non solo) del Nord, interessato alla competitività, alla riduzione del peso della politica nella vita associata, allo smantellamento dei mercati chiusi, protetti e iper-regolati da uno Stato inefficiente, costoso e sprecone. Ma, per vincere, Berlusconi dovette anche inglobare ampie porzioni di elettorato più interessato alla difesa dell'esistente che a radicali cambiamenti. I suoi successi, da allora in poi, sono dipesi dalla capacità di stare in equilibrio fra due mondi contrapposti, portatori di domande incompatibili. È stato un eccezionale esercizio di leadership tenere insieme per tanto tempo una coalizione siffatta. Ma non poteva durare in eterno.

Non che non ci siano state anche cose buone (dal punto di vista della modernizzazione del Paese) fatte dai governi Berlusconi. Per esempio, se non fosse per la faziosità che acceca tanti professori, essi dovrebbero riconoscere che la riforma universitaria Gelmini, pur con i compromessi che sono stati necessari per vararla, è decisamente migliore delle pessime riforme fatte in passato dalla sinistra. Stante che il miglioramento del capitale umano è essenziale allo sviluppo, si capisce anche perché è meglio, in genere, che scuola e università siano in mano alla destra (sempre che essa sia capace, come è stato questo il caso, di scegliere un buon ministro) piuttosto che alla sinistra: a differenza della sinistra, la destra non è «ostaggio» delle corporazioni che dominano il settore dell'istruzione (capaci solo di protestare per i «tagli» mettendo la sordina sulle proprie inefficienze), è più libera di agire. È probabilmente la stessa ragione per cui Roberto Maroni, esponente di un partito privo di legami clientelari con il Sud, è risultato un ministro degli Interni più efficiente di altri nella lotta contro la criminalità organizzata.

Ma ammesso che alcune cose buone sono state fatte (anche in altri campi, come quello del mercato del lavoro), resta che non sono state rimosse le fondamentali cause del declino. La società corporativa è ancora viva e vegeta, continuano ad esistere inespugnabili mercati protetti, fonti di tanti sprechi e inefficienze, i piccoli e medi produttori continuano a subire vessazioni burocratiche, il peso dell'intermediazione politica non è stato minimamente scalfito.

Certo, c'è stata la crisi e nessuno può togliere a Giulio Tremonti il grandissimo merito di avere impedito all'Italia di fare la fine della Grecia. E, certo, la riduzione drastica delle tasse da sempre promessa da Berlusconi non poteva esserci con questi chiari di luna. Ma l'elettore che si sta staccando dal premier constata che molte altre cose potevano essere fatte e non lo sono state. Privatizzare e liberalizzare sarebbero state cose possibili in questi anni senza intaccare la giusta linea tremontiana del rigore. Oggi la società sarebbe molto più «libera» e le energie liberate sarebbero una preziosa e potente risorsa per rilanciare la crescita. Sfortunatamente una politica siffatta, stante l'eterogeneità della coalizione sociale del centrodestra, sarebbe venuta incontro alle domande di una parte dell'elettorato ma ne avrebbe anche antagonizzata un'altra parte. Quando il ministro Renato Brunetta (sul Foglio di ieri) espone un complesso progetto - che egli dice già approvato dal Pdl - teso a rimettere in moto lo sviluppo, è impossibile non domandarsi perché quelle cose non siano già state fatte da tempo (e non basta riferirsi alla scissione finiana per spiegarlo). Non è ormai un po' tardi per annunci e promesse?

Gli antiberlusconiani per principio pensano che gli elettori delusi da Berlusconi avessero sbagliato a sceglierlo fin dall'inizio. Ma cos'altro avrebbero potuto fare? Rivolgersi alla sinistra? Ma quegli elettori sanno che la base sociale prevalente della sinistra è data dalle corporazioni del pubblico impiego, un mondo incompatibile con le loro aspirazioni.

Per inciso, è in questa prospettiva che si comprende anche perché la Lega non riesca a sfondare nelle grandi città del Nord a spese del Pdl e anzi mostri segni di arretramento. La Lega esprime un attaccamento al ruolo della intermediazione politica altrettanto forte di quello della sinistra. Non può intercettare i delusi da Berlusconi.

La verità è che se il problema italiano si riduce alla gestione della società corporativa allora la sinistra è più adatta allo scopo rispetto alla destra (alla destra berlusconiana per lo meno). Può farlo con più sapienza. Il premier si era presentato come l'uomo «del fare». Paga il prezzo di ciò che non ha fatto.

Angelo Panebianco

28 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_maggio_28/


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Se tramonta il bipolarismo
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 10:47:11 am
Se tramonta il bipolarismo

L'opinione generale secondo cui gli equilibri del sistema politico italiano stiano per cambiare radicalmente sembra fondata. L'incognita è se ciò avverrà nel giro di qualche mese oppure di un paio d'anni: quanti ne mancano alla conclusione naturale della legislatura. Gli equilibri della cosiddetta Seconda Repubblica si sono retti sulla presenza di Silvio Berlusconi.

Il bipolarismo italiano era, ed è tuttora, un bipolarismo personalizzato, fondato sulla contrapposizione fra i sostenitori e i nemici di Berlusconi. Quando l'attuale premier uscirà di scena quegli equilibri salteranno. Ci sono due possibilità. La prima consiste nel passaggio dal bipolarismo personalizzato a un bipolarismo «impersonale» o istituzionalizzato: la contrapposizione non sarebbe più fra amici e nemici di Berlusconi ma fra una destra post berlusconiana e la sinistra. Naturalmente, emergerebbero, a destra come a sinistra, nuovi leader e entrambe le coalizioni dovrebbero rinnovare profondamente la propria «ragione sociale». Ma non ci sarebbe più «un uomo solo al comando»: alla leadership carismatica subentrerebbero leadership più oligarchiche, più collegiali. Non solo a sinistra, dove è sempre stato così, ma anche a destra.

La seconda possibilità è la fine del bipolarismo: partiti che ottengono mandati in bianco alle elezioni, governi che si formano e si disfano in Parlamento senza alcun bisogno di chiedere il permesso agli elettori. Per alcuni questo sarebbe un ritorno ai veri e sani principi della democrazia parlamentare, per altri (compreso chi scrive) sarebbe invece la riproposizione di antichi riti trasformisti.

Non credo che esista la terza possibilità auspicata in questi giorni da Giuliano Ferrara: un Berlusconi di colpo ringiovanito che riprenda con nuova verve le idee e i progetti del 1994, rivitalizzando così la propria leadership e la propria organizzazione politica.
Il tempo è impietoso con tutti. Si tratta di vedere «come» Berlusconi deciderà di lasciare la scena politica. Lo farà preparando sul serio la successione oppure dovremo fra poco constatare che le mosse recenti, da Alfano segretario alle ventilate primarie, sono state fatte solo per guadagnare tempo? Se, come credo, l'alternativa che ci aspetta è fra un bipolarismo istituzionalizzato e il trasformismo parlamentare, allora Berlusconi preparerà davvero la propria successione salvando anche il Popolo della Libertà (senza il quale non è nemmeno concepibile il centrodestra) se, e solo se, lavorerà per consolidare il bipolarismo.

Nei momenti di passaggio da un equilibrio all'altro, secondo tradizione, viene organizzata dalla politica una grande festa da ballo «a tema»: il tema è sempre la legge elettorale. Qualcuno ne parla già apertamente e altri no ma tutti coloro che fanno professionalmente politica sanno che la riforma della legge elettorale è tornata di attualità. Se guardiamo alle dinamiche in atto e alle forze in campo, dobbiamo concludere che l'esito più probabile sia un ritorno alla proporzionale: basta eliminare il premio di maggioranza e il gioco è fatto. Poiché ciò a cui guardano gli attori politici è il proprio interesse di brevissimo termine (la politica è un'attività molto incerta, non consente di ampliare troppo l'orizzonte temporale, di fare calcoli che vadano al di là del breve periodo), il ritorno alla proporzionale, in questo momento, sembra convenire a (quasi) tutti. Quella scelta spalancherebbe le porte al secondo scenario qui ipotizzato: la fine del bipolarismo, la rinascita del trasformismo parlamentare.

Quella scelta avrebbe due controindicazioni. La prima riguarda il futuro della democrazia italiana. Per le ragioni dette, ciò può preoccupare più noi cittadini che i politici. Non esistendo più i forti e radicati partiti della Prima Repubblica, con la proporzionale si assisterebbe al trionfo di un notabilato politico impegnato a fare e disfare alleanze parlamentari: instabilità e ingovernabilità diventerebbero endemiche. La seconda controindicazione riguarda il Popolo della Libertà. La fine del bipolarismo e il ritorno alla proporzionale ne decreterebbero la dissoluzione.

Si illudono coloro che in quel partito pensano che con la proporzionale potrebbero comunque godere di un bella rendita elettorale.
Non esistono partiti per tutte le stagioni. Ricordate come finì la Dc di Mino Martinazzoli?
Si illuse di poter sopravvivere al passaggio dalla proporzionale al maggioritario. Una volta effettuato il passaggio, il partito si dissolse. Il Pdl è nato con il bipolarismo e ne ha bisogno per continuare a esistere. Il suo interesse è che il sistema bipolare sopravviva. Per questo serve al Pdl una riforma elettorale maggioritaria, non proporzionale. In quella direzione dovrebbe muoversi Silvio Berlusconi se volesse davvero assicurare un futuro alla propria creatura politica.

Poi, certo, ci sono i contenuti della politica. La legge elettorale può solo influenzare la conformazione del campo di gioco, dettare alcune regole della competizione, e decretare la sopravvivenza o la dissoluzione delle forze esistenti.

Vincere le elezioni è tutta un'altra storia. Conterà cosa farà o non farà il governo nei due anni restanti e, forse ancor di più, conteranno i profili e le scelte dei leader che, a destra e a sinistra, emergeranno al tramonto dell'era berlusconiana.

Angelo Panebianco

06 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_06/


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Dai Referendum una Lezione che Brucia
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2011, 06:50:00 pm
IL CENTRODESTRA ALLO SPECCHIOIl

Dai Referendum una Lezione che Brucia


Quelli che si sono svolti, come tante altre volte è accaduto nella nostra storia, erano referendum contro il governo (e, nel caso specifico, contro Berlusconi) e la sconfitta del governo è stata netta e bruciante. Come tutti gli osservatori hanno concordemente rilevato. Con l'aggravante che il centrodestra, non pago della lezione delle amministrative, ha continuato, anche in questa campagna referendaria, ad accumulare errori. Mentre le opposizioni facevano propaganda per il «sì» e mobilitavano il Paese, il governo non è stato neppure capace di tentare una contro-mobilitazione a favore del «no», in difesa di quelle che erano comunque le «sue» leggi. E le estemporanee dichiarazioni di Berlusconi sul fatto che sarebbe stato meglio «non andare a votare» o le risibili parole d'ordine sulla «inutilità» dei referendum, hanno aggiunto, per la maggioranza e per il governo, danno al danno.

È meglio perdere in modo aperto, in uno scontro frontale, o cercare di nascondersi in qualche angolo buio nell'illusione di schivare le conseguenze della sconfitta? È politicamente più grave perdere un referendum salvando almeno la faccia o perdere entrambi? Il centrodestra ha confermato, con i suoi comportamenti opportunisti, di essere un esercito allo sbando. È vero, naturalmente, che in questa vicenda l'opportunismo non ha riguardato solo il centrodestra. Anche il Pd di Bersani, sposando il doppio «sì» sulla questione dell'acqua, ha fatto il suo bravo salto della quaglia. Ma in politica contano i risultati: l'opportunismo di chi vince è oscurato dalla vittoria, quello di chi perde è messo in risalto dalla sconfitta.

Se l'aspetto politico dei risultati della consultazione è chiaro, più complicato diventa valutare, nelle implicazioni e ramificazioni, le conseguenze per il Paese della vittoria dei «sì». Mi riferisco ai due soli quesiti che non avevano una valenza esclusivamente simbolica ma anche pratica: i quesiti sull'acqua. Non a quello sul legittimo impedimento, già svuotato dalla sentenza della Corte Costituzionale né a quello sul nucleare. A proposito del quale è meglio dirsi la verità: anche senza la tragedia giapponese l'Italia non sarebbe riuscita lo stesso ad entrare nel club nucleare. Quello era comunque un autobus definitivamente perduto tanto tempo fa: in un Paese dove non si riesce a fare la Tav o a mettere in funzione un termovalorizzatore, come sarebbe stato possibile localizzare da qualche parte una centrale nucleare senza scatenare feroci e invincibili resistenze locali?

Nei due referendum sull'acqua, invece, all'inevitabile aspetto simbolico, si uniscono gli effetti pratici. Gli effetti pratici riguardano sia il caso dell'acqua (che la legge abrogata non privatizzava affatto), rendendo molto più difficoltoso reperire le risorse necessarie per rimediare alle attuali, paurose, inefficienze del sistema, sia quello di molti altri servizi pubblici. Continueranno a farla da padrone le società controllate dagli enti pubblici, che in Italia poi significa i partiti e i loro clienti. Diventerà ancora più difficile ottemperare alle direttive europee che impongono di introdurre il principio di concorrenzialità nei servizi pubblici.

Qui si apre un grosso problema. Per uno dei vincitori, innanzitutto, e cioè il Pd di Bersani. E, naturalmente, per il centrodestra. Comprensibilmente, quando si vince si è contenti e basta ma il problema di Bersani, nei prossimi mesi, passata l'euforia, sarà quello di trovare un equilibrio che gli consenta di smarcarsi dalla trappola massimalista in cui, proprio sulla questione dell'acqua, lo hanno spinto Vendola e Di Pietro. Il suo problema sarà quello di recuperare un profilo riformista che, oltre tutto, è più coerente con la sua storia personale. È certo che il Paese ha bisogno di privatizzazioni e anche di capitali privati nei servizi pubblici. E che l'alternativa, ossia un accrescimento della già altissima pressione fiscale, non è una soluzione gestibile. Se vorrà costruire una piattaforma di governo in grado di intercettare quella quota di elettori necessaria per vincere le elezioni politiche (che, ricordo, sono tutt'altra cosa rispetto alle amministrative o ai referendum) dovrà spegnere molti dei bollori statalisti che abbiamo visto esplodere incontrollati in questa campagna referendaria. Dovrà dimostrare che Vendola si sbaglia quando dice che con questi referendum è stata sconfitta la «cultura delle privatizzazioni». Perché se avesse ragione Vendola, se quella fosse la conclusione da trarre dalla vittoria dei «sì», allora vorrebbe dire che a sbagliarsi è stato Mario Draghi quando, nel suo recente discorso di commiato in Bankitalia, ha sostenuto che questo Paese non è necessariamente condannato al declino economico.

A condannarlo al declino sarebbe la cultura politica prevalente. Nell'esito dei referendum sull'acqua c'è anche, oltre che una sconfitta, una lezione per il centrodestra. Come ha scritto Franco Debenedetti (Il Sole 24 ore, 14 giugno), logoramento personale di Berlusconi a parte, la delusione degli elettori del centrodestra è dipesa dal divario fra le parole e i fatti. Le parole a favore della drastica riduzione dell'invadenza dello Stato sono rimaste tali. I fatti sono andati, con poche eccezioni (la legge sull'acqua era appunto una di queste), in un'altra direzione. Non si sa chi, all'incombente tramonto dell'era berlusconiana, erediterà il centrodestra. Chiunque sia, è certo che se vorrà avere chance di vittoria dovrà dimostrare a quegli elettori delusi di avere imparato la lezione, di essere capace di ridurre la distanza fra il dire e il fare. E dovrà anche dimostrare, come non ha fatto il centrodestra in questa campagna referendaria, di essere pronto a difendere con risolutezza le cose in cui dice di credere.

Angelo Panebianco

15 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_15/


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La coperta dello Stato padrone
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2011, 10:54:57 pm
I PENTITI DEL LIBERALISMO

La coperta dello Stato padrone

Come sempre accade nelle fasi in cui si attendono grandi cambiamenti, c'è tanta confusione nei commenti che si leggono sul caso italiano. Il probabile tramonto della leadership di Silvio Berlusconi si carica di eccessive speranze di palingenesi (fra gli antiberlusconiani) e di eccessivi timori di catastrofi (fra i berlusconiani) e in entrambi i casi ciò non aiuta la lucidità delle analisi. Ma, spesso, nemmeno i commenti dei più pacati, quelli che trovano (giustamente) ridicole le attese palingenetiche o catastrofiche, riescono a fare sufficiente chiarezza sulle cause che stanno dietro all'attuale erosione dei consensi per l'uomo che dal 1994 è al centro della politica italiana.

Ovviamente, tutti concordano (chi potrebbe non concordare?) sul fatto che l'immagine di Berlusconi sia stata logorata dalle inchieste giudiziarie e dai connessi scandali. Ma nessuno, in realtà, si accontenta solo di questa spiegazione. Ed è qui che comincia la confusione. Perché del declino di Berlusconi, logoramento di immagine a parte, vengono poi date due interpretazioni fra loro contraddittorie (qualche volta persino dallo stesso commentatore). Dobbiamo spiegare quel declino come il frutto di un fondamentale «riallineamento» politico-culturale che investirebbe non solo l'Italia ma l'intero mondo occidentale, un effetto della fine della cosiddetta «era liberista», quella nella quale si chiedevano meno Stato, più mercato, più privatizzazioni, più libertà economiche individuali? In questa prospettiva, il tramonto di Berlusconi si legherebbe a un cambiamento permanente, innescato dalla crisi economica mondiale, degli orientamenti dell'opinione pubblica, oggi più interessata alla protezione degli individui da parte dello Stato (come dimostrerebbe anche la domanda «statalista» che si è affermata nei recenti referendum sull'acqua) che non all'ampliamento delle libertà economiche a scapito dello Stato.

Oppure, il declino di Berlusconi è dovuto alle sue tante promesse non onorate, al fatto che egli aveva garantito meno Stato e più libertà e non è riuscito - non ha saputo o non ha voluto - dare un effettivo seguito alle promesse? Potrebbe essere vera la prima spiegazione (fine del ciclo liberista) oppure potrebbe essere vera la seconda (mancata realizzazione della promessa liberista) ma non possono esserlo entrambe.

Chi tira in ballo la fine del ciclo liberista fa una mossa giusta (collega quanto accade in Italia a più generali cambiamenti internazionali), anche se poi ne trae conclusioni affrettate o azzardate. Non è mai possibile spiegare tendenze o mutamenti di fondo in un Paese senza connetterli a quanto accade altrove e noi italiani dovremmo saperlo bene: la democrazia bloccata della Prima Repubblica sarebbe inspiegabile senza la guerra fredda e Mani Pulite non ci sarebbe stata senza il crollo del Muro di Berlino. Secondo questa interpretazione, oggi sostenuta da molti neokeynesiani, la crisi mondiale avrebbe rilanciato la necessità di tornare a quelle forme di embedded liberalism (un liberalismo economico guidato e tutelato dallo Stato e accompagnato da un forte intervento statale di segno ridistributivo) che caratterizzarono il mondo occidentale dalla fine della seconda guerra mondiale fino alle rivoluzioni reaganiana e thatcheriana.
In queste condizioni, un tardo epigono (in versione italiana) del reaganismo come Berlusconi avrebbe fatto definitivamente il suo tempo.

Ma i sostenitori di questa tesi dimenticano che dell'embedded liberalism del primo dopoguerra mancano oggi le condizioni politiche (la guerra fredda e l'indiscussa leadership americana che tenevano unito il blocco occidentale). Ovviamente, la crisi ha scatenato una domanda di Stato e di forte regolazione statuale dell'economia ma sarà ancora così quando la crisi verrà definitivamente superata? E che accadrebbe se un repubblicano, assertore di ricette economiche opposte a quelle dell'attuale presidente, tornasse a guidare gli Stati Uniti al posto di Obama? Quali ripercussioni ciò avrebbe sull'Europa? Prima di parlare di fine definitiva di un ciclo o di un'epoca bisognerebbe forse aspettare un po'.

C'è comunque un grano di verità in questa interpretazione: la crisi economica ha certamente inciso potentemente, in Italia come altrove, sugli orientamenti del pubblico. Ma, ciò nonostante, la spiegazione che fa perno sulle promesse non mantenute di Berlusconi resta ancora, a mio giudizio, la più plausibile. Si noti il paradosso: da un lato, si parla di fine del ciclo liberista ma, dall'altro, quasi tutte le ricette che vengono proposte per affrontare il caso italiano vanno nella direzione opposta. Al governo Berlusconi non si imputa un eccesso di liberalizzazioni e privatizzazioni, si imputa (giustamente) il contrario. Chi parla di «riforme» per rilanciare la crescita - da Bankitalia a Confindustria, fino alla recente relazione del presidente dell'Antitrust, Antonio Catricalà - fa sempre riferimento alla necessità di accrescere la competitività, e di rompere o indebolire i tanti mercati protetti. Che non è certo un modo per ampliare il peso dello Stato.
Poiché gli equilibri della politica italiana si reggono da quasi vent'anni su Berlusconi e la divisione cruciale è fra berlusconiani e antiberlusconiani, se il berlusconismo finisce ciò non può non determinare un radicale cambiamento del sistema politico. Ma questo fatto indiscutibile non va confuso con l'idea che della libertà «dallo Stato» non importi più nulla a nessuno. Detto in altri termini, è improbabile che gli elettori delusi da Berlusconi diventino in futuro sostenitori di Nichi Vendola o di Rosy Bindi.

Il conflitto fondamentale, nelle democrazie occidentali, riguarda il ruolo dello Stato. Ci sono, naturalmente, molte posizioni intermedie ma il «tono» del conflitto è dato dagli argomenti e dalle azioni di coloro che occupano gli estremi opposti di un continuum: a un estremo stanno coloro per i quali lo Stato va inteso come l'unico dispensatore autorizzato della «felicità», il demiurgo che deve assicurare benessere e sviluppo; all'altro estremo stanno coloro per i quali il compito dello Stato, più limitato ma altrettanto impegnativo, è di garantire le condizioni che consentano alle libere scelte e alla libera iniziativa dei singoli di generare benessere e sviluppo. Questo conflitto è destinato a continuare. Anche in Italia.

Angelo Panebianco

26 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_26/panebianco_coperta_stato_padrone_41914626-9fc6-11e0-9ac0-9a48d7d7ce31.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I tre ostacoli che attendono Alfano
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2011, 05:09:59 pm
LE PROVE CHE ATTENDONO ALFANO

I tre ostacoli che attendono Alfano

Dentro il Pdl e anche fuori


La nomina di Angelino Alfano a segretario del Popolo della libertà può essere diversamente interpretata. A seconda di ciò che si pensa sul destino dei partiti personalistici o carismatici. Se si ritiene che quei partiti siano sempre condannati a seguire la parabola dei loro leader fondatori, talché al declino politico del leader debba necessariamente seguire la disgregazione del partito, allora quella nomina può essere liquidata come una operazione-maquillage, il disperato tentativo di un vecchio capo in difficoltà di gettare un po' di fumo negli occhi dell'opinione pubblica. Se invece si pensa che quei partiti possano, qualche volta, sopravvivere al declino dei fondatori, allora il giudizio sarà diverso: si potrà ipotizzare l'inizio di una nuova fase, immaginare che sia in atto un tentativo di scongiurare la disgregazione dell'organismo politico favorendo una successione morbida, non traumatica, della leadership. Come ha scritto giustamente Stefano Folli sul Sole 24 Ore di ieri, la storia ha, in genere, più fantasia di noi, è sempre in grado di sorprenderci. L'esito non è scontato, né in un senso né nell'altro.

Alfano deve fronteggiare difficoltà di vario ordine: su alcune può esercitare un certo controllo (nel senso che la sua azione può avere conseguenze decisive), su altre no. Le difficoltà riguardano il rapporto con Berlusconi, il rapporto con i maggiorenti del partito, e, infine, il rapporto con le forze politiche esterne, alleati e potenziali alleati.

La nomina di Alfano significa che Berlusconi ha finalmente capito che solo predisponendo le condizioni per la successione potrà forse salvare la propria creatura politica. Non era scontato che lo capisse. Va a merito della sua intelligenza politica. Si tratta di vedere se saprà anche accettare che Alfano si conquisti quella, sia pure parziale, autonomia che sola può dare autorevolezza e forza al suo nuovo ruolo. Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente, ma è la principale sfida che il neosegretario ha di fronte: conquistare sul campo autonomia senza entrare in rotta di collisione con il leader-fondatore.

La seconda difficoltà riguarda il rapporto con i maggiorenti del partito. Lo hanno applaudito e acclamato ma è ovvio, e anche del tutto naturale, che cerchino di condizionarlo. Quanto più ci riusciranno, tanto meno efficace sarà la sua azione. Qui il problema di Alfano è riuscire a imporre un armistizio, la fine di quella guerra di tutti contro tutti che esplose ben prima delle recenti sconfitte (nelle amministrative e nei referendum) ma che da quelle sconfitte è stata ulteriormente esasperata. Qualcuno potrebbe sostenere che Alfano otterrà una certa autonomia (da Berlusconi) e riuscirà anche a imporsi sui maggiorenti del partito solo se riconquisterà quegli elettori che se ne sono allontanati, solo se riuscirà a dimostrare che il rapporto fra il partito e il suo elettorato non è definitivamente compromesso. Ma, in realtà, su questo aspetto, Alfano può ben poco. Che gli elettori delusi ritornino oppure no non dipende da lui, dipende da ciò che farà il governo da ora alla fine della legislatura.

Il terzo fronte riguarda il rapporto con le altre forze politiche. Alfano deve impedire che si allarghino le crepe nel rapporto con la Lega e, contemporaneamente, deve cercare il massimo possibile di convergenza con il cosiddetto terzo polo e, soprattutto, con il suo leader di maggiore peso, Pier Ferdinando Casini. Su questo terreno la maggiore insidia per lui è data dai movimenti in atto tesi a far saltare il bipolarismo. Coloro che identificano il bipolarismo con il berlusconismo pensano che al declino del secondo debba anche corrispondere la fine del primo. Ma il problema per Alfano è che se salta il bipolarismo salta anche il Pdl. Se non contrasterà le manovre volte a spazzare via l'assetto bipolare allora sì che darà ragione a chi lo vede come una specie di esecutore testamentario del partito. Difficilmente Alfano potrà quindi esimersi, nei prossimi mesi, dall'avanzare una seria proposta di riforma elettorale che sia volta a mettere in sicurezza il bipolarismo. Conciliare tale proposta con la ricerca di convergenze con i potenziali alleati sarà il (difficilissimo) compito che egli dovrà comunque assumersi. Non dimentichi il precedente gollista. Il partito gollista, un puro partito carismatico, sopravvisse all'uscita di scena del suo fondatore anche grazie alle caratteristiche delle istituzioni politiche della Quinta Repubblica. In Italia una grande riforma delle istituzioni è esclusa. Resta però la legge elettorale e sarà quello il terreno su cui il Pdl giocherà, almeno in parte, le sue future chances di sopravvivenza.

Chi spera che il possibile declino di Berlusconi porti con sé anche la disgregazione del Pdl e, per conseguenza, dell'intero centrodestra, e buona notte al secchio, non è in possesso, diciamolo, di irreprensibili credenziali democratiche. Dal momento che alla democrazia italiana servono, e serviranno anche in futuro, sia un grande partito di sinistra che un grande partito di destra. Per questo, il difficile tentativo di Alfano va seguito con interesse.

Angelo Panebianco

04 luglio 2011 11:28© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_04/alfano-panebianco_9979ad9c-a5fc-11e0-89e0-8d6a92cad76e.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Ora la dieta per la grassa politica
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2011, 03:39:41 pm
NIENTE SCONTI A CASTA E DINTORNI

Ora la dieta per la grassa politica

È sempre stato un argomento capace di suscitare l'indignazione dei cittadini. Ormai, però, è diventato anche qualcosa d'altro: un vincolo economico, una palla al piede per il Paese, una fonte di spesa improduttiva che sottrae risorse alla crescita. È il tema dei costi della politica. Una parte di questi costi è documentata e documentabile. Gian Antonio Stella, sul Corriere di ieri, ha mostrato quanto pesino sulle tasche del contribuente italiano, fra indennità, rimborsi, eccetera, i parlamentari, i consiglieri regionali e gli altri rappresentanti eletti. E il confronto con gli assai più contenuti stipendi dei rappresentanti statunitensi è risultato davvero istruttivo.

I costi documentati sono peraltro solo la punta dell'iceberg. I dati precisi non sono facilmente reperibili ma è certo che il numero di coloro che in Italia vivono «di politica» (la cui fonte di reddito, cioè, deriva, direttamente o indirettamente, dalla politica) è enormemente cresciuto negli ultimi venti anni: c'è chi pensa che sia addirittura quadruplicato o quintuplicato. Non è affatto solo una questione di auto blu e di stipendi di rappresentanti eletti (che sono le cose che maggiormente colpiscono il cittadino). C'è molto, molto di più. Là fuori c'è un vero e proprio esercito, con famiglie a carico, di quelli che potremmo definire «professionisti politici occulti», persone che campano grazie al fatto che la politica (i partiti) li ha piazzati - a livello nazionale, regionale, locale - in consigli di amministrazione, all'interno di società pubbliche, e ovunque essa potesse allungare le mani. Persone che sono in quei posti, per lo più, non per le loro competenze ma per i loro legami politici.

Scommetto che nemmeno al ministero dell'Economia sono in possesso di dati precisi sui «costi reali» della politica in Italia. Ma è certo che se questi costi potessero essere seriamente ridotti, si darebbe un bel colpo alla spesa pubblica improduttiva, si libererebbero risorse diversamente impiegabili.

Solo che ciò è molto più facile a dirsi che a farsi. Per diverse ragioni, alcune tecniche, altre istituzionali, altre politiche. Fra le ragioni tecniche c'è, prima di tutto, come si è già accennato, il fatto che nessuno sa davvero quantificare con precisione questi costi. Soprattutto a livello locale, essendo gli enti locali comprensibilmente restii a fornire dati così «politicamente sensibili». E poi c'è il problema dei diritti acquisiti: tagliare con l'accetta questi costi significa in molti casi toccare emolumenti cui tutte quelle persone pensano di avere ormai diritto. Un taglio drastico scatenerebbe probabilmente una valanga di ricorsi.

C'è anche una ragione istituzionale. La parte forse più consistente degli alti costi della politica chiama in causa la responsabilità delle classi politiche regionali e locali. Un intervento del centro (governo e Parlamento) si scontrerebbe con la difesa della propria autonomia da parte di molte strutture periferiche. Si renderebbe allora necessaria una complessa contrattazione fra centro e periferia del cui esito positivo sarebbe lecito dubitare.

Ci sono poi le difficoltà politiche. I costi della politica sono rimasti fin qui un tema tabù sia con i governi di destra che con quelli di sinistra. Per due motivi. Perché qualunque governo voglia incidere seriamente su quei costi deve essere disposto a fronteggiare rivolte all'interno dei partiti che lo sostengono e negli enti locali controllati da quei partiti. E perché cercare di incidere su quei costi significa spostare gruppi e clientele (e quindi anche voti) verso i partiti avversari. Occorrerebbe davvero un accordo bipartisan, anzi un vero e proprio patto di ferro fra i partiti nazionali, per affrontare sul serio la questione.

C'è infine un'ultima ragione che dipende dagli orientamenti dell'opinione pubblica. Bisogna dire che i cittadini hanno, sulla questione dei costi della politica, atteggiamenti contraddittori. Diciamo che quella dei cittadini italiani è, per lo meno, una indignazione «selettiva». Nulla lo prova meglio dei risultati dei recenti referendum sull'acqua, grazie ai quali è stata abrogata una delle pochissime leggi che sottraeva alle grinfie dei partiti il controllo su «posti» e prebende: nel caso specifico, le nomine in società preposte ai servizi pubblici. La questione dei costi della politica, infatti, si intreccia strettamente con quella del ruolo del potere pubblico. Quei costi (stipendi dei rappresentanti a parte) non sono sostanzialmente riducibili senza un consistente dimagrimento dello Stato e degli enti pubblici locali, senza spostare, tramite privatizzazioni, verso il mercato compiti gestionali e prerogative oggi in mano al «pubblico» (ossia, ai partiti). Ma non sempre il cittadino che si indigna è anche disposto a trarre le dovute conseguenze, a consentire con politiche di riduzione del peso dello Stato (che contribuirebbero ad abbattere quei costi).

A parole, siamo (quasi) tutti d'accordo: i costi della politica vanno drasticamente ridotti. Passare all'azione richiederebbe però maggiore consapevolezza dei problemi da affrontare.
Angelo Panebianco

Angelo Panebianco

14 luglio 2011 08:06© RIPRODUZIONE RISERVATA
da -


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il vento forte dell'antipolitica
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2011, 09:57:01 pm
TRA RAGIONI VERE E DEMAGOGIA

Il vento forte dell'antipolitica

Siamo, come molti pensano, alla vigilia di una nuova esplosione di antipolitica nel Paese? Un segnale forte, per la verità, c'era già stato: la trionfale elezione di Luigi de Magistris a sindaco di Napoli. Anche se Napoli non è certo rappresentativa dell'Italia intera, è però indubbio che in quella occasione abbiamo visto l'antipolitica in azione: con la sua condanna sommaria e generalizzata del cosiddetto ceto politico, di maggioranza e di opposizione. Luciano Violante, sul Foglio di giovedì, ha ricordato che la nostra storia è contrassegnata da periodiche esplosioni di rivolta contro la classe politica. Con intervalli all'incirca ventennali, e pur nella diversità dei contesti e delle circostanze: il fascismo, la resistenza, il sessantotto, mani pulite. È la politica che, non riuscendo a rinnovarsi e a dare al Paese una salda guida e una direzione di marcia, commette periodicamente suicidio, suscita contro se stessa forze che la travolgono.
Aggiungo però che queste cicliche esplosioni non si spiegherebbero senza la presenza di alcune pre-condizioni culturali, senza certe costanti che sono tipiche della nostra tradizione. La più importante delle quali è la favola che si tramanda dall'Ottocento: quella di una società civile pura e incorrotta contrapposta a una società politica sede di ogni turpitudine. Non importa che quella rappresentazione sia una puerile bugia. Importa che essa determini di necessità un grado perennemente basso di legittimità della politica, e delle stesse istituzioni politiche (e che lasci il passo, nei momenti di crisi, alla loro delegittimazione aperta). Importa che sia creduta da tanti e che si trovino sempre dei nuovi demagoghi disposti a sfruttarla per i loro scopi. Importa il fatto che essa funzioni come una sorta di profezia che (periodicamente) si auto-adempie.
Sapevamo tutti che in un sistema politico i cui equilibri, da più di un quindicennio, si reggono sulla leadership di un uomo, Silvio Berlusconi, il declino politico di quell'uomo avrebbe prodotto una sorta di Big Bang. E ora abbiamo scoperto che anche la seconda gamba su cui si è retto il sistema politico, la leadership di Umberto Bossi, vacilla. Qualcuno vedrà forse all'opera una sorta di nemesi. In modi diversi, infatti, sia Berlusconi che Bossi sono emersi sull'onda di movimenti antipolitici che essi hanno però incanalato entro il sistema democratico. Il loro declino riapre tutti i giochi e crea varchi attraverso i quali l'antipolitica, non necessariamente di segno democratico, potrebbe di nuovo dilagare con grande impeto. Non sarebbe travolta solo l'attuale maggioranza ma, probabilmente, anche l'opposizione (che è anch'essa, come mostra la vicenda Penati, in gravi difficoltà).
Però la storia non è mai scritta in anticipo. Non è vero che quell'esito sia ormai ineluttabile. Occorrono certe condizioni. Se le decisioni prese dall'Europa sulla Grecia funzioneranno, se l'Unione monetaria si salverà, se l'Italia non finirà nel baratro come abbiamo temuto nei giorni scorsi, ecco che almeno una delle condizioni che agevolano l'esplosione di movimenti antipolitici non si realizzerà.
Ci sono poi i margini di azione di cui comunque i politici ancora dispongono: spetta a loro farne un uso sapiente. Ad esempio, serve ormai solo ad accrescere l'impopolarità della politica evitare di aggredire la questione dei suoi costi.
Quanto meno dal punto di vista simbolico è cruciale trasmettere al Paese l'idea che ai sacrifici che si chiedono ai cittadini corrisponda una disponibilità della politica a ridurre i propri privilegi. Sapendo, naturalmente, che (proprio perché non esiste quella società civile pura e innocente dipinta dai demagoghi dell'antipolitica), colpire i costi della politica, in certe aree del Mezzogiorno ma non solo, può significare innescare forme di ribellismo, fare inferocire clientele che dalla politica dipendono. Anche questo attiene al folklore antipolitico: «onesti cittadini» che mordono la mano da cui prendevano il cibo non appena si accorgono che le razioni si assottigliano.
E c'è poi il ruolo della presidenza della Repubblica: la sua importanza, ai fini della tenuta del sistema politico, cresce in rapporto direttamente proporzionale all'indebolimento del governo. Così va oggi interpretata l'azione del presidente Napolitano: dalla richiesta all'opposizione di non contrastare una rapida approvazione della manovra economica al fine di rassicurare i mercati internazionali, al fermo richiamo ai magistrati contro i protagonismi che fomentano lo scontro con la politica. Un richiamo assai opportuno se si considera che non le inchieste giudiziarie ma il modo in cui spesso vengono condotte contribuisce a risvegliare i più bassi istinti di una parte del pubblico, a diffondere sgradevoli richieste di giustizia sommaria. In barba alla presunzione di non colpevolezza.
C'è un'altra cosa che forse servirebbe per disinnescare certe spinte: fare una buona riforma elettorale. I sentimenti antipolitici sono oggi alimentati anche dalla polemica contro il cosiddetto «Parlamento dei nominati», ossia contro le liste bloccate. Non è meglio tornare a un sistema maggioritario (con un turno o due turni) con collegi uninominali? Il partito di maggioranza relativa, il Pdl (che avrebbe tutto da perdere se saltasse il bipolarismo) potrebbe farne oggetto di trattativa con la Lega: appoggeremo la vostra proposta di Senato federale solo a condizione che voi appoggiate una riforma elettorale così concepita. Troverebbe per strada anche il sostegno di una parte del Partito democratico.
L'anti-politica è la malattia infantile della democrazia e l'Italia, con la sua salute perennemente cagionevole, è assai portata alle ricadute. Ma c'è ancora qualche margine per lasciare i paladini dell'antipolitica a bocca asciutta.

Angelo Panebianco

24 luglio 2011 10:11© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_24/panebianco-antipolitica-demagogia_5faf8afe-b5c5-11e0-b43a-390fb6586130.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Governi tecnici tra mito e realtà
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2011, 05:31:37 pm
IL DIBATTITO SULL'EMERGENZA

Governi tecnici tra mito e realtà

Il copyright non è italiano ma è diventata ormai una specialità italiana. È la formula del «governo dei tecnici», sempre invocata nei momenti di difficoltà della democrazia parlamentare. Non è il semplice governo di minoranza, fondato sulla benevola astensione delle principali forze parlamentari, cui sovente fanno ricorso le democrazie. È qualcosa di più e di diverso. È il governo dei «competenti». Implica sfiducia nella democrazia rappresentativa. Il sottinteso è che i politici, i rappresentanti eletti, siano incompetenti, gente che sa fare solo disastri. Nell'ideale del governo dei tecnici si esprimono i sentimenti anti-politici delle élite. Se «mandiamoli tutti in galera» è lo slogan che meglio riassume i sentimenti anti-politici del popolo, «facciamo un governo dei tecnici» è il programma anti-politico delle élite.

La formula, che già Benedetto Croce, ai suoi tempi, aveva criticato con asprezza, torna oggi di attualità. Non poteva essere diversamente, stante le nostre tradizioni e il grave stato di salute della maggioranza berlusconiana. Possiamo identificare due categorie di sostenitori del governo dei tecnici. La prima è composta da quelli che vorrebbero sbarazzarsi di Berlusconi e sono alla ricerca di una qualunque risorsa che serva allo scopo. È stravagante che spesso gli stessi che oggi accarezzano l'idea di un governo dei tecnici si presentino, in altre fasi, come i paladini della democrazia parlamentare nella forma prescritta dalla Costituzione: è infatti difficile immaginare qualcosa di meno compatibile con la democrazia parlamentare del governo dei tecnici. Ma la loro posizione è comprensibile: lo scopo è politico (abbattere Berlusconi), i mezzi si equivalgono.

La seconda categoria è più interessante. È composta da coloro che pensano che oggi in Italia bisognerebbe fare certe cose e che i politici, proprio perché vincolati agli elettori da un rapporto di rappresentanza, non siano in grado di farle. Spesso si tratta di persone sinceramente preoccupate per il destino del Paese. Ritengono che l'Italia sia in una situazione di emergenza e che la democrazia rappresentativa non sia in grado di farvi fronte con i normali strumenti. Il governo dei tecnici è per costoro quella «breve vacanza» dalla, e della, politica, che può servire per rimettere le cose a posto. I «tecnici» hanno infatti questo vantaggio rispetto ai politici: non devono rendere conto agli elettori, non hanno il problema di essere rieletti, possono prendere decisioni in totale libertà. Il punto debole del ragionamento è che senza un accordo politico fra forze parlamentari, un tale governo non può essere insediato né, una volta insediato, può decidere alcunché. Si torna così alla casella di partenza: non importa il pedigree tecnico di chi governa, a metterci la faccia, a rischiare i voti, sono sempre le forze parlamentari.

Si tratti, che so?, di patrimoniale, o di qualunque altra misura impopolare si voglia immaginare, non c'è verso di evitare che siano i politici a rischiarci sopra le carriere.

Nelle situazioni di emergenza, ci dice l'esperienza storica, le democrazie ricorrono talvolta a soluzioni di emergenza. Questo sarebbe il nostro caso solo se l'Italia precipitasse in una crisi di tipo greco. Ma solo i più pessimisti tra gli esperti prevedono un esito simile. È possibile, e forse anche probabile, che questo governo non riesca a completare la legislatura. Ma in tal caso, c'è da scommettere, sarà ancora una normale soluzione politica quella che si troverà in Parlamento o nelle urne.

Angelo Panebianco

01 agosto 2011 11:55© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_01/panebianco-governi-mito-realta_79bbdd64-bbfe-11e0-9ecf-692ab361efb9.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Venti di mercato, bruschi risvegli
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2011, 11:03:08 am
IL FERRAGOSTO NERO DELLA POLITICA

Venti di mercato, bruschi risvegli

Se la guardiamo dal lato della politica, la crisi in cui siamo oggi immersi è una manifestazione virulenta di un problema tutt'altro che nuovo: il divario, tipico della vita internazionale, fra interdipendenza e controllo, fra l'universalismo dei mercati e il particolarismo della politica. In altre parole: i mercati sono internazionali e i governi sono nazionali. C'è sempre stata molta più interdipendenza economica di quanta il comando politico (frammentato, suddiviso fra un gran numero di governi) ne potesse controllare. Va ricordato, soprattutto in tempi di crisi, che questa è sempre stata una fortuna: senza quel divario non sarebbe mai potuta nascere la società aperta occidentale, e un rapace (e forse anche feroce) comando politico unificato controllerebbe le nostre vite. Quel divario genera però continui squilibri e periodiche crisi, alcune anche gravissime.

In età contemporanea, è reso ancor più accentuato da due fenomeni: le ulteriori massicce dosi di interdipendenza economico-finanziaria e il fatto che il comando politico non sia solo frammentato (come è sempre stato in età moderna) ma anche condizionato, in Occidente almeno, dai vincoli imposti dalle regole democratiche. Questo significa che le risposte politiche alle crisi devono fare i conti con due problemi contemporaneamente: le naturali difficoltà di coordinamento fra una pluralità di governi e il fatto che ciascun governo subisce potentemente il condizionamento del suo elettorato. Una combinazione esplosiva, per giunta aggravata oggi da un drammatico ridimensionamento della leadership americana che esaspera le difficoltà di coordinamento fra i governi.

È bene non perdere mai di vista questo complesso quadro generale anche quando si discute sulle misure adottate ieri in Italia. Perché l'amara verità è che se anche fossero giuste le soluzioni scelte, i sacrifici comunque imposti ai cittadini possono sempre essere vanificati, almeno nel breve termine, da errori politici commessi da altri governi (americano, tedesco, eccetera). Nessuno, e tanto meno l'Italia, è il solo padrone del proprio destino.

In questo quadro di incertezza, l'unica cosa certa è che, almeno nel medio termine, le scelte che lasceranno maggiormente il segno, che potrebbero davvero avvantaggiarci, sono quelle tese a rimettere in moto la crescita: flessibilità del lavoro, liberalizzazioni, privatizzazioni. Se non verranno annacquate o abbandonate in corso d'opera, a causa della resistenza degli interessi colpiti, potrebbero dare una frustata salutare, fare cambiare ritmo a un Paese assuefatto da anni a condizioni di bassa crescita. Osservo che alle misure previste dovrebbero essere aggiunte sia riforme tese a ridurre i tempi della giustizia civile (una vera e propria palla al piede per lo sviluppo come ha ricordato qualche mese fa Mario Draghi) sia interventi (ma è la cosa, in assoluto, più difficile di tutte) volti alla drastica semplificazione delle procedure adottate dalle amministrazioni pubbliche a ogni livello: oggi i vincoli burocratici in ogni ambito ingessano e soffocano il Paese.

Qui entra però in gioco la questione della democrazia: in primo luogo, i partiti che temono contraccolpi elettorali (si veda la posizione di Umberto Bossi sulle pensioni) tendono naturalmente a opporsi a misure vantaggiose per il Paese nel medio termine ma dannose per il partito nel breve. In secondo luogo, gli interessi lesi dalle misure predisposte dispongono di numerosi mezzi legali per bloccarle o distorcerle. E questo è tanto più vero in un Paese come il nostro, dove l'assetto istituzionale garantisce la permanente debolezza dell'Esecutivo e la presenza di innumerevoli canali e poteri di veto. Quei costituzionalisti che difendono il nostro assetto istituzionale così com'è dovrebbero riflettere sul fatto che l'unica ragione per cui la Francia ha fin qui mantenuto la tripla A, non è stata ancora declassata, è dovuta esclusivamente al suo particolare sistema costituzionale: un Presidente istituzionalmente fortissimo, un Parlamento debole, un numero assai ridotto di poteri di veto. Tutte cose che farebbero strillare tanti contro l'avvento di un «regime autoritario» se venissero proposte in Italia.

Il vincolo esterno, il cosiddetto commissariamento imposto dalla Banca centrale europea, può essere una opportunità per il Paese e anche un asset che Berlusconi può personalmente giocarsi. È sempre stato difficile capire, in tutti questi anni, per quali ragioni Berlusconi avesse sostanzialmente rinunciato a imporre alla sua compagine governativa e alla maggioranza di impegnarsi in politiche «liberali» pro-crescita, perché avesse rinunciato a dare ossigeno alla libera iniziativa riducendo, tramite privatizzazioni e liberalizzazioni, il peso dello Stato nella economia e nella società. La sua è stata una scelta che gli ha forse consentito di durare, di galleggiare, di tenere insieme una maggioranza eterogenea, ma, alla fine, ne ha anche logorato il rapporto con gli elettori, quelli che lo avevano votato proprio perché si aspettavano da lui cose che non ha fatto. Questa è l'ultima occasione che gli si presenta per realizzare ciò che in un tempo lontano aveva promesso.

Angelo Panebianco

13 agosto 2011 08:57© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_13/panebianco_brutti_risvegli_cc7df5fc-c575-11e0-88c8-3552ba0345da.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Chi dimentica l'emergenza
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2011, 05:11:45 pm
CAMPAGNA ELETTORALE IMPROPRIA

Chi dimentica l'emergenza

Due settimane fa eravamo sull'orlo dell'abisso. La drammaticità della situazione spinse il governo a varare una manovra «lacrime e sangue» tesa a rassicurare i mercati. In cambio, la Banca centrale europea accettò di trattenerci per i capelli investendo enormi cifre nell'acquisto dei nostri titoli pubblici.

Sono passate solo due settimane e il senso dell'emergenza e dell'estrema fragilità della nostra situazione sembra svanito dall'orizzonte dei politici. A leggere le cronache e ad ascoltare ciò che dicono i politici che contano sembra che si sia trattato solo di un brutto scherzo. Le pensioni non si toccano e anche i tagli ai Comuni andranno, pare, in cavalleria. Come pure, a quanto sembra, la privatizzazione dei servizi pubblici locali (sempre per il veto della Lega). E si ha anche l'impressione che tutti o quasi gli interessi che si sono mobilitati in queste due settimane per evitare di essere colpiti otterranno in Parlamento una qualche soddisfazione o compensazione.

Con queste premesse, la manovra potrebbe alla fine risolversi, quasi esclusivamente, in un aggravio di tasse. Si dice che la scelta della Cgil di proclamare uno sciopero generale sia irresponsabile ed è vero. Ma non è meno irresponsabile una maggioranza che, fingendo che l'emergenza sia ormai alle nostre spalle, sceglie la linea del galleggiamento, del tirare a campare. Come se non fossimo sotto osservazione permanente, come se non avessimo la gola scoperta, pronta per essere azzannata se le misure che il Parlamento varerà non saranno tali da convincere i mercati che questa volta facciamo sul serio, siamo davvero impegnati in un'opera di risanamento.

Per la verità, la sensazione di non fare troppo sul serio l'avevano già data il giorno stesso in cui venne varata la manovra. La scelta di non blindarla con un voto di fiducia, lasciando al Parlamento l'eventuale compito di «migliorarla», non preannunciava nulla di buono. Poiché la regola generale è che i Parlamenti normalmente peggiorano, e non migliorano, i provvedimenti sottoposti loro dai governi. Soprattutto, quando si tratta di provvedimenti complessi sui quali i singoli deputati e senatori hanno, legittimamente, idee diverse, e che attivano la reazione di tutti gli interessi colpiti, grandi o piccoli che siano.

Né basta dire, come ha fatto Berlusconi (e lo ribadisce un comunicato di Palazzo Chigi che annuncia l'incontro di domani fra il premier e Bossi), che l'importante è che le cifre complessive della manovra restino invariate. La qualità è altrettanto importante della quantità. I numeri potrebbero non cambiare ma il provvedimento potrebbe ugualmente peggiorare o migliorare. A seconda della natura dei correttivi introdotti. È possibile immaginare, a cifre complessive invariate, ad esempio, una manovra tutta giocata su nuove tasse, con probabili effetti depressivi per l'economia o, all'opposto, più spostata sul fronte dei tagli, delle privatizzazioni e delle dismissioni, e quindi, almeno potenzialmente, generatrice di crescita.

Il difetto più grave del provvedimento così come era stato concepito dal governo (Francesco Giavazzi, Corriere , 15 agosto) consisteva nella debolezza e nella timidezza degli stimoli allo sviluppo. Compito dell'esecutivo, in questi giorni, dovrebbe essere quindi quello di guidare il Parlamento verso una revisione, davvero capace di rassicurare i mercati, in direzione pro-crescita. A giudicare da ciò che il dibattito politico ha fin qui prodotto è lecito essere scettici sull'esito finale.

Angelo Panebianco

28 agosto 2011 10:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_28/chi-dimentica-l-emergenza-angelo-panebianco_fd7fa2c6-d147-11e0-b62d-1ebafd8b4f13.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Due letture per una crisi
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2011, 06:00:41 pm
IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E TREMONTI

Due letture per una crisi

Tutti noi italiani, compresi quelli che danno l’impressione di volere il contrario, abbiamo un vitale interesse a che la manovra finanziaria ora all’esame delle Camere sia tale da rassicurare i mercati. Sperando che alla fine il provvedimento licenziato dal Parlamento risulti credibile, si tratterà anche di capire se il caos a cui la politica italiana ha dato vita nelle ultime settimane, e che ha sconcertato i tanti che ci scrutano e che ci giudicano, potrà essere messo da parte e dimenticato.

Ma che cosa è davvero successo in queste settimane? Possiamo leggere il suddetto caos in due modi. Se ci limitiamo a guardare la superficie, ciò che vediamo è un groviglio di campagne elettorali incrociate. Intorno alla manovra si è scatenata una danza macabra in cui vari esponenti del governo e della maggioranza hanno cercato di «posizionarsi » nel miglior modo possibile pensando al dopo Berlusconi (e qualcuno anche al dopo Bossi): i veti e i contro-veti, e i continui cambiamenti del provvedimento a cui abbiamo fin qui assistito sembravano rispondere, in tutto o in parte, a questa logica. Qualcuno dirà: è la politica, bellezza. Ma no: è la miopia politica, è quella particolare forma di stupidità a cui vanno soggetti i troppo furbi. Se la reazione dei mercati sarà violenta, non verrà spazzato via solo Berlusconi, verranno travolti anche tutti coloro che hanno fatto in queste settimane i loro giochi personali.

Ma è possibile anche un’altra lettura, non necessariamente in conflitto con la prima, ma che scava più in profondità e che riguarda il vero vizio d’origine di questo governo. Esso consiste nella incapacità dimostrata da Berlusconi, in questa esperienza di governo, come, del resto, nella precedente (quella del 2001/2006), di imporre una propria egemonia, culturale prima ancora che politica, sulla compagine governativa nel suo complesso e, di riflesso, sulla maggioranza. Per capirlo consideriamo due aspetti della manovra: il cosiddetto «contributo di solidarietà», oggi parzialmente ridimensionato, e la prima versione della nuova «caccia all’evasore» con incorporato invito alla delazione generalizzata. Non considero qui la sostanza di tali provvedimenti: ad esempio, per quanto riguarda le misure anti- evasione nella formulazione originaria, sulla loro inefficacia da un lato e sulla loro illiberalità dall’altro, hanno ben scritto, rispettivamente, Angelo Provasoli e Guido Tabellini sul Sole 24 Ore e Antonio Polito e Piero Ostellino su questo giornale.

Ma qui ci interessa un’altra circostanza: cosa c’entrano quelle cose con Berlusconi, con ciò che lui è, e con l’elettorato che lo ha fin qui seguito? La risposta è facile: nulla, assolutamente nulla. Eppure, è stato proprio il governo Berlusconi a proporle. Come spiegare questo mistero? Credo si spieghi così: Berlusconi ha sottovalutato, fin dall’inizio della sua esperienza, il fatto che avrebbe dovuto costruire «anticorpi» in grado di assicurargli una autentica egemonia sul governo a dispetto della grande eterogeneità politica che caratterizzava e caratterizza sia l’esecutivo che la maggioranza.

Facciamo l’esempio più importante: il rapporto fra Berlusconi e il suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Si dice (ma nessuno è in grado di distinguere fra pettegolezzo e realtà) che fra i due sia ormai venuta meno la fiducia anche sul piano personale. Ma il vero mistero è come mai ciò non sia avvenuto già molto tempo fa. Oggi è diventato facile prendersela con Tremonti. Non è più forte come era un tempo e anche quelli che, per convenienza, fingevano di rispettarlo, ora cercano di colpirlo. Ma non va dimenticato che senza la sua durezza e il suo piglio saremmo già stati travolti nel 2008. Nella sua azione c’erano sì dei limiti, ma quei limiti non possono oscurarne i meriti.

Il punto qui in discussione è però un altro. Riguarda il fatto che Berlusconi abbia appaltato fin dall’inizio a un intellettuale-politico di spessore, ma le cui idee di fondo non coincidevano affatto con le sue, la politica economica del governo. Eppure, fin dai tempi della campagna elettorale del 2008, era facile individuare le loro potenziali divergenze. Bastava aver letto La paura e la speranza, il libro che Tremonti pubblicò prima delle elezioni o avere ascoltato i suoi discorsi. Bastava considerare le sue posizioni su globalizzazione, fiscalità e ruolo dello Stato, o la sua polemica contro il «mercatismo», per capire che quelle tesi avevano ben poco a che fare con Berlusconi. Ma Berlusconi non se ne curò. Anziché fare del ministro dell’Economia, come di solito avviene, un proprio collaboratore in materia economica, egli accettò che Tremonti ne diventasse il dominus. La convenienza, certo, stava nel fatto che Tremonti, in questo modo, garantiva anche la fedeltà della Lega alla coalizione. Ma ogni scelta ha un prezzo. E il prezzo, per Berlusconi, è stato assai elevato: una politica economica interamente guidata, nel bene o nel male, da un altro, con il quale, per giunta, egli non poteva essere in vera sintonia. Berlusconi non si è neppure preoccupato di mettere in piedi a Palazzo Chigi una propria squadra di tecnici autorevoli che rispondesse soltanto a lui, e che, per lo meno, lo aiutasse a contrattare con Tremonti i contenuti dei provvedimenti.

Arrivati al dunque, alla necessità di varare una manovra d’emergenza, Berlusconi si è ritrovato nell’impossibilità di prendere in mano la situazione, scavalcando o mettendo da parte i vari ministri, di impedire che la manovra prendesse strade a lui sgradite, e di assicurarne, pur in presenza della necessità di negoziare con i partner della coalizione, una certa coerenza. È stato il suo più grande limite. Ma questo limite, evidenziato dalle vicende di queste settimane, è a sua volta l’effetto finale di una catena di errori.

Il fatto che solo in extremis, sfruttando le pressioni della Banca centrale europea e le sollecitazioni del presidente della Repubblica, Berlusconi sia riuscito a recuperare un certo personale controllo sulla manovra, non cancella il problema di fondo. C’è da sperare che ora non ne paghi il conto il Paese.

Angelo Panebianco

09 settembre 2011 07:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_09/panebianco-due-letture-per-una-crisi_3d90c0ea-daa1-11e0-9c9b-7f60b377ee16.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un’altra legge elettorale
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2011, 05:24:35 pm
IL REFERENDUM, IL PD E IL PDL

Un’altra legge elettorale

La crisi, che è politica e finanziaria insieme, ci schiaccia sul presente, ci impedisce di ampliare il nostro orizzonte temporale. Ma, quale che sia la sorte a breve termine del governo Berlusconi, l’Italia ci sarà anche domani e con essa resteranno i suoi problemi. Pensare al futuro è necessario.

Comunque la si giudichi, è rivolta al futuro l’iniziativa referendaria in corso tesa all’abrogazione della attuale legge elettorale. Imposta da Arturo Parisi a un Partito democratico che, nella sua dirigenza, era inizialmente contrario (e molti, nel Pd, lo sono tuttora), si propone di ripristinare quel sistema prevalentemente maggioritario con il quale abbiamo votato in tre elezioni consecutive: 1994, 1996, 2001. Non è un sistema perfetto (a causa della presenza di una quota proporzionale), ma è sicuramente migliore di quello oggi in vigore. L’iniziativa sta avendo un notevole successo ed è probabile che le cinquecentomila firme necessarie vengano raccolte. Al momento, fatta eccezione per alcuni sostenitori storici del maggioritario, primo fra tutti Mario Segni, si è mobilitata soltanto la sinistra. Il centrodestra è assente. Come mai? Come mai sono altrove gli esponenti del Pdl? Non è forse vero che l’iniziativa in corso punta a ripristinare quel sistema elettorale maggioritario, con collegi uninominali, grazie al quale Forza Italia (di cui il Pdl è l’erede) poté costituirsi e poi vincere due elezioni nazionali?

Quando Angelino Alfano venne scelto da Berlusconi come segretario del Pdl scrissi (Corriere del 4 luglio) che, a mio parere, proprio sul tema della legge elettorale egli avrebbe dovuto giocare le sue carte più importanti. Perché al Pdl, tanto più ora che è sul punto di fronteggiare una crisi di successione, serve, per garantirsi la sopravvivenza, che il bipolarismo venga messo in sicurezza. E solo una legge maggioritaria può farlo. Perché dunque il Pdl è fermo, perché non ha colto l’occasione del referendum Parisi per battere un colpo, per fare una sua proposta di riforma maggioritaria?

Nessuno, nel centrodestra, ha ancora l’ardire di difendere l’attuale legge elettorale. È difficile trovare buoni argomenti per difenderla. È soprattutto impossibile sostenere che il meccanismo delle liste bloccate abbia incontrato il favore dell’opinione pubblica o contribuito a rinsaldare il rapporto fra rappresentati e rappresentanti. Tutti sanno che lo status quo non potrà reggere ancora a lungo. Ci sono allora due sole possibilità: o un ritorno alla proporzionale, comunque camuffata (ci sono molti modi per camuffarla), o una nuova legge autenticamente maggioritaria. Nel primo caso, il Pdl andrebbe incontro a sicura disgregazione. Nel secondo caso, avrebbe maggiori chance di superare la crisi di successione, potrebbe continuare a essere la «casa comune» dei moderati italiani anche dopo l’uscita di scena di Berlusconi.

Viene da pensare che il gruppo dirigente del Pdl si sia già rassegnato alla disgregazione, che, in particolare, sia pronto a concedere all’Udc di Casini—un partito coerentemente (e legittimamente) proporzionalista — il ritorno alla proporzionale, in cambio di una qualche forma di appoggio politico nell’ultima fase della legislatura. Sarebbe una scelta legittima. Ma si deve sapere che, in tal caso, alle prossime elezioni tanti partitini rissosi si contenderebbero le spoglie di quello che fu il grande partito del centrodestra. Forse — chissà? — a singoli esponenti del Pdl ciò potrebbe convenire. All’Italia sicuramente no.

Angelo Panebianco

20 settembre 2011 10:33© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_20/panebianco-un-altra-legge-elettorale_21e74380-e345-11e0-91c7-497ab41fbb63.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Una questione sotto traccia
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2011, 09:56:19 am
POLITICA E RUOLO DEI GIUDICI

Una questione sotto traccia

Se Berlusconi, prendendo atto che il suo ciclo si è esaurito, che la sua posizione è ormai diventata insostenibile anche per l'immagine internazionale del Paese, lasciasse la guida del governo (ma senza favorire ribaltoni, i quali fanno male alla democrazia) si aprirebbe una possibilità: si potrebbe ricominciare a discutere - non dico serenamente ma, almeno, seriamente - del ruolo della magistratura in questo Paese. Al momento, con Berlusconi premier, ciò non si può fare: gli animi sono troppo incattiviti, le passioni troppo viscerali, le partigianerie troppo smaccate e cieche. Solo se Berlusconi lascia, si potrà forse ricominciare a discutere nel merito di cose come l'uso politico delle intercettazioni e la fine che hanno fatto, grazie al famoso circo mediatico-giudiziario, la tutela della privacy , la presunzione di non colpevolezza, eccetera eccetera.

Chi pensa che, andato via Berlusconi, il rapporto fra la politica e la magistratura tornerà facilmente, e spontaneamente, alla normalità, simile a quello che si dà nelle altre democrazie occidentali, non conosce l'evoluzione di quei rapporti. Quando gli storici del futuro indagheranno sull'argomento sceglieranno probabilmente come data emblematica dell'inizio del «grande scontro» fra magistratura e classe politica, il 3 dicembre del 1985: l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga inviò al Consiglio superiore della magistratura una lettera in cui vietava al Consiglio stesso di mettere ai voti una censura nei confronti del presidente del Consiglio Bettino Craxi. Cossiga, Costituzione alla mano, negò che il Csm fosse dotato di un tale potere di censura. I settori più militanti della magistratura, spalleggiati dall'allora partito comunista, se la legarono al dito. Alcuni anni dopo, Cossiga diventò oggetto di un attacco concentrico della magistratura militante e del partito comunista. Come mai al Csm era passato per la testa di avere il potere di censurare un primo ministro? Perché negli anni precedenti, per varie ragioni (alcune leggi che avevano notevolmente rafforzato sia il ruolo del Csm sia i poteri delle Procure, il prestigio accumulato dalla magistratura durante la lotta al terrorismo), la magistratura, intesa come «corpo», si era notevolmente irrobustita. Al punto che i suoi settori più politicizzati ritenevano di essere ormai così forti da poter andare allo scontro aperto con la politica.

L'occasione arrivò, grazie alla fine della guerra fredda, con le inchieste sulla corruzione, con Mani Pulite. La corruzione c'era ed era tanta (ma era «di sistema» e per questo avrebbe richiesto una soluzione politica, non penale: lo scrissi allora e non ho mai cambiato idea). Demolendo (ma selettivamente: il Pci si salvò) la vecchia classe politica, la magistratura inquirente aprì quel vuoto di potere da cui sarebbe nata la cosiddetta Seconda Repubblica. Il resto è semplicemente la storia d'Italia dal 1994 (anno dell'ingresso in politica di Berlusconi, nonché dell'avviso di garanzia, rivelato da uno scoop del Corriere , che lo raggiunse a Napoli nel mezzo di una conferenza internazionale) ad oggi.
Poiché la presunzione di non colpevolezza dovrebbe valere per chiunque (anche, guarda un po', per Berlusconi) vedremo in futuro cosa diranno le sentenze (se sentenze ci saranno) in relazione alle inchieste più recenti. Ma il punto politico è che, solo se Berlusconi se ne va, le tante anomalie del rapporto fra magistratura e politica, il grave squilibrio che si è ormai da molto tempo determinato fra democrazia rappresentativa e potere giudiziario, potranno essere discussi senza che tutto venga subito ricondotto al conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani.

Gli amici di Berlusconi ribatteranno: ma in questo modo la si darà vinta proprio ai quei settori della magistratura che dell'attacco al potere politico-rappresentativo hanno fatto la ragione stessa del proprio agire giudiziario. Non credo. La magistratura oggi non dispone più del prestigio di cui godeva all'epoca di Mani Pulite. La sua reputazione, stando ai sondaggi, non è cattiva come quella della classe politica ma ci va ormai molto vicino. Persino il più ottuso dei cittadini capisce che centomila intercettazioni per una inchiesta sono cose da pazzi (e il Csm zitto), persino il più fiducioso rimane disorientato vedendo Procure che si sbranano e inchieste che rimbalzano come palline da ping pong fra Napoli, Roma e Bari. La magistratura è ormai altrettanto logorata della classe politica. I magistrati dotati di più buon senso lo capiscono benissimo. Per questo non dovrebbe essere molto lontano il momento in cui diventerà possibile ristabilire alcune regole (per esempio, quella che vieta di intercettare, anche in modo indiretto, chi occupa cariche istituzionali) da tempo saltate. Serve alla magistratura, serve alla classe politica. E serve al Paese che, tra l'altro, ha il non piccolo problema di convincere gli investitori a fidarsi di nuovo di gente come noi.

Angelo Panebianco

28 settembre 2011 07:37© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_28/panebianco-questione-sotto-traccia_0d89cb72-e991-11e0-ac11-802520ded4a5.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La soluzione del doppio voto
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2011, 06:08:44 pm
QUALE LEGGE ELETTORALE

La soluzione del doppio voto

Il successo della raccolta delle firme per il referendum abrogativo ha riaperto i giochi intorno alla legge elettorale. Nessuna decisione, naturalmente, verrà presa prima del gennaio prossimo, prima della sentenza della Corte costituzionale sull'ammissibilità del referendum. Se la sentenza sarà a favore dell'ammissibilità resteranno alla classe politica poche settimane per decidere il da farsi: andare al referendum, chiedere al presidente della Repubblica le elezioni anticipate o varare una nuova legge elettorale. Anche se la decisione, quale che sia, maturerà solo allora, conviene discuterne fin da adesso. Perché i termini del problema siano chiari a tutti.

Sappiamo che al governo non conviene il referendum: l'insofferenza per l'attuale sistema elettorale è talmente diffusa nel Paese che la vittoria del «sì» sarebbe molto probabile. E sarebbe un'altra sberla (forse definitiva) per il governo e la maggioranza, arroccati nella difesa dell'indifendibile. Dunque, la vera scelta sarà fra elezioni anticipate (ammesso che il presidente della Repubblica le conceda) e una nuova legge elettorale. Poniamo che, ritenendo probabile una sconfitta, la maggioranza scarti l'opzione delle elezioni anticipate. Verso quale legge elettorale dovrebbe allora orientarsi?

Il segretario del Pdl Alfano ha tentato, proprio sulla riforma elettorale, ma fin qui senza successo, di «agganciare» l'Udc di Casini. Anche in vista di una alleanza politica che il Pdl giudica vitale per le proprie sorti future. Solo che arrivare a un accordo fra Pdl e Udc è come quadrare il cerchio. Il Pdl deve salvare il bipolarismo, l'Udc deve farlo saltare. Come superare l'ostacolo? È sufficiente reintrodurre le preferenze? No, non scongiurerebbe il referendum e inoltre (come ha osservato Roberto D'Alimonte, Il Sole 24 Ore del 4 ottobre) non soddisferebbe Casini che ha bisogno, per mettere in soffitta il bipolarismo, di eliminare il premio di maggioranza. Men che mai ha senso proporre il «sistema spagnolo» (proporzionale con collegi piccoli che penalizzano le forze intermedie) perché anche questa soluzione è inaccettabile per Casini (e per la Lega).

Come uscirne? Consiglierei ad Alfano e a Casini di leggere con attenzione la proposta di legge presentata il 30 luglio del 2010 dal senatore Stefano Ceccanti (del Pd). Ho avuto già occasione di parlarne ai lettori del Corriere (il 12 ottobre del 2010). Quella proposta prefigura una variante del sistema elettorale australiano: è un sistema maggioritario, con collegi uninominali, e si vota in un solo turno. Come in Gran Bretagna. Ma c'è una decisiva differenza: l'elettore ha a sua disposizione due voti, una prima scelta e una seconda scelta. In altri termini l'elettore, dopo avere votato per il candidato del partito con cui si identifica, può spendere un secondo voto per il candidato di un altro partito. Combina aspetti del maggioritario a un turno (britannico) e del doppio turno (francese). Salvaguarda il bipolarismo perché incentiva le alleanze prima del voto: solo se il partito A si allea col partito B può sperare di ottenere, sommandole, le prime scelte dei propri elettori e le seconde scelte (di una parte almeno) degli elettori del partito B. Al tempo stesso, proprio come nel sistema francese, è un meccanismo che non penalizza i partiti di medie dimensioni. Non li stritola come invece tende a fare il sistema britannico. Possiamo chiamarlo maggioritario con doppio voto.

Per convergere su tale proposta sia il Pdl che l'Udc dovrebbero rinunciare a qualcosa: il Pdl dovrebbe mettere da parte la sua ostilità per i collegi uninominali (che verrebbero comunque reintrodotti in caso di vittoria dei «sì» al referendum). Casini, a sua volta, dovrebbe rinunciare alla proporzionale e al connesso sogno di ereditare i consensi in uscita da un Pdl rassegnato alla disgregazione dopo il ritiro di Berlusconi. Il sogno di Casini potrebbe avere senso solo se i tacchini risultassero felici per l'avvicinarsi del Natale, solo se il Pdl mostrasse una gran voglia di suicidarsi. Ma se così non fosse, allora Casini dovrebbe rivedere le sue posizioni e cercare una soluzione comunque buona per lui. Il sistema qui indicato non dovrebbe affatto sfavorirlo.

Anche la Lega di Bossi non dovrebbe avere obiezioni. Il maggioritario con doppio voto incentiva le alleanze competitive: al Nord continuerebbe quindi ad esserci l'alleanza competitiva del passato fra Pdl e Lega. Infine, il Partito democratico: perché dovrebbe opporsi a una soluzione che gli garantisce la centralità a sinistra?

Qualcuno ha avanzato l'obiezione secondo cui il sistema elettorale qui prospettato sarebbe «astruso». È un'obiezione ridicola. Che cosa c'è di più astruso dell'attuale legge elettorale? E non è forse astruso il cosiddetto «sistema ungherese» proposto da Bersani? Anche il maggioritario con quota proporzionale che verrebbe reintrodotto se vincessero i «sì» al referendum (e che è comunque, secondo me, di gran lunga preferibile all'attuale legge), quanto ad astruserie non scherzava: qualcuno ricorda il famigerato «scorporo», la formula inventata per annacquare in senso proporzionale gli effetti del maggioritario? Nessun adulto che non abbia una preparazione specifica può capire davvero come funzionano i suddetti sistemi elettorali. Ma può comprendere subito il funzionamento di un maggioritario che lascia all'elettore la facoltà di dare due voti.

In omaggio a un'antica tradizione che negli ultimi tempi si va un po' appannando, e che consiste nel pensare prima di parlare, sarebbe utile se i protagonisti della politica ci ragionassero sopra un po' prima di negare che questo sistema possa servire al Paese. E forse anche a loro.

Angelo Panebianco

09 ottobre 2011 10:24© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_09/la-soluzione-del-doppi-voto-angelo-panebianco_07049694-f24a-11e0-9a3e-cd32c10dad62.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'OPPOSIZIONE SENZA RISPOSTE
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2011, 05:16:39 pm
ALLEANZE E PROGRAMMI DIVERGENTI

L'OPPOSIZIONE SENZA RISPOSTE

Angela Merkel, nel suo colloquio con Giorgio Napolitano, ha chiesto, fra l'altro, chiarimenti sulle prospettive dell'Italia in caso di caduta del governo Berlusconi. Se andasse al governo, quali provvedimenti prenderebbe l'attuale opposizione? La domanda è sicuramente pertinente tenuto conto del grave stato di salute della maggioranza. Ma è destinata a rimanere priva di risposta.

Per capire come mai occorre fare un passo indietro, occorre ricostruire le ragioni di quella che è forse la più deleteria delle tradizioni italiane: il politicismo , la tendenza a costruire alleanze e aggregazioni prescindendo da accordi chiari sulle policies , sulle politiche di governo.

Il politicismo è una malattia tanto delle forze di governo che di quelle di opposizione. L'attuale maggioranza in difficoltà ha ripetutamente ricercato l'alleanza dell'Udc di Casini senza però mai chiarire che cosa tale nuova alleanza di governo avrebbe dovuto fare: per esempio, come potessero conciliarsi il federalismo di Bossi e l'antifederalismo di Casini.

Il maggior partito d'opposizione, il Partito democratico, per parte sua, fa esattamente la stessa cosa. Bersani decide una alleanza con Vendola e Di Pietro i cui contenuti (quali politiche farebbe una tale variopinta compagnia?) possiamo certamente immaginare, conoscendo i protagonisti, ma che non vengono comunque esplicitati. E Massimo D'Alema, nella sua intervista al Corriere (Dario Di Vico, 16 ottobre), non ha forse invitato Casini a una alleanza di cui farebbe parte anche Vendola dimenticandosi però di spiegare su che cosa Vendola e Casini, una volta messi insieme in un governo, potrebbero convergere o concordare?

È falso ciò che dicono i nemici del bipolarismo, ossia che queste forme di deteriore politicismo siano il frutto di un sistema bipolare mal funzionante. Il politicismo, infatti, è una tradizione che risale alla Prima Repubblica. All'epoca, in virtù della Guerra fredda, c'era un sistema politico bloccato. Il Pci, condannato all'opposizione perenne, si era specializzato nell'abbaiare alla luna e nel promettere agli elettori il paradiso in terra: tanto, non ci sarebbe mai stata alcuna verifica sulla sua capacità di mantenere le promesse. A loro volta, i partiti anticomunisti erano condannati a governare insieme. Non c'era bisogno di reali convergenze programmatiche, era sufficiente il possesso della tessera di appartenenza al «club occidentale». Era allora del tutto normale mettere insieme al governo il Diavolo e l'Acqua Santa, per esempio (e scusate l'ironia) Bettino Craxi e la sinistra democristiana.

Lungi dal peggiorare le cose, semmai, il bipolarismo le ha migliorate: quanto meno, ha reso molto più difficile sostenere nel tempo il bluff politicista. Certo, oggi come nella Prima Repubblica, con il politicismo si possono vincere le elezioni. Ma c'è una fondamentale differenza rispetto ad allora: il bipolarismo è spietato con chi, una volta al governo, non mantiene le promesse. Alle elezioni successive gli elettori lo cacceranno a pedate.

È questa, secondo me, la vera ragione per la quale tanti politici odiano il bipolarismo e guardano con nostalgia ai bei tempi in cui non c'era bisogno di render conto delle promesse fatte. È la combinazione fra bipolarismo e politicismo che spiega perché, dalle prime elezioni «bipolari» del 1994 fino ad oggi, chi vince le elezioni perde regolarmente le elezioni successive. Non c'è dunque speranza? Si continuerà anche in futuro con il vecchio andazzo: costruire alleanze fra i contrari, mettere insieme, per vincere, coalizioni ultra-eterogenee, sperando, una volta al governo, di sopravvivere il più possibile navigando a vista? Non è sicuro. Perché oggi le circostanze esterne sono diverse. A causa della crisi internazionale c'è ora sull'Italia, e promette di durare a lungo, una pressione internazionale fortissima. Le coalizioni eterogenee, condannate all'immobilismo a causa dei veti e contro-veti interni, diventano sempre più ingestibili. Ne sa qualcosa il governo Berlusconi che continua a rinviare il decreto sullo sviluppo a causa delle sue divisioni interne, e che proprio per questo rischia sempre più, ogni giorno che passa, il suicidio. La pressione esterna cambia le condizioni del gioco: il politicismo, anziché un atout , una opportunità, può diventare un rischio. È davvero molto interessante, da questo punto di vista, quanto sta accadendo dentro il Partito democratico: esso si sta dilaniando fra posizioni, queste sì finalmente programmatiche, fra loro incompatibili: accettare o respingere le condizioni poste dalla Bce all'Italia in materia di privatizzazioni, liberalizzazione del mercato del lavoro, eccetera. Non sono quisquiglie. Coloro che, contro il responsabile economico del partito Stefano Fassina (e quindi anche contro il segretario Bersani), sostengono che il Pd dovrebbe sottoscrivere le tesi della Bce sanno benissimo che, ove accettata come linea ufficiale, la loro posizione renderebbe impossibile l'alleanza con la sinistra estrema di Vendola. Forse, alla fine, tutto si risolverà col solito politicismo, con un segretario che si colloca «al centro» pronto a dare un colpo al cerchio e uno alla botte (dando ragione a quelli che sostengono le tesi della Bce «ma anche» a quelli che le contrastano, agli amici della Cgil «ma anche» ai suoi nemici, eccetera). Ma si tratterebbe di un equilibrismo sempre più difficile da praticare: come spiegarlo alla Merkel e soprattutto ai mercati? Forse, proprio la gravità della crisi e la pressione internazionale potrebbero contribuire a rendere un po' più maturo il nostro bipolarismo. Maturità che arriverebbe se, anziché dare vita a grandi coalizioni politicamente eterogenee, i partiti che contano si orientassero verso «coalizioni minime vincenti»: sufficientemente grandi per vincere le elezioni e sufficientemente piccole per assicurare una certa coerenza programmatica. Ridotta all'osso questa mi sembra la vera posta in gioco nello scontro (anche generazionale) interno al Partito democratico. Si tratta della scelta fra una grande coalizione elettorale purchessia e una coalizione minima vincente.

Angelo Panebianco

23 ottobre 2011 10:26© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_23/panebianco_opposizione-senza_048d3fa0-fd45-11e0-aa26-262e70cd401e.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Furbi e ipocriti, troppi paraocchi
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2011, 05:21:26 pm
CONDIZIONI PER STARE IN EUROPA

Furbi e ipocriti, troppi paraocchi

Eurolandia, l'Europa monetaria, è due cose contemporaneamente. È, prima di tutto, un tassello di quella costruzione europea che fu il frutto di una intuizione, oggi più valida che mai, dei padri fondatori: nell'epoca del gigantismo delle potenze, quelle già emerse e quelle emergenti (Stati Uniti, Cina, India, Brasile, Russia e domani altre ancora), i vecchi Stati nazionali europei, singolarmente presi, non hanno più né taglia né risorse economicamente e politicamente sostenibili. Solo il futuro ci dirà se fu saggio o no dare vita all'euro prima di aver messo in piedi un governo europeo dell'economia. Ma una cosa è sicura: se crollasse l'euro il contraccolpo manderebbe in pezzi l'Unione Europea, azzererebbe sessant'anni di integrazione. Mario Monti, sul Corriere di ieri, ha ricordato a Berlusconi quanto sia essenziale anche per noi che quella impresa collettiva non fallisca.

Se l'euro è un bene pubblico, che va a vantaggio di tutti gli europei, Eurolandia è però anche un ring. Su quel ring i lottatori meno preparati e allenati, e con il fisico in disordine a causa degli stravizi, sono destinati a prendere tante botte. Negli anni passati, in Italia sono circolate idee sbagliate su Eurolandia: si è pensato che l'euro fosse una cintura di sicurezza che ci avrebbe permesso di tenerci tutti i nostri vizi, che fosse un modo comodo per condividere, per «socializzare», i costi delle nostre inefficienze. Non era così, come i greci hanno già sperimentato. L'euro è un'altra cosa: è un modo per impedire ai peggiori di ricorrere a forme di concorrenza sleale (come le svalutazioni competitive) al fine di non pagare il costo dei propri vizi.

È verissimo che, nel ring di Eurolandia, i più forti cercano di scaricare sui più deboli anche le loro difficoltà. Sarkozy ha interesse a mascherare i suoi gravi problemi prendendosela con l'Italia, e anche la Germania, il Paese leader, nonostante il suo cipiglio moralista, non ha poi tutte le carte in regola: i suoi governanti, mentre puntano (giustamente) il dito contro le nostre inadempienze, omettono di ricordare quanto i loro iniziali errori di fronte al focolaio greco siano stati determinanti nel favorire la propagazione dell'incendio.

Però, è anche vero che quello del capro espiatorio non è un ruolo che venga assegnato a caso. Bisogna, per così dire, meritarselo. Occorrono ragioni oggettive. Noi non possiamo proprio lamentarci, tenuto conto che nel decennio trascorso dal varo della moneta unica non abbiamo fatto molto per venire a capo delle nostre debolezze. Serviva una cura d'urto e l'abbiamo sempre rinviata. Ora ci troviamo in una condizione di stallo, in una specie di trappola per topi. Come succede quando il futuro dipende in gran parte da decisioni politiche che vanno prese e si scopre di non potersi fidare né del governo né dell'opposizione.

Non possiamo fidarci del governo perché è troppo debole e diviso per attuare davvero gli impegni che ha preso con l'Europa. Come hanno osservato Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere del 29 ottobre, la lettera d'intenti del governo Berlusconi assomiglia più a un programma elettorale che a un progetto operativo (nonostante Berlusconi si affanni a sostenere il contrario). Elenca cose che andavano fatte negli anni scorsi, quando il governo era molto più solido di oggi, quando Berlusconi godeva di alti consensi nel Paese, quando la Lega non era ancora con un piede dentro e uno fuori, quando il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia si parlavano. Dato lo stato della maggioranza, è purtroppo poco probabile (anche se la speranza è l'ultima a morire) che quelle cose vengano attuate.

Se il governo non riuscisse a fare ciò che va fatto, sarebbe allora l'opposizione a raccogliere il testimone? Non pare proprio. Con l'eccezione dell'Udc di Casini, che fa storia a sé, gli altri oppositori, Partito democratico in testa, non rappresentano al momento una credibile alternativa di governo: se per «credibile alternativa di governo», nelle condizioni d'oggi, si intende il portatore di un progetto di riforme capaci di rilanciare lo sviluppo e di renderci meno deboli in Europa. La novità, anzi, è che, dopo avere per anni rivendicato la superiorità del proprio pedigree europeista rispetto a quello della destra, il Partito democratico mostra una crescente dissonanza fra gli interessi del nucleo duro (Cgil in testa) della propria base elettorale e i vincoli europei. Dalla reazione negativa agli impegni chiesti all'Italia nella lettera della Bce fino alla attuale mobilitazione (che fa tanto anni Settanta) contro una cosiddetta «libertà di licenziare» che, in quella forma, non è nei piani di nessuno, l'opposizione di sinistra non appare, al momento, un possibile interlocutore dell'Europa. Che sia anche per questo che il governo Berlusconi è sempre lì lì per cadere e non cade mai?

Tra il «vorrei ma non posso» del governo e il «potrei ma non voglio» dell'opposizione, non si vedono spiragli. Sarebbe già tanto se, almeno, imparassimo tutti un paio di lezioni. La prima è che in una condizione di stretta interdipendenza europea e internazionale nessuno può fare a lungo il furbo. O rispetti le regole con cui ti sei impegnato a giocare o ne pagherai le conseguenze. Qualcuno dovrebbe spiegarlo bene alla Lega sul tema pensioni o ai sindacati sul tema flessibilità del lavoro.

La seconda lezione è che l'ipocrisia è dannosa. Che senso ha ostentare il massimo rispetto per ciò che dice il presidente della Repubblica e poi fare l'esatto contrario di ciò che egli auspica? Non è forse questa una situazione di emergenza nella quale, isolando gli agitatori di piazza, maggioranza e opposizione dovrebbero cercare, come Napolitano ha tante volte chiesto, la massima convergenza possibile sulle cose da fare? La sola cosa buona delle situazioni di emergenza è che offrono un'occasione di rinsavimento, spingono a mettere da parte i paraocchi. Speriamo che non venga sprecata.

Angelo Panebianco

31 ottobre 2011 08:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_31/panebianco-furbi-ipocriti-troppi-paraocchi_35c845bc-0388-11e1-af48-d19489409c54.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tutte le spine dell’emergenza
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 05:35:27 pm
TRE STRADE POSSIBILI NELL’INCERTEZZA

Tutte le spine dell’emergenza

Come è inevitabile in un Paese che era e resta (e resterà) profondamente diviso, le interpretazioni sul come e il perché siamo piombati nella più grave crisi della nostra storia recente variano a seconda dei punti di vista e delle preferenze politiche. C’è chi punta il dito soprattutto sulla inadeguatezza e la perdita di credibilità del governo Berlusconi e chi, all’opposto, imputa la responsabilità della crisi alla volontà dei partner europei più forti di scaricare sull’Italia le loro difficoltà e inadempienze. Non solo entrambe le interpretazioni sono vere ma si completano a vicenda. Nel più rigoroso rispetto del copione: se ti indebolisci troppo, se perdi credibilità, gli altri addosseranno a te tutte le responsabilità, anche quelle che non hai. Il passaggio decisivo si è verificato quando Berlusconi, non riuscendo a piegare le resistenze interne al governo, ha rinunciato a varare il tanto promesso decreto sullo sviluppo. Ciò ha chiarito definitivamente al Paese e al resto del mondo che la sua leadership era esausta, ha segnalato quanto fosse ormai ai minimi termini la sua capacità di mantenere gli impegni presi. E il resto del mondo, durante la riunione del G20, ha presentato all’Italia il conto. Come, secondo le indiscrezioni raccolte dal Corriere, Gianni Letta avrebbe detto a Berlusconi, con il G20 tutto è definitivamente cambiato. Sia questione di ore, giorni o settimane, il governo Berlusconi non può più reggere.

Come e con cosa sostituirlo? C’è una strada che, idealmente, dovrebbe essere percorsa al fine di mettere in sicurezza il Paese. E poi c’è la strada che la politica imboccherà realmente. È da sperare che lo scarto, il divario, fra la strada ideale (quella che occorrerebbe percorrere) e la strada reale (quella che la politica effettivamente sceglierà) non risulti alla fine troppo grande. Ciò che bisognerebbe fare è (ma solo a parole) semplice. Occorrerebbe un governo capace di attuare in breve tempo le riforme pro crescita che l’Europa (con la famosa lettera della Bce) ci ha chiesto di fare, un governo capace di allentare la pressione dei mercati, di portarci fuori dalla attuale condizione di emergenza, di mettere in sicurezza i conti e rilanciare lo sviluppo. Un governo fatto da chi? E con quale sostegno parlamentare? Un governo fatto da chi ci sta, da chi è disposto a impegnarsi nella politica impopolare (molto impopolare: si pensi al tema pensioni) necessaria per superare l’emergenza. Un governo siffatto, per essere credibile, dovrebbe godere di ampio sostegno parlamentare. Le forze politiche dovrebbero riconoscere che in una situazione di emergenza l’unica cosa che conta è venirne fuori prima possibile. Ciascun partito rilevante dovrebbe rinunciare a qualcosa: per esempio, sia la Lega di Bossi sia il Pd di Bersani dovrebbero rinunciare alla difesa di posizioni che sono molto sentite e strenuamente difese da segmenti importanti delle loro basi elettorali (il Pdl e l’Udc, almeno a parole, sono assai più aperti verso le richieste della Bce).

Un governo siffatto dovrebbe essere a termine, attuare solo i provvedimenti richiesti dall’Europa, e tenersi invece alla larga da tanti altri temi su cui il conflitto sarebbe inevitabile (come la questione della legge elettorale). È possibile oggi un tale governo? Possibile lo è (tutto è possibile). Ma, temo, non è molto probabile. Perché? Perché quel governo potrebbe nascere solo se le forze politiche fossero disposte a mettere da parte le ragioni, tutt’altro che effimere o superficiali, delle loro profonde divisioni e reciproche avversioni, se fossero disposte a vivere, per qualche mese, in una sorta di limbo, a mettere fra parentesi la politica.

Sapete perché, anche se quasi tutti capiscono che si tratta di una contraddizione in termini, il mito del «governo dei tecnici » è così duro a morire? Perché, quando ci si trova in situazioni gravi, ci si illude sempre di poter ricorrere a una soluzione che metta fuori gioco la politica: giusto il tempo necessario per superare l’emergenza. La cosa funziona, per lo più, solo nel mezzo delle guerre (e, a volte, nemmeno allora).

Se quella indicata è la strada ideale, qual è l’ostacolo che, plausibilmente, ne devierà il cammino? L’ostacolo sta nel fatto che la competizione politica non può essere fermata. Neppure in condizione di emergenza. Come la nostra odierna situazione conferma. Le tre opzioni in campo, di cui si parla in queste ore (un governo di solidarietà nazionale, un governo di centrodestra allargato all’Udc, le elezioni anticipate), avrebbero, presumibilmente, effetti fra loro molto diversi sulle sorti dell’una o dell’altra forza politica. E nessuno può rinunciare a fare i propri calcoli. Difficilmente ad esempio, si può abdicare alla difesa degli interessi della propria base elettorale se si pensa che, comunque vada, le elezioni non siano troppo lontane nel tempo.

Non ho prima citato a caso la questione della legge elettorale. Si ricordi che incombe un referendum. Se la Corte costituzionale darà il via libera voteremo a primavera per il ritorno del sistema maggioritario. Poiché viviamo nel mondo reale e non in un mondo ideale, nessuno riuscirebbe a disinnescare questa mina. Non casualmente, un governo di solidarietà nazionale interessa soprattutto a chi vuole far leva sull’emergenza per far saltare l’assetto bipolare, neutralizzare il referendum pendente, e ritornare alla proporzionale, facendo così, in prospettiva, le fortune politiche degli uni e le sfortune degli altri. Un governo di centrodestra allargato all’Udc avrebbe probabilmente altre conseguenze. E altre ancora, forse, discenderebbero dal ricorso immediato ad elezioni anticipate.

Abbiamo una emergenza da affrontare. Potremo e dovremo affrontarla. Ma è anche realistico tener conto del fatto che la politica non va in vacanza e la lotta più o meno feroce per fare il pieno del «bottino » politico a spese dei concorrenti non cessa mai.

Angelo Panebianco

07 novembre 2011 08:04© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le dimissioni di Berlusconi
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 11:36:35 am
Le dimissioni di Berlusconi

In salita, molto

La strada è accidentata e per percorrerla non si devono fare errori. Il governo Monti può nascere e vivere solo grazie a «patti chiari».
Bisogna dire tutta la verità e agire di conseguenza. Nelle situazioni di emergenza si ricorre a soluzioni di emergenza. Tale sarà, se nascerà, il governo Monti. Sarà un governo del Presidente e non un governo tecnico come assurdamente si continua a dire. I tecnici esistono, i governi tecnici no. Formalmente non c'è differenza fra un governo del Presidente e un normale governo parlamentare: anche il primo deve avere la fiducia del Parlamento salvando così le forme. La differenza è di sostanza: l'emergenza sposta, per un tempo che si intende (e si spera) limitatissimo, dal Parlamento alla presidenza della Repubblica il potere sovrano. In passato ne abbiamo già fatto esperienza. Fu il caso del governo Ciampi del 1993: il Parlamento era nel marasma per le inchieste sulla corruzione e il potere sovrano si trasferì, di fatto, nelle mani del presidente della Repubblica.

Data la sua eccezionalità la soluzione adottata deve avere un chiaro limite temporale: i pochi mesi che servono per fare le cose necessarie (gli incisivi interventi da sempre promessi e mai attuati) al fine di rimettere in sicurezza il Paese. Dopo di che, il governo si dimette e la parola passa agli elettori.

Il secondo errore da evitare è quello delle mezze misure: si fa un governo del Presidente ma, contemporaneamente, se ne contratta la composizione con i partiti. Il «toto-ministri» e l'emergenza non sono compatibili. Il presidente della Repubblica e Monti devono stabilire loro, autonomamente, la lista dei ministri scegliendoli fuori dai partiti, avendo cura di scartare quelle personalità che per la loro caratura politica potrebbero dare un segno, «di destra» o «di sinistra», al governo mettendo così qualche forza parlamentare in difficoltà. Ai partiti si deve chiedere un temporaneo sostegno esterno e nient'altro.

Un altro errore da evitare (è il problema più delicato) riguarda la navigazione dell'esecutivo. Con i suoi provvedimenti, il governo Monti non dovrà dare l'impressione di penalizzare sistematicamente gli elettori di una parte rispetto a quelli dell'altra, mettendo così in una situazione insostenibile qualcuna delle forze che lo appoggiano. Qui conterà soprattutto la grande esperienza politica di Napolitano.

Né si potrà permettere che il governo diventi la copertura di giochi che hanno finalità diverse da quelle di fronteggiare l'emergenza: se diventasse l'alibi che alcuni cercano per togliere definitivamente di mezzo il bipolarismo, le forze che il bipolarismo difendono avrebbero il diritto, e forse il dovere, di far saltare il banco.

Da ultimo, occorrerà molto rispetto per i travagli dei partiti poiché essi sono chiamati in questa fase ad accettare lo scomodo ruolo dei comprimari. È insopportabile l'ipocrisia di chi parla con deferenza della democrazia ma poi mostra disprezzo per i politici alle prese con la questione del consenso. È il mestiere dei politici preoccuparsene.

I governi del Presidente sono forzature del sistema costituzionale giustificate da situazioni eccezionali. Come quella che stiamo vivendo. Poi però la parentesi va chiusa e si deve tornare a quelle rispettabilissime e difficilissime attività che consistono nell'organizzazione del consenso e nella «caccia ai voti»: la democrazia, appunto.

Angelo Panebianco

13 novembre 2011 10:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_13/editoriale-panebianco_2b7576d8-0dcf-11e1-a3df-26025bf830b6.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. IL RIMONTAGGIO DEI PARTITI
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2011, 05:30:58 pm
LO SCUDO DEL GOVERNO TECNICO

IL RIMONTAGGIO DEI PARTITI


Sembra di capire che al governo Monti siano affidate due fondamentali «funzioni», una manifesta e una latente. La funzione manifesta è quella enunciata dal neo presidente del Consiglio: affrontare l'emergenza con quei provvedimenti d'urto che la politica partitica, vincolata al consenso elettorale, non è stata fin qui in grado di prendere.

Ma c'è anche, a prescindere dalla volontà del capo dell'esecutivo, una funzione latente: dare tempo al tempo, neutralizzare temporaneamente la dialettica maggioranza/opposizione al fine di offrire alla politica partitica la possibilità di scomporsi e di ricomporsi su nuove basi. Pier Ferdinando Casini, parlando all'assise del Terzo polo, non lo poteva dire meglio o più esplicitamente. È peraltro la ragione per cui in Spagna si è andati al voto e in Italia no: in Spagna la posta in palio era solo il governo, in Italia è la conformazione del sistema politico nel suo insieme.

Per quanto riguarda la funzione manifesta, ossia la «missione» del governo Monti, si può forse scommettere che, a prescindere da quanto durerà l'esecutivo, essa si esaurirà di fatto in breve tempo. Nato per fronteggiare l'emergenza, il governo Monti darà al Paese una cura d'urto che tutti ci auguriamo utile e che i partiti saranno comunque costretti a subire. Ma non è pensabile che questo stato di grazia possa durare più di qualche mese. Dopo di che, i partiti riprenderanno l'iniziativa. E si noti che non potranno non farlo dal momento che le elezioni del 2013 (o anche prima) diventeranno per loro sempre meno lontane: man mano che passerà il tempo, i calcoli sulle convenienze elettorali ne condizioneranno sempre più le scelte. Aggiungo (in Italia, date certe nostre poco commendevoli tradizioni, è opportuno dirlo) che ciò potrà scandalizzare solo coloro che pensano che la democrazia rappresentativa sia null'altro che un fastidioso impiccio. A quel punto il governo Monti, che duri o meno fino alla scadenza della legislatura, non potrà più fare molto.
Ma oltre che un mezzo per fronteggiare l'emergenza, il governo Monti è anche uno scudo al riparo del quale, presumibilmente, si andrà ristrutturando il sistema dei partiti: quel famoso Big Bang che tutti si aspettano per effetto del tramonto dell'era berlusconiana. Qualcuno, non ricordo chi, ha spiritosamente osservato che l'era berlusconiana potrebbe essere stata solo un lungo intermezzo fra la fine della Dc e la sua rinascita. La Dc, ovviamente, non rinascerà ma che un grosso rassemblement parlamentare «centrista» si formi a breve termine per effetto di processi di scomposizione/ricomposizione delle forze politiche è possibile. Ed è anche in linea con le nostre tradizioni nazionali.
D'altra parte, ancorché possibile, la formazione di un tale rassemblement non è sicura. Le fratture nella classe politica sono tali e tante che si può anche ipotizzare un diverso esito: la pura e semplice disgregazione del Pdl (e, per contraccolpo, anche del Pd) e la conseguente frantumazione dell'intero sistema dei partiti. Mentre nel primo caso (formazione di un rassemblement centrista) tutto dipenderebbe da come si decidesse di puntellarlo, e in particolare con quale legge elettorale, nel secondo caso (frantumazione) andrebbero definitivamente in cavalleria sia il bipolarismo che l'alternanza e un cupo futuro di accentuata instabilità politica ci attenderebbe anche dopo le elezioni.

Si guardi alla Spagna, appunto. Stessa emergenza. Ma la Spagna si è potuta permettere il voto e noi no. Perché? Perché la Spagna, nonostante abbia una democrazia molto più giovane della nostra, dispone, a differenza di noi, di istituzioni sane. Lì la stabilità è garantita: chi vince governa e basta. Non è solo la legge elettorale che disincentiva la frammentazione, è un intero sistema istituzionale (fondato sul cancellierato, ossia sull'indiscusso primato del governo) che assicura la compattezza del corpo politico, il fatto che in esso vengano frustrate le spinte centrifughe. Forse, sarebbe bene smetterla di fare finta, come continuano a fare i cantori del parlamentarismo all'italiana, che le nostre siano le migliori istituzioni del mondo. Forse, bisognerebbe anche riconoscere quale sia (per parafrasare il grande giornalista britannico ottocentesco Walter Bagehot) il «segreto» della Costituzione italiana: la possibilità di ricorrere, ma solo per brevissimi periodi, quando i partiti siano resi impotenti dall'emergenza, a governi del presidente. Forse bisognerebbe almeno pensarci su e chiedersi se non sia il caso, fatto trenta, di fare anche trentuno, scegliendo la strada maestra della piena responsabilizzazione politica del presidente della Repubblica mediante l'elezione diretta. Solo che non lo faremo. Poiché le scelte chiare, e le decisioni nette, non sono nel nostro stile.

Angelo Panebianco

21 novembre 2011 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_21/panebianco-partiti-rimontaggio_11d0c28c-140a-11e1-ab68-9c5b3cac959b.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il secondo tempo
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2011, 05:11:02 pm


Il secondo tempo

Ci sono fasi in cui le esigenze della economia e quelle della politica sono in armonia e altre fasi, più frequenti, in cui sono in conflitto. Non è detto che ciò che sarebbe economicamente utile o necessario risulti anche politicamente praticabile. Il decreto Monti serve a fronteggiare l'emergenza e conferisce al governo l'autorevolezza necessaria per trattare da una posizione di relativa forza con i partner europei. Per questo i principali partiti, obtorto collo , sono costretti a sostenerlo. Ma questo momento magico non è destinato a durare: molto presto le esigenze della politica torneranno a prendere il sopravvento. E il governo Monti comincerà a navigare in acque parlamentari sempre meno tranquille. È questa circostanza, purtroppo, a rendere non del tutto plausibile la «politica dei due tempi» che l'esecutivo si è visto costretto ad adottare.

Il decreto, oltre a un sensibile accrescimento (che ha di per sé effetti depressivi) della pressione fiscale sul ceto medio, contiene una seria riforma delle pensioni e qualche buona misura a favore delle imprese. Ma il grosso degli interventi pro crescita è rinviato a un secondo tempo. Sono rinviate quasi del tutto le liberalizzazioni. E non si parla per ora di privatizzazioni. È rinviata la riforma della disciplina del lavoro. Sono rinviati gli interventi più incisivi sui costi della politica. Mancano infine provvedimenti volti a colpire la palla al piede rappresentata dalla inefficienza della macchina amministrativa.

Il governo Monti ha avuto sicuramente ottime ragioni (soprattutto, i tempi troppo stretti) per adottare questa strategia. Ma resta che tale scelta, per quanto necessitata, porta con sé due inconvenienti. Il primo riguarda il segno e la qualità del decreto Monti. Se le misure rinviate fossero state presenti nel decreto ciò avrebbe sicuramente ridotto il disagio dovuto all'accrescimento della pressione fiscale. Gli effetti depressivi sarebbero stati ampiamente compensati dalla generalizzata constatazione di una radicale svolta, di un irreversibile cambiamento. Finalmente, sarebbe stato a tutti chiaro che si stavano predisponendo le condizioni necessarie per fare riprendere al Paese il cammino dello sviluppo.

Il secondo e più grave inconveniente consiste nel fatto che in Italia la politica dei due tempi, come sappiamo per lunga esperienza, è quasi sempre destinata all'insuccesso. Il governo Monti è figlio di circostanze eccezionali. E sono le circostanze eccezionali ad averne decretato la popolarità. Ma, come lo stesso Monti ha osservato, la popolarità del governo è destinata a ridursi a causa della amara medicina che esso ci deve somministrare.

I partiti hanno subito il governo. Man mano che la sua popolarità diminuirà, rialzeranno la testa. E lo faranno perché, piaccia o meno, le regole della politica democratica lo imporranno. Sono i partiti che dovranno fronteggiare tra poco più di un anno, o anche prima, il giudizio degli elettori. Sono il Pdl e il Pd, soprattutto, che dovranno evitare di farsi cannibalizzare, rispettivamente, dalla Lega e dalla estrema sinistra. Disciplina del lavoro, liberalizzazioni, eccetera, incidono sulla carne dei partiti. Difficilmente, essi lasceranno al governo Monti, su questi temi, le briglie sciolte e la libertà che gli hanno lasciato nella prima fase. Il «secondo tempo» si svolgerà in un terreno assai più accidentato di quello in cui si è svolto il primo.

Angelo Panebianco

7 dicembre 2011 | 8:49© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: Angelo PANEBIANCO. LA LENTA E OPACA MACCHINA STATALE
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2011, 04:06:07 pm
LA LENTA E OPACA MACCHINA STATALE

Costa tanto produce poco

Nel momento in cui si chiede che i conti bancari dei cittadini, e quindi le loro vite, risultino totalmente trasparenti agli occhi dello Stato, diventa lecito chiedersi se lo Stato sia poi altrettanto trasparente, nel suo operare, agli occhi dei cittadini. Basta chiederselo per capire subito che non è così: l'opacità, non la trasparenza, caratterizza la macchina amministrativa nelle sue operazioni quotidiane.

L'opacità è tale che persino i ministri ignorano tanto di quella macchina. Si vogliono fare le privatizzazioni? Si vuole tagliare in modo intelligente (ossia, selettivo) la spesa pubblica? Si vogliono eliminare i sussidi alle imprese? Per fare queste cose occorrono vitali informazioni, bisogna conoscere la «macchina» dall'interno. Ma nemmeno il governo possiede quelle informazioni. Deve, prima di tutto, procurarsele. Ed è una operazione lunga, costosa, difficile, e probabilmente destinata all'insuccesso. Come mai? Da cosa dipende quella opacità? Perché lo Stato è una giungla impenetrabile? Perché è costituito da regolamenti e pratiche così complesse e barocche che solo i vecchi squali della burocrazia, gli amministratori di lungo corso, possiedono le capacità per muoversi in un simile ambiente, così oscuro e ostile per chiunque altro?

I cittadini attribuiscono di solito ogni colpa di ciò che non va, delle disfunzioni quotidiane di cui hanno personale esperienza, alla classe politica. Non sanno che la classe politica è per lo più priva di cruciali risorse (dalle informazioni alla expertise amministrativa) e che altre istituzioni sono di fatto, quando si tratta dei meccanismi quotidiani di funzionamento dello Stato, molto più potenti. Si dice: «Il Parlamento è sovrano». Ma queste sono solo parole. L'alta burocrazia, i vertici delle strutture regionali, la Corte dei conti, il Consiglio di Stato, contano assai più del Parlamento, e di qualunque governo, nella gestione della macchina amministrativa. Basta che scelgano di non cooperare, di fare resistenza passiva, e la classe politica viene ridotta alla impotenza.

Il politico eletto, diceva il sociologo Max Weber, è di fronte all'amministratore di professione nella condizione del dilettante. Ma qui siamo andati molto più in là. Non è più solo una questione di dilettantismo contro professionismo. È questione di una macchina statale autoreferenziale, che dispone degli strumenti (a cominciare dal monopolio sulla interpretazione delle regole amministrative) necessari ai fini della propria difesa e riproduzione.

Si badi che non sono solo in gioco interessi (l'interesse degli amministratori o delle magistrature amministrative a garantire l'incontrollabilità del proprio operare da parte di chiunque: governo, Parlamento, pubblica opinione). Pesano anche le tradizioni culturali. C'è un'intera cultura giuridico-amministrativa, cui danno un contributo essenziale tanti giuristi amministrativisti, che è quotidianamente mobilitata a difesa del mantenimento della complessità del sistema e, quindi, della sua opacità.

Se vogliamo chiederci quale sia l'ostacolo principale al rilancio della crescita dobbiamo indirizzare la nostra attenzione sul peso morto rappresentato da una macchina amministrativa incompatibile con le esigenze di un Paese moderno. Nessuno sa, ad esempio, di quanto potrebbe scendere la pressione fiscale complessiva se quella macchina diventasse meno inefficiente e dispendiosa.

La complessità e il barocchismo delle regole e delle procedure amministrative hanno potentissimi effetti negativi sulla società circostante: generano inefficienza, garantiscono tempi lunghi e anche lunghissimi agli interventi dello Stato (si pensi al settore delle infrastrutture), innalzano spaventosamente i costi economici, alimentano una condizione di incertezza giuridica che rende imprevedibili i comportamenti, impedisce la diffusione di rapporti reciproci di fiducia fra cittadini e amministrazioni, e funziona da moltiplicatore delle dispute. Gli amministratori si difendono dicendo che è comunque la politica a dettare le linee guida dei provvedimenti. Il che è vero. Ma sono loro a confezionare, e poi a interpretare, con il loro esasperato formalismo, quei provvedimenti.

Per fare un esempio, apparentemente marginale, consiglierei al neo-ministro dell'Università, Francesco Profumo, che è anche un mio collega, di leggere con attenzione le norme da poco varate che regolano certi concorsi (per esempio, i concorsi da ricercatore). Scoprirà che il loro effetto principale è di fare prosperare l'industria dei ricorsi, di dare tanto lavoro agli avvocati e ai Tar. Sono certo che se, dopo avere letto quei regolamenti iper-barocchi, il ministro ne chiedesse conto a chi li ha messi a punto nei dettagli, si sentirebbe dire che quei regolamenti rispondono alla esigenza di garantire la «legalità» e la correttezza dei concorsi. Niente di più falso. Quelle norme nulla possono pro o contro la correttezza. La loro assurda complessità garantisce solo l'incertezza del diritto, l'opacità dei procedimenti, la moltiplicazione delle dispute. Non c'è quasi nessun ambito in cui operi l'Amministrazione che non abbia queste caratteristiche.

Se la certezza del diritto è un fondamentale bene pubblico, allora è sicuro che il nostro sistema giuridico-amministrativo è congegnato in modo da garantire la perpetua indisponibilità di quel bene. Con costi altissimi per la società e benefici (in termini di opacità del loro operato) per gli addetti alla gestione quotidiana della macchina statale. Magari, quei giuristi amministrativisti che lavorano come consulenti dell'Amministrazione centrale e periferica qualche franca spiegazione sul perché ciò accade potrebbero forse darcela.
Viviamo in tempi di antiparlamentarismo trionfante e il mio potrà sembrare un auspicio controcorrente. Ma trovo che i partiti, alla disperata ricerca di un ruolo nell'epoca del governo Monti, potrebbero rendere una grande servizio al Paese. Potrebbero, e dovrebbero, promuovere una commissione di inchiesta parlamentare con il compito di indagare sull'operato dell'Amministrazione (organi della giustizia amministrativa inclusi) e di segnalarne tutte le disfunzioni. Se non altro, per consentire una discussione pubblica sulle vere cause del nostro declino.

Angelo Panebianco

18 dicembre 2011 | 9:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_18/panebianco_costa-poco-produce-tanto_e913b108-2951-11e1-b27e-96a5b74e19a5.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un referendum, due tesi errate
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2012, 10:22:47 pm
Un referendum, due tesi errate


Domani la Corte costituzionale comincerà a discutere (la sentenza è attesa in settimana) sull’ammissibilità del referendum elettorale. È un referendum che ha lo scopo di abrogare l’attuale legge e di ripristinare quella precedentemente in vigore, vale a dire il sistema maggioritario, con collegi uninominali, corretto da una quota proporzionale, con cui abbiamo votato in tre elezioni generali: 1994, 1996, 2001.


In punto di diritto non sembrerebbero esserci ostacoli alla ammissibilità. Così sostiene il manifesto firmato pochi giorni fa da 111 costituzionalisti, che rappresentano la schiacciante maggioranza dei titolari di cattedra di diritto costituzionale e di diritto pubblico.

Coloro che temono il referendum, e pertanto si augurano che la Corte dichiari la non ammissibilità del quesito, hanno messo in circolazione due argomenti di cui è facile constatare la fragilità. Il primo è quello secondo cui, se la Corte si pronunciasse per l’ammissibilità e gli italiani votassero l’abrogazione della legge elettorale in vigore, ne verrebbe fuori un vuoto legislativo, ci troveremmo senza legge elettorale. È falso. Sarebbe come dire che se nel 1974 gli avversari del divorzio avessero vinto il referendum abrogativo, non avremmo più avuto un matrimonio regolato per legge, ci saremmo ritrovati nella Repubblica del libero amore. Naturalmente no (per fortuna o per sfortuna). Se fosse stata cancellata la legge istitutiva del divorzio ne sarebbe automaticamente seguito il ripristino della legge precedente. Punto e basta. E così accadrebbe anche se gli italiani scegliessero di abrogare l’attuale legge elettorale.

Il secondo argomento inconsistente riguarda la presunta destabilizzazione del quadro politico (del governo Monti) che si produrrebbe nel caso la Corte dichiarasse il referendum ammissibile: i partiti, così si dice, piuttosto che affrontare il referendum, manderebbero a gambe all’aria il governo e porterebbero subito il Paese alle elezioni anticipate. Neppure questa tesi sta in piedi e non importa se viene sostenuta da tanti: una sciocchezza non cessa di essere tale solo perché continuamente ripetuta.

La durata e la stabilità del governo Monti non hanno nulla a che fare con la questione del referendum. Si tratta di un governo del Presidente nato per fronteggiare l’emergenza euro. Durerà fin quando durerà l’emergenza: tre mesi, sei mesi, un anno, o quel che è. Difficilmente il governo Monti potrebbe arrivare alla scadenza naturale della legislatura nel caso in cui, per qualche miracolo, la crisi dei debiti sovrani fosse risolta con largo anticipo rispetto a quella data. È parimenti impossibile che esso cada con quella crisi ancora in corso.

Va anche aggiunto che se i partiti volessero abbattere il governo solo per evitare il referendum, con una emergenza-euro non ancora risolta, dovrebbero vedersela col capo dello Stato. Con ben poche chance di ottenere le elezioni anticipate. Insomma, è all’andamento delle aste dei nostri titoli di Stato, alle decisioni che prenderà o non prenderà l’Europa, e all’andamento dell’economia nazionale e internazionale nei prossimi mesi, non certo al referendum, che bisognerà guardare per capire quanto durerà il governo. Il referendum potrà incidere solo sulle regole del gioco con cui si andrà a votare, quando si andrà a votare. Se venisse ammesso, e se poi gli italiani si pronunciassero a maggioranza contro la vigente legge elettorale, voteremmo in elezioni generali con un sistema prevalentemente maggioritario. Se non venisse ammesso, i partiti troverebbero il modo di rivedere l’attuale legge in senso proporzionale.

Alla fin fine, la principale posta in gioco riguarderà il ripristino o meno dei collegi uninominali. Le dirigenze dei partiti non apprezzano il collegio uninominale. Pensano che renda i parlamentari così eletti poco docili e poco controllabili. Sarà questo il vero tema della riforma elettorale.

Angelo Panebianco

8 gennaio 2012 | 12:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_08/panebianco-referendum-due-tesi-errate_652060ea-39d1-11e1-b6d5-d3e076de4b02.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il passaggio più insidioso
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2012, 11:44:54 pm
I SINDACATI, IL MINISTRO E IL PD

Il passaggio più insidioso

La ragione principale per cui i governi tecnici non esistono è che la politica non va mai in vacanza. Anche il governo Monti è obbligato a contrattare le sue scelte, implicitamente o esplicitamente, con le forze parlamentari dal cui consenso dipendono le sue possibilità di durata e di azione. La condizione di sussistenza del governo sta nella sua capacità di agire, imponendo al Paese i sacrifici necessari, senza dare l'impressione che il loro costo non sia distribuito equamente fra gli elettorati di riferimento delle forze parlamentari che lo sostengono. Può essere, ad esempio, che sia stato un errore non aver varato contestualmente le liberalizzazioni e la riforma del mercato del lavoro. Perché se il governo mostrasse maggiore timidezza nella riforma del lavoro di quella mostrata nel caso delle liberalizzazioni, ne deriverebbe un effetto boomerang: forti tensioni emergerebbero entro la grande coalizione parlamentare e la turbolenza politica potrebbe diventare incontrollabile.

Con le liberalizzazioni sono state toccate, soprattutto, categorie di lavoratori autonomi che rappresentano una componente rilevante del bacino elettorale del Pdl. La riforma del mercato del lavoro, invece, va a toccare interessi che fanno parte della constituency elettorale del Partito democratico.

Negli ultimi giorni si era diffusa l'impressione che il governo non stesse manifestando nel secondo caso la stessa grinta che, lodevolmente, aveva usato nel primo. Ad esempio, la settimana scorsa, il ministro del Lavoro e delle politiche sociali Elsa Fornero, di fronte alla dura opposizione dei sindacati, sembrava sul punto di ritirare il documento che il governo aveva preparato sulla riforma del lavoro (Enrico Marro, Corriere della Sera , 27 gennaio). Ieri, però, sia il ministro Fornero sia il premier Monti hanno rilanciato con forza il tema ribadendo che si tratta di una priorità assoluta per l'esecutivo.

Abbiamo certamente bisogno della riforma incisiva (che, come dice Monti, combini flessibilità ed equità, protegga i lavoratori piuttosto che i posti di lavoro) promessa dal governo al momento del suo insediamento. Se però l'iter di riforma si arenasse il guaio sarebbe doppio. Per gli effetti economici negativi. E per le conseguenze politiche destabilizzanti. Se risultasse che al lavoro autonomo vengono imposti prezzi più alti che al lavoro dipendente, in virtù del superiore potere di interdizione di cui dispongono i sindacati, l'equilibrio politico su cui si regge il governo si spezzerebbe. Manca solo un anno alle elezioni e tutti, naturalmente, devono fare i loro calcoli.
Quella del mercato del lavoro, peraltro, non è l'unica partita politicamente scottante ancora aperta. Le liberalizzazioni hanno fin qui colpito i «piccoli» ma hanno appena sfiorato i grandi, le banche in primo luogo. Si aspetta, con una qualche impazienza, il secondo round.

E poi vale per le liberalizzazioni ciò che vale per il provvedimento di semplificazione burocratica testé varato. Non è solo il Parlamento che può vanificarne gli aspetti innovativi. In Italia sappiamo per lunga esperienza che le innovazioni possono essere neutralizzate o ammorbidite anche dopo l'approvazione parlamentare, quando si passa ai regolamenti attuativi.
E c'è poi il capitolo, ancora da scrivere, delle privatizzazioni. Delle quali si può dire che oltre al vantaggio di aprire i mercati alla concorrenza, con i benefici collettivi che ne conseguono, hanno anche quello di non poter essere facilmente annullate dall'azione dei governi successivi. E anche questa sarà una partita che farà correre qualche rischio agli equilibri politici.

Non sappiamo come verrà giudicato in futuro il governo Monti. Probabilmente, sarà considerato l'artefice di una autentica svolta nella storia del Paese oppure solo un intermezzo, a seconda che esso riesca o meno a fare in modo che i frutti della sua azione non assomiglino alla tela di Penelope, che non si possano archiviare con la stessa rapidità con cui sono nati.

Angelo Panebianco

29 gennaio 2012 | 8:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_29/il-passaggio-piu-insidioso-angelo-panebianco_04ecb588-4a49-11e1-bc89-1929970e79ce.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le nostalgie fuori luogo
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2012, 10:38:36 am
RITORNO AL SISTEMA PROPORZIONALE?

Le nostalgie fuori luogo


Adesso che la sentenza della Corte costituzionale ha aperto un’autostrada di fronte a coloro che sono interessati a chiudere la stagione maggioritaria iniziata nei primi anni Novanta e a reintrodurre la proporzionale comunque camuffata, diventa tempo di bilanci. Che cosa resta di positivo di quella stagione? Due cose. La legge sulla elezione diretta dei sindaci. E il fatto che gli italiani, sia pure per poco, hanno potuto sperimentare ciò che non avevano mai conosciuto ai tempi della Prima Repubblica e che è la regola in altre democrazie: primi ministri e governi scelti tramite un confronto elettorale aperto fra forze politiche contrapposte anziché tramite giochi parlamentari post-elettorali.

Il sistema non ha funzionato bene? Forse, ma occorre tempo (a volte, qualche generazione) perché le innovazioni vengano davvero assimilate, diventino parte della tradizione politica di un Paese e possano dare il meglio di sé. Non si è concesso alla rivoluzione maggioritaria il tempo necessario perché fosse assimilata. Soprattutto, non si è verificato ciò che i riformatori degli anni Novanta speravano: non c’è stato l’effetto- trascinamento allora auspicato. Non sono seguite (tranne nel caso dei governi locali) quelle trasformazioni istituzionali che avrebbero dovuto accompagnare il cambiamento della legge elettorale: non sono stati toccati i rapporti fra presidenza della Repubblica, governo e Parlamento, e i rispettivi poteri. Abbiamo così accoppiato—provocando gravi disfunzioni — una legge maggioritaria (che carica di una fortissima legittimazione, e di pari aspettative, i governi così eletti) a relazioni fra le suddette tre istituzioni rimaste invariate, più adatte all’epoca precedente, quando i governi, nati da accordi parlamentari, avevano legittimazione debole e precaria.

Ma, si dice, il vero difetto stava nel fatto che con il maggioritario si formavano coalizioni eterogenee e rissose, con grave danno per la governabilità. Approfondiamo questo aspetto. In tutte le democrazie difficili (come è stata e continuerà ad essere la nostra) esistono molti estremisti, persone alla perenne ricerca di una leva per «rovesciare il tavolo ». Ne consegue che nelle democrazie difficili sarà sempre molto nutrito il numero di rappresentanti parlamentari degli estremisti. Che cosa deve farci la democrazia con questi rappresentanti? Nella logica maggioritaria li include, in quella proporzionale li esclude. I proporzionalisti propongono di tornare a un sistema nel quale i rappresentanti degli estremisti siano esclusi dalle combinazioni di governo. La proporzionale, a differenza del maggioritario, lo consente.

A prima vista, sembra ragionevole. Ma c’è un problema. Poiché gli estremisti sono tanti, ne consegue che i partiti moderati non disporranno mai dei numeri necessari per alternarsi al governo, per formare coalizioni elettorali in grado di conquistare la maggioranza dei seggi. Risultato: l’esclusione permanente dei partiti estremisti determina l’impossibilità di alternanze per vie elettorali. Sbarrata quella possibilità, non resta che la formazione dei governi tramite accordi parlamentari tra partiti moderati.

In concreto, significa che qualche partito sarà al governo sempre, quali che siano i risultati delle elezioni, nonché le sue performance governative. E significa che i governi che si formano (attraverso un gioco di inclusioni ed esclusioni dell’una o l’altra frazione moderata) saranno governi a debole legittimazione, privi di quel valore aggiunto che dà a un premier e al suo governo la vittoria elettorale. Inoltre, poiché la punizione degli elettori può essere elusa, i governi avranno vita breve (non ci saranno mai governi di legislatura), continuamente destabilizzati dalle ambizioni personali di questo o quel politico, o gruppo, provvisoriamente escluso dal governo. Così è stato nella Quarta Repubblica francese (1946-1958). Così è stato in Italia (dopo i governi della ricostruzione) fino al 1993. Così è sempre nelle democrazie difficili, gravate da un eccesso di estremisti.

Oltre a una perenne debolezza e instabilità degli esecutivi, con la proporzionale c’è l’inconveniente che i partiti estremisti, sciolti dai vincoli delle coalizioni di governo, dispongono della libertà di manovra necessaria per mietere buoni raccolti elettorali.

Invece, nella logica maggioritaria applicata alle democrazie difficili, gli estremisti vengono inclusi. La ratio è: fanno meno danni se sono dentro. Nelle coalizioni che la logica maggioritaria impone, i partiti estremisti possono essere controllati e, entro certi limiti, responsabilizzati. E non dispongono di sufficiente spazio di manovra per strappare troppi consensi ai moderati. Si può anche sperare che col tempo i bollori si spengano, che molta più gente, grazie al fatto che gli estremisti non sono troppo liberi di spararle grosse, si stanchi di loro scoprendo le virtù della moderazione. Non è sicuro che accada. Ma, almeno, in regime di maggioritario, una speranza c’è. Con la proporzionale, invece, tale possibilità è esclusa. Si tratta di un perfetto brodo di coltura per estremisti liberi dalle costrizioni del governo, l’ambiente più adatto per fare crescere opposizioni irresponsabili.

Ai tempi della proporzionale, esistevano in Italia grandi partiti con un forte insediamento sociale. A differenza di altri, chi scrive non ne è mai stato un estimatore. Resta che quei partiti assicuravano una certa coesione sociale. Come si potrebbe evitare, con il ritorno alla proporzionale, un effetto marmellata, una condizione permanente di confusione e di precarietà, posto che quei partiti radicati di un tempo non sono più ricostituibili? Il futuro sarebbe scritto: instabilità, governi deboli e precari, ampi spazi per opposizioni irresponsabili. Varrà la pena di pensarci se e quando (come sembrano indicare i propositi che la politica sta manifestando) si metterà mano alla riforma elettorale.

Angelo Panebianco

19 gennaio 2012 | 11:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_19/proporzionale-nostalgie-fuori-luogo-panebianco_d1734f18-4247-11e1-9408-1d8705f8e70e.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La democrazia può anche fallire
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2012, 04:57:06 pm
CRISI DEL DEBITO ED EFFETTI POLITICI

La democrazia può anche fallire

Le crisi obbligano a bagni di umiltà. Con la più grave crisi dai tempi della Grande Depressione si è dissolta, almeno temporaneamente, l'arroganza intellettuale con cui in tanti (esperti, governi, autorità internazionali), fino a ieri, spiegavano il mondo e proponevano le loro infallibili ricette e previsioni sul futuro. Le crisi svelano ciò che resta di solito celato ma è vero anche in tempi più tranquilli: i fattori in gioco, fra loro interagenti, sono troppo numerosi perché siano possibili spiegazioni «onnicomprensive» nonché affidabili previsioni sul futuro stato del mondo.

Soprattutto, restano imprevedibili gli esiti delle continue influenze reciproche fra politica e economia. Ciò non toglie però che se non si considerano quelle influenze reciproche si capisce poco o nulla della crisi in corso. Si pensi al viaggio di Mario Monti negli Stati Uniti. Il successo che il nostro primo ministro ha ottenuto nei suoi incontri col mondo politico e finanziario americano è stato forse un balsamo per il nostro (depresso) umore nazionale, ma è un fatto che dietro a quel successo c'è la paura americana (e la paura di Obama alla vigilia di elezioni presidenziali incerte) per l'evoluzione futura della crisi dell'euro, una crisi i cui esiti non dipendono «solo» dalla politica, dalle decisioni dei governi, ma «anche» dalla politica. Si appoggia Monti sperando che ciò serva a influenzare positivamente, oltre che il giudizio dei mercati, le scelte future dei governi, tedesco in testa. Nessuno sa se e come ciò avverrà.

Oppure prendiamo il caso della Grecia, ormai preda di convulsioni violente. All'inizio della crisi, l'incendio greco poteva essere spento facilmente. Non lo fu per un veto tedesco, frutto, non di un capriccio di Angela Merkel, ma dell'orientamento dominante nella società tedesca. I tedeschi non volevano pagare il prezzo per l'errore, di cui erano corresponsabili, commesso quando la Grecia, senza averne i requisiti, fu ammessa nell'Europa monetaria. Oggi la Grecia è con le spalle al muro. Il suo probabilissimo fallimento promette conseguenze pesanti (di cui la Merkel ora si preoccupa) per l'Unione e per la stessa sostenibilità del sistema finanziario. Conseguenze ancor più pesanti riguardano la Grecia. Come tutto il resto, anche le rivoluzioni sono imprevedibili. Però, nessuno faccia oh!, nessuno assuma un'aria stupefatta, se in Grecia i sommovimenti raggiungeranno una intensità tale da minacciare le istituzioni democratiche.

Nelle analisi dedicate alla evoluzione della crisi economico-finanziaria, è spesso poco soddisfacente, di rado illuminante, il trattamento dei fattori politici. Sovente, la politica è presa in considerazione più come un fastidioso ostacolo, fonte di ogni irrazionalità, che come una condizione da trattare con la stessa freddezza con cui si valutano le grandezze macro-economiche e i loro cambiamenti. In genere, si ragiona in questo modo: prima si identificano le cose che andrebbero fatte se la «razionalità» prevalesse; poi si aggiunge che, malauguratamente, fattori politici, come, ad esempio, le imminenti elezioni in vari Paesi, frenano i governanti, impediscono loro di fare le scelte razionalmente corrette. È un modo sbagliato di ragionare.
La politica non è necessariamente un ambito dell'agire umano più irrazionale dell'economia. Semplicemente, opera secondo ragioni e logiche diverse. Se nelle fasi di espansione la ragion politica (che ha di mira il consenso) e la ragione economica possono sostenersi a vicenda, nelle fasi di crisi entrano facilmente in conflitto.

Si aggiunga la specificità europea: con la moneta unica, a cui non ha fatto seguito l'integrazione politica, le regole della democrazia (l'unica che c'è, quella nazionale) e le regole imposte dall'Unione monetaria, sono entrate, a causa della crisi, in rotta di collisione. Il che spiega anche il fatto che i rapporti intergovernativi abbiano oscurato il ruolo (con la sola eccezione della Bce) delle istituzioni europee sovranazionali. E poiché, nonostante certa facile retorica europeista, gli elettori europei restano, a schiacciante maggioranza, avvinghiati come l'edera alle loro istituzioni democratiche nazionali (il che è peraltro comprensibile: più è vicino il potere del governo, più l'elettore può sperare, o illudersi, di influenzarlo), il dilemma appare, e forse è, insolubile.

Il tutto aggravato dalla questione tedesca. In una lucida analisi Lucrezia Reichlin (sul Corriere dell'8 febbraio) ha scritto che le nuove regole del fiscal compact imposte dalla Germania all'Europa sono espressione di una crescente incompatibilità: fra una Germania esportatrice, proiettata fuori dall'area euro, sempre meno dipendente dai mercati europei, e il resto d'Europa condannato a uno sviluppo anemico anche a causa dei drastici aggiustamenti di bilancio imposti dai tedeschi. Se l'analisi è corretta, se la divaricazione fra gli interessi della Germania e di tutti gli altri europei è destinata ad aumentare con crescenti costi per questi ultimi, si può immaginare che si verifichino, in un prossimo futuro, potenti reazioni antitedesche (e, quindi, anti-europee) in molti Paesi. E sarà la democrazia, il meccanismo elettorale, il veicolo di quelle reazioni. Cosa potrebbe restare a quel punto dell'Unione è difficile dire. Senza contare i prezzi che dovrebbero pagare le varie democrazie europee: non è prevedibile, infatti, la natura dei movimenti politici che potrebbero affermarsi. Sarebbe una vera beffa del destino se dalla crisi in corso uscissimo non solo con una Europa a pezzi ma anche con istituzioni democratiche (nazionali), in alcuni Paesi almeno, indebolite o compromesse.
Riflettere meglio sui rapporti fra politica e economia non garantisce che si trovino soluzioni ma è condizione necessaria per la ricerca, se c'è, di qualche via d'uscita.

Il mondo è un posto complicato e opaco la cui evoluzione è largamente imprevedibile. Non c'è bisogno di ingannare il pubblico lasciando credere che se ne conosca la direzione di marcia o le ricette giuste per guidarlo. Meglio riconoscere onestamente la limitatezza delle nostre conoscenze e la necessità di fare uso del poco che sappiamo con la saggezza consentita dalle circostanze.

Angelo Panebianco

14 febbraio 2012 | 7:40© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_14/la-democrazia-puo-anche-fallire-angelo-panebianco_ae369c50-56d1-11e1-a6d2-3f65acf5f759.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La polveriera iraniana
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2012, 05:30:46 pm
I RISCHI DI GUERRA E L'ASSENZA DELL'EUROPA

La polveriera iraniana

Fare i conti senza l'oste. L'Europa appare ormai da tempo ripiegata su se stessa. La crisi dell'euro, il fallimento di fatto della Grecia, i rischi corsi dall'Italia, le imminenti elezioni francesi, i gravi problemi della maggioranza di governo in Germania favoriscono l'introversione europea. L'Europa sembra cieca e sorda rispetto a ciò che si muove intorno a lei, ai pericoli incombenti e alle conseguenze che possono derivare da eventi esterni al perimetro dell'Unione. Organismo debilitato e in crisi l'Unione, e anche i suoi Stati più importanti, Germania in testa, sembrano rassegnati a un ruolo passivo e secondario nelle crisi esterne all'Europa. Come se parole quali «interdipendenza» o «globalizzazione», a forza di ripeterle, avessero perso il loro significato originario, come se fosse possibile isolare l'Europa dalle onde d'urto che provengono dall'esterno. Le divisioni che attraversano oggi il Vecchio continente hanno di mira solo i suoi equilibri interni: ad esempio, la lettera con cui dodici leader europei hanno chiesto vigorose misure per la crescita segnala il debutto di una coalizione contraria alle rigidità tedesche, alla politica di rigore senza sviluppo che la Germania sta imponendo all'Unione. Ciò è spiegabile alla luce della crisi che ha investito l'Europa.

Meno spiegabile è invece la latitanza europea dagli scacchieri esterni nei quali si giocano partite che possono avere un grandissimo impatto sulla evoluzione della crisi europea. Meno spiegabile è il fatto che i capi di governo europei non abbiano ancora trovato tempo e modo per una presa di posizione collettiva su ciò che sta accadendo in Medio Oriente. Come se l'Europa potesse disinteressarsene.
In Medio Oriente i venti di guerra stanno soffiando con sempre maggior forza. È probabile che Israele, sul quale pesa una minaccia esistenziale, una minaccia alla sua sopravvivenza, decida entro pochi mesi di attaccare l'Iran, di colpirlo prima che esso si doti di armamenti nucleari. La guerra è resa ancor più probabile per il fatto che in Iran è in corso una lotta senza esclusione di colpi fra due fazioni, entrambe nemiche di Israele ed entrambe sostenitrici del programma nucleare, quella che fa capo alla Guida suprema Khamenei e quella che fa capo al presidente Ahmadinejad. Come spesso accade in queste circostanze, la fazione più in difficoltà potrebbe scegliere di aggravare ulteriormente la crisi con Israele, innescando così il conflitto armato, nel tentativo di prevalere sulla fazione rivale. Si aggiunga il fatto che l'Iran corre il rischio, nei prossimi mesi, di vedere indebolita la propria posizione internazionale a causa della crisi, quasi certamente irreversibile, del suo principale alleato mediorientale, il regime siriano. E ciò può accrescere nei suoi governanti la tentazione dell'avventurismo.

L'ondata che la guerra solleverebbe sarebbe gigantesca. Il prezzo del petrolio volerebbe alle stelle con un fortissimo impatto recessivo sull'economia internazionale. Negli scenari più cupi, però, il costo stimato del petrolio in caso di conflitto sarebbe addirittura il problema minore. Perché si aprirebbero, soprattutto per l'Europa, anche gravissimi problemi di sicurezza. L'estremismo islamico sciita-iraniano potrebbe avere interesse a colpire l'Europa per costringerla a esercitare pressioni su Israele. E troverebbe alleati, probabilmente, fra gli estremisti sunniti, anch'essi nemici di Israele.

Si noti che l'evoluzione in Medio Oriente sarebbe negativa per noi europei sia nel caso che la guerra scoppiasse a breve termine sia nel caso che venisse rinviata nel tempo. Nella prima eventualità, ci sarebbe una immediata onda d'urto. E, inoltre, le conseguenze di medio-lungo termine sarebbero altrettanto gravi. Se la guerra scoppiasse ora e Israele vincesse allontanando da sé la minaccia nucleare, ciò sarebbe ottenuto al prezzo di un drastico indebolimento della potenza iraniana in Medio Oriente. Tolto di mezzo il loro storico nemico politico-religioso, i fondamentalisti sunniti, veri vincitori, fino ad oggi, delle cosiddette rivoluzioni arabe, diventerebbero molto più aggressivi. E con la loro accresciuta aggressività non solo Israele ma anche l'Europa dovrebbero fare i conti.
Se invece la guerra non scoppiasse subito e l'Iran diventasse una potenza nucleare, la conseguenza non sarebbe solo un rischio permanente per la sopravvivenza di Israele: i regimi sunniti, Arabia Saudita in testa, dovrebbero a loro volta rapidamente dotarsi di armi nucleari per riequilibrare l'Iran. Un Medio Oriente interamente nuclearizzato sarebbe un incubo per il mondo e per l'Europa in primo luogo.

Ciò che davvero servirebbe a tutti, ma non c'è speranza di ottenerlo a breve termine, è un cambiamento di regime in Iran. Rassicurando così sia Israele che gli arabi sunniti. Obama e gli europei persero un'occasione d'oro quando, per miopia politica, non appoggiarono attivamente la rivolta antiregime in Iran del 2009. Fu l'unica buona occasione per rovesciare il regime teocratico nato dalla rivoluzione del 1979. E venne sprecata. Sarebbe stato più utile per tutti se gli occidentali avessero fatto per l'Iran in quella occasione ciò che hanno fatto (forse con eccessivo entusiasmo) per la Libia nel 2011, o almeno, senza arrivare all'intervento diretto, ciò che sta facendo oggi la Turchia a sostegno dei rivoltosi in Siria.
Che i medici si diano da fare intorno al capezzale dell'euro va benissimo. Ma senza dimenticare che i pericoli che corriamo sono di varia natura. Dal Medio Oriente, come sempre, arrivano i più insidiosi.

Angelo Panebianco

2 marzo 2012 | 8:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da -


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le primarie senza futuro
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2012, 11:34:42 am
Dopo il caso Palermo

Le primarie senza futuro

È ovviamente la scoperta dell'acqua calda: in condizioni di massimo discredito dei partiti politici è probabile che le primarie indette da quegli stessi partiti siano vinte da outsider, da persone che si candidano «contro» i candidati ufficiali, contro i candidati sponsorizzati dai leader nazionali di partito.

Il risultato palermitano delle primarie del centrosinistra conferma il trend: contro la candidata ufficiale, Rita Borsellino, sponsorizzata dalla segreteria nazionale del Pd (oltre che da Di Pietro e Vendola) vince un candidato «centrista» (ex Idv) che ha dietro di sé il sostegno del presidente della Regione, Raffaele Lombardo, e del Pd locale alleato di Lombardo. La sconfitta della Borsellino arriva, come sappiamo, dopo una lunga serie di sconfitte di candidati ufficiali del Pd, da Milano a Napoli a Genova.

Ciascuno di quei risultati si spiega, prima di tutto, alla luce di circostanze locali. Ma ci sono anche ragioni più generali. Discredito dei partiti a parte, giocano in questi risultati anche alcune anomalie, soprattutto la natura «bizzarra» delle primarie all'italiana. In primo luogo, non si tratta di gare ove ciascun candidato possa lottare «alla pari» (almeno in linea di principio) con gli altri candidati. Qui ci sono appunto «candidati ufficiali», sponsorizzati da apparati di partito. Col risultato che se l'apparato gode localmente di prestigio vincerà il candidato ufficiale (il caso di Piero Fassino a Torino) e se invece è screditato vincerà l'outsider. In secondo luogo, si tratta di primarie aperte che si svolgono in un contesto multipartitico, per giunta altamente frammentato. Ma mentre in contesti bipartitici le primarie possono risultare un utile strumento per selezionare gruppi dirigenti, è più difficile che ciò possa accadere in contesti multipartitici frammentati.

Ciò detto, un merito, nella attuale situazione, l'istituzione delle primarie lo ha senz'altro: è uno dei pochi mezzi di collegamento rimasti fra i cittadini e la politica rappresentativa. Esile e distorto, certamente: dietro lo schermo della retorica democratica, può consentire a micro-frazioni di attivisti, non rappresentativi del più ampio elettorato, di condizionare i risultati. Ma in una fase in cui i partiti nazionali sono oscurati dal governo (detto) dei tecnici, le primarie, sia pure solo per la scelta di candidati locali, mantengono una loro utilità.

Non è detto che si tratti di una istituzione destinata a durare. Forse, le primarie sopravvivranno per qualche tempo nelle competizioni locali, cittadine. Non avranno invece alcun futuro nella selezione dei gruppi dirigenti nazionali. Se ci sarà la prevista riforma elettorale in senso proporzionale, se si chiuderà l'epoca delle coalizioni contrapposte che chiedono il voto agli elettori l'una contro l'altra, allora di primarie nazionali non si parlerà mai più. Per una semplice ragione: se i governi si formano in Parlamento dopo le elezioni, allora i gruppi dirigenti dei partiti devono disporre della massima libertà di manovra (massima libertà di contrattare a destra e a manca gli accordi di governo) e nessuno potrà e dovrà disturbare i manovratori. Dunque: niente primarie nazionali.

Sarà un bene o un male? Si vedrà. Di sicuro, però, dopo tante parole spese contro il «Parlamento dei nominati», sarà divertente vedere a quali contorsioni dialettiche dovranno sottoporsi coloro che si sono più impegnati in quella campagna per spiegarci in che cosa il prossimo Parlamento sarà diverso dall'attuale.

Angelo Panebianco

6 marzo 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_06/panebianco-primarie-senza-futuro_4cd6cd2a-6754-11e1-894d-3b3e16fcb429.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tra riscatti e ipocrisie
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2012, 10:58:39 am
CASO NIGERIANO E MARÒ IN INDIA

Tra riscatti e ipocrisie


Puoi anche non curarti della politica internazionale. Sarà comunque lei a scovarti e ad occuparsi di te. Le due vicende dei marò italiani sequestrati dalle autorità indiane e del blitz britannico in Nigeria, ci hanno messo improvvisamente di fronte, come ha rilevato ieri Franco Venturini sul Corriere, alle nostre fragilità e alle incertezze con cui noi italiani, non da oggi, ci muoviamo nelle acque torbide e pericolose della politica internazionale. Per sovrappiù, in questo particolare frangente, queste vicende ci costringono anche a interrogarci sui limiti, se ci sono, dei governi sprovvisti di un esplicito mandato politico degli elettori.

Terrorismo, industria degli ostaggi, pirateria. Alla origine delle due crisi ci sono le nuove minacce alla sicurezza in un’epoca di globalizzazione. Con in più, in certi casi, la complicazione data dalle pretese di riconoscimento del proprio accresciuto status internazionale da parte delle nuove potenze extraoccidentali. Come mostra l’atteggiamento indiano nella vicenda dei soldati italiani.

Nella crisi nigeriana, scontiamo le ipocrisie e le ambiguità con cui da troppo tempo copriamo, di fronte a noi stessi, certe nostre scelte di fondo. Noi abbiamo la fama di pagare i riscatti sempre e comunque. E, per lo più, neghiamo di farlo. Non è questa una responsabilità del governo Monti che ha semmai ereditato una prassi consolidata dai suoi predecessori. È plausibile che i britannici ci abbiano avvertito del blitz solo ufficiosamente, e non ufficialmente, perché temevano, oltre che fughe di notizie, anche una reazione negativa del governo italiano.

È evidente che anche gli altri occidentali, quando non possono ricorrere alla forza, si adattano a pagare i riscatti. Ed è evidente che in questioni di questa natura occorrano flessibilità e discrezione. Ma, dato che l’industria dei sequestri continuerà a prosperare, dovremmo cominciare a chiederci se non sia il caso di fare qualche cambiamento nella nostra tradizionale linea di condotta. Per esempio, potremmo chiederci non tanto perché i britannici non ci abbiamo informato in tempo quanto perché, data la presenza di un ostaggio italiano, non ci fossero sul campo anche le nostre forze speciali. Come minimo, dovremmo chiederci se è poi davvero così «umanitaria» la politica del pagamento dei riscatti: quanto può contribuire quella politica ai sequestri prossimi venturi di operatori italiani?

Nel caso nigeriano, più che di responsabilità specifiche del governo Monti, è di una responsabilità nazionale che bisogna parlare: c’è, ormai da anni, una emergenza legata ai sequestri ad opera di terroristi e di predoni. E noi non siamo stati ancora capaci di affrontare il problema senza ipocrisie.

Diverso è il caso dei marò italiani. Qui gli errori del governo ci sono stati: diversi e gravi. Il primo è stato quello di non chiarire subito al comandante della nave (e forse anche all’armatore) che le conseguenze sarebbero state per loro assai pesanti se la nave fosse entrata nelle acque territoriali dell’India mettendo i nostri soldati alla mercé delle autorità locali.

Gli errori del governo poi sono continuati. Come ha mostrato il grave ritardo con cui abbiamo coinvolto nella vicenda l’Unione Europea. E come ha mostrato l’inutile visita del ministro Terzi in India, giustamente stigmatizzata da tanti. Abbiamo dato l’impressione, anzi lo abbiamo persino dichiarato, che la vicenda dei marò non avrebbe dovuto comunque compromettere i nostri ottimi rapporti con l’India. Troppo zelo, nel momento sbagliato. È evidente che abbiamo interesse a coltivare, e anzi a intensificare, le nostre relazioni economiche con l’India. Ma dichiararlo nel mezzo di una crisi come questa finisce per dare a tutti l’impressione che il business sia comunque più importante del riportare a casa i nostri soldati.

Lasciamo da parte la polemica politica che si è subito accesa, e nella quale prevale la propaganda. Dobbiamo riconoscere che l’Italia (e non il governo Monti in particolare) non ha ancora voluto fare apertamente i conti con le nuove sfide alla sicurezza. Sfide che mettono sempre in gioco la questione dell’uso della forza. Si tratti di terrorismo o di pirateria. Una questione, per noi, irrisolta. Potremmo, per cominciare, smetterla (siamo gli unici a farlo) di chiamare «operatori di pace» i nostri soldati di professione.

Però, è anche possibile che qualche problema legato alla natura di questo governo, del governo Monti, ci sia effettivamente. Il governo Monti è nato per fronteggiare una emergenza economico-finanziaria e ha fin qui fatto bene il suo lavoro. Ma è anche giusto chiedersi se, di fronte a sfide internazionali di diversa natura, le sue capacità di reazione non siano troppo deboli. E se la debolezza non abbia qualcosa a che fare con la natura particolare del governo. Non è questione di tecnici o di politici. È questione di essere in possesso, oppure no, di un mandato elettorale e di avere intenzione, oppure no, di battersi per la propria riconferma alle elezioni che verranno. Perché questo problema conta così tanto nelle crisi? Perché i governanti che sono tali grazie a elezioni vittoriose, e che si battono per vincere anche quelle successive, sono costretti a una reattività di fronte alle crisi che sembra mancare ai governanti sprovvisti di mandato popolare. I primi sanno che sulle crisi possono anche giocarsi la rielezione. I secondi non si pongono il problema. Ciò non garantisce affatto, figurarsi, che i governanti eletti faranno bene. Ma, di sicuro, ci sarà su di loro una pressione, una costrizione imposta dalle cose (e dalla paura della punizione elettorale) che non è presente o, quanto meno, è meno visibile nel caso dei governanti non eletti.

Angelo Panebianco

11 marzo 2012 | 8:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_11/panebianco-tra-riscatti-e-ipocrisie_3f21f6d8-6b4a-11e1-a02c-63a438fc3a4e.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Poteri di veto e costituzione
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2012, 06:41:00 pm
IL RUOLO DELLE PARTI SOCIALI

Poteri di veto e costituzione

Gli specialisti dei problemi del lavoro discutono sulla efficacia o meno della riforma messa a punto dal governo Monti. Accrescerà davvero la flessibilità del mercato o accrescerà solo i contenziosi giudiziari? Favorirà l’occupazione o aumenterà gli oneri a carico delle imprese? A parte le valutazioni di merito c’è anche in gioco un problema che sarebbe riduttivo definire «politico »: perché investe gli equilibri del nostro sistema istituzionale, riguarda quella che con espressione abusata viene detta la «costituzione materiale». Il quesito è se ne sia parte integrante il potere di veto dei sindacati e, in particolare, della più forte organizzazione, la Cgil (a sua volta trainata dalla Fiom). Molti pensano che, almeno dagli anni Settanta dello scorso secolo, quel potere di veto sulle questioni del lavoro sia uno dei pilastri su cui si regge la Repubblica. Da qui la diffusa convinzione, propria di chi confonde democrazia e costituzione materiale, secondo cui sfidare quel potere di veto equivalga a mettere in discussione la democrazia.

Ricordiamo che prima di oggi, negli ultimi trenta anni, il potere di veto della Cgil è stato sfidato dai governi solo in due occasioni, una volta con successo e una volta no. Negli anni Ottanta fu il governo di Bettino Craxi ad ingaggiare un braccio di ferro con la Cgil sulla questione del punto unico di contingenza. In quella occasione, la Cgil perse la partita e la sua sconfitta consentì all’Italia di porre termine al regime di alta inflazione che l’aveva flagellata per più di un decennio. La seconda volta, il potere di veto della Cgil venne sfidato dal (secondo) governo Berlusconi proprio sull’articolo 18. L’allora segretario della Cgil, Sergio Cofferati, riuscì a mobilitare e a coagulare intorno a sé tutte le forze antiberlusconiane del Paese e la maggioranza parlamentare non seppe conservare la coesione necessaria. L’articolo 18 non venne toccato, il governo uscì sconfitto.

In entrambe le precedenti occasioni, la mobilitazione della Cgil e dei suoi alleati aveva come bersaglio un chiaro, riconoscibile, «nemico di classe»: Craxi (socialista ma anche anticomunista) e Berlusconi. Adesso le cose sono assai più complicate persino per la Cgil. Il contesto, sia politico che economico, non l’aiuta. Monti e Fornero possono anche essere dipinti nelle piazze come nemici di classe. Ma si dà il caso che l’attuale governo sia un governo del Presidente, voluto e sostenuto da Giorgio Napolitano. Sarà alquanto difficile, e poco credibile, trattare da nemico di classe anche il presidente della Repubblica. Né aiuta la Cgil il contesto recessivo e i potenti vincoli esterni che incombono sull’economia italiana. La battaglia per conservare il potere di veto e, con esso, la potenza dell’organizzazione, si scontra con una congiuntura nella quale il giudizio dei mercati, delle istituzioni finanziarie e dell’Unione Europea sull’operato del governo e del Parlamento è decisivo e può farci facilmente ripiombare nella condizione di assoluta emergenza in cui eravamo solo pochi mesi fa.

Dopo le elezioni amministrative, quando il provvedimento del governo approderà in Parlamento, vedremo se il potere di veto della Cgil ne uscirà ridimensionato o riaffermato. Sarà la cartina al tornasole per capire se ci saranno cambiamenti oppure no nella costituzione materiale della Repubblica. Chi definisce solo simbolica la questione dell’articolo 18 forse sottovaluta il fatto che, in genere, sono proprio gli esiti delle battaglie sui simboli a decidere queste cose.

Angelo Panebianco

26 marzo 2012 | 9:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_26/panebianco-poteri-di-veto-e-costituzione_66113e8a-7701-11e1-93b9-89336e75ab45.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Partitocrazia senza partiti
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2012, 04:57:51 pm
ISTITUZIONI E SPESA PUBBLICA




Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere , 31 marzo), ribadendo che il circolo virtuoso della crescita economica non potrà mettersi in moto se non ci si decide a tagliare la spesa pubblica e ad abbassare le tasse (anziché continuare ad aumentarle), hanno anche osservato che ciò richiederebbe un contesto istituzionale appropriato. È difficile non mettere in relazione quella giusta osservazione con l'accordo di massima raggiunto dai leader di Pd, Pdl e Udc sulle riforme istituzionali. Un accordo di cui non sono ancora noti certi dettagli, ma la cui ispirazione di fondo è chiarissima. Almeno per chi conosce la storia e le tradizioni del Paese. L'accordo annunciato avrebbe potuto benissimo essere concepito negli anni Ottanta dello scorso secolo quando democristiani e comunisti erano ancora le forze dominanti. Proprio da quelle due esperienze provengono diversi protagonisti dell'accordo di oggi. E le tradizioni culturali non sono acqua.

L'accordo previsto, con il ritorno alla proporzionale e ai governi fatti e disfatti in Parlamento, assicurerà all'Italia un futuro di esecutivi deboli e brevi, di perenne instabilità (si veda l'ottima analisi di Roberto D'Alimonte sul Sole 24 Ore del 28 marzo). Una condizione che abbiamo ben conosciuto per un quarantennio, all'epoca della cosiddetta Prima Repubblica. Scordatevi per sempre i «governi di legislatura», quelli che durano per tutto l'intervallo che va da una elezione all'altra.

Bene, anzi male. Ma che c'entrano le riforme istituzionali previste con l'impossibilità di tagliare seriamente la spesa pubblica? C'entrano. Perché la spesa pubblica potrebbe essere tagliata solo da governi istituzionalmente forti che possiedano tutti gli strumenti necessari per imporre le proprie scelte e che abbiano la certezza di durare per una intera legislatura. Governi come quello uscito dalle recenti elezioni in Spagna, ad esempio. Le riforme prospettate qui da noi vanno nella direzione opposta. Non ci si faccia ingannare dagli specchietti per le allodole, disseminati qua e là. Ad esempio, dalla prevista «sfiducia costruttiva».

È un marchingegno (talvolta) utile per rafforzare i governi ma solo a due condizioni: che in Parlamento siano rappresentati pochissimi partiti, coesi e disciplinati, e che una sola Camera (e non tutte e due, come prevede invece l'accordo) sia abilitata a fiduciare o a sfiduciare gli esecutivi. Altrimenti, la «sfiducia costruttiva» è solo un pasticcio, una norma aggirabile con facilità. Non meno truffaldina di quella che prevede l'indicazione del candidato premier sulla scheda.

Il bipolarismo, di cui ci si vuole sbarazzare, non è un ideale estetico. È una concretissima esigenza. Solo se la competizione politica ha una struttura bipolare, gli elettori possono esercitare il potere che la democrazia affida loro: quello di cacciare il governo che li ha delusi mettendo al suo posto l'opposizione. Inoltre, il bipolarismo è una condizione necessaria (ma non sufficiente, come abbiamo sperimentato in Italia negli ultimi diciotto anni) per avere governi forti. Il governo forte è, a sua volta, una necessità per una democrazia bene funzionante e molti problemi italiani sono sempre dipesi dalla debolezza istituzionale dei governi.

Ma il bipolarismo, nei suoi diciotto anni di vita, non ha forse funzionato male? È vero ma fra le ragioni va anche ricordato l'attivo sabotaggio attuato dagli stessi che oggi ne denunciano con soddisfazione il fallimento. Non si può fare, come facemmo noi nei primi anni Novanta, una riforma maggioritaria e poi pretendere di non spazzare via le regole consociative su cui si regge il Parlamento. Non si può fare una riforma maggioritaria mantenendo però un sistema di finanziamenti che incentiva la frammentazione partitica. Non si può fare una riforma maggioritaria e poi negare ai primi ministri, come abbiamo sempre fatto, i poteri istituzionali di cui dispongono il premier britannico, il cancelliere spagnolo o il presidente francese.

Noi abbiamo oggi una «partitocrazia senza partiti», raggruppamenti politici che hanno mantenuto l'antica funzione di uffici di collocamento, di distributori di posti e prebende (lo dico senza moralismi: tutti i partiti del mondo fanno anche questo) ma hanno perduto l'insediamento sociale, i forti legami con la società che avevano i partiti di un tempo. Partiti siffatti hanno bisogno, ancor più di quelli della Prima Repubblica, di contare sulla spesa pubblica come strumento di consenso elettorale.

Nulla di meglio, allo scopo, di un ritorno al sistema proporzionale e alle pratiche spartitorie che esso favorisce. Perché rischiare, col maggioritario, di essere esclusi a lungo dal potere e, per conseguenza, dal controllo sulle risorse pubbliche?
Ciò che realmente ci dice l'accordo sulle riforme istituzionali è che mentre il mondo esterno è drammaticamente mutato i nostri principali raggruppamenti politici, e le loro rispettive clientele, pensano come se nulla fosse accaduto negli ultimi venti anni. Alcuni addirittura raccontano che, ritornando ai vecchi riti, si potranno anche resuscitare quei legami fra partiti e società che non esistono più da tempo. Ciò però è falso: quei legami non sono ricostituibili. Perché, insieme al mondo esterno, è cambiata la società italiana.

Una classe politica all'altezza delle sfide incombenti proporrebbe altro da quanto ci viene ora cucinato. Proporrebbe una buon legge elettorale maggioritaria, una drastica riforma del finanziamento dei partiti, e l'abbandono del parlamentarismo puro a favore o di un autentico sistema di cancellierato (autentico: non la caricatura da noi inventata che chiamiamo «modello tedesco») o di una qualche forma di presidenzialismo. Per assicurare alle cariche di governo un maggiore potere decisionale ma anche quel carisma che è stato definitivamente perduto dai partiti. E invece no. Ci propongono una versione della «Repubblica dei notabili». Una simil III Repubblica francese (ottocentesca) che soddisferà forse gli istinti manovrieri, e il gusto per gli intrighi parlamentari, di questo o quel leader, ma che non ci porterà da nessuna parte.

Angelo Panebianco

2 aprile 2012 | 8:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_02/panebianco-partitocrazia-zenza-partiti_9cec8350-7c84-11e1-b9fa-a64885bf1529.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Chi alimenta l'antipolitica
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2012, 12:03:55 pm
LE TRE CAUSE DEL DISCREDITO

Chi alimenta l'antipolitica


Intervenendo sulla vicenda dei finanziamenti ai partiti il presidente della Repubblica ha ammonito che ciò che rischiamo è «la fine della democrazia e della libertà». Ad alcuni, quella di Napolitano, sarà parsa una forzatura retorica. Ma non lo è. Gli scricchiolii sono sempre più numerosi, il rischio c'è. Si consideri la contestuale presenza di tre elementi. In primo luogo, una crisi economica destinata a durare a lungo, per anni probabilmente, con tanti giovani disoccupati e l'impoverimento di molte famiglie. In secondo luogo, una condizione di generale discredito dei partiti e della classe politica professionale. Infine, l'incapacità di quella medesima classe politica di trovare rimedi adeguati per la crisi di legittimità che l'ha investita. È la sinergia fra questi tre fatti che può provocare conseguenze devastanti.

Sbaglia chi crede che la crisi della Lega tolga semplicemente di mezzo uno dei principali strumenti di canalizzazione di umori antipolitici, che quella crisi sia un colpo all'antipolitica. Semmai, contribuisce a esasperarla. L'antipolitica è il convitato di pietra della politica italiana, si nutre del suo discredito, ne succhia il sangue, e può, in qualunque momento, esplodere in forme imprevedibili. Quando i sentimenti antipolitici diventano dominanti, e certamente lo sono oggi in Italia, aspiranti demagoghi di ogni genere si fanno avanti per intercettarli e assicurarsi un lauto bottino. Chi pensa che alle prossime elezioni politiche il gioco, e il pallino, resteranno interamente nelle mani delle vecchie oligarchie forse si illude. È possibile che la combinazione dei tre elementi suddetti (crisi economica, discredito della politica, inadeguatezza delle risposte al discredito) favorisca il successo di movimenti di protesta a vocazione autoritaria, già esistenti o in via di costituzione, non importa di quale colore politico. Con effetti di condizionamento sull'intera politica italiana.

Soffermiamoci sulla inadeguatezza delle risposte della classe politica al discredito. Si prenda il caso dei rimborsi pubblici ai partiti. L'andazzo durava da anni. Quando finalmente è esplosa la vicenda Lusi i politici hanno solo finto di scandalizzarsi. Adesso che è scoppiato il caso della Lega sembrano decisi a muoversi. Per fare cosa? A quanto pare, per «riformare» il sistema dei rimborsi, stabilire controlli, regole, eccetera. Senza tener conto di due fatti che pesano come macigni: il primo è che il finanziamento pubblico che vogliono mantenere, sia pure riformandolo, ha un non emendabile vizio d'origine, è figlio di un grave vulnus alle regole democratiche. È stato messo in piedi aggirando, e annullando di fatto, i risultati di un referendum popolare che imponeva la fine del finanziamento pubblico (i radicali di Pannella, che lo hanno sempre denunciato, hanno ragione). Se il sistema viene solo «riformato», il vulnus e la connessa illegittimità restano intatti. Il secondo macigno è dato dal fatto che, essendo i partiti giunti a questo livello di impopolarità, è l'idea stessa di finanziamento pubblico (camuffato o meno da rimborso) che è diventato inaccettabile per il grosso dei cittadini-contribuenti, i quali, per giunta, sono soggetti a una pressione fiscale altissima.

Occorrerebbe una rivoluzione, il coraggio di rinunciare ai soldi pubblici e di puntare sui finanziamenti privati (con tutti i paletti, i tetti, i limiti e i controlli che si vuole). Sulla base del principio: il cittadino, se vuole, «si paga» il partito che preferisce. Sarebbe un modo per assicurare che vivano (o si ricostituiscano) i partiti veri, capaci di mobilitare cuori e portafogli, e che muoiano invece le camarille oligarchiche in grado di sopravvivere solo come strutture parastatali, grazie ai soldi pubblici. Non si può fare? Sarebbe una cosa troppo «americana»? E allora tenetevi tutto il pacchetto: i soldi pubblici assieme al disgusto dell'opinione pubblica.

Oppure prendiamo il caso delle riforme istituzionali su cui si è realizzato un accordo di massima fra Pdl, Pd e Udc. Luciano Violante, autore di quella bozza, non me ne voglia se dico che quello schema mi sembra, anche al di là delle sue personali intenzioni, un «Manuale di autodifesa per oligarchie partitiche in pericolo». Un manuale, aggiungo, che non può dare ciò che promette. È surreale, nelle attuali condizioni, puntare su una legge elettorale i cui scopi sono quelli di assicurare (come nella legge che si vuole sostituire) il controllo di pochi dirigenti sulle candidature e di ritornare all'epoca in cui i governi si facevano e si disfacevano in Parlamento, senza riguardo per la governabilità. In Italia, dal 1948 al 1992, in 44 anni, si succedettero 45 governi. Non c'è più nessun Muro di Berlino in grado di tenere in piedi un sistema politico così inefficiente.

Se non fosse perché troppo preoccupati della propria sopravvivenza politica a breve termine, i politici italiani comprenderebbero che la sola strada rimasta per rimettere in sicurezza la democrazia consiste in un vero ampliamento dei poteri del governo (Cancellierato) o in un ampliamento dei poteri unito alla elezione diretta (Presidenzialismo). E in una legge elettorale coerente con lo scopo. Per iniettare più capacità decisionale nella democrazia e dare alle cariche di governo quel prestigio e quella forza perduti dai partiti e che questi ultimi potrebbero recuperare solo dopo anni di buon lavoro.

Le democrazie muoiono di solito per eccesso di frammentazione, instabilità, incapacità decisionale, e per il discredito che, in certe fasi, colpisce i loro partiti. Oggi i partiti italiani vengono percepiti da tanti come un problema anziché una soluzione (ciò spiega la popolarità di Monti). Ai loro dirigenti converrebbe uscire dall'angolo mediante qualche risposta adeguata. Altrimenti, la democrazia potrebbe in breve tempo vacillare sotto l'urto di ondate di protesta sempre più impetuose e pericolose.

Angelo Panebianco

10 aprile 2012 | 7:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_10/chi-alimenta-antipolitica-angelo-panebianco_d195a206-82cb-11e1-b660-48593c628107.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. RUOLO E FUTURO DEL PARTITO POLITICO
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2012, 11:48:16 am
RUOLO E FUTURO DEL PARTITO POLITICO

Non più un principe ma un utile Sherpa

L’Italia sta attraversando una fase in cui i sentimenti antipolitici sono virulenti. Ma che cosa è l’antipolitica? La sua essenza sta nel rifiuto della mediazione politica, di quella attività che consiste nell’aggregare interessi diversi e eterogenei a sostegno di decisioni su problemi collettivi. Le manifestazioni dell’antipolitica variano in funzione dei contesti e delle tradizioni. I suoi nemici, ovviamente, sono i politici, i professionisti della mediazione, giudicati troppo corrotti o troppo inefficienti o entrambe le cose.

Se l’enfasi è sulla corruzione, l’antipolitica si nutre di argomentazioni etiche. In Italia conosciamo questa variante dai tempi di Mani Pulite.
Più interessante è l’antipolitica fondata su accuse di inefficienza, di incapacità di risolvere i problemi collettivi.
Può presentarsi in due versioni. I politici possono essere giudicati inefficienti perché incompetenti. In questo caso l’antipolitica si aggrappa a soluzioni tecnocratiche. Gran parte della popolarità del governo Monti si spiega così. Per questa forma di antipolitica i problemi collettivi sono troppo complessi per lasciarli nelle mani di politici ignoranti. La complessità esige competenza tecnica.
La stessa democrazia rappresentativa può essere percepita come un impiccio.

Nella seconda versione, i politici sono ancora una volta inefficienti ma non a causa della complessità. A causa del fatto che badano solo ai propri interessi. L’argomento della inefficienza si somma a quello della corruzione. Per questa forma di antipolitica i problemi collettivi sono semplici. Ogni uomo di buona volontà può risolverli. È l’argomento detto della «cuoca di Lenin ». Lo sostengono tanti demagoghi in tutto il mondo. La situazione italiana è esplosiva perché tutte le forme di antipolitica sono in questo momento presenti. È un brodo di coltura da cui può venir fuori qualunque cosa.

Date le nostre tradizioni, la politica contro cui ci si scaglia è la «politica partitica », non quella delle istituzioni: ciò spiega perché, mentre i partiti hanno pessima fama, il presidente della Repubblica in carica, che pure viene dall’esperienza partitica, gode di generale stima. Ma sul ruolo dei partiti bisogna essere chiari. Perché la confusione è tanta (come mostra, ad esempio, un articolo di Alfredo Reichlin
sull’Unità di sabato 14 aprile, che se la prende anche con questo giornale). Che i partiti siano necessari alla democrazia rappresentativa è un fatto indiscutibile. Non è invece indiscutibile che siano necessari i partiti come li abbiamo conosciuti in questo Paese.

Dell’Italia repubblicana si è sempre detto che essa nacque sotto forma di «democrazia dei partiti». L’affermazione sarebbe stata pleonastica (in tutte le democrazie, infatti, ci sono i partiti) se non fosse per il particolare significato che ha sempre avuto quella espressione.
Si riferisce al fatto che i partiti, in un’Italia iper-partigiana, hanno avuto per decenni un ruolo assorbente, totalizzante, in grado di dominare o controllare qualunque istanza si affacciasse alla vita pubblica. La si chiamasse «Repubblica dei partiti» (nella versione benevola) o «partitocrazia» (in quella malevola) la democrazia italiana si è caratterizzata per decenni come un luogo nel quale i partiti erano tutto e le istituzioni erano niente.

Le istituzioni, per prima la presidenza della Repubblica, cominciano ad acquistare un peso via via crescente (si pensi a Pertini e poi a Cossiga) solo in coincidenza con l’aggravarsi della crisi dei partiti della (cosiddetta) Prima Repubblica. Il grande problema dei partiti attuali, intorno al quale i loro gruppi dirigenti si sono avvitati accrescendo così il proprio discredito, è che essi non hanno più quei fortissimi legami che hanno avuto per decenni con segmenti importanti della società e che consentivano loro di fare il bello e il cattivo tempo, ma non sono stati in grado di accettarlo e di ridisegnare la propria mission, la propria «ragione sociale». Non è vero che in una democrazia i partiti debbano essere per forza ciò che erano nell’Italia dei primi quaranta anni di storia repubblicana e che l’alternativa sarebbe la scomparsa dei partiti. Coloro che dalla crisi delle formazioni personali o carismatiche, da Berlusconi a Bossi, traggono ispirazione per sostenere che bisogna tornare ai partiti di un tempo, non solo fanno un sogno impossibile (quei legami fra partiti e società non sono ricostituibili perché è cambiata la società italiana).

Fanno anche danni, si aggrappano a terapie sbagliate, alimentano l’antipolitica. La vicenda dei rimborsi elettorali (che rimborsi non sono affatto) è emblematica. Solo gruppi dirigenti che immaginavano di poter operare con la stessa arroganza del tempo che fu potevano concepire, di comune accordo, un simile sistema. L’antipolitica può essere contenuta solo se i partiti accettano di essere altro da ciò che sono stati, accettano di essere, come sono nelle democrazie meglio funzionanti, solo organizzazioni specializzate nella raccolta del consenso elettorale e nella fornitura di personale per cariche di governo, senza più la pretesa di dominare le istituzioni. Il che richiede il contestuale rafforzamento dell’autonomia e dei poteri decisionali attribuiti alle istituzioni di governo. Compito dei partiti non è di essere, gramscianamente, i «principi». È di essere, più modestamente, gli sherpa, le strutture di supporto di coloro che si sfidano sul piano elettorale allo scopo di diventare, essi sì (ma con mandato a termine), i principi. Che altro sono i partiti in Francia o in Gran Bretagna?
Si guardi alla esperienza di maggior successo degli ultimi venti anni, quella dei sindaci. Non tutte le ciambelle riescono col buco, naturalmente, ma è un fatto che spesso lo scontro frontale fra candidati sindaci, e la vittoria di uno di loro, rivitalizzano il rapporto politica-società, e danno anche ai partiti un ruolo che non avrebbero se non fossero stati il supporto del candidato vincente.

Se si vuole sconfiggere l’antipolitica (nei suoi aspetti minacciosi per la democrazia) occorre che i partiti si rassegnino a un ruolo assai più modesto che in passato. Solo così i cavoli dei partiti e la capra della democrazia potranno essere salvati.

Angelo Panebianco

16 aprile 2012 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_16/panebianco-non-piu-principe-ma-utile-sherpa_d8d0e04c-8782-11e1-99d7-92f741eee01c.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'antipolitica e i suoi antidoti
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2012, 05:27:37 pm
ISTITUZIONI FORTI, GOVERNI AUTOREVOLI

L'antipolitica e i suoi antidoti

Di quali istituzioni (e di quali partiti politici) avrebbe bisogno l'Italia per avviare una nuova stagione di crescita economica? Ha senso pensare istituzioni e partiti in questa chiave?

Cominciamo col dire che sarebbe strano se non convenissimo tutti che rilanciare la crescita economica sia la nostra priorità nazionale, lo scopo primario a cui tutti gli sforzi dovrebbero tendere. Riavviare la crescita non serve solo a ridare prosperità al Paese, serve anche a mettere in sicurezza la democrazia. La decrescita provoca impoverimento e, superata una certa soglia, l'impoverimento fa correre rischi mortali alla democrazia. Nei prossimi anni, la competizione fra le forze politiche potrà riguardare, per l'essenziale, solo le differenti ricette per rilanciare la crescita, per invertire la tendenza, per porre termine a quella emergenza nazionale che è il declino economico. E ciò richiederà la capacità di ridurre drasticamente il debito, di abbattere (giunti a questi livelli di prelievo, non si tratta più semplicemente di «abbassare», ma di abbattere) le tasse, di aggredire, possibilmente col lanciafiamme, una burocrazia inefficiente e opprimente.

Un compito del genere richiede istituzioni adeguate, dotate di un forte potere decisionale concentrato. Come si potrebbero altrimenti vincere le immense resistenze che, per esempio, si sprigionano a tutti i livelli contro qualunque ipotesi di riduzione della spesa pubblica o di semplificazione del quadro normativo? Dunque, è necessario irrobustire assai le istituzioni politiche accrescendone autonomia e potere decisionale. In concreto, si tratta di dare alla democrazia italiana ciò che non ha mai avuto: governi istituzionalmente forti.

Ciò si può fare in vari modi, sono possibili diverse strade. Mi permetto di dissentire dall'onorevole Massimo D'Alema quando, in una intervista alla Stampa (del 22 aprile), dice che la sola scelta che abbiamo di fronte è fra il sistema parlamentare e quello presidenziale. In realtà, ci sono vari tipi di presidenzialismo, alcuni efficienti e altri no. E vari tipi di parlamentarismo, alcuni efficienti e altri no. Il nostro, simile a quello della IV Repubblica francese, è, come è noto, altamente inefficiente.

La ragione per cui, su questo giornale, chi scrive ha criticato la bozza di accordo su legge elettorale e riforme istituzionali elaborata da Pd, Udc e Pdl, è che quel progetto non promette di darci ciò di cui abbiamo necessità: governi forti e stabili e drastica riduzione di quei diffusi e radicati poteri di veto che obbligano sempre i governi a compromessi al ribasso, ne bloccano le velleità riformatrici.

In un quadro che fosse di rafforzamento delle istituzioni di governo, i partiti, che sono organismi parassitari (si adattano cioè alle istituzioni in cui operano), non potrebbero avere il ruolo di dominatori delle istituzioni, dovrebbero accettare di essere strutture di servizio e di supporto per candidati in lizza per la guida del governo. Si leggono molti commenti secondo cui la crisi dei partiti personali, da Berlusconi a Bossi, rilancerebbe l'idea del partito a guida «collettiva». Chi lo sostiene forse non sa che, nel caso dei partiti, ci sono solo due possibilità: o sono guidati da un leader (che si candida per la guida del governo) o sono guidati da una ristretta oligarchia. Quanto a struttura del potere, in altre parole, i partiti possono essere solo monocrazie o oligarchie.

Davvero la soluzione alla crisi dei partiti personali sarebbe la rivitalizzazione del partito oligarchico? Nelle altre grandi democrazie europee, dove pure non si è verificata quella traumatica distruzione delle vecchie formazioni partitiche che noi abbiamo sperimentato nei primi anni Novanta, la politica democratica è competizione fra leader, sostenuti dai rispettivi partiti, per la conquista del governo. Ciò è inevitabile in tutti i casi in cui la democrazia si sposi con governi istituzionalmente forti. La concentrazione di potere nelle istituzioni di governo produce concentrazione di potere nei partiti. Chi vuole il partito a guida collettiva (ossia, oligarchico), ne sia consapevole o no, vuole anche ciò che non possiamo più permetterci: istituzioni di governo acefale, deboli e frammentate. Sembra che in Italia ci siano ancora troppi «intellettuali della Magna Grecia», così innamorati delle specificità italiane da non guardare con sufficiente attenzione a ciò che accade in altre democrazie.

L'antipolitica è un sintomo e non la malattia, si gonfia se le classi politiche non riescono a dare risposte plausibili alle sfide. Date risposte plausibili (si tratti di finanziamento dei partiti, di costi degli apparati politico-amministrativi, di riforme istituzionali, ma anche di riduzione del debito, tasse, lotta alla burocrazia, efficienza dei servizi pubblici) e l'antipolitica riprecipiterà in quei bui e un po' maleodoranti scantinati in cui normalmente si nasconde.

Angelo Panebianco

24 aprile 2012 | 8:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_24/antipolitica-suoi-antidoti-panebianco_6f7b94e4-8dd0-11e1-839c-11a4cf6ed581.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. NON SOLO AMMINISTRATIVE Che significato dare al voto
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2012, 04:42:44 pm
NON SONO SOLO AMMINISTRATIVE
Che significato dare al voto

A volte i risultati delle elezioni amministrative anticipano quelli delle successive elezioni politiche e a volte no. Nel 1975 il successo del Partito comunista alle Amministrative anticipò la sua forte affermazione nelle elezioni politiche del 1976. Ma un analogo successo dell'erede del Pci, il Pds di Achille Occhetto, nelle Amministrative del 1993 non anticipò affatto il risultato delle Politiche del 1994 (il Pds venne allora sconfitto da Silvio Berlusconi). Quali che saranno gli esiti delle Amministrative parziali di oggi, nonché gli «insegnamenti» e i «presagi» che gli esperti in divinazione elettorale ne trarranno, difficilmente quegli esiti potranno darci i nomi dei vincitori e dei vinti delle elezioni politiche generali dell'anno prossimo, del 2013. Soprattutto se, come appare probabile, sarà andata in porto, nel frattempo, la riforma del sistema elettorale.

Molte incognite pesano sul voto. C'è la questione della tenuta del Pdl. Una sua forte sconfitta potrebbe imprimere una accelerazione al processo di disintegrazione, già in atto da tempo, di quella formazione politica. Nessuno però potrebbe sapere come, in tal caso, andrebbe a riorganizzarsi quell'area politica e con quali chance di successo in vista delle elezioni del 2013. Né è dato di sapere cosa accadrà alla Lega. Da un lato, in quanto «grandi oppositori» del governo Monti, i leghisti dovrebbero intercettare una parte almeno della protesta che le politiche del governo alimentano. Dall'altro lato, però, la Lega si trova a fronteggiare uno scandalo di tale forza da averne terremotato i vertici investendo il suo stesso fondatore e capo carismatico. E anche il Pd ha i suoi problemi (dalle inchieste giudiziarie alla agguerrita concorrenza che subisce da parte di candidati locali che si collocano alla sua sinistra).
Insomma, comunque vada, anche dopo che si saranno tenuti i ballottaggi, difficilmente l'incertezza e la confusione oggi regnanti si dilegueranno.

La complessità della situazione è data dal fatto che il voto sarà influenzato da tre fattori il cui rispettivo peso resterà difficile da valutare. Peseranno, prima di tutto, come è ovvio (anche se i commenti del giorno dopo, tradizionalmente, tendono a dimenticarlo) le specificità locali. Molti elettori voteranno semplicemente con lo sguardo volto all'amministrazione della loro città. Troppo spesso, si attribuiscono valenze politiche generali a un voto che, come è naturale e giusto che sia, è condizionato da ragioni locali.

Però, è anche vero che, soprattutto in tempi di crisi, una parte almeno degli elettori, anche in un voto amministrativo, risponde a stimoli e pressioni di ordine generale. La complicazione è data dal fatto che sono congiuntamente in atto due crisi, fra loro distinte, anche se collegate, entrambe suscettibili di influenzare il voto.

C'è, in primo luogo, la crisi del sistema politico, determinata dalla fine (o dalla forte attenuazione) della ventennale contrapposizione fra berlusconiani e antiberlusconiani. È la crisi del bipolarismo all'italiana: ci si aspetta che essa inneschi a breve termine una ristrutturazione/ricomposizione delle forze politiche fin qui dominanti. Il voto amministrativo cade, cioè, nel mezzo di una confusa transizione di cui sono espressioni sia la presenza del governo detto tecnico (che si trova a svolgere, di fatto, il ruolo del traghettatore verso equilibri politici diversi da quelli del recente passato) sia la drammatica perdita di credibilità dei partiti esistenti.

La seconda crisi è, naturalmente, quella economica: qui più che le specificità italiane giocano le dinamiche mondiali. E gioca ciò che l'Unione europea fa o non fa per contrastare la crisi (o si ritiene che debba fare o non fare). In Italia, come in molti altri Paesi, è cresciuto un sentimento di ostilità verso l'Europa, e verso la Germania, che dell'Europa è il dominus , che difficilmente mancherà di lasciare la sua impronta persino sulle nostre elezioni amministrative (parziali). Così come su qualunque altra elezione, nazionale o locale, che si tenga in qualunque altro Paese europeo. È, fra quelle in atto, la tendenza più pericolosa. L'Unione europea si è sempre retta sul consenso (passivo, quanto meno) dei più: se il consenso si riduce sensibilmente, come sta avvenendo oggi in molti Paesi europei, se il dissenso manifesto si gonfia oltre una certa soglia, l'Unione avrà a disposizione sempre meno risorse politiche per fronteggiare la crisi e trovare soluzioni. Non solo, come è più ovvio, la sfida per le Presidenziali in Francia fra Hollande e Sarkozy, ma persino una elezione di secondaria importanza come le nostre Amministrative odierne diventano altrettanti test sul futuro dell'Europa.

Si è molto parlato di antipolitica, soprattutto con un occhio ai sondaggi che danno il movimento di Beppe Grillo in crescita, ma si è collegato il fenomeno solo alla crisi del sistema politico italiano, e al discredito dei nostri partiti. Ma questa è solo una faccia del problema. L'altra faccia è rappresentata dal fatto che gli umori antieuropei circolanti nel Paese (come in altri Paesi) sono alla ricerca di sbocchi politici, di rappresentanza. E, inevitabilmente, finiranno per trovarla.

L'interdipendenza, anche politica, in Europa è ormai tale che persino elezioni comunali non sono senza effetti sugli equilibri europei. In fondo, vale per l'Europa ciò che vale per i partiti italiani. L'una e gli altri o riescono a trovare soluzioni credibili, serie, per i problemi che ci attanagliano o riceveranno schiaffi sempre più forti da elettori disorientati e alla ricerca di alternative più o meno illusorie.

Angelo Panebianco

6 maggio 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_06/significato-voto-panebianco_a1629b54-9741-11e1-9a56-d67dd7427f23.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Casini e l'addio alle mani libere
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2012, 10:52:29 pm
LE SCELTE SULLA LEGGE ELETTORALE

Casini e l'addio alle mani libere


Si farà la riforma elettorale? E se sì, di che riforma si tratterà? Forse, potrebbe rispondere a queste domande il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini. Non tutto, ma molto, dipende da lui. Dipende, cioè, dalle scelte strategiche che Casini farà (o non farà) in materia di alleanze, in vista delle prossime elezioni. Cerchiamo di capire perché.

Fino a questo momento, i lavori sulla riforma elettorale (la cosiddetta bozza Violante) sono stati condizionati dalla centralità che Casini, grazie alla nascita del governo Monti, ha provvisoriamente conquistato in Parlamento. Giocando su quella centralità Casini ha lavorato in questi mesi per un obiettivo: il varo di una legge proporzionale che, nelle intenzioni, gli avrebbe consentito di assumere in permanenza il ruolo di ago della bilancia della politica italiana, di avvantaggiarsi della rendita di posizione centrista. Per ragioni diverse, gli altri (Pd, Pdl) lo hanno fin qui assecondato. Il Pd lo ha assecondato perché influenzato dal progetto, che si attribuisce a Massimo D'Alema, di una futura alleanza con l'Udc. Il Pdl, a sua volta, lo ha assecondato ritenendo che con la proporzionale avrebbe forse potuto rendere meno catastrofica la prevista (dai sondaggi) sconfitta elettorale e rimanere comunque in gioco.

Naturalmente, né il Pd né il Pdl, pur assecondando Casini, erano e sono disposti a rinunciare al ruolo di principali partiti del sistema politico. Da qui i tira e molla su premi di maggioranza, grandezza dei collegi (i collegi piccoli, di tipo spagnolo, premiano i partiti grandi, quelli grandi premiano i partiti medi e piccoli), soglie di sbarramento, eccetera. Quei tira e molla - e i malumori che circolano dentro i due maggiori partiti per il previsto ritorno alla proporzionale - hanno infine prodotto una situazione di stallo.

Ma supponiamo che ora Casini cambi strategia. Preso atto, e lo ha già fatto, che il progetto del Terzo polo è fallito, constatato che le sue chance di diventare l'ago della bilancia non sono poi molte, e riconosciuto, infine, che se il sistema politico, dopo le elezioni, si incartasse come ha fatto quello greco sarebbero dolori per tutti, Casini potrebbe decidere di abbandonare la politica delle «mani libere» e di stringere una alleanza con il Pd o con il Pdl. Più plausibilmente con il Pdl visto che, fra i due partiti maggiori, è il più debole e quindi anche il meno coriaceo nelle eventuali trattative.

A quel punto, fatto l'accordo, persino a Casini potrebbe convenire un sistema elettorale che salvi il bipolarismo (o un proporzionale di tipo spagnolo o, meglio ancora, un doppio turno di tipo francese) premiando le due alleanze politiche più forti. Basterebbe, ad esempio, convincere il Pdl che il doppio turno, in elezioni politiche, non lo mette necessariamente in posizione di svantaggio rispetto al Pd. Non è affatto detto, infatti, che, in elezioni ove la posta in gioco è molto alta, gli elettori di destra «votino meno» al secondo turno rispetto agli elettori di sinistra. E il doppio turno ha il vantaggio di premiare le alleanze e di punire chi va da solo. Tanto la concorrenza della Lega (a destra) quanto quella di Beppe Grillo (a sinistra) diventerebbero, col doppio turno, meno temibili.

Come sarà il prossimo sistema elettorale? Dipenderà forse, in non lieve misura, da ciò che Casini deciderà di fare da grande.

Angelo Panebianco

18 maggio 2012 | 8:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_18/casini-addio-mani-libere-panebianco_af726e52-a0a8-11e1-b2d7-87c74037ee6c.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Una distanza insostenibile
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2012, 04:49:08 pm
TRA ÉLITE EUROPEE E GENTE COMUNE

Una distanza insostenibile

Se cerchiamo le cause profonde della crisi dell'Europa, possiamo forse identificarne una più generale e una più specifica. La più generale consiste nel «ciclo generazionale». La più specifica nell'incapacità delle élite europeiste di fare i conti con le credenze del common man, dell'uomo comune europeo.

Per ciclo generazionale si intende una regolarità tante volte all'opera nella storia. A una fase di grandi disordini (guerre interstatali e civili) segue una lunga fase di pace e ordine. Coloro che hanno vissuto l'età del disordine e ricordano le morti violente e il senso di costante insicurezza, coloro che sentono ancora, se chiudono gli occhi, l'odore della paura per la sopravvivenza propria e dei propri cari, si adoperano perché quei tempi non tornino più. Ne seguiranno sforzi individuali e collettivi tesi ad assicurare una forma di «pace perpetua» (dentro le società e fra le società affini), un ordine che si spera di costruire su basi solide. I figli di coloro che hanno vissuto nell'età del disordine ne continuano l'opera. Non hanno conosciuto direttamente quella età (o erano troppo piccoli per averne un ricordo distinto) ma sono stati influenzati dai racconti dei genitori. Da quei racconti hanno appreso che l'ordine societario è una fragile cosa, che l'età del disordine potrebbe tornare spezzando di nuovo vite e progetti di vita, sogni e desideri. L'ordine si mantiene grazie allo sforzo della nuova generazione. Possono anche insorgere, qua o là, minoranze violente (terrorismo) ma verranno sconfitte. I padri sono ancora lì a ricordare a tutti l'esperienza vissuta nell'età del disordine.

Poi, a poco a poco, scompaiono tutti quelli che hanno avuto esperienza diretta di quei tragici tempi. Per i loro nipoti non c'è ormai differenza fra le guerre puniche e il nazismo o la Seconda guerra mondiale. Cose che appartengono a epoche lontane, che si studiano a scuola, irrilevanti per la loro personale esperienza. Le inibizioni che hanno condizionato le generazioni precedenti si dissolvono. Non c'è più memoria dell'antica barbarie. Il rischio di una nuova età del disordine diventa elevato.

La Comunità europea, e poi l'Unione, insieme alle altre istituzioni del mondo occidentale sono state per tanti una assicurazione contro il rischio del disordine. Più passa il tempo, più questa funzione dell'Europa comunitaria si indebolisce. Chi ritiene «impensabile» che in Europa possa tornare una età del disordine, simile a quella che la sconvolse nella prima metà del XX secolo, aderisce a una variante ingenua dell'ideologia del Progresso.

La seconda causa della crisi riguarda la distanza, culturale prima che politica, fra le élite europeiste, le élite (politici, intellettuali) che ancora investono nell'integrazione europea, e una parte consistente dei cittadini comuni. È una distanza fra élite e popolo che si spiega, in parte, con la storia dell'integrazione europea. L'Europa fu voluta da élite illuminate. Fino alla moneta unica, l'integrazione fu un processo elitario. Gli elettori, certo, lo accettavano. Perché lo percepivano come una garanzia di ordine e ne ricavavano visibili benefici. Ma da quando il ciclo generazionale ha quasi completato il suo percorso e i benefici visibili sono diminuiti, la distanza fra élite europeiste e «popolo» (o una parte del popolo) è andata allargandosi.

Il referendum irlandese sul fiscal compact dell'altro ieri è andato bene ma quante volte gli elettori dell'uno o dell'altro Paese hanno votato contro i desiderata dei leader europei?

È vero che se crollasse l'euro la catastrofe economica sarebbe immane e forse molte delle nostre democrazie ne verrebbero travolte. Ma perché mai questo (giusto) ragionamento sembra avere poca efficacia politica? Forse perché (o anche perché) molti esponenti delle élite europeiste non sanno entrare in sintonia con il cittadino comune, non sono capaci di empatia. Sottovalutano, in primo luogo, la forza del nazionalismo. Quando si criticano il nazionalismo economico della Germania di oggi e i comportamenti che hanno portato la crisi dell'euro al limite della rottura, si dimentica che il nazionalismo economico è una sottocategoria del nazionalismo tout court , non ha vita autonoma. La maggior parte degli europei continua a identificarsi nella propria nazione. Il fatto che il nazionalismo non si manifesti con l'aggressività bellica di un tempo nulla toglie alla sua perdurante vitalità.

Le élites europeiste sottovalutano, poi, l'importanza che mantengono per i cittadini le istituzioni della democrazia nazionale. Saranno anche meri simulacri, privi di potere effettivo, ma sono le uniche, perché più vicine a loro, che i cittadini pensano di potere influenzare. Se non si fa loro cambiare idea su questo punto diventa un esercizio sterile invocare l'integrazione politica sovranazionale.

La proposta migliore l'ha avanzata l'ex ministro tedesco Joschka Fischer (su questo giornale, il 26 maggio). Creiamo - ha detto - una «euro-Camera», una sorta di Camera bassa, nella quale siano presenti sia le maggioranze che le opposizioni di ogni Stato dell'Eurozona. L'attenzione di mass media e opinione pubblica si concentrerebbe sulle alleanze che vi si creano e le decisioni che si prendono. È una buona idea: prende atto del fallimento dell'attuale Parlamento europeo e suggerisce una strada più coinvolgente.

Ma è solo un esempio. È compito delle élite guidare gli altri cittadini con lungimiranza. Ma se, per mancanza di empatia e di attenzione ai loro umori e orientamenti, se ne allontanano al punto da non scorgerli più, allora il loro ruolo è finito. L'Europa corre lo stesso rischio.

Angelo Panebianco

4 giugno 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_04/distanza-insostenibile-panebianco_7242e9b6-ae05-11e1-bd42-307990543816.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La tentazione nazionalista
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2012, 04:39:43 pm
I PERICOLI DELL'UNIONE EUROPEA

La tentazione nazionalista

La questione dell'Europa coincide con la questione della pace


A grandi pericoli corrispondono grandi opportunità. Proprio perché la costruzione europea è oggi a rischio di distruzione esiste anche l'opportunità di darle nuovo slancio. Ha ragione l'ex cancelliere tedesco Helmut Kohl: la questione dell'Europa coincide con la questione della pace. Persino in un'epoca che si fa beffe della memoria storica si deve sapere che la storia d'Europa è una storia di guerre. Continuare a lavorare nel cantiere europeo, impedire che venga smantellato, serve soprattutto alla pace.

Per discuterne utilmente bisogna però rimuovere alcuni ostacoli: pregiudizi, modi sedimentati di guardare la realtà, che la deformano. Alcuni anni fa, una studiosa di cose europee, Vivien Schmidt, scrisse che il funzionamento dell'Unione è stato a lungo un caso di policy without politics , di politiche pubbliche senza politica. L'Unione macinava quotidianamente «politiche» (agricola, commerciale, monetaria, eccetera) ma la «politica» - intesa come conflitto e competizione aperta fra visioni differenti - era esclusa dall'ambito europeo, restava relegata negli ambiti nazionali.

Oggi, con la crisi dell'euro, le cose sono cambiate: la «politica» è entrata nelle felpate stanze dell'Unione. Ma un lungo periodo di policy without politics ha lasciato una impronta. Una eredità negativa è il carattere tradizionalmente stereotipato, ripetitivo, del dibattito pubblico sull'Europa. Un dibattito nel quale, a lungo, c'è stato spazio solo per due posizioni: l'europeismo acritico e l'antieuropeismo. O si era europeisti, e si accettavano supinamente, senza discutere, istituzioni, procedure e politiche generate dall'Unione, o si era antieuropeisti, nostalgici delle sovranità nazionali. Chiunque fosse convinto del valore della casa comune europea ma esprimesse dubbi su questo o quell'aspetto dell'integrazione, o della filosofia che la giustifica, si vedeva additato come antieuropeista. Ciò ha strozzato il dibattito, ha fatto male all'Europa. Gli antieuropeisti ci sono ma ci sono anche, per parafrasare Romano Prodi, gli «europeisti adulti», refrattari alle ortodossie e ai catechismi. Se si vuole salvare l'Europa se ne deve parlare senza tabù, liberamente.

In un precedente articolo (Corriere , 4 giugno), ho scritto della distanza che separa le élite europeiste tradizionali dai cittadini comuni. Un effetto di tale distanza è che, spesso, queste élite tendono a imputare solo alle «classi politiche nazionali» le resistenze che impediscono una piena integrazione politica. Senza avvedersi di quanto forte sia sempre stata, su questo punto, la tacita solidarietà fra classi politiche nazionali e cittadini.

Prendiamo il tema tabù per eccellenza: il nazionalismo. Per la concezione dell'Europa che chiamo «ortodossa» è impensabile che il nazionalismo (l'identificazione in quella «comunità immaginaria» che è la propria nazione) possa tuttora essere più forte della identificazione nell'Europa. Quando si ammette l'esistenza del nazionalismo (si veda l'articolo di Giuliano Amato, Emma Bonino e altri, «La spinta necessaria a un'Europa politica», Corriere , 6 giugno, che rappresenta al meglio la posizione ortodossa) lo si associa al «populismo». Come se, ad esempio, il nazionalismo in Francia riguardasse solo gli elettori lepenisti. Non è così. Non solo in Francia il nazionalismo è vivo e vegeto e ha fino a ora impedito ai suoi governi di sottoscrivere proposte di rafforzamento dell'Europa politica ma è vitale anche in molti altri Paesi.

Non sono nazionalisti solo gli antieuropeisti dichiarati. Lo sono anche i governi, sostenuti dai rispettivi elettori, che non rinunciano ai vantaggi dell'Unione ma vogliono piegarla ai propri interessi nazionali. Sembra di tal fatta anche la recente proposta di Angela Merkel di una maggiore integrazione politica: il progetto di una «piccola Europa», che escluda i Paesi «non in ordine» secondo i criteri tedeschi. Non, si badi, un'Europa a leadership tedesca (che nessuno potrebbe sensatamente rifiutare) ma dominata dai tedeschi. Non si può più ignorare il peso del nazionalismo, bisogna farci i conti per impedire che distrugga l'Unione.

Allo stesso modo, senza preconcetti, bisogna interrogarsi sugli ostacoli che hanno fin qui impedito di accrescere la rappresentatività delle istituzioni europee. Nessuno sa come potrebbe funzionare una democrazia sovranazionale multilinguistica di dimensioni continentali (la storia degli Stati Uniti d'America è assai diversa dalla nostra). E nessuno sa come convincere gli elettori a non rimanere abbarbicati alla democrazia nazionale. C'è un rapporto fra la distanza dell'elettore dall'arena rappresentativa per la quale vota e la sua sensazione di poter controllare i rappresentanti. Anche se, con l'integrazione, i governi e i parlamenti nazionali hanno perso il controllo su tante aree decisionali, molti elettori mantengono l'idea, o l'illusione, che sia più facile per loro condizionarli.

Nell'intervento sopra citato, Amato, Bonino e gli altri firmatari criticano la mia affermazione secondo cui il Parlamento europeo ha fallito il suo scopo principale. Lo ribadisco: quella istituzione ha ben poco a che fare con la «sovranità popolare». Gli elettori che votano alle elezioni europee lo fanno più per lanciare messaggi ai partiti dei propri Paesi che per concorrere a formare un'inesistente «volontà popolare europea». Per questo mi è parsa una buona idea la proposta dell'ex ministro tedesco Joschka Fischer di creare una Camera bassa, limitata all'eurozona, ove siano rappresentate sia le maggioranze che le opposizioni di ciascun Paese. Per calamitare l'attenzione dell'opinione pubblica sulle alleanze che vi si stipulano e le decisioni che vi si prendono. Non ci serva la riproposizione di formule stantie. Servono nuove idee, e la ricerca di intelligenti alternative, per impedire che il cantiere comune europeo venga smantellato.

Angelo Panebianco

12 giugno 2012 | 7:29© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_12/tentazione-nazionalista-angelo-panebianco_394dfaca-b44e-11e1-8aac-289273c95a39.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Moneta unica e democratica
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2012, 06:39:05 pm
UNA QUESTIONE NON SOLO ECONOMICA

Moneta unica e democratica

La crisi dell'euro ha rilanciato anche in Italia la tesi, che circola qua e là con sempre maggiore insistenza, secondo cui un'eventuale uscita dalla moneta unica, ancorché drammatica, sarebbe pur sempre meno dolorosa di una agonia prolungata e senza sbocchi. Meglio, pensano alcuni, fare da soli, tornare alla lira e alle svalutazioni competitive del passato, piuttosto che continuare a precipitare, senza reagire, nell'abisso in cui la crisi dell'euro sta trascinando l'Europa. Persone stimabilissime, da Paolo Savona ad Antonio Martino, lo pensano e lo dicono. Fermo restando che, di sicuro, l'infallibilità non ci appartiene, è però lecito ipotizzare che se l'euro crollasse, anche a voler prescindere dalle conseguenze economiche di un simile evento (per l'economia mondiale e quindi anche per noi), i contraccolpi politici sarebbero assai violenti per il nostro Paese. La ragione è che verrebbe meno quel famoso «vincolo esterno» in assenza del quale in Italia potrebbero correre forti rischi sia la democrazia politica che la stessa integrità dello Stato nazionale.

Possiamo discutere quanto vogliamo sul vizio d'origine della moneta unica, una moneta non sorretta da quella unificazione politica che tanti oggi invocano pur sapendo che essa non è comunque a portata di mano. Ma il fatto è che, quali che siano stati gli errori commessi, giunti a questo punto, la fine dell'euro avrebbe forti probabilità di risolversi, per contraccolpo, in una catastrofica dissoluzione di quasi tutto ciò che è stato costruito in sessanta anni di integrazione europea. E l'Italia si ritroverebbe nelle condizioni di una zattera alla deriva nel Mediterraneo.

Si può naturalmente pensare che ci sia molta esagerazione nella tesi secondo cui l'Italia necessitava prima e necessita oggi di stringenti vincoli esterni. Si può pensare che sia addirittura offensivo, o magari antipatriottico, dipingere un'Italia minorenne, incapace di gestirsi da sola, senza tutori e imposizioni esterne. Ma una più attenta osservazione della nostra storia postbellica nonché delle condizioni presenti del Paese, dovrebbe consigliare maggiore prudenza. Il patriottismo è un'ottima cosa ma a patto che non renda ciechi.

Per tutto il periodo della guerra fredda la democrazia italiana sopravvisse più a causa dei vincoli esterni (la Nato e, per essa, il rapporto con l'America, la Comunità europea in subordine) che a causa delle sue tradizioni e della sua cultura politica. Senza bisogno di spingersi a sostenere che, durante la guerra fredda, la democrazia sopravvisse in Italia nonostante quelle tradizioni e quella cultura politica, non può essere negato il potentissimo ruolo stabilizzatore che ebbero le costrizioni esterne.

Oggi, il rapporto con un'America sempre più lontana non funziona più come vincolo, non può più proteggerci da noi stessi. È rimasta solo l'Europa. Venisse meno anche quest'ultimo vincolo, che accadrebbe all'Italia? Si considerino due aspetti (che, sono, ovviamente, fra loro connessi): la condizione in cui versa la nostra democrazia politica e le vistose crepe che esibisce lo Stato nazionale.

Per quanto riguarda la democrazia, basta leggere le cronache quotidiane: classe politica delegittimata, disaffezione di porzioni ampie dell'opinione pubblica nei confronti del Parlamento e di altri fondamentali istituti democratici, rischi gravi di ingovernabilità una volta che si sia chiusa la parentesi del governo detto tecnico. Nonché la noia infinita di una discussione sulle «urgentissime» riforme costituzionali che si trascina sterilmente da trenta anni (dagli anni Ottanta dello scorso secolo) e minaccia di durare per altri trent'anni. Quanto questo eterno discutere senza sbocchi operativi, senza costrutto, abbia contribuito a usurare linguaggi e simboli della democrazia è difficile stabilire.

Altrettanto grave, e forse ancor più grave, è la condizione in cui versa lo Stato nazionale. Dopo centocinquanta anni di unità, il fallimento è evidente: la grande questione italiana, la questione meridionale, non ha mai trovato soluzione. La frattura Nord/Sud è più viva e forte che mai e, con essa, la distanza che separa certe regioni del Sud dal Nord d'Italia. Con la differenza che, un tempo, la speranza di venirne a capo mobilitava intelligenze, cervelli. Oggi non più. Non esiste più un pensiero meridionalista degno di questo nome. È subentrata la rassegnazione. Se verrà meno il vincolo europeo quanto tempo passerà prima che il conflitto territoriale esploda in forme incontrollabili?

Immediati costi economici a parte, la fine dell'euro, trascinando nella rovina anche l'Unione, ci lascerebbe soli alle prese con tutti i nostri fantasmi. Non ci conviene. Nel calcolo dei costi e dei vantaggi, la bilancia continua a pendere dalla parte dell'Unione. Non siamo certo gli unici, ma siamo comunque fra coloro che hanno un vitale interesse a che la crisi dell'euro venga superata.

Angelo Panebianco

21 giugno 2012 | 8:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_21/moneta-unica-democratica-panebianco_322a2168-bb62-11e1-b706-87dd3eab4821.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il carroccio tra Po e Baviera
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2012, 11:59:06 am
IL SENTIERO DEL NUOVO LEADER

Il carroccio tra Po e Baviera

Come negli anni '92-93, la politica si è trasformata in un composto fluido, quasi gassoso. In attesa che si solidifichi di nuovo con nuove caratteristiche. La sola certezza è che fra un anno, dopo le prossime elezioni, la fisionomia della Italia pubblica sarà diversa da quella di oggi. Una buona spia dei movimenti in atto nel sistema dei partiti, ma anche della confusione che oggi regna, è data dalla svolta avvenuta nella Lega Nord. Ieri, al congresso di Assago, è nata la Lega di Roberto Maroni. Maroni, che ha il problema di dare un nuovo volto a un partito oggi diviso e in crisi, ha compattato i militanti ricorrendo a un linguaggio molto duro. Ha parlato di indipendenza del Nord come obiettivo strategico, ha ribadito l'opposizione frontale al governo Monti, ha adombrato gesti estremi come l'abbandono di Roma di parte dei leghisti. Per consolidare la sua leadership, Maroni deve difendersi da un doppio attacco, interno ed esterno. All'interno, deve tenere a bada i nostalgici del vecchio capo, di Umberto Bossi, che lo aspettano al varco, pronti ad accusarlo di svendere la Padania se cercherà accordi con i partiti «romani». All'esterno, deve impedire che gli elettori leghisti si facciano tentare dalle sirene anti-sistema di Beppe Grillo e, per questo, tiene alta la bandiera, anch'essa anti-sistema, dell'indipendentismo. Tutto ciò è comprensibile, nel senso che ne è chiara la logica politica.

Tuttavia, Maroni è anche un leader troppo intelligente e abile per non sapere che non riuscirà a difendere il ruolo della Lega come sindacato territoriale, come assertore degli interessi del Nord del Paese (o di una sua parte), se non si «sporcherà le mani» cercando intese e accordi elettorali con altri partiti. Potrà anche aspettare che si faccia (e pare proprio che si faccia) la nuova legge elettorale ma, dopo, non potrà rinviare ancora a lungo la questione delle alleanze. La porta è stretta. Maroni ha il problema di riuscire a normalizzare la Lega, di trasformarla in un normale partito territoriale (modello Csu in Baviera) come i tanti che esistono in Europa: una via praticamente obbligata dopo la conclusione della fase rivoluzionario-carismatica dominata da Bossi. Non è però sicuro che quest'opera di normalizzazione sia possibile se Maroni non si rassegnerà a perdere (magari allo scopo di conquistare nuovi e diversi elettori) le componenti più estremiste del movimento e, soprattutto, se non sarà disposto a modificare molte posizioni leghiste su temi cruciali. Ad esempio, come sarà possibile ricucire i rapporti con il Pdl, che ha sostenuto e sostiene Monti, se su una serie di argomenti, dalle pensioni alle liberalizzazioni, alla riduzione della spesa pubblica (quella locale compresa), la Lega manterrà la sua tradizionale posizione di ostinato rifiuto? Se e quando una normale dialettica destra/sinistra si ricostituirà nel Paese, è probabile che, visti i livelli di tassazione raggiunti, la domanda principale degli elettori di destra, non solo al Nord, si concentri sulla riduzione delle tasse. Ma un programma di riduzione fiscale non sarebbe credibile, sarebbe velleitario e irresponsabile, se non fosse accompagnato da una politica di drastica contrazione e razionalizzazione della spesa pubblica, nazionale e locale. Se vorrà essere della partita, la Lega dovrà rinunciare al conservatorismo intransigente che ha per tanto tempo coltivato.

Angelo Panebianco

2 luglio 2012 | 7:32© RIPRODUZIONE RISERVATA

da http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_02/carroccio-tra-po-baviera-angelo-panebianco_3f4f2ef8-c407-11e1-8a5a-a551a87e60ad.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Chi ha paura della clessidra
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2012, 07:52:11 pm
I TEMPI DELLA DEMOCRAZIA E I MERCATI

Chi ha paura della clessidra

Viviamo in una fase ove è costante la tensione fra la democrazia e l'Europa, fra gli orientamenti degli elettorati e l'esigenza di salvaguardare il progetto comune europeo. È una tensione che a volte si riesce a tenere sotto controllo e a volte degenera in conflitto aperto. La frattura, che attraversa l'eurozona, fra le democrazie nordiche e le democrazie mediterranee, ne è espressione. Per tenere a bada i mercati, rassicurare le opinioni pubbliche delle democrazie nordiche, e salvare la nostra appartenenza al club dell'euro, l'Italia si è inventata una misura-tampone, una soluzione d'emergenza: il governo detto tecnico. Ma la clessidra è spietata, il conto alla rovescia non può essere fermato. Per quanto ciò possa apparire paradossale (e «politicamente scorretto»), quasi tutti, in Italia e fuori, temono il momento in cui la «democrazia» si riprenderà le sue prerogative, il momento in cui, fra meno di un anno, gli elettori si pronunceranno. Perché c'è in giro tanta paura della democrazia? Perché, a torto o a ragione, è diffusa la convinzione che le forze politiche fra le quali si distribuiranno i voti degli italiani, siano tutte inadeguate, costitutivamente incapaci di perseverare nelle politiche di risanamento che la crisi ha reso necessarie.

A parole, i partiti che oggi sostengono il governo Monti promettono che non disferanno ciò che esso ha iniziato. Ma perché dovremmo crederci? Perché dovremmo credere che la destra, se tornasse al governo, non si sbarazzerebbe subito della spending review per ricominciare con la gestione della spesa pubblica che l'ha sempre caratterizzata? E perché dovremmo credere alla sinistra quando dice che non abbandonerà la strada aperta dal governo Monti, essendo un fatto che quella strada è invisa ai sindacati ed è impensabile che la sinistra faccia alcunché senza disporre del placet sindacale?
Che si parli di possibile «grande coalizione» (ossia, di un governo Monti bis) dopo le elezioni, la dice lunga su quanto siano consapevoli delle proprie inadeguatezze le stesse forze politiche.

Come se ne esce? Una strada ci sarebbe. Difficilissima ed estranea alle nostre tradizioni. Per la prima volta, da quando esiste la democrazia in Italia, le forze politiche che contano dovrebbero applicare le istruzioni contenute nel «Manuale del Bravo Democratico». Il manuale del bravo democratico dice che le campagne elettorali non si conducono a colpi di promesse generiche ma di progetti specifici. Un progetto specifico è tale se chiarisce chi verrà premiato e chi verrà penalizzato. È tale se viene applaudito da alcuni e fa imbufalire altri.

Esempi possibili di progetti specifici che una forza politica dovrebbe così annunciare agli elettori: se vinciamo le elezioni, entro trenta giorni dall'insediamento del governo, faremo tagli alla spesa pubblica per il valore di X nei comparti A, B, C, D, e ridurremo per l'ammontare corrispondente la pressione fiscale. O ancora: se vinciamo le elezioni, fatti salvi i servizi essenziali, dimezzeremo i trasferimenti dal Nord al Sud accompagnando il provvedimento con l'azzeramento del prelievo fiscale sulle imprese meridionali per tot numero di anni.

Su tutti i principali temi di interesse pubblico i partiti dovrebbero proporre progetti. Ad esempio, in materia di Sanità, che fine hanno fatto i costi standard? O, nel caso della scuola, chi se la sente di proporre un dettagliato piano (il contrario del bla bla generico) per iniettare meritocrazia? Legare l'ammontare degli stipendi alla qualità dell'insegnamento è tecnicamente possibile, se esiste la volontà politica.

Se una campagna elettorale venisse così condotta, si tratterebbe, in un certo senso, di una vittoria postuma di Ugo La Malfa (l'enfasi sui contenuti a scapito degli schieramenti era l'essenza della pedagogia politica di La Malfa). La «lamalfizzazione» delle forze politiche comporterebbe uno strappo radicale rispetto alla tradizione. In Italia, da sempre, le campagne elettorali vengono condotte combinando prese di posizione ideologiche contro il «nemico» e promesse generiche. L'ideologia (i vari «ismi»: l'anticomunismo, l'antiberlusconismo, eccetera) serve a compattare «i nostri», le promesse generiche, non scontentando nessuno, servono per sommare clientela a clientela. Passare dal metodo «ideologia + promesse generiche» al metodo «progetti specifici» sarebbe una rivoluzione: obbligherebbe, per esempio, a radicali cambiamenti di stile politico e comunicativo.
Per istinto, per calcolo, per tradizione, e anche per capacità personali, i politici si preparano a fare la solita campagna all'italiana. Ma questa volta, forse, sbagliano i conti. Il discredito della politica, documentato dai sondaggi, ha superato il livello di guardia. Cambiare radicalmente stile comunicativo potrebbe essere l'unica possibile via d'uscita. E, inoltre, avrebbe un effetto rassicurante per il mondo che ci scruta dall'esterno.

Ciò che si perderebbe presentando progetti in grado di far perdere voti antagonizzando potenziali clientele elettorali si guadagnerebbe in immagine di serietà e rigore. Ed è proprio la mancanza di serietà e rigore ciò che oggi tutti rimproverano alla politica. Senza contare il fatto che una campagna elettorale condotta a colpi di progetti specifici contrapposti consentirebbe agli elettori di capire quali siano le forze più credibili come continuatrici della politica di risanamento.
La crisi mondiale, come ci viene ripetuto ogni giorno, ci obbliga, se vogliamo sopravvivere, a cambiare molte delle nostre abitudini. È arrivato il momento in cui anche alla politica conviene cambiare le sue.

Angelo Panebianco

15 luglio 2012 | 8:11© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_15/chi-ha-paura-della-clessidra-editoriale-angelo-panebianco_28d1c820-ce43-11e1-9b00-18ac498483bd.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Troppi topi nel formaggio
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2012, 04:36:13 pm
PRESSIONE FISCALE, SPESA PUBBLICA

Troppi topi nel formaggio

Dobbiamo proprio sperare che la pressione dei mercati sul nostro Paese si attenui, che i pronostici più infausti si rivelino sbagliati. Se questo accadrà, finita l'estate, comincerà subito, di fatto, la (lunghissima) campagna elettorale. Quali temi la caratterizzeranno? A fronte di una pressione fiscale che ha raggiunto il 55% (e oltre), è facile scommettere che quello fiscale sarà l'argomento che più terrà banco. Tutti, o quasi tutti, diranno di voler ridurre le tasse. Nella schiacciante maggioranza dei casi si tratterà di bluff o di promesse da marinaio. Come riconoscere i bluff? Ci sono, sostanzialmente, due modi per bluffare in materia di tasse. Il primo è proprio di coloro che promettono drastiche riduzioni della pressione fiscale senza spiegare dove troveranno le risorse necessarie, senza spiegare come, dove, e di quanto, taglieranno la spesa pubblica al fine di mantenere la promessa. Questo è un bluff facile da scoprire, inganna solo chi vuole essere ingannato.

Il secondo modo è più sottile, più subdolo: è proprio di coloro che attribuiscono la responsabilità dell'elevata tassazione vigente all'eccesso di evasione fiscale e, per conseguenza, promettono di colpire gli evasori fiscali al fine di ridurre le tasse. Anche se è molto popolare, condivisa da tanti, la tesi secondo cui per ridurre le tasse bisogna prima contenere l'evasione fiscale, è falsa. È vero infatti l'esatto contrario. Per contrastare, come è doveroso fare, l'evasione fiscale, non basta, anche se è ovviamente necessario, usare gli strumenti repressivi: bisogna anche ridurre in modo cospicuo le tasse. Soltanto una riduzione della pressione fiscale, infatti, può spingere l'evasore, o il potenziale evasore, a rifare il calcolo delle proprie convenienze, a cambiare la propria valutazione dei vantaggi e dei rischi dell'evasione. Senza di che, nemmeno la più vigorosa e puntuta «lotta alla evasione» potrà mai ottenere seri e durevoli risultati. La controprova è data dal fatto che quando aumentano le tasse aumenta anche l'area dell'economia sommersa. Si tratta di un movimento a spirale: più crescono le tasse più cresce l'evasione. Abbassare sostanzialmente le tasse, passare da un regime di tasse alte a un regime di tasse basse, è sicuramente il mezzo più sicuro per contenere l'evasione.

Oltre che falso l'argomento secondo cui non si possono ridurre le tasse se non si riduce prima l'evasione, ha anche il difetto di fare distogliere lo sguardo dalla principale causa del regime di tasse alte: la presenza di un amplissimo stuolo di rent-seekers , di cercatori e percettori di rendite che campano di spesa pubblica, che prosperano grazie a un sistema pubblico che combina alti costi di mantenimento e, soprattutto in certe zone del Paese, l'erogazione di servizi scadenti. È lì che si annidano i più strenui difensori del regime di tasse alte. La contrazione della spesa pubblica e, con essa, dell'area della rendita, brulicante, per usare una vecchia espressione di Paolo Sylos Labini, di «topi nel formaggio», è l'unica strada possibile per ridurre la pressione fiscale. Ma è anche una strada politicamente molto impervia.

I percettori di rendita da spesa pubblica sono numerosissimi, e ciò li rende assai potenti, sanno come ricattare elettoralmente i partiti, tutti i partiti. Per giunta, hanno dalla loro parte le norme (o meglio: le prevalenti interpretazioni delle norme) e la giurisprudenza. La sentenza della Corte costituzionale che ha colpito le liberalizzazioni dei pubblici servizi locali è stata certamente accolta con applausi e brindisi da tutti i rent-seekers sparsi per la Penisola. Anche le iniziative, abbastanza timide fino ad oggi, del governo Monti in materia di spending review rischiano di infrangersi contro un sistema amministrativo e un sistema giudiziario costruiti per proteggere la rendita da spesa pubblica a scapito del mercato e dei consumatori. Se non si disbosca quella giungla la riduzione delle tasse resterà un sogno irrealizzabile.

Ci sono coloro che, scambiando il sintomo con la causa, sono convinti che a provocare le guerre siano i mercanti d'armi (non è così naturalmente: i mercanti d'armi guadagnano grazie a guerre che hanno all'origine ben altre cause). Allo stesso modo, ci sono coloro che non comprendono, o fingono di non comprendere, che l'evasione fiscale è un deprecabile effetto, ma non la causa, delle tasse alte. Converrà guardarsi da costoro nella prossima campagna elettorale.

Angelo Panebianco

23 luglio 2012 | 7:51© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_23/troppi-topi-nel-formaggio-panebianco_e6b0498e-d483-11e1-9251-6da620bfc4cf.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. LA GERMANIA E GLI ALTRI. La sovranità dei debitori
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2012, 07:46:30 pm
LA GERMANIA E GLI ALTRI

La sovranità dei debitori

Nella sua storia il processo di integrazione europea ha combinato il nobile disegno di unificare il Continente, sia pure in un futuro indefinito, con misure pragmatiche, molto concrete, volte a risolvere i problemi man mano che si presentavano. È stata, fino alla crisi dell'euro, una storia di successo. Procedere, come si è sempre fatto, «per tentativi ed errori», e senza eccessi di politicizzazione dei problemi (che avrebbero scatenato conflitti), ha sempre aiutato l'integrazione. Almeno fino ad oggi. Anche la nascita dell'euro era avvenuta in questo modo: «Ci si imbarca e poi si vede». Si sperava che l'unificazione monetaria potesse trascinarsi dietro anche decisivi passi avanti sul piano dell'integrazione politica. Ma nessuno sapeva quando quei passi sarebbero stati compiuti. La crisi dell'euro ha cambiato tutto. Perché non è possibile uscirne con il tradizionale pragmatismo europeo, non è possibile superarla senza scelte di alto profilo politico. In gioco, niente di meno, ci sono la sovranità statale e i principi (e le procedure) della democrazia rappresentativa.

Il Financial Times ha ospitato ieri l'autorevole parere di Otmar Issing, già membro del Consiglio della Banca centrale europea. In sintonia con l'opinione pubblica del suo Paese, Issing osserva che chiedere ai contribuenti tedeschi di ripianare, attraverso gli eurobond e in altre forme, i debiti dei Paesi dell'Europa mediterranea senza avere il diritto di esercitare uno stretto controllo sul modo in cui vengono impiegati i loro soldi, violerebbe il principio democratico del no taxation without representation (niente tasse se i cittadini-contribuenti non hanno il diritto di scegliere i rappresentanti). Perché mai i contribuenti tedeschi dovrebbero sborsare denaro senza che esistano i meccanismi per assicurare loro il controllo sul modo in cui quei soldi verranno spesi? Lungi dal favorire l'integrazione, ciò farebbe sorgere in Germania, secondo Issing, un risentimento così forte da portare alla dissoluzione dell'Unione. Piaccia o non piaccia, è una opinione «pesante» che non può essere ignorata. Si può però far osservare a Issing che i tax payers italiani potrebbero porsi un analogo interrogativo, di segno rovesciato, di fronte alla circostanza di una Germania che attualmente si finanzia a tassi negativi. Ma per capire la posizione dei tedeschi, d'altra parte, ci basta ricordare ciò che è accaduto poche settimane fa in Italia: di fronte a un quadro che si riteneva drammatico dei conti della Sicilia non si sono subito levate voci che chiedevano un commissariamento della Regione Siciliana da parte del governo? E che altro significava se non l'indisponibilità di molti contribuenti a continuare a pagare, senza poter esercitare alcun controllo, per le spese siciliane?

L'esempio siciliano, naturalmente, riguarda il rapporto fra chi paga e chi spende all'interno di uno Stato nazionale. Nel caso europeo, la questione è ulteriormente complicata dall'assenza di uno Stato unitario. Ma, per l'essenziale, il problema è identico: chi paga deve essere titolare di un diritto di controllo sulle spese. Non si esce dalla crisi se non si trova il modo di conciliare due esigenze: garanzie per i tedeschi sull'impiego dei loro soldi, garanzie per gli altri che l'inevitabile perdita di sovranità che si prospetta non verrà usata dai più forti (come nel caso dei finanziamenti negativi) per indebolire ulteriormente i più deboli a proprio vantaggio. È un doppio e incrociato sistema di garanzie, in altri termini, quello che deve essere costruito. Non solo le rivoluzioni, ma anche le unificazioni incruenti non sono pranzi di gala.

Angelo Panebianco

31 luglio 2012 | 8:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_31/sovranita-dei-debitori-angelo-panebianco_2a67cbaa-dad0-11e1-8089-ce29fc6fe838.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il dilemma dei centristi
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2012, 04:46:29 pm
PROPORZIONALE E ALLEANZE DI GOVERNO

Il dilemma dei centristi

Con l'annunciato ritorno alla proporzionale, ridiventerà lecito ciò che non lo era dopo il 1994: correre da soli alle elezioni e fare le alleanze di governo in Parlamento dopo il voto. Era il sistema della Prima Repubblica. Grazie a esso l'Italia riuscì a collezionare ben 45 governi in 44 anni (dal 1948 al 1992): un record negativo eccezionale. Allora però ce lo potevamo permettere: la democrazia italiana viveva di puntelli esterni. C'erano la guerra fredda, la Nato, la minaccia comunista, la conventio ad excludendum.

C'è da dubitare che una democrazia così mal funzionante possa reggere a lungo nel burrascoso mondo in cui viviamo. Ma la politica è interessata solo al breve termine. E nel breve termine una legge elettorale proporzionale serve a tanti. Serve ai probabili sconfitti (il centrodestra) perché, a differenza delle leggi maggioritarie, consente di limitare le perdite, di rimanere in gioco. E serve a chi si è posizionato «al centro» (Pier Ferdinando Casini). Perché gli assicura una rendita di posizione, lo rende indispensabile in qualunque combinazione parlamentare. Può svolgere il ruolo del king maker quale che sia lo schieramento, di sinistra o di destra, con cui, dopo le elezioni, si troverà a trattare la formazione del governo.
Facciamo un esercizio di fantasia, immaginiamo lo scenario del dopo elezioni (la storia poi, si sa, va per suo conto, ma disegnare scenari è un modo per dotarsi di una bussola artigianale).

È probabile che l'alleanza Bersani-Vendola prevalga sul centrodestra nelle prossime elezioni. Non avrà però, verosimilmente, i numeri per governare. Dovrà fare i conti con Casini. Quanto potrà reggere il governo che si formerà? Nello «schema di gioco» di Bersani, a Casini spetterà la difesa della continuità con il governo Monti, a Vendola (ma anche a una parte del Partito democratico) spetterà rivendicarne la discontinuità. Con Bersani al centro che media fra le due componenti. Ma potrà mai reggere quello schema di gioco? Sicuramente no, se dovremo fare ricorso allo scudo anti- spread e accettare le rigide condizioni che ciò comporta: l'ala sinistra, vincolata a un programma di rigore e di tagli alla spesa che non è il suo, non potrebbe reggere a lungo il gioco. Ma anche senza scudo, e connesso commissariamento, lo schema di Bersani incontrerebbe grossi problemi. Non sarebbe facile per il governo, data la sua composizione, guadagnarsi la fiducia dei mercati. Le probabilità di fallimento nel giro di un anno sarebbero piuttosto alte. Figurarsi poi se all'assedio dei mercati dovesse sommarsi, poniamo, una improvvisa pressione politico-diplomatica dovuta al precipitare di una crisi militare (fra Israele e Iran) in Medio Oriente.

Esaurito l'esperimento, Casini cercherebbe di smarcarsi, di cambiare cavallo, di aprire una trattativa con la destra (grazie anche al ridimensionamento politico di Berlusconi dovuto alla sconfitta elettorale). Potrebbe farlo, però, solo se esistessero in Parlamento i numeri necessari per rovesciare le alleanze. Ma se quei numeri non ci fossero? La benedizione rappresentata dal posizionamento al centro si trasformerebbe in una maledizione. Perché i centristi non potrebbero allora schivare le macerie del fallito esperimento di governo.

La verità è che a Casini conviene solo una grande coalizione. La distribuzione delle forze in Parlamento che risulterà quando, a urne chiuse, si saranno contati i voti e proclamati i risultati, ci dirà se i centristi avranno ragioni per brindare o per essere spaventati.

Angelo Panebianco

6 agosto 2012 | 9:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_06/dilemma-centristi-panebianco_ea3dc730-df86-11e1-a2e0-2a62fa6322b0.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'integrazione e gli interessi
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2012, 06:45:16 pm
LA PARTITA PER UN'EUROPA PIÙ UNITA

L'integrazione e gli interessi

La discussione che si è aperta in Germania sulla opportunità di indire un referendum che superi i vincoli e gli ostacoli che la Costituzione tedesca pone ai progetti di maggiore integrazione in Europa, ci riporta forse alla realtà. La Germania, come qualunque altro Paese europeo di fronte alla crisi, è divisa sul da farsi: varie opzioni, anche contrapposte, si contendono il campo. Come sempre accade in tutte le democrazie (e, in realtà, in tutti i sistemi politici complessi, anche quelli autoritari, Cina inclusa). E ciò forse significa, contro certe interpretazioni troppo unilaterali che hanno dipinto la Germania come un compatto blocco di potere teso a distruggere le economie più deboli succhiando loro il sangue, che esistono margini di manovra e di trattativa più ampi di quelli fin qui immaginati, anche per i partner europei della Germania, Italia compresa.

Disporre di margini di manovra richiede però due cose: la prima consiste nella capacità di perseguire con continuità intelligenti ed energiche politiche di risanamento interno (i compiti a casa). Senza di che, i margini di manovra, insieme alla credibilità, si riducono a zero. Si spera che i partiti, nell'imminente campagna elettorale, ne vogliano tenere conto.
La seconda consiste nell'adozione di una visione più realistica di quella che è sempre circolata in Italia sulla natura dell'integrazione europea. Non c'è più tempo né spazio per quella retorica, spesso fondata sull'autoinganno e su idee di dubbia consistenza, che l'Italia pubblica ha tante volte abbracciato. Un europeismo adeguato ai tempi richiede che l'Unione venga guardata per ciò che è, senza fronzoli, miti e utopie.

Cominciamo col ricordare, anche se ciò può dispiacere ad alcuni, che l'ideale di una Europa unita è un ideale freddo. Non abbandonare la strada dell'integrazione, perseverare nel cammino verso l'unificazione politica, serve sicuramente a tutti noi europei. «Serve», appunto. Il verbo scelto rimanda al carattere strumentale (o prevalentemente strumentale) di questo processo. L'integrazione europea ha infatti due scopi. In primo luogo, mantenere la pace in Europa (il che non sarebbe più garantito se l'Unione si disgregasse). In secondo luogo, assicurare anche agli europei, in un'epoca in cui potere e ricchezza sono collegati alle «taglie forti», in cui solo i giganti politici dettano legge, di godere di indipendenza (e quindi tutelare le proprie storiche libertà) e di influenza (e quindi incidere sulle scelte da cui può dipendere la futura prosperità delle nazioni europee associate).

C'è poi da sbarazzarsi di un modo paradossale, e tuttavia diffusissimo in Italia, di guardare all'integrazione politica europea. In tanti resoconti, essa è stata troppe volte dipinta, con imperdonabile ingenuità, come se si trattasse di un processo apolitico. Molti ne parlavano, e tuttora ne parlano, come se l'integrazione politica non dovesse, a dispetto dell'aggettivo, mettere in gioco la politica, ossia quella competizione sempre aspra, spietata, per il potere, lo status e la ricchezza, che è tanta parte del materiale di cui è fatta la politica, e senza il quale la politica non c'è.

Forse è proprio il fatto di avere così a lungo pensato l'integrazione politica in termini apolitici, di non avere capito in tempo che l'auspicata «costruzione di una Europa federale» non può avvenire senza essere accompagnata da una dura competizione che inevitabilmente genera, e genererà, vincitori e vinti (fra i Paesi e all'interno dei Paesi), a spiegare la sorpresa che ha colto tanti italiani quando hanno scoperto (ma guarda un po') che i tedeschi erano e sono molto attenti agli interessi loro, che i francesi, aggrappati al tabù della sovranità, devono alimentare la finzione di un «rapporto alla pari» con la Germania, eccetera, eccetera. Prima ci sbarazzeremo della visione irenica, apolitica appunto, dell'integrazione europea e prima e meglio potremo contribuire alla causa comune (l'integrazione) difendendo contemporaneamente, con la durezza necessaria, i nostri interessi.

Purtroppo, bisogna dirlo, l'Italia non è ancora attrezzata per giocare al meglio questa complicata partita. Non solo perché, ovviamente, non si può difendere niente se non si è messo in ordine la propria casa, se non si è diventati efficienti e competitivi. Ma anche per una ragione culturale: per decenni, l'Italia pubblica ha creduto di potere sostituire l'europeismo al patriottismo («bruciato» dall'avventura fascista e dalla sconfitta della Seconda guerra mondiale), di fare del primo un surrogato del secondo. Non si è mai adeguatamente preparata per una partita in cui il problema è mantenere un ragionevole equilibrio fra le ragioni dell'europeismo e quelle del patriottismo; lavorare per la causa comune e, insieme, tutelare i propri interessi in una competizione in cui nessuno regala niente a nessuno. I nostri governi, naturalmente, badando pragmaticamente agli interessi, lo hanno sempre fatto. A volte bene e a volte male. Ma senza mai spiegarne fino in fondo condizioni e implicazioni alla classe politica nel suo insieme e all'opinione pubblica. I tempi richiedono che si adotti con rapidità una più appropriata prospettiva.

Angelo Panebianco

13 agosto 2012 | 9:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_13/panebianco-integrazione-interessi_04dd0596-e505-11e1-97d9-de28e70d5d31.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Si fa presto a dire crescita
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2012, 04:49:13 pm
UN OBIETTIVO, TROPPE DIVISIONI

Si fa presto a dire crescita

A causa del fatto che, per lo più, non si vuole concedere all'avversario una qualche dignità, ma anche a causa di una diffusa ignoranza della storia patria, il nostro dibattito pubblico tende quasi sempre a immiserire e a banalizzare ciò che non dovrebbe esserlo: le nostre divisioni. Esse non sono alimentate, come ci fa comodo credere, solo da contingenti conflitti di interesse. Riflettono, e riproducono, contrapposizioni antiche. Le divisioni politiche contingenti occultano radicate, profonde, e probabilmente incomponibili, divisioni culturali. Siamo divisi praticamente su tutto e il fatto che il nostro sia ancora uno Stato unitario, per di più corredato di una (claudicante) democrazia, è una specie di miracolo. Usiamo le stesse parole ma diamo loro significati antitetici. Se prescindiamo per un momento dagli interessi in gioco, ad esempio, che altro è lo scontro sulle intercettazioni (diritto di cronaca contro diritto alla privacy) se non una divisione che chiama in gioco due idee radicalmente diverse, e cariche di storia, della libertà?

La stessa cosa accade con un'altra parola che usiamo tanto, soprattutto da quando l'«oggetto» a cui si riferisce è sparito nel nulla: la parola in questione è «crescita». Tre partiti si confrontano e si scontrano sulla crescita. Il primo partito, più diffuso e ramificato di quanto si voglia credere, è quello dei nemici della crescita, dei fautori della de-industrializzazione del Paese. Varie pulsioni lo alimentano: la critica romantica della società industriale, un anticapitalismo che ha varie ascendenze culturali, utopie bucoliche, la sindrome «non nel mio giardino», il sogno di una società capace di eliminare il rischio, l'avversione per un sistema economico-sociale fondato sul continuo cambiamento.

Ma anche i fautori della crescita sono divisi al loro interno. Qui i contrasti si fanno più sottili, non sono sempre immediatamente riconoscibili. Lo stesso governo Monti appare attraversato da questa divisione. E ciò si riflette nei provvedimenti che esso appronta.

A confrontarsi e a scontrarsi sono il partito per il quale la crescita deve essere guidata dallo Stato, che pensa che il governo ne debba essere il deus ex machina , e il partito che la intende come il virtuoso sottoprodotto della libertà degli individui. Ne consegue che i due partiti, pur con alcune sovrapposizioni, attribuiscono compiti diversi al governo. Per il primo partito, il governo deve direttamente «farsi carico» della crescita. Per il secondo, invece, deve creare le condizioni perché siano i cittadini, con la loro libera attività, a farsene carico. Per dire, sia il segretario della Cgil Susanna Camusso nelle sue dichiarazioni che gli economisti Francesco Giavazzi e Alberto Alesina nei loro editoriali sul Corriere auspicano la crescita ma i mezzi a cui pensano per ottenerla non sono propriamente gli stessi. Alla prima concezione, per esempio, è associata l'idea di «politica economica» (salvo ricordare che già nella prima metà dello scorso secolo l'economista Joseph Schumpeter ammoniva che la politica economica è in realtà «politica e basta») e, in tempi passati, anche di «programmazione»: il governo, oltre a manovrare la spesa pubblica, deve marcare stretto, da vicino, gli operatori economici, gli spetta il compito del direttore d'orchestra.

Per la seconda concezione, invece, il governo, se vuole davvero la crescita, deve darsi due compiti essenziali: rendere efficienti (la miglior qualità possibile al costo più basso possibile) i servizi che gli spettano e mettere la società in condizioni di respirare, di non essere oppressa da un eccesso di regolamenti e tasse. Per la seconda concezione, non è compito del governo «promuovere» la crescita. Il suo compito è togliere gli ostacoli burocratici che impediscono alla libera attività dei cittadini di promuoverla.

Se fossimo un Paese meno complicato di come la storia ci ha reso, il confronto politico e, massimamente, il confronto elettorale, sarebbero chiarificatori: sinistra e destra si sfiderebbero proponendo ai cittadini due diverse visioni dei mezzi necessari per rilanciare la crescita economica. Ma siccome siamo complicati, da noi tutto si confonde: talché, a destra, a sinistra e al centro, troviamo, mescolati, i fautori di entrambe le concezioni, i rappresentanti di entrambi i partiti.

Per avere crescita serve dare impulso a un massiccio programma di opere pubbliche mantenendo la pressione fiscale al livello a cui è giunta oppure serve, prima di tutto e soprattutto, abbassare le tasse? La risposta qualifica l'interlocutore come appartenente all'uno o all'altro dei due partiti.

Forse, inadeguatezza di molti protagonisti a parte, una delle ragioni per cui l'esperimento di bipolarismo politico è fallito in questo Paese è che, oberati dalle cattive abitudini e eredità della Prima Repubblica, non siamo riusciti a farne lo strumento per incanalare e contrapporre visioni della crescita (e connesse prassi di governo) chiaramente e inequivocabilmente alternative.

Angelo Panebianco

29 agosto 2012 | 8:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_29/si-fa-presto-a-dire-crescita-panebianco_8d01b02e-f19a-11e1-975b-225a9f9609c6.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I nostalgici dei governicchi
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2012, 03:39:18 pm
INSIDIE DI UN RITORNO AL PROPORZIONALE

I nostalgici dei governicchi

È una regolarità conosciuta: in tempo di pace gli stati maggiori elaborano piani di guerra sulla base dell'erronea convinzione che il prossimo conflitto sarà la fotocopia del precedente. Poi, quando la guerra scoppia, si scopre che essa è diversa e quei piani di guerra diventano carta straccia. Qualcosa del genere sembra accadere nella politica italiana. I politici sono impegnati nel riproporre dosi più o meno massicce di proporzionale nella legge elettorale. Contemporaneamente, danno a intendere che dalle prossime elezioni possano uscire responsi definitivi, vincitori e vinti, un governo di legislatura. Per questo, fra l'altro, si attardano a parlare di primarie. Ma ha ragione Romano Prodi ( Corriere , 3 settembre) quando, a proposito del Partito democratico, osserva che le primarie hanno senso solo quando, vigente un meccanismo maggioritario, si sceglie il candidato premier, uno che, se vincerà, avrà buone probabilità, salvo incidenti di percorso, di governare per cinque anni. Non hanno senso invece in regime di proporzionale, ove il nome del premier è deciso dai partiti mediante trattative parlamentari.

Non si può prender congedo dal ventennio maggioritario, ritornare alla proporzionale, e poi pretendere che nella legislatura successiva ci sia un governo solo e basta. Quanti governi si succederanno dopo le elezioni del 2013: Due? Tre? Quattro? Si accettano scommesse. Se si affida ai partiti in Parlamento, anziché agli elettori, la formazione del governo, esso sarà poi in balia delle sempre mutevoli combinazioni parlamentari.

Giustamente Francesco Giavazzi (sul Corriere di ieri) auspica che centrosinistra e centrodestra prendano impegni su cosa faranno in seguito. Ma dato il quadro politico che si delinea sarà difficile che i partiti possano rispettarli. Perché le politiche di governo dipenderanno, più che dagli impegni presi con gli elettori, dalle contrattazioni post elettorali. Senza contare che solo chi è sicuro che la propria identità resterà salda nel tempo può assumere un impegno oggi convinto di volerlo rispettare domani. E le identità future degli attori odierni sono incerte.

Non esistono partiti per tutte le stagioni. Il Pd e il Pdl sono figli dell'epoca maggioritaria. È difficile che sopravvivano nella nuova stagione proporzionale. È più plausibile che nel corso della prossima legislatura si assista a scomposizioni e ricomposizioni lungo tutto l'arco parlamentare. C'è, a questo proposito, una certa congruenza fra la rivalutazione (che contraddice le ragioni della nascita del Pd) di Palmiro Togliatti, fatta dall 'Unità , e il ritorno alla proporzionale, preferenze incluse (forse). Si spiega col fatto che le «ragioni sociali» dei partiti del maggioritario sono venute meno.

Il fallimento della stagione maggioritaria, di cui è stato un aspetto essenziale la mancata riforma della Costituzione, ci lascerà con governi ancor più deboli e precari dei precedenti. Ciò fa intravvedere scenari inquietanti. Se l'Unione europea reggerà, se ci saranno passi importanti sulla strada della integrazione politica, l'Italia non avrà governi abbastanza forti per trattare autorevolmente con i partners . Sarà un vaso di coccio e ne faremo tutti le spese.

Se invece l'Europa si sfalderà, peggio ancora: senza leadership di governo forti, legittimate dal consenso popolare, ci ritroveremo presto alla deriva. Per durare nel tempo fronteggiando grandi sfide, di tutto hanno bisogno le democrazie tranne che di una successione di governicchi.

Angelo Panebianco

5 settembre 2012 | 9:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_05/nostalgici-dei-governicchi-panebianco_22310508-f71a-11e1-8ddf-edf80f6347cb.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. LO SGUARDO MIOPE DELL'OCCIDENTE
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2012, 03:35:34 pm
LO SGUARDO MIOPE DELL'OCCIDENTE

Il giorno dopo l'11 settembre

Dell'assalto al consolato americano a Bengasi e dell'uccisione dell'ambasciatore Chris Stevens e di altri funzionari si possono dare due interpretazioni. La prima fa riferimento al caos libico. Le elezioni di luglio, con la sconfitta degli islamici estremisti e la vittoria di una coalizione guidata da un filoccidentale (Mahmud Jibril) sono apparse rassicuranti agli osservatori occidentali, ma non hanno nascosto a lungo la realtà: il fatto che la Libia sia tecnicamente un failed State , uno Stato fallito, nel quale non esiste monopolio statale della forza e ove scorrazzano tante milizie armate fuori dal controllo del governo. La tragedia di Bengasi può essere letta, in questa prospettiva, come un episodio circoscritto, causato dalla natura della situazione libica.

Ma c'è anche un'altra interpretazione possibile. È quella che fa dei fatti di Bengasi (come indica la rivendicazione di Al Qaeda) il possibile avvio di una nuova fase della guerra antioccidentale di un estremismo islamico-sunnita uscito rafforzato dalle cosiddette rivoluzioni arabe. Non bisogna dimenticare che le dimostrazioni antiamericane degli estremisti salafiti contro il presunto film blasfemo su Maometto cominciano in Egitto e rimbalzano in Libia qualche ora dopo. In Egitto governano oggi i Fratelli Musulmani ma i salafiti, l'ala più estremista dell'islamismo, ottennero, nelle prime elezioni del post Mubarak, un eccellente risultato elettorale. È una presenza che condiziona, e condizionerà, l'evoluzione politica. È solo ironia della sorte il fatto che si manifesti di nuovo l'ostilità antioccidentale in Paesi in cui, diplomaticamente (Egitto) o militarmente (Libia), l'Occidente si era speso a favore dei rivoluzionari e contro i vecchi dittatori? O è anche il frutto degli errori di lettura delle rivolte arabe dello scorso anno? Si pensi, per esempio, al fatto che gli occidentali non si avvidero che l'abbattimento della torva dittatura di Gheddafi avrebbe spalancato le porte, come è avvenuto, al dilagare dell'estremismo islamico nel Mali e in altre aree adiacenti.

Ma si pensi, soprattutto, al fraintendimento del significato dei processi di democratizzazione che fu proprio di molti media occidentali quando scoppiarono le rivolte in Tunisia e in Egitto. Non si capì che la democratizzazione è un bene ma solo se non prende una piega illiberale. Dal momento che le democrazie illiberali possono essere persino più opprimenti delle dittature per le minoranze interne e, spesso, più pericolose sul piano internazionale. È il dilemma che ha oggi l'Occidente di fronte alla guerra civile siriana. È giusto appoggiare i ribelli ma solo a patto che siano i «ribelli giusti». Altrimenti, si passa dalla padella alle braci, da una dittatura sanguinaria a un regime, magari formalmente più democratico, ma altrettanto sanguinario.

Vuoi in variante realista (i Fratelli Musulmani), vuoi in variante estremista, l'islamismo militante è in ascesa in Medio Oriente. Ne derivano due conseguenze. La prima è che gli Stati Uniti sono chiamati a valutare se le loro scelte strategiche non abbiano un urgente bisogno di revisione (l'uccisione di Stevens fa irrompere la politica estera in una campagna presidenziale che fin qui ha parlato soprattutto d'altro). Nell'undicesimo anniversario dell'11 Settembre gli Stati Uniti devono riconoscere che nemmeno la morte di Bin Laden ha fermato la minaccia. La seconda conseguenza è che l'Europa dovrà prepararsi a fronteggiare gli effetti, anche in casa propria, dell'ascesa islamista. Poiché la sicurezza è altrettanto vitale della difesa dell'euro e della crescita economica.

Angelo Panebianco

13 settembre 2012 | 7:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_13/giorno-dopo-undici-settembre-panebianco_2fcef20a-fd60-11e1-ae02-425b67d1a375.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il labirinto delle vanità
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2012, 11:30:06 am
PERSONALISMI E PROGETTI SMARRITI

Il labirinto delle vanità

La discussione, che sarebbe stata altrimenti surreale, su un eventuale Monti bis dopo le prossime elezioni è il frutto della sfiducia degli altri governi e degli investitori internazionali nella capacità futura dell'Italia di perseverare nell'opera di risanamento. Dato il marasma in cui versa il fu-centrodestra non è il ritorno al potere di Berlusconi che si teme (una eventualità nella quale non crede nessuno, nemmeno Berlusconi). Piuttosto, come ha argomentato Antonio Polito ( Corriere , 29 settembre), sono le scelte che farà il probabile vincitore delle elezioni, il Pd, a preoccupare. Per le alleanze politiche (Vendola) e sociali (Cgil) di Bersani, e per la volontà conclamata degli uomini di Bersani di mandare in cavalleria, su punti decisivi, le riforme Monti, dalle pensioni al lavoro.

Ma c'è dell'altro. Del futuro dell'Italia dovrebbero infatti preoccupare, più che i suoi prossimi equilibri politici, i suoi prossimi squilibri. L'esito, di volta in volta, può essere più o meno drammatico, ma sembra che l'Italia pubblica non possa fare a meno, periodicamente, di essere investita da devastanti crisi di legittimità: malversazioni e scandali superano il livello di guardia, la sfiducia dei cittadini nelle classi dirigenti diventa totale o quasi, le istituzioni rappresentative perdono ogni residuo alone di rispettabilità. È accaduto nella fase terminale della democrazia giolittiana e ciò aprì le porte al fascismo. È accaduto, di nuovo, con le inchieste sulla corruzione dei primi anni Novanta che spazzarono via i vecchi partiti (la cosiddetta Prima Repubblica). Sta accadendo, ancora una volta, oggi.

C'è un elemento di somiglianza fra la crisi attuale e quella dei primi anni Novanta. Anche allora il passaggio fu scandito dalla presenza di governi detti tecnici (i governi Amato e Ciampi). Ma a colpire sono le differenze. Due in particolare. La prima è che negli anni Novanta il mondo viveva una fase di espansione economica. Oggi la crisi politico-istituzionale italiana è aggravata dalla contestuale recessione internazionale. Il che rende le prospettive della crisi piuttosto cupe.

La seconda differenza è che nei primi anni Novanta c'era, per lo meno, una idea, una visione, un progetto (chiamatelo come volete) su come uscire dalla crisi. I referendum Segni sul sistema elettorale non erano semplicemente espressione della volontà di cambiare le regole del voto. Contenevano una implicita proposta di ristrutturazione radicale del sistema politico. Se la Prima Repubblica era stata partitocratica (dominata dai partiti) e ciò l'aveva alla fine condotta al fallimento, la Seconda avrebbe dovuto spostare il baricentro dai partiti alle istituzioni rappresentative. Se la Prima Repubblica aveva avuto il suo fulcro nel Parlamento (luogo privilegiato della mediazione partitica), la Seconda avrebbe dovuto rafforzare il ruolo del governo. Se la Prima Repubblica era stata segnata da endemica instabilità governativa, la Seconda avrebbe dovuto avere, come regola, governi di legislatura. Se la Prima Repubblica aveva dilatato l'area della rendita politica (da lì l'esplosione del debito pubblico), la Seconda avrebbe dovuto ridurre quell'area restituendo al mercato e alla società ciò di cui la politica si era impadronita. Si aggiunga che la contestuale emergenza della Lega Nord aveva creato anche una pressione per una ridistribuzione dei poteri, in linea di principio non sbagliata, dal centro alla periferia.

È andato quasi tutto storto. Abbiamo avuto il bipolarismo, un governo di legislatura (il secondo governo Berlusconi), una legislatura interamente guidata dal centrosinistra ('96-2001) e abbiamo spostato alcuni poteri dal centro alla periferia. Ma l'area della rendita politica non si è ridotta, anzi si è dilatata ulteriormente. Inoltre, le riforme istituzionali che avrebbero dovuto stabilizzare il nuovo assetto o non si sono fatte (fallimento della Bicamerale) o sono state insufficienti (elezione diretta dei sindaci e presidenti di Regione). E anche il decentramento dei poteri è stato realizzato senza imporre al ceto politico locale l'onere della responsabilità, di fronte agli elettori, dell'uso del denaro pubblico. Il peso dell'intermediazione politica è cresciuto anziché diminuire.

Possiamo attribuire alla inadeguatezza dei protagonisti, da Berlusconi, con il peso dei suoi interessi, al vasto popolo degli ex (ex democristiani, ex comunisti, ex fascisti) oberati da culture politiche condizionate dal passato, il fallimento di quel progetto. O possiamo (ma, guarda caso, sono quasi sempre i suddetti ex ad abbracciare questa tesi) attribuire il fallimento alla intrinseca debolezza del progetto, alla sua estraneità rispetto alla tradizione italiana. Ma, quale che sia la ragione del fallimento, resta una circostanza. Negli anni Novanta c'era almeno una idea, l'ipotesi di un percorso, per superare la crisi istituzionale. Oggi, a fronte di una nuova crisi istituzionale, non c'è nulla di nulla, non c'è uno straccio di visione, di ipotesi su come uscirne. C'è smarrimento e inerzia. E qualche tentativo, neppure convinto (come mostrano i propositi di riforma elettorale), di ritornare a vecchie formule e abitudini, già esperite e già fallite. La Prima Repubblica era dominata dalla Dc e dal Pci. Forse, non è propriamente un caso se all'attuale, pauroso, vuoto di idee corrisponde il fatto che, governo Monti a parte, diversi capi partito, o i loro uomini di punta, che si affannano intorno alla crisi istituzionale, provengano da quelle esperienze.

Angelo Panebianco

2 ottobre 2012 | 8:18© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_02/labirinto-vanita-panebianco_a0f18f56-0c51-11e2-a61b-cf706c012f27.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Primarie vere giochi aperti
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2012, 11:06:12 am
BERSANI, RENZI E IL SILENZIO DI VELTRONI

Primarie vere giochi aperti

Bloccando chi voleva imporre regole per le primarie così penalizzanti per Matteo Renzi da trasformare il sindaco di Firenze in un martire, facendogli in questo modo un grande, involontario favore politico, Pier Luigi Bersani, come tanti osservatori hanno rilevato, ha mostrato intelligenza e fiuto. E si è anche impegnato in una partita - le primarie - che se risultasse per lui un trionfo, lo emanciperebbe dal vecchio gruppo dirigente, gli darebbe una preminenza personale indiscutibile dentro il partito. Adesso è libero di concentrarsi sulla sfida con un avversario pericoloso come Renzi. Un avversario che difficilmente potrà vincere ma che potrebbe comunque imporre una forte ipoteca sul partito, condizionarne futuri equilibri e azioni.

Gli osservatori pro Bersani dicono che Renzi sia solo un abile propagandista di se stesso e che il suo «programma» non vada al di là della proposta della rottamazione: una sfida generazionale senza contenuti. Ciò è vero ma non del tutto. Ci sono comunque accenni di programma nella campagna di Renzi ed hanno diversi punti di contatto con quel discorso del Lingotto con cui Walter Veltroni, nel 2007, avviò la navigazione del Partito democratico. Chi ricorda quel (notevole) discorso sa che Veltroni vi delineava il progetto di un forte rinnovamento, di una significativa discontinuità, rispetto alla tradizione della sinistra italiana. Poi, come spesso succede nelle cose di questo mondo, quella visione innovativa si scontrò con la dura realtà quotidiana della politica, e si perse per strada. Bersani è l'opposto del Veltroni del Lingotto: uno che non predica discontinuità ma che propone piuttosto l'adattamento della tradizione alle circostanze presenti.

Date certe affinità, che esistono, c'è da chiedersi come mai Veltroni non abbia appoggiato Renzi. A maggior ragione, se si tiene conto della distanza che lo separa da Bersani, per tacere di D'Alema. Se lo avesse fatto, probabilmente, le chance di vittoria di Renzi nelle prossime primarie sarebbero cresciute. Si può azzardare una ipotesi: Veltroni non ha appoggiato Renzi perché, comprensibilmente, non ha voglia di fare la fine che fece il socialista Giacomo Mancini all'epoca del Midas (1976), quando l'emergente Bettino Craxi sbaragliò la vecchia oligarchia (dei De Martino, Lombardi, eccetera). In quel frangente, fu Mancini il king maker , colui che favorì la vittoria dell'emergente. Ma, dopo un breve lasso di tempo, venne egli stesso emarginato dalla nuova dirigenza del Psi.

Se Renzi perde «bene», se Bersani vince ma solo di misura, allora la navigazione per il suo partito, dato per favorito alle prossime elezioni, diventerà ancor più perigliosa di quanto già non sia. Perché un Renzi forte non può non accentuare le difficoltà di quel partito nel predisporre una plausibile agenda di governo. L'eredità del governo Monti diventerà un peso del quale, per il Pd, non sarà facile sbarazzarsi. Un Renzi forte creerà problemi al segretario, e potenziale premier, Bersani su tutti i fronti. All'interno del partito, per la distanza che c'è fra Renzi e l'entourage del segretario. Nei rapporti con l'alleato Vendola, perché questi vuole azzerare scelte del governo Monti che Renzi difende strenuamente. E nei rapporti con la Cgil, per la stessa ragione.

Queste sono le prime «vere», competitive, primarie nazionali del Partito democratico (in precedenza, ci si era limitati a fare plebiscitare un leader già deciso dal gruppo dirigente). Proprio perché sono vere lasceranno un forte segno.

Angelo Panebianco

8 ottobre 2012 | 9:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_08/primarie-vere-giochi-aperti-angelo-panebianco_b8467240-1109-11e2-b61f-b7b290547c92.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La normalità è una chimera
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2012, 04:45:40 pm
LA DEMOCRAZIA DELL'EMERGENZA

La normalità è una chimera

Assumiamo che Pier Luigi Bersani non riesca a vincere le primarie del Pd al primo turno. Di fronte a tale eventualità, Bersani dovrebbe cominciare a preoccuparsi un po' meno dei voti che raccoglierà Matteo Renzi al primo turno e molto di più di quelli che si concentreranno su Nichi Vendola. Perché se Vendola otterrà un buon successo, una percentuale ragguardevole di voti al primo turno, allora sì che saranno guai per il Pd. Al secondo turno, nel ballottaggio fra Bersani e Renzi, i voti di Vendola rifluirebbero su Bersani e, se risultassero decisivi per la sua affermazione, il messaggio che verrebbe inviato urbi et orbi sarebbe inequivocabile: il Pd, dopo tanto peregrinare, è tornato alle origini, è di nuovo un partito di sinistra-sinistra grazie anche alla iniezione di anticapitalismo vendoliano.

Il (fragile) equilibrio che Bersani ha fin qui tentato di mantenere fra le diverse istanze del partito si spezzerebbe.

Il rischio di fare la fine della gloriosa macchina da guerra di occhettiana memoria diventerebbe forte. Anche a dispetto dello stato di marasma in cui versa oggi il centrodestra. D'altra parte, ci sono già segnali in quella direzione, dal crescente distacco dalle politiche del governo Monti (in coincidenza con la radicalizzazione della Cgil) alle battute, infelici ma rivelatrici, sul mondo della finanza. Difficilmente, un Pd così spostato a sinistra potrebbe ottenere i numeri per governare. Se, per ventura, e a dispetto dei santi, li ottenesse, si troverebbe comunque a fare i conti con l'allergia di una parte ampia del Paese che chiede sviluppo e non ideologia, con il giudizio negativo dei mercati, con i sospetti dell'Europa a guida tedesca. Giusto o sbagliato, c'è comunque un prezzo da pagare per fare parte del più ampio sistema europeo.

Il problema del Pd (che, peraltro, grazie alla sfida di Renzi, sembra al momento l'unico partito tradizionale con un po' di vitalità) rispecchia il più generale problema della democrazia italiana in questo frangente. Una democrazia può benissimo, per fronteggiare situazioni di emergenza, adottare soluzioni eterodosse. Il governo detto tecnico è stato appunto una di queste soluzioni. Ma molto presto si dovrà tornare alla normalità, a governi fondati sulla legittimazione elettorale. Se non che, a pochi mesi dalle elezioni, le forze politiche che avrebbero dovuto preparare il Paese a questo rientro nella normalità non l'hanno fatto. Non sono state ancora capaci di fare una buona legge elettorale tale da favorire condizioni di governabilità. Così come non sono state capaci, nonostante scandali e discredito, di riformare radicalmente i meccanismi di finanziamento della politica.

Normalmente, nelle fasi di crisi, sono gli elettori a sciogliere, con le loro scelte, i nodi più intricati. Ma possono farlo solo se vengono messi di fronte ad alternative chiare.

Occorre che l'offerta politica sia congegnata in modo da consentirlo. Ciò che spaventa tutti, in Italia e fuori, è che, al momento delle elezioni, l'offerta politica risulti così destrutturata, così slabbrata, da non permettere la formazione di governi stabili. È comprensibile che i politici si preoccupino più del proprio destino che di quello che potremmo chiamare il «disegno più ampio». Ma ci sono anche momenti in cui la stessa sopravvivenza a breve termine del politico dipende dalla sua capacità di guardare lontano. Il problema è che c'è ormai poco tempo per ridare funzionalità, attraverso una chiara ristrutturazione dell'offerta politica, a una democrazia che sappia fare i conti con vincoli esterni sempre più stringenti.

Angelo Panebianco

22 ottobre 2012 | 9:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_22/normalita-chimera-panebianco_4d760a46-1c0a-11e2-b6da-b1ba2a76be41.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Vacui riformatori veri resistenti
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2012, 06:07:09 pm
IL BLOCCO DEGLI INTERESSI CONSOLIDATI

Vacui riformatori veri resistenti


Sarebbe, in un certo senso, rassicurante attribuire le crescenti difficoltà parlamentari del governo Monti — dalla bocciatura dei tagli nella sanità allo stop sui tagli alle spese delle Regioni — solo alle fibrillazioni della campagna elettorale. Si potrebbe infatti dedurne che, se non fosse per la vicinanza delle elezioni, ci sarebbe più spazio per incidere sulla spesa e le sue disfunzioni. Ma non è così. Perché non sono solo i partiti ma un intero, variegato ma potentissimo, «blocco politico- amministrativo-giudiziario » a mettersi di traverso non appena si cerca di incidere (anche solo blandamente, come ha fatto fin qui, per lo più, il governo Monti) i bubboni del nostro sistema pubblico. Si pensi alle recenti sentenze della Corte costituzionale: dalla bocciatura dei tagli agli stipendi di magistrati e alti funzionari fino al «no» a un modesto provvedimento che mirava a ridurre i tempi della giustizia civile.

Il premier Monti ha detto che l’Italia non ha bisogno di moderazione ma di «riforme radicali». Se non che, quel blocco politico- amministrativo-giudiziario di cui sopra è in grado di sabotare (con i più vari strumenti) persino le riforme blande. Figurarsi che cosa riuscirebbe a fare se qualche aspirante suicida politico si mettesse davvero in testa di fare tutte le «riforme radicali» che sarebbero necessarie: ne sa qualcosa il ministro Fornero che di riforme radicali, sfruttando la condizione di emergenza in cui si trovava l’Italia, è riuscita a farne almeno una, quella delle pensioni, e ha potuto constatare di persona quanto potente sia stato, e sia tuttora, il contrattacco. Per riforme radicali si devono intendere, logicamente, quelle capaci di modificare in profondità lo status quo. In Italia, significherebbe incidere sul sistema pubblico, ridurne il peso sulla società e, insieme, costringerlo a una maggiore efficienza, passare da un sistema pubblico grasso e inefficiente a uno magro e efficiente. Chi può avere la forza per fare una rivoluzione di questa portata? La resistenza degli interessi consolidati è tale che fare quella rivoluzione richiederebbe un «centro» (un governo), non forte ma fortissimo, così forte da piegare e sconfiggere gli innumerevoli poteri di veto che stanno a difesa di quegli interessi consolidati.

Si consideri che i tanti cani da guardia che proteggono il sistema pubblico così come è vivono, per lo più, in un mondo tutto loro. Sono autarchici, se non autistici. Nulla può a loro importare degli stringenti vincoli europei o del fatto che, Europa o non Europa, se non si abbassano le tasse tagliando la spesa pubblica, non c’è possibilità di rilanciare la crescita, non c’è altro destino possibile se non il declino e l’impoverimento collettivo. La sola cosa che conta per quei cani da guardia è fare blocco intorno a supposti diritti acquisiti e a interessi consolidati, della più varia e diversa natura, ma tutti alimentati e garantiti attraverso la spesa pubblica. Non in tutte le democrazie ci sono poteri di veto così forti, ramificati e diffusi. Scontiamo in tutta la sua drammatica ampiezza il danno dovuto a un grande fallimento. Il fallimento di quella riforma costituzionale— di cui si parla inutilmente dalla fine degli anni Settanta dello scorso secolo — che, dando più forza istituzionale al governo, avrebbe dovuto, e potuto, spuntare le unghie dei troppi cani da guardia.

ANGELO PANEBIANCO

27 ottobre 2012 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_27/vacui-riformatori-veri-resistenti-panebianco_1a405830-1ff6-11e2-9aa4-ea03c1b31ec9.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. INTERESSI VERI E TIFO PER OBAMA
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2012, 04:03:10 pm
INTERESSI VERI E TIFO PER OBAMA

L'infantilismo degli europei

C'è qualcosa che non va nel modo in cui tanti europei seguono gli eventi, si tratti delle elezioni americane o del Congresso del Partito comunista cinese, che condizioneranno le nostre sorti. Non solo il grande pubblico ma anche la ristretta opinione pubblica più attenta alle notizie, e con più mezzi per decifrarle, oscilla spesso fra il tifo insufficientemente motivato, o mal motivato, e l'indifferenza. Questi atteggiamenti verso ciò che di rilevante accade nel resto del mondo fanno dubitare che l'Europa possa diventare, in un prossimo futuro, qualcosa di diverso da ciò che è: un aggregato di governi e società tenuti insieme dalla convenienza ma senza un senso di comune appartenenza, senza volontà o possibilità di diventare una comunità politica.

Prendiamo il caso delle elezioni americane. L'Europa tifava Obama. Bene. Ma perché? Con quali motivazioni? Che tifassero Obama i governi è comprensibile. Meglio avere a che fare con un'amministrazione già sperimentata, di cui si conoscono pregi e difetti, con cui c'è consuetudine. Ed è, in particolare, comprensibile che tifasse Obama il governo italiano. Anche per l'ottimo rapporto personale fra Monti e il presidente. Ma soprattutto perché Obama è nostro alleato nel contrasto alle rigidità tedesche.

Governi a parte, perché gli europei tifavano per il presidente uscente? Per un insieme di motivazioni, dicono i sondaggi. Perché non apprezzavano il miliardario Romney (troppi soldi), perché Obama, anche se ha perso smalto, è l'anti Bush, uno che esce dalle guerre anziché entrarci (e che importa se, uscendone, può provocare altrettanti guai di chi ci entra), perché Obama è il campione delle minoranze, dell'America multiculturale (e ciò è popolare in Europa) e del politicamente corretto, perché, sui temi etici caldi, sembra più vicino all'Europa secolarizzata che all'America religiosa.

C'è, come si vede, qualcosa di impolitico nel modo in cui tanti europei tifavano Obama: si trattava di un giudizio che prescindeva da considerazioni sui possibili effetti sull'Europa di una vittoria dell'uno o dell'altro candidato.

Naturalmente, è vero che Romney era un candidato debole e nemmeno lui molto attraente dal punto di vista europeo. Non per le sue ricette economiche, forse migliori di quelle di Obama (come, ad esempio, in Italia ha bene argomentato Luigi Zingales sul Sole 24 Ore, 8 novembre), ricette che avrebbero potuto favorire una ripresa più forte dell'economia americana di quella che favorirà Obama, con ricadute positive anche per noi. Non era attraente per l'Europa perché pur essendo un repubblicano moderato era tuttavia condizionato da correnti del suo partito di ispirazione isolazionista, poco orientate a coltivare i legami transatlantici. Ma questa, che sarebbe un'ottima ragione politica, non figurava fra le motivazioni del tifo europeo per Obama. E sarebbe stato sorprendente il contrario, visto che Obama, nei suoi anni di governo, ha dato segnali di un interesse altrettanto scarso di quello di Romney per i legami transatlantici.

È un punto sul quale non bisogna, come alcuni fanno, confondere le acque. Certo che Obama è stato, e sarà ancora, presente in Europa per sollecitare misure che evitino la crisi dell'euro: se va in malora l'euro va in malora anche la sua economia. Ma ciò ha a che fare con necessità connesse all'interdipendenza economico-finanziaria globale. Non ha a che fare con le scelte culturali, politiche e strategiche collegate a ciò che un tempo chiamavamo atlantismo: un rapporto di alleanza sia pure asimmetrica, e di solidarietà, politica e militare, oltre che economica, fra democrazie, fra America e Europa.

E se questa considerazione appare a qualcuno astratta, o ideologica, o nostalgica, si consideri qualche concretissimo esempio. L'area esterna che più può influire negativamente sul futuro dell'Europa è il cosiddetto «Grande Medio Oriente», da dove si irradiano le infezioni connesse all'estremismo islamico, dal quale hanno origine robuste correnti migratorie verso l'Europa e dove sono ubicate risorse energetiche vitali. Ebbene, nel Grande Medio Oriente, Obama (uccisione di Bin Laden a parte) ha fin qui collezionato una impressionante serie di insuccessi. In parte dovuti alla obiettiva difficoltà delle situazioni ma in parte anche al suo fallimentare approccio. Con l'annunciato ritiro ha posto le premesse per la sconfitta occidentale in Afghanistan. Con le sue indecisioni a fronte della mezzaluna sciita (Iran, Siria, Iraq) ha disorientato i tradizionali alleati, dagli israeliani ai sauditi. Ha poi mostrato di non avere alcuna strategia di fronte ai movimenti islamisti (sunniti) già al potere in alcuni Paesi o sul punto di afferrarlo in altri.

Il suo approccio è insicuro e incoerente anche per il fatto che il «jeffersonismo» che lo ispira (come Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori, Obama pensa che l'America debba coltivare la democrazia a casa propria e gli altri si arrangino) ha conseguenze negative per la politica estera americana in Medio Oriente e, in prospettiva, crea problemi anche all'Europa. Per esempio, dato l'agnosticismo dell'Amministrazione in materia di politiche di sostegno alla democrazia, è da dubitare che l'America sfrutterà gli aiuti all'Egitto come arma di pressione per impedire ai Fratelli Musulmani e ai salafiti di imporre la sharia , la legge islamica. Col rischio di fare dell'Egitto, con o senza elezioni, una dittatura islamica. E con gravissimo danno per le relazioni mediorientali.

È giusto tentare di dialogare con chiunque, fosse pure il Diavolo. Ma senza perdere di vista che il dialogo, in tal caso, ha di rado esiti fruttuosi. Se è vero quanto alcuni prospettano, ossia che l'America del secondo Obama, preso atto degli insuccessi, sposterà ancor di più il suo baricentro geopolitico verso il Pacifico, lasciando a un'Europa che non è in grado di farlo di gestire il grosso dei dossier mediorientali (quello iraniano e pochi altri a parte), allora forse i guai sono solo all'inizio. E non rassicura il fatto che Hillary Clinton, forse la più legata alla vecchia scuola fra i responsabili della politica estera, lasci ora il Dipartimento di Stato. Agli europei converrebbe liberarsi di un certo infantilismo, cominciare a pensare politicamente, quando giudicano cosa accade in terra americana come nelle altre terre che contano.

Angelo Panebianco

11 novembre 2012 | 8:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_11/infantilismo-degli-europei-panebianco_f9e8b8b4-2bd2-11e2-a3f0-bca5bc7cc62d.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le ambizioni dei moderati
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2012, 03:17:16 pm
ILNUOVO POLO CATTOLICO-LIBERALE

Le ambizioni dei moderati

Se diamo retta alla fotografia degli umori del Paese che oggi ci consegnano i sondaggi, alle prossime elezioni due forze politiche potrebbero riscuotere più consensi delle altre: l’alleanza Bersani- Vendola e il movimento Cinque Stelle. E poiché entrambe queste forze, sempre stando ai sondaggi che circolano, resterebbero al di sotto del trenta per cento dei suffragi, tutti coloro che non si riconoscono in nessuna delle due sarebbero drammaticamente sottorappresentati, consegnandosi all’astensione (che si prevede alta) o alla dispersione fra i tanti rivoli e frammenti in cui potrebbe sciogliersi il centrodestra berlusconiano.

Davvero rischiamo di consegnare l’Italia a un «bipolarismo » Bersani-Grillo, con, in più, la drastica sottorappresentazione della maggioranza degli elettori? Dipenderà da ciò che accadrà «a destra» di Bersani, in quelle vaste praterie elettorali un tempo monopolizzate da Berlusconi. Riuscirà Angelino Alfano a limitare le perdite, e a tenere unito il suo gregge, garantendo così un futuro all’attuale Pdl? E quali caratteri avranno le nuove offerte politiche che emergeranno nel tentativo di sfondare nelle suddette vaste praterie? Non ancora una compiuta risposta ma, per lo meno, una seria indicazione potrebbe venire dall’appuntamento pubblico che oggi a Roma terrà a battesimo una nuova forza politica, voluta da Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo, dal ministro Andrea Riccardi e da altri, e che parte già potendo contare sull’appoggio della Cisl, delle Acli, e di diverse associazioni sia laiche che cattoliche.

Il futuro di una nuova forza politica è sempre dettato da due fattori, uno «soggettivo » e uno «oggettivo». Conta ciò che quella forza decide di essere, l’identità che sceglie di darsi. E contano le condizioni esterne che ne influenzeranno il percorso. Insomma, conta sia ciò che quella forza politica «vuole» essere (la sua carta d’identità) sia ciò che essa «può» essere (e che dipende da opportunità e vincoli imposti dalle circostanze). L’identità di un nuovo movimento politico è definita dalla proposta che esso indirizza al Paese. Nessun movimento allo stato nascente può avere successo se la sua proposta e, di conseguenza, la sua identità, non sono chiare, comprensibili, definite. Quale sarà la proposta della forza politica che nasce oggi a Roma? Nell’attesa dei futuri sviluppi, si può solo ragionare sui pochi elementi in nostro possesso. Sappiamo che il nuovo movimento si presenterà come alfiere di un definitivo superamento della (cosiddetta) Seconda Repubblica, come punto di riferimento per chi cerca una via d’uscita dopo l’esaurimento della stagione berlusconiana. Ma ciò è troppo poco o troppo generico per configurare una proposta. Possiamo anche, conoscendo la qualità di alcune delle persone impegnate, in posizioni di rilievo, nel movimento (gli economisti Nicola Rossi e Irene Tinagli e altri), scommettere sul fatto che da esso usciranno «proposte » (al plurale), su economia, istruzione, eccetera, di sicuro interesse e di altrettanto sicura serietà.

Ma la proposta (questa volta al singolare) che il movimento farà al Paese quale sarà? Da ciò che si capisce, sarà soprattutto la rivendicazione di una continuità con l’opera del governo Monti. Però, va notato che questa enfasi sulla continuità con il governo in carica può comportare sia vantaggi che svantaggi: poiché il governo Monti è stato ed è diverse cose, alcune luminose (il rigore sui conti) e altre meno (tante tasse e pochi tagli, niente liberalizzazioni, niente riforma dell’amministrazione). Rivendicare la continuità con Monti se non si distingue fra ciò che va e ciò che non va conservato, rischia di annacquare la proposta, di renderla ambigua, non incisiva. Vedremo come il neonato movimento scioglierà questo nodo. Specialmente sul versante liberale, dopo le tensioni, e forse il divorzio, da Oscar Giannino ed Emma Marcegaglia.

Oltre alle scelte che il nuovo movimento farà, conteranno le circostanze. Anche a dispetto della volontà dei suoi proponenti esso potrebbe domani ritrovarsi ad essere nient’altro che un rassemblement neocentrista, alla ricerca continua di alleanze a destra e a manca. Per effetto della dissoluzione del vecchio bipolarismo destra/sinistra e del ritorno alla proporzionale. Con due conseguenze. La prima sarebbe quella di ritrovarsi nello stesso spazio occupato (ma, nel suo caso, si tratta di esplicita volontà) da Pier Ferdinando Casini. La seconda sarebbe quella, al di là delle migliori intenzioni, di rendere la propria proposta vacua e debole. Poiché è nella natura dei rassemblement neocentristi di non potersi permettere un profilo programmatico netto, dovendo essi barcamenarsi, a seconda dei numeri parlamentari, fra sinistra e destra. È evidente che, in questo caso, con una proposta debole, sarebbe difficile intercettare quell’elettorato ex berlusconiano oggi tentato più dall’astensione che dal voto. Anche per questa ragione il nuovo movimento dovrà assumere posizioni nette sulle questioni costituzionali ed elettorali. Quale assetto istituzionale caldeggerà (proporzionale o maggioritario? Parlamentare o presidenziale?)? Sarà difficile eludere il tema.La disgregazione del centrodestra apre grandi spazi. La conquista di quell’area richiede fortuna ma anche virtù: ambizione, coraggio, e scelte nette.

Angelo Panebianco

17 novembre 2012 | 9:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_17/panebianco-le-ambizioni-dei-moderati_db6e59ca-307d-11e2-baec-20f01743e162.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un referendum sulla sinistra
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2012, 05:38:26 pm
EFFETTI COLLATERALI DI UNA SFIDA

Un referendum sulla sinistra


È stato detto, ed è vero, che, chiunque vinca le primarie, il Partito democratico sarà in futuro diverso da ciò che è stato.
La sfida di Renzi lo ha già cambiato.

Queste primarie non sono state solo uno strumento per la scelta del candidato premier. Sono state anche un referendum sul significato da dare alla parola «sinistra». Hanno assunto, grazie a Renzi, una forte valenza culturale, hanno investito i temi della tradizione e della identità.

Sinistra, in Italia, è un termine che ha sempre avuto un significato diverso da quello che ha nei Paesi che non hanno conosciuto la presenza - per quasi mezzo secolo di vita democratica - di un grande partito comunista, radicato in tanti gangli vitali della società: un partito che, grazie anche al suo rapporto quasi monopolistico con i ceti intellettuali, era il solo legittimo giudice di cosa fosse o non fosse «sinistra». Al punto che persino Bettino Craxi, uomo del socialismo autonomista, privo di complessi di inferiorità nei confronti dei comunisti, poteva essere tranquillamente dipinto come uomo di destra. «Sinistra» erano il Pci e ciò che si muoveva nella sua orbita, ivi comprese quelle forze (una parte del Psi pre Craxi, la sinistra democristiana) sue sodali o che mostravano sudditanza, culturale e psicologica, nei suoi confronti. «Sinistra» erano le interpretazioni del mondo, del passato e del presente, e di ciò che era giusto o sbagliato, che si producevano entro quei confini politici.

Crollato il Muro di Berlino, il Pci, ufficialmente, morì. Iniziò la fase post comunista. Ma la storia non fa salti. Dentro il «post» c'era tanta continuità. Sotto le nuove spoglie sopravviveva molto della vecchia organizzazione - con le sue regole, i suoi riti, le sue gerarchie, e le sue tesorerie - e anche del vecchio universo simbolico (come mostra il mantenimento delle antiche denominazioni: Unità , Festival dell'Unità, Istituti Gramsci, eccetera). E, naturalmente, venne preservato, sotto quell'ombrello, il grosso dei corposi interessi (sindacali e non solo) che facevano capo al vecchio Pci. Era inevitabile, dato che il cerchio dirigente e i quadri venivano da quella esperienza. Chi non era di quelle parti poteva facilmente accorgersi di queste continuità andando in giro, e annusando l'aria, nelle regioni rosse.

Il Partito democratico nacque mettendo insieme vecchi amici: ciò che restava del post comunismo e dell'antica sinistra democristiana. Bisogna riconoscere a Walter Veltroni, il primo segretario del Pd, il merito di avere tentato di creare, almeno entro certi limiti, qualcosa di nuovo (del resto, era il solo che potesse permetterselo proprio perché veniva dalla tradizione comunista) ma l'operazione, difficile e forse impossibile, fallì.

Data la storia pregressa, sono in buona fede quei sostenitori di Bersani che avversano Renzi perché lo giudicano «di destra». È effettivamente la prima volta che, all'interno di quel mondo, la tradizione post comunista subisce una sfida così dura da parte del rappresentante di una sinistra che non fa riverenze a quella tradizione e intende sbarazzarsene.

Come mostra il fatto (lo ha osservato Pierluigi Battista sul Corriere del 29 novembre), che non c'è alcun tema programmatico - si tratti di welfare, scuola, lavoro, politica estera o altro - su cui Renzi non si sia contrapposto alla linea della continuità incarnata da Bersani.

La vera sorpresa, ciò che nessuno si aspettava, è che proprio all'interno del popolo della sinistra (e nelle regioni rosse), fossero ormai così tanti quelli disposti a votare «sì» al referendum indetto da Renzi: «Vuoi tu abbandonare la tradizione e ridefinire l'identità della sinistra?». Che si tratti di una sfida, nonostante i bisbigli contrari, tutta giocata a sinistra è certo. Le rilevazioni fatte all'uscita dai seggi del primo turno hanno confermato ciò che si intuiva, ossia che, tra i votanti, la percentuale di ex elettori del centrodestra è stata bassa. Come era logico che fosse. Un ex elettore della destra potrebbe anche votare Renzi alle elezioni politiche (dato il marasma in cui versa il centrodestra) ma difficilmente potrebbe iscriversi alle primarie del, da lui detestato, centrosinistra. Senza contare che gli elettori di destra hanno scarsa propensione per forme di partecipazione diverse dal voto in regolari elezioni.

Se, come appare probabile, vincerà Bersani, la tradizione verrà conservata. Ma con qualche rilevante novità. Bersani, premiato per il coraggio che ha avuto mettendosi in gioco (anche se non ne ha avuto abbastanza da varare regole per le primarie un po' più liberali), regolerà molti conti con la vecchia oligarchia e promuoverà uomini e donne giovani che, tuttavia, saranno figli e figlie della tradizione di cui egli è il garante. Però, il consenso che Renzi ha saputo raccogliere a sinistra non potrà restare senza effetti. Bersani, che è un abile politico, si troverà di fronte al difficile compito di dare qualche risposta anche alle domande di chi non si riconosce più in una tradizione che giudica ammuffita.

L'errore che Bersani potrebbe commettere sarebbe quello di credere che basti vincere le prossime elezioni perché tutto, in qualche modo, si aggiusti. A leggere i segnali di queste primarie si arriva alla conclusione che non sarà così.

ANGELO PANEBIANCO

2 dicembre 2012 | 9:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_02/un-referendum-sulla-sinistra-panebianco_74e21412-3c53-11e2-bc71-193664141fb2.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Ma di moderato ci sarà assai poco
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 05:55:47 pm
UNA CAMPAGNA ELETTORALE POLARIZZATA

Ma di moderato ci sarà assai poco

Se vivessimo nel migliore dei mondi possibili, anziché nel caos in cui siamo, potremmo affrontare le elezioni di febbraio senza grandi patemi d'animo. Nel migliore dei mondi possibili ci sarebbero due grandi partiti, l'uno di centrosinistra e l'altro di centrodestra, nessuno dei quali ricattato e condizionato da forze estremiste, che si contenderebbero l'elettorato di centro. Entrambi i partiti concorderebbero sul fatto che l'Italia non ha altre possibilità che rispettare gli impegni presi con i partner europei e che nulla serve di più, per rassicurare mercati ed Europa, della certezza che chiunque vincerà rispetterà gli accordi e governerà di conseguenza. Nel migliore dei mondi possibili i due grandi partiti si differenzierebbero fra loro solo perché, pur nel rispetto degli impegni presi, l'uno, quello di centrodestra, proporrebbe di ridurre la pressione fiscale su ceti medi e imprese tramite una contrazione della spesa pubblica mentre l'altro, quello di centrosinistra, proporrebbe risparmi che servano a migliorare la condizione dei ceti meno abbienti.
Ma non viviamo nel migliore dei mondi possibili, la situazione è diversa. Le elezioni non si caratterizzeranno per una competizione fra grandi partiti tesi alla cattura dell'elettorato centrista. Saranno invece elezioni iperpolarizzate, e iperideologizzate, nelle quali l'elettorato di centro si troverà spiazzato e, forse, politicamente orfano.

La scelta di Berlusconi di ricandidarsi smarcandosi da Monti e anticipando così di un mese la fine della legislatura è una scelta all'insegna della radicalizzazione. Berlusconi, alla ricerca di quel dieci o quindici per cento di voti o giù di lì che gli assegnano i sondaggi e che gli servono per restare in partita, dovrà fare (anche se egli dichiara oggi il contrario) una campagna di segno antieuropeo. Anche perché avrà Monti, con il suo ruolo di garante di fronte all'Europa, come uno degli avversari da contrastare. Gli elettori moderati, quelli che in anni passati avevano creduto alla sua promessa di rivoluzione liberale, se li è persi, è difficile che abbocchino ancora. Inoltre, si trova a fare i conti con una netta presa di distanza della Chiesa (si veda l'intervista del cardinale Bagnasco al Corriere di ieri). Dovrà pertanto cercare di fare il pieno degli «arrabbiati». Tanto più che la sua scelta si accompagna a una rinnovata alleanza con la Lega, un partito che ha combattuto il governo Monti e che, per giunta, nel modo intelligente che è proprio di Roberto Maroni, sta di nuovo perseguendo un progetto, sia pure soft, di secessione del Nord (per questo scopo, precisamente, gli serve togliere al Pdl anche la presidenza della Regione Lombardia). L'alleanza Berlusconi-Maroni sarà, non potrà non essere, una alleanza che userà toni e argomenti estremisti. Altro che convergenza al centro.

A quell'alleanza se ne contrapporrà un'altra, quella dei grandi favoriti in queste elezioni, l'alleanza Bersani-Vendola. Nemmeno questa coalizione, per la verità, è fatta per tranquillizzare l'elettorato centrista. Perché in essa Bersani, un «montiano» (uno cioè consapevole dei vincoli europei) capeggia un aggregato ove abbondano gli antimontiani, da Vendola a Fassina, alla Cgil.
Un aspetto significativo del caso italiano è dato dal fatto che certi argomenti antiglobalizzazione e antieuro (che sottendono una implicita richiesta di protezionismo e di autarchia) siano presenti sia a sinistra che a destra. A volte si fa fatica a distinguere, quando parlano di questi temi, un vendoliano da un leghista, un rappresentante della Fiom da certi esponenti dell'ala più estrema del berlusconismo. Non è tutta colpa loro: è proprio dei sistemi politici frammentati come il nostro di scoraggiare la responsabilità e favorire la demagogia. E resta, naturalmente, l'incognita Grillo. Non si può sapere quanti voti prenderà il Movimento Cinque Stelle e come e quanto ciò condizionerà gli equilibri politici futuri.

In una democrazia che si avvia a una campagna elettorale all'insegna della polarizzazione, c'è il rischio che una vasta area di elettorato si ritrovi politicamente orfana. E che cosa accadrebbe con una eventuale candidatura Monti, di cui ha parlato ieri su queste colonne Antonio Polito? Le conseguenze potrebbero essere diverse. La prima è che in questo modo Monti punterebbe a una legittimazione democratica, che deve passare, per esser tale, attraverso il voto popolare. La seconda è che egli potrebbe offrire una sponda a un elettorato, probabilmente ampio, che in questo momento legge e rilegge il menu politico-partitico senza trovare un piatto che possa soddisfarne il palato. La terza è che cadrebbero certi alibi. Nessuno dovrebbe più nascondersi dietro a quell'oggetto misterioso, che si presta a tutte le possibili interpretazioni, denominato «agenda Monti».

La misteriosa agenda Monti verrebbe sostituita da un chiaro programma con cui Monti, e chi lo segue, si presenterebbero alle elezioni. L'unico consiglio che forse si potrebbe dare a Monti, se davvero puntasse a catturare l'elettorato oggi politicamente orfano, sarebbe quello di fare qualche piccolo aggiustamento nella comunicazione. Va bene insistere, come egli fa, sulla lotta alla evasione fiscale. Ma forse bisognerebbe aggiungere qualche idea su come, attraverso quali tagli di spesa, ridurre le tasse che gravano su ceti medi e imprese. Perché senza una indicazione su questo punto egli difficilmente potrebbe catturare quell'elettorato, oggi oberato di tasse, che non ha più Berlusconi come punto di riferimento. E anche perché, senza una riduzione, graduale quanto si vuole, del carico fiscale, la ripresa economica da lui promessa potrebbe non arrivare mai.

Angelo Panebianco

11 dicembre 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_11/campagna-elettorale-Panebianco_91e3de34-435a-11e2-b89b-3cf6075586fe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Ma le elezioni sono italiane
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2012, 11:49:26 am
L'EUROPA NELLE URNE

Ma le elezioni sono italiane

La colpa più grave che hanno gli sfasciacarrozze, quelli che «dobbiamo uscire dall'euro», quelli che «senza l'Europa è meglio», è che spinge tutti gli altri ad adottare, per reazione, un atteggiamento altrettanto insensato: li spinge alla santificazione dell'Europa. Ma santificare l'Europa è un errore che si ritorce contro chi lo commette, lo rende troppo remissivo verso gli interessi altrui, di chi (oggi i tedeschi, ieri l'asse franco-tedesco) non ha alcuna remora a farli valere pesantemente.

Non esiste Santa Europa. Le relazioni europee appartengono alla categoria dei giochi misti : i giocatori (europei) hanno alcuni interessi in comune e alcuni interessi divergenti. Il problema di ciascun giocatore, se è dotato di razionalità, è di contribuire a preservare gli interessi comuni senza rinunciare a difendere i propri nella competizione con gli interessi degli altri.
Il rimprovero che, da quando è scoppiata la crisi dell'euro, si muove alla Germania è di far valere a tal punto i propri interessi da mettere a rischio quelli comuni. Il giocatore più forte risulta sprovvisto della duttilità necessaria per esercitare una vera egemonia (una egemonia è tale solo se procura vantaggi sia all'egemone che a tutti gli altri). Una critica altrettanto fondata si può rivolgere a quei Paesi che, non facendo le opportune riforme interne, contribuiscano a danneggiare gli interessi comuni europei. Con, in più, l'impossibilità di contrattare in modo efficace la difesa dei propri specifici interessi. La vera forza del governo Monti è stata quella di avere fatto un paio di riforme importanti, e di averne avviate altre, accrescendo così la propria capacità di contrattazione in Europa.

La propaganda antitedesca degli sfasciacarrozze non può farci dimenticare che un problema tedesco esiste. Si tratti di fiscal compact o di unione bancaria, ogni decisione che prende l'Europa può essere solo «alla tedesca». La durezza della Germania nella difesa del proprio interesse nazionale fa il paio (segnalando una scarsa capacità egemonica) con la grossolanità dei suoi interventi politici. La plateale sponsorizzazione di Monti non gli ha fatto certo un favore. Anche agli italiani dà fastidio (come ha osservato Massimo Franco sul Corriere di ieri) sentirsi trattati come una colonia. Va ricordato a tutti che il 17 febbraio andremo a votare solo noi italiani. Per fortuna.

Né va infine sottaciuto il grave danno che arrecherebbe alla fisionomia futura dell'Europa un ritiro della Gran Bretagna dalla Ue. Tutti sono soliti prendersela con l'euroscetticismo britannico. Ma quasi nessuno segnala che se quell'euroscetticismo ha molte cause, una di esse è l'ostilità per l'eccesso di dirigismo da cui è afflitta l'Europa carolingia. Non è così sicuro che la Gran Bretagna abbia fatto male dicendo un secco no al fiscal compact . Una sua uscita dalla Ue condannerebbe i liberali europei, pochi o tanti che siano, a non potere mai più sperare in una Europa meno dirigista. Né in una Ue ove la Germania risulti più condizionabile.

Il passaggio è stretto: di là gli sfasciacarrozze, di qua gli acritici laudatori dell'Europa. Urge la ricerca di una via intermedia.

Angelo Panebianco

16 dicembre 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_16/le-elezioni-sono-italiane-panebianco_1bbfbbf8-474f-11e2-adc8-d4e6244fe619.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le due strade di un leader
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2012, 06:26:38 pm
IPOTESI SU UNA SVOLTA (SE CI SARÀ)

Le due strade di un leader


Con il messaggio che il presidente del Consiglio, da ieri dimissionario, rivolgerà al Paese alla fine della settimana, salvo ripensamenti che sembrano prendere forza in queste ore, la svolta si sarà compiuta: Monti sarà diventato a tutti gli effetti un protagonista della campagna elettorale. Ma con quale ruolo? Con quali prospettive? Con quali ambizioni? Sulla carta, ci sono due possibilità. Monti potrebbe scegliere la strada più rischiosa e più ambiziosa, potrebbe porsi come il federatore di una vasta area di elettorato, che è delusa da Berlusconi, ma che vuole anche sbarrare il passo a un Partito democratico giudicato troppo sbilanciato a sinistra. Oppure, potrebbe immaginare per sé e per quelli che lo seguono un ruolo e un compito molto più modesti: rovinare solo in parte la festa al centrosinistra, puntare ad impedirgli di fare la maggioranza al Senato, costringerlo alla trattativa nel dopo elezioni. Detto in altre parole, Monti deve scegliere fra quelle che potremmo chiamare la vocazione maggioritaria e la vocazione alla trattativa.

Forse, anche ciò che è accaduto a Melfi due giorni fa può essere letto nell'uno o nell'altro di questi due modi: Monti applaudito sia da Sergio Marchionne che dagli operai dello stabilimento - mentre la Cgil protestava fuori dai cancelli - è indicativo di cosa? Indica il fatto che a Melfi si è palesata, anche fisicamente, la contrapposizione fra due, assai diverse, ipotesi di governo, ciascuna sostenuta da un diverso blocco sociale? Oppure si è trattato solo di un messaggio implicito, e di una anticipazione, su temi che saranno oggetto di trattativa post-elettorale fra Monti e la sinistra?

Se sceglierà la strategia della vocazione maggioritaria Monti dovrà sciogliere due nodi. Il primo riguarderà la natura del suo messaggio complessivo al Paese, diciamo il suo «programma di legislatura». Per attrarre ampio consenso non potrà presentarsi con un progetto solo emergenziale. Dovrà infondere speranza. Dovrà fare promesse certamente realistiche, ossia non demagogiche, che tuttavia, siano tali da convincere gli italiani che i sacrifici fatti non sono stati sopportati invano e che, in futuro, le cose miglioreranno sicuramente. Dovrà spiegare in che modo, con quali mezzi e quali tempi, sarà possibile ridurre la pressione fiscale, fare le necessarie dismissioni pubbliche, liberalizzare, privatizzare. Dovrà fare cioè della famosa agenda Monti qualcosa di diverso da un programma emergenziale tutto lacrime e sangue.

Tra l'altro, una proposta che inviti alla speranza servirebbe a Monti anche per scrollarsi di dosso quell'immagine di uomo dell' establishment europeo lontano dal popolo, di freddo esponente di una tecnocrazia transnazionale senz'anima che i suoi avversari (a torto, ma non del tutto) gli hanno cucito addosso. Il Monti politico dovrà sbarazzarsi di quella immagine.

Quanto più ambizioso sarà il progetto che Monti illustrerà al Paese tanto più crescerà l'intensità del conflitto fra lui e le altre forze, non solo Berlusconi, ma anche, e soprattutto, il grande favorito, il Pd di Bersani. Chi appoggia Monti è pronto a uno scontro frontale con un Pd che è certamente in grado di gettare sul campo di battaglia un gran numero di forze e di sostenitori?
Il secondo nodo da sciogliere riguarderà la coalizione elettorale che a Monti farà riferimento. Dovrà essere tale da dare credibilità al progetto. Non potrà esserci un'evidente sproporzione fra il fine enunciato e il mezzo scelto per realizzarlo: all'ambizione del messaggio al Paese non potrà corrispondere uno strumento elettorale troppo gracile.
La lista elettorale (o la coalizione di liste) dovrà essere rappresentativa di un blocco di forze ampio. Poiché tagliare fuori Berlusconi e la Lega non può significare anche tagliare fuori quel vasto mondo che un tempo si era affidato al Cavaliere. La composizione delle liste elettorali che si richiamano a Monti dovrà riflettere, per qualità e rappresentatività, questa cruciale esigenza.

In caso contrario, se questi due nodi non verranno rapidamente sciolti nel senso indicato, vorrà dire che Monti si sarà affidato a una diversa strategia: quella giocata sull'idea di trattativa. Vorrà dire che sarà prevalso un calcolo, magari anche utile al Paese, ma assai più modesto: condizionare il Pd nella formazione del governo del dopo elezioni.

Se così è, allora Monti dovrebbe riflettere su una circostanza: esistono prove abbondanti a sostegno della tesi secondo cui quando si parte con ambizioni troppo limitate è molto facile fallire, non ottenere nemmeno il poco che si immaginava di ottenere. Solo se le ambizioni sono davvero grandi, qualcosa, in un modo o nell'altro, si realizzerà.
Angelo Panebianco

Angelo Panebianco

22 dicembre 2012 | 7:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_22/dimissioni-monti-panebianco_2847ed90-4c00-11e2-a778-2824390bcabe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La necessaria trasparenza
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2013, 11:40:06 am
LE CARTE (TROPPO COPERTE) DEL PD

La necessaria trasparenza


I sondaggi danno il Pd come il probabile vincitore delle elezioni. Però la campagna elettorale è lunga e ciò che accadde nel 2006 quando Romano Prodi, il grande favorito, vinse alla fine solo per un soffio, consiglia prudenza. Al momento, comunque, è plausibile ritenere che possa essere Pier Luigi Bersani il prossimo presidente del Consiglio. Bersani sta annunciando, da giorni, ogni giorno, le candidature, nel suo partito, di personalità di prestigio. Sarebbe utile se cominciasse anche a dare qualche informazione agli elettori sulla composizione del suo possibile governo. È vero che in campagna elettorale i partiti cercano di non scoprire troppo le carte. Ma è per lo meno lecito chiedere al favorito dai sondaggi di fare un po' di chiarezza su questo decisivo aspetto.

Facciamo un esempio. Molti danno per probabile che Massimo D'Alema diventi il nuovo ministro degli Esteri. Poniamo che sia vero. D'Alema ha già ricoperto quell'incarico ed è un politico preparato e autorevole. Nulla da eccepire su questo. Ma c'è un ma. In un ambito che è strategico per la politica estera italiana, il Medio Oriente, D'Alema non ha mai fatto mistero di certe sue radicate convinzioni. Soprattutto, non ha mai fatto mistero della sua (chiamiamola eufemisticamente così) scarsa simpatia per Israele, e di una adesione alla «causa» palestinese così spinta da renderlo bene accetto anche ai gruppi più estremisti, dai palestinesi di Hamas agli sciiti di Hezbollah. Dovremo aspettarci da un eventuale governo Bersani una politica mediorientale non equidistante nel conflitto, ossia attenta agli interessi di tutti, ma nettamente sbilanciata a favore di una delle parti in causa?

Politica estera a parte, molto si giocherà sul piano dell'economia e delle riforme di struttura. È facile scommettere che Bersani, da politico accorto, sceglierà un ministro dell'Economia ben accetto all'Europa e ai mercati, un tecnico di prestigio con il giusto pedigree e i giusti contatti internazionali. Se non che, la politica che più inciderà sul nostro futuro la faranno soprattutto altri ministeri, quelli che si occupano di lavoro e welfare, di istruzione, di pubblica amministrazione, di sanità. Sarebbe utile avere qualche anticipazione sui nomi di coloro che andranno ad occupare quelle poltrone. Soprattutto per capire quanto peseranno sulla politica del governo Bersani gli interessi del principale «azionista» del Pd: la Cgil. In tutti quei campi, quella del governo Bersani sarà una politica in cui non si muoverà foglia che la Cgil non voglia?

Non basta qualche virtuosismo verbale per nascondere la più vistosa contraddizione con cui il Pd è entrato in questa campagna elettorale. Il gioco delle parti, e la divisione dei ruoli, fra Bersani l'europeista e Fassina l'operaista, che ha contraddistinto tutto il periodo del governo Monti, non potrà reggere ancora a lungo. Il caso del welfare è esemplare. Sappiamo tutti che è stata la politica del ministro Fornero, la riforma delle pensioni soprattutto (e anche, in parte, quella del lavoro), ciò che ha più convinto l'Europa della bontà delle ricette Monti. Ma si dà anche il caso che la politica della Fornero sia stata avversatissima dalla Cgil e dai politici (quasi tutti membri dell'entourage di Bersani) che alla Cgil fanno riferimento.

Quando non ci sarà più Giorgio Napolitano a trattenere per la giacca il Pd, che fine faranno le riforme Fornero? Basterà il reclutamento di un prestigioso giuslavorista come Carlo Dell'Aringa a compensare e a neutralizzare il conservatorismo in materia di welfare e lavoro che è proprio della Cgil e dei suoi (tanti) amici del Pd? Non è forse proprio perché non ha più creduto nella possibilità di neutralizzare quel conservatorismo, ad esempio, che Pietro Ichino se ne è andato?

Il ragionamento vale anche per altri ministeri ove pesano gli interessi Cgil. Per esempio, nel campo della scuola, ove la Cgil è tradizionalmente la punta di diamante del fronte conservatore contrario a qualunque forma di riqualificazione in senso meritocratico del corpo insegnante. Né risulta che il Pd abbia mai formulato, in materia scolastica, proposte in conflitto con i desiderata della Cgil. L'unica eccezione fu, molto tempo fa, Luigi Berlinguer, quando stava alla Pubblica Istruzione, e mal gliene incolse. E vale per la pubblica amministrazione, un altro ambito nel quale qualunque eventuale proposito modernizzatore si scontrerebbe subito con i veti sindacali.

Il problema è reso ancor più acuto dall'(auto)ridimensionamento politico di Matteo Renzi. Dopo aver fatto sfracelli, conquistando quasi il 40 per cento dei consensi nelle primarie contro Bersani, Renzi ha scelto, per troppo tempo, di rimanere in silenzio. La notizia dell'ultima ora è che ha appena fumato il calumet della pace con Bersani. Collaborerà alla campagna elettorale. Ma forse i suoi sostenitori si aspettavano altro, si aspettavano che fosse il contraltare politico, entro il Pd, della linea Cgil/Vendola. Il suo ridimensionamento sembra privare quella linea di un solido contraltare interno.

Poniamo che, dopo le elezioni, mancando la maggioranza al Senato, Bersani sia costretto a negoziare con Monti e i suoi la composizione del governo. A questi ultimi converrebbe esigere proprio quei ministeri, a cominciare dal welfare, nei quali, per chi vuole innovare, lo scontro con la Cgil è garantito. Alla fin fine, ciò converrebbe anche a Bersani. Difficilmente potrebbe durare a lungo un governo appiattito sulle posizioni sindacali. Né l'eventuale presenza di un tecnico di prestigio all'Economia riuscirebbe a nascondere per molto tempo, di fronte agli altri governi europei, l'incapacità di innovazione di coloro che staranno nelle retrovie.

Angelo Panebianco

4 gennaio 2013 | 8:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_04/la-necessaria-trasparenza-angelo-panebianco_45da4bce-5636-11e2-9534-ad350c7cbb97.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Poteri e difetti di una leadership
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2013, 05:53:31 pm
BERSANI TRA PARTITO E GOVERNO

Poteri e difetti di una leadership

Tra tutte le risorse di cui dispone il Partito democratico in questa campagna elettorale, la sua ritrovata coesione interna, garantita dal saldo controllo esercitato da Pier Luigi Bersani, è la più importante. È come in guerra: l'esercito più coeso, guidato con mano ferma da un condottiero, ha più probabilità di vincere.

È anche per questo che, forse, la sfida principale sarà di nuovo fra il Pd e il Pdl, partiti che dispongono di condottieri saldamente al comando. Ma come non era scontato che Berlusconi riuscisse a ricompattare di nuovo le schiere del centrodestra, non era nemmeno scontato che Bersani riuscisse a dare coesione al proprio partito, un tempo diviso in gruppi in accanita concorrenza.

La storia del Pd degli ultimi anni è la storia della (ri)costruzione di una forte leadership. Una forte leadership è tale se riesce a rimotivare, restituendo loro una identità, gli iscritti e i militanti e se colui che la incarna è stato capace di indebolire gli altri maggiorenti del partito.

Sono stati almeno tre i momenti significativi di questo processo. Il primo è simbolicamente rappresentato dalla «foto di Vasto» (Bersani con Vendola e Di Pietro). Con quella mossa Bersani diede una risposta positiva alla richiesta che, evidentemente, saliva dal grosso dei militanti e degli iscritti: «Dicci qualcosa di sinistra».

Fu la presa d'atto che le ragioni fondanti del Partito democratico erano venute meno, che il Pd (D'Alema dixit) era «un amalgama mal riuscito». Il Pd era nato per rinnovare la tradizione della sinistra (la rottura con Rifondazione comunista decisa dall'allora segretario Walter Veltroni rispondeva a questa esigenza). Bersani prese atto del fallimento e mandò un chiaro segnale: il Pd sarebbe ritornato nell'alveo della tradizione. Ridare una marcata connotazione di sinistra al partito, in presenza di un evidente sbandamento e di una diffusa crisi di identità di iscritti e militanti, fu una mossa vincente. La base aveva finalmente trovato un leader pronto a ricostituire una identità collettiva.

Il secondo passaggio fu rappresentato da una intelligente politica di reclutamenti. Il segretario si circondò di collaboratori giovani e, per lo più, capaci. Giovani dirigenti che rispondono a lui e che solo da lui dipendono. Ciò ha rafforzato molto la posizione del segretario a svantaggio del potere di veto e del ruolo degli altri dirigenti storici.

Il terzo passaggio è rappresentato dalle primarie. Col senno del poi si può dire che Matteo Renzi, sfidando Bersani, e trasformando così le primarie, da rito un po' truffaldino quali erano state in passato, in primarie vere, ha dato al segretario una grande opportunità. Perché Bersani, vincendole, ha potuto rovesciare a proprio favore i rapporti di forza con il resto del gruppo dirigente. Si aggiunga il fatto (ma questo nessuno poteva allora immaginarlo) che, a primarie avvenute, la sfida di Renzi è stata rapidamente riassorbita.

Si noti che è la prima volta che un segretario conquista tanto potere nel maggior partito della sinistra dai tempi del Pci: con le sue diverse sigle (Pds, Ds) il partito postcomunista non era mai stato altrettanto compatto, data la divisione fra dalemiani e veltroniani.

Niente segnala meglio l'avvenuta ricostituzione di una forte leadership della rinascita, sotto nuove spoglie, dell'indipendentismo di sinistra. Esso ebbe una certa importanza ai tempi del Partito comunista. Segnalava la capacità del partito di attirare personalità di spicco, dell'accademia o delle professioni. A quelle personalità il Partito comunista chiedeva vivacità culturale e dipendenza politica. La vivacità era assicurata dalle qualità professionali che molte di quelle personalità possedevano. La dipendenza era inscritta nel fatto che il seggio su cui sedevano non era stato da loro conquistato in campagna elettorale, o comunque attraverso la lotta politica, ma concesso dal partito.

L'inserimento nel «listino», la cooptazione di diverse personalità di elevato valore professionale, e anche (con qualche eccezione) prive di legami formali con il Pd, da parte di Bersani, riflette la ricostituzione di una forte leadership. Anche da loro, ci si attenderà vivacità culturale (che ci sarà certamente date le competenze e le qualità professionali in campo) e stretta dipendenza dal segretario.

Un leader forte è come un direttore d'orchestra: gli altri suonano, chi meglio chi peggio, i diversi strumenti, ma è lui, e solo lui, che governa l'insieme.

Se Bersani vincesse le elezioni, come tuttora prevedono i sondaggi, e diventasse capo del governo, sommando premiership e guida del partito, si troverebbe in una posizione invidiabile, che non è mai stata in precedenza di alcun leader della sinistra. Ma si troverebbe anche a fronteggiare un delicato dilemma. Egli è diventato un leader forte perché ha saputo ridare una identità al suo partito. Questa identità ha una marcata connotazione di sinistra (le polemiche sulle posizioni di Stefano Fassina, sulla Cgil, su Vendola ne fanno fede).

Ma la forza così conquistata sarebbe sufficiente per consentirgli, come capo di un governo pesantemente condizionato dall'Europa e dai mercati, di infliggere ai propri sostenitori tutte le inevitabili delusioni senza con questo compromettere la propria leadership?

C'è da scommettere che in caso di sua vittoria sarà la prima domanda che molti, in Italia e fuori, si porranno.

Angelo Panebianco

13 gennaio 2013 | 8:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_13/poteri-e-difetti-di-una-leadership-angelo-panebianco_78da54d8-5d52-11e2-8540-81ed61eeac0a.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La fiducia che non c'è
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2013, 07:47:12 pm
I CITTADINI E LO STATO

La fiducia che non c'è

Più che gli economisti, al capezzale dell'Italia, servirebbero gli psicologi. La ripresa dei consumi interni, senza la quale non si esce dalla fase recessiva, è bloccata da una generalizzata crisi di fiducia, da aspettative negative sulle condizioni future. La campagna elettorale in corso non sta fornendo rimedi per modificare questi atteggiamenti. La vera causa della sfiducia nel futuro non è presente, se non marginalmente, fra i temi della campagna elettorale. Essa consiste nell'aggravamento - dovuto alla crisi economica - della tradizionale diffidenza dei cittadini nei confronti dello Stato, una diffidenza che, a sua volta, alimenta le aspettative negative di ciascuno sul (proprio) futuro.
I politici parlano di «riforme» ma fingono di non sapere che lo Stato italiano è fin qui risultato irriformabile e che di tale irriformabilità c'è ormai generale consapevolezza. Pesano sia le nostre immarcescibili tradizioni amministrative sia tanti errori commessi, nel corso del tempo, dai governi (da tutti i governi). Prendiamo l'ultimo esempio: il Redditometro. Non ha importanza che adesso si dica che verrà applicato in modo blando. La frittata è fatta. Basta infatti leggere di che si tratta per chiedersi: «Ma in che mani siamo? Come ci si potrà mai fidare di uno Stato simile?». Bisognerebbe domandare a coloro che hanno materialmente compilato il Redditometro: «Ma voi, in coscienza, vi fidereste di voi stessi?».

La crisi aggrava una antica e mai risolta sfiducia dei cittadini nello Stato (a sua volta, causa della sfiducia nelle prospettive future).
Il successo di pubblico che hanno sempre ottenuto le puerili parole d'ordine sulla «riscossa della società civile» è una spia di quella sfiducia, unita al tentativo di identificare il capro espiatorio nei soli politici di professione e, in definitiva, nella democrazia rappresentativa.

L'irriformabilità dello Stato dipende dal fatto che le tradizioni culturali (giuridiche, in particolare) del Paese, e una vasta ragnatela di interessi politici e burocratici, hanno impedito che l'amministrazione venisse investita da una rivoluzione liberale, capace di convertire la diffidenza in fiducia. Decenni di vita democratica sono serviti a poco. L'amministrazione dello Stato continua imperterrita a operare secondo antichi principi illiberali: retroattività delle norme, inversione dell'onere della prova (sempre a carico del cittadino), una prassi per la quale è vietato tutto ciò che non è esplicitamente permesso. La democrazia, semmai, accrescendo il numero degli interessi in gioco, ha aggravato i mali antichi. Ha favorito una proliferazione e una complicazione delle norme che esaltano la discrezionalità politico-amministrativa. Ogni tanto si sente invocare la semplificazione del quadro normativo. Ma sono parole al vento. Una vera semplificazione toglierebbe spazio alla discrezionalità e troppi interessi ne verrebbero danneggiati.

C'è, sullo sfondo, anche il «tradimento dei chierici», dovuto all'attività di molti fra i giuristi che fanno i consulenti per l'amministrazione e a quei professori di diritto che hanno contribuito a forgiare le mentalità di coloro che nell'amministrazione operano.
Ad alimentare la sfiducia, oltre alle tradizioni amministrative, concorrono gli errori dei governi. Ivi compresi quelli del «governo tecnico».

Sarebbe ingeneroso accusare il governo Monti di non aver posto rimedio ai mali antichi sopra indicati. Ma è anche vero che non ci sono stati molti segnali che andassero in quella direzione. Forse anche perché del governo facevano parte vari esponenti di spicco dell'amministrazione.

Nel caso del governo Monti, tuttavia, non si può parlare di tradimento dei chierici. Certi errori (che hanno contribuito all'incertezza e alla sfiducia) sono ascrivibili ad altre cause. Prendiamo il caso dell'Imu. Come si fa, in un Paese di proprietari di case, per giunta in una fase di caduta della domanda interna, a mettere una tassa la cui reale entità finale resta sconosciuta ai contribuenti per mesi e mesi? Puoi anche accettare di pagare una nuova tassa ma è obbligatorio che la sua entità ti sia immediatamente nota. In caso contrario, viene meno la capacità dei singoli o delle famiglie di fare calcoli e progetti, di prendere decisioni di spesa. Il fatto che l'entità della tassa che ciascuno doveva pagare sia rimasta avvolta nel mistero per troppo tempo ha contribuito all'incertezza, al rinvio delle spese e, quindi, alla «gelata» dei consumi.

In questo caso, nell'errore, non hanno pesato le tradizioni giuridiche o gli interessi della burocrazia. L'ipotesi di chi scrive è che abbia giocato un ruolo, piuttosto, l'eccesso di macro-economisti presenti nel governo, persone addestrate a pensare in termini di modelli econometrici, di flussi, e di macro-grandezze, poco propense a mettersi nei panni dei consumatori o dei produttori, a ragionare sulle loro aspettative e sui (micro)comportamenti conseguenti.

Le componenti che alimentano la sfiducia nel futuro, deprimendo l'economia e facendo di quella sfiducia una profezia che si auto-adempie, sono molte e complesse. La principale sembra consistere in un diffuso giudizio negativo sulla affidabilità dei governi (intesi in senso lato, strutture amministrative comprese). Se è questo il problema italiano, di questo dovrebbe occuparsi la campagna elettorale. Ma, di sicuro, ciò non accadrà.

Angelo Panebianco

21 gennaio 2013 | 7:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_21/la-fiducia-che-non-ce-panebianco_0c8953e2-6397-11e2-9016-003bf863ea6b.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il mal d'Africa degli Europei
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2013, 11:47:59 pm
PARIGI ISOLATA IN MALI

Il mal d'Africa degli Europei


C'è un qualche rapporto fra quanto accade in Mali e l'integrazione europea? Lasciare sola la Francia nella nuova guerra africana ha allontanato la realizzazione dell'Europa politica oppure fra le due cose non c'è alcun rapporto? Domande come queste cadono al di fuori del consueto repertorio di idee e ragionamenti di cui si nutre il senso comune europeista.
Bisogna chiedersi: cosa potrebbe dare la spinta necessaria per realizzare l'unità politica europea? Davvero è sufficiente il desiderio di stabilizzare la moneta comune, di mettere in sicurezza i livelli di benessere raggiunti? Anche il manifesto pubblicato due giorni fa da questo giornale a favore di una Europa unita, e che porta in calce la firma di illustri intellettuali europei, non si discosta dalla tradizione, non chiarisce i motivi per cui dovremmo fare questa benedetta Europa unita: vi si dice solo che altrimenti l'Europa uscirebbe dalla Storia (un argomento troppo vago per mobilitare le persone) e, più prosaicamente, che non si riuscirebbe a salvare l'euro.

Ma una reazione chimica così potente e drammatica quale quella che è sempre presente nella nascita di una nuova comunità politica, non si produce in quel modo. Le unificazioni politiche avvengono, quando avvengono, soprattutto perché rese necessarie da minacce alla sicurezza, alla vita, talvolta alla libertà, di centinaia, migliaia, o milioni, di persone coinvolte.
C'è una ragione che spiega perché gli europeisti militanti glissino sulla questione della sicurezza: ha a che fare con le condizioni in cui prese l'avvio e poi si sviluppò, durante la Guerra fredda, l'integrazione europea. Quel processo fu reso possibile dal fatto che la sicurezza europea era, all'epoca, appaltata agli Stati Uniti e al suo braccio militare, la Nato. Non dovendo occuparcene direttamente e autonomamente ci abituammo a pensare a una integrazione europea disancorata dalla sicurezza. Nacque così anche la leggenda secondo cui l'unità politica sarebbe un giorno arrivata, quasi automaticamente, come coronamento dell'integrazione economica, come una mela matura che cade dall'albero: un modo, non dissimile da quello che un tempo veniva detto marxismo volgare, di trattare la politica quale mera sovrastruttura dell'economia.

Non è così e ora che la sicurezza degli europei - per un insieme di ragioni che vanno dal declino della potenza americana alla natura delle nuove minacce alla sicurezza - non può essere più appaltata (o almeno non del tutto), sarebbe bene svegliarsi, cambiare registro. Nulla dovrebbe dimostrarlo meglio di quanto sta accadendo fuori dai confini dell'Europa, in aree ove sono in gioco aspetti vitali della sicurezza europea. Dodici anni dopo l'attacco dell'11 Settembre, appare chiaro che il mondo occidentale sta perdendo la battaglia per contenere la diffusione dell'islamismo radicale. Né la strategia di Bush né quella di Obama, pur diversissime, hanno dato i frutti sperati. In Afghanistan e in Pakistan la minaccia non è stata affatto debellata. Per parte loro, le rivoluzioni arabe, che tante speranze avevano suscitato, hanno accresciuto il pericolo.
Nel più importante Paese arabo, l'Egitto, l'opposizione si scontra ormai quasi quotidianamente nelle piazze con il governo islamista, democraticamente eletto ma già nel mirino di Amnesty International per le continue violazione dei diritti umani. Nel frattempo, i salafiti dilagano nell'Africa subsahariana (aiutati anche dalla dabbenaggine esibita da noi occidentali nella vicenda libica). Cercano di creare nuovi Afghanistan in grado di minacciare chiunque, europei inclusi, ostacoli il loro disegno espansionista.

La questione del Mali è diventata un test per capire che razza di Europa avremo in futuro. Abbiamo scelto di lasciare sola la Francia (dandole, al più, qualche sostegno logistico). In questo modo, l'intervento francese ha assunto le sembianze di una azione neo-coloniale volta soprattutto alla protezione degli interessi che Parigi coltiva in Niger e altrove. Avevamo una alternativa: prendere atto del vitale interesse europeo al contenimento dell'islamismo radicale, ammettere che spettava alla (potenziale) «comunità politica» europea nel suo insieme sventare la minaccia, «europeizzare» l'intervento militare in Mali (magari anche, a combattimenti conclusi, per dare qualche ragione di speranza ai Tuareg e aiutarli a liberarsi dall'abbraccio con gli islamisti). Per come si sono messe fin qui le cose, la Francia ne trarrà motivo per ribadire la propria indisponibilità all'unificazione politica in nome della Grandeur che essa continua a coltivare. Se avessimo fatto una diversa scelta, avremmo forse creato le condizioni per una maggiore solidarietà fra europei. Non sarebbe stato sufficiente per fare l'Europa unita, ma avremmo almeno cominciato a pensarci come una «comunità di destino» (necessaria pre-condizione dell'unificazione).

Alle minacce si può rispondere in due modi. Si può fronteggiarle, impegnarsi in un vigoroso «bilanciamento» nei confronti delle forze sfidanti. Oggi, ciò richiederebbe dall'Europa uno sforzo collettivo. Oppure, si possono blandire le forze minacciose e cercare un accomodamento.
È la strategia del bandwagoning (saltare sul carro del vincitore). Non richiede sforzi unificati e coordinati. Ciascuno la può praticare per suo conto. Per quanto sia scomodo, fastidioso e, forse, politicamente scorretto, di queste cose dovrebbero finalmente occuparsi coloro che credono nella necessità di una Europa unita.

ANGELO PANEBIANCO

28 gennaio 2013 | 10:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_28/mal-africa-europei_32fdcd8a-6911-11e2-a947-c004c7484908.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Scarso rispetto per chi voterà
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2013, 09:21:42 pm
LA FARSA DEI SONDAGGI «PROIBITI»

Scarso rispetto per chi voterà

Cosa succede quando le autorità proibiscono la vendita di un bene del quale c’è una forte domanda? Si formerà un mercato nero. Una conseguenza è che si accentuerà il peso delle disuguaglianze. Sul mercato nero, infatti, il bene proibito costa molto di più di quanto non costasse nel mercato libero, prima che intervenisse il divieto. Chi possiede più risorse può permettersi l’acquisto del bene proibito, tanti altri no. Qualcosa di simile accade quando, come in Italia, si vieta la diffusione di sondaggi nelle due settimane che precedono il voto. I sondaggi continuano ad essere fatti, naturalmente. Ma dal momento in cui scatta il divieto di pubblicazione, solo una frazione della popolazione verrà a conoscenza dei risultati delle nuove rilevazioni demoscopiche: sono coloro che hanno accesso ai canali di informazione riservati alle élite. Le informazioni sugli orientamenti di voto spariscono dai media e entrano in un altro circuito, più ristretto, composto da coloro che godono del vantaggio sociale di poter accedere a canali personali e riservati. In questo modo, l’asimmetria informativa, il divario fra chi sa e chi non sa, fra i pochi che hanno accesso ai sondaggi e la maggioranza che ne è esclusa, si accentua.

Perché in certi Paesi si proibisce, da un certo momento in poi, la pubblicazione dei sondaggi (pur sapendo che quel divieto provocherà la formazione di un circuito informale dominato dal chiacchiericcio fra i bene informati, una sorta di campagna elettorale nascosta e parallela) mentre in altri Paesi (come gli Stati Uniti) quella proibizione non c’è? La risposta plausibile è una soltanto. Il divieto di pubblicazione dei sondaggi è possibile dove non si ha paura di stabilire per legge che l’elettore è un bambinone immaturo, che va protetto dalle (supposte) cattive influenze dei sondaggi.

Tutti noi siamo continuamente influenzati da tante cose. E le ragioni che spingono ciascun singolo elettore a votare in un modo o nell’altro (o a non votare) possono essere le più varie. Ma se si decide per legge che l’elettore è un immaturo suggestionabile il rischio è che qualcuno, un giorno, faccia anche il passo successivo, quello che discende logicamente dal primo: se l’elettore è un bambinone, perché mai dovremmo lasciargli il diritto di voto?

Sullo sfondo si intravvede la cattiva coscienza di élite che non hanno mai saputo fare ben i conti con il suffragio universale e le conseguenze che ne discendono. Élite che hanno paura del popolo. E c’è la predilezione per i circuiti ristretti ove gli ottimati — qualcuno pensoso del bene comune, i più pensosi delle future distribuzioni di cariche — possano occuparsene al riparo dalla pressione popolare. La politica è solo una faccia della società. C’è una connessione fra l’ideale di una democrazia sotto tutela (che va difesa dal suo principale nemico: il popolo) e la pratica dei mercati protetti che impedisce la libera competizione. In queste condizioni, non fa meraviglia l’insorgenza di potenti movimenti di protesta. Meraviglia che qualcuno si meravigli.

Angelo Panebianco

17 febbraio 2013 | 9:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_17/panebianco-scarso-rispetto-per-chi-votera_83fc3a72-78d0-11e2-a28b-a2fa92ae99be.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Riforme per disperazione
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2013, 11:17:23 am
Riforme per disperazione

Le elezioni hanno distrutto il vecchio bipolarismo, quello della cosiddetta Seconda Repubblica. Ma non hanno ricostruito. Dovremo forse attendere le prossime elezioni (al termine di una legislatura che è lecito immaginare brevissima) perché alla distruzione segua la ricostruzione, perché nuovi e più stabili equilibri si affermino. Entrambi i poli tradizionali (centrosinistra e centrodestra) dovranno passare attraverso cambiamenti radicali (di leadership, di assetti, di proposte, di identità). Berlusconi ha smentito, con la sua impressionante rimonta, chi lo aveva dato per finito. Ma il problema di come dare stabilità e coesione a un centrodestra che, per ragioni sia di età che di credibilità internazionale, Berlusconi non potrà ancora guidare a lungo, è sempre lì e attende soluzione. Anche perché la resurrezione di Berlusconi non ha comunque impedito al centrodestra (e al Pdl) di perdere diversi milioni di voti (fra astensioni e spostamenti verso Grillo).

Una cosa le elezioni l'hanno però dimostrata: l'inconsistenza del progetto neocentrista. Monti e Casini devono ora prendere atto che non c'è alcun futuro al centro. Ancorché deboli, dispongono comunque di una quota di parlamentari che dà loro la possibilità, e il diritto, di trattare una qualche forma di onorevole resa con il centrodestra. Al quale probabilmente servirebbero degli «stati generali», o qualcosa di simile, ove possano essere discussi assetti futuri, leadership, proposte. In vista delle prossime, sicuramente vicine, nuove elezioni.

Se il problema del centrodestra dopo Berlusconi resta aperto, altrettanto drammatica è la condizione del Partito democratico. Ha fatto definitivamente il suo tempo il personale politico che veniva dal vecchio Pci e dalla vecchia sinistra democristiana (le componenti dalla cui convergenza nacque quel partito). Insieme a esse, ha fatto il suo tempo quella continuità identitaria (le «radici») su cui aveva puntato tutto Bersani.

Di fronte al Pd si aprono due strade, entrambe dolorose e difficili, al di là della proposta aperta di cui parla D'Alema in queste pagine. La prima è quella che alcuni, con una capacità trasformistica degna di Zelig, hanno subito indicato: prendiamo atto di avere sbagliato quando, alle primarie, abbiamo scelto la tradizione e l'identità (Bersani) al posto del cambiamento e della discontinuità (Matteo Renzi). Così però è troppo facile. La storia è spietata, non permette a nessuno di dire «avevamo scherzato, riportiamo indietro le lancette». Come se niente fosse accaduto.
Renzi è un giovane brillante e avrà un futuro politico (che dovrà inventarsi di sana pianta). Ma, essendo intelligente, sa che quel capitolo è chiuso. Egli però resta comunque l'emblema di ciò che il Pd avrebbe potuto essere. Il simbolo di un rinnovamento che facendo piazza pulita della vecchia identità avrebbe potuto trasformare un partito statico, conservatore, in un partito dinamico, innovatore.

C'è anche un'altra strada aperta per il Pd. Ancor più dolorosa della prima. Si tratta di prendere atto delle affinità esistenti fra gli orientamenti di molti dei propri elettori e il movimento di Grillo. È vero che Grillo ha preso voti da tutto l'arco politico. Ma, anche se non disponiamo ancora di serie analisi dei flussi elettorali, è chiaro che il Pd gli ha ceduto moltissimo sangue, forse più del Pdl (quest'ultimo colpito anche dall'astensionismo).

Inoltre, se si guarda alle proposte che il Movimento 5 Stelle ha fin qui avanzato - e alla cultura politica che quelle proposte sottintendono -, è facile rendersi conto che ci sono più consonanze (per esempio, sulla questione cruciale dello spazio da dare, rispettivamente, al mercato e allo Stato) con gli orientamenti della sinistra che con quelli della destra. Lo stesso Bersani, del resto, lo ha implicitamente ammesso con la sua immediata apertura di credito al Movimento 5 Stelle. Il Pd, o almeno una parte di esso, potrebbe prendere atto che il suo futuro sta in una qualche forma di convergenza con un movimento politico che ha dimostrato di sapere dare rappresentanza agli insoddisfatti e agli esclusi. È vero che Grillo, come fanno sempre i movimenti politici che attaccano il vecchio establishment, rifiuta le categorie di Destra e Sinistra (ma i nomi non sono poi così importanti: potremmo anche ribattezzare quelle vecchie categorie Gianni e Pinotto) ma è anche possibile che, nel XXI secolo, la vecchia sinistra debba cedere il passo a nuove modalità di aggregazione e di azione, più efficaci nel rappresentare il disagio per certi effetti (per esempio, sul versante dell'impatto ambientale) dell'economia capitalistica di mercato.

Ci sono temi pressanti (formare uno straccio di governo; eleggere il nuovo presidente della Repubblica) ma il problema dei problemi, quello di ridefinire gli assetti del centrodestra e del centrosinistra, non potrà essere nascosto sotto il tappeto. Il più importante banco di prova sarà la riforma della legge elettorale e delle istituzioni. Se la classe politica saprà giocarsi quella occasione alla grande, senza più i piccoli intrighi che hanno caratterizzato l'ultimo anno, nella piena consapevolezza di quanto potente sia stato il terremoto, allora forse si ripresenterà quella opportunità di uno scambio di alto profilo (sistema maggioritario a doppio turno contro elezione diretta del presidente della Repubblica) che, come ricordava ieri su questo giornale Antonio Polito, venne malamente bruciata, e sprecata, l'anno scorso. Se questo accadesse, alla distruzione di oggi seguirebbe la ricostruzione di domani.

Angelo Panebianco

28 febbraio 2013 | 7:40© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_28/panebiano-riforme-per-disperazione_afa43a84-816e-11e2-aa9e-df4f9e5f1fe2.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'AVVERSIONE ITALICA AI GOVERNI FORTI
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2013, 12:25:34 pm
L'AVVERSIONE ITALICA AI GOVERNI FORTI

Il fantasma senza tempo

Chi pensa che la democrazia necessiti di governi forti, dotati di tutti gli strumenti istituzionali necessari per attuare le proprie promesse elettorali, è un pericoloso golpista, un fautore di disegni autoritari, un nemico della «vera» democrazia? Da più di trenta anni è sempre a questa domanda che siamo inchiodati tutte le volte che insorgono conflitti intorno a progetti di riforma costituzionale. Oggi, una classe politica con un piede nella fossa (come Grillo, graziosamente, le ricorda ogni giorno), potrebbe avere interesse a non dare a quella domanda la risposta che è fin qui sempre prevalsa.


Senza una radicale ristrutturazione delle loro offerte politiche, centrosinistra e centrodestra non riuscirebbero a invertire la corrente, a riconquistare i consensi perduti. Ma la ristrutturazione dell'offerta politica è possibile solo se vengono cambiate le regole del gioco. Diversi editorialisti di questo giornale hanno ricordato, nei giorni seguiti alle elezioni, che la condizione di stallo in cui siamo potrebbe essere avviata a soluzione, se si realizzasse uno scambio virtuoso (fra sistema maggioritario a doppio turno e semi-presidenzialismo). Se si trovasse la volontà politica, basterebbero pochi mesi per fare tutto. Poi si tornerebbe a votare.


Ma occorrerebbe un consenso almeno sul fatto che la democrazia necessiti di quella stabilità che solo governi istituzionalmente forti sono in grado di assicurare, e che maggioritario e semi-presidenzialismo servono a quello scopo.
La Costituzione vigente fu redatta quando incombeva il fantasma del tiranno e il Paese era spaccato fra comunisti e anticomunisti. Si scelse di costruire un sistema di governo fondato sulla permanente debolezza degli esecutivi. E da lì non ci siamo mai schiodati. La fine della Guerra fredda aprì una «finestra di opportunità»: la riforma elettorale maggioritaria dei primi anni Novanta doveva favorire un cambiamento della forma di governo ma poi, con il fallimento della Bicamerale (il mancato accordo fra Berlusconi e D'Alema nella Commissione per le riforme costituzionali presieduta da quest'ultimo nel 1997), quella finestra si richiuse. Forse ora, proprio perché si trova con le spalle al muro, la classe politica potrebbe finalmente fare ciò che non seppe fare allora. Per riuscirci dovrebbe sconfiggere radicati e diffusi pregiudizi. Secondo i quali è un bene che l'Italia, unica fra le grandi democrazie europee, manchi dei requisiti istituzionali necessari per dare stabilità e forza ai governi.


Tutte le volte che la nostra forma di governo viene messa in discussione, nel Paese parte la mobilitazione dei «Giù-le-Mani-dalla-Costituzione-Boys» (acronimo: GMCB), una variopinta compagnia di ultraconservatori, spesso travestiti da progressisti, afflitti da inguaribile provincialismo. Così provinciali da non essersi mai degnati di studiare seriamente costituzioni e prassi degli altri grandi Paesi europei.


A riprova del fatto che non basta intervenire sulla legge elettorale per uscire dai guai si consideri la questione del bicameralismo simmetrico (due Camere con uguali poteri). È oggi quasi impossibile per chiunque (fanno fatica a farlo persino i GMCB) difendere un simile obbrobrio. Ma perché i venerandi costituenti si macchiarono di tale colpa? Erano forse stupidi o pazzi? Non lo erano.


Il bicameralismo simmetrico serviva al loro scopo, era coerente con il disegno costituzionale nel suo insieme, quello che condannava l'Italia ad avere sempre governi istituzionalmente debolissimi. Assicurando alle varie frazioni parlamentari, grazie anche al bicameralismo simmetrico, i margini di manovra e la chance per stravolgere ogni decisione governativa.

Una cosa è il potere (che a nessun Parlamento può essere negato) di respingere i provvedimenti del governo, tutt'altra cosa è il potere di stravolgerli sistematicamente, di svuotarli dall'interno. È questo potere che la nostra Costituzione esalta. Per inciso, Mario Monti voleva dire proprio questo quando, qualche mese fa, affermò che i governi non dovrebbero essere alla mercé dei Parlamenti, suscitando la reazione sdegnata dei tedeschi (i quali però non sanno che il loro Parlamento non ha lo stesso potere che ha il nostro di «conciare per le feste» i governi, di fare carne di porco dei loro provvedimenti). Le tanto lodate riforme del lavoro che fece a suo tempo il governo Schröder in Germania sarebbero impossibili in Italia (come si è visto nella vicenda della riforma del lavoro targata Fornero). Due Camere con uguali poteri erano, e sono, una garanzia di governi sempre in balia di qualunque frazione, o sottofrazione, parlamentare, e di massima lentezza e inefficienza dei processi decisionali. Più in generale, la debolezza istituzionale dell'esecutivo era, ed è, una assicurazione contro gli eventuali pruriti riformatori di questo o quel governo.


E naturalmente i regolamenti parlamentari vennero costruiti in modo coerente con il disegno costituzionale di cui sopra: fortunate, ad esempio, sono quelle democrazie (parlamentari o semi-presidenziali) in cui quasi nessuno ricorda i nomi dei presidenti delle Camere in carica, talmente irrilevanti, istituzionalmente e politicamente, sono le loro funzioni.
Basterebbero pochi mesi per dare alle istituzioni quella forza e quella efficienza la cui mancanza, alla fine, ha pesantemente e pericolosamente logorato la Repubblica. Non ha senso rassegnarsi a quel logoramento solo per fedeltà alle scelte contingenti (e, all'epoca, giustificate) di uomini - i costituenti - che uscivano da venti anni di dittatura.

Angelo Panebianco

6 marzo 2013 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_06/fantasma-governo-Panebianco_355f23b8-8625-11e2-8496-c29011622c49.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Contro un muro (ben segnalato)
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2013, 05:41:20 pm
LA SCELTA DI BERSANI E LA REALTÀ

Contro un muro (ben segnalato)

Come era prevedibile, il matrimonio fra Pd e Movimento 5 Stelle non si celebrerà. Ma i danni che il Pd ha inflitto a se stesso, per non parlare del Paese, sono già tanti. Nei giorni e nelle settimane che hanno seguito la «non vittoria» elettorale, il Pd è apparso preda di una sorta di cupio dissolvi . La sua immediata apertura di credito a Grillo ha fatto pensare a una nemesi storica. Nel periodo che seguì la Rivoluzione d'Ottobre diversi partiti socialisti finirono per autodistruggersi nel tentativo di inseguire e blandire i movimenti antisistema (comunisti) dell'epoca.

In questi giorni, gli eredi del vecchio Pci si sono genuflessi di fronte a un movimento antisistema che ha la gagliardia e l'energia propria dei nuovi movimenti e che considera il Pd, al pari di tutti gli altri partiti, spazzatura, o giù di lì. Vincolato dalla sua vera, forse unica, identità (l'antiberlusconismo), condizionato dall'antica regola «niente nemici a sinistra», prigioniero di un ristretto gruppo dirigente, ormai sconfitto, che cerca di allontanare nel tempo la resa dei conti con gli avversari interni, il Pd, inseguendo Grillo, ha finito per buttare a mare quasi tutto ciò in cui aveva detto di credere durante la campagna elettorale. È difficile, ad esempio, continuare ad accreditarsi, di fronte ai partner europei, come campioni di europeismo mentre si cerca l'alleanza con un movimento il cui leader dichiara che l'Italia è già quasi fuori dall'euro.

Il vero rischio per un Pd che ha dato mostra di credere che le ragioni di incompatibilità con il movimento di Grillo fossero meno, e meno gravi, di quanto in realtà non siano, è che molti altri suoi elettori (come tanti hanno già fatto), non vedano più ragioni per votare il Pd anziché i 5 Stelle. C'è la possibilità, se il ricambio al vertice del partito non avverrà in fretta, che quando Matteo Renzi o chiunque altro ne prenderà il controllo, egli si ritrovi intorno solo macerie fumanti.

La scelta dei presidenti delle Camere è oggi il test per capire se ragionevolezza e istinto di sopravvivenza prevarranno. Nuove elezioni immediate a parte, il risultato elettorale lascia aperta una sola strada: il governo del presidente, meglio se garantito da una riconferma di Napolitano al Quirinale. Un governo che faccia poche essenziali cose e che ci riporti subito dopo alle urne. Un governo che vedrebbe l'opposizione del Movimento 5 Stelle, i cui leader, non essendo stupidi, non hanno interesse a contribuire alla governabilità. E sapendo che il vero nodo è la legge elettorale e che può essere affrontato solo se ci si dice la verità. La verità è che non servono le pastette: l'unica riforma seria, a questo punto, implica maggioritario e collegi uninominali. Una tale riforma dovrebbe probabilmente scontare la dura opposizione dei 5 Stelle, un gruppo che deve il suo exploit alla legge elettorale vigente e che verrebbe forse danneggiato da un radicale cambiamento: ad esempio, i collegi uninominali, a differenza della lista bloccata (oggi in vigore), darebbero ai candidati una potenziale autonomia che i leader del Movimento 5 Stelle difficilmente apprezzerebbero.

La gravità del momento richiede lucidità. In tempi normali, gli interessi a breve termine degli attori politici prevalgono su quelli a medio termine. I politici si preoccupano dell'uovo di oggi, non della gallina di domani. In tempi eccezionali, però, far prevalere gli interessi a breve termine significa segare il ramo su cui si sta appollaiati.

Angelo Panebianco

16 marzo 2013 | 7:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_16/contro-un-muro-panebianco_b4cbde24-8e05-11e2-8e0e-c5b76e411d4a.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. FRAGILITÀ E OPPORTUNITÀ A DESTRA
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2013, 04:40:47 pm
FRAGILITÀ E OPPORTUNITÀ A DESTRA

Perché non c'è un Renzi nel Pdl

È possibile che il complicato dopo voto produca un governo di tregua. Ma un governo di tregua per fare cosa? Per fare tre cose, si suppone.
In primo luogo, tenere a galla la zattera con qualche provvedimento che assicuri un po' di affidabilità agli occhi dei partner europei e dei mercati. Ma basterà che, in qualsiasi momento, una Cipro qualunque inneschi una valanga e tutto sarà rimesso in discussione. In secondo luogo, fare una nuova legge elettorale. Ma si dà il caso che sia più facile dirlo che farlo. Come si capisce appena si pone la domanda: quale nuova legge elettorale? In terzo luogo, dare ai partiti il tempo necessario per modificare le proprie offerte politiche in modo da riagganciare l'elettorato che li ha abbandonati scegliendo la protesta.

Delle tre cose da fare l'ultima è forse la più complicata. Come prova il fatto che nell'anno e passa di tregua assicurato dal governo Monti non c'è stata traccia di seria ristrutturazione di quelle offerte politiche. E il risultato si è visto alle elezioni.
Ci sono buone ragioni per pensare che un cambiamento dell'offerta politica (che significa cambiamento di leadership , di assetti organizzativi e di programmi), urgente per tutti, lo sia in particolar modo per la destra. Perché essa resta comunque la componente più fragile del sistema. Perché ha perso molti più voti di quelli che ha perso il Pd. Perché il reingresso di Berlusconi sulla scena elettorale dopo il suo annunciato ritiro ha solo rinviato il momento della verità: il momento in cui il Pdl (o qualunque cosa lo sostituisca) dovrà cominciare a camminare con le proprie gambe, senza più il padre padrone a comandarlo. E perché, soprattutto, sarebbe vitale per il Paese che, una volta finita la tregua, una volta tornati alle elezioni, dalle urne uscisse quello che un tempo si sarebbe definito un solido governo borghese.

Al Pdl serve urgentemente un Renzi di destra, uno che non debba baciare l'anello a Berlusconi, uno che sappia parlare al Paese con un linguaggio fresco. E che, a differenza di Berlusconi, sia molto meno vulnerabile dal punto di vista giudiziario. Sia chiaro, un tale (ipotetico) Renzi di destra non dovrebbe affatto piacere alla sinistra: il processo di autoaffondamento politico di Gianfranco Fini cominciò quando, rotto con Berlusconi, egli diventò per un certo periodo l'eroe dei giornali di sinistra. Sinistra e destra sono ovunque separati da interessi contrapposti, da opposte visioni del mondo, da opposti codici morali. Nel nostro Paese, poi, gli elettorati di sinistra e di destra (basta ascoltarne le conversazioni) nutrono gli uni nei confronti degli altri più o meno gli stessi sentimenti che il Ku Klux Klan nutre nei confronti dei neri.
È vero, come accennava ieri Galli della Loggia, che la sinistra ha avuto finora più successo nel convincere persino l'establishment che gli elettori di destra siano solo buzzurri impresentabili. Ma si conoscono anche tanti elettori di destra che pensano la stessa cosa di quelli di sinistra.

Il Renzi di destra dovrebbe fare, anche lui, orrore alla sinistra. Tanto più ci riuscirebbe quanto più coerentemente e aggressivamente (che non significa urlare: significa avere la solidità culturale necessaria per dare efficacia e un alto profilo alla propria proposta) fosse capace di rappresentare idee e interessi che hanno da sempre una precisa connotazione: l'individualismo come valore, la proprietà privata come diritto fondamentale, e fonte di libertà, anziché come colpa da espiare, l'idea che sia il «vil commercio», che siano i mercanti, e non i Savonarola, i costruttori di società decenti.

Il governo borghese che serve al Paese è un governo teso a rilanciare lo sviluppo capitalistico senza se e senza ma. Un governo che investa sulla crescita (altro che «decrescita felice»), che blocchi il processo di impoverimento nell'unico modo possibile: dando di nuovo alle classi medie indipendenti la voglia e l'incentivo per rischiare e investire. Voglia che non tornerà fin quando non ci saranno garanzie che i frutti del proprio lavoro non verranno in gran parte confiscati da uno Stato famelico. Il che significa tagliare le tasse, colpire la burocrazia, colpire i mercati protetti. Significa non commettere l'errore che commise Berlusconi il quale, per mantenersi al potere, venne a patti con le corporazioni che contribuiscono a strozzare la crescita.
Si è detto qualche volta che, non essendone capace la destra, in Italia tocca alla sinistra fare il lavoro della destra. Ma sono fole: la sinistra può fare solo la sinistra, ridistribuire il reddito in un regime di tasse alte. Se è la crescita ciò che si vuole, o la propizierà la destra o non lo farà nessuno.

Ma il punto debole di questo ragionamento non consiste forse nel fatto che del Renzi di destra qui ipotizzato non c'è, nella realtà, traccia alcuna? Sì e no. La destra, in Italia, esiste solo da venti anni. Ma in questo lasso di tempo è cresciuta una generazione di italiani che, spesso nel male ma qualche volta nel bene, non è più debitrice delle culture politiche dei grandi partiti, accomunati dal pregiudizio antiborghese, che dominarono la Prima Repubblica. Ci sono in giro diversi giovani colti, preparati, con esperienze di studio o di lavoro all'estero, e talvolta anche con un po' di palestra nella politica locale, che cercano un varco per farsi strada. La ristrutturazione dell'offerta della destra non potrà prescinderne.

Angelo Panebianco

25 marzo 2013 | 7:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_25/panebianco-perche-non-ce-un-renzi-nel-pdl_7896d738-9512-11e2-84c1-f94cc40dd56b.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Due scenari da evitare
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2013, 06:36:18 pm
LA SCELTA DEL CAPO DELLO STATO

Due scenari da evitare

I parlamentari che fra meno di due settimane dovranno scegliere il prossimo presidente della Repubblica sono certamente consapevoli delle poste in gioco secondarie connesse a quella scelta, ma non sembrano esserlo altrettanto di quella principale. La posta in gioco principale non è, detto con tutto il rispetto, il destino personale di Bersani o di Berlusconi. E nemmeno la scelta fra un governo di tregua e le elezioni. La posta in gioco principale è il destino della Repubblica. Parole grosse, certamente, che richiedono una spiegazione. Che sia in gioco il destino della Repubblica dipende dal fatto che la concomitanza di tre crisi (economica, politica, istituzionale) fa della Presidenza l'unico possibile «luogo» di difesa e di (parziale) stabilizzazione della democrazia rappresentativa. Un ruolo altamente politico, politicissimo, che va molto al di là della pura funzione di garanzia. Un ruolo imposto dalla forza delle cose e non dalla volontà di chicchessia. Un ruolo non previsto in questi termini dalla Carta del 1948, checché ne dicano certi costituzionalisti esperti nel gioco delle tre carte, che inventano sempre nuovi argomenti ad hoc per dimostrare che nulla è mai cambiato.

Tutti oggi si concentrano, comprensibilmente, sullo stallo politico prodotto dalla mancanza di una maggioranza parlamentare. Ma questo è forse il minore dei nostri guai. Chi pensa che sarebbe sufficiente riformare la legge elettorale non capisce o finge di non capire. Gli sfugge la gravità e la profondità della crisi. Significa che nemmeno il clamoroso successo del Movimento 5 Stelle è riuscito a scalfire tante pseudo-certezze. Non si tiene conto di quanto sia ormai profonda la crisi dello Stato: come testimonia la condizione in cui versa l'amministrazione pubblica (che dello Stato, qui come altrove, è il cuore). Né si tiene conto del fatto che la fragilità della classe politica parlamentare non ha facili soluzioni. Se anche dalle prossime elezioni dovesse uscire una maggioranza di governo, quella fragilità non verrebbe meno. Perché ha a che fare con la debolezza e la precarietà dei rapporti fra i partiti e gli elettori. Voto di protesta, frammentazione politica e etero-direzione (gruppi extrapolitici di varia natura che impongono le proprie scelte a una classe partitica priva di forza e di autorevolezza proprie) ne sono la conseguenza.

In queste condizioni, sulle spalle del presidente della Repubblica, grazie alla durata del suo mandato, ai suoi poteri formali e di fatto, e al carisma che circonda l'istituzione della Presidenza (un carisma cresciuto nel tempo a partire da quando, negli anni Ottanta, iniziò la crisi della Repubblica dei partiti), è stato caricato un peso da novanta. Spetta a lui, o a lei, con le sue scelte, tenere insieme la Repubblica. Le sue qualità e capacità personali diventano decisive.

Non si tratta, moralisticamente, di deprecare il fatto che i politici badano, anche nella scelta di un Presidente, ai propri interessi di breve termine. È così, è un fatto. Deprecarlo è come prendersela con la legge di gravità perché ci impedisce di librarci nell'aria. Si tratta però di pretendere la consapevolezza che l'inevitabile perseguimento degli interessi di breve termine, partigiani, delle varie forze politiche, debba conciliarsi con il carattere strategico (per la sorte della Repubblica) della elezione del nuovo Presidente.

Nelle circostanze presenti, significa evitare che si realizzi l'uno o l'altro di due scenari, entrambi potenzialmente esiziali. Lo scenario A (da evitare) è quello di un accordo al ribasso: si sceglie una figura di scarsa rilevanza, in grado di svolgere solo un ruolo notarile, una figura che non riuscirebbe a entrare in sintonia con l'opinione pubblica, ad acquistare quella popolarità, e anche quel carisma personale, che, ormai, la dilatazione del ruolo politico della Presidenza impone.

Lo scenario B (anch'esso da evitare) è quello della scelta di una persona, magari anche dotata di un certo prestigio personale di partenza ma che, per le modalità della sua elezione, appaia all'opinione pubblica, come il Presidente di una sola parte. Il che accadrebbe oggi (il pericolo non è ancora del tutto rientrato) se un partito come il Pd, reduce da una non-vittoria elettorale, si eleggesse qualcuno di sua scelta acchiappando voti grillini in libera uscita. Quel Presidente sarebbe, fin dall'inizio del suo mandato, un'anatra zoppa. Ogni sua mossa verrebbe interpretata alla luce di quel vizio d'origine, sarebbe accompagnata da cori (applausi e fischi) da stadio. Le tante decisioni difficili e sofferte che dovrebbe prendere, nel corso del suo settennato, stante la persistente fragilità della classe politica parlamentare, avrebbero sempre l'effetto di dividere e mai di unire il Paese. Aggravando ulteriormente la crisi della Repubblica.

Uomo o donna che sia, il prossimo Presidente non potrà essere né una mezza figura né un'anatra zoppa. Perché dovrà unire (come è riuscito a Giorgio Napolitano), in tempi cupissimi per la nostra democrazia, la funzione del garante di tutti e le qualità politiche ormai richieste a un Presidente. Per questo è così strategica la sua scelta.

Naturalmente, sarebbe anche tempo di capire che, se si vorrà mettere in sicurezza la Repubblica, non si potrà ancora a lungo pretendere di «contenere» il ruolo del Presidente entro le formule costituzionali vigenti, occorrerà decidersi a ricomporre il rapporto fra potere e responsabilità mediante la sua elezione diretta. Ma questo passo, così logico e così necessario, richiederà alle classi dirigenti del Paese molta più energia morale e intellettuale, e molta più forza, di quelle oggi disponibili.

Angelo Panebianco

10 aprile 2013 | 7:32© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_10/due-scenari-da-evitare-editoriale-panebianco_0e1408b8-a19c-11e2-8e0a-db656702af56.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le volpi e i leoni della Repubblica
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2013, 12:15:53 am
LA RETE E LA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA

Le volpi e i leoni della Repubblica


Siamo alla vigilia di una mutazione della Repubblica italiana? Le «volpi» stanno per essere sopraffatte dai «leoni»? È accaduto tante volte. Sta per accadere in Italia? Il modo in cui avverrà l'elezione del presidente della Repubblica non ci darà la risposta conclusiva ma forse chiarirà quale sia la direzione del nostro cammino. Tutto si riduce a un interrogativo: il Movimento 5 Stelle sarà determinante nella elezione del presidente, i suoi leader potranno intestarsi, di fronte alla opinione pubblica nazionale e internazionale, il titolo di king-makers ? Se ciò accadrà guadagneranno una legittimazione che li galvanizzerà e li renderà fortissimi, e anche coloro che si sono fin qui ostinati a non prendere sul serio le loro idee, la loro visione del mondo, i loro programmi, dovranno abbandonare ogni illusione. Perché nessuna delle due strategie immaginate per fronteggiare l'affermazione di questo nuovo soggetto politico reggerebbe.

Risulterebbe impraticabile la strategia passiva (« ha da passà 'a nuttata »), di chi immagina che i 5 Stelle siano una meteora (come L'Uomo Qualunque o i poujadisti nella Francia degli anni Cinquanta) e che sia sufficiente aspettare che si distruggano da soli. Così come risulterebbe illusoria la strategia di chi ha pensato che fosse possibile coinvolgerli nel gioco politico con lo scopo di addomesticarli, di de-radicalizzarli (o, in subordine, di dividerli). Vari precedenti storici testimoniano di come il tentativo suddetto possa facilmente risolversi in un suicidio politico.

Il guanto della sfida alla nostra acciaccatissima democrazia rappresentativa è stato lanciato e, fino ad oggi, senza sbagliare un colpo. Non è vero che la democrazia rappresentativa sia sul punto di essere resa obsoleta, nel mondo occidentale, per l'avvento della cosiddetta democrazia del web. La democrazia rappresentativa è oggi, quasi dappertutto in Europa, in grave sofferenza a causa di una prolungata crisi economica. Solo in Italia (e in pochi altri luoghi), però, potrebbe uscirne davvero travolta o stravolta. Per la gracilità e il malfunzionamento delle nostre istituzioni e la radicalità degli odi che dividono le élite politiche tradizionali.

Occorrerebbe un governo stabile per porre in essere le condizioni necessarie alla ripresa economica. Ma la profondità della crisi politico-istituzionale, e il no di Bersani e dei suoi seguaci a un accordo con Berlusconi, rendono, al momento, impossibile la sua nascita. È un circolo vizioso: l'incapacità della politica tradizionale di trovare soluzioni stabili pone le condizioni per un ulteriore aggravamento della crisi economica e ciò promette di fare ulteriormente lievitare la protesta contro la politica tradizionale. Dove si colloca il punto di rottura? Quale è il momento superato il quale non c'è più ritorno?

La democrazia assembleare, checché molti oggi ne pensino, non è la soluzione. Ha funzionato qualche volta, solo in comunità piccole e isolate, autarchiche. Ove prevalgono le grandi dimensioni e l'interdipendenza sostituisce l'autarchia, la democrazia rappresentativa è la sola democrazia possibile. La partecipazione via web può influenzarla ma non surrogarla.

La sfida portata da un movimento rivoluzionario come i 5 Stelle risulterà, col senno del poi, un grande servizio per il Paese se convincerà anche i più accesi conservatori della necessità di un nuovo patto costituzionale, di una rigenerazione della democrazia rappresentativa mediante radicali innovazioni.

Angelo Panebianco

15 aprile 2013 | 7:51© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_15/le-volpi-e-i-leoni-della-repubblica-panebianco_83fa088c-a58b-11e2-956c-2114dad3bbcc.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. IL PD E IL PESO DEL PASSATO
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2013, 04:22:36 pm
IL PD E IL PESO DEL PASSATO

Lo sguardo al Novecento

Si sa che sulle sorti del governo Letta peseranno soprattutto i modi e i tempi della ridefinizione degli equilibri interni al Partito democratico, uscito totalmente destabilizzato dalle elezioni e da ciò che ne è seguito. È possibile che alcune delle cause della crisi del Pd non siano del tutto chiare a molti dei suoi stessi militanti.

Che cosa ha fin qui frenato quel partito, che cosa gli ha impedito di darsi una identità adeguata, spendibile con più successo nelle nuove condizioni della competizione politica? È stato soprattutto il peso del passato . Il Pd non ha una identità adeguata, utile per vincere le elezioni, perché tende a perpetuare al proprio interno concezioni, di se stesso, del proprio rapporto con gli elettori e con la società italiana, ereditate dal passato e che sono incompatibili con le circostanze presenti.

Il problema principale è che, per un antico retaggio, il Pd concepisce il proprio elettorato assai più come un «blocco» che come un insieme di «flussi». Vediamo cosa ciò significhi. Nato dall'unione fra l'ex Pci e l'ex sinistra democristiana, guidato da persone formatesi in quelle esperienze, il Pd ha ereditato la visione del rapporto fra partiti ed elettori allora dominante. All'epoca, il sistema politico italiano era immobilizzato dalla conventio ad excludendum (la permanente esclusione del Pci, a causa della guerra fredda, dall'area di governo). Inoltre, la mobilità elettorale era molto bassa: pochi elettori si spostavano da un partito all'altro; pochissimi si trasferivano da sinistra a destra e viceversa. In un sistema statico come quello, si conducevano solo guerre di posizione. Il problema dei partiti non era conquistare un bel po' di voti altrui (cosa praticamente impossibile) ma mantenere, conservare, elezione dopo elezione, il proprio «pacchetto», il proprio blocco di voti. Si pensi al Pci. Escluso dalla possibilità di andare al governo, aveva certo interesse ad ottenere qualche voto in più ma l'interesse prevalente, dominante, era conservare i voti già acquisiti. Anche la sinistra democristiana, impegnata nelle lotte con le altre correnti Dc, aveva lo stesso problema: conservare i propri consensi, condizione necessaria per continuare a praticare il gioco del potere dentro l'allora partito di maggioranza relativa.

In un mondo statico, la cosa che conta è preservare la propria forza, non c'è spazio per innovative strategie di conquista: le vittorie e le sconfitte elettorali, in un mondo siffatto, si giocano ai margini, in virtù di piccoli pugni di voti che si spostano, erraticamente, di qua o di là. Sono queste circostanze che portano a pensare al proprio elettorato come a un blocco che, in quanto tale, potrebbe in qualunque momento «spezzarsi»: occorre quindi farne oggetto di manutenzione continua, innaffiarlo, coccolarlo, tenerlo unito a tutti i costi. «La base non capirebbe» è la frase che, in quel mondo, pone termine a ogni discussione nel caso in cui qualcuno, poco consapevole delle vere regole del gioco, si azzardi a proporre idee nuove o innovazioni strategiche.

Si pensi, per contrasto, a un qualunque dirigente di partito (ad esempio, di un partito socialdemocratico) di un altro Paese europeo. Quel dirigente, nell'epoca della propria formazione politica, ha conosciuto un mondo più dinamico. Il suo partito qualche volta ha vinto le elezioni ed è andato al governo, altre volte le ha perse ed è andato all'opposizione. Certamente, anche in quel partito c'era un nucleo di elettori stabili che non potevano essere troppo maltrattati, ma il nostro dirigente socialdemocratico sapeva che per vincere le elezioni bisognava fare guerre di movimento. Sapeva che occorrevano proposte politiche vincenti e che una nuova proposta è vincente se, pur scontentando, come è inevitabile, vecchi elettori, riesce a conquistarne di nuovi (ovviamente, in quantità superiore a quelli che si perdono). Sapeva che si vincono le elezioni solo se il flusso di elettori in entrata (i nuovi elettori che voteranno per il partito) risulterà superiore al flusso di elettori in uscita.

Il problema del Pd è che, guidato da persone che sono state iniziate alla politica nell'ultima fase della Prima Repubblica, ha continuato a pensare, anche nel ventennio successivo, al rapporto con gli elettori nel modo statico di allora (l'elettorato come blocco anziché come insieme di flussi) mentre, nel frattempo, il mondo circostante diventava sempre più fluido e dinamico. Si pensi, da ultimo, alle primarie Bersani/Renzi. È stato anche uno scontro fra la concezione statica e quella dinamica del rapporto con l'elettorato. Matteo Renzi diceva una cosa che sarebbe apparsa ovvia, scontata, perfino banale, in qualunque altro Paese, ossia che per vincere le elezioni bisognava parlare agli elettori di Berlusconi. Ma poiché la concezione prevalente nel partito, ereditata dal passato, era quella descritta, questa tesi suonava come eretica, scandalosa, alle orecchie dei tradizionalisti, e Renzi stesso veniva fatto passare per un cripto-berlusconiano.

Il Pd nacque su una parola d'ordine - «vocazione maggioritaria» - che avrebbe richiesto, se presa davvero sul serio, un radicale rinnovamento di mentalità e di concezioni. Quel rinnovamento non c'è stato. Se non avverrà in tempi rapidi il Pd chiuderà malamente la sua parabola. Dove tutto è in movimento non c'è futuro per chi si attarda in guerre di posizione.

Angelo Panebianco

5 maggio 2013 | 9:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_05/panebianco-sguardo-al-novecento_0537c0de-b549-11e2-86df-caa1160f5c6a.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. LA LUNGA «GUERRA CIVILE» ITALIANA
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2013, 11:56:09 pm
LA LUNGA «GUERRA CIVILE» ITALIANA

UN ARMISTIZIO INDISPENSABILE


Può essere il governo Letta lo strumento per chiudere venti anni di una «guerra civile» come ha auspicato due giorni fa Berlusconi? Ci sono ostacoli pesanti. Ma anche qualche motivo di speranza. Gli ostacoli sono di due tipi. Alcuni hanno a che fare con la congiuntura politica, altri con certe caratteristiche del Paese.

La coincidenza fra la nascita del governo e l'arrivo a sentenza dei processi a Berlusconi ha subito colpito l'esecutivo accrescendo le fibrillazioni all'interno dei due alleati/nemici che lo sostengono, Pdl e Pd. C'è poi, anche a prescindere dai processi, la crisi del Pd: le sue convulsioni si scaricano (dichiarazione del Pd Zanda sulla ineleggibilità di Berlusconi) e continueranno ogni giorno a scaricarsi sul governo. Né si sa ancora se il traghettatore Epifani potrà scongiurare il rischio scissione. Poiché è evidente che una parte di quel partito anela solo a cambiare cavallo e ad abbracciare i 5 Stelle. Se la crisi del Pd si aggravasse ulteriormente, il governo Letta finirebbe in malo modo e la previsione di Beppe Grillo avrebbe qualche chance di diventare realtà: il futuro bipolarismo potrebbe vedere da una parte il centrodestra e dall'altra i 5 Stelle. Tutto meno che uno scenario di pacificazione.

Oltre a ragioni contingenti ci sono anche ragioni più profonde che hanno fin qui reso la lotta politica in Italia (rovesciando la formula di Clausewitz) «la continuazione della guerra con altri mezzi», una guerra civile fredda. Non è detto che quando Berlusconi lascerà il campo, il conflitto fra destra e sinistra in Italia potrà assumere toni e modi meno esasperati, propri della normale dialettica democratica. Può essere che berlusconismo e antiberlusconismo siano stati fin qui, almeno in parte, uno schermo che ci ha nascosto una faccia del problema. Grattando la superficie, dietro il «Berlusconi sì/Berlusconi no» su cui siamo inchiodati da venti anni, possiamo scoprire i solchi che dividono alcune «tribù sociali» italiane. Si considerino i due grandi blocchi del lavoro dipendente (soprattutto pubblico) e del lavoro autonomo. Prima dell'ingresso in scena di Grillo, questi due blocchi sono stati soprattutto serbatoi di voti, rispettivamente, della sinistra e della destra. L'ostilità che li divide è antica. Per tanti lavoratori dipendenti il lavoro autonomo è sinonimo di evasione fiscale e i lavoratori autonomi sono, in gran parte, «ladri». Sono tanti quelli che descrivono gli autonomi (per lo più elettori di destra) come un branco di approfittatori e disonesti. I lavoratori autonomi, a loro volta, pensano ogni male di tanti impiegati pubblici (per lo più, elettori di sinistra): parassiti e mangiatori a ufo.

Sono stereotipi antichi. Ma il bipolarismo li ha esasperati collegando più strettamente di quanto non avvenisse nella Prima Repubblica - dove la divisione era attutita grazie all'interclassismo democristiano - le due opposte tribù (dipendenti pubblici/autonomi) ai due opposti schieramenti politici.

Se poi a questa contrapposizione, di interessi e ideologica, fra gruppi occupazionali, sommiamo le divisioni regionali (Nord/Sud) ecco comporsi un quadro di ostilità incrociate, radicate e, a tratti, anche feroci. Queste divisioni, se la politica non riuscirà a rimuovere certi fattori che alimentano le tensioni, continueranno a esasperare la lotta politica in Italia. Con o senza Berlusconi.

C'è però anche qualche elemento di speranza. Dipende, paradossalmente, proprio dalla gravità della crisi, dal fatto che siamo in presenza di una emergenza economica e politica molto grave. Sono le situazioni di emergenza quelle che a volte suscitano energie inaspettate. Soprattutto, sono quelle situazioni che spingono talvolta gli uomini di governo a rischiare, a impegnarsi in azioni innovative, azioni che non intraprenderebbero in tempi normali. Essi potrebbero fare leva su alcuni punti di forza del Paese. Il quadro non è solo a tinte scure. C'è, per cominciare, il tessuto della provincia italiana, soprattutto in certe zone. Molto meno disgregato di ciò che appare se si osserva solo la vita pubblica delle grandi città. Ci sono risorse, anche di coesione sociale, che la crisi non è ancora riuscita a intaccare e che una politica saggia può valorizzare e utilizzare.

Ma si pensi anche alla divisione, sopra richiamata, fra lavoro dipendente pubblico e lavoro autonomo. La politica, con le mosse giuste, può renderla meno esasperata. Occorre una fiscalità meno vessatoria e una riduzione del carico burocratico per venire incontro alle esigenze del lavoro autonomo. E occorre intervenire sulla macchina dello Stato anche per consentire alla parte di dipendenti pubblici che aspira a lavorare in modo decoroso la possibilità di farlo. È difficile ma non impossibile. Per riuscirci bisogna mettere alla frusta quell'alta dirigenza che è stata corresponsabile, insieme alla politica, dei malanni che affliggono l'amministrazione. Se non lo si fa in una situazione di emergenza quando sarà mai possibile? E occorre infine che la politica trovi il coraggio per fare le necessarie innovazioni istituzionali e mettere così in sicurezza la democrazia. Le forze che vi si oppongono sono potenti.

C'è in questo Paese una radicata e diffusa cultura politica per la quale cambiare la Costituzione è sinonimo di «golpe», di svolta autoritaria e reazionaria. Quel fine giurista che è Gustavo Zagrebelsky (vedi la sua intervista di ieri a la Repubblica ) è forse il più autorevole portavoce di quella tendenza. Pensare, come egli pensa, che riformare seriamente la Costituzione (per esempio, in senso presidenziale) significhi «normalizzare» l'Italia al servizio di non meglio specificate oligarchie, comporta la richiesta che nulla di serio si faccia per salvare la democrazia italiana. Significa, se quella tendenza conservatrice prevalesse, condannare il Paese alla paralisi e a un declino politico garantito. Pochi, nel mondo, scommetterebbero sull'Italia. Siamo tenuti a farlo noi.

Angelo Panebianco

19 maggio 2013 | 8:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_19/un-armistizio-indispensabile-panebianco_a87af51a-c04b-11e2-9979-2bdfd7767391.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. CASO RENZI E FINANZIAMENTI PUBBLICI
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2013, 05:58:57 pm
CASO RENZI E FINANZIAMENTI PUBBLICI

Sguardi rivolti al passato

Matteo Renzi avrebbe potuto essere - e potrebbe essere ancora, se commettesse meno errori - la novità della politica italiana. È l'unico che, sulla carta, possiede il carisma per riassorbire la sfida grillina, l'unico che potrebbe impedire lo sfaldamento del Partito democratico e la conseguente affermazione di un inedito bipolarismo fra i 5 Stelle e il centrodestra. E' l'unico che potrebbe, per la prima volta nella sua storia ultrasecolare, dare una identità stabilmente riformista a una sinistra da sempre condizionata, quando non dominata, da correnti massimaliste.
Le condizioni sono cambiate rispetto a quando, solo pochi mesi fa, Renzi sfidò Bersani nelle primarie. Allora il Pd era ancora un partito sicuro di sé, orgoglioso delle proprie radici, di una storia che risaliva alla Prima Repubblica.

Un partito che, con la segreteria Bersani, aveva messo brutalmente da parte, trattandolo come un mero incidente di percorso, il tentativo di Walter Veltroni, primo segretario del Partito democratico, di introdurre una certa discon- tinuità e un po' di innovazione nella sinistra italiana. In quel momento i sondaggi davano ragione a Bersani e alla sua linea all'insegna della continuità con il passato. Renzi, vissuto dai militanti come un corpo estraneo, e una minaccia alla tradizione e alla loro stessa identità, e percepito dall'apparato di partito come un pericolo mortale, non avrebbe potuto vincere quelle primarie neppure se le regole elettorali fossero state per lui meno penalizzanti.

Lo scenario ora è assai diverso. Il partito è a pezzi, vicino all'implosione. Adesso sì che Renzi potrebbe prenderselo, sicuro di essere accolto come un salvatore anche da molti di coloro che, all'epoca delle primarie, lo trattavano da «destro», da «berlusconiano». Come tutte le organizzazioni anche i partiti, quando è a rischio la loro sopravvivenza, sono pronti a gettarsi fra le braccia di un messia che mostri di conoscere quale sia la via d'uscita dall'inferno. Se non ora quando?
Ma Renzi, incomprensibilmente, non ci sta. Si dichiara non interessato alla leadership del partito. In molti lo abbiamo ascoltato con una certa curiosità alcuni giorni fa a Porta a Porta . Il suo eloquio brillante e veloce non riusciva a nascondere la debolezza della sua posizione. Ad esempio, non puoi dire che non conta chi controlla il partito ma conta che il partito non sia autoreferenziale (come spesso accade ai partiti caratterizzati dalla presenza di consistenti apparati) e che, pertanto, per rinnovarlo, occorra eliminare il finanziamento pubblico. Non puoi dirlo senza cadere in una vistosa contraddizione. Il finanziamento pubblico, grazie al quale si sono fin qui riprodotti gli apparati, si mantiene per il fatto che quegli apparati riescono di solito a procurarsi leadership compiacenti, che li tutelino. Se vuoi ridimensionare l'apparato (che consideri una causa dell'autorefe- renzialità) eliminando il finanziamento pubblico, devi impadronirti del partito. Probabilmente lo si vedrà fra breve, quando cominceranno le sorde resistenze parlamentari contro la proposta del governo tesa ad abolire il finanziamento pubblico.

Il Partito democratico è, soprattutto, la sua segreteria e la sua tesoreria. Se non ti prendi segreteria e tesoreria sei destinato a contare poco o nulla.

È singolare che una leadership che si presenta come innovatrice si saldi poi a una strategia che fa tanto Prima Repubblica. Una strategia del tipo: a me il governo, a voi il partito. Come nella vecchia Dc: la segreteria all'esponente della fazione A, Palazzo Chigi all'esponente della fazione B.
Si noti la differenza fra la posizione di Renzi oggi e quella che fu di Romano Prodi negli anni Novanta, ai tempi dell'Ulivo. Prodi fu il candidato al governo di una coalizione i cui partiti egli non controllava. Ma Prodi era giunto a quella posizione «dall'esterno», non veniva (a differenza di Renzi) da battaglie condotte dentro il principale partito della coalizione. Era un uomo allora spendibile contro Berlusconi per il suo profilo di tecnico di area con un prestigio acquisito nei posti di responsabilità occupati. E in ogni caso, con l'Ulivo, Prodi riuscì a essere, per un certo periodo, il leader di governo più adatto per la sinistra nella (allora) nuova età bipolare.
Renzi ha tutt'altra storia (viene dalla politica di partito) e agisce in tutt'altra congiuntura. Una congiuntura nella quale non c'è più la coalizione che sorresse Prodi, e in cui il rischio che si corre è quello del definitivo ritorno (ma senza più i solidi partiti di allora) alle logiche politiche da Prima Repubblica. L'attuale strategia di Renzi, se non cambierà, sembra fatta per contribuire a quel ritorno, non per impedirlo.

Forse serve altro. Serve un Renzi che (come fece il suo modello Tony Blair) si impadronisca del partito, lo trasformi, anche a costo di pagare il prezzo di una scissione a sinistra, per farne il docile strumento di una politica innovatrice, e dopo (e soltanto dopo) si candidi alla guida del governo. Oltre a tutto, tale scelta sarebbe la più coerente con la suggestione maggioritaria e presidenzialista («eleggiamo il sindaco d'Italia») che Renzi accarezza. L'errore, se di un errore si tratta, sta nel contrasto fra il messaggio e la strategia, fra ciò che Renzi propone e ciò che fa (o non fa). Nell'Italia dei mille paradossi accade spesso che il ritorno al passato venga spacciato per una grande novità. Sarebbe una occasione sprecata, e non solo per il Pd, se, alla fine, dovessimo archiviare sotto questa voce anche il caso di Matteo Renzi.

Angelo Panebianco

25 maggio 2013 | 7:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_25/panebianco-sguardi-rivolti-al-passato_e6040dfc-c4f8-11e2-896c-3db9fdd7e316.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. - CASO RENZI E FINANZIAMENTI PUBBLICI...
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2013, 04:58:20 pm
CASO RENZI E FINANZIAMENTI PUBBLICI

Sguardi rivolti al passato


Matteo Renzi avrebbe potuto essere - e potrebbe essere ancora, se commettesse meno errori - la novità della politica italiana. È l'unico che, sulla carta, possiede il carisma per riassorbire la sfida grillina, l'unico che potrebbe impedire lo sfaldamento del Partito democratico e la conseguente affermazione di un inedito bipolarismo fra i 5 Stelle e il centrodestra. E' l'unico che potrebbe, per la prima volta nella sua storia ultrasecolare, dare una identità stabilmente riformista a una sinistra da sempre condizionata, quando non dominata, da correnti massimaliste.
Le condizioni sono cambiate rispetto a quando, solo pochi mesi fa, Renzi sfidò Bersani nelle primarie. Allora il Pd era ancora un partito sicuro di sé, orgoglioso delle proprie radici, di una storia che risaliva alla Prima Repubblica.

Un partito che, con la segreteria Bersani, aveva messo brutalmente da parte, trattandolo come un mero incidente di percorso, il tentativo di Walter Veltroni, primo segretario del Partito democratico, di introdurre una certa discon- tinuità e un po' di innovazione nella sinistra italiana. In quel momento i sondaggi davano ragione a Bersani e alla sua linea all'insegna della continuità con il passato. Renzi, vissuto dai militanti come un corpo estraneo, e una minaccia alla tradizione e alla loro stessa identità, e percepito dall'apparato di partito come un pericolo mortale, non avrebbe potuto vincere quelle primarie neppure se le regole elettorali fossero state per lui meno penalizzanti.

Lo scenario ora è assai diverso. Il partito è a pezzi, vicino all'implosione. Adesso sì che Renzi potrebbe prenderselo, sicuro di essere accolto come un salvatore anche da molti di coloro che, all'epoca delle primarie, lo trattavano da «destro», da «berlusconiano». Come tutte le organizzazioni anche i partiti, quando è a rischio la loro sopravvivenza, sono pronti a gettarsi fra le braccia di un messia che mostri di conoscere quale sia la via d'uscita dall'inferno. Se non ora quando?
Ma Renzi, incomprensibilmente, non ci sta. Si dichiara non interessato alla leadership del partito. In molti lo abbiamo ascoltato con una certa curiosità alcuni giorni fa a Porta a Porta . Il suo eloquio brillante e veloce non riusciva a nascondere la debolezza della sua posizione. Ad esempio, non puoi dire che non conta chi controlla il partito ma conta che il partito non sia autoreferenziale (come spesso accade ai partiti caratterizzati dalla presenza di consistenti apparati) e che, pertanto, per rinnovarlo, occorra eliminare il finanziamento pubblico. Non puoi dirlo senza cadere in una vistosa contraddizione. Il finanziamento pubblico, grazie al quale si sono fin qui riprodotti gli apparati, si mantiene per il fatto che quegli apparati riescono di solito a procurarsi leadership compiacenti, che li tutelino. Se vuoi ridimensionare l'apparato (che consideri una causa dell'autorefe- renzialità) eliminando il finanziamento pubblico, devi impadronirti del partito. Probabilmente lo si vedrà fra breve, quando cominceranno le sorde resistenze parlamentari contro la proposta del governo tesa ad abolire il finanziamento pubblico.

Il Partito democratico è, soprattutto, la sua segreteria e la sua tesoreria. Se non ti prendi segreteria e tesoreria sei destinato a contare poco o nulla.
È singolare che una leadership che si presenta come innovatrice si saldi poi a una strategia che fa tanto Prima Repubblica. Una strategia del tipo: a me il governo, a voi il partito. Come nella vecchia Dc: la segreteria all'esponente della fazione A, Palazzo Chigi all'esponente della fazione B.
Si noti la differenza fra la posizione di Renzi oggi e quella che fu di Romano Prodi negli anni Novanta, ai tempi dell'Ulivo. Prodi fu il candidato al governo di una coalizione i cui partiti egli non controllava. Ma Prodi era giunto a quella posizione «dall'esterno», non veniva (a differenza di Renzi) da battaglie condotte dentro il principale partito della coalizione. Era un uomo allora spendibile contro Berlusconi per il suo profilo di tecnico di area con un prestigio acquisito nei posti di responsabilità occupati. E in ogni caso, con l'Ulivo, Prodi riuscì a essere, per un certo periodo, il leader di governo più adatto per la sinistra nella (allora) nuova età bipolare.
Renzi ha tutt'altra storia (viene dalla politica di partito) e agisce in tutt'altra congiuntura. Una congiuntura nella quale non c'è più la coalizione che sorresse Prodi, e in cui il rischio che si corre è quello del definitivo ritorno (ma senza più i solidi partiti di allora) alle logiche politiche da Prima Repubblica. L'attuale strategia di Renzi, se non cambierà, sembra fatta per contribuire a quel ritorno, non per impedirlo.

Forse serve altro. Serve un Renzi che (come fece il suo modello Tony Blair) si impadronisca del partito, lo trasformi, anche a costo di pagare il prezzo di una scissione a sinistra, per farne il docile strumento di una politica innovatrice, e dopo (e soltanto dopo) si candidi alla guida del governo. Oltre a tutto, tale scelta sarebbe la più coerente con la suggestione maggioritaria e presidenzialista («eleggiamo il sindaco d'Italia») che Renzi accarezza. L'errore, se di un errore si tratta, sta nel contrasto fra il messaggio e la strategia, fra ciò che Renzi propone e ciò che fa (o non fa). Nell'Italia dei mille paradossi accade spesso che il ritorno al passato venga spacciato per una grande novità. Sarebbe una occasione sprecata, e non solo per il Pd, se, alla fine, dovessimo archiviare sotto questa voce anche il caso di Matteo Renzi.

Angelo Panebianco

25 maggio 2013 | 16:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_25/panebianco-sguardi-rivolti-al-passato_e6040dfc-c4f8-11e2-896c-3db9fdd7e316.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. SOSTEGNO PUBBLICO (QUALE?) E PRIVATO
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2013, 03:12:11 pm
SOSTEGNO PUBBLICO (QUALE?) E PRIVATO

Il salario della politica

La questione finanziamento è viziata da un eccesso di ideologia: così è difficile il contributo volontario del cittadino ai partiti


Quando si dice che in tutta Europa esistono finanziamenti pubblici ai partiti si dice solo mezza verità. Bisogna aggiungere che noi ne abbiamo fatto un uso particolarmente sciagurato (si veda l’ottima analisi di Sergio Rizzo sul Corriere di ieri a pagina 9). E che in quasi tutti quei Paesi il finanziamento pubblico si accompagna a un sistema ben disciplinato e legittimato (accettato dai cittadini) di finanziamenti volontari privati. Non avendo mai avuto un rapporto «laico», pragmatico, non ideologico, con il ruolo politico del denaro, siamo riusciti a fare del finanziamento della politica un mezzo di delegittimazione della democrazia.

Ora c’è l’obbligo di rimediare ma le resistenze sono formidabili. Nel disegno di legge del governo ci sono cose buone e meno buone. Il rischio è che al termine dell’iter parlamentare diventino pessime le cose meno buone e inefficaci quelle buone.

È buono che si prevedano agevolazioni fiscali per i contributi volontari. Incentivare tali contributi significa favorire una forma di partecipazione che avvicina il cittadino alla politica. I contributi volontari sono anche una valida misura della popolarità di cui gode ciascun partito. D’altra parte, è vero anche che occorre fissare un tetto alle donazioni (su questo punto quelli del Pdl non possono fare troppo i furbi). Solo con tetti alle donazioni si chiude la bocca a quelli che paventano lo strapotere dei più ricchi.

Vanno benissimo anche le agevolazioni statali indirette (bollette telefoniche, spazi in tv, eccetera). Ma poiché il diavolo si nasconde nei dettagli, bisognerà vedere quale sarà la formulazione finale. La cosa non buona, anzi pessima, riguarda la destinazione del 2 per mille imposta anche ai contribuenti che non esprimano preferenze. È un modo per mantenere in vita, surrettiziamente, il finanziamento pubblico centralizzato. Il più grave problema del finanziamento pubblico centralizzato è che esso concentra una grande massa di denaro nelle mani di pochissimi (coloro che controllano le tesorerie centrali dei partiti) dando così a piccole oligarchie i mezzi per riprodursi indefinitamente sbaragliando qualunque avversario. C’è differenza fra dare alla democrazia le risorse necessarie al suo funzionamento e permettere a piccoli gruppi di fare il bello e il cattivo tempo con i soldi del contribuente.

Se si pensa che un sistema di agevolazioni e di contributi privati non sia sufficiente per finanziare la politica allora si ricorra anche a forme «vere», non truffaldine, di rimborsi: l’eletto documenti le sue spese elettorali e riceva direttamente dallo Stato (senza la mediazione della tesoreria di partito) un parziale rimborso.

In un Paese in cui la questione del finanziamento della politica è sempre stata viziata da un eccesso di ideologia (e di ipocrisia, che ne è la compagna inseparabile) è difficile mettere in moto quella sanissima forma di partecipazione che è il contributo volontario del cittadino al partito che preferisce e che di per sé rafforza la democrazia.

Naturalmente, quando si parla di denaro e politica tutto si tiene. Non è possibile far decollare un sistema trasparente di finanziamenti volontari alla politica, senza dare anche un efficace statuto legale all’attività lobbistica. Una attività da sempre criminalizzata da coloro (esistono ancora, e sono tanti, in barba alle lezioni del Novecento) che continuano ad avversare il capitalismo di mercato. L’attività lobbistica va disciplinata. È il solo modo per legittimarla.

Angelo Panebianco

3 giugno 2013 | 14:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_03/salario-politica-sostegno-pubblico-privato-panebianco_e576c144-cc06-11e2-baa8-7c6869fac9d2.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. ILLUDERSI CHE BERLINO CAMBI LINEA La coscienza del più forte
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2013, 10:05:59 am
ILLUDERSI CHE BERLINO CAMBI LINEA

La coscienza del più forte


È possibile che il processo alla Bce - perché di questo, in realtà, si tratta - che si sta svolgendo a Karlsruhe, sede della Corte costituzionale tedesca, si concluda con una assoluzione. È possibile cioè che la Corte alla fine respinga il ricorso per incostituzionalità contro le omt ( outright monetary transactions ), l'acquisto di titoli pubblici dei Paesi in difficoltà ideato e realizzato da Mario Draghi. Se così non fosse l'euro entrerebbe probabilmente in una crisi irreversibile e difficilmente la Corte tedesca vorrebbe intitolarsene la paternità. Ma il fatto stesso che quel procedimento sia iniziato la dice lunga sullo stato di salute (pessimo) dell'Europa.

Ne avremo quasi certamente un'ulteriore dimostrazione l'anno prossimo, al momento delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Ci si aspetta, per quella occasione, una valanga di voti ai tanti movimenti antieuropei che si agitano in tutta l'Unione. Il genio «nazionalista» (antieuropeo) è uscito dalla lampada e sarà difficile imprigionarlo di nuovo. A meno di un miracolo, a meno che, nel frattempo, l'Europa sperimenti una forte ripresa economica, della quale però non si vedono le condizioni.

Per oltre cinquanta anni (almeno fino al referendum francese del 2005 che disse no al trattato costituzionale) il processo di integrazione europea si era retto su, ed era stato alimentato da, la fiducia reciproca fra i partner. C'era sempre chi voleva accelerare e chi frenava, si confrontavano sempre interpretazioni e aspirazioni più federaliste e interpretazioni e aspirazioni più stataliste, in difesa della sovranità nazionale (Francia). Ma nessuno dubitava del fatto che l'integrazione europea fosse comunque un «gioco a somma positiva», in cui tutti avevano qualcosa da guadagnare.

Adesso non è più così. La fiducia è in larga misura svanita, oggi l'Europa è vista da tanti come un «gioco a somma zero» (qualcuno guadagna e qualcuno perde). Non importa che sia vero o no. Importa che tanti lo credano. Come si ricostituisce la fiducia? Come si rimette il genio nazionalista dentro la lampada? Nessuno lo sa.

Certo è che mentre un tempo l'Europa era una faccenda di cui si occupavano solo le élites (le opinioni pubbliche praticavano il silenzio/assenso, accettavano l'Europa senza fiatare perché ne traevano benefici), ora il gioco è radicalmente cambiato, ora le opinioni pubbliche sono diventate parte integrante, e attiva, attivissima, del processo. E le élites devono tenerne conto. Per mesi e mesi ci siamo sentiti dire che, per affrontare i nodi più gravi, occorreva aspettare le elezioni politiche in Germania (settembre 2013). Perché solo dopo le elezioni, la Merkel (o il suo avversario socialdemocratico se dovesse vincerle) avrà i margini di manovra sufficienti per allentare il rigore, per ridare all'Europa del Sud la possibilità di praticare politiche di sviluppo.

Ma dove sta scritto? Perché mai ciò dovrebbe accadere? Perché la Merkel, o chi per lei, dovrebbe essere disposta, una volta riconfermata nel ruolo di Cancelliere, a sfidare l'impopolarità, a entrare in conflitto con il nazionalismo economico che permea tanta parte dell'opinione pubblica tedesca? La fine della fiducia significa questo: i tedeschi (l'opinione pubblica tedesca) non vogliono che i «loro soldi» servano per togliere dai guai gli spendaccioni europei mediterranei. Gli europei del Sud, a loro volta, ce l'hanno a morte con una Germania che, secondo loro, li strangola, pur ottenendo dall'euro i maggiori vantaggi. E il bello, o il brutto, è che tutti hanno un po' di ragione.

Occorrerebbe un piano B. Ma nessuno ce l'ha. L'Italia e altri Paesi potrebbero minacciare l'uscita dall'euro? Ma le minacce che non possono essere attuate (per eccesso di costi, anche politici) sono, per definizione, poco credibili. Battere i pugni sul tavolo è giusto, cercare di formare in Europa coalizioni per condizionare la Germania, pure. Ma è difficile che si possa fare di più. Tutto ciò che si può portare a casa in questo modo, in termini di allentamento dei vincoli che ci soffocano, sarà naturalmente benvenuto. Ma occorrerà giocare soprattutto su risorse interne, su riduzioni della spesa e dei vincoli burocratici, per ridare respiro all'economia. E bisognerà investire di più su autonomi rapporti esterni che consentano all'Italia di svolgere un ruolo strategico di Paese-cerniera, sul piano economico come su quello politico, fra le più vicine aree extraeuropee e il mondo occidentale.

Possiamo girarci intorno quanto vogliamo ma, pur con tutto il male che c'è da dire sugli spendaccioni europei del Sud, il nostro Paese in testa, l'epicentro della crisi europea risiede in Germania. Il Paese più forte dell'Europa non è interessato a svolgere un ruolo di leadership. Non credo ci sia, come invece molti credono, un perverso piano tedesco per dominare l'Europa provocando scientemente la deindustrializzazione dell'Italia e di altri Paesi. Più semplicemente, la Germania non intende assumersi, oltre agli onori, anche gli oneri della leadership.
Per questo suonano ingenui e un po' patetici gli appelli alla unità politica europea. L'unificazione politica italiana e quella tedesca del XIX secolo avvennero perché Piemonte e Prussia scelsero di unire i due Paesi. La Germania non è oggi disposta a fare qualcosa di simile in Europa.

Angelo Panebianco

15 giugno 2013 | 8:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_15/coscienza-forte_18c1b640-d575-11e2-becd-8fd8278f5bec.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. GLI OSTACOLI INVISIBILI DEL GOVERNO
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2013, 04:43:00 pm
GLI OSTACOLI INVISIBILI DEL GOVERNO

LA PIÙ LARGA OPPOSIZIONE


Ormai il problema si è palesato in tutta la sua gravità. Il governo delle larghe intese appare al momento incapace di aggredire, con la forza necessaria, gli ostacoli che impediscono la ripresa economica, sembra impossibilitato a bloccare la discesa dell'Italia lungo la china della recessione e dell'impoverimento. I provvedimenti fino ad ora presi sono per lo più buoni ma insufficienti. Non certo per carenze personali del presidente del Consiglio o dei principali ministri ma perché i vincoli che incombono sull'azione del governo sono stringenti e soffocanti. E la tecnica del rinvio, dall'Iva all'Imu, come tanti hanno già osservato, non risolve alcun problema.

Tenere i conti in ordine rilanciando la crescita si potrebbe ma solo se si affrontasse il nodo della riduzione della spesa pubblica. Solo da lì potrebbero venire le risorse necessarie per abbassare la pressione fiscale, rilanciando consumi e investimenti. Che fine hanno fatto, si chiedeva Sergio Rizzo sul Corriere di ieri, privatizzazioni, dismissioni del patrimonio pubblico, spending review , introduzione di prezzi standard nel servizio sanitario, eccetera? Il governo non solo è impossibilitato a fare tutto ciò che occorrerebbe per rilanciare la crescita ma non riesce nemmeno a scongiurare definitivamente ulteriori aumenti delle tasse. Perché? Per due ragioni. La prima ha a che fare con la capacità di resistenza e di veto di tutti gli interessi abbarbicati intorno alla spesa pubblica, nazionale e locale. A cominciare dall'interesse alla opacità del proprio agire dei vertici dell'Amministrazione. Scandalizzarsi per ciò che ha detto Renato Brunetta sul ministero dell'Economia fa sorridere. Si è sempre saputo che non ci sono mai state trasparenza e chiarezza in materia di conti dello Stato. E perché dovrebbero esserci? Chiarezza, trasparenza, semplificazione amministrativa, eccetera, sono tutte cose incompatibili con la discrezionalità e l'arbitrarietà a cui l'Amministrazione è abituata. E la loro assenza crea ostacoli quasi insormontabili che bloccano la possibilità di azioni efficaci di riduzione e razionalizzazione della spesa.

Né i governi Berlusconi, che avevano promesso sfracelli, né i governi di centrosinistra sono mai riusciti a venirne a capo. E ha combinato ben poco anche il governo Monti che, per lo meno, avrebbe potuto sfruttare la pressione generata dall'emergenza finanziaria, dall'attacco speculativo dei mercati. Perché il governo Letta dovrebbe riuscire dove hanno fallito tutti i suoi predecessori?

Ma la macchina dello Stato sarebbe riformabile e la spesa pubblica si potrebbe ridurre - dirà qualcuno - se solo ci fosse, finalmente, la volontà politica. E qui entra in gioco la seconda causa che rende così stringenti i vincoli sul governo: è data dal fatto che l'esecutivo non può contare, per vincere le resistenze corporative, sulla coesione delle forze parlamentari che formalmente lo sostengono. C'è una ragione di fondo, antica, legata alla natura del nostro sistema politico-istituzionale e una ragione contingente. Si sbagliava Enrico Berlinguer quando, proponendo il compromesso storico, sosteneva che in Italia non si governa con il cinquantun per cento. Non basta nemmeno l'ottanta per cento.

Per l'eccesso di poteri di veto esistenti dentro e fuori il Parlamento, e ad ogni livello del nostro sistema istituzionale, i governi, non importa quanto ampia sia la loro base di sostegno parlamentare, non riescono mai a mettere insieme la forza necessaria per fare politiche innovative, incisive e durevoli. Questo è un sistema costruito per premiare l'immobilismo, non l'azione.

C'è poi una ragione contingente: lo stato di marasma in cui si trovano, per ragioni diverse, i due principali partiti che sostengono il governo. Se il Pdl risente degli effetti delle condanne di Berlusconi e dei crescenti mal di pancia del suo elettorato, il Pd non sta affatto meglio. Le sorde lotte senza quartiere che si combattono al suo interno fra sostenitori convinti e sostenitori tiepidi del governo Letta e fra amici e nemici di Matteo Renzi, si ripercuotono continuamente sull'azione dell'esecutivo. Il pasticcio che ha portato al rinvio della decisione definitiva sull'acquisto dei cacciabombardieri F35 è ampiamente spiegabile come un effetto di quelle lotte.
Se il governo decidesse di impegnarsi in un ambizioso piano di riduzione della spesa pubblica (e di connesso abbassamento della pressione fiscale), che probabilità avrebbe, in queste condizioni, di portarlo a compimento? Come potrebbe impedire al Parlamento di annullare i suoi sforzi?

Eppure, a dispetto dei santi, il governo Letta dovrà per forza, prima o poi, rompere gli indugi e scegliere di volare alto. È sempre meglio cadere sul campo con onore, lasciando agli altri la responsabilità politica di abbatterti, piuttosto che adottare un profilo basso nella speranza (quasi sempre infondata) di garantirsi in questo modo una lunga vita.

Angelo Panebianco

29 giugno 2013 | 9:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_29/piu-larga-opzione_9b57fda2-e075-11e2-aa9b-d132be5871d0.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. NON SOFFIARE SUL FUOCO TRA EUROPA E USA
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2013, 11:24:22 am
NON SOFFIARE SUL FUOCO TRA EUROPA E USA

Una relazione indispensabile


Per chi crede che la storia si riduca a una successione di complotti, la crisi dei rapporti euro-americani innescata dalle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio statunitense ai danni dell'Europa, è solo una conferma. Per i patiti dei complotti, cinesi e russi hanno manovrato la marionetta Snowden per mettere nei guai Obama e suscitare un'ondata di sdegno antiamericano in Europa. L'obiettivo? Compromettere le trattative per l'accordo di libero scambio fra Stati Uniti e Europa, la Ttip (Transatlantic trade and investment partnership) un accordo che, in prospettiva, potrebbe dare un salutare colpo di frusta all'economia euro-atlantica ma anche, forse, contribuire a falsificare le più cupe profezie sul «declino dell'Occidente» e l'inarrestabile ascesa dell'Oriente. Per chi non crede alle teorie del complotto, semplicemente, Snowden e le sue rivelazioni sono un regalo del cielo, una opportunità insperata, che russi e cinesi hanno sfruttato e sfruttano.
La condotta giusta da tenere è quella indicata dal nostro ministro degli Esteri, Emma Bonino: da un lato, esigere con fermezza spiegazioni dall'Amministrazione Obama e, dall'altro, tenere a bada coloro che soffiano sul fuoco per aggravare la crisi in atto nei rapporti euro-americani. Una crisi che, probabilmente, prima o poi, verrà in qualche modo ufficialmente superata (tutti hanno troppo da perdere), ma che lascerà comunque dietro di sé una scia di veleni. Rendendo ancora più difficile di quanto già non apparisse in partenza (prima delle rivelazioni di Snowden) portare a compimento l'accordo sulla Ttip.
Ricordiamo cosa è in gioco e anche perché un fallimento dell'accordo sarebbe assai gradito alle potenze extraoccidentali. In gioco, prima di tutto, c'è lo slancio che l'accordo potrebbe dare all'economia euro-americana. Gli economisti calcolano quanti posti di lavoro in più, e quanti punti in percentuale del Pil in più, la costruzione di un mercato unico (o di qualcosa che, per lo meno, vi si avvicini) frutterebbe sia agli europei che agli americani. Ma al di là delle previsioni sui numeri ci sarebbe soprattutto un effetto psicologico le cui conseguenze economiche non possono essere quantificate in anticipo. Come ha scritto, fra gli altri, Giuliano Amato ( Il Sole 24 Ore , 23 giugno), l'accordo creerebbe un clima di fiducia e di ottimismo generalizzati, spingerebbe centinaia e centinaia di operatori economici ad allargare i loro orizzonti, a scommettere sul futuro. In breve, potrebbe rinvigorire i languenti «spiriti animali» del capitalismo occidentale.
I probabili effetti economici positivi avrebbero potenti ripercussioni politiche. L'area euro-atlantica riacquisterebbe, nei tanti tavoli ove deve trattare con la Cina, con la Russia e le altre potenze già emerse o emergenti, una forza che negli ultimi anni ha perduto.
Si consideri anche un altro aspetto. Obama è il presidente degli Stati Uniti culturalmente più lontano dall'Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma anche lui ha constatato quanto inconcludente sia stata una politica che, mentre snobbava i vecchi alleati europei, privilegiava il rapporto con le potenze autoritarie (Cina) o semi-autoritarie (Russia) nella speranza di stabilire durevoli relazioni di cooperazione e di fiducia.
Giocava l'errata convinzione che la natura dei regimi politici (o dei movimenti politici: vedi l'atteggiamento verso i Fratelli Musulmani egiziani) sia irrilevante ai fini della cooperazione internazionale. Ma non lo è. Già prima del caso Snowden, la tensione fra gli Stati Uniti e la Russia di Putin era arrivata alle stelle (Siria, scudo missilistico in Europa, eccetera). Ed è ormai chiaro che le relazioni con la Cina sono destinate a diventare sempre più competitive e tese.
Riaprire agli europei era dunque, per Obama, necessario. Da qui il progetto della Ttip. Un progetto con tanti nemici su entrambe le sponde dell'Atlantico. Nemici economici: coloro che, nei vari comparti (industria culturale, agricoltura, eccetera), guadagnano dal mantenimento di barriere. Nemici burocratici: le amministrazioni nazionali che difendono una discrezionalità e una capacità di regolazione che verrebbero indebolite dal mercato unico. Nemici politici: un mondo variopinto che comprende gli isolazionisti statunitensi e i tanti antiamericani per principio sparsi per il Vecchio Continente. Il presidente Hollande, campione del protezionismo culturale francese, e uno dei più zelanti nel minacciare di affondare l'accordo, coltiva con evidente tenerezza questi diversi tipi di nemici.
Obama riapre all'Europa e poi scivola sul Datagate. Dovrà ricucire e rassicurare. Ma anche agli europei non conviene esasperare troppo i toni. Perché se Obama, alla fine, ha scoperto che gli Stati Uniti non possono fare a meno dell'Europa, di sicuro gli europei non possono fare a meno dell'America. Per tre ragioni. La prima ha a che fare con la sicurezza: senza la cooperazione americana, l'Europa non è in grado di proteggersi dalle minacce (terroristiche in primo luogo). La seconda è che l'Europa, contando sulle proprie sole forze, non ha saputo fare di meglio che incartarsi politicamente rischiando l'autodistruzione. Se la storia degli ultimi sessanta anni insegna qualcosa, essa mostra che quando la comunità euro-atlantica è coesa anche l'integrazione europea si rafforza. Quando i legami euro-atlantici si sfilacciano, i rapporti interni alla Unione europea seguono la stessa sorte.
La terza ragione è geopolitica. Nel mondo si giocano complesse partite per il potere e l'egemonia internazionale. Rilanciare la comunità euroatlantica, facendo leva sull'accordo per il libero scambio, è, anche per l'Europa, il solo modo disponibile per partecipare a quelle partite con qualche buona carta in mano.

Angelo Panebianco

5 luglio 2013 | 7:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_05/una-relazione-indispensabile-angelo-panebianco_8a4b9b5c-e52c-11e2-8d17-dd9f75fbf0e3.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La ragnatela del non fare
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2013, 11:37:58 pm
IL PESO ABNORME DELLA BUROCRAZIA

La ragnatela del non fare


All'apparenza non ci sono spiragli. Il processo di affondamento dell'economia italiana non appare arrestabile. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ( Corriere , 12 luglio) hanno ben riassunto la situazione. Per bloccare il declino occorrerebbe tagliare tasse e spesa pubblica. Invece, la spesa continua a crescere e le tasse pure. La società affonda lentamente, imprigionata in un triangolo della morte ai cui tre lati stanno, rispettivamente, le tasse, già altissime, in aumento, la spesa pubblica in aumento e la burocratizzazione (l'oppressione del corpo sociale mediante soffocanti lacci e lacciuoli regolamentari), anch'essa in aumento. Quest'ultimo aspetto, la burocratizzazione, merita uguale attenzione degli altri due (tasse e ampiezza della spesa pubblica) con cui ha una stretta connessione.

Al centro del triangolo c'è un ragno velenoso, forse immortale, quasi certamente immodificabile: la macchina amministrativa pubblica in tutte le sue ramificazioni, centrali, periferiche, eccetera. Una macchina che, mentre impone le sue regole asfissianti al corpo sociale, blocca (coadiuvata da magistrature amministrative che sono, anch'esse, organi vitali dello stesso ragno) ogni possibilità di rovesciare il trend di espansione della spesa pubblica e delle tasse. Spesa pubblica e tasse che forniscono il nutrimento al ragno.

Guardiamo al terzo lato del triangolo, la burocratizzazione. Tutti protestano da anni, in tutti i comparti sociali, per l'eccesso di burocrazia, nessuno riesce a fare niente per limitarla: a ogni passo che, con grandi sforzi, viene fatto per semplificare, ne seguono dieci che ricomplicano di nuovo tutto. La burocratizzazione crea una ragnatela normativa che, mentre soffoca la società, funziona da rete di protezione contro qualunque velleità di tagliare o razionalizzare la spesa. In ogni settore della vita sociale c'è stata, c'è, continuerà a esserci, una proliferazione continua di norme ingarbugliate che appaiono prive scopo, di razionalità e di logica alle vittime ma che uno scopo ce l'hanno: servono all'autoriproduzione degli apparati burocratici. Si pensi a tutti gli interventi amministrativi in quel ramo che potremmo chiamare «industria della lotta agli abusi».

Ampia parte delle normative da cui siamo torturati è prodotta in nome della lotta contro potenziali abusi. Peccato che ottenga esiti opposti. Perché i furbastri e i maneggioni non sono affatto intimiditi da procedure astruse (anzi, sguazzano meglio quanto più regole e procedure sono complicate). Tutti gli altri invece ne sono oppressi e angariati.

Ad alimentare la burocratizzazione che colpisce e avvolge nelle sue spire imprese, università, professioni, eccetera, ci sono interessi e mentalità. Gli interessi sono tanti. Come ha osservato Mario Deaglio ( La Stampa , 10 luglio), più complesse sono regole e procedure, più contenziosi ci sono e più lavoro c'è per ogni tipo di mediatori professionali (avvocati, commercialisti, eccetera). E ci sono, soprattutto, gli interessi dei burocrati e dei loro uffici che dimostrano così di essere vivi e indispensabili nel ruolo di «controllori» del corpo sociale. Tutto ciò comporta, per le vittime, costi materiali altissimi e un enorme spreco di tempo e di energie. Denaro, tempo e energie distolte dalle altre attività.

Oltre agli interessi, ci sono le mentalità, forgiate da competenze e esperienze. Nessuno ne avrà mai la forza politica ma sarebbe vitale eliminare il predominio dei giuristi nell'amministrazione. Occorrerebbe impedire a chiunque di accedere ai livelli medio-superiori di una qualsivoglia amministrazione pubblica nazionale o locale (e anche delle magistrature amministrative, dal Consiglio di Stato alla Corte dei conti) se dotato solo di una formazione giuridica. Servirebbero invece specialisti addestrati a valutare l'impatto - effetti e costi economici e sociali - di qualunque norma e procedura. Specialisti nel semplificare anziché nel complicare. Meglio se potessero anche vantare lunghi soggiorni di formazione presso altre amministrazioni pubbliche europee e occidentali.
Irrealizzabili fantasie, naturalmente.

La macchina amministrativa è così potente (la sua forza sta nella impersonalità: non c'è una testa che possa essere tagliata) da farsi beffe di qualunque denuncia e di qualunque protesta. La politica (non fa differenza che al governo ci sia Berlusconi oppure Monti oppure Letta) è impotente. Anche ammesso che abbia voglia di provarsi a rimediare, può ben poco contro la forza del ragno. I politici, in realtà, sono un po' complici e un po' ostaggi. Per governare (per quel poco che possono governare) hanno bisogno di non inimicarsi l'amministrazione, e soprattutto i suoi vertici. I politici contano, ma meno di quanto pensi il grande pubblico. Funzionano però benissimo come parafulmini. Gli attacchi ai politici di governo per tutto ciò che non riescono a fare non sfiorano nemmeno la macchina amministrativa sottostante, la quale procede, indifferente a tutto e a tutti, con i suoi ritmi, le sue inerzie, le sue opacità, le sue regole interne. L'importante è che nessuno riesca a mettere zeppe capaci di invertire la tendenza della spesa pubblica a crescere (spingendo così sempre più in alto i livelli di tassazione) o a spezzare le catene burocratiche che opprimono la società.

Il sociologo Max Weber, all'inizio del Novecento, pensava alla burocrazia come a una «gabbia d'acciaio» che avrebbe alla fine prodotto la pietrificazione delle società occidentali, ne avrebbe prosciugato ogni energia, ne avrebbe svuotato l'anima. In quei termini, la profezia di Weber non si è ancora realizzata. In Italia, però, i segnali ci sono tutti.

14 luglio 2013 | 8:50
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Angelo Panebianco

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_14/burocrazia-peso-enorme_9a20bc7e-ec4d-11e2-b462-40c7a026889e.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La credibilità di un Paese
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2013, 08:33:22 am
KAZAKISTAN, ABU OMAR, MARÒ E F35

La credibilità di un Paese

Angelo Panebianco

La spiacevole e assai imbarazzante vicenda kazaka si chiude nell'unico modo ragionevole. Senza l'affondamento del governo. Manca ancora un passo: l'allontanamento dell'ambasciatore kazako. Spenti i riflettori, del caso e delle sue ramificazioni (che si intuiscono complesse), dovranno poi continuare ad occuparsene governo e diplomazia.

Nel mezzo della crisi kazaka c'è stata per un momento la possibilità che un'altra tegola cadesse sulla testa del governo. A causa dell'arresto a Panama dell'agente Cia Robert Seldon Lady, condannato a nove anni dalla magistratura italiana per il sequestro di Abu Omar. Erano di nuovo a rischio le relazioni fra Stati Uniti e Italia. Crisi scongiurata: gli americani si sono fatti consegnare dai panamensi il loro agente, e Roma ne ha preso atto con amarezza ufficiale (ma, c'è da scommettere, con intimo sollievo). L'insegnamento delle due, diversissime, vicende, è che puoi farti piccolo quanto vuoi ma la politica internazionale è sempre in grado di scovarti e di trascinarti nei suoi vortici. A maggior ragione se, a causa della tua natura (per lo stato delle tue istituzioni e gli orientamenti della tua opinione pubblica) non sei attrezzato a fronteggiare con efficacia ed energia le crisi che, in un modo o nell'altro, investono la sicurezza nazionale.
Come nella vicenda dei marò in India anche in quella dell'incidente kazako, si è detto - e i commenti internazionali confermano - che la «credibilità» internazionale dell'Italia è stata colpita. Vero, ma non bisogna fermarsi alla superficie. La credibilità di un Paese è questione complessa. E gli incidenti suddetti sono la spia di qualcos'altro, di una debolezza internazionale dell'Italia che dipende dal suo disordine interno.
La credibilità di un Paese democratico è affidata a un insieme di fattori: finanza pubblica in ordine, istituzioni solide, forte leadership di governo, sistema partitico non frammentato e quindi meno soggetto a spinte demagogiche. E apparati burocratici che si sentono controllati da governi forti e si regolano di conseguenza. E anche dal fatto che, nelle situazioni di crisi internazionale, quando entrano in gioco questioni di sicurezza, le istituzioni pubbliche riescono (almeno nella maggioranza dei casi) a fare gioco di squadra, spingendo l'opinione pubblica a fare altrettanto.

Si considerino due vicende con risvolti internazionali e di sicurezza assai importanti. Hanno in comune con il pasticcio kazako, il danno procurato al nostro ruolo in un sistema di relazioni interstatali. Il rinvio voluto dal Parlamento (duramente contestato dal Consiglio di Difesa) della decisione di acquisto degli F35, è stato un'altra dimostrazione che una politica invertebrata, frammentata, e deficitaria di leadership, mette continuamente a rischio la «credibilità» internazionale del Paese. Poiché il messaggio è stato: una parte non irrilevante del Parlamento e della opinione pubblica non sa che farsene di una difesa aerea né è interessata a mantenere gli impegni presi con i nostri partner (per non parlare delle negative ricadute aziendali e occupazionali).

Oppure si prenda la questione che si trascina da anni, e che l'arresto di Robert Seldon Lady ha riportato di attualità, dei conflitti fra governi e magistratura sulla vicenda Abu Omar. Un lunghissimo braccio di ferro ha visto contrapposti i governi italiani (che insistevano nel porre il segreto di Stato) e la magistratura che, alla fine, è riuscita a condannare gli agenti Cia, l'ex capo del Sismi Nicola Pollari e altri agenti italiani. Ma perché i governi (da Prodi a Berlusconi a Monti) hanno per tanto tempo, strenuamente, difeso il segreto di Stato contro richieste e sentenze della magistratura? Perché erano spregiatori dello stato di diritto? Perché amavano i rapimenti illegali? Oppure perché i governi sanno che ci sono delicate questioni di sicurezza che non possono essere lasciate interamente nelle mani dei tribunali ordinari? Non è forse la stessa ragione per la quale Obama, rimangiandosi una promessa elettorale, non è mai riuscito a chiudere Guantanamo?

Un Paese di frontiera come l'Italia, esposto a possibili minacce terroriste, ha bisogno di non compromettere i propri rapporti con gli Stati Uniti, di contare sulla collaborazione della intelligence americana e di non mettere a rischio l'operatività dei propri servizi di sicurezza. Era il problema sotteso a quel lungo braccio di ferro. Per inciso, a proposito di minacce terroriste, se qualcuno crede che le recenti vicende mediorientali (dall'Egitto alla Siria) non creeranno grandi rischi per la sicurezza qui in Europa, ha il diritto di crederlo ma solo se non ha, a qualsiasi titolo, una responsabilità pubblica.

L'Italia non gode più, come durante la Guerra fredda, di una rendita di posizione. Non è più indispensabile per i suoi alleati. Adesso la fiducia di cui ha bisogno per provvedere alla propria sicurezza se la deve guadagnare con fatica. Con la credibilità appunto, che è soprattutto la capacità di coltivare alleanze e mantenere impegni. Per non parlare del fatto che un Paese non credibile, e con scarso interesse per la propria sicurezza, invoglia assai poco eventuali investitori a rischiarvi i propri soldi.

C'è chi pensa che i principi (così come essi li interpretano) della democrazia siano l'unica cosa che conta e al diavolo la sicurezza. Non pensano che ci si debba sforzare, a causa dei pericoli internazionali, di mantenere un equilibrio precario e fragile fra esigenze diverse e, talora, contrapposte. Non si chiedono mai che fine farebbe la democrazia un minuto dopo che fosse venuta meno la sicurezza.

21 luglio 2013 | 12:03
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http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_21/credibilita-di-un-paese-panebianco_d6623000-f1ca-11e2-9522-c5658930a7bc.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'INOSSIDABILE PARTITO ANTICRESCITA
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2013, 10:44:35 am
L'INOSSIDABILE PARTITO ANTICRESCITA

La spesa facile che non indigna

Angelo Panebianco

Le reazioni del partito della spesa pubblica di fronte alla affermazione di buon senso, e inoppugnabilmente vera, del viceministro all'Economia Stefano Fassina secondo cui esiste, accanto a una evasione indotta da avidità e mancanza di senso civico, anche una evasione fiscale «di sopravvivenza», sembrano dettate dall'arroganza: quella tipica arroganza che è propria di chi, ritenendosi fortissimo, può permettersi il lusso di ringhiare davanti a qualche timido distinguo dalla linea dominante e vincente.

C'è il forte sospetto che sia ormai inutile continuare a ripetere, come facciamo da anni, la solita litania: «Bisogna ridurre la spesa pubblica al fine di abbassare le tasse e rilanciare così la crescita».

Il partito della spesa pubblica non ha alcun interesse alla crescita perché non può accettare che spese e tasse scendano. Fino a oggi, quel partito si è rivelato fortissimo, imbattibile. Ci sono due possibili spiegazioni, non necessariamente incompatibili fra loro, di tale imbattibilità. La prima ha a che fare con le «quantità» e la seconda con la «qualità». La spiegazione quantitativa dice che i numeri sono a favore del partito della spesa pubblica: coloro che vivono di spesa sopravanzano ogni altro gruppo e rappresentano, sul piano elettorale, una «minoranza di blocco» ai cui veti nessun governo, quale che ne sia il colore, può resistere. La spiegazione qualitativa fa riferimento all'esistenza di «cani da guardia», di istituzioni strategicamente collocate che si sono assunte il compito di salvaguardare gli interessi facenti capo al partito della spesa pubblica. Per esempio, guardando a certe sentenze della Corte costituzionale, si può essere colti dal sospetto che sia addirittura «incostituzionale» ridurre la spesa pubblica (e quindi le tasse), ossia che, per il nostro ordinamento, quelle due grandezze possano solo crescere, mai diminuire. Più in generale, c'è una intera infrastruttura amministrativa (alta burocrazia, magistrature amministrative) che regge e dà continuità alla azione dello Stato, che sembra chiusa a riccio nella difesa di un equilibrio politico e sociale fondato sulla incomprimibilità della spesa e su tasse altissime. La debolezza della politica fa poi il resto, rende impossibili interventi capaci di vincere le resistenze burocratiche e lobbistiche e invertire la rotta.

Lorenzo Bini Smaghi (Corriere , 27 luglio) ha osservato che nella lettera della Bce all'Italia di due anni fa si chiedevano riforme strutturali (tese appunto a ridurre la spesa pubblica). Non potendo, non volendo, o non sapendo, fare quelle riforme, noi rispondemmo aumentando le tasse e perciò spingendo ancor di più il Paese nella spirale della depressione.

Sulla carta, il governo Monti era nella condizione migliore per ridurre la spesa. Per sua natura, non dipendeva dal consenso elettorale e, inoltre, avrebbe potuto imporre le riforme ai partiti sfruttando la condizione d'emergenza in cui si trovava il Paese.

Perché non ci riuscì? Perché accrebbe ulteriormente una pressione fiscale già altissima? Non è forse perché gli ostacoli erano talmente grandi, e le forze contrarie così potenti, da non poter prendere in considerazione alcuna altra linea di condotta se non quella che venne effettivamente perseguita?

Sarebbe bello vivere in un Paese fondato su un regime di tasse basse ove non esistesse l'evasione da sopravvivenza e dove fosse possibile scaricare uguale riprovazione morale sugli evasori fiscali e su coloro che fanno un uso non strettamente necessario, non giustificato dalla funzione sociale assolta, dei soldi pubblici. Viviamo invece in un Paese in cui spese e tasse si rincorrono senza fine lungo una strada in salita. Sorvegliate amorevolmente da cani da guardia indifferenti alla decadenza economica del Paese. Ai membri del partito della spesa pubblica bisognerebbe dire: grazie a voi siamo oberati di tasse e non intravvediamo un bel futuro per i nostri figli. Abbiate almeno la decenza di non ringhiare.

28 luglio 2013 | 8:40
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http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_28/spesa-facile-non-ci-indigna_da1bf4b2-f74f-11e2-a852-8fa32bcbd2fe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. GIUSTIZIA, QUALI INTERVENTI SONO POSSIBILI
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2013, 11:48:35 am
GIUSTIZIA, QUALI INTERVENTI SONO POSSIBILI

La riforma più difficile

Così come non c'è mai stata nessuna Seconda Repubblica, la condanna di Berlusconi non farà nascere la Terza. La Repubblica è una soltanto, sempre la stessa. Che cambino o meno uomini, partiti o leggi elettorali. Ed essendo la stessa, le sue tare e i suoi conflitti di fondo si perpetuano. Così è per lo squilibrio di potenza fra magistratura e politica, uno squilibrio che secondo molti, compreso lo scomparso presidente della Repubblica Francesco Cossiga, risale a molto tempo prima delle inchieste di Mani Pulite di venti anni fa.

Al momento, apparentemente, tutto è come al solito: con Berlusconi e la destra contrapposti alla magistratura e la sinistra abbracciata ai magistrati. Gli uni reagiscono a quella che ritengono una orchestrata persecuzione. Gli altri si aggrappano alla magistratura, un po' per antiberlusconismo, un po' perché una parte dei loro elettori considera i magistrati (i pubblici ministeri soprattutto) delle semi-divinità o giù di lì, e un po' perché sperano in trattamenti «più comprensivi» di quelli riservati alla destra.

Ma lo squilibrio di potenza c'è (anche i magistrati più seri lo riconoscono) e, insieme alla grande inefficienza del nostro sistema di giustizia, richiederebbe correttivi. Una seria riforma della giustizia, del resto, l'ha chiesta anche il presidente della Repubblica, di sicuro non sospettabile di interessi partigiani.

Ma la domanda è: può un potere debole e diviso imporre una «riforma» a un potere molto più forte (e molto più unito) contro la volontà di quest'ultimo? Frugando in tutta la storia umana non se ne troverà un solo esempio.

La magistratura è l'unico «potere forte» oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla. Certo, si potranno forse fare - ma solo se i magistrati acconsentiranno - interventi volti ad introdurre un po' più di efficienza: sarebbe già tanto, per esempio, ridurre i tempi delle cause civili. Ma non ci sarà nessuna «riforma della giustizia» se per tale si intende una azione che tocchi i nodi di fondo: separazione delle carriere, trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell'accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell'istituto dell'obbligatorietà dell'azione penale, eccetera. La classe politica, in tanti anni, non è riuscita nemmeno a varare una decente legge per impedire la diffusione pilotata delle intercettazioni. Altro che «riforma della giustizia».

Il problema va aggredito da un'altra prospettiva. C'è un solo modo per porre rimedio allo squilibrio di potenza: rafforzare la politica. Ci si concentri su provvedimenti che possano ridare, col tempo, forza e legittimità al potere politico: una seria riforma costituzionale che renda più efficace l'azione dei governi, un radicale cambiamento delle modalità di finanziamento dei partiti, una drastica contrazione dell'area delle rendite politiche, delle rendite controllate e distribuite dai politici nazionali e locali (vera causa, al di là della demagogia, degli altissimi costi della politica).

Ci si concentri, insomma, su alcune cause certe della debolezza, e della mancanza di credibilità, che affliggono il potere politico. Solo così sarà possibile avviare un processo che porti ad annullare lo squilibrio di potenza. Anche se ci vorranno anni per riuscirci.

Al momento, dunque, non si può fare nulla in materia di giustizia? Qualcosa forse sì, ma richiede lungimiranza (perché i frutti si vedrebbero solo dopo molto tempo). Si affronti il problema là dove tutto è cominciato: si rivoluzionino i corsi di studio in giurisprudenza (e pazienza se i professori di diritto strilleranno). Si incida sulle competenze, e sulle connesse «mentalità», di coloro che andranno a fare i magistrati (ma anche gli amministratori pubblici). Si iniettino dosi massicce di «sapere empirico» in quei corsi. Si riequilibri il formalismo giuridico con competenze economiche e statistiche, e con solide conoscenze (non solo giuridiche) delle macchine amministrative e giudiziarie degli altri Paesi occidentali. Si addestrino i futuri funzionari, magistrati e amministratori, a fare i conti con la complessità della realtà. È ormai inaccettabile, ad esempio, che un magistrato, o un amministratore, possano intervenire su delicate questioni finanziarie o industriali senza conoscenze approfondite di finanza o di economia industriale. È inaccettabile che gli interventi amministrativi o giudiziari siano fatti da persone non addestrate a valutare l'impatto sociale ed economico delle norme e delle loro applicazioni. Il diritto è uno strumento di regolazione sociale troppo importante per lasciarlo nelle mani di giuristi puri.

Lo squilibrio di potenza permarrà a lungo. La politica, per venirne a capo, deve ispirarsi a una antica tradizione militare cinese. Le serve una «strategia indiretta». Sono sconsigliati gli attacchi frontali.

6 agosto 2013 | 7:50
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Angelo Panebianco

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_06/la-riforma-piu-difficile-angelo-panebianco_8847e070-fe5b-11e2-9e44-1a79176af940.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. IL PD E L'ASSENZA DI IDEE FORTI DI GOVERNO
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2013, 12:20:42 pm
IL PD E L'ASSENZA DI IDEE FORTI DI GOVERNO

Un partito senza leader


È paradossale che la decapitazione giudiziaria del suo storico avversario non stia al momento portando frutti al Partito democratico. Berlusconi continua ad essere il protagonista principale di questa stagione. La vicenda Imu è esemplare. Quando il premier Letta dice che solo se il suo governo durerà si eviterà il pagamento delle prossime rate dell'Imu sulla prima casa, sta ricordando al Pdl che non gli conviene tirare la corda, ma sta anche implicitamente riconoscendo che l'agenda politica del governo è dettata, in larghissima misura, da Berlusconi.
La capacità di individuare di volta in volta la battaglia politica dirimente, quella che sposta i consensi, è come il coraggio di Don Abbondio: uno non se la può dare. O la si possiede già oppure niente. Mentre Berlusconi, in un Paese di proprietari di case, agita la questione dell'Imu sia per le sue immediate conseguenze pratiche (per le tasche degli italiani) che per i suoi significati simbolici (la riduzione delle tasse come leva per il rilancio della economia), il Partito democratico si limita a balbettii sul problema del «lavoro», apparendo così una sbiadita fotocopia della Cgil. Poiché i posti di lavoro non li può creare lo Stato, parlare di lavoro significa parlare di crescita. Ma il Pd non riesce ad avere idee-forza sulla crescita da comunicare con efficacia al Paese.

Naturalmente, ciò è in larga misura conseguenza delle sue divisioni interne, del fatto che, a tanti mesi di distanza dalla sconfitta di Bersani, non è ancora riuscito a trovare un nuovo baricentro politico. È dunque alla sfida per la leadership nel Pd che bisogna guardare per capire come evolveranno le sue scelte programmatiche e i suoi rapporti col governo. È ormai chiaro che Matteo Renzi e Enrico Letta (quale che sarà la formula della partecipazione di quest'ultimo) ne saranno i protagonisti principali. È, per certi aspetti, una buona notizia. Non vengono dall'esperienza comunista (anche se non potranno mai ignorare il ruolo di coloro che da lì provengono), non sono appesantiti da quel fardello. Anche se difficile in pratica, i due potrebbero essere tentati di cercare un accordo. Sarebbe una buona cosa per certi versi e cattiva per altri. Sarebbe una buona cosa per il fatto che essi sembrano avere virtù e difetti opposti e potrebbero compensarsi. Letta appare, fra i due, il più solido, il più attrezzato culturalmente e politicamente, ma è anche frenato da un eccesso di prudenza (in tempi in cui servirebbero audacia e inventiva). Renzi appare meno solido ma è un comunicatore nato, ha coraggio da vendere, e dispone di quella spregiudicatezza che è necessaria alla leadership.

Un accordo fra i due sarebbe però anche, da un altro punto di vista, una cattiva cosa. Metterebbe capo a una diarchia, per sua natura instabile, in un'epoca in cui i partiti hanno bisogno di un (solo) leader su cui investire: uno che ci metta la faccia da solo. In ogni caso, soltanto quando le lotte interne al Pd cesseranno, quando ci sarà un vincitore, quel partito potrà darsi un profilo politico e una piattaforma che lo rendano di nuovo elettoralmente appetibile.

Chi si interroga sul futuro del Pd dovrebbe anche tenere d'occhio le partite su legge elettorale e riforme istituzionali. Poiché la politica non può essere divisa in compartimenti stagni, quelle partite (ad esempio, una nuova legge elettorale, incidendo sulle potenziali alleanze, potrebbe favorire l'uno o l'altro candidato) influenzeranno la competizione per la leadership dentro il Partito democratico.

13 agosto 2013 | 8:27
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Angelo Panebianco

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_13/un-partito-senza-leader-angelo-panebianco_9ddde79c-03d1-11e3-b7de-a2b03b792de4.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La fragilità delle potenze
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2013, 05:14:34 pm
SIRIA, IL NO INGLESE ISOLA L'AMERICA

La fragilità delle potenze


Il no del Parlamento britannico a un intervento militare del Regno Unito in Siria rende il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ancora più solo, e più debole, di fronte alla decisione che (forse) sta per prendere. C'è un solo argomento forte a favore dell'intervento militare americano in Siria. Ma ce ne sono tanti altri a sfavore. L'argomento a favore è che, a causa degli errori commessi nel corso del tempo, se Obama rinunciasse ad attaccare la Siria azzererebbe la già scarsa credibilità degli Stati Uniti. Gli avversari, dall'Iran alla Russia, e gli alleati, dalla Turchia all'Arabia Saudita, lo aspettano al varco, vogliono vedere se l'America è ormai solo una tigre di carta. Quando, non sapendo che pesci pigliare in Siria, e per procrastinare le decisioni, Obama dichiarò che non avrebbe tollerato l'uso di armi chimiche, si mise nelle mani di Assad, il dittatore siriano. L'uso del gas c'è stato (o così sembra) e Obama adesso non sa come fare a tirarsi indietro. Si aggiunga che la vicenda egiziana è stata per l'Amministrazione una bruciante sconfitta diplomatica. Obama ha il problema di ricostruire almeno un po' della perduta credibilità.

A fronte di questo argomento a favore dell'intervento, ce n'è una lista intera che lo sconsiglierebbe. Cominciamo dal più importante. Le guerre devono avere chiari obiettivi politici. E qui l'obiettivo proprio non si vede. Non è vero che l'attacco americano in Siria andrebbe collocato nell'ambito delle cosiddette «guerre umanitarie» come la Somalia (1992-93) e il Kosovo (1999). Le guerre solo umanitarie non sono mai esistite. In Somalia (senza successo: l'America fu costretta al ritiro) e in Kosovo, gli Stati Uniti intervennero non solo per salvare popolazioni ma anche con un obiettivo politico: l'unica superpotenza sopravvissuta alla guerra fredda mandava a dire alle teste calde sparse per il mondo che essa non avrebbe tollerato il caos. Ricondurre all'ordine, con la forza delle armi, singole situazioni locali era un mezzo per bloccare le minacce all'ordine internazionale. Ma in Siria non c'è un ordine locale da ricostituire, la situazione è sfuggita di mano. In Siria si affrontano bande di tagliagole. Un intervento militare contro una delle bande in lotta o rafforza la banda contrapposta, magari portandola alla vittoria, o accresce ancor di più il caos e il numero di vittime. Fare guerre in cui non possono esserci chiari obiettivi è un errore. Persino nella guerra di Libia francesi e inglesi un obiettivo politico lo avevano: sottrarre agli italiani l'influenza sul Paese.

Si aggiunga che l'opinione pubblica americana è contraria all'intervento. Una democrazia che va alla guerra senza avere dietro di sé l'opinione pubblica è indebolita in partenza. Basta un «incidente», per esempio un massacro non voluto di civili, o un attentato di risposta che uccida un certo numero dei propri soldati, e subito i governanti della democrazia in guerra si trovano in gravi difficoltà a casa propria.
C'è poi il fatto che nelle guerre è difficile calibrare la forza e prevederne gli effetti. L'intervento americano in Siria dovrebbe essere così efficace da rappresentare una vera punizione per il regime siriano (e un deterrente contro futuri usi del gas) ma non così efficace da aprire la strada alla vittoria dei suoi nemici. Più facile a dirsi che a farsi. A meno che Obama (senza dichiararlo) non stia pensando a un regime change, l'eliminazione di Assad e la sua cricca, magari per compiacere sauditi e turchi. Per cosa? Per consegnare il potere ad Al Qaeda e ad altri gruppi jihadisti?

L'America avrebbe dovuto decidere il che fare in Siria molto tempo fa, nella fase iniziale della guerra civile. Se fosse intervenuta allora avrebbe potuto esercitare una influenza forte sui ribelli, e avrebbe potuto colpire, oltre che il regime, anche le formazioni qaediste prima che consolidassero il loro controllo su importanti porzioni del territorio. Oppure, avrebbe potuto dichiarare subito, senza ambiguità, che in uno scontro fra il radicalismo sunnita e quello sciita non aveva intenzione di prendere partito. Da più parti si è accusato di cinismo il politologo Edward Luttwak per il quale non conviene all'Occidente schierarsi. Ma in politica internazionale la scelta, per lo più, non è fra il bene e il male ma fra un male minore e un male maggiore.

In Siria l'Iran si sta dissanguando e, finché Assad resiste, la partita per l'egemonia regionale fra iraniani e sauditi resterà aperta. Così come la competizione sotterranea fra le potenze sunnite: con la Turchia e il Qatar che appoggiano, anche in Siria, i Fratelli Musulmani, e i sauditi schierati con i salafiti. Prima o poi, se l'equilibrio non verrà alterato sui campi di battaglia, dovrà essere siglato un armistizio. Non è forse l'unica soluzione possibile? Per non parlare delle imprevedibili ripercussioni di un intervento americano in Siria sugli equilibri libanesi, giordani, iracheni, o sulla competizione fra pragmatici e intransigenti entro la classe dirigente iraniana.

Sembra saggia la decisione dell'Italia di tenersi fuori, di non accodarsi, questa volta, ai soliti francesi (sempre a caccia della Grandeur , soprattutto quando i sondaggi sono sfavorevoli al presidente in carica). Secondo un vecchio adagio, sono due le ragioni per le quali un uomo (o un gruppo di uomini e donne) fa qualcosa: una buona ragione e la ragione vera. La «buona ragione» dell'Italia è il richiamo all'Onu e alla cosiddetta legalità internazionale. La «ragione vera» è che il disastrato governo delle larghe intese non reggerebbe a un intervento militare. Per una volta, la ragione vera del non intervento italiano sembra stare dalla parte della ragione.

31 agosto 2013 | 8:42
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Angelo Panebianco

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_31/fraglta-potenze_b64a9ffe-11f6-11e3-a57a-42cc40af828f.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il soccorso al vincitore
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2013, 09:22:36 am
MATTEO RENZI SENZA RIVALI NEL PD

Il soccorso al vincitore


Fa impressione osservare una slavina di queste proporzioni, vedere un partito quasi al completo, salvo un po' di irriducibili, precipitarsi sotto le ali di un politico che, solo pochi mesi prima, era stato trattato da tanti come un corpo estraneo, un «infiltrato» della destra. Matteo Renzi ha già vinto il prossimo congresso facendosi consacrare leader, con un bagno di folla, in una regione, l'Emilia Romagna, che mantiene un peso decisivo negli equilibri interni al Partito democratico e che, nelle primarie dello scorso anno, aveva (secondo copione) incoronato Bersani.

Ciò fa impressione ma non stupisce. È la reazione all'inatteso fallimento di Bersani, andato alle elezioni in nome della tradizione, della continuità. È normale che, dopo una grande delusione, un partito allo sbando si aggrappi a una nuova leadership , accetti il ricambio rifiutato in precedenza. Resta da vedere se il ricambio produrrà anche un effettivo rinnovamento identitario e delle politiche del partito. L'effetto slavina, o effetto bandwagoning (con quasi tutti che saltano sul carro del vincitore), è per Renzi un'arma a doppio taglio. Lo innalza irresistibilmente agli onori della leadership ma esercita su di lui anche una pressione tesa a fargli abbandonare, o a diluire, quelli che, nelle primarie dello scorso anno, erano risultati gli aspetti più innovativi della sua proposta.

Conosciamo il Renzi 1, il novello Davide che fece la campagna delle primarie contro il vecchio apparato e le sue logore parole d'ordine. Ma non conosciamo ancora il Renzi 2, il futuro leader del partito. Non sappiamo quali compromessi dovrà accettare. E poiché non è chiaro quanto il Renzi 2 sarà diverso dal Renzi 1, non è nemmeno possibile immaginare quanto rinnovamento ci sarà davvero. Non sappiamo insomma se l'innovazione batterà il trasformismo (di quelli che si sono precipitati sul carro) o se il trasformismo neutralizzerà l'innovazione. Ha ragione Walter Veltroni quando mette in guardia Renzi: un eccesso di consensi nasconde insidie che potrebbero palesarsi presto.

Renzi ha un partito da ricostruire. Un partito che per lungo tempo ha tenuto a bada le proprie divisioni interne, e nascosto il proprio conservatorismo, usando il mastice dell'antiberlusconismo (uno spiacevole effetto collaterale è stato l'eccessivo spazio che il partito ha dato per anni ad orientamenti forcaioli in materia di giustizia). Un partito, inoltre, che a causa della sua debolezza, si è abituato ad essere largamente etero-diretto nelle sue politiche: dai giornali d'area, dalla Cgil, da settori della magistratura. Al punto che non è sempre stato chiaro quale ne fosse il «vero» gruppo dirigente.

È un partito siffatto che Renzi dovrà governare e rigenerare. Da qui il dilemma: se Renzi si allontanerà troppo dalle sue posizioni originarie incontrerà poche resistenze interne, almeno nella prima fase, ma la sua azione risulterà alla fine poco incisiva. Se, al contrario, sceglierà di restare fedele a se stesso, incontrerà resistenze molto più forti, fronteggerà conflitti acuti, ma avrà anche qualche chance in più di cambiare il partito.
In ogni caso, gli irriducibili, i nostalgici, si rassegnino. Nelle attuali condizioni della competizione democratica, un partito non può che essere la struttura di supporto di un leader. Forse Renzi non riuscirà a rinnovare in profondità il partito ma, per lo meno, distruggerà qualche mito, svecchierà almeno un po' una cultura politica da sempre troppo diffidente verso le leadership individuali.

6 settembre 2013 | 8:10
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Angelo Panebianco

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_06/soccorso-al-vincitore-panebianco_622a764c-16b5-11e3-b8be-7779aaf9a586.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. VICENDA ILVA E DECRESCITA INFELICE
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2013, 11:10:10 pm
VICENDA ILVA E DECRESCITA INFELICE

Tanti saluti all'industria

La vicenda dell'Ilva è un disastro in sé e l'ennesima tappa di un processo di de- industrializzazione da tempo in atto nel Paese che sta lasciando dietro di sé macerie fumanti e povertà. La chiusura degli stabilimenti Ilva in Lombardia, conseguenza della vicenda giudiziaria di Taranto, era prevedibile. A nulla sono valsi i tentativi dei governi (si ricordi il braccio di ferro fra il governo Monti e i magistrati tarantini) di impedire il disastro. Che sarà occupazionale e non solo. Come ha osservato Dario Di Vico ( Corriere , 13 settembre), e ribadito il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, stiamo liquidando, per la gioia dei concorrenti esteri, un intero comparto industriale, la siderurgia.

Non si tratta di difendere il gruppo Riva. Le sue eventuali responsabilità riguardano il tribunale. Si tratta di capire come e perché sia possibile affondare un comparto industriale vitale per la collettività, con effetti a catena su tanti altri comparti, come e perché sia possibile distruggere una cruciale fonte di ricchezza.

La vicenda dell'Ilva di Taranto doveva essere gestita con buon senso. Si doveva contemperare l'esigenza della bonifica e la salvaguardia di una industria di grande importanza. A questo miravano richieste e provvedimenti dei governi. Non è stato così. Anziché procedere con la cautela che la problematicità del quadro consigliava si sono irrisi gli esperti che invitavano alla prudenza nei giudizi e la magistratura è andata avanti come un caterpillar. Ora se ne paga il prezzo.

Due sono gli aspetti di questa vicenda che, anche al di là del caso Ilva, fanno temere che il declino economico del Paese sia inarrestabile. Il primo riguarda l'esondazione del diritto penale. Il diritto penale è, fra tutte le forme del diritto, la più primitiva e barbarica: precede storicamente le forme più sofisticate (il diritto civile, amministrativo ecc.) che la civiltà ha via via inventato. Per questo, dovrebbe, idealmente, essere attivato solo in casi estremi, dovrebbe avere un ruolo circoscritto. Ma quando il diritto penale (come nel caso dell'Ilva e come avviene ogni giorno in ogni aspetto della vita del Paese) diventa il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, allora ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione.

Il secondo aspetto riguarda la diffusione di una particolare sindrome, un orientamento anti-industriale, travestito da ecologismo, che punta alla decrescita, alla de-industrializzazione, perché tratta l'industria in quanto tale come una minaccia per l'ambiente. Da utile mezzo per contrastare le esternalità negative (i costi collettivi prodotti dall'inquinamento) l'ecologismo è diventato un'arma ideologica al servizio della mobilitazione anti-industriale (si veda il bel saggio di Carlo Stagnaro sull'ultimo numero della rivista Limes ). Se non fossero stati sostenuti da questa diffusa sindrome anti-industriale, i magistrati di Taranto avrebbero forse attivato, come chiedeva il governo, percorsi dagli esiti meno distruttivi per l'industria italiana.

15 settembre 2013 | 9:38
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Angelo Panebianco

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_15/tanti-saluti-industria_a1759114-1dcd-11e3-a7f1-b3455c27218c.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Due ostacoli per un’ambizione
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2013, 05:08:17 pm
LA NUOVA LEADERSHIP DEL CENTRODESTRA

Due ostacoli per un’ambizione

Forse la domanda che oggi bisogna porsi per ragionare sul futuro della politica italiana è la seguente: quanto grande è l’ambizione di Angelino Alfano e del suo gruppo? Hanno davvero la volontà di guidare il centrodestra nel suo insieme nella fase post berlusconiana? Oppure hanno ambizioni molto più modeste: dare vita a una formazione neo-centrista - separando il proprio destino dai «lealisti» (come hanno scelto di chiamarsi coloro che non hanno condiviso lo strappo di Alfano)? Insomma, saranno i leader che rivitalizzeranno un centrodestra alternativo alla sinistra oppure, come li definisce perfidamente Giuliano Ferrara, sono solo un pugno di «ministeriali» interessati a tenere in piedi il governo, qualunque cosa esso faccia, con l’obiettivo di creare un partitino neo-democristiano per forza di cose obbligato a cercare punti di incontro con la sinistra?
Per capire, al di là delle dichiarazioni di facciata, quale sarà la strada che Alfano, Lupi, Quagliariello e gli altri imboccheranno, bisognerà osservarli in azione su certi temi. Ad esempio, ammorbidiranno la battaglia per la riduzione delle tasse? Come ha sostenuto Raffaele Fitto, i lealisti berlusconiani intendono condurre la lotta dentro il partito contro Alfano e i suoi, accusandoli di cedimento e subalternità alla sinistra. Se Alfano darà l’impressione che l’accusa sia fondata, le sue chance di guidare il centrodestra tutto in competizione con la sinistra si ridurranno drasticamente. Per un leader di destra la benevolenza o gli applausi della sinistra sono come il bacio della morte. Come testimonia la parabola di Gianfranco Fini. La dura replica di Alfano al premier Letta mostra che egli ne ha consapevolezza.
Un altro aspetto che bisognerà considerare riguarderà le scelte del gruppo Alfano in materia di riforma elettorale. Se l’ambizione del gruppo è limitata, esso finirà per lavorare sotto traccia (senza dichiararlo) per il ritorno della proporzionale. Perché la proporzionale è il sistema elettorale più adatto per favorire la formazione di un partito neo-centrista distinto da, e contrapposto a, i berlusconiani. Si consideri, per di più, che la proporzionale può fare gioco a molti: per esempio, a sinistra, favorirebbe il drastico ridimensionamento delle ambizioni di Matteo Renzi (con la proporzionale è più facile separare i ruoli di segretario e di premier).
Le mosse del gruppo Alfano sulla legge elettorale ne chiariranno la vera ambizione. Perché se il gruppo punterà su una riforma maggioritaria ciò significherà che l’ambizione è davvero grande: Alfano e i suoi dovranno giocarsi la partita del potere dentro il Pdl, e né loro né i lealisti avranno la tentazione di fare una scissione. Le scissioni pagano in regime di proporzionale, non di maggioritario. D’altra parte, in tutti i grandi partiti europei, di destra e di sinistra, coesistono correnti più centriste, pragmatiche, e correnti più estremiste o intransigenti. Perché il Pdl dovrebbe fare eccezione?
Fino a poco tempo fa Alfano era il delfino, era stato designato dal capo. Ciò non gli dava grandi chance elettorali. Ma adesso si è conquistato sul campo i galloni da leader mettendo in minoranza il capo. Il quale ultimo, peraltro, essendo un realista, difficilmente avrà voglia di rompere definitivamente con lui. Se non commetterà troppi errori, Alfano avrà la possibilità di giocarsi la futura partita elettorale con qualche possibilità di vittoria. Persino contro un Matteo Renzi. Ma, appunto, è una questione di ambizioni.

08 ottobre 2013
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Angelo Panebianco
Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_ottobre_08/due-ostacoli-un-ambizione-e5d2d98c-2fd6-11e3-8faf-8c5138a2071d.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. LO STRANO SONNO DEL CENTRODESTRA
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2013, 11:30:27 pm
LO STRANO SONNO DEL CENTRODESTRA

Gli statalisti trasversali

Circola in questi giorni un appello firmato da un gruppo di economisti — fra i quali Francesco Giavazzi che del tema si è già occupato sul Corriere — contro il nuovo statalismo, le azioni neo-protezioniste del governo Letta. I sottoscrittori fanno riferimento a tre interventi a gamba tesa del governo volti a bloccare gli investitori stranieri: l’operazione che ha portato la Cassa depositi e prestiti al pieno controllo di Ansaldo Energia, quella su Telecom Italia e, infine, la ristatalizzazione di fatto di Alitalia attraverso l’intervento delle Poste.
In tutti e tre i casi, anziché lasciare che il mercato seguisse il suo corso e che le suddette aziende venissero acquisite da investitori disposti a rischiarvi i propri soldi, si è scelta, cambiando le regole ex post, a giochi ormai aperti, la via statalista. Pessimi segnali inviati ai mercati da quello stesso governo che diceva di volere attirare capitali esteri, di voler far cambiare idea a coloro che non investono in Italia perché ritengono il nostro Paese inaffidabile. Le vicende di cui si occupa l’appello, peraltro coerenti con una lunga tradizione statalista, hanno di singolare il fatto che si devono all’azione non di un governo di sinistra ma di un governo ove la destra ha un peso pari a quello della sinistra. Che un governo di sinistra possa decidere interventi di tal fatta lo si può pure capire. Perché lo esigono i sindacati e perché, nei ranghi della sinistra, sono tanti quelli che continuano a preferire l’intervento pubblico alla libera competizione di mercato.
L’unico problema fastidioso davanti al quale può trovarsi la sinistra quando statalizza è che le può accadere di mettersi in urto con quella Europa di cui si considera la più fedele interprete italiana. Come sta accadendo nella vicenda Alitalia: è difficile dar torto agli inglesi mentre chiedono la condanna dell’Italia per violazione dei trattati in materia di concorrenza. Ma che dire della destra? Non toccherebbe a lei la più fiera difesa del mercato? Non toccherebbe alla destra contrastare le pulsioni stataliste della sinistra? E invece no. Queste operazioni si sono fatte col consenso e l’attiva partecipazione del Pdl. L’anomalia italiana è che in questo Paese non è statalista solo la sinistra.
Lo è anche la destra. Si può capire, naturalmente, che sulla vicenda Alitalia il Pdl abbia la coda di paglia e voglia in qualche modo coprire l’errore che, a suo tempo, venne commesso da Berlusconi quando sbarrò il passo a Air France, ma questo da solo non dovrebbe essere un buon motivo per razzolare in modo opposto a come si predica. Non ha molto senso battersi contro l’Imu o altre tasse e poi lasciare che l’intervento pubblico dilaghi. Poiché le tasse alte sono solo un sintomo, o l’effetto, di una presenza statale che non si sa contenere né ridurre. Prima di contrapporsi fra lealisti e ministeriali quelli del Pdl dovrebbero riflettere su che cosa vorranno proporre al Paese quando arriverà il momento di farlo. Il che implica anche una presa d’atto delle ragioni di fondo dei fallimenti dei governi Berlusconi, del fatto che le (troppe) parole spese sulla «rivoluzione liberale» non fossero accompagnate da atti in grado di dare davvero senso, e credibilità, a quelle parole. Piuttosto che sui gradi di fedeltà al capo sarebbe forse più sensato, per il Pdl, dividersi tra chi pensa che non ci siano autocritiche da fare e chi pensa che sia infine necessario cambiare registro.

19 ottobre 2013
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_19/gli-statalisti-trasversali-ef0dd322-3881-11e3-a22e-23aa40bc2aa7.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L’ ONDATA DI MALESSERE ANTI EUROPEO
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2013, 05:27:55 pm
L’ ONDATA DI MALESSERE ANTI EUROPEO

Non basta dire no ai populisti


Nelle capitali europee è oggi allarme rosso: molti partiti antieuropeisti, secondo i sondaggi, potrebbero trionfare nelle prossime elezioni europee. In Francia, in Gran Bretagna, in Olanda, ma forse anche in Italia, in Austria e in altri Paesi ancora, gli antieuropeisti potrebbero ottenere più consensi dei partiti tradizionali. Il presidente del Consiglio Enrico Letta ha dato voce, nei giorni scorsi, alle preoccupazioni condivise da tutti i capi di governo. È probabile dunque che il prossimo Parlamento europeo sia fortemente connotato in senso antieuropeista. Bisognerà però fare la tara ai risultati, bisognerà ricordare che se quei successi ci saranno, si dovranno in larga misura alla astensione dei votanti che, normalmente, sostengono i partiti tradizionali. Bisognerà ricordare che quelle europee sono elezioni sui generis nelle quali manca la posta presente nelle altre elezioni, nazionali o locali: non si vota per influenzare la composizione del governo.

Ciò spiega quanto tradizionalmente accade nelle elezioni per il Parlamento europeo: gli altissimi tassi di astensione, e il fatto che chi va a votare lo faccia, molto spesso, più per tirare uno schiaffo al proprio governo nazionale che per un vero interesse per le questioni europee. Non bisognerà insomma commettere l’errore di vedere nei risultati delle consultazioni europee un’anticipazione di quanto in seguito accadrà nelle diverse elezioni nazionali. Fatta la tara, però, resta che una «grande abbuffata » antieuropeista è dietro l’angolo, attende di manifestarsi nelle europee di primavera. E resta il fatto che questa volta, gli strali avranno come bersaglio l’Unione più che i rispettivi governi nazionali (come invece accadeva in passato).

L’Europa è vittima del suo successo: poiché l’integrazione è andata molto avanti si è anche «politicizzata», è una questione che ora divide i cittadini dei Paesi membri. Naturalmente, il previsto forte successo degli antieuropeisti avrà conseguenze: obbligherà i partiti tradizionali, e i governi, a tenerne conto. Il modo in cui ne terranno conto inciderà sulle sorti del Continente negli anni a venire. La prima cosa da evitare sarà la criminalizzazione dei cittadini che voteranno contro l’Europa: gli elettori, in democrazia, non hanno mai torto. Il torto è sempre di coloro, le élite politiche, che non li hanno convinti delle loro buone ragioni (ammesso che avessero buone ragioni). Bisognerà anche evitare di esorcizzare l’ondata antieuropeista usando sciocchi e logori termini passpartout (che non spiegano nulla) come il termine «populista ».

Questi partiti sono contro le élite esistenti? Certo che lo sono. Tutti i nuovi partiti, da quando esiste la democrazia, sono, per definizione, contro le élite esistenti. Altrimenti, come farebbero a calamitare consensi e ad affermarsi? Soprattutto, bisognerà riconoscere che la responsabilità dell’ondata antieuropeista ricade interamente sulle spalle di quelle élite che con le loro politiche e i loro errori l’hanno provocata. L’Unione Europea va ripensata. Bisogna prendere atto che le divisioni che l’attraversano sono ormai troppo profonde e che l’unico modo per non esasperarle ulteriormente è cambiare registro. È inutile, e controproducente, continuare a spendere vuota retorica a favore di una ipotesi di super Stato — gli Stati Uniti d’Europa — che probabilmente non nascerà mai e che, comunque, in questa fase storica, non interessa alla maggioranza degli europei.

Tanto vale ridefinire la direzione di marcia e piegare le istituzioni verso una più realistica e fattibile soluzione «con- federale» (le confederazioni, a differenza degli Stati federali, sono state assai frequenti nella storia umana). Ciò significa accettare che gli Stati europei man- tengano il controllo su quasi tutto tran- ne che su poche cose essenziali, le quali devono ricadere sotto l’autorità degli organi confederali. Occorre stipulare un nuovo «patto europeo», di netta im- pronta confederale. È assurdo, ad esempio, che non esista una vera politica europea per l’immigrazione (una materia questa sì vitale) mentre, in compenso, da decenni, si rompono le scatole ai cit- tadini dell’Unione sfornando infiniti regolamenti su questioni inessenziali e sulle quali gli unici titolati a metter becco dovrebbero essere gli Stati nazionali e i governi locali. Una soluzione confederale è compatibile con la moneta unica? Forse sì e forse no. Ma chi vuole mettere in sicurezza l’euro (e bisognerebbe fare il possibile per metterlo in sicurezza) ha l’onere di individuare soluzioni realisti- che, accettabili per i diversi Stati nazionali, rinunciando alle solite fughe in avanti, rinunciando a perorare l’idea di un impossibile Stato sovranazionale.

Forse, il vero salvataggio dell’Unione verrà alla fine dall’accordo per il libero scambio con gli Stati Uniti. Se oggi il più grave problema europeo, che alimenta tanta parte dell’antieuropeismo, è quel- lo di una Germania troppo potente economicamente (e quindi politicamente) perché gli altri, a torto o a ragione, non se ne risentano, diluire quella potenza entro una più vasta area economica integrata potrebbe alleviare, col tempo, le difficoltà. Può essere che l’ondata antieuropei- sta colpisca a morte l’Unione. Ma può anche essere che si tratti di una sfida sa- lutare. Le stanche élite europeiste potrebbero trovare la forza, il coraggio e l’immaginazione per fare i cambiamenti in grado di riconciliare gli europei con l’Europa.

04 novembre 2013
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/politica/13_novembre_04/non-basta-dire-no-populisti-15c1fbca-451a-11e3-9115-48b024bd67ed.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. PERCHÉ NON SIAMO CREDIBILI IN EUROPA
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2013, 10:21:00 pm
PERCHÉ NON SIAMO CREDIBILI IN EUROPA

Dire molto per fare poco

La bocciatura, che però il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni nega essere tale, della nostra legge di Stabilità da parte della Commissione europea, è il segnale del cul de sac in cui ci troviamo, l’indice di un circolo vizioso che da molto tempo caratterizza il rapporto fra Italia e Europa: non siamo ritenuti affidabili, credibili, il che ci rende deboli nelle negoziazioni, ci toglie la forza che sarebbe indispensabile per strappare condizioni a noi più favorevoli.

Gettare la croce sul governo in carica è, per molti versi, ingiusto (anche se, in democrazia, è inevitabile: con chi altri prendersela?). Il governo è bloccato o procede a stento perché subisce un quotidiano bombardamento come effetto delle lotte per il potere che scuotono la sua divisissima maggioranza parlamentare. A dimostrazione del fatto che le Grandi Coalizioni possono funzionare relativamente bene solo se i partiti che le compongono sono organizzazioni coese, saldamente controllate dai loro leader. L’opposto di ciò che accade in Italia.

Si aggiunga il vincolo che pesa su tutti i governi italiani: le nostre istituzioni premiano i poteri di veto, non il potere di decisione. Da qui la tradizionale politica degli annunci: «Faremo questo, faremo quello». Poiché, in realtà, si può fare poco, poiché c’è sempre qualcuno che può porre veti (si veda cosa è successo appena il governo ha cercato di mettere mano ai conti della Sanità), i governi, anziché fare, devono limitarsi a promettere che faranno. Privatizzazioni? Spending review con quel che segue in termini di razionalizzazione della spesa? Riduzione delle tasse? Non ci crediamo noi. Perché dovrebbero crederci gli altri?

O si consideri il caso di Matteo Renzi, l’astro nascente. Se non gli gettano la proporzionale fra i piedi forse vincerà le prossime elezioni. Magari riuscirà anche a stravincerle. E si troverà a seguire le orme di Berlusconi: grandi maggioranze, scarsi risultati. Il nostro sistema politico-istituzionale è costruito per premiare la conservazione, non l’innovazione. Come ha scritto Adriano Sofri (sul Foglio del 16 novembre): chi parla di «Costituzione più bella del mondo» ne ha mai lette almeno due?

Il che ci porta al nostro rapporto con l’Europa. Romano Prodi ha lanciato una idea (Il Messaggero , 2 novembre) molto discussa. L’Europa, e l’Italia più di altri, hanno bisogno di politiche pro crescita. Ma la Germania - osserva Prodi - è irremovibile. Occorre un cambiamento nei rapporti di forza. Occorre una alleanza strategica fra Francia, Italia e Spagna che negozi con la Germania una rimodulazione della politica europea. Prodi ha ragione. Sulla carta, non c’è altra strada. Ma gli ostacoli sono formidabili. Dovuti alle condizioni di Francia e Italia. In Francia, un presidente ormai debolissimo, ai minimi storici di popolarità, difficilmente potrebbe trovare l’energia per dichiarare ufficialmente chiusa la stagione delle finzioni e delle illusioni: l’illusione, soprattutto, di potere ricostituire un giorno quell’asse franco-tedesco che, per decenni, diede alla Francia il ruolo di co-gestore della politica europea. Occorrerebbe un presidente assai più forte di Hollande per un così marcato cambio di strategia. E ci sono poi le strutturali debolezze dell’Italia di cui si è detto.
La cattiva notizia è che abbiamo necessità di costruire nuove alleanze in Europa ma non ne abbiamo la forza. La buona notizia, se così si può dire, è che, per lo meno, la storia è sempre imprevedibile, e magari ci sbagliamo.

18 novembre 2013
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Angelo Panebiancohttp://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_18/dire-molto-fare-poco-b6ce511a-5016-11e3-b334-d2851a3631e3.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Gli ostacoli nella corsa di Renzi Il dilemma del candidato
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2013, 07:21:40 pm
Gli ostacoli nella corsa di Renzi
Il dilemma del candidato

Matteo Renzi vincerà, con ogni probabilità, le primarie (aperte) dell’8 dicembre e diventerà così, ufficialmente, il leader del Partito democratico. Solo una bassa affluenza alle urne potrebbe ammaccarlo, offuscarne un po’ la vittoria. Renzi è anche il più probabile candidato premier del centrosinistra (Enrico Letta permettendo) alle prossime elezioni. E se il centrodestra rimarrà nel marasma in cui è, incapace di andare oltre Berlusconi, Renzi avrà ottime possibilità di uscirne vincitore e diventare capo del governo. Dunque, è giusto che su di lui, sulle sue parole e sulle sue azioni, si appuntino oggi le attenzioni di tutti.

Sulle sue capacità comunicative e sulla sua abilità tattica non c’è bisogno di spendere parole: sono evidenti. Non sembrano, peraltro, molto giustificate (almeno per ora) certe critiche che taluni gli rivolgono. Lo accusano di fumosità, vaghezza, inconsistenza programmatica, solo nascoste da una capacità di affabulazione superiore alla media. Ma in Italia la fumosità programmatica è il tratto dominante di tutti i discorsi politici. Perché gettare la croce sul solo Renzi? Si dice che stia mettendo a punto le linee guida di una proposta programmatica volta al rilancio della crescita economica e che potrebbe ottenere il favore degli industriali. Staremo a vedere.

È difficile giudicare un politico soprattutto dalle sue promesse. Bisogna aspettare di vedere cosa succede quando egli passa dal dire al fare. Per ora, di concreto, Renzi ha fatto soprattutto due cose: si è esposto a favore delle dimissioni del ministro nel caso Cancellieri e ha preso una posizione netta contro le manovre volte a rimettere in vigore una legge elettorale proporzionale.

Poiché un politico abile non fa nulla a caso, erano evidenti gli obiettivi che Renzi si proponeva nella vicenda Cancellieri: mettere in difficoltà il governo Letta, mandare un messaggio critico al presidente della Repubblica, e stipulare un’intesa con forze che, per mandare all’aria il governo, avevano puntato tutto sulle dimissioni del ministro. Quanto al contenuto, Renzi, per dare un po’ di concretezza alla sua azione politica, avrebbe forse dovuto cercare un altro terreno di gioco: non c’era stato nulla di penalmente rilevante nell’azione del ministro e, per giunta, la Cancellieri si era scusata in Parlamento per l’ingenuità e l’inopportunità di certe sue parole. L’accanimento era sospetto. Tanto più che Renzi, in questo modo - proprio lui che con quelle cose non c’entra - si è ritrovato a braccetto di pessime compagnie, con i più collaudati esperti di linciaggi e di giustizia sommaria. Per non sentirti imbarazzato a causa della fiducia che (giustamente, secondo chi scrive) mantieni per un sindaco a te vicino raggiunto da un avviso di garanzia, dovresti teneri sempre alla larga da quelle pessime compagnie.

Nella vicenda Cancellieri colpiva soprattutto, di Renzi, l’assordante silenzio sul vero scandalo (a cui peraltro siamo assuefatti da tanti anni), segno, questo sì davvero, di decadenza morale: la divulgazione di intercettazioni come mezzo di lotta politica e processi mediatici. È stato il silenzio di Renzi su questo aspetto a far pensare che egli abbia colto l’occasione del caso Cancellieri per cercare un’alleanza con gruppi interessati a che quest’andazzo non abbia mai fine. È facile, non costa niente, parlare della necessità di riformare la giustizia. È meno facile aggredire nodi che troppi interessi vogliono mantenere aggrovigliati. L’altro tema su cui Renzi si è molto speso è la questione della legge elettorale. Forse oggi Renzi è l’unico leader importante che voglia davvero impedire il ritorno alla proporzionale. Chi pensa che il suo personale interesse al varo di una legge maggioritaria coincida con l’interesse del Paese, non può, su questo punto, che tifare per lui. Renzi però deve fronteggiare un dilemma. Una buona legge maggioritaria (ammesso, e non concesso, che egli riesca ad ottenerla) non basta per dare al Paese un buon governo. È una condizione necessaria, ma non sufficiente. Senza una riforma costituzionale che, per lo meno, superi il bicameralismo simmetrico (due Camere con uguali poteri) e dia qualche strumento di azione in più al primo ministro, un governo efficace ed efficiente non è possibile. Anche con una buona legge elettorale Renzi (come chiunque altro), in assenza di interventi sulla Costituzione, rischia domani di fallire nella azione di governo, pur disponendo, eventualmente, di una larga maggioranza parlamentare. Il governo si è impegnato per ottenere il varo, in tempi relativamente rapidi, di alcune indispensabili riforme costituzionali. Servirebbero, in prospettiva, anche a Renzi. E difatti egli ha dichiarato di volerle. Però, se quelle riforme arrivassero davvero in porto, si rafforzerebbe anche la posizione politica di Enrico Letta, il suo vero rivale. Da qui il dilemma. Osservando come si muoverà Renzi in questa cruciale partita capiremo se, capacità comunicative a parte, egli ha anche stoffa e qualità di statista.

26 novembre 2013
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_26/dilemma-candidato-0e39fc2c-5663-11e3-9a32-8b8b5da15961.shtml


Titolo: A. PANEBIANCO. Un leader moderno, insidie antiche Il segretario e i suoi nemici
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2013, 11:46:55 am
Un leader moderno, insidie antiche
Il segretario e i suoi nemici

Un anonimo sostenitore di Gianni Cuperlo, commentando il trionfo di Matteo Renzi, ha detto ai cronisti, mestamente: «Oggi il Pci è davvero finito. Sepolto». Beh, sepolto no, e morto nemmeno, ma forse agonizzante. Se il contesto in cui il neosegretario dovrà muoversi fosse diverso da quello che è, se non ci fosse ripiombata addosso, grazie alla Consulta, persino la proporzionale con le preferenze, anche chi scrive farebbe sua (con un diverso spirito) l’affermazione di quell’anonimo. Ma il contesto è tale, e la connessa palude è così insidiosa per Renzi, che l’agonia del vecchio partito, dichiarato morto vent’anni fa ma vissuto clandestinamente fino a oggi (perché vivo nella coscienza di tanti militanti nonché in certe istituzioni di partito arrivate, quasi inalterate, fino a noi) potrebbe prolungarsi a lungo. Così a lungo da logorare il nuovo leader carismatico. Apparentemente, sulla carta, la vittoria a valanga di Renzi nelle primarie aperte cambia la natura del Pd: da partito degli iscritti a partito degli elettori (storicamente, le due principali modalità di organizzazione partitica). Renzi dovrebbe essere così generoso da ringraziare pubblicamente chi gli fece da battistrada: Walter Veltroni, primo segretario del Pd, colui che almeno tentò, non riuscendoci, di fare una operazione simile.

Renzi, come ha osservato Antonio Polito sul Corriere di ieri, dovrà cambiare la «macchina» e impadronirsi dei gruppi parlamentari (creature, per lo più, dell’apparato antirenziano) e dovrà farlo fronteggiando, contestualmente, le quotidiane esigenze della politica politicienne : tallonare il governo, rintuzzare gli attacchi degli avversari esterni, eccetera. Ma condizione indispensabile perché riesca a fare politica (o almeno la politica che egli dice di voler fare) è che riduca il partito ai suoi voleri, superando e sconfiggendo sia le adesioni insincere che arrivano a valanga (l’effetto bandwagoning , saltare sul carro del vincitore) sia le resistenze più o meno passive che si manifesteranno.

Sarà interessante soprattutto vedere come Renzi affronterà una questione per lui cruciale, quella dell’«oro del Pci» (il patrimonio immobiliare del vecchio partito). L’Italia è un curioso Paese nel quale può accadere che i beni di chi è stato dichiarato ufficialmente defunto non passino agli eredi, come ci si aspetterebbe, ma vengano invece messi «al sicuro» in qualche Fondazione, in attesa di non si sa che cosa. Renzi ha due ottime ragioni per affrontare la questione. Se non ne viene a capo non potrà sconfiggere definitivamente il vecchio partito di apparato. E non potrà tenere fede all’impegno di abolizione (vera) del finanziamento pubblico ai partiti. Si ritroverebbe al verde o quasi. Le donazioni che affluirebbero dai suoi sostenitori probabilmente non gli basterebbero. E con pochi soldi è difficile fare politica.

La difficoltà più grave, naturalmente, è data dal fatto che un partito degli elettori, per prosperare, per dispiegare davvero la «vocazione maggioritaria», ha bisogno di un contesto esterno fondato su una logica, appunto, maggioritaria, non proporzionale. Con la proporzionale sguazzano soprattutto i partiti (oligarchici) degli iscritti, quelli in cui la difesa dell’identità fa premio sulla ricerca di nuovi consensi, non i partiti (carismatici) degli elettori.

I nemici di Renzi, sia interni al partito che esterni, sanno bene cosa dovranno fare per logorarlo e, infine, batterlo: conservare gelosamente l’insperato regalo che ha fatto loro la Corte costituzionale.

10 dicembre 2013
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_10/segretario-suoi-nemici-0960d81e-6163-11e3-9835-2b4fbcb116d9.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il peso dello stato corporativo Maggioranze inconfessabili
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2014, 03:11:10 pm
Il peso dello stato corporativo
Maggioranze inconfessabili

Non è difficile spiegare perché la legge di Stabilità varata dal governo sia così tragicamente inadeguata (Alberto Alesina sul Corriere di ieri), perché non sia possibile rilanciare la crescita mediante un percorso virtuoso di tagli alla spesa e di riduzione della pressione fiscale. Accade perché interessi, tradizioni culturali, e regole del gioco fanno sinergia e remano contro, impediscono che lo «Stato corporativo» venga scalfito.

La maggioranza bipartitica che si è formata sulla questione delle aziende municipalizzate a Roma dice, a proposito di Stato corporativo, tutto ciò che c’è da sapere. Qui non si vuole infierire su Berlusconi o sull’onorevole Brunetta ma è stato uno dei loro, il senatore di Forza Italia Francesco Aracri (un originale interprete della Rivoluzione liberale), a proporre l’emendamento che dà ai sindacati il potere di veto sui licenziamenti nelle municipalizzate di Roma. E nemmeno si vuole infierire su Matteo Renzi ma sono stati i suoi a votare l’emendamento del suddetto senatore mentre veniva respinta (per veto Cgil) una proposta di Linda Lanzillotta che andava nella direzione opposta (Sergio Rizzo, Corriere di ieri a pagina 5).

Fossi al posto di Enrico Letta , che è uomo colto e intelligente, anziché difendere l’indifendibile, spiegherei al Paese perché qui da noi ciò che ci si propone inizialmente di fare — vedi la parabola tragicomica della spending review — non può essere fatto (da nessuno: Renzi se ne accorgerà presto), le ragioni per cui è al di là delle umane capacità innescare in Italia un percorso virtuoso di sviluppo. Potenza delle lobbies che, in Parlamento, nell’amministrazione, negli enti locali (i sindaci vogliono soldi ma si guardano bene dal mettere le mani nelle municipalizzate in deficit), negli organi della giustizia amministrativa, stanno a guardia della spesa pubblica? Certamente. Forza di una tradizione culturale che avalla e legittima l’azione delle suddette lobbies? Sicuro. Regole del gioco, costituzionali e non, costruite per impedire inversioni di marcia? Detto e ridetto.

Sostengono i cantori dello Stato corporativo che così si tutela la pace sociale. Ma il punto è che quando tali pratiche diventano incompatibili con lo sviluppo (e oggi lo sono), e l’impoverimento del Paese avanza inesorabilmente, finisce per gonfiarsi l’esercito dei non tutelati, o dei non più tutelabili, e, alla fine, anche la pace sociale viene meno. A causa della rivolta, e dell’assedio, degli esclusi. Dopo le elezioni della primavera scorsa e l’impasse politico che ne seguì, per un breve momento, sembrò entrata nella consapevolezza dei più l’idea che occorresse cambiare le regole del gioco, sbarazzarsi di ciò che di sbagliato o inadeguato c’è nella Costituzione del ’48. È tutto già finito. E si capisce: con una Costituzione diversa, i governi italiani potrebbero disporre di una forza simile a quella che detengono i governi delle altre grandi democrazie europee. Ma il partito trasversale della spesa e delle tasse non può accettarlo. Le regole del gioco attuali lo proteggono. Con altre regole potrebbe, un giorno, essere sfidato o minacciato. Peter Praet, capo economista della Bce (su La Stampa di ieri) dice che siamo stati bravi, abbiamo messo sotto controllo i conti. C’è solo — egli nota — il piccolo dettaglio che lo abbiamo fatto a colpi di tasse anziché di tagli. Moriremo per asfissia da tasse ma con i conti (forse) in ordine. Sono soddisfazioni.

23 dicembre 2013
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_23/maggioranze-inconfessabili-bc05a31c-6b97-11e3-82ae-77df18859bd6.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il Nord tra Lega, Berlusconi e Pd Una questione non risolta
Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2014, 04:27:35 pm
Il Nord tra Lega, Berlusconi e Pd
Una questione non risolta

 
Cosa succederà alla rappresentanza politica del Nord? Chi raccoglierà il testimone dalle mani, oggi esauste, dei movimenti che quella rappresentanza si sono intestati negli ultimi venti anni?

Ciò che chiamiamo Seconda Repubblica è stata molte cose ma, certamente, anche un tentativo, alla fine non riuscito, di spostare verso il Nord il baricentro politico del Paese, di dare all’Italia una egemonia politica «nordista». Un tentativo non riuscito, sia per i limiti (culturali e di visione politica, prima di tutto) dei movimenti che ne sono stati protagonisti, sia per le resistenze efficacemente opposte dagli altri territori e da coloro che, nelle istituzioni, dall’amministrazione alle magistrature, non intendevano subire quella egemonia.

I limiti culturali sono stati diversi e gravi. La Lega ha sempre oscillato fra un secessionismo velleitario e un sindacalismo territoriale teso solo a trattenere nei luoghi da essa controllati il massimo della ricchezza prodotta. Il tutto condito con un «pan-politicismo» (la pretesa di fare della Lega il centro della vita comunitaria; il rifiuto di privatizzazioni e liberalizzazioni per non perdere il controllo sulle risorse locali) che poteva soddisfare solo le esigenze dei ceti sociali che alla politica chiedono protezione. Uno stile e una cultura politica che erano in conflitto con le domande della parte più dinamica della società del Nord, quella non attratta dagli ideali comunitari leghisti, e che chiedeva più libertà dai lacci politici e burocratici, nazionali e locali. Non è un caso che la Lega, conquistata Milano, e subito perduta, nei primi anni Novanta, non sia mai più riuscita a sfondare nelle grandi città del Nord.

La domanda della parte più dinamica del Nord venne invece intercettata da Berlusconi, il Berlusconi del ‘94. Ma, poi, diventata Forza Italia partito nazionale, capace di fare il pieno elettorale sia in Lombardia che in Sicilia o in Campania, la sintesi fra interessi così contrastanti non venne neppure tentata. Alla sintesi, che impone comunque scelte, si preferì la sommatoria di domande eterogenee e in conflitto. Con il risultato di scontentare sia il Nord (cui veniva promessa e poi negata una maggiore libertà dallo Stato) sia il Sud (cui non veniva offerto un serio progetto di sviluppo e la speranza di una emancipazione, almeno parziale, dalle storiche tare). Né, soprattutto, Berlusconi fu in grado di riformare lo Stato coerentemente con le esigenze dei ceti e dei territori di cui, in via prioritaria, aveva assunto la rappresentanza.

Oggi la questione settentrionale è di nuovo aperta. Chi raccoglierà il testimone? Potrebbe essere Matteo Renzi? Effettivamente, Renzi ha fin qui dato l’impressione di cercare l’incontro con la parte economicamente più dinamica del Paese. Inoltre, può contare su una fitta rete di sindaci che conoscono bene i territori, dall’Emilia Romagna in su. Però è anche vero che Renzi ha preso la guida di un partito tradizionalmente «romano-centrico», il contrario di ciò che servirebbe per entrare in sintonia con il Nord nel suo insieme. È da vedere se riuscirà a cambiarlo. Ma per ora non sembra.
La cosiddetta Seconda Repubblica ha fallito per un complesso di circostanze, compresi i limiti dei suoi protagonisti. Ma il principio non era sbagliato. Serve alla crescita, anche civile, di un Paese che primato economico-territoriale ed egemonia politica coincidano. Speriamo che il prossimo tentativo, se ci sarà, non abbia gli stessi difetti del precedente.

02 gennaio 2014
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_gennaio_02/questione-non-risolta-444743f0-7374-11e3-8c6d-871530ae059d.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L’accoglienza e la convenienza Troppe ipocrisie sugli ...
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2014, 05:23:02 pm
L’accoglienza e la convenienza
Troppe ipocrisie sugli immigrati

La richiesta di Matteo Renzi di inserire la riforma della Bossi-Fini fra i temi del contratto di governo, al di là delle motivazioni del neosegretario del Pd, potrebbe essere una occasione da cogliere per dare basi più razionali alla nostra politica dell’immigrazione. Dobbiamo solo limitarci a tamponare e contenere i flussi migratori o abbiamo bisogno di interventi più attivi e, soprattutto, più selettivi? Una domanda che diventa possibile se ci si lascia alle spalle le ambiguità e le ipocrisie che hanno fin qui dominato il campo. Le ambiguità dipendono dal fatto che sembriamo incapaci, a causa di certe sovrastrutture ideologiche, di decidere una volta per tutte a quale criterio appendere la politica dell’immigrazione: la convenienza oppure l’accoglienza (il dovere di accogliere i meno fortunati di noi)? Troppo spesso i due criteri vengono mescolati, l’immigrazione viene giustificata alla luce di entrambi. Se non che, si tratta di criteri fra loro in contraddizione. Ne deriva l’impossibilità di formulare proposte coerenti.

Le ragioni della convenienza sono note: abbiamo bisogno di contrastare l’invecchiamento della popolazione, abbiamo bisogno - almeno se la ripresa economica, come si spera, prima o poi arriverà - di forza lavoro aggiuntiva e di nuovi consumatori. Ma a queste ragioni, ispirate alla convenienza, ne vengono sovente aggiunte altre di diversa natura, di ordine umanitario (le ragioni dell’accoglienza). I piani si confondono rendendo impossibile fare scelte razionali. L’appello all’accoglienza ha una chiara origine ideologica, nasce dalla confusione, propria di certi cattolici (ma non tutti), e anche di un bel po’ di laici, fra la missione della Chiesa e i compiti degli Stati. È la confusione fra il messaggio evangelico e la politica, fra l’universalismo della Chiesa, che parla a tutti gli uomini, e l’inevitabile particolarismo dello Stato che risponde a un insieme definito di contribuenti.

L’accoglienza non può essere il criterio ispiratore di una seria politica statale. Perché si scontra con l’ineludibile problema della «scarsità »: quanti se ne possono accogliere? Qual è il tetto massimo? Quante risorse possiamo mettere a disposizione dell’accoglienza se la vogliamo decente? A chi e a quali altri compiti toglieremo queste risorse?

L’unico criterio su cui è possibile fondare una politica razionale dell’immigrazione, per quanto arido o «meschino» possa apparire a coloro che non apprezzano l’etica della responsabilità, è dunque quello della convenienza , della nostra convenienza . Una volta adottato con franchezza ci consente di porci il problema - che altri Stati si sono già posti - di come selezionare gli immigrati. È evidente che se usiamo il criterio dell’accoglienza non possiamo selezionare. Invece, possiamo, e dobbiamo, farlo alla luce delle convenienze. Di quali immigrati abbiamo bisogno? Con quali caratteristiche, con quali eventuali competenze? Oggi il problema forse non si pone data l’elevata disoccupazione intellettuale giovanile (che resta grave, anche facendo la tara alle statistiche ufficiali che, fraudolentemente, imbarcano fra i disoccupati anche gli studenti).

Però, domani potremmo avere bisogno di importare mano d’opera qualificata, per esempio in settori tecnici lasciati sguarniti dai nostri giovani. In quel caso, una politica dell’immigrazione lungimirante cercherebbe di attirare quel tipo di mano d’opera a scapito di altri tipi. Considerando inoltre che un Paese economicamente avanzato non può permettersi di importare troppa mano d’opera non qualificata. Oltre una certa soglia, non può assorbirla nei mercati legali, finendo così per favorire quelli illegali, gestiti dalla criminalità. Un effetto collaterale di una politica ispirata alla convenienza è che faremmo star bene anche gli immigrati che accogliamo.

E poi ci sono altre considerazioni che dovrebbero entrare nelle valutazioni di chi decide la politica dell’immigrazione. Per esempio, certi gruppi, provenienti da certi Paesi, dovrebbero essere privilegiati rispetto ad altri gruppi, provenienti da altri Paesi, se si constata che gli immigrati del primo tipo possono essere integrati più facilmente di quelli del secondo tipo. È possibile che convenga favorire l’immigrazione dal mondo cristiano-ortodosso a scapito, al di là di certe soglie, e tenuto conto del divario nei tassi di natalità, di quella proveniente dal mondo islamico. Quanto meno, questo dovrebbe essere un legittimo tema di discussione.

Una politica realistica, fondata sulla convenienza, si dovrebbe insomma porre problemi di scelta, di selezione (da monitorare e rivedere nel tempo, alla luce dell’esperienza). Non si tratta di inventare nulla. Altri Paesi hanno già imboccato questa strada.

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13 gennaio 2014

ANGELO PANEBIANCO

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_13/troppe-ipocrisie-immigrati-feb5ed34-7c18-11e3-bc95-3898e25f75f1.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. ISTITUZIONI E VITA QUOTIDIANA Mediare sempre, decidere mai.
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2014, 04:43:31 pm
ISTITUZIONI E VITA QUOTIDIANA
Mediare sempre, decidere mai

È perfettamente comprensibile che tanti cittadini non colgano il legame che esiste fra ciò che accade e, presumibilmente, accadrà alle loro vite o a quelle dei loro figli, e questioni «astruse» come la legge elettorale o i propositi di riforma della Costituzione. Essi pensano che tali questioni siano di interesse solo per i politici di professione, per i giornalisti e per gli esperti accademici di istituzioni. Molti ritengono anche che occuparsi di riforme elettorali e costituzionali sia, per i politici, una sorta di alibi, un modo per eludere i problemi «veri»: l’occupazione, il reddito delle famiglie, eccetera. Se è comprensibile che essi non vedano quel legame è anche un fatto che si sbagliano. Le due cose sono collegate.

Il problema italiano, quello che ci impedisce di porre le condizioni per il rilancio dell’economia, è l’immobilismo decisionale, il fatto che non sappiamo attuare quei radicali interventi che ci permetterebbero di affrontare con più ottimismo il futuro. Ma quell’immobilismo non è effetto del caso né, come vuole la vulgata anti-politica, dell’inadeguatezza dei nostri uomini di governo. Non è vero che i politici britannici o spagnoli o tedeschi, siano, mediamente, migliori dei nostri: i politici si assomigliano un po’ tutti. L’immobilismo, e le risposte inadeguate che diamo ai problemi (si veda, ad esempio, ciò che ha scritto Francesco Giavazzi sulla privatizzazione delle Poste, Corriere del 29 gennaio), sono conseguenze della frammentazione politica, del fatto che qualunque decisione debba passare attraverso infinite mediazioni, e si scontri con un grandissimo numero di veti. E la frammentazione è appunto figlia di un sistema istituzionale che, dopo averla generata, la perpetua.

Non faremo mai gli interventi che servono per avere di nuovo crescita economica e dare così un futuro ai nostri figli se non riusciremo a ridurre drasticamente la frammentazione, se non riusciremo a tagliare le unghie ai tanti poteri di veto che oggi ci paralizzano, se non disporremo di una democrazia capace di decidere. Sta precisamente qui il legame fra la questione istituzionale e la vita di ogni giorno delle persone. L’immobilismo condanna il Paese alla decadenza e l’unico modo per uscire dalla trappola è fare quei cambiamenti istituzionali che possano rimettere in funzione il motore imballato.

Se a molti cittadini sfugge quel legame, esso però non è mai sfuggito a coloro che resistono attivamente a qualunque cambiamento istituzionale di una qualche serietà. C’è, e c’è sempre stata, una sovrapposizione quasi perfetta fra gli adepti di quello che potremmo definire il «partito trasversale del socialismo reale» (all’italiana) e i cantori della «Costituzione più bella del mondo». Sono in realtà, più o meno, le stesse persone. Quelli che «la spesa pubblica non si tocca», quelli che «le tasse alte non sono un problema», quelli che «il mercato del lavoro non si tocca», eccetera eccetera . Sono gli stessi che difendono l’assetto istituzionale vigente, e la frammentazione che esso contribuisce a perpetuare. Essi difendono in realtà il proprio potere di veto, la propria capacità di impedire che l’immobilismo abbia termine.

È vero, in venti e passa anni di discussioni sulle questioni istituzionali abbiamo abbondantemente annoiato i cittadini mettendo in competizione tante proposte di riforma elettorale o costituzionale, alcune delle quali, peraltro, davvero astruse. Ma si consideri che gli obiettivi sono sempre stati gli stessi: ridurre la frammentazione, indebolire i poteri di veto, dare ai governi maggior potere decisionale. Non importa il colore del gatto purché acchiappi il topo. Non importa che si segua la via britannica o quella spagnola o quella francese. Non conta insomma il «modello costituzionale» a cui ci si ispira. Importa che i succitati obiettivi vengano, in un modo o nell’altro, raggiunti.

La legge elettorale oggi in discussione, in virtù dell’accordo fra Renzi e Berlusconi, non è certo la migliore possibile ma è, a quanto pare, il massimo che si possa realisticamente realizzare nelle condizioni politiche attuali. Se porterà con sé anche la riforma del Senato e la fine del bicameralismo simmetrico o paritetico, l’accordo suddetto avrà comunque dato un significativo contributo alla riduzione della frammentazione e all’indebolimento, almeno parziale, dei tanti poteri di veto. Vedremo se ciò basterà per lottare, finalmente ad armi pari, con il partito immobilista, con il partito del socialismo reale. Condizione necessaria, anche se non sufficiente, per svoltare, per fermare il declino.

02 febbraio 2014
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Angelo Panebianco

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_02/immobilismo-politica-frammentazione-istituzioni-panebianco-21b4a544-8bd9-11e3-a29b-8636964bc663.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Governo, quattro punti critici. Il velocista e il pachiderma
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2014, 07:15:00 pm
Governo, quattro punti critici
Il velocista e il pachiderma

A dispetto dei santi? Può un uomo, tutto da solo, «battere» il sistema, imporre le innovazioni necessarie là dove ogni istituzione che conta è costruita per premiare l’immobilismo? Benché l’espressione «un uomo solo al comando» sia suggestiva e sia stata utilizzata da molti per commentare l’ascesa politica di Renzi, bisogna riconoscere che è sbagliata. Non ci può essere nessun «uomo solo al comando» per la semplice ragione che manca il luogo del comando. Palazzo Chigi non lo è e non lo è mai stato. Tutti incrociamo le dita e speriamo che Renzi ce la faccia ma non è realistico sottovalutare gli ostacoli. Anche quelli nuovi, che si sono aggiunti con le scelte sulla composizione del nuovo governo. Una volta fatti gli apprezzamenti di rito per le novità, giovinezza, eccetera, eccetera, non si possono non considerare anche i problemi.

Ci sono almeno quattro punti critici. Il primo riguarda il fatto che il varo della legge elettorale è, nella sostanza, rinviato sine die. Si aspetta (fiduciosi?) la riforma del Senato. E siamo già tutti curiosi di vedere come reagiranno i senatori il giorno in cui saranno davvero chiamati a votare a favore del proprio suicidio collettivo. Senza parlare del prezzo che, al momento buono, Renzi dovrà pagare ad Alfano in materia di soglie di sbarramento. Il cosiddetto Italicum, il progetto di riforma elettorale del patto Renzi-Berlusconi, non è di per sé un granché ma si può scommettere che sarà ancora più brutto quando e se arriverà in porto.

Il secondo punto critico riguarda il governo dell’economia. Il governo Renzi sarà in realtà il governo Renzi-Padoan, come è giusto che sia. I due però dovranno, prima di tutto, imparare a conoscersi. Un uomo del valore di Pier Carlo Padoan sarebbe sicuramente un eccellente ministro dell’Economia in un governo di sinistra legittimato come tale dal voto elettorale. Ma dovrà svolgere il suo compito in un esecutivo che ha una diversa origine e nel quale Renzi deve fare il funambolo fra sinistra e destra, cercando continuamente di scompaginare i diversi fronti. E poiché Padoan si è in passato espresso a favore della patrimoniale, sarebbe consigliabile che il tandem Renzi-Padoan escludesse subito, solennemente, qualunque nuova forma di aggressione fiscale in un Paese già massacrato dalle tasse, impegnandosi a puntare tutto sulla riduzione della spesa. Scordatevi, altrimenti, la ripresa della domanda interna. La classe media continuerà ad avere paura dei governi e i consumi a languire.

Il terzo punto critico riguarda i rapporti fra l’Italia e il mondo. Non appaiono affatto convincenti la sostituzione di Emma Bonino agli Esteri e l’allontanamento di Enzo Moavero Milanesi, ministro agli Affari europei nel governo Letta. Per quanto riguarda la Bonino è ingeneroso addossare a lei la responsabilità per la questione dei marò (ai quali, giustamente, come primo atto del suo governo, Renzi ha telefonato), frutto dei pesantissimi errori dei suoi predecessori; e fare finta che non abbia guidato con intelligenza il ministero in diverse situazioni complesse e critiche. Soprattutto, quella sostituzione rivela una grave e preoccupante sottovalutazione, da parte di Renzi, del rapporto fra politica e burocrazia. Se puoi disporre di un ministro degli Esteri di vasta e vera competenza, ma al suo posto metti una persona, magari eccellente, ma non altrettanto esperta, vuol dire che stai deliberatamente consegnando la guida politica del ministero alla burocrazia del medesimo. Per un bel po’ saranno gli alti gradi della Farnesina, non il ministro, a decidere su tutti i dossier aperti.

Stesso discorso vale per Moavero. A detta di tanti osservatori ha lavorato assai bene, e sarebbe stato di grande utilità per Renzi, uomo privo, a differenza di Enrico Letta, di esperienza europea. Per farsi valere nell’Unione occorrono competenze e relazioni. Lì, i discorsi brillanti non impressionano nessuno.
E c’è, infine, il problema dei problemi: la burocrazia. Se non si sottomette il pachiderma, se non gli si fa capire chi comanda, nessuna innovazione è possibile. E il pachiderma è da tanto tempo abituato a schiacciare con le sue zampe chiunque si faccia venire la bizzarra idea di comandarlo. Come hanno scritto Alesina e Giavazzi (Corriere del 21 febbraio), o si impongono cambiamenti nell’alta dirigenza dei ministeri o il fallimento del governo è garantito. Aggiungo che va affrontato anche il problema delle magistrature amministrative (Corte dei conti, Consiglio di Stato), cani da guardia della burocrazia così come è. Ma per metter mano a una questione di tale complessità la volontà politica (ammesso che ci sia) non basta. Deve essere sostenuta da eccezionali competenze tecniche (e guai se sono competenze solo giuridiche: non se ne può venire a capo). Forse, e ce lo dobbiamo augurare, nel governo Renzi tali competenze ci sono, magari nascoste da qualche parte, e verranno fuori. Al momento, però, è lecito avere qualche dubbio.

Forse suona disdicevole alle orecchie dell’Italia bacchettona del politicamente corretto ma la vera ragione per cui Renzi è piaciuto a tanti è che si tratta di un giocatore di poker coraggioso e spregiudicato. È come uno di quei giocatori professionisti a cui tante altre persone, fidandosi della sua abilità, danno i soldi per fare una partita. È come se, premiandolo nei sondaggi, tanti italiani gli avessero affidato i propri risparmi. E lui se n’è servito fino ad ora facendo rilanci su rilanci. Adesso, è arrivato il momento di vedere le carte. Se il punto risulterà alto, bene per tutti. Se era solo un bluff, poveri noi.

23 febbraio 2014
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ANGELO PANEBIANCO

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_23/paneibanco-renzi-velocista-pachiderma-7e43a82a-9c58-11e3-bf70-ea8899950404.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Ragioni e rischi della rottura renziana Non si vive di ...
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2014, 12:06:48 pm
Ragioni e rischi della rottura renziana
Non si vive di belle parole

di Angelo Panebianco

L’affermazione del presidente del Consiglio secondo cui se a maggio non ci saranno i soldi in più promessi nelle buste paga per effetto della manovra Irpef, allora egli sarà da considerare un buffone, è sembrata a molti la conferma di quanto azzardato sia il suo gioco politico. Ma è forse possibile una diversa interpretazione: quella frase irrituale svela quale sia il vero punto di forza di Renzi. Egli ha intercettato e correttamente interpretato un grande cambiamento (positivo) che si è verificato negli atteggiamenti dell’opinione pubblica. Il fatto è che ormai non è più possibile abbindolare nessuno: nessuno si fida più, non solo degli annunci, ma nemmeno - finalmente! - delle decisioni formalmente e ufficialmente prese da governi e Parlamenti. «Pagare moneta, vedere cammello» è ora l’atteggiamento dominante nell’opinione pubblica.

Fino a poco tempo fa il sistema funzionava così: veniva annunciato un nuovo, meraviglioso, provvedimento. I media, per lo più, lo presentavano come cosa già fatta. Dopo qualche tempo arrivava, se arrivava, la decisione, con i crismi del decreto legge o magari (ma doveva passare molto più tempo) con quelli della legge votata dal Parlamento in pompa magna. Già lì c’era la prima doccia fredda: gli addetti ai lavori scoprivano che fra il provvedimento annunciato e quello varato c’era un grande scarto. Ma questa informazione arrivava attutita all’opinione pubblica. E la cosa non finiva lì. Dopo, scattava il complicatissimo iter burocratico dell’attuazione durante il quale il provvedimento veniva ulteriormente triturato e, spesso, pervertito. Gli scopi iniziali venivano sovente abbandonati e sostituiti tacitamente da altri. Alla fine della fiera, e dopo parecchi mesi, i soliti addetti ai lavori scoprivano che il provvedimento non aveva sortito alcun effetto oppure solo effetti negativi: niente che assomigliasse, neppure alla lontana, alle meravigliose novità a suo tempo annunciate. L’opinione pubblica, ormai distratta da altro, neppure veniva a saperlo.

Adesso, anche i sassi sanno che non bisogna fidarsi: che non bisogna guardare solo alle decisioni che vengono prese ma aspettare di vedere quale ne sarà la attuazione, ciò che conta davvero. Perché questo cambiamento dell’atteggiamento dell’opinione pubblica è positivo? Perché apre la possibilità di imporre anche in Italia ciò che gli anglosassoni chiamano accountability: sei responsabile di ciò che mi prometti e ti giudicherò non per le promesse ma per i fatti che seguiranno, o non seguiranno, alle promesse. E ciò, oltre alla politica, potrebbe finalmente mettere sotto scopa anche «l’infrastruttura amministrativa» (burocrazia e giustizia amministrativa), il cui malfunzionamento è il male più grave da cui è afflitto il Paese. Accountability significa che l’epoca delle furbizie volge forse al tramonto.

Certo, gli umori del Pae-se potrebbero cambiare di nuovo. L’opinione pubblica potrebbe tornare ad essere ciò che è sempre stata: un impasto di apatia, credulità e voglia di ribellione, unite a ignoranza e disinteresse per i veri meccanismi che condizionano le scelte pubbliche. Ma è già tanto che la «politica degli annunci» non incanti più nessuno e che, inoltre, si sia diffusa la consapevolezza che ciò che blocca il Paese sta nell’intreccio fra una politica impotente e una infrastruttura amministrativa che opera al servizio di se stessa. È questo il vero punto di forza di Renzi. È la più potente arma di ricatto di cui dispone per mettere in riga le lobby parlamentari e la burocrazia a tutti i livelli: tutti quelli che, se si profila all’orizzonte una innovazione, si mettono subito al lavoro per neutralizzarla, distorcerla, edulcorarla. E che fino ad oggi, sfruttando cavilli e procedure complicate, sono sempre, o quasi sempre, riusciti a spuntarla. Basti vedere che cosa è successo a tanti provvedimenti varati dai governi Monti e Letta.

Sbloccherà davvero Renzi il pagamento dei debiti alle imprese? Il provvedimento sui contratti a termine, quando verrà varato, partirà già annacquato grazie al lavoro sottotraccia delle lobby contrarie oppure verrà neutralizzato in sede di attuazione? La riforma del lavoro di Renzi farà la fine di quella della Fornero? Il taglio dell’Irpef risulterà solo un regalo elettorale (in vista delle Europee di maggio) incapace di stimolare la ripresa della domanda interna oppure, sommandosi ad altri provvedimenti pro-crescita, contribuirà a mutare il clima del Paese, a dare il colpo di frusta di cui l’economia italiana ha bisogno? Cosa verrà fatto, a breve, contro quella palla al piede dell’economia che è il malfunzionamento della giustizia civile? Cosa verrà fatto per rendere i ricorsi ai Tar l’eccezione anziché la regola? A seconda delle risposte che potremo dare fra qualche mese a queste e ad altre domande, capiremo - lo capiremo solo allora - se Renzi si rivelerà un autentico vincente oppure un’altra (l’ennesima) promessa mancata.

I vincoli che il premier deve aggirare o allentare sono potenti. Egli ha in mano due sole carte: il rapporto carismatico che ha stabilito con l’opinione pubblica e la paura dei parlamentari che un suo fallimento li porti dritti alle elezioni. Ma sono carte a rischio di deterioramento rapido. Il carisma, per sua natura, è fragile, transitorio, effimero. Renzi ha ragione nel voler fare tutto o quasi tutto in fretta, nel tempo più breve possibile. Deve cambiare le regole del gioco, ivi comprese quelle istituzionali e amministrative, prima che il suo carisma subisca l’inevitabile logoramento. Altrimenti, tutto finirà con il solito «vorrei ma non posso», la vera epigrafe di altre avventure carismatiche che l’Italia repubblicana ha conosciuto.

17 marzo 2014 | 09:19
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_17/non-si-vive-belle-parole-9c839e52-ada2-11e3-a415-108350ae7b5e.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I demolitori in ordine sparso
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2014, 10:26:22 pm
I demolitori in ordine sparso

di Angelo Panebianco

Per gli alti tassi di astensione che le caratterizzano, e per la loro natura di consultazioni sui generis (i cittadini non vengono chiamati a decidere della formazione di un governo), le elezioni europee non sono mai davvero rappresentative dei reali orientamenti degli elettorati. E quasi mai anticipano quanto accadrà nelle successive elezioni politiche nazionali. Non abbiamo motivo di pensare che le consultazioni europee di maggio possano essere diverse. Nonostante ciò, sappiamo che i loro risultati avranno comunque conseguenze. Sull’Europa (intesa come Unione) e anche, più ambiguamente, sugli equilibri politici dei diversi Paesi. Sappiamo, inoltre, che, proprio a causa dell’alto tasso di astensione - praticamente, si tratta di un copione già scritto - le prossime elezioni europee saranno una specie di saga di quelli che, apparentemente, si presentano come gli sfasciacarrozze. Sarà il trionfo di tutti coloro che vorrebbero demolire, in tutto o in parte, l’Unione Europea così com’è.

Il fronte (europeo) anti-Unione che si va formando, galvanizzato anche dal successo di Marine Le Pen nelle elezioni amministrative francesi, è assai eterogeneo, in esso si riflettono le diverse specificità nazionali. Per esempio, se non fosse perché in campagna elettorale tutto fa brodo e nessuno guarda troppo per il sottile, l’incompatibilità di fondo fra gli scopi dei lepenisti e quelli dei leghisti italiani (e movimenti europei analoghi) dovrebbe saltare subito agli occhi.

I lepenisti puntano al recupero pieno della sovranità nazionale francese. I leghisti, così come tutti gli altri difensori (in Catalogna e altrove) della ideologia delle «piccole patrie», sono nemici della sovranità nazionale. In teoria, sono dunque anche nemici di Marine Le Pen (della quale, però, si dicono oggi alleati). Di più: quale futuro potrebbero mai avere le agognate piccole patrie, si chiamino Catalogna, Padania o altro, se non entro la cornice di una Unione Europea ove le sovranità nazionali fossero progressivamente dissolte? Come potrebbero le piccole patrie affermarsi se non godendo della protezione dell’Unione? Cosa potrebbe mai combinare la Catalogna, tutta sola, in giro per il mondo?

Il protezionismo economico nazionale che piace ai 5 Stelle (e che oggi porta loro consensi da destra e da sinistra), oltre che a diversi altri movimenti politici anti-euro, il «sovranismo» del Front National francese, l’orgogliosa insularità rivendicata dall’Ukip (il partito per l’indipendenza della Gran Bretagna), l’ideologia delle piccole patrie, tutto ciò, messo insieme, non fa un fronte politico. C’è da scommettere che i contrasti fra tutti questi movimenti emergeranno con forza, presto o tardi, all’interno del Parlamento europeo.

Ma questi gruppi sono solo un pericolo per l’Europa, come sostengono i difensori della ortodossia europeista, oppure rappresentano anche un’opportunità? Dipenderà dall’entità del loro successo. Un successo travolgente (che, per esempio, vada oltre quel terzo di seggi, oggi previsto, nel Parlamento europeo) potrebbe aggravare la crisi dell’Unione, portarla oltre il punto di non ritorno. Invece, un successo forte ma non travolgente, potrebbe rivelarsi una buona cosa. Non si può fare finta di non sapere che i consensi di cui oggi godono i movimenti anti-Unione sono un effetto, una conseguenza, di tutto ciò che non funziona nell’Unione così com’è. Lasciate perdere parole come «populismo» che non significano nulla e sono solo la spia della pigrizia mentale di chi le usa. Lasciate perdere persino il termine antieuropeismo: essere contro l’Unione così com’è non significa necessariamente essere anche contro l’Europa in quanto tale. Non tutti i movimenti di protesta sono come il Front National o l’Ukip britannico, non tutti sono, in questo senso, antieuropeisti.

L’Europa così com’è non va, richiede di essere riformata. Abbiamo ormai sperimentato quali siano le conseguenze di un’Unione che, al contrario di quanto accade negli autentici federalismi, centralizza troppo il potere, a beneficio, inevitabilmente, degli Stati più forti. Abbiamo visto come ciò porti a un conflitto distruttivo fra democrazie nazionali e Unione. Abbiamo bisogno di un’Europa assai più flessibile, meno camicia di forza di quanto oggi non sia. Sperando, naturalmente, che si trovi il modo di rendere compatibile l’auspicabile maggiore flessibilità con il mantenimento della moneta unica. La combinazione di forza e di eterogeneità dei movimenti anti-Unione può diventare una opportunità, una risorsa, sfruttabile da chi vuole riformare l’Unione, da chi ha capito che essa potrà sopravvivere solo se verrà cambiata.
C’è almeno una buona notizia. Il riavvicinamento fra Stati Uniti ed Europa, dopo anni di disinteresse americano, un riavvicinamento dovuto a pressanti esigenze geopolitiche (Putin, Medio Oriente) e geoeconomiche (la competizione con i giganti emergenti), può, sommandosi alla protesta anti-Unione, dare una mano ai riformatori europei.

La grande crisi europea ha coinciso con la fine della special relationship, della relazione speciale fra le due sponde dell’Atlantico. Se essa si ricostituisce in modo non episodico (che sia questo il vero significato dell’incontro fra Obama e Renzi?), i riformatori dell’Europa avranno una sponda e una leva in più su cui giocare per ammorbidire i tedeschi e incanalare in modo costruttivo la protesta degli sfasciacarrozze.

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31 marzo 2014 | 08:20

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_31/i-demolitori-ordine-sparso-8ef5e638-b891-11e3-917e-4c908e083af6.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. RENZI L’EX CAVALIERE E LE TOGHE Una proposta per la giustizia
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2014, 01:51:46 pm
RENZI, L’EX CAVALIERE E LE TOGHE
Una proposta per la giustizia
Se il premier deciderà di affrontare la questione dell’ordine giudiziario, e dovrà farlo se davvero vorrà cambiare il Paese, sarà costretto a dotarsi di strumenti adeguati

Di ANGELO PANEBIANCO

Per venti anni è stata opinione dominante che fin quando Berlusconi fosse stato al centro della politica italiana, una seria riforma del sistema giudiziario sarebbe stata impossibile. C’è sempre stato anche il dubbio che questa argomentazione fosse in realtà solo l’alibi di chi, Berlusconi o non Berlusconi, una riforma della giustizia non la voleva e basta. Comunque sia, l’impasse dura da venti anni. Un periodo in cui Berlusconi, spesso pessimamente consigliato da avvocati privi di una visione d’insieme dei problemi dell’ordine giudiziario, affastellava leggine che, nelle sue intenzioni, avrebbero dovuto difenderlo dai procedimenti a suo carico, e in cui i suoi oppositori, consapevoli della propria inettitudine politica, difendevano lo status quo nella speranza di una liquidazione di Berlusconi per via giudiziaria. Adesso Berlusconi è fuori gioco a causa di una condanna definitiva (che ieri ha di nuovo criticato duramente) ed è opinione generale che, se anche resterà un protagonista, non potrà mai più avere il ruolo che ha avuto negli ultimi venti anni. Nessuno pensa, ad esempio, che potrà tornare ad essere presidente del Consiglio.

Forse è questa la ragione per cui qualche segnale di disgelo intorno alla questione giustizia comincia ad apparire. Ha suscitato impressione leggere sul Fatto (17 aprile), il principale organo di stampa del giustizialismo italiano, un articolo a firma di Bruno Tinti, che conteneva una requisitoria contro il metodo spartitorio con cui le correnti della magistratura gestiscono il Csm, l’organo di autogoverno. Quali che siano le motivazioni del Fatto, resta che in quell’articolo si dice la pura verità e che risulta confermato, anche da una fonte insospettabile di berlusconismo, che il Csm necessita di una radicale ristrutturazione. Sostenere che l’ordine giudiziario richiede, a tutela dei diritti del cittadino, serie revisioni, non significa «avercela con i magistrati». Significa riconoscere la validità di una «legge sociale» che non ammette eccezioni: se un potere è incontrollato, e privo anche di forti meccanismi interni di checks and balances, di pesi e contrappesi, esso si presterà ad abusi. Senza bisogno di presumere nessuna particolare malvagità da parte di chi esercita quel potere. Basta solo ammettere che si tratta di uomini e donne uguali a tutti noi, soggetti alle stesse tentazioni di chiunque altro.

È il precetto su cui si regge una delle più importanti invenzioni occidentali, il costituzionalismo: mai permettere, se vuoi tutelare le libertà di tutti, che un potere risulti incontrollato, o perché non bilanciato da poteri concorrenti o perché organizzato in modo da rendere deboli anche i controlli interni. L’ordine giudiziario italiano è in realtà strutturato in un modo non compatibile con i principi del costituzionalismo. Quando si dice, ad esempio, che le carriere dei giudici e dei procuratori dovrebbero essere separate o che le decisioni sulle carriere dei magistrati, o sulle sanzioni disciplinari, non dovrebbero essere appannaggio di un organo eletto da quegli stessi magistrati, perché ciò porta con sé lottizzazioni e altre patologie, si sta solo chiedendo di rendere l’ordine giudiziario italiano meno anomalo di quanto esso non risulti nel panorama delle democrazie occidentali. Il premier Renzi si muove come un ciclone in tante direzioni. Come era forse inevitabile, è già entrato in urto anche con la potente Associazione nazionale magistrati a proposito delle remunerazioni degli alti magistrati. Più o meno con la stessa irruenza con cui, occupandosi di un altro ganglio vitale dello Stato, aveva annunciato pochi giorni fa una «violenta lotta contro la burocrazia». Solo che, si tratti del funzionamento dell’amministrazione o di quello della magistratura, le ruspe non servono per venire a capo dei problemi.

Se Renzi deciderà di affrontare la questione dell’ordine giudiziario, e prima o poi dovrà farlo se davvero vorrà cambiare questo Paese, sarà costretto a dotarsi di strumenti adeguati. Occorrono analisi serie e decisioni ponderate per approdare a qualche risultato. Il vicepresidente del Csm, Michele Vietti (sul Corriere della Sera di ieri), ha proposto l’istituzione di una commissione che affronti la questione della giustizia civile. Forse, occorrerebbe puntare più in alto, mettere le mani in tutte le principali patologie che affliggono la giustizia. Perché il governo non affida a un gruppo di esperti (non esclusivamente giuristi), eventualmente guidato da un uomo della competenza di Luciano Violante, il compito di formulare, dopo un lavoro di due o tre mesi, una proposta articolata? Magari affiancato da un altro gruppo di esperti che lavori sul tema dell’amministrazione (e della giustizia amministrativa). Dopo un’attesa di venti anni tutto serve meno che l’improvvisazione.

20 aprile 2014 | 08:24
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_aprile_20/proposta-la-giustizia-aed13400-c852-11e3-bf3a-6dacbd42b809.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO Le ipotesi sull’avanzata grillina I troppi voti in frigorifero
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2014, 04:51:53 pm
Le ipotesi sull’avanzata grillina
I troppi voti in frigorifero

Di ANGELO PANEBIANCO

Il sospetto è che diverse persone abbiano cominciato da qualche tempo ad accarezzare l’idea che sia possibile ricostituire in Italia il «bipartitismo imperfetto». La formula fu coniata nel secolo scorso dal politologo Giorgio Galli. Descriveva la democrazia senza alternanza, con un partito dominante inamovibile e una fortissima opposizione anti-sistema, che fu propria del Paese per tutto il periodo della Guerra fredda.

Consideriamo due ipotesi, una plausibile e una molto meno. L’ipotesi plausibile è che alle elezioni europee di maggio il Pd risulti il primo partito e i 5 Stelle si collochino al secondo posto superando di parecchio Forza Italia. Si noti che, al momento, è solo un’ipotesi plausibile. I sondaggi vanno presi con le molle e, inoltre, è nota la capacità di Berlusconi di fare grandi rimonte partendo da una posizione di svantaggio. Per giunta, non è detto, contrariamente a ciò che molti pensano, che le nuove inchieste sulla corruzione debbano per forza tradursi, al momento del voto, in ulteriori consensi per Beppe Grillo. Comunque, soprattutto in presenza di un elevato astensionismo - che è la norma nelle elezioni europee -, è possibile, e forse anche probabile, che il risultato indicato dai sondaggi (Pd primo, 5 Stelle secondo) si realizzi.

La seconda ipotesi è che alle elezioni politiche successive (tra un anno o quando saranno) ci sia la replica: ancora una volta il Pd primo e i 5 Stelle secondi. A grande distanza da tutti i rimanenti partiti. Questa, a differenza della prima, non è affatto un’ipotesi probabile. Perché le elezioni politiche nazionali sono assai diverse da quelle europee: nelle Politiche, il grosso degli elettori ha idee chiare su quale sia la posta in gioco e, in più, la maggior parte di loro vota con un occhio al portafogli. Sono due condizioni che non si danno nelle elezioni europee. Il che ne spiega gli altissimi tassi di astensione e il fatto che molti elettori votino «in libertà», in modo difforme da come fanno nelle elezioni politiche. Un’eventuale replica alle Politiche dei risultati delle Europee è, per lo meno, improbabile.

Ma, ancorché improbabile, si tratta di uno scenario che va preso in considerazione. Se non altro, per esorcizzarlo. Potrebbe realizzarsi solo se il centrodestra, incapace di risolvere il problema della successione a Berlusconi, si spappolasse definitivamente. Un esito che potrebbe essere favorito anche da una nuova sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale. Se fossimo costretti a votare con un sistema proporzionale puro, il centrodestra non riuscirebbe a ricompattarsi, non potrebbe formare una coalizione elettorale.

Con una destra polverizzata, resterebbero in campo solo il Pd e i 5 Stelle. Il Pd si troverebbe nella condizione (paradossale, data la sua origine storica) di diventare la «diga» (contro Grillo) sulla quale finirebbe per convergere, sommando i propri voti a quelli della sinistra tradizionale, anche il grosso dell’elettorato di centrodestra.

Si ricostituirebbe, in forme inedite, il bipartitismo imperfetto. Il Pd governerebbe senza alternative e senza troppa paura di perdere le elezioni successive. Ottimo per il Pd, pessimo per il Paese. Così come, ai suoi tempi, per quasi un cinquantennio, fu ottimo per la Dc, perché ne garantì inamovibilità e predominio, ma pessimo per il Paese, il fatto che la più forte opposizione fosse un partito antisistema (percepito come tale dal grosso degli elettori).

Chi spera che la leadership di Matteo Renzi serva a fare del Pd il nuovo partito dominante, forse non guarda con preoccupazione all’annunciato successo dei 5 Stelle. Ma non calcola che, nelle condizioni turbolente del XXI Secolo, un nuovo bipartitismo imperfetto porterebbe presto al disastro la democrazia. Quali che saranno i risultati delle elezioni europee, lo scenario del bipartitismo imperfetto resta poco probabile. Ma per essere certi di scongiurarlo abbiamo bisogno di riforme serie, della Costituzione come del metodo di voto. I pasticci, invece, hanno il potere di rendere possibile ciò che pareva improbabile.

11 maggio 2014 | 08:50
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_11/i-troppi-voti-frigorifero-26f59a36-d8d2-11e3-b8f7-5c1c0bbdabb2.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L’AZIONE PENALE E IL SENSO DI GIUSTIZIA
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2014, 05:30:27 pm
L’AZIONE PENALE E IL SENSO DI GIUSTIZIA
Il conflitto in Procura

Di Angelo Panebianco

La Procura di Milano non è una Procura qualsiasi. Le inchieste di Mani Pulite di venti anni fa modificarono la nostra «costituzione materiale». Da allora, la Procura di Milano è uno dei centri di potere più importanti del Paese. È un fatto che qualunque analisi del nostro assetto istituzionale che dimentichi il ruolo strategico di quella Procura si riduce a una finzione formalistica.
La Procura di Milano, nel mezzo di inchieste delicatissime, è ora dilaniata da violenti conflitti (fra Bruti Liberati e Boccassini da una parte e Robledo dall’altra). Fioccano accuse reciproche di dire falsità, ci si rinfaccia comportamenti e invasioni dei campi di competenza altrui.

Se il Consiglio superiore della magistratura fosse cosa diversa da ciò che è agirebbe con tempestività per stroncare la guerra in corso. E magari anche per spostare nelle mani di persone più serene le inchieste più delicate. Ma il Csm è un organo lottizzato dalle correnti e le sue decisioni (e le sue non decisioni) sono il frutto di negoziazioni fra i diversi gruppi organizzati della magistratura. È improbabile che da lì vengano, per giunta con tempestività, provvedimenti risolutivi. Temporeggiare e sopire in attesa che i rumori si plachino e che una decisione, presa col bilancino, diventi alla fine possibile, sarà quasi sicuramente la strategia che il Csm adotterà. Come sempre, quando è chiamato a dirimere risse fra magistrati.

Solo che questa volta non siamo in presenza di una zuffa qualsiasi. Dato il ruolo della Procura di Milano e il peso politico-simbolico da essa assunto negli ultimi venti anni, questa volta ciò che è in gioco è, niente meno, il rapporto fra la magistratura e il Paese. Se una Procura viene identificata per tanti anni da una parte rilevante dei cittadini come il «tempio della giustizia» per eccellenza e poi si scopre che i sacerdoti si scannano fra loro, difficilmente il rapporto fra la magistratura nel suo complesso e il Paese ne usciranno indenni. Tenuto anche conto che un’altra parte di cittadini, di quella Procura e di molte sue azioni non ha mai pensato bene.
Chi ama le immagini suggestive, spesso sbagliate, potrebbe sostenere che la fine di quella che è stata chiamata Seconda Repubblica porti con sé anche il ridimensionamento (o un mutamento di posizione e di ruolo) della Procura che, più di ogni altra, vi ha svolto una parte fondamentale. Come sempre, le cose sono più complicate.

Il conflitto in atto porta alla luce aspetti noti agli addetti ai lavori ma ignorati dal grosso dei cittadini, soprattutto il fatto che sotto l’ombrello della «obbligatorietà dell’azione penale» stanno sempre le azioni discrezionali dei magistrati in carne e ossa alle prese con problemi molto complessi. Nel caso dell’Expo, ad esempio, il conflitto, per quel che s’è capito, verte sul disaccordo fra Robledo e Bruti Liberati sul fatto che contro gli accusati siano stati utilizzati certi capi d’accusa piuttosto che altri.

Ogni medaglia ha il suo rovescio. L’aspetto negativo della lotta in corso è che mina la fiducia di tante persone nella correttezza e nella lucidità dell’azione dei magistrati. L’aspetto positivo è che, a partire da quanto avviene alla Procura di Milano, diventa forse possibile affrontare argomenti fino ad oggi tabù. Il primo dei quali riguarda proprio la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale, una finzione, una foglia di fico, utile solo per nascondere un certo grado di discrezionalità.

Di fronte alla discrezionalità dell’azione giudiziaria ci sono due possibilità. La prima è quella di negare cocciutamente l’evidenza, negare il carattere discrezionale dell’azione giudiziaria (è stata, fin qui, l’ipocrita scelta italiana). La seconda è ammetterla apertamente e, per conseguenza, collegare strettamente discrezionalità, responsabilità e controllo. Il magistrato si prende i suoi rischi ed eventuali abusi e inefficienze potranno essere più facilmente individuati e sanzionati: chi ne colleziona troppi non fa carriera.

Forse è un’ingenuità sperare che qualcosa di buono venga fuori dal caos di questi giorni. Probabilmente, la strategia che, quasi certamente, adotterà il Csm si rivelerà vincente: placati i rumori, tutto si risolverà con qualche sostituzione al vertice della Procura di Milano. Senza che nessuno, né fra i politici di governo né fra gli alti magistrati, si mostri desideroso di incidere sui nodi di fondo. Anche perché bisognerebbe rimettere in discussione troppi luoghi comuni e ribaltare strategie consolidate. A cominciare da quelle che hanno reso così fallimentare, per ammissione di tutti, l’azione di contrasto alla corruzione. Già si sente dire che occorrono nuove leggi, più severe. Bugie o stupidaggini. Occorrerebbe invece fare il contrario di quello che si è fin qui sempre fatto: occorrerebbe semplificare drasticamente la legislazione sugli appalti e modificare, rendendoli molto meno formalistici e molto più sostanziali, i meccanismi amministrativi di controllo. Ma, a quanto pare, l’Italia non è capace di imparare dai propri errori. Anche in materia di conduzione di inchieste giudiziarie, sembra che ci sia poco spazio per ripensamenti.

Se, in questo modo, risulterà alla fine che ci saremo giocati anche l’Expo, il vulnus sarà per il Paese pesantissimo, forse irrimediabile.

Per ora, possiamo solo ricordare una «regolarità». Le istituzioni forti, capaci di imporsi anche alle altre, sono sempre internamente coese. Quando si dividono, quando sono dilaniate da lotte intestine, perdono di colpo la forza. E anche il prestigio.

18 maggio 2014 | 08:50
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_18/conflitto-procura-9e1f4080-de54-11e3-a788-0214fd536450.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Analisi critica di un successo La diga utile del premier
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2014, 11:56:18 am
Analisi critica di un successo
La diga utile del premier
Non prevista dai sondaggi né, probabilmente, dallo stesso Matteo Renzi, l’entità del successo del Pd modifica il quadro politico

Di ANGELO PANEBIANCO

Non prevista dai sondaggi né, probabilmente, dallo stesso Matteo Renzi, l’entità del successo del Pd modifica il quadro politico. Scelte e strategie dei protagonisti cambieranno, forse radicalmente. Per mettere nella giusta luce quel successo, e per soppesarne i possibili effetti, occorre leggere con attenzione i risultati elettorali. Sono necessarie due premesse. Non bisogna dimenticare il carattere sui generis delle elezioni europee. Anche se i loro effetti politico-istituzionali sono assai rilevanti (determinano la composizione del Parlamento europeo e le coalizioni che vi si formano), per il grosso degli elettori - non solo italiani - resta confusa, poco chiara la posta in gioco. Ciò spiega la bassa affluenza al voto (nel nostro Paese è stata del 58,6%) e il fatto che le campagne elettorali si concentrino sulle questioni «interne», con pochi, retorici, riferimenti all’Europa. Per i più, le Europee sono un sondaggio che misura le forze dei partiti: si vota pro o contro il governo. In questo senso, Beppe Grillo aveva ragione quando diceva che queste sono elezioni «politiche». Ma con una particolarità: gli elettori sono liberi dai vincoli che li condizionano nelle elezioni nazionali, «non votano con il portafogli», non mettono in gioco i propri interessi, fanno meno calcoli di convenienza. Per conseguenza, se si recano alle urne, sono più propensi a votare «in libertà». Confusione sulla posta in gioco, bassa affluenza, e meno vincoli di convenienza, rendono le elezioni europee non confrontabili con le Politiche. Raramente gli esiti delle prime anticipano gli esiti delle seconde.

La seconda premessa è che, per valutare i risultati, le percentuali di voto dei vari partiti possono essere ingannevoli. Occorre considerare anche il numero dei voti ottenuti da ciascun partito. Proprio guardando al numero di voti raccolti, il successo del Pd di Renzi appare imponente. Se confrontato con i risultati delle elezioni politiche dello scorso anno. Nonostante la più bassa affluenza (58,6 % contro il 75,2% delle Politiche del 2013 per la Camera dei deputati) e i minori vincoli che incombono sugli elettori, il Pd di Renzi prende 11 milioni di voti e rotti contro gli 8 milioni e mezzo raccolti un anno fa dal Pd di Bersani alla Camera. Non ha sfondato il tetto dei 12 milioni e rotti (massimo risultato della sinistra post-comunista del 2008) ma vi si è avvicinato.

Si può ipotizzare che Renzi abbia attirato due diversi tipi di elettori: quelli convinti dalla sua proposta e quelli che lo hanno individuato come la «diga» utile per fermare l’avanzata dei grillini. Se si guarda all’ottimo risultato del Pd nel Nord (dove la propensione al voto per quel partito è tradizionalmente scarsa), si capisce che l’effetto diga deve essere stato potente: la paura del grillismo ha innescato una mobilitazione a favore di Renzi.

Il principale sconfitto è Grillo. Sulla carta, le Europee erano, per lui, le elezioni ideali. Propensione alla protesta (soprattutto al Sud) e «voto in libertà», secondo le aspettative, avrebbero dovuto premiarlo. Invece registra una perdita di 3 milioni di voti rispetto alle Politiche di un anno fa (5,8 circa contro gli 8,7 circa del 2013). La politica è imprevedibile, e il futuro di qualunque partito sarà deciso sia da ciò che farà quel partito sia da ciò che faranno i suoi avversari, ma, considerando solo i risultati delle Europee, possiamo ipotizzare che i 5 Stelle, dopo il boom del 2013, siano entrati nella fase del declino. Grillo è riuscito a fare paura a tanti. Renzi dovrebbe ringraziarlo: difficilmente, senza lo spauracchio del grillismo, avrebbe potuto ottenere un così lusinghiero risultato. Da ultimo, Berlusconi e il centrodestra. Il Popolo delle libertà, alle Politiche del 2013, ricevette 7,3 milioni di voti circa. Se si sommano i voti ottenuti alle Europee da Forza Italia e dal Nuovo centrodestra di Alfano, la perdita è assai forte (oltre 2 milioni di voti in meno rispetto al 2013). Però, aggiungendo i voti della Lega e di Fratelli d’Italia (la vecchia coalizione di centrodestra), si arriva circa al 30%. Niente di comparabile ai fasti di un tempo ma abbastanza per suggerire che, probabilmente, nelle prossime elezioni politiche, si tornerà a una «normale» competizione fra Pd e centrodestra (con Grillo come terzo incomodo).

Ma occorre fare due precisazioni. La prima gioca a favore della destra e la seconda contro. La precisazione a favore è che, plausibilmente, le astensioni hanno colpito soprattutto a destra. Il che dice che la destra, sulla carta, ha ampie possibilità di recupero. La precisazione contro è che una sommatoria di forze, eterogenee e distanti su questioni cruciali (come l’euro), non fa una proposta politica credibile. Alla destra occorrerà molto lavoro per dare vita a una sintesi politica di cui, al momento, non si vede la possibilità. Verosimilmente, il trionfo di Renzi e la necessità del centrodestra di ricompattarsi per tornare ad essere competitivo dovrebbero agevolare le riforme (legge elettorale e Senato).

Sul vincitore, Renzi, ricadono, come è giusto, i compiti più gravosi. Apparentemente, nulla può fermarlo. Potrà inaugurare il semestre italiano di Presidenza della Ue da una posizione di forza e di prestigio, dovuta alla vittoria e alla posizione conquistata dal suo partito nel Parlamento europeo. Inoltre, ha azzittito coloro che lo accusavano di non essersi sottoposto a una prova elettorale. In più, ha annichilito i suoi avversari interni di partito. Torneranno ad agitarsi alle prime difficoltà ma ora devono tacere e obbedire.

Al momento, Renzi ha un solo vero nemico da cui guardarsi: se stesso. Deve vincere una certa propensione all’improvvisazione, allo slogan brillante che fa apparire di semplice soluzione problemi complessi. Deve fare, per davvero, il tanto che ha promesso e che, ancora, in larga misura, non ha nemmeno cominciato a fare.

27 maggio 2014 | 07:59
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Da -http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_27/diga-utile-premier-68ec180c-e55c-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L’IPOTESI Juncker E LA VIA DEMOCRATICA
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2014, 06:53:51 am
L’IPOTESI Juncker E LA VIA DEMOCRATICA
Dietro la scelta di un presidente

di Angelo Panebianco

Intorno alla scelta del prossimo presidente della Commissione europea si sta giocando una partita che influenzerà il destino dell’Unione e, quindi, di tutti noi. È necessario che il Consiglio europeo designi il lussemburghese Jean-Claude Juncker come presidente della Commissione (come richiesto anche nell’appello di un gruppo di intellettuali pubblicato ieri dal Corriere)? Juncker è espressione del partito popolare, il partito più forte del Parlamento europeo. È il candidato che dispone di una maggioranza parlamentare. Se il Consiglio lo designasse presidente rispettando le indicazioni del risultato elettorale, il famoso «deficit democratico» dell’Unione non scomparirebbe ma si farebbe comunque un passo importante per ridurlo: la Commissione diventerebbe espressione di una maggioranza parlamentare e, quindi, di qualcosa che assomiglia alla sovranità popolare (dico «assomiglia», perché le elezioni europee sono ancora assai diverse da quelle politiche nazionali).

È dunque evidente quale sia la scelta giusta da fare? Non del tutto. Perché si dà il caso che Juncker sia anche la massima espressione della continuità, l’ortodossia europeista fatta persona. Non è l’uomo a cui affidarsi per cercare soluzioni innovative allo scopo di salvare un’Unione squassata da nazionalismi e da proteste antieuropee. Il paradosso è che designare Juncker sarebbe un atto, al tempo stesso, di innovazione istituzionale e di conservazione politica. La domanda è: oggi ci serve di più l’innovazione istituzionale (riduzione del deficit democratico) o l’innovazione politica? Il premier britannico Cameron ha dichiarato che la designazione di Juncker spingerebbe la Gran Bretagna ad accelerare i tempi del referendum sulla permanenza nell’Unione. In pratica, la Gran Bretagna se ne andrebbe. Cameron ha due ragioni per essere contro Juncker. Non può accettare, in omaggio alla tradizionale ostilità britannica a qualunque cosa somigli, anche vagamente, a un «super Stato», che il Consiglio europeo (che rappresenta gli Stati nazionali) perda potere a favore del Parlamento. E non può riconoscersi (come quasi nessun britannico) nell’ortodossia incarnata da Juncker.

Intorno al nome del presidente della Commissione si gioca anche una sotterranea partita fra quelli che vorrebbero trattenere nell’Unione la Gran Bretagna e quelli che saluterebbero con soddisfazione il suo abbandono. Sarebbe più semplice sciogliere il dilemma se comprendessimo davvero quale sia la posta in gioco. Lo comprendiamo poco e male perché non sappiamo bene quale Europa stiamo costruendo né quale Europa vogliamo. Ciò spiega, ad esempio, perché, in materia d’Unione, non si tenga per lo più distinta la questione della «democrazia» da quella del «federalismo». Designare Juncker sarebbe un passo sulla strada della democratizzazione dell’Unione (creazione del circuito elezioni-Parlamento-Commissione). Ma sarebbe anche un passo verso il «federalismo»? C’è da dubitarne, troppi essendo i tratti non federali dell’Unione di cui Juncker è uno dei custodi. I politici europei hanno ora da affrontare questioni pressanti e pratiche (quale compromesso trovare fra le esigenze tedesche e quelle degli altri Paesi?), non spetta loro il compito di filosofare. Però, un’idea di dove vogliamo andare è necessaria se siamo interessati a introdurre cambiamenti, indispensabili per salvarla, nel modo d’essere dell’Unione.

Le analogie storiche servono solo a fini orientativi ma potremmo dire che, apparentemente, le alternative che abbiamo di fronte sono fra una specie di Sacro Romano Impero in salsa repubblicana (e solo parzialmente democratica) e una specie di Lega anseatica (la flessibile confederazione di città tedesche che fu anche una grande potenza europea, specialmente nei secoli XIV e XV). L’opzione che, invece, non è mai stata sul tavolo (né, credo, lo sarà mai) è quella degli «Stati Uniti d’Europa». Ben poco di ciò che si è costruito va in quella direzione. E si capisce perché. Per decenni, la Francia, con le sue tradizioni stataliste (anti-federaliste per eccellenza), ha, più di qualunque altro Paese, influenzato la costruzione dell’Unione. Un’influenza che è stata solo in parte temperata dal federalismo tedesco. Per questo, troppi aspetti del funzionamento dell’Unione e della sua invadente legislazione (il cosiddetto acquis communautaire) sanno di centralismo più che di federalismo. Se una direzione di marcia si intravvedeva fino a qualche tempo fa, essa andava nel senso di una progressiva riesumazione di un composito impero continentale caratterizzato da un mix confuso di centralismo burocratico e di autonomie (statali) gestionali. Un impero continentale che, in quanto tale, prima o poi, avrebbe dovuto recidere il legame con la potenza marittima: la Gran Bretagna. E che avrebbe anche ridefinito, per conseguenza, nel senso della competizione, il suo rapporto con gli Stati Uniti.

Ma il progetto dell’Impero è entrato in crisi da quando l’ascesa della Germania a Stato egemone europeo ha drasticamente ridimensionato il peso della Francia. Il trionfo lepenista si spiega forse anche così: se non possiamo essere noi a comandare in Europa, allora ciascuno per la sua strada. Adesso si tratta di scegliere: incaponirsi, per mancanza di volontà, interessi o inventiva, nel perseguire un progetto che incontra la crescente opposizione degli elettorati europei o trovare i mezzi per salvare l’Unione introducendo i cambiamenti necessari a instradarla verso un esito confederale? Come fu nel caso dell’Hansa, della Lega anseatica, le flessibili confederazioni possono svolgere un grande ruolo politico. Fare quella scelta sarebbe un modo per tenere dentro la Gran Bretagna, riconciliare gli elettori con un’Europa meno invadente, rispettare le diversità che la arricchiscono, e assicurarle un posto nel mondo. Il nome del prossimo presidente della Commissione aiuterà forse a capire quale strada intraprenderemo.

7 giugno 2014 | 07:29
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_07/dietro-scelta-un-presidente-70be4c62-ee03-11e3-8977-68eaa9ab56ac.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO UN SISTEMA BLOCCATO DA TROPPI VETI Ma decidere non è una colpa
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2014, 07:38:46 pm
UN SISTEMA BLOCCATO DA TROPPI VETI
Ma decidere non è una colpa

Di ANGELO PANEBIANCO

Almeno ci prova. Forse alla fine l’impresa si rivelerà più grande di lui ma, per lo meno, Matteo Renzi sta forzando, spingendolo a cambiare, un sistema politico-istituzionale, i cui riti, le cui pratiche, le cui procedure, sono al servizio dell’immobilismo, della mediazione senza decisione. Ottenendo per giunta, lui indiscutibilmente uomo di sinistra, di essere trattato come un politico di destra da quella parte del suo partito e del suo mondo abituati a credere che la decisione non abbia nulla a che fare con la democrazia, abituati a credere che la cosiddetta «dialettica democratica» sia più o meno raffigurabile così: un gruppo di persone che si agitano tanto, stando, ciascuna, rigorosamente ferma sulla stessa mattonella. Il massimo di movimento apparente unito al massimo di immobilismo sostanziale.

Prendiamo la riforma della pubblica amministrazione. È un provvedimento complicato, ci sono dentro alcune cose giuste e altre, che avrebbero dovuto esserci, non ci sono (ad esempio non c’è quasi nulla che spinga alla responsabilità i dirigenti e all’efficienza gli impiegati). Però, almeno, è una decisione, anche se la legge delega fa presagire tempi più lunghi.

Renzi è schiacciato fra due esigenze, è in equilibrio fra forze che lo spingono in direzioni opposte. Da un lato, ha fretta, moltissima fretta. I messaggi che manda al Paese sono sempre dello stesso tenore: «Devo fare subito, prima possibile, quello che devo fare, quello che il Paese si attende. Se non lo faccio subito non riuscirò a farlo mai più». Dall’altro lato, Renzi deve misurarsi con problemi di grandissima complessità, sia tecnica che politica, e la fretta può facilmente portare a decisioni sbagliate: ad esempio, la riforma del Senato avrebbe avuto fin dall’inizio molte più chance, se il progetto presentato dal governo non fosse stato così fragile, così raffazzonato. Tra la necessità di fare in fretta e la necessità di approfondire, la porta è molto stretta e sulla capacità di passarci attraverso Renzi gioca la sua intera partita politica.

Si tratti di politica delle nomine, di rifiuto dei riti concertativi, di indisponibilità a farsi incastrare o bloccare dai giochi degli oppositori interni di partito («il tempo delle mediazioni è finito»), quella di Renzi è una politica della decisione che si trova a fronteggiare sia istituti sia idee, visioni della politica, costruite su opposti principi. Costruite, più precisamente, su un insieme di (aberranti) sillogismi: «La decisione è di destra. La destra è fascismo, l’opposto della democrazia. La democrazia, quindi, è non-decisione, è mediazione senza decisione». Diversi Soloni, difensori dell’intoccabilità della Costituzione, disinteressati o ignari di come funzionano le buone democrazie, lo hanno eletto a dogma e il dogma, col tempo, si è trasformato per tanta gente in luogo comune: provare a fare dell’Italia una democrazia che decide significa coltivare disegni autoritari, significa avere nostalgie di fascismo. È su questo scoglio, su questa barriera mentale che si è sempre infranto, fino ad oggi, ogni serio tentativo di riforma istituzionale. Ed è anche il paradosso del politico Renzi.

Egli è indubbiamente un uomo di sinistra. Lo è sulle questioni che, chiacchiere a parte, dividono sul serio la sinistra e la destra: lo è sulla questione della redistribuzione dalla classe media ai ceti meno abbienti (gli ottanta euro) come lo è sul tema dell’immigrazione. Un politico di destra avrebbe fatto l’opposto di quello che egli ha fatto in entrambi i casi. Ma poiché Renzi è anche un decisionista, questa sua qualità di uomo di sinistra non è riconosciuta da chi assurdamente assimila destra e decisione. Renzi ha una occasione storica: può cambiare in un colpo solo i tratti di un sistema politico e quelli di una cultura legnosa, logora,

15 giugno 2014 | 09:42
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_giugno_15/ma-decidere-non-colpa-07c395f8-f454-11e3-8a74-87b3e3738f4b.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La dignità di una funzione
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2014, 05:41:04 pm
La dignità di una funzione
Di Angelo Panebianco

In che senso la riforma del Senato, se l’accordo fra governo, Berlusconi e Lega reggerà alla prova dei voti dell’Aula, sarà un risultato «storico»? Lo sarà perché, per la prima volta nella vita della Repubblica, si sarà operato per concentrare, almeno parzialmente, il potere di governo anziché per disperderlo e diluirlo (come avvenne, invece, con la pessima riforma del Titolo V nel 2001).

Da qui al momento dell’approvazione ne vedremo delle belle. Si mobiliteranno i soliti al grido di «hanno tradito la Costituzione», «hanno calpestato i principi del ‘48», «diciamo no al nuovo autoritarismo». Manifestazioni, manifesti degli intellettuali: il repertorio di sempre, insomma.

Si noti però che quelli che grideranno al tradimento non avranno proprio tutti i torti. Effettivamente, il bicameralismo simmetrico o paritetico (due Camere con uguali poteri), che la riforma del Senato, se passerà, manderà in soffitta, non era un puro accidente storico. Era un mostro istituzionale, sì, ma un mostro provvisto di una sua logica. I costituenti non erano né pazzi né grulli. Reagivano, con gli strumenti culturali in loro possesso, alle circostanze. Non sapevano chi avrebbe vinto le future elezioni (se i socialcomunisti o i democristiani). Per questo, misero in atto tutti gli espedienti possibili per diluire al massimo il potere di governo, e perché chi avesse vinto le future elezioni fosse costretto a governare venendo a patti con l’opposizione parlamentare. Inoltre, giocò un ruolo la cultura politica assemblearista (soprattutto, di parte comunista), la confusione fra «tutto il potere all’assemblea» (a scapito degli esecutivi) e «tutto il potere al popolo». Il mostro istituzionale del bicameralismo simmetrico, nacque così.

Stiamo per strappare una brutta pagina della nostra Costituzione. Tutto bene, dunque? Vedremo. Nelle faccende istituzionali, il diavolo si nasconde sempre nei dettagli. E non tutti i dettagli sono stati chiariti.

Checché ne dicano i soliti moralisti fissati, sempre pronti a raccattare ovunque gli umori anti-istituzionalisti, è un’ottima cosa, anzi eccellente, che sia stata stabilita l’immunità per i futuri senatori. Non in omaggio alle caste, alla corruzione o a che altro. In omaggio, invece, a una cosa fondamentale (senza la quale, per inciso, non esiste neppure la democrazia): la dignità della funzione svolta e, pertanto, dell’istituzione di cui si fa parte. L’immunità ai senatori ci dice che il Senato (pur finalmente diverso dalla Camera) sarà comunque una cosa seria, degna di rispetto. Come si conviene a un organo che, se perderà il potere di dare e togliere la fiducia al governo e il potere legislativo paritetico a quello della Camera, manterrà pur tuttavia il diritto di contribuire alla elezione del presidente della Repubblica, dirà la sua sulle leggi, avrà il controllo degli affari regionali.

Il modello a cui ci si è ispirati è il Bundesrat, il consiglio federale tedesco. Come nel Bundesrat è prevista l’elezione indiretta: nel caso italiano, cento membri, novantacinque dei quali rappresentativi di Regioni e Comuni, il cui mandato durerà quanto quello delle amministrazioni di provenienza. Nel modello a cui ci si ispira ci sono, insieme, la forza e la debolezza della riforma prevista. La forza, perché il Bundesrat è una istituzione collaudata. Ma anche la debolezza perché le Regioni italiane non sono i Länder (gli Stati) tedeschi. E il regionalismo italiano non è il federalismo tedesco. I dettagli che non sono ancora chiari (perché dovranno essere oggetto di leggi successive) riguardano il modo in cui verrà ridefinito il Titolo V, i rapporti centro-periferia e, per essi, le aree di competenza della Camera e del Senato. È ottima cosa che siano sparite le famigerate «materie concorrenti», fonti di infiniti contenziosi fra Stato centrale e Regioni. Così come è ottimo che una serie di cruciali materie ritornino sotto il controllo del governo nazionale.

Ma molti altri aspetti restano ancora incerti. Stando al testo, sembra che le Regioni vedranno confermati molti dei poteri acquisiti nella riforma del 2001. Poiché l’esperienza dice che, in tutti questi anni, non ne hanno fatto per lo più un buon uso, questa non è necessariamente una buona notizia.

In ogni caso, fra il testo (fragile) inizialmente presentato dal governo per la riforma del Senato e il testo su cui si è chiuso l’accordo, c’è un evidente salto di qualità (in meglio). Se questa riforma si farà, per una volta potremo dire che l’incontro fra una leadership dinamica e innovatrice e una classe parlamentare in cui non sono mancate saggezza ed esperienza ha generato un bel risultato.

22 giugno 2014 | 09:21
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DA - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_22/dignita-una-funzione-bc99017c-f9d4-11e3-88df-379dc8923ae4.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tasse e immigrazione, i silenzi del governo
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2014, 05:55:52 pm
Tasse e immigrazione, i silenzi del governo
Due argomenti ancora tabù

Di Angelo Panebianco

Sembrano davvero tanti, non solo in Italia, quelli che hanno già venduto la pelle dell’orso, che scommettono sul successo di Renzi, del suo tentativo di costruire una egemonia, sua e del suo partito, di lungo periodo. Costoro vedono correttamente i punti di forza di questo tentativo ma ne sottovalutano fragilità e debolezze. La forza di Renzi, che gli ha attirato così tanti consensi, anche da destra, sta nella sua comprovata capacità di sfidare alcune convenzioni, tic e luoghi comuni della sinistra. La debolezza (che potrebbe alla fine portarlo al fallimento) sta nella sua arrendevolezza di fronte ad altre convenzioni e altri luoghi comuni.

Chi accusa Renzi di essere solo un bluff non vede quanto sia stato eversivo il suo attacco frontale ad alcune delle principali cittadelle del potere della sinistra. A cominciare dalla Cgil. In questo Renzi assomiglia davvero, fatte le debite differenze, a Tony Blair. Come Blair, egli ha sfidato il conservatorismo sindacale, come Blair ha aggredito centri di potere che da sempre monopolizzavano il diritto di decidere cosa fosse, e che identità dovesse avere, la «sinistra». Su aspetti non irrilevanti Renzi sta davvero tentando di spezzare alcune delle catene (per citare il titolo del bel libro del giornalista del Foglio Claudio Cerasa) di quella parte politica.

Però non è tutto oro quello che luccica. Renzi è stato fin qui molto selettivo. Ha colpito certi luoghi comuni ma si è ben guardato dal metterne in discussione altri.

Si consideri la questione cruciale delle tasse. È ormai chiaro che con Renzi la pressione fiscale non scenderà: è anzi già aumentata e probabilmente aumenterà ancora. E questo nonostante tante voci autorevoli (si pensi soprattutto a Bankitalia) da tempo indichino nell’eccesso di tassazione la causa principale del declino economico del Paese. Ufficialmente le tasse non possono scendere perché non lo permettono i conti dello Stato. È così solo in parte. Le tasse non possono scendere anche per ragioni ideologiche o culturali.

Nella tradizione della sinistra abbassare le tasse è di destra, abbassare le tasse suona berlusconiano. Abbassare le tasse significa abbassarle a tutti, persino a quei ceti medi indipendenti, imprenditoriali e professionali, che la sinistra vive da sempre come i propri antagonisti sociali principali. Abbassare le tasse significa, per la sinistra, «fare regali» a un mondo che tradizionalmente essa giudica assai negativamente imputandogli per lo più ogni sorta di malefatte: dall’evasione fiscale a comportamenti di consumo e stili di vita che essa ha sempre considerato riprovevoli.

Renzi non abbasserà le tasse semplicemente perché il suo mondo non può accettarlo ed egli non sembra intenzionato a sfidarlo su questo punto. Tuttavia, l’impossibilità per il premier di combattere i tabù culturali della sinistra in materia di tassazione potrebbe impedire la ripresa economica. E, alla fine, costargli il successo. Con l’operazione ottanta euro in busta paga Renzi si era proposto due obiettivi: garantirsi il consenso di larghe fasce di lavoro dipendente attraverso un’azione di ridistribuzione del reddito e mettere un po’ di soldi nelle tasche delle famiglie per rilanciare la domanda interna. Il primo obiettivo è stato raggiunto. Il secondo ancora no.

I consumi continuano a languire, la domanda interna non accenna a riprendersi. Se le cose continueranno così forse Renzi sarà costretto a cambiare strategia. Sarà costretto a porsi il problema delle tasse. E a quel punto dovrà misurarsi con la forza, con la potenza, dei pregiudizi della sinistra.

Il secondo punto di debolezza di Renzi riguarda l’immigrazione. La sinistra, e Renzi non fa eccezione, non ha mai voluto distinguere in modo netto - e mandando al mondo messaggi inequivocabili su questo punto - fra l’aiuto ai profughi che scappano dalle guerre e l’accoglienza agli immigrati che scappano dalla povertà. Non c’è mai stata, in fondo, troppa differenza fra il messaggio della laicissima sinistra e quello di molti esponenti della Chiesa cattolica. Si pensi a come si è affrettata la sinistra renziana a cancellare il reato di clandestinità.

È anche per questo che non è oggi possibile una politica europea dell’immigrazione. Le altre forze politiche europee, sinistre incluse, devono sempre, in questa materia, tenere d’occhio l’interesse nazionale (si ricordi con quanta durezza i socialisti spagnoli, quando erano al potere, respingevano i clandestini). La sinistra italiana, invece, è a-nazionale, portatrice di confuse aspirazioni cosmopolite, a loro volta eredità o cascami di antichi e più strutturati internazionalismi ideologici. È una sinistra che oggi potremmo definire francescana, costitutivamente incapace di tracciare una linea di confine fra «noi» e «loro» (e di ragionare quindi in termini di interesse nazionale), incapace di stabilire quanti e quali: quanti immigrati accettare, con quali caratteristiche professionali. L’idea implicita è che sono tutti figli di Dio e che fra i figli di Dio non si discrimina.

Senza contare, dell’immigrazione, un risvolto o un sottoprodotto assai inquietante e rispetto al quale la politica non potrà continuare a lungo a nascondere la testa sotto la sabbia: i califfati attuali e prossimi venturi avvicinano, anno dopo anno, il momento in cui la jihad, la guerra santa islamica, incendierà anche i territori europei, Italia inclusa.

Tuttavia, Renzi non può proprio permettersi una politica realistica dell’immigrazione. Come nel caso delle tasse, i tabù culturali della sua parte sono troppo potenti.

Essendo più intelligente di tanti suoi adulatori Renzi sa che il suo celebre «40 per cento» ottenuto alle Europee è soltanto un trucco, una illusione contabile. Renzi non ha affatto raccolto il quaranta per cento dei voti degli italiani. Alle prossime elezioni politiche, plausibilmente, la percentuale dei votanti rispetto alle Europee aumenterà notevolmente. Altrettanto plausibilmente, scenderà la percentuale di voti del Pd. Renzi potrebbe uscirne lo stesso vincitore. Per le sue capacità, certo, e soprattutto perché difficilmente la destra farà in tempo a dotarsi di un capo in grado di sostituire Berlusconi. Se però la destra ci riuscisse allora per Renzi sarebbero dolori. Potrebbe perdere le elezioni e perderle di brutto. In questo caso, tasse e immigrazione sarebbero le cause della sua sconfitta.

13 luglio 2014 | 09:11
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_13/due-argomenti-ancora-tabu-b71c241e-0a59-11e4-b9f9-15449e4acf0d.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tre schieramenti per una riforma Gli irriducibili e i ...
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2014, 11:02:49 pm
Tre schieramenti per una riforma
Gli irriducibili e i camaleonti

Di Angelo Panebianco

La riforma del Senato, e le tante parole spese, fanno pensare alla massima secondo cui «per ogni problema complesso, esiste sempre una soluzione semplice e sbagliata». Conviene un po’ di umiltà quando si ragiona su complicati cambiamenti che, nel caso specifico, investono gli equilibri istituzionali.

Lasciando da parte quei camaleonti che si travestono da riformatori ma non lo sono, possiamo dire che sul Senato si fronteggino tre «partiti». C’è il partito degli avversari della riforma, dei difensori dello status quo. Usa, per lo più, argomenti inconsistenti: la Costituzione non si tocca, c’è il disegno autoritario, la reazione in agguato, eccetera. È la difesa dell’indifendibile, di quel bicameralismo simmetrico o paritetico che contribuisce a rendere la nostra democrazia parlamentare diversa (in peggio) da tante altre. I più lucidi fra gli avversari della riforma sanno quale sia la vera posta in gioco: quel potere di veto delle microminoranze che condanna all’impotenza i governi e all’immobilismo il Paese. Il bicameralismo simmetrico è il più importante simbolo (e difesa) della democrazia paralizzata, non decidente. Pensano che, se salta tale simbolo (e diga), quei poteri di veto, responsabili dell’immobilismo, per un effetto a cascata finirebbero per indebolirsi ovunque.

Però, sul Senato, i partiti non sono solo due ma tre. Perché anche coloro che condividono il rifiuto del bicameralismo simmetrico sono divisi. Una parte teme gli effetti di una riforma che faccia del Senato la sede della rappresentanza non elettiva delle Regioni.

In un editoriale assai lucido (Corriere , 6 luglio), Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno dato voce, con solidi argomenti, a questa posizione, al disagio di chi, sapendo cosa sono le Regioni, teme le conseguenze disfunzionali della riforma. Alesina e Giavazzi hanno segnalato che il ddl in approvazione a Palazzo Madama lascia una possibilità di intervento del Senato delle Regioni in tema di leggi di bilancio. Il rischio è che il Senato, assumendo la difesa corporativa (transpartitica) del potere di spesa delle Regioni, condizioni la Camera dei deputati, spingendola ad approvare bilanci e spese insostenibili.

La tesi è corretta. Ma il tema è più ampio. Anche se la riforma del Senato si ispira al Bundesrat, la Camera alta tedesca (che in quel sistema federale rappresenta gli Stati, i Länder), resta che la Regione italiana non è affatto un Land e che, per giunta, le classi politiche e amministrative regionali non brillano, mediamente, per qualità. Conviene mettere nelle loro mani il nuovo Senato? Ciò non compenserebbe, annullandolo, il vantaggio derivante dalla riforma del Titolo V, dal recupero del controllo statale su materie oggi di competenza regionale?

Tali preoccupazioni non sono infondate. Però è anche vero che lo status quo (nessuna riforma) ci condannerebbe a perseverare in un immobilismo che non possiamo più permetterci. Tra una certezza e un rischio, conviene il rischio. Le riforme hanno sempre conseguenze imprevedibili. Eliminando il bicameralismo simmetrico, si rafforzerebbero i governi, si ridurrebbero alcuni poteri di veto. Ma si rafforzerebbero anche, per contro, i poteri di veto regionali? Lo capiremo quando, approvata la riforma, vedremo i dettagli. Per ora, si può sperare che il bicameralismo simmetrico venga infine cancellato e che, contemporaneamente, chi ha la possibilità di farlo non commetta l’errore di idealizzare le Regioni, di dare loro più fiducia, e più poteri, dello stretto necessario.

29 luglio 2014 | 08:02
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_29/gli-irriducibili-camaleonti-49bc4790-16df-11e4-ad95-f737a6cb8946.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. REINTRODURRE LE PREFERENZE? UN ERRORE
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2014, 08:48:10 am
REINTRODURRE LE PREFERENZE? UN ERRORE

La farina del diavolo

Di Angelo Panebianco

Solo un Paese afflitto da amnesia storica può discutere sul serio della possibilità di reintrodurre le preferenze. Sarebbe come voler rimettere in piedi il commercio delle indulgenze mentre ancora non si sono smaltiti tutti gli effetti del terremoto luterano. Colpevolmente immemori di che cosa siano state, e di quali funzioni svolgessero, nella cosiddetta Prima Repubblica, le suddette preferenze, i politici sembrano davvero intenzionati a ripristinarle. Se non fosse che ci andrebbe di mezzo l’intero Paese verrebbe voglia di limitarsi a osservarli con curiosità mentre meditano questa singolare forma di suicidio collettivo.

Non è un caso che nelle democrazie occidentali che utilizzano il sistema elettorale proporzionale viga la lista bloccata, non le preferenze. Poiché le preferenze non sono affatto, come pensano gli ingenui e come recita una propaganda interessata, un modo per «dare al cittadino la possibilità di scegliere». Le cose funzionano assai diversamente. Le preferenze sono lo strumento mediante il quale i candidati, e gli eventuali gruppi di interesse nazionali o locali che li appoggino, entrano in competizione con gli altri candidati del loro stesso partito. Con le preferenze, alla lotta (esterna) fra i partiti viene in larga misura sostituita la lotta (interna) fra i candidati del medesimo partito. Questa distorsione permanente del gioco democratico indotta dalle preferenze non è l’unica conseguenza grave ma è certamente la più grave.

Però, dicono i nostalgici della Prima Repubblica, in Italia abbiamo avuto le preferenze per decenni, fino ai primi anni Novanta. Vero, ma si davano allora due condizioni che non esistono più. La prima condizione era rappresentata dal fatto che il sistema politico era bloccato, non c’era possibilità di alternanza (i comunisti non potevano vincere). In un sistema privo di alternanza, con i democristiani e i loro alleati ininterrottamente al governo, le preferenze funzionavano da surrogati. Non potendoci essere vera competizione per il potere fra maggioranza e opposizione, le preferenze servivano soprattutto a garantire competizione (e alternanza) fra le correnti e i gruppi interni ai partiti di governo.

Ma c’era anche una seconda condizione che oggi non esiste più (anche se fra i politici attuali ci sono diversi aspiranti suicidi che preferiscono ignorarlo): il voto di scambio non era reato. Nessuno poteva essere penalmente perseguito per voto di scambio. E le preferenze erano per l’appunto il principale meccanismo di raccolta del voto di scambio. Ma davvero, reintroducendo le preferenze, volete fare un così grande piacere a tutti quelli che godono quando vedono politici inquisiti o, meglio ancora (dal loro punto di vista), in galera? Il voto di scambio, all’inizio però con forti limitazioni (riguardava allora solo il caso dei rapporti mafia-politica), è diventato reato in Italia nei primi anni Novanta. Ma la legge Severino sulla corruzione, approvata ai tempi del governo Monti, ne ha ora allargato notevolmente l’ambito di applicazione.

Chiunque parli oggi di preferenze farebbe bene a leggere con attenzione quella legge. Si noti per giunta che la criminalizzazione (in senso letterale: la penalizzazione, la trasformazione in reato penale) del voto di scambio, è avvenuta in un Paese che, per ragioni culturali, non è mai stato capace di chiarire a se stesso quale sia il confine fra il lecito e l’illecito, fra la normale, normalissima (svolta da tutti i Parlamenti democratici) rappresentanza degli interessi, e la corruzione parlamentare. La prova di questa incapacità culturale è data dal fatto che l’Italia non è mai stata in grado di regolamentare il lavoro delle lobby. È in un Paese siffatto che volete reintrodurre le preferenze? In tempi, oltre a tutto, di grande attivismo giudiziario?

Soprattutto i partiti con vocazione governativa, i partiti che hanno ottime probabilità di andare al governo, dovrebbero tenersene alla larga. Quanto tempo dopo le elezioni comincerebbero a fioccare gli avvisi di garanzia per i politici entrati in Parlamento con un bel gruzzolo di preferenze? I leader nazionali, certamente, prenderanno tante preferenze «spontanee» e nessuno li accuserà di voto di scambio. Così come accadrà a qualche esponente di movimenti di protesta. Ma che dire delle seconde, terze e quarte file dei partiti di governo, di quei tanti signor Nessuno che risulteranno molto bravi nell’organizzazione del consenso?

Il vero scopo politico di chi vuole le preferenze è chiaro: tentare di indebolire i leader più forti, e in particolare Renzi, impedire loro di dare vita, alle prossime elezioni, a gruppi parlamentari a propria immagine e somiglianza. Ad esempio, grazie alle preferenze, la Cgil può sperare di fare eleggere nel Pd qualche candidato in più fra i propri a scapito dei renziani. Analogo discorso vale per altri gruppi organizzati (oltre che per diversi notabili esperti nella raccolta di voti) sia a sinistra che a destra. Lo scopo è evidente ma i costi collettivi sarebbero elevati. Anche a tacere del grande spreco di denaro che la lotta per le preferenze porta con sé, e di tutte le altre disfunzioni connesse, non ci serve una democrazia nella quale i candidati più prudenti siano costretti ad impegnarsi nella campagna elettorale accompagnati dai loro avvocati.

3 agosto 2014 | 08:23
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_agosto_03/farina-diavolo-6ef3e7ce-1ad2-11e4-b652-72373bf3d98f.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. LO STATUS QUO DI UN PAESE Guardandoci allo specchio
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2014, 06:36:01 pm
LO STATUS QUO DI UN PAESE
Guardandoci allo specchio

di Angelo Panebianco

A giudicare dalla diffusa resistenza a qualunque accenno di bonifica e di razionalizzazione della spesa, una parte cospicua della società italiana è impegnata nella difesa a oltranza dello status quo, non prende sul serio, e non lo ha mai fatto, i continui e severi moniti delle autorità nazionali, europee, internazionali. L’aneddotica che ci viene quotidianamente presentata dalle cronache è nutrita ma coglie solo la punta dell’iceberg: dipendenti Alitalia che si oppongono all’unico accordo che può salvare e rilanciare l’azienda, commessi parlamentari che difendono emolumenti indifendibili, addetti di municipalizzate locali in fortissima perdita pronti a fare le barricate a difesa dello sperpero di denaro ai danni dei contribuenti, eccetera.

È inutile negarlo: il cambiamento, per quanto definito necessario da tutti gli osservatori, e dalla stessa classe politica di governo, deve fronteggiare una resistenza e una opposizione «di popolo». È questa la ragione per cui, anche se pochi lo dicono, molti lo pensano: forse fu un errore non accettare il commissariamento europeo. Sarebbe servito a vincere resistenze così diffuse. È un fatto che la Spagna, dopo avere pagato un alto prezzo, ora naviga finalmente in acque migliori delle nostre (aiutata, va detto, dai soldi che l’Europa ha dato alle sue banche).

Cosa può fare la politica, e soprattutto la politica democratica, se componenti quantitativamente assai rilevanti della società italiana si oppongono alle tanto invocate riforme? Non sbagliamo quando pretendiamo che assuma un ruolo salvifico? Non ne sopravvalutiamo capacità e possibilità? Perché mai la politica dovrebbe essere in grado di salvarci contro la nostra volontà?

In una democrazia i politici dipendono dai voti degli elettori. Se gli elettori non vogliono una cosa i politici non possono farci proprio nulla. Si può supporre che sia per questo, in realtà, che le promesse e le proposte dei vari leader appaiano sempre così poco credibili. Forse è per questo, ad esempio, che non è credibile la destra la quale oggi, per gioco delle parti, critica la politica economica di Renzi ma non è mai stata in grado di spiegarci perché in tanti anni di governo non abbia fatto quegli interventi, a cominciare dai tagli alla spesa pubblica, che andavano fatti. E forse è per questo che comincia a consumarsi anche Renzi, ad apparire sempre meno credibile: troppe parole, troppe promesse.

In realtà, le cose sono più complicate. Perché se è vero che la resistenza al cambiamento è forte e diffusa, e i ricatti elettorali che subiscono i politici sono potenti, è anche vero che se l’economia non riparte, sarà a quegli stessi politici che verrà poi presentato il conto, saranno loro a fungere da capri espiatori.

A dispetto della retorica imperante, a dispetto del fatto che soprattutto i leader parlano di se stessi come se fossero onnipotenti, la politica «non cambierà l’Italia». Nel bene e nel male l’Italia è questa e resterà più o meno uguale a se stessa per anni e anni a venire. Ma senza esagerare, senza sopravvalutare le possibilità della politica, riconosciamo che alcune cose possono essere comunque fatte.

Checché ne pensino molti, ad esempio, chi scrive ritiene che la riforma del Senato non sia affatto un «parlar d’altro» ma possa servire, in prospettiva, anche alla crescita economica del Paese. Perché indebolendo i poteri di veto connessi al bicameralismo paritetico può migliorare l’efficacia degli interventi dell’esecutivo. Per il resto servirebbe, da parte dei politici di governo, un po’ di umiltà. Facciamo un esempio. Come ha ricordato Mario Draghi, contribuisce a scoraggiare gli investimenti in Italia l’eccesso di burocrazia, il fatto, ad esempio, che occorrano otto o nove mesi per ottenere le autorizzazioni a fare impresa. Si può cambiare questa situazione? Forse sì, ma non a colpi di slogan. Non basta evocare, come ha fatto Renzi, la «lotta alla burocrazia». Occorre affrontare, anche con strumenti conoscitivi adeguati, una situazione molto complessa costituita da un reticolo di vincoli normativi, di routine amministrative distorte, di resistenze burocratiche alla innovazione.

La politica non può fare tutto. Solo qualcosa. Ma per riuscirci deve rispettare una condizione. Non le si può chiedere di rinunciare alla demagogia (che è indispensabile per ottenere voti). Si può però pretendere che affronti problemi complessi con intelligenza. Con meno superficialità, per lo meno.

Angelo Panebianco

10 agosto 2014 | 08:44
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_10/guardandoci-specchio-0df5d698-2055-11e4-b059-d16041d23e13.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. ESTREMISMO ISLAMICO, ALIENAZIONE EUROPEA Le complicità ...
Inserito da: Admin - Agosto 20, 2014, 07:17:10 pm
ESTREMISMO ISLAMICO, ALIENAZIONE EUROPEA
Le complicità occidentali

Di Angelo Panebianco

Troppi indizi lasciano pensare che stia accadendo di nuovo. Nel XX secolo le società democratiche occidentali vennero sfidate da potenti movimenti politici totalitari. Quei movimenti politici trovarono simpatie, connivenze e alleanze all’interno di quelle stesse società democratiche. Si pensi ai tanti simpatizzanti del nazismo nell’Europa degli Anni Trenta. E, soprattutto, si pensi al comunismo sovietico. Per decenni e decenni la sua natura tirannica venne negata da milioni di uomini in Occidente (in particolare, nell’Europa latina). I movimenti totalitari del XX secolo poterono contare, nelle società europee rimaste democratiche, su quinte colonne estese, motivate e radicate.

L’estremismo islamico è certamente diverso da nazismo e comunismo. Non nasce in Europa, anzi le è totalmente estraneo. È anch’esso una ideologia politica totalitaria ma non è un figlio spurio della secolarizzazione. Si tratta di una ideologia che utilizza e piega ai suoi scopi una religione. A prima vista, non dovrebbe avere nulla di attraente per degli occidentali, non dovrebbe suscitare alcuna simpatia. Ma non è così. Sorprendentemente, incontra molta più comprensione, fra certi occidentali, di quanta se ne potrebbe ragionevolmente aspettare. E la ragione forse, nella sua tragicità, è abbastanza semplice. Le società democratiche occidentali hanno sempre contenuto al loro interno quote più o meno ampie di persone che le odiano e vorrebbero distruggerle. Persone che di tali società rifiutano l’individualismo congenito, ne negano il carattere democratico, disprezzano i diritti di libertà di cui godono i loro concittadini, provano ripugnanza per il «materialismo» occidentale, per il fatto che le società democratiche siano soprattutto impegnate nella ricerca del benessere economico. Si pensi a quelle mosche cocchiere che in Occidente sono sempre stati gli intellettuali. Come diceva l’economista Joseph Schumpeter, solo il capitalismo occidentale, fra tutte le formazioni sociali esistite, ha avuto la particolarità di allevare e mantenere un così grande stuolo di intellettuali (e di pseudo-intellettuali) che vorrebbero distruggerlo. È questa incomprimibile quota di alienati, sempre presente, sia pure in proporzioni variabili, in tutte le società democratiche occidentali, a fornire, a seconda delle posizioni sociali occupate, manovalanza oppure copertura e appoggio intellettuale ai movimenti totalitari, a costituirne le quinte colonne.

Non andrebbe sottovalutata la dichiarazione del deputato dei Cinque Stelle di comprensione per il terrorismo islamico. Una dichiarazione, peraltro, che segue di una settimana un’altra dichiarazione, di un altro esponente Cinque Stelle, il quale manifestava simpatia per l’Isis, il Califfato siriano-iracheno.Una rondine non fa primavera ma uno stormo sicuramente sì. Si guardi cosa si è scatenato, non solo qui da noi ma in tutta Europa, in occasione del nuovo conflitto a Gaza. Le accuse ad Israele di genocidio (una parola che sembra aver perso il suo significato originario), addirittura - come recita un manifesto di intellettuali, con molte firme al seguito, circolante oggi in Italia - la richiesta di una nuova Norimberga contro lo Stato ebraico, Hamas fatta passare per una congrega di puri combattenti per la libertà. Solo crimini, e nessuna ragione, vengono imputati da costoro ad Israele (si veda il suddetto manifesto). Anche in Europa, insomma, c’è un bel po’ di gente che vorrebbe «cancellare l’entità sionista». Per non parlare degli attacchi alle sinagoghe e delle minacce agli ebrei.

Certamente, nell’odio per Israele confluisce un antisemitismo mai sradicato che oggi preferisce mimetizzarsi, mostrarsi interessato alla causa palestinese. Ma gioca anche il fatto che in Medio Oriente Israele è, con le sue peculiarità, la società più simile a quelle occidentali. E, in quanto tale, bersaglio, qui in Europa, di ostilità e disprezzo. Confrontate quanto i nemici europei di Israele hanno detto e scritto in questi giorni su Gaza con «l’assordante silenzio» che essi hanno rigorosamente mantenuto nei confronti delle stragi jihadiste di cristiani che si consumavano nello stesso momento. E capirete. L’ostilità per Israele è oggi il comun denominatore, l’elemento che accomuna, e avvicina, gli europei alienati e l’estremismo islamico. E prepara i primi al ruolo di alleati del secondo. In nome della comune avversione al materialismo e all’individualismo occidentali. Forse un messaggio sufficientemente netto, e sufficientemente condiviso dai suoi massimi esponenti, da parte della Chiesa cattolica, aiuterà in futuro, almeno qui in Italia, a circoscrivere il fenomeno. Il Papa ha preso una posizione forte e chiara sulla persecuzione in atto dei cristiani da parte dei jihadisti. Ma, in una intervista al Corriere (15 agosto), il segretario della Cei monsignor Nunzio Galantino, dopo avere detto molte cose condivisibili, ha dato anche al lettore l’impressione, sicuramente sbagliata, di mettere sullo stesso piano il «fondamentalismo» occidentale, l’ostilità di molti occidentali per l’islam, e le azioni dell’Isis e degli altri movimenti jihadisti. Un messaggio più chiaro sarebbe sicuramente di aiuto. Certo, per sua natura (soprattutto la sua alterità culturale) l’estremismo islamico non farà comunque in Europa altrettanti proseliti dei movimenti totalitari del XX secolo. Ma una rete di complicità e di alleanze sicuramente si formerà. La storia si ripete. Speriamo che non sia ancora tragedia.

18 agosto 2014 | 08:02
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_18/complicita-occidentali-f2e576b4-2695-11e4-bbeb-633ac699516c.shtml


Titolo: A. PANEBIANCO. L’America (e l’Europa) senza strategie Quando Obama si smarrisce.
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2014, 06:36:08 pm
L’America (e l’Europa) senza strategie
Quando Obama si smarrisce

di ANGELO PANEBIANCO

Obama si è lasciato sfuggire ciò che tutto il mondo, nemici dell’America compresi, ha capito benissimo: la sua Amministrazione non dispone di una strategia per fronteggiare il Califfato siriano-iracheno. In realtà, si tratta di un giudizio fin troppo generoso: è da tempo che quasi tutti gli osservatori, anche quelli un tempo più simpatetici nei suoi confronti, constatano che l’Amministrazione Obama non dispone di una discernibile strategia di politica estera in quasi nessuno degli scacchieri che contano. Le critiche di Hillary Clinton, ex segretario di Stato e futura candidata democratica alla presidenza, non sono infondate.

Tutto ciò ci riguarda? Ci riguarda moltissimo. Perché l’Europa è legata a filo doppio all’America e l’assenza di una strategia di politica estera della seconda getta nel marasma la prima. L’Europa, lasciata a se stessa, come si è potuto constatare in questi anni, è - retorica europeista a parte - un insieme di Stati nazionali che hanno alcuni interessi in comune e hanno altri interessi divergenti e in competizione. Solo una chiara e dominante strategia americana può mettere un certo ordine e dare un po’ di coesione all’Unione, in particolare quando essa è alle prese con crisi internazionali.

Facciamo due esempi. Dimostrano che, senza una leadership americana, gli europei sanno soprattutto danneggiarsi a vicenda. Cominciamo dal caso libico. Il marasma della Libia post Gheddafi è la causa principale della situazione (sbarchi, operazione Mare Nostrum) che fronteggiamo nel Mediterraneo. All’origine ci fu un intervento, deciso da alcuni Stati europei, con l’avallo americano, contro Gheddafi, cui seguì il disinteresse di quegli stessi Stati per la situazione creatasi dopo la caduta del dittatore. La responsabilità principale, per quel che riguarda sia l’intervento militare che la caduta di interesse a intervento avvenuto, è della Francia.

Fu l’allora presidente Sarkozy, spalleggiato dagli inglesi, a volere l’azione anti Gheddafi. Per ragioni e calcoli molto «francesi». C’erano i sondaggi sfavorevoli al presidente e l’idea (poi rivelatasi sbagliata) che una guerra vittoriosa contro un tiranno arabo gli avrebbe restituito lustro e un po’ di consensi perduti. E c’era, inconfessata, la voglia di rifarsi a spese degli italiani. Le primavere arabe, eliminando il dittatore tunisino Ben Ali, uomo della Francia, avevano messo in discussione l’influenza francese in Tunisia. Perché dunque non intervenire in Libia, dove erano sempre stati prevalenti, per ragioni storiche, gli interessi italiani, al fine di ritagliarsi un ruolo nel dopo Gheddafi?

Obama, che nemmeno allora disponeva di una strategia per il Medio Oriente (si pensi alle contorsioni e all’improvvisazione dell’America in tutta la vicenda egiziana: dalla caduta di Mubarak a quella di Morsi) avallò la scelta francese e fece anche pressioni su un’Italia, comprensibilmente riluttante, perché si accodasse all’intervento armato.

Dopo di che, una volta eliminato Gheddafi, subentrò il disinteresse dei francesi. Chi aveva eliminato la dittatura non si sentì in dovere di contribuire alla ricostituzione di un ordine politico in Libia. A loro volta, gli americani, colti di sorpresa dall’assassinio dell’ambasciatore Chris Stevens, non furono capaci di prendere l’iniziativa, di decidersi a fronteggiare in qualche modo il caos libico. Tutti, in sostanza, se ne lavarono le mani, consegnarono agli italiani il cerino acceso. Un secondo esempio è dato dalla guerra ucraina. Troppe divisioni in Europa di fronte al rinato imperialismo russo hanno fatto a lungo il gioco di Putin. Le preoccupazioni geopolitiche di alcuni Paesi europei che chiedevano fermezza erano in conflitto con l’interesse di altri Paesi europei a preservare i rapporti economici con la Russia. E un’America le cui debolezze su tutti gli scacchieri erano e sono ben chiare agli europei dell’Unione (oltre che a Putin) non aveva l’autorevolezza necessaria per imporre coesione. Non è bastata la conquista della Crimea per creare un fronte compatto europeo. Anche se la scelta di un polacco, Donald Tusk, come presidente del Consiglio europeo è stata forse un passo in quella direzione, non è nemmeno certo che quel fronte possa costituirsi ora, dopo che i russi hanno dimostrato di non essere disposti a fermarsi, a mettere fine alla guerra, prima di avere riconquistato, in un modo o nell’altro, il controllo sul destino dell’Ucraina.

Nessuno sfugge alla propria storia. L’integrazione europea mosse i suoi primi passi nell’età della Guerra fredda, e ottenne i suoi primi, spettacolari, successi, grazie a una divisione dei compiti: gli europei poterono concentrare i loro sforzi sull’integrazione economica perché la difesa armata dell’Europa e tutte le decisioni importanti nelle questioni militari erano delegate agli americani. La Guerra fredda è finita da venticinque anni circa ma in tutto questo periodo l’Europa non ha dato segni di sapersi muovere unita, e in autonomia dagli Stati Uniti, sui problemi della sicurezza.

Anche agli europei, dunque, serve un’America che, anziché limitarsi a constatare di non avere una strategia, sia di nuovo capace di darsela, e non solo per quanto riguarda il Califfato. In fondo, non è ciò che sperano anche gli ucraini mentre chiedono (agli americani) di essere accolti nella Nato?
Mentre ci complimentiamo per la sua nomina con Federica Mogherini, il nuovo «ministro degli Esteri» europeo, osserviamo che il lavoro che l’aspetta diverrà molto più semplice se gli americani riconquisteranno, anche solo in parte, la perduta capacità di visione e di leadership.

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1 settembre 2014 | 07:48
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_01/quando-obama-si-smarrisce-04e0ad70-3195-11e4-a94c-7f68b8e9ffdd.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Non trattateci come sudditi
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2014, 11:15:16 pm
Non trattateci come sudditi
di Angelo Panebianco

È solo un paradosso apparente che i sondaggi mostrino il sostegno degli italiani per Matteo Renzi (raggiunge il 64 per cento dei consensi nel sondaggio di cui ha dato conto il Corriere domenica, e in nessun altra rilevazione scende sotto il 50), unito però a un diffuso scetticismo sulle misure del governo. Non c’è nulla di irrazionale. Anzi, il pubblico si mostra giudizioso. Si affida a Renzi perché lo riconosce come l’uomo forte del momento, colui che domina la politica e dice di sapere che cosa occorra fare per portarci fuori dai guai. In situazioni tribolate non è insensato affidarsi (provvisoriamente) all’uomo forte disponibile. Ma, al tempo stesso, gli italiani non si mostrano stupidi, non si fanno prendere in giro. Fino ad oggi il governo non è risultato molto convincente nella sua azione e i sondaggi lo registrano.

Proviamo a domandarci che cosa ci sia di poco convincente. Detto in modo enfatico e (non troppo) esagerato, di poco convincente c’è il fatto che non si è visto fin qui nessun provvedimento volto a restituire agli italiani i diritti di cittadinanza, nessun provvedimento che dia l’impressione di volerli trasformare da sudditi, quali per molti versi sono, in cittadini. Alcuni anni fa l’economista Nicola Rossi scrisse un bel libro (Sudditi , Istituto Bruno Leoni) che documentava il modo in cui politica e amministrazione avevano ridotto alla stato di sudditanza gli italiani, che pure, stando alla Costituzione, dovrebbero essere cittadini. Nel periodo intercorso non è cambiato nulla. E nemmeno Renzi finora ha fatto granché. Il caso della Tasi è esemplare. Come documentavano, sul Corriere di ieri, Fracaro e Saldutti, a meno di un mese dalla scadenza, più di 3.000 Comuni su 8.000 non hanno ancora fissato l’aliquota che dovrà essere versata. Una grande quantità di italiani continua ad ignorare quanto dovrà pagare. Il governo Renzi, sulla scia di Letta, ha ripetuto l’errore fatto a suo tempo dal governo Monti con l’Imu.

Ma perché mai dovrebbero ripartire i consumi se si impongono tasse e poi si lasciano passare mesi e mesi prima che i cittadini (pardon : i sudditi) possano conoscerne l’entità? Eppure sarebbe bastato poco. Sarebbe bastato stabilire che le inefficienze dell’amministrazione sono a carico solo dell’amministrazione. Sarebbe bastato decidere che i Comuni avevano tempo, poniamo, fino al maggio 2014 per stabilire l’ammontare dell’aliquota. Dopo di che, avrebbero perso il diritto di esigere il pagamento della tassa.

Sbaglia chi crede che perché ci sia crescita economica occorra che la politica sia «amichevole verso il mercato». Occorre invece che sia amichevole verso i diritti di cittadinanza. L’orientamento pro-mercato ne è soltanto una conseguenza. Chi, ad esempio, oggi vuol fare impresa è sottoposto alla tagliola e al ricatto delle autorizzazioni che l’amministrazione rilascerà a suo comodo, quando vorrà. Anche qui basterebbe poco per ristabilire il diritto di cittadinanza: il silenzio-assenso. Se l’autorizzazione esplicita non arriva entro un termine preciso, si dà per acquisita. E i funzionari che non se ne sono occupati nel tempo previsto saranno civilmente e penalmente corresponsabili di eventuali abusi.

Se il governo cominciasse ad «elargire» agli italiani diritti di cittadinanza avrebbe forse più successo di quello fin qui ottenuto con gli ottanta euro, riuscirebbe a fare ripartire l’economia. E forse i consensi di cui Renzi gode oggi nel Paese non risulterebbero effimeri, passeggeri.

10 settembre 2014 | 08:26
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_10/non-trattateci-come-sudditi-fc569aec-38a7-11e4-ba01-a3638c813bce.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tre lezioni dal referendum in scozia
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2014, 03:42:03 pm
Tre lezioni dal referendum in scozia
Le diversità da rispettare
Non soltanto la Spagna, alle prese con l’indipendentismo catalano, ma anche altri Paesi, Italia inclusa, hanno a che fare con aspirazioni secessioniste


Di Angelo Panebianco

Non sono solo i diretti interessati, il governo britannico e la regina, ad applaudire al risultato del referendum scozzese. Il senso di sollievo è palesemente diffuso in Europa. Non soltanto la Spagna, alle prese con l’indipendentismo catalano, ma anche altri Paesi, Italia inclusa, hanno a che fare, in modo più o meno serio, con aspirazioni secessioniste. Una vittoria del «sì» in Scozia avrebbe innescato effetti imitativi, avrebbe galvanizzato gli estimatori delle «piccole patrie» sparsi per il Vecchio Continente, fornendo propellente per la loro agitazione politica. La vicenda del referendum scozzese è stata istruttiva. Ci ha impartito tre insegnamenti. In primo luogo, ci ha dimostrato che, nonostante venga affermato il contrario da molti, lo Stato così come si è formato in Europa nel corso dei secoli, il cosiddetto Stato nazionale (nel quale, cioè, esiste un riconoscibile gruppo etno-nazionale dominante) non è affatto morto, continua ad essere percepito dai più - anche da coloro che, come gli scozzesi, non appartengono al gruppo dominante - come un porto sicuro, l’organizzazione politica capace di offrire, rispetto ad altre, maggiore protezione e migliori garanzie per il futuro. Protezione e garanzie che la piccola patria, potenziale vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro (gli Stati nazionali rimasti tali) non è in grado di assicurare.

Il secondo insegnamento è che, comunque, la storia pesa e soprattutto là dove resiste (tramite i racconti famigliari che attraversano le generazioni) la memoria del sangue versato nei secoli passati, l’identità locale, l’identità della piccola patria, mantiene comunque una sua notevole forza politica. La Scozia, per effetto del referendum, è spaccata in due: quasi la metà degli scozzesi si è pronunciata a favore dell’indipendenza. Londra dovrà per forza tenerne conto concedendo più risorse e più poteri. Il terzo insegnamento riguarda l’Europa. L’imbarazzo europeo di fronte al referendum scozzese era palese. E si capisce. L’Unione è una organizzazione di Stati nazionali, costruita a misura degli Stati nazionali. Se una parte di questi ultimi si disgrega l’Unione può soffrirne assai. Altro che «superamento» dello Stato quale meta finale, come hanno ripetuto per anni coloro che si erano autonominati custodi dell’europeismo. L’integrazione europea non implica né presumibilmente implicherà in futuro tale superamento. L’Europa è un club di Stati nazionali legati fra loro da forti interessi comuni.

Come in qualunque club che si rispetti, i soci grandi e forti contano di più di quelli piccoli e deboli. Se i suoi problemi interni non la frenassero, ad esempio, l’Italia sarebbe uno degli Stati dominanti dell’Unione, riconosciuto come tale da tutti gli altri Stati. Come ha dimostrato anche l’incontro tenutosi al Corriere due giorni fa fra gli ambasciatori dei ventotto Paesi dell’Unione, l’europeismo di ciascuno dei ventotto ha motivazioni diverse, che dipendono dalla storia e dalle esigenze geopolitiche di ogni singolo Paese. Se si vuole ridare slancio all’integrazione e frenare l’antieuropeismo montante nell’opinione pubblica, è necessario prendere atto di queste diversità. Restituendo, quanto più è possibile, la perduta flessibilità alle istituzioni dell’Unione. In Europa c’è bisogno sia del vecchio che del nuovo. Servono tuttora i vecchi Stati. Ma serve anche una federazione (di Stati) messa in grado, meglio di quanto possa fare oggi l’Unione, di maneggiare certi problemi comuni. Sul fronte dell’economia come su quello della sicurezza.

20 settembre 2014 | 07:53
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_20/diversita-rispettare-364c28f4-4085-11e4-ada3-3c552e18d4d4.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Veleni interni, barriere infrante
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2014, 03:46:16 pm
L’EDITORIALE
Veleni interni, barriere infrante

di Angelo Panebianco

Contano solo le realizzazioni pratiche o anche le innovazioni culturali? Dobbiamo valutare una leadership solo per gli obiettivi concreti che ha raggiunto o anche per la qualità delle idee che diffonde, per la visione che cerca di trasmettere? Contano solo i «fatti» e il resto, tutto il resto, è soltanto chiacchiera? Se pensiamo che importino solo i fatti, le realizzazioni, gli obiettivi raggiunti, allora il giudizio sui primi sei mesi del governo Renzi (che si è insediato il 22 febbraio 2014) non è molto positivo. Sarà colpa della complessità e della lentezza del processo decisionale in Italia, sarà colpa delle divisioni entro i gruppi parlamentari del Partito democratico (ove coloro che remano contro Renzi sono tanti), sarà colpa - come gli imputano molti critici - del suo carattere, di una certa superficialità, di una sua tendenza all’improvvisazione e alla ricerca dell’applauso facile, non sorretta da un’adeguata conoscenza dei problemi, o una combinazione di questi e di altri fattori, ma i risultati di sei mesi di governo non appaiono esaltanti né numerosi. Il carnet di Renzi non è ancora molto ricco e l’encefalogramma sempre piatto dell’economia nazionale è lì a testimoniarlo.

Ma è solo in questo modo che va valutata una leadership? Oppure contano anche altri fattori, i cui effetti non sono magari immediatamente misurabili, le cui conseguenze non appaiono subito visibili ma che possono provocare, nel tempo, cambiamenti di vasta portata? Molti pensano, con ragione, che Renzi non raggiunga ancora la sufficienza in realizzazioni pratiche ma non possono negargli un nove o un dieci in innovazione culturale. Forse questa è anche la vera ragione del vasto consenso di cui gode nel Paese. Renzi sta cambiando, o si sforza di cambiare, non solo il volto ma anche l’anima della sinistra italiana, incidendo per questa via sulla più generale cultura politica del Paese. Sono almeno quattro gli ambiti in cui ha radicalmente innovato. Per cominciare, ha spazzato via in un colpo solo l’antiberlusconismo. Per venti anni l’antiberlusconismo è stato il cuore dell’identità della sinistra italiana. Anzi, esso era diventato la sinistra tutta intera: null’altro la definiva e la teneva insieme. Sono rimasti solo i Cinque Stelle a sventolare la bandiera antiberlusconiana. Senza troppo successo, a quanto pare. Grazie a Renzi, bisogna dirlo, la qualità della vita è migliorata. Non si inciampa più ad ogni piè sospinto in quei fissati, quegli ossessionati da Berlusconi che annoiavano tutti parlando solo di lui e che negli ultimi venti anni incontravi continuamente, ovunque andassi.

Renzi, relegando l’antiberlusconismo fra gli abiti dismessi, sta cambiando l’identità della sinistra. Un compito che può assumersi solo uno che ha autentiche qualità di leader. In secondo luogo, il premier ha aggredito il tabù della «Costituzione più bella del mondo», ha attaccato il conservatorismo costituzionale della sua parte politica. Non sappiamo come andrà a finire la riforma del Senato (giudicheremo alla fine: in materia costituzionale sono i dettagli che contano) ma almeno possiamo dire che ci ha provato sul serio.



C’è poi la circostanza che sta spaccando il Partito democratico in questi giorni. Renzi è stato il primo leader della sinistra che ha detto la verità sul conservatorismo della Cgil e sugli interessi che essa difende a scapito di quali altri interessi. Scontri fra la sinistra politica e la Cgil ce ne sono stati in passato (il principale, allora vinto dal sindacato, fu quello fra Massimo D’Alema e Sergio Cofferati negli anni Novanta) ma questa è la prima volta che la Cgil si trova sulla difensiva, è costretta a misurarsi con l’impopolarità. Unite al suo rifiuto della concertazione fra governo e parti sociali, le prese di posizione del premier su articolo 18 e Cgil stanno modificando senso comune e cultura politica della sinistra.

E c’è infine l’innovazione più importante di tutte, quella incarnata da Renzi stesso. Da sempre allergica all’uomo forte, all’uomo solo al comando, la sinistra si trova ora, precisamente, a subire il predominio dell’uomo forte, a subire l’uomo solo al comando. Un altro tabù che se ne va in pezzi.

Ci sono, naturalmente, quelli che pensano che Renzi sia più o meno uguale a Berlusconi. Anche se Renzi corre effettivamente il rischio di assomigliare a Berlusconi per un aspetto, la tesi è complessivamente errata e sciocca. Il vero, e grave, problema di Berlusconi era dato dal fatto che egli predicava abbastanza bene e razzolava abbastanza male. Il male stava nel grande divario fra il dire e il fare. Se le realizzazioni pratiche del governo continueranno a scarseggiare, la stessa cosa, forse, si dirà fra non molto di Matteo Renzi. Lo stesso avverrà se si scoprirà che il governo usa un linguaggio innovatore per nascondere il fatto che la sua politica è vecchia di decenni. Ad esempio, in materia scolastica, ci saranno davvero le innovazioni che Renzi sbandiera oppure tutto si risolverà, come è tradizione, nella assunzione di un gran numero di precari senza alcun riguardo per la qualità?

Ciò constatato, la tesi della identità fra Renzi e Berlusconi non regge, offende il buon senso, anche se è spiegabile. Coloro che per decenni hanno creduto che in politica l’alternativa fosse fra lo status quo e la palingenesi (il Grande Cambiamento e altre formule simili) non possono rassegnarsi di fronte a un leader che all’antico bla bla sulla palingenesi sostituisce l’elogio dell’inventiva e della innovazione tecnologica simbolizzate dalla Silicon Valley. Se la palingenesi non ha più corso, essi pensano, resta solo lo status quo e nello status quo tutti i gatti sono bigi, Renzi è uguale a Berlusconi. Ma, naturalmente, la politica democratica è un’altra cosa: è una gara fra coalizioni di interessi differenti che possono cooperare su alcuni temi ma sono anche, inevitabilmente, in competizione su altri. Renzi sta cambiando l’identità della sinistra. O almeno si sforza di farlo. Ma non sta cambiando, grazie al Cielo, la natura della politica democratica.

28 settembre 2014 | 09:11
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_28/veleni-interni-barriere-infrante-f234b634-46d5-11e4-b58c-ffda43e614fc.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L’attacco islamista Kobane, sotto assedio è l’Occidente
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2014, 03:16:23 pm
L’attacco islamista Kobane, sotto assedio è l’Occidente

Di Angelo Panebianco

Quanto può valere, in termini di reclutamento di altri combattenti in tutto il mondo, oltre che di nuovi simpatizzanti per la «causa» (la guerra santa), la sempre più probabile caduta di Kobane nelle mani dello Stato islamico? Kobane, la città curda assediata (e già in gran parte conquistata dal Califfo) i cui abitanti combattono per sfuggire a morte certa, sta diventando una prova dell’impotenza occidentale. Le analogie storiche funzionano solo in parte ma la battaglia di Kobane sta assumendo un rilievo simbolico che ricorda quello di battaglie decisive in certe guerre del passato. Come Stalingrado. I curdi ce l’hanno soprattutto con il presidente turco Erdogan che non muove i carri armati, né permette ai curdi di attraversare il confine con la Siria per andare a salvare gli abitanti di Kobane. Ma la tragedia della città è, prima di tutto, il frutto degli errori degli occidentali, della loro passività, durata troppo a lungo, di fronte alla nascita e alle vittorie del Califfato. I bombardamenti americani hanno rallentato l’avanzata dei jihadisti ma, secondo lo stesso Pentagono, non basteranno né a salvare Kobane né a bloccare l’ulteriore espansione dello Stato islamico. Per fare quel lavoro occorrono le truppe di terra. Esattamente ciò che Obama non è disposto a impegnare.

Si scontano anche in questo caso gli effetti di una politica americana in Medio Oriente giudicata fallimentare da critici dello stesso campo democratico cui appartiene il presidente: dall’ex segretario di Stato e futura candidata alla presidenza Hillary Clinton all’ex segretario alla Difesa sotto Obama, Leon Panetta.

Il problema è che una coalizione di guerra contro lo Stato islamico che comprende le potenze sunnite dell’area è un’ottima cosa sulla carta ma non funziona o funziona male di fatto perché ciascuna di quelle potenze ha nella partita interessi e obiettivi propri, e la leadership americana è troppo debole e troppo poco credibile: non può imporre la coesione necessaria per ottenere decisive vittorie militari sul terreno. Non è nemmeno sicuro che le potenze sunnite coinvolte (la Turchia per prima) vogliano davvero spingersi fino a distruggere il Califfato. Intendono certamente colpirlo e fermarlo poiché si tratta di un fenomeno sfuggito di mano a tutti. Ma non è sicuro che vogliano anche distruggerlo se ciò significa regalare la vittoria ad Assad in Siria, consentire che il suo regime si perpetui. Mentre è certo, almeno dal punto di vista occidentale, che la sconfitta definitiva dello Stato islamico è necessaria non solo per stabilizzare la regione ma anche per spegnere gli entusiasmi che i suoi successi e la sua sanguinaria capacità mediatica hanno suscitato fra molti giovani sunniti in Medio Oriente, in Europa e altrove.

Non sembra neppure funzionare l’idea fin qui accarezzata (implicitamente) dalla Casa Bianca: quella di coinvolgere l’Iran con lo scopo non solo di sconfiggere lo Stato islamico, ma anche di costituire, in prospettiva, una sorta di «equilibrio di potenza» fra Stati sunniti e Stati sciiti sotto sorveglianza occidentale per assicurare stabilità al Medio Oriente. In linea di principio, favorire un simile equilibrio ridando rispettabilità e riconoscimento all’Iran, soprattutto attraverso l’accordo nucleare, sembrava, fino a qualche tempo fa (prima che emergesse la minaccia dello Stato islamico), una buona idea.

Oltre a tutto, è vero che l’Iran post rivoluzione del ‘79 ha spesso favorito movimenti e azioni terroriste ma è altrettanto vero che è stato nel mondo sunnita, non in quello sciita, che ha preso corpo ed è decollata, da Al Qaeda al Califfato, la grande guerra condotta simultaneamente contro l’Occidente, gli sciiti e i sunniti non coinvolti nella jihad . Ma quella che era forse un tempo una buona idea, un progetto praticabile, oggi non lo è più. Non solo la nascita del Califfato ha complicato enormemente il quadro ma, per giunta, quel progetto avrebbe richiesto, per funzionare, anche un coordinamento e una intesa fra le grandi potenze: in concreto, sarebbe stato necessario l’appoggio della Russia. Un’ipotesi che è definitivamente tramontata a causa della crisi ucraina.

Il Corriere ha ieri ospitato un interessante intervento di due politici italiani, Pier Ferdinando Casini e Fabrizio Cicchitto, giustamente allarmati per gli sviluppi in corso e che proponevano il coinvolgimento dell’Onu per fermare lo Stato islamico. In queste ore, anche altri in altre capitali europee, consapevoli della debolezza dell’attuale coalizione di guerra, propongono soluzioni simili. C’è da temere, però, che quella non sia la strada. L’Onu può servire (come accadde nel 1991 durante la prima guerra del Golfo contro Saddam Hussein) per dare copertura politico-diplomatica a una potenza americana dotata di volontà d’intervento e di strategia militare. Difficilmente può essere il surrogato o il sostituto di quella volontà e di quella strategia. Per dire che, sfortunatamente, non c’è alternativa a un impegno diretto degli Stati Uniti e a una loro ritrovata capacità di guidare e dare coesione alla coalizione di guerra.

L’Europa corre rischi grandissimi. Siamo sulla linea di tiro. Le ripetute minacce del Califfo all’Europa non sono sbruffonate. Nella sua tragicità la situazione è semplice: o i jihadisti verranno fermati in Medio Oriente o la guerra, prima o poi, ci raggiungerà. La principale ragione per cui ciò continua ad apparire inverosimile a tanti europei occidentali è semplicemente il riflesso dell’eccezionalità della storia europea dopo il ‘45, della felicissima anomalia (almeno fino alle guerre iugoslave) di un lunghissimo periodo di pace. Essi faticano a comprendere che la sicurezza europea, in questo come nei passati frangenti, dipende da due condizioni: la disponibilità di americani ed europei a coordinare i loro sforzi, e la presenza di una America i cui dirigenti possiedano la capacità e la volontà di esercitare la leadership.

Le nuove minacce alla sicurezza obbligano a rettificare molti giudizi del passato. Per anni, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, in tanti hanno pensato che America e Europa potessero felicemente andarsene ciascuna per la propria strada. Che l’Europa non sia in grado di farlo dovrebbe essere ormai evidente. La si osservi con attenzione. Qualcuno pensa che sia capace di difendersi da sola? Si guardi al disastro che è riuscita a combinare in Libia.

Ma anche gli Stati Uniti, come hanno sperimentato con la presidenza Obama, la meno interessata, rispetto a tutte quelle che l’hanno preceduta nell’ultimo mezzo secolo, a mantenere la «relazione speciale» con l’Europa, non hanno nulla da guadagnare da un indebolimento eccessivo del legame transatlantico. È forse dai tempi di Jimmy Carter (fine anni Settanta) che il prestigio e l’influenza degli Stati Uniti non cadevano così in basso. Bisogna sperare che il prossimo presidente abbia l’energia e la capacità di rovesciare la tendenza. Nell’attesa, è vitale che, in Medio Oriente soprattutto, gli occidentali (gli americani in primo luogo ma anche gli europei) la smettano di accumulare solo errori.

12 ottobre 2014 | 09:09
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_12/kobane-sotto-assedio-l-occidente-8e50c4dc-51d9-11e4-b208-19bd12be98c1.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Gli interessi e la sicurezza
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2014, 11:37:14 am
Gli interessi e la sicurezza
L’Italia si scopre troppo filorussa


Di Angelo Panebianco

L’Italia di Matteo Renzi, come si è visto a Milano al vertice dell’Asem, sta facendo di tutto per ricucire i rapporti fra la Russia e l’Unione Europea. È la posizione dell’attuale premier ma è anche quella di Silvio Berlusconi, grande amico di Putin, convinto fautore della cooperazione con la Russia e, fin dall’inizio della crisi, contrario ad atteggiamenti troppo punitivi verso i russi per la questione ucraina. Questa convergenza di fatto non è il frutto del patto del Nazareno. È piuttosto l’effetto della consapevolezza, comune a quasi tutti i protagonisti della politica italiana, della fragilità della nostra posizione internazionale, e della convinzione che - si tratti di energia o di relazioni commerciali - l’Italia ha un disperato bisogno di vedere normalizzati al più presto i rapporti fra Russia e Unione. In tema di Russia, insomma, c’è, in Italia, una certa convergenza di vedute su dove stia l’interesse nazionale.

Ciò sembra in controtendenza rispetto alla tradizionale assenza di bipartisanship sulla politica estera che ai tempi della Guerra fredda e ancora, per ragioni diverse, al tempo dei governi Berlusconi, tanti osservatori attribuivano all’Italia. In realtà, al di sotto dei clamori e delle retoriche della politica politicante, una qualche convergenza, imposta per lo più da vincoli geografici ed economici, c’è quasi sempre stata, almeno su alcuni temi: la Russia è uno, la Libia è un altro. Non è un mistero, ad esempio, che all’epoca del governo Berlusconi, l’Italia subì di malagrazia le pressioni franco-britanniche e americane a favore dell’intervento contro Gheddafi. È vero che in quel momento molti in Italia abbracciarono con entusiasmo quella causa nell’errata convinzione che avesse da perderci solo Berlusconi e non anche l’Italia. Ma è anche vero che quello della Libia è un altro caso in cui, per lo più, c’è sempre stata una certa convergenza nella definizione dell’interesse nazionale. Come dimostra la continuità dei rapporti con Gheddafi mantenuta per decenni dai diversi governi, di destra e di sinistra, che si succedettero in Italia.

Possiamo rallegrarci per il fatto che, sulle cose che più contano, prevalga, nel nostro Paese, una interpretazione condivisa? Sì e no. Perché, in realtà, si tratta di una concezione, condivisa sì ma anche monca, dell’interesse nazionale: ciò che per lo più manca, e questa mancanza ci ha spesso fatto sbandare, è una generale consapevolezza delle interdipendenze, e delle interferenze, fra le esigenze economiche e quelle della sicurezza. Tolte le burocrazie specializzate (diplomazia, servizi di informazione) che dell’esistenza di quelle interdipendenze sono ovviamente consapevoli, la classe politica e l’opinione pubblica ne sembrano all’oscuro. Tradotto, significa che gli italiani hanno l’aria, in molte circostanze, di essere più preoccupati delle conseguenze economiche delle crisi che delle loro implicazioni geopolitiche e di sicurezza. A meno che, si tratti di Stato islamico o dell’attuale situazione libica, la questione della sicurezza non sia ormai deflagrata. Solo allora ci si avvede del problema.

Da dove viene questa scarsa consapevolezza? Perché, ad esempio (ma è solo un esempio), della crisi ucraina tendiamo a vedere soprattutto i danni economici che ci provoca? Probabilmente, la ragione sta nell’assenza di una adeguata «cultura della difesa» (consapevolezza e conoscenza dei suoi problemi) e questa carenza, a sua volta, tende a svalutare, nelle classi dirigenti e nell’opinione pubblica, l’importanza della sicurezza e della sua connessione con le altre questioni. Fra le cause ci sono sicuramente i postumi, che continuano a pesare dopo più di sessanta anni, della sconfitta nella Seconda guerra mondiale nonché l’influenza sulle culture politiche nazionali - anche (o soprattutto?) su quelle non cattoliche - di un pacifismo cristiano mal digerito, spesso frainteso.

A difesa dell’Italia bisogna però dire che essa è sottoposta a pressioni contrapposte, a logoranti ricatti incrociati.

A causa dei suoi problemi interni, ad esempio, è costretta a subire i diktat tedeschi su varie questioni nella speranza di poter strappare alla Merkel qualche aiuto o concessione. Ancora, a causa del suo bisogno del gas russo - che continuerà a pesare tanto finché non sarà possibile, se sarà possibile, una maggiore diversificazione delle fonti energetiche - l’Italia è costretta a trascurare certe dimensioni, pur vitali, del rapporto con la Russia, attinenti alla sicurezza europea o alla politica russa in Medio Oriente.

Anche perché non adusa a ragionare con continuità e lucidità sulle questioni della difesa e della sicurezza l’Italia, inoltre, sembra incapace di rendersi conto di quanto pesi oggi negativamente sulla sua politica estera l’assenza di una leadership americana (o la svogliatezza con cui Obama la esercita). Né quanto ciò contribuisca a compromettere la sicurezza europea. Sarebbe interessante ascoltare gli argomenti (raramente se ne sono sentiti di plausibili) che gli antiamericani europei, e italiani in particolare, hanno da opporre alla seguente affermazione: essendo manifestamente escluso che l’Europa sia in grado di difendersi da sola (non ne ha le risorse morali prima ancora che materiali), per esempio dalle minacce connesse alla situazione mediorientale, solo una stretta cooperazione fra europei e americani - si tratti di Stato islamico o di Libia - può assicurarle un po’ di sicurezza. L’Italia dovrebbe discuterne apertamente, smetterla di nascondere il problema sotto il tappeto. Per conferire alla politica estera più chiarezza e coerenza. E per dare alle classi dirigenti e all’opinione pubblica una visione più articolata e completa dei nostri (complicati) interessi nazionali.

21 ottobre 2014 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_ottobre_21/italia-si-scopre-troppo-filorussa-dc39531e-58e4-11e4-aac9-759f094570d5.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Parigi, Londra e i nostri interessi Gli alleati improbabili
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2014, 12:00:26 pm
Parigi, Londra e i nostri interessi
Gli alleati improbabili

Di Angelo Panebianco

Matteo Renzi ha fatto la voce grossa con Bruxelles e, salvo sorprese, ha vinto. La Commissione - la nuova, quella di Juncker, che sta per insediarsi - accetterà nella sostanza le correzioni italiane alla nostra legge di Stabilità. Se Renzi ha vinto lo deve non solo alla qualità della manovra ma anche al fatto che aveva l’esplicito sostegno del presidente della Repubblica e del governatore della Banca d’Italia e quello implicito della Banca centrale europea. E al fatto che l’Unione ha accumulato troppe criticità per potersi permettere un conflitto con un Paese-membro dell’importanza dell’Italia. Il socio di maggioranza, la Merkel, lo ha compreso.

Bene per l’Italia, possiamo dire, ma possiamo anche aggiungere che ciò migliora lo stato di salute dell’Unione? Non sembra. Soprattutto perché questa vicenda conferma ciò che si sapeva, ossia che è possibile una correzione al margine, politicamente contrattata, ma non lo è una svolta significativa nella politica dell’Unione. Il che rende difficile riassorbire quel malessere così diffuso in Europa che da tempo ne sta corrodendo le istituzioni.

Una svolta richiederebbe nuove alleanze, soprattutto quell’intesa stretta fra Francia e Italia in grado, sulla carta, di funzionare da contrappeso rispetto alla forza tedesca: un’alleanza che Renzi ha inseguito fin dal suo arrivo a Palazzo Chigi. Come abbiamo constatato, quell’alleanza non si è realizzata e forse non si realizzerà mai. Per l’indisponibilità della Francia. Essa preferisce trattare sottobanco con la Germania piuttosto che capitanare un’alleanza volta a riequilibrare il peso tedesco. Possiamo anche ritenere che la scelta del presidente Hollande non sia lungimirante: che cos’altro potrebbe bloccare il dilagante nazionalismo antieuropeo di Marine Le Pen se non un’inedita capacità francese, di intesa con l’Italia e altri, di imporre cambiamenti nella politica dell’Unione? Resta che quella scelta non è stata fatta dalla Francia e il governo italiano è costretto a prenderne atto.

Se non una intesa, per lo meno una convergenza occasionale l’Italia l’ha comunque realizzata ma con la Gran Bretagna: per la comune opposizione alla richiesta di Bruxelles di maggiori contributi al bilancio comunitario. Si tratta però di un’intesa fragile, soprattutto perché la Gran Bretagna ha un piede ancora nell’Unione e un altro già fuori. Il partito indipendentista (antieuropeo) è in crescita di consensi, l’antieuropeismo è ormai molto diffuso. Se ci sarà nel 2017 il referendum promesso da Cameron, pochi scommetteranno sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione. Per inciso, checché ne pensino coloro che sarebbero contenti di vederla andare via, la defezione britannica darebbe forse il colpo di grazia all’Unione: nessuno vedrebbe più ostacoli che possano impedire il definitivo compimento di un’Europa a misura della Germania, e ci sarebbe probabilmente una crisi di rigetto, una reazione antitedesca ancora più forte di quella oggi in atto in una parte rilevante dell’elettorato europeo.

Il successo europeo di Renzi e la crisi dell’Europa sono connessi. Si vedono luci e ombre nell’azione del presidente del Consiglio. Le luci: Renzi ha rimodulato il discorso italiano sull’Europa, ha imposto un cambiamento di atteggiamenti e di linguaggio. In Europa chiede rispetto, dichiara di non accettare lezioni, cerca di suscitare l’orgoglio italiano. Non ha l’atteggiamento un po’ remissivo e complessato di certi governanti italiani del passato. Anche se, va ricordato, quegli atteggiamenti remissivi erano il frutto della cattiva coscienza italiana, segno della nostra incapacità di rimediare alle storture del Paese: un Paese che, dopo la nascita dell’eurozona, aveva fatto il furbo, aveva pensato che fosse possibile ottenere vantaggi dalla moneta unica senza pagare il prezzo di un serio risanamento interno.

Dunque Renzi non ha solo cambiato stile, ha anche mostrato di essere pronto al confronto duro: l’episodio della pubblicazione della lettera riservata della Commissione è emblematico. Da giocatore abile quale è si è ancora una volta mostrato pronto a correre rischi calcolati.

Ma ci sono anche le ombre. L’azione di Renzi, nei termini in cui si è sviluppata, sarebbe stata impossibile solo pochi anni fa, quando le istituzioni europee erano assai più forti, autorevoli, legittimate. È perché l’Unione è in crisi, perché nelle opinioni pubbliche circola molta insofferenza verso le sue istituzioni, i suoi uomini e i suoi riti, che oggi è più facile fare la voce grossa e spuntarla. È un segno del cattivo stato di salute dell’Unione. Anche quando la nostra squadra vince resta il sospetto di avere contribuito a segare ancora un po’ il ramo su cui noi europei siamo tutti seduti.

26 ottobre 2014 | 08:29
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_26/gli-alleati-improbabili-033d3580-5ce0-11e4-abb7-a57e9a83d7e3.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Usa, l’anatra zoppa forse ci stupirà
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2014, 05:49:35 pm
Usa, l’anatra zoppa forse ci stupirà

Di Angelo Panebianco

È un luogo comune che gli americani votino per lo più disinteressandosi della politica estera del proprio Paese (tranne quando stanno pagando il conto di qualche guerra in corso) mentre ai non-americani interessano soltanto le conseguenze internazionali di quel voto.

Chiediamoci allora quali effetti avranno sulla politica mondiale e, per conseguenza, anche su noi europei, le elezioni americane di midterm e il completo controllo del Congresso che quelle elezioni hanno consegnato ai repubblicani. Nei prossimi due anni, quanti ne mancano per le Presidenziali, con un presidente ormai debolissimo, la politica estera degli Stati Uniti è destinata ad essere ancora più oscillante e priva di credibilità di quanto sia stata negli ultimi anni? Molti lo pensano, ma non è detto che sia così. Ci sono almeno tre ambiti in cui l’obbligo, per il presidente democratico e per il Congresso repubblicano, di trovare un terreno comune di compromesso e di cooperazione, può avere ricadute positive: i possibili accordi commerciali internazionali, la trattativa sul nucleare con l’Iran, la questione della guerra allo Stato islamico.

Il predominio repubblicano sul Congresso è, innanzitutto, un buon viatico per le trattative a cui Obama (giustamente) tiene tanto relative al Tpp (Trans-Pacific Partnership), l’accordo del libero scambio per l’area del Pacifico, e al Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), l’accordo con l’Europa. I repubblicani sono meno sensibili dei democratici alle sirene del protezionismo economico, sono più favorevoli, per cultura e tradizione, ad accordi di libero scambio. Nello specifico, hanno anche qualche ragione geopolitica da far valere: l’accordo del Pacifico, soprattutto, è anche un modo, dal punto di vista repubblicano, per accerchiare e «contenere» la Cina.

Anche noi europei potremmo essere avvantaggiati: grazie a una maggioranza «nemica» Obama potrebbe ottenere, in materia di accordi commerciali, anche in quello con l’Europa, più sostegno dal Congresso di quanto avrebbe ottenuto senza quella maggioranza.

E veniamo al Medio Oriente, ove la politica di Obama ha mostrato fin qui le maggiori crepe. Si consideri la trattativa sul nucleare con l’Iran. I casi sono due: o fallirà anche perché i repubblicani riterranno insoddisfacenti le concessioni iraniane oppure verrà siglato un eccellente accordo, con serie garanzie dell’Iran sulla sua rinuncia al nucleare militare. Si noti il paradosso (che è poi il paradosso presente in ogni negoziato internazionale): il fatto che il presidente abbia ormai margini di manovra assai ristretti (i repubblicani non gli permetterebbero un accordo qualsivoglia) e il fatto che gli iraniani lo sappiano obbliga questi ultimi, se davvero sono interessati al successo della trattativa, a fare concessioni che forse non avrebbero dovuto fare se Obama non si fosse così indebolito sul piano interno. Di positivo c’è che, con la vittoria congressuale repubblicana, si è ridotto drasticamente lo spazio per bluff e furbizie varie (da una parte e dall’altra) nel negoziato in corso.



La questione del nucleare iraniano si intreccia, naturalmente, con la vicenda della guerra allo Stato islamico. La lettera segreta che Obama ha inviato alla guida suprema iraniana Khamenei, e di cui in questi giorni è stato rivelato il contenuto, nella quale si propone di fatto uno scambio fra accordo sul nucleare e lotta comune contro lo Stato islamico, è una lettera maldestra che riflette la confusione strategica in cui versa da tempo la politica mediorientale di Obama: una alleanza esplicita con l’Iran (e col siriano Assad) contro lo Stato islamico farebbe crescere ancor di più, in tutto il mondo, i simpatizzanti sunniti di quest’ultimo. Solo che quella lettera precede le elezioni americane e oggi non ha più molto valore. Difficilmente, infatti, quella posizione potrebbe essere accettata (almeno ufficialmente) dai repubblicani.

Tuttavia, Obama ha ora l’occasione di assumere una postura molto più decisa e dura nel grande pasticcio mediorientale. E non è forse un caso che subito dopo le elezioni egli abbia deciso di inviare nell’area altri 1.500 soldati, sia pure con compiti solo «di addestramento delle truppe» (per ora). Se scegliesse di alzare ancora di più il tiro contro lo Stato islamico, ma chiarendo anche che ciò non implicherebbe alcuna alleanza di fatto con il dittatore siriano Assad, difficilmente i repubblicani potrebbero contestarlo. Si aggiunga che la probabile candidata democratica alle prossime Presidenziali, l’ex segretario di Stato Hillary Clinton, già critica nei confronti della politica estera di Obama, è sicuramente pronta ad avanzare nuove dure obiezioni, e il presidente ha interesse a prevenirla con azioni internazionali decise. Potrebbe persino accadere che gli europei (e anche gli alleati mediorientali) scoprano fra poco di poter contare di nuovo, in quella partita, sulla leadership degli Stati Uniti.

Il presidenzialismo americano, il cosiddetto «governo diviso», è soggetto a dinamiche più complesse di quelle che gli europei di solito immaginano. Non è detto che un presidente «anatra zoppa», come è oggi Obama, sia necessariamente destinato a un mesto declino senza più storia e gloria. Può anche essere che la bruciante sconfitta delle elezioni di midterm si riveli per il presidente, paradossalmente, una fortuna, rendendolo di fatto più libero di agire sulla scena internazionale (come osservava sul Corriere del 7 novembre Massimo Gaggi). Certamente non tutto, ma molto dipende comunque da lui. Si tratta di capire se Obama ha ancora voglia oppure no di chiudere con qualche successo la storia della sua amministrazione. Se così fosse, le nuove condizioni potrebbero agevolarlo. Una fortuna per lui e forse anche per tutti coloro, europei per primi, la cui sicurezza migliora quando l’America ha successo.

9 novembre 2014 | 08:07
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_09/anatra-zoppa-forse-ci-stupira-a518bf60-67de-11e4-b22b-88ac3d1bfff6.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La crisi che sottovalutiamo Il Califfo a Roma?...
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2014, 11:54:57 am
La crisi che sottovalutiamo
Il Califfo a Roma? Non è uno scherzo


Di Angelo Panebianco

Sembra che una gran parte, forse la parte maggioritaria, dell’Italia pubblica soffra di un blocco cognitivo. Pare incapace di prendere atto dei radicali, irreversibili, cambiamenti intervenuti in Europa e in Medio Oriente, ha l’aria di non rendersi conto che violenza e crescenti rischi di violenza si diffondono intorno a noi, sembra non capire che di fronte alla violenza non si può altro che assumere una posizione intransigente o anche, se la situazione lo esige, fare uso della forza. Un tempo si credeva che la propensione italiana a pensare alla politica internazionale in termini irenici, come a un luogo in cui tutto possa essere risolto con il «dialogo», fosse solo una conseguenza della Seconda guerra mondiale. Le potenze sconfitte, Germania, Giappone, Italia - si disse - sostituirono nel dopoguerra il «commercio» alla «spada», cominciarono a pensare alla politica internazionale molto più in termini di affari che di deterrenza e di minacce armate. E il «dialogo», sicuramente, aiuta gli affari più della deterrenza. Pur facendo parte di alleanze militari quei tre Paesi furono ben lieti di delegare ai soli Stati Uniti il compito di agitare periodicamente il bastone.

Ma forse, nel caso italiano c’è di più. A causa della sua cultura politica sembra che l’Italia, pur con qualche meritoria eccezione, non riesca proprio a fare a meno di agire nell’arena internazionale ispirandosi a una sorta di wishful thinking , un’irresistibile tendenza a scambiare i propri sogni per realtà.

Prendiamo due delle più gravi crisi in atto. In Ucraina, con l’annessione russa della Crimea e l’azione tuttora in corso dei militari russi a sostegno dei secessionisti delle regioni orientali, i rapporti fra Russia e Occidente sono irreversibilmente (e sottolineo: irreversibilmente) cambiati. Sono cambiati perché non un piccolo Stato (una Serbia o una Croazia) ma una grande potenza, la Russia, ha violato la regola su cui si fonda la pace in Europa: nessun mutamento territoriale può avvenire se non in modo consensuale. Chi dice che la Crimea era russa, e che dunque non c’è nulla di male nel fatto che la Russia se la sia ripresa, non coglie il punto. Tra Prima e Seconda guerra mondiale tantissimi Stati europei (Italia compresa) hanno perduto territori che erano appartenuti, magari anche per secoli, a quegli Stati. La pace in Europa c’è perché chi ha perso territori non se li va a riprendere con la forza. La Russia, una grande potenza che avrebbe dovuto contribuire, insieme alle altre grandi potenze, a mantenere la pace e l’ordine, ha violato quella regola. Pensare che questo non muti irreversibilmente i rapporti in Europa è segno di cecità politica. E difatti le relazioni fra mondo occidentale e Russia sono sempre più conflittuali, come si è dimostrato anche in occasione del G20 appena concluso. Ma l’Italia fa eccezione, ha scelto di mantenere aperto in ogni modo il «dialogo» con Putin, dando l’impressione di ignorare il cambiamento avvenuto (come hanno ben documentato Massimo Gaggi e Marco Galluzzo sul Corriere di ieri), di ignorare soprattutto il riposizionamento strategico della Russia per la quale, ora, gli occidentali sono di nuovo potenziali nemici. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, nella sua intervista al Corriere , dice che occorre garantire sia l’autonomia ucraina che il ruolo della Russia.

Gentiloni è un politico solido e competente (e pensiamo sia un bene che guidi la Farnesina in un momento così delicato) ma nel caso ucraino la sua ricetta, sfortunatamente, appare un po’ astratta e fuori tempo massimo.

Più in generale, sembra che in questa crisi la classe politica italiana (Renzi e il suo governo, Berlusconi) sia in Europa la più restia di tutte a prendere atto del fatto che, in politica internazionale, non contano solo gli affari.

E veniamo al caso per noi più inquietante di tutti, quello dello Stato islamico. Ormai continuamente il Califfo ripete che prima o poi arriverà a conquistare Roma, e il fotomontaggio di una Roma in cui sventolano le bandiere nere dello Stato islamico circola da mesi in Rete. Chi fa spallucce, chi pensa che si tratti solo di una sbruffonata, ha capito ben poco. Mai come in questo caso è lecito dire che l’ignoranza uccide. Già, perché il Califfo non sta facendo una sbruffonata a caso: sta citando, nientemeno, il Profeta, sta citando il detto attribuito a Maometto secondo cui arriverà un giorno in cui Roma, il centro della cristianità occidentale, cadrà in mani islamiche. Tanti musulmani, di tendenze pacifiche, hanno sempre pensato a quella profezia proiettandola in un futuro lontano e indefinito. Invece, lo Stato islamico sta dicendo ai musulmani di tutto il mondo che il momento di prendere Roma si avvicina e che questo verrà fatto con le armi. Diciamo che fischiettare o fare spallucce di fronte a una dichiarazione di guerra non sono gesti appropriati.

L’Italia pubblica è per lo più in preda al wishful thinking ma ci sono, fortunatamente, delle eccezioni. A cominciare dal presidente della Repubblica. Il suo discorso del 4 novembre sui pericoli che stiamo correndo richiedeva una discussione meditata, non solo applausi di circostanza.

E ha ragione il ministro della Difesa Roberta Pinotti quando, proprio appellandosi alle cose dette da Napolitano, invita la classe politica a non trattare le forze armate come se fossero un qualunque settore di spesa pubblica improduttiva: da sottoporre a tagli anche a costo di indebolirne le capacità operative. Le nuove minacce, dallo Stato islamico al caos libico (minacce, peraltro, strettamente connesse) richiedono che non si facciano scelte miopi e autolesioniste in un così delicato settore.

C’è uno scollamento preoccupante fra la realtà e le «narrazioni» pubbliche su di essa. Ridurre il divario fra il mondo come è e la nostra rappresentazione del mondo è essenziale per la nostra sicurezza.

17 novembre 2014 | 06:58
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_17/califfo-roma-non-scherzo-272412bc-6e1e-11e4-8e96-e05d8d48a732.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Segnali a Pd e FI Il voto di chi non vota
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2014, 04:32:56 pm
Segnali a Pd e FI
Il voto di chi non vota

Di Angelo Panebianco

Come era prevedibile, colpisce il picco raggiunto dall’astensionismo nelle elezioni regionali dell’Emilia-Romagna. Date le caratteristiche politiche e culturali che le vengono da sempre attribuite, una affluenza del 37,7 per cento (contro il 68 delle precedenti Regionali) fa effetto. Anche se, bisogna dire, quella valanga di astenuti non ha sorpreso chi vive in quella regione e, nelle settimane precedenti al voto, ha avuto modo di fiutare il vento.

Emilia tu quoque? Persino l’Emilia-Romagna si è laicizzata fino a questo punto? Persino nella terra in cui più tenacemente resisteva il voto di appartenenza («giusto o sbagliato è il mio partito» e lo voterò sempre e comunque), tanti cittadini si sono improvvisamente svegliati da un lungo sonno pensando: «Io sono solo mio. Non ti appartengo più, voto solo se mi pare e quando mi pare»?

Le cose sono più complicate di quanto appaiano a un primo sguardo. Una parte ancora rilevante di voto di appartenenza, resiste, nonostante tutto, in Emilia-Romagna e ha giocato, questa volta, sia a favore sia contro il voto. Sono andati a votare, e a votare democratico, per pura disciplina di partito, anche tanti che forse non apprezzavano troppo Stefano Bonaccini, il candidato (vittorioso) del Partito democratico alla presidenza della Regione. Ma, per contro, non sono andati a votare, plausibilmente, molti che, pur continuando ad «appartenere», hanno accolto l’appello della Cgil contro il premier Renzi e la sua politica del lavoro. Al netto di tutto ciò bisogna dire che un processo di laicizzazione c’è comunque stato. Se si fanno brutte campagne elettorali, se si schierano candidati che, a torto o a ragione, i cittadini non giudicano adeguati, se non si riesce a scrollarsi di dosso, almeno in parte, il peso delle inchieste giudiziarie per il cattivo uso dei fondi pubblici (e c’è un solo modo per riuscirci: gettare nella campagna elettorale candidati brillanti, idee nuove e progetti originali), allora anche in Emilia-Romagna se ne paga il prezzo. È ciò che qui si intende per «laicizzazione». Ciò significa che, di volta in volta, è la natura contingente dell’offerta politica ad attirare o a respingere gli elettori. E nulla può essere più dato per scontato.

Questo voto influenzerà la politica nazionale? Sì, entro certi limiti. È plausibile che la parte del partito che osteggia Renzi e che ha forti ramificazioni in Emilia-Romagna, non si sia affatto mobilitata per portare al voto gli elettori e, semmai, abbia attivamente favorito l’astensione nel tradizionale elettorato di sinistra. La sinistra pd, antirenziana, ha già cominciato a usare contro Renzi l’astensionismo regionale, a citarlo come prova dei guasti che la politica del premier starebbe provocando nel rapporto fra il Pd e i suoi elettori tradizionali.

Anche a destra questo voto regionale avrà conseguenze, forse ancor più forti che a sinistra. Il successo della Lega di Salvini in Emilia-Romagna (il 19 per cento dei voti) e l’umiliazione di Forza Italia (diventata quasi irrilevante: quarto partito in Regione, con solo l’otto per cento) avranno alcune conseguenze. Accentueranno ulteriormente le divisioni interne indebolendo ancor di più la capacità di Berlusconi di controllare il partito.

Non si possono però oscurare le altre - e forse più importanti - ragioni del voto e del non-voto. Non si può dimenticare, in primo luogo, che fra gli elettori (ma di tutta Italia) è ormai cresciuta moltissimo l’insofferenza per l’istituto regionale: se la sorte delle Regioni venisse affidata a un referendum, è probabile che la maggioranza ne proporrebbe l’abolizione. È inevitabile che ciò favorisca l’astensione.

Ci sono poi state, a gonfiare il non-voto, le tante ragioni locali: l’insoddisfazione per i profili di molti candidati e per l’assenza di idee nuove. E le diffuse valutazioni negative sulle performance delle amministrazioni locali.

Più che la massiccia (e prevista) astensione, dovrebbe soprattutto sorprendere un’altra cosa: la tenuta, nonostante tutto, del Partito democratico emiliano-romagnolo. Magari è sbagliata ma è una convinzione largamente diffusa che, complessivamente, la sua classe dirigente, per qualità, sia oggi l’ombra della classe dirigente di un tempo. A meno che il Pd non riesca a porci un serio rimedio, prima o poi quella diffusa convinzione potrebbe metterne a rischio il tradizionale primato regionale.

25 novembre 2014 | 07:15
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_25/voto-chi-non-vota-318fcbae-746a-11e4-ab92-90fe0200e999.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le incognite del dopo Napolitano
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2014, 04:51:49 pm
Le incognite del dopo Napolitano
Scelta casuale di un presidente

di Angelo Panebianco

Con l’intervista di Silvio Berlusconi a Francesco Verderami apparsa ieri sul Corriere, l’agenda politica italiana è cambiata: si è aperta ufficialmente la campagna per il Quirinale. C’è la possibilità che le riforme (legge elettorale, riforma del Senato) vengano congelate in attesa che quella vicenda si concluda. Non sappiamo come reagirà il presidente Napolitano alla mossa di Berlusconi né se ciò influenzerà, e come, le sue decisioni. Sappiamo però che, per certi versi, è un bene che la campagna per il Quirinale sia di colpo diventata aperta e ufficiale. Per troppo tempo, troppi mesi, la politica romana se ne è occupata di continuo ma in modo nascosto, clandestino.

Il Paese, in questa partita, corre gravi rischi. C’è la possibilità che, intorno a quella che è di gran lunga la scelta più importante per il futuro a breve e medio termine della Repubblica, si scatenino gli umori peggiori che circolano entro la classe politica, i tanti rancori e i tanti desideri di rivincita, gli istinti più bassi. Tutti quelli che hanno conti da regolare cercheranno di usare questo cruciale appuntamento per consumare le proprie vendette e indebolire i propri avversari. Con il rischio che, alla fine, esca fuori un presidente selezionato dal caso, anziché scelto con ponderazione e intelligenza, un presidente privo delle qualità - che non si possono improvvisare - necessarie al ruolo. C’è la seria possibilità che si assista (ma in una partita molto più importante) alla riproposizione di quanto è accaduto in Parlamento in occasione dell’elezione dei giudici della Corte costituzionale: continue manovre volte a bruciare i candidati, con lo scopo di impallinarne gli sponsor politici, senza alcun riguardo per la posta istituzionale in gioco. Soprattutto, potrebbe andare in scena una replica, addirittura peggiorata, della brutta vicenda di due anni fa, quando, a causa dell’incapacità dei partiti di gestire quell’appuntamento, l’allora presidente uscente, Giorgio Napolitano, fu costretto dalle circostanze, e dalla richiesta dei partiti, a rimanere al Quirinale.

Tre fattori, combinandosi, fanno dell’elezione del presidente della Repubblica una specie di roulette russa in cui è molto più facile bruciare, uno dopo l’altro, i candidati di prestigio piuttosto che ottenere il risultato, ossia «fare» un presidente: un’elezione a scrutinio segreto (di per sé utilizzabile, e da sempre utilizzata, per imboscate e sgambetti) va a combinarsi con una divisione «tripolare» del Parlamento - sinistra/destra/Cinquestelle - e, soprattutto, con le forti divisioni interne al Pd e a Forza Italia . Papa Francesco si inchina a Istanbul a Bartolomeo, primus inter pares tra i Patriarchi ortodossi. Dalla visita di Paolo VI nel 1967, il passaggio a Costantinopoli è quasi una parte del «rito» d’apertura del pontificato. Francesco ha però già visto Bartolomeo tre volte: tra i due (che parlano italiano tra loro) è nata una vera amicizia. È la nota con cui Bergoglio innerva i rapporti ecumenici che rischiano invece lo scivolamento nel rito diplomatico. Sarà anche amicale l’incontro con il Patriarca armeno ammalato che probabilmente il Papa farà oggi.

La visita a Istanbul viene in un momento importante per Francesco e per Bartolomeo. Quest’ultimo sta esercitando un ruolo strategico nell’Ortodossia. Nel 2016 si terrà a Istanbul il grande Concilio panortodosso, presieduto da lui e con la presenza di tutte le Chiese. È dal 1961 che lo si prepara: realizzarlo ora è un successo del Patriarca, la cui leadership si è molto rafforzata nel mondo ortodosso. La visita in Turchia segna la maturità del pontificato di Bergoglio. Resta solida, nonostante il tempo, l’alleanza con il popolo che lo segue più di come faceva con i predecessori. Sullo scenario mondiale, il Papa ha espresso un solido discorso sull’Europa tra le periferie del continente e il centro (Lampedusa, l’Albania e Strasburgo). Si qualifica ormai come un leader spirituale europeo con una proposta in un’Europa vuota di pensiero universale. Il Financial Times di ieri ha scritto che il Papa ha dato parole al malessere dei politici europei.

All’interno della Chiesa, i critici sottolineano che il Papa cerca di «piacere» troppo, dando l’impressione di un messaggio cristiano «allargabile». Un vecchio cardinale commentava: «Il nuovo Papa ha riempito le piazze e le chiese, ha svolto la sua funzione... ora ha finito». Se non prende nuove decisioni, qualcuno prevede un calo di popolarità, come per Paolo VI che, con la Humanae Vitae , deluse le attese. Ma era un’altra storia: ci fu l’impatto con il ‘68. Invece il passaggio del Sinodo sulla famiglia è stato delicato ma importante. Chi incontra il Papa lo trova sereno. Non ha convocato due Sinodi sulla famiglia per ribadire l’esistente. Ha voluto la libera discussione nei lavori sinodali (un inedito). Più si è trasparenti (con la pubblicazione della relazione finale e dei voti) e più il «popolo» vede: il popolo che ama Francesco. Anche se la relazione finale del Sinodo non ha avuto la maggioranza dei due terzi su punti importanti, un successo del Papa c’è stato: non si parlerà più come prima sulla famiglia.

Il discorso di Francesco alla fine del Sinodo è stato vibrante: nella Chiesa - ha detto - non si ragiona con la bipartizione tra progressisti e conservatori. Ha anche ricordato che lui è il Papa (lo fa raramente). Francesco è uomo di sintesi, un vescovo latino-americano della generazione che ha superato la spaccatura sulla teologia della liberazione (come il cardinale Maradiaga). La sintesi non è immobilismo, ma proiezione ad extra che mette in crisi conservatori e progressisti.

È stato eletto per uscire dal chiuso della crisi che spaventava i cardinali nel marzo 2013. È consapevole del problema di vita o di morte del Cristianesimo in tante parti del mondo. Bisogna uscire e riproporre il Vangelo.

Esiste però un gruppo di vescovi e cardinali critici sull’agire del Papa. Francesco non fa l’unanimità. Nemmeno Giovanni Paolo II la faceva (per esempio tra i vescovi italiani degli anni Ottanta). Francesco, rispettoso e non fazioso, ha cambiato poche persone in Curia: i titolari del clero e della Segnatura apostolica, oltre che il Segretario di Stato (ha nominato un solido diplomatico, Parolin, e un nunzio pastorale, Stella).

Un problema oggi è il «governo» del Papa, dove la sintonia con lui non sembra forte. È una situazione simile a quella di Giovanni XXIII, che ebbe contro il cardinale Ottaviani del Sant’Uffizio e altri. Roncalli imboccò la via del Concilio. Papa Montini tolse il partito romano dal governo. Per quattro anni, guidò una forte commissione che riformò totalmente la Curia. Riforme s’impongono anche oggi. Ma, oltre alla costituzione dell’importante Segreteria per l’economia, ci si limiterà a accorpare qualche dicastero, come si fa alla nascita del governo in Italia? I cambiamenti devono riguardare soprattutto aria nuova, meno clericale, nello stile di governo, visioni e nuovo personale. Francesco crede nel valore di avviare processi, non nel controllare gli spazi. I successi della Chiesa avvengono quando si mettono in moto processi, cioè non si sta fermi. Per lui il tempo è superiore allo spazio. Il tempo gli darà ragione?

30 novembre 2014 | 09:13
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_30/scelta-casuale-un-presidente-7f6e5bb8-785e-11e4-9707-4e704182e518.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L’Europa e Putin La matita rossa di Juncker
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2014, 07:00:25 am
L’Europa e Putin
La matita rossa di Juncker

Di Angelo Panebianco

È accaduto sovente che alla vigilia di grandi svolte storiche, e anche di tragedie, la scena fosse occupata da figure incolori, inadeguate, molto al di sotto dell’altezza e dello spessore, politico, morale, culturale, che sarebbero stati necessari per affrontare la tempesta in arrivo. Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker sembra una di quelle figure: oggi è un grigio burocrate (già politico di lungo corso la cui attività è risultata assai eccepibile) che bacchetta e ammonisce questo o quel Paese. Apparentemente, sta solo facendo il suo mestiere di presidente della Commissione. Agisce come se vivessimo in tempi normali. Solo che i nostri tempi non sono normali, è come se l’Europa stesse oggi danzando sull’orlo di un burrone. Dietro a Juncker, naturalmente, non c’è il vuoto, c’è la dirigenza politica tedesca, uomini e donne per lo più solidi (a casa loro) ma anch’essi, apparentemente, incapaci di affrontare la crisi europea. Tra i principali protagonisti del dramma solo il presidente della Bce Mario Draghi appare consapevole della sua gravità.

Ricordiamo agli immemori quale sia la reale situazione. La Gran Bretagna ha già un piede fuori dalla casa europea e l’insorgenza dell’Ukip, il partito antieuropeista, minaccia di modificare radicalmente fra pochi mesi, nelle elezioni parlamentari, la fisionomia del sistema partitico britannico, un sistema tradizionalmente ultrastabile che affronta forti cambiamenti solo una o due volte per secolo. S e poi la Gran Bretagna, nel giro di un paio d’anni, sotto la pressione dell’Ukip, uscirà dall’Unione, l’impatto sarà fortissimo, il «rompete le righe» risuonerà in tutti i territori europei.

Ma ciò non basta. Quanto accade in Francia è ancor più grave. Con i socialisti ai minimi storici e la destra gollista incapace di intercettare l’insoddisfazione dei francesi, il pieno dei consensi, secondo tutti i sondaggi, lo farà, a meno di imprevisti, il partito ultranazionalista, il Fronte Nazionale di Marine Le Pen. E se fosse proprio lei, nel 2017, il prossimo presidente francese? Sarebbe la fine dell’Unione Europea come la conosciamo. I segnali indicano un maremoto in arrivo. All’Unione servirebbe oggi una leadership carismatica. Altro che Juncker. Occorrerebbero, nelle posizioni di vertice, menti creative capaci di proporre innovazioni, allo scopo di cambiare il tanto che non va e che è all’origine dell’ostilità di settori crescenti dell’opinione pubblica europea.

Se l’Unione andrà in rovina - si dice abitualmente - sarà un guaio per tutti gli europei. Nel lungo periodo, probabilmente, è vero. La consapevolezza di ciò, in teoria, dovrebbe bastare a spingere anche i vincitori del momento, i tedeschi, a rifare qualche conto. Basterebbe da parte loro un po’ di «egoismo illuminato», un egoismo che sappia guardare al di là del breve periodo, per convincerli della necessità di non assistere passivamente alla possibile rovina della casa comune. Ma sappiamo anche che l’egoismo tout court , di breve periodo, la vince di solito sull’egoismo illuminato. Né, naturalmente, si può gettare la croce solo sui tedeschi.

Nel lungo periodo, effettivamente, la crisi dell’Unione sarebbe probabilmente pagata da tutti gli europei. Nel breve termine, però, le cose andrebbero diversamente. Non ne risentirebbe più di tanto la Gran Bretagna. La Francia, forse, pagherebbe un conto economico salato, ma la Francia è anche un vero Stato-nazione, con istituzioni solide, in grado di resistere alla bufera. Anche la Germania pagherebbe un prezzo elevato, ma nemmeno le sue istituzioni correrebbero rischi immediati.

La situazione sarebbe assai diversa in altri Paesi, Italia in testa. È proprio perché l’Italia non è un vero Stato-nazione che, per decenni, ha investito simbolicamente, molto più degli altri Stati, nell’integrazione europea. Se l’integrazione verrà meno, l’Italia si troverà immediatamente ad affrontare i propri fantasmi, a fare i conti con la propria fragilità istituzionale.

Come tenere insieme i pezzi? Il problema non tocca naturalmente gli sfasciacarrozze, i vari movimenti antieuro, né in Italia né altrove. Riguarda o dovrebbe riguardare tutti gli altri. Ha creato scandalo la notizia secondo cui la Russia finanzia massicciamente il Fronte Nazionale della Le Pen, ha rapporti con i leghisti italiani (che simpatizzano con Putin) e forse anche con altri movimenti antieuro. Ma non c’è da scandalizzarsi: sono le normali regole della competizione geopolitica.

C’è un rapporto inversamente proporzionale fra l’arroganza militare della Russia e la sua fragilità socio-economica. Gigante dai piedi d’argilla, la Russia ha bisogno che i suoi interlocutori in Europa siano ancor più deboli di lei. Per questo soffia sul fuoco, dà una mano ai movimenti antieuropei. In fondo, avrebbe solo da guadagnare da una irreversibile crisi dell’Unione. Un’Europa ulteriormente indebolita e divisa sarebbe, per i russi, un interlocutore malleabile. Del resto, già oggi circolano, nei vari Paesi europei, forti correnti di simpatia per Putin. In un’Europa a pezzi diventerebbero ancora più forti le voci di coloro che chiedono rapporti sempre più stretti con la Russia.

Basta guardare una carta geografica e constatare la sproporzione territoriale fra la Russia e il resto degli Stati europei (a favore della prima) per comprendere quale, fra le rispettive tradizioni, finirebbe per prevalere sul Continente. Difficilmente, nel lungo periodo, la tradizione liberale dell’Europa occidentale potrebbe cavarsela di fronte alla concorrenza dell’autoritarismo russo.

15 dicembre 2014 | 07:53
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_15/matita-rossa-juncker-4d069c68-8424-11e4-b9cc-80d61e8956c5.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Segare il ramo che ci sostiene Perché facciamo poca ricerca
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2014, 06:10:33 pm
L’EDITORIALE
Segare il ramo che ci sostiene
Perché facciamo poca ricerca

Di Angelo Panebianco

I l futuro non abita più qui? L’Accademia europea per la scienza, che raggruppa una parte ampia degli scienziati europei, ha inviato qualche settimana fa una lettera aperta al Parlamento e alla Commissione europea. Gli scienziati protestano contro il piano Juncker di investimenti: al fine di recuperare il denaro necessario, sono stati decisi tagli ingentissimi (di oltre un miliardo di euro) a Orizzonte 2020, il fondo europeo per la scienza. In una situazione, per giunta, in cui la spesa europea per la ricerca scientifica è già oggi di quasi un punto in percentuale al di sotto di quella degli Stati Uniti. La solita protesta corporativa contro i tagli? Non proprio, se si considera che mentre si colpisce la ricerca scientifica non si tocca la Pac, il baraccone protezionista della politica agricola europea. La protesta dell’Accademia contro i tagli Ue alla ricerca segue di poco, peraltro, l’allarme lanciato da diversi scienziati europei contro le prevalenti politiche nazionali: politiche che ormai penalizzano gravemente la ricerca di base (la vera fonte delle nuove conoscenze) a vantaggio della ricerca applicata, la quale sola è passibile di impieghi economici immediati.

Molti forse pensano che questi problemi riguardino solo gli addetti ai lavori e che, per giunta, in un’epoca di recessione economica, non ci si possa permettere il lusso di dedicare fondi rilevanti alla ricerca scientifica. Ma le cose sono più complicate. Perché i tagli alla ricerca, diventando strutturali, e quindi permanenti, finiscono per favorire la decadenza economica di un Paese, o anche di un Continente. Si rischia di non accorgersene a causa dell’inevitabile sfasatura temporale: recuperare soldi dalla ricerca per contrastare la recessione economica qui e ora è una tentazione irresistibile dal momento che gli effetti negativi di quei tagli si potranno sentire solo nel lungo termine (quando, per giunta, gli autori dei tagli non saranno più lì, nelle posizioni che oggi occupano, per risponderne politicamente).

La «ricchezza delle nazioni», il benessere collettivo, dipende da una pluralità di circostanze favorevoli, ma le due in assoluto più importanti sono sicuramente l’esistenza di condizioni di libertà personale e, appunto, lo sviluppo scientifico. Eliminate l’una o l’altra condizione e, alla fine, il benessere svanirà.

Si aggiunga che la frenata europea alla ricerca si somma a trasformazioni culturali che stanno anch’esse, da tempo, ispirando politiche sfavorevoli allo sviluppo e che sono influenzate da teorie di assai dubbia qualità: dai forti tagli alle emissioni di anidride carbonica (criticati recentemente dal Nobel Carlo Rubbia) all’eccesso di vincoli in materia di Ogm. Come ha osservato l’ Economist , in Europa stiamo pagando le conseguenze del pervertimento del cosiddetto «principio di precauzione»: da invito a esigere seri controlli e sperimentazioni si è trasformato in un puro e semplice divieto di qualunque innovazione. In sostanza, ci sono abbondanti segnali secondo cui l’Europa ha ridotto la sua disponibilità ad investire sul proprio futuro. Se non vogliamo limitarci a una invettiva moralistica dobbiamo chiederci perché questo accada.

Una spiegazione purtroppo c’è. Investire nella scienza e scommettere sull’innovazione implicano la disponibilità e la volontà di pensare il futuro. Ma a pensare il futuro sono, per lo più, le società giovani, demograficamente vitali, non quelle invecchiate e stagnanti. Il declino della ricerca va associato al declino demografico dell’Europa. Il suo Paese leader, la Germania, ha un indice di natalità fra i più bassi. Va peggio della Spagna e dell’Italia. Se la cavano meglio Francia, Olanda, Svezia, Gran Bretagna, Irlanda. Ma non al punto da compensare il declino demografico degli altri Paesi. E la gran parte delle nascite è oggi dovuta all’immigrazione. Le società che invecchiano, naturalmente, vogliono che i soldi pubblici vadano in previdenza e assistenza, non in istruzione e ricerca. In tutto ciò non c’è nulla di strano: la bassa natalità dell’Europa è figlia di un benessere che è qui con noi da molto tempo. È la trappola in cui rischia di cadere chi ha avuto a lungo successo. Un alto sviluppo economico può portare al declino demografico, all’invecchiamento e a trasformazioni sociali e culturali (in primis il rifiuto dell’innovazione) che alla lunga favoriscono il declino economico. Detto in altri termini: seghiamo il ramo su cui siamo seduti.

Non c’è però nulla di predeterminato in questi processi. Benché anche in America le conseguenze del benessere si siano riflesse sui tassi di natalità (ma la situazione non è altrettanto grave che in Europa o in Giappone), ciò non ha ridotto la spinta ad investire in scienza, ricerca, innovazione. L’America è oggi appannata, dà talora l’impressione di essere un pugile suonato, ma forse il suo tanto discusso declino è solo un fatto congiunturale: essa conserva, pressoché intatte, le risorse culturali e morali che potranno garantirne ancora a lungo ricchezza e potenza. È dubbio che ciò si possa dire dell’Europa.

21 dicembre 2014 | 09:08
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_21/segare-ramo-che-ci-sostiene-16c0efde-88e1-11e4-87e1-ec26c60de2cb.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Noi e Putin Il ritorno a giochi antichi
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2015, 10:20:13 am
Noi e Putin
Il ritorno a giochi antichi

Di Angelo Panebianco

Putin ha varato la nuova dottrina militare della Federazione russa in sostituzione della precedente, del 2010. Già allora veniva contestata l’architettura della sicurezza globale in polemica con gli Stati Uniti. Ora, con la crisi ucraina, ciò che era implicito o più sfumato è diventato esplicito. La Nato è il nemico. E gli Stati Uniti sono una minaccia incombente grazie al Prompt Global Strike, il programma americano di difesa che prevede contrattacchi fulminei, e allo scudo antimissili in Europa. Putin fa sul serio. Si è ricostituita una permanente rivalità politico-militare.

La nuova dottrina rispecchia i sentimenti russi: senso di accerchiamento, orgoglio nazionalista, volontà egemonica. Chi spera di tornare ai tempi del vertice di Pratica di Mare (anno 2002), ai rapporti di amicizia fra russi, americani ed europei, sbaglia.

L’imperialismo russo torna ad essere una minaccia per le Cancellerie occidentali proprio come lo fu, nell’Ottocento, dopo il logoramento del Concerto europeo (l’intesa fra le grandi potenze che seguì alla sconfitta di Napoleone). In Ucraina la guerra continua. È detta di «bassa intensità» e ha già fatto migliaia di morti. Quando il sangue scorre nulla può tornare come prima. È nel giusto chi dice che sull’Ucraina bisogna arrivare a un compromesso (che, tuttavia, non farebbe venir meno il gelo russo-occidentale). Le ragioni sono tre. La prima è che in Ucraina l’Occidente non può vincere. La seconda è che non si può lasciare aperta una ferita sanguinante che minaccia di sfuggire al controllo.

Quando Putin dice che potrebbe prendersi Kiev in due settimane dice il vero. Ma non dice che in tal modo ci porterebbe sulla soglia di una guerra nucleare. La terza ragione è che, con la ferita ucraina sempre aperta, la Russia è spinta fra le braccia della Cina e offrire un tale vantaggio ai cinesi non è saggio.

Serve un compromesso che dia garanzie di autonomia ai russofili dell’Ucraina dell’Est, ma anche garanzie di legami con l’Occidente alla maggioranza ucraina. Nessun compromesso può reggere se calpesta le aspirazioni delle persone. Perché ci si arrivi occorre che gli occidentali sappiano usare fermezza. Senza di che, Putin può pensare di ottenere comunque ciò che vuole.

Ma gli europei sono divisi. Da un lato, c’è la Gran Bretagna, con gli scandinavi, i baltici e gli altri Paesi ex comunisti che invocano la linea dura. È vero che la Gran Bretagna è allineata agli Stati Uniti, ma sta anche giocando un ruolo che le è congeniale e che ha svolto per secoli: di contrasto alle minacce egemoniche continentali. Ci sono poi, allineati agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, quelli che stavano sotto il tallone sovietico e che odiano e temono i russi. Chi può dar loro torto?

Al polo opposto, rispetto al partito della fermezza, troviamo l’Italia, la più morbida con Putin. Non sarà l’antico «Franza o Spagna» ma un po’ vi somiglia: le sanzioni ci danneggiano, dobbiamo accordarci ad ogni costo, e tanti saluti alla Crimea e al resto. In mezzo, con diverse sfumature, stanno i restanti Paesi europei. Ma se si vuole un buon compromesso sull’Ucraina, la compattezza è d’obbligo. In una prospettiva più ampia, non dovrebbe sfuggire che siamo ora tutti impegnati in un antico gioco, che ha per posta l’egemonia sull’Europa. Gli europei non si unificheranno politicamente molto presto (se mai lo faranno). Il che significa che anche in futuro avranno bisogno, per la loro sicurezza, di un Lord protettore.

Ci sono forti correnti di simpatia per Putin in Europa, ci sono europei che troverebbero accettabile sostituire la Russia agli Stati Uniti nel ruolo di Lord protettore. Era ciò che volevano anche i filorussi occidentali ai tempi dell’Urss. Si pensi all’ultimo grande braccio di ferro (anni Ottanta): sulla questione dei missili Cruise e Pershing che gli occidentali decisero di schierare per riequilibrare i missili sovietici. C’era il rischio di un possibile decoupling (il distacco dagli Stati Uniti) e della «finlandizzazione» dell’Europa. Ciò che appunto volevano coloro che riempivano piazze e strade europee contro gli euromissili. I filorussi di oggi non hanno le motivazioni ideologiche di un tempo (se ne trovano a destra come a sinistra) ma mantengono una forza ragguardevole. In forme mutate, decoupling e «finlandizzazione» restano sullo sfondo. Anche se la Russia è economicamente debole, la sua forza militare e le sue dimensioni, a fronte di un’Europa disunita, non lasciano dubbi su chi condizionerebbe maggiormente chi, una volta consumato il distacco fra Europa e Stati Uniti.

C’è una relazione che dovrebbe essere evidente (ma non lo è per tutti) fra il ritorno dell’autoritarismo in Russia e il ritorno dell’imperialismo russo. L’autoritarismo di Putin ha risuscitato il nazionalismo (garanzia di continuità e di durata del suo potere) e le tradizionali visioni e ossessioni geopolitiche della Russia zarista e poi sovietica. Vero che ci sono stati errori occidentali (nella vicenda ucraina e non solo), vero che il comportamento di Putin ha anche giustificazioni dovute al fatto che l’Occidente ne ha a lungo sottovalutato le esigenze. Ma, ciò riconosciuto, resta il legame fra l’autoritarismo interno e l’aggressività in Europa. Il gruppo di Gorbaciov fece la rivoluzione alla fine degli anni Ottanta perché, mirando alla democratizzazione dell’Urss, non temeva, a differenza dei predecessori, un attacco americano. Se così non fosse stato, non avrebbe mai accettato l’unificazione tedesca.

Il senso di accerchiamento e la paura di (impossibili) attacchi occidentali a freddo, sono propri delle élite autoritarie russe, non di quelle democratiche. È falso che la Russia sia oggi «fuori dalla storia».
È invece un perfetto prodotto della propria storia.

31 dicembre 2014 | 08:18
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_31/ritorno-giochi-antichi-abcb6ff4-90bc-11e4-a341-1b24c965fa88.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. La scomparsa dell’opposizione
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2015, 05:24:56 pm
La scomparsa dell’opposizione
Di Angelo Panebianco

Contrariamente a quanto talvolta si dice, le leggi elettorali non «producono» direttamente gli esiti politici. È la politica a produrli. Le leggi elettorali, però, creano incentivi e disincentivi, vincoli e opportunità, che facilitano o ostacolano le diverse azioni politiche e, per conseguenza, aumentano o diminuiscono le chance di certi esiti politici. Si può dire che una buona legge elettorale debba accrescere le probabilità che ci sia un vincitore netto, inequivocabile e che, al tempo stesso, debba contribuire a ridurre la frammentazione parlamentare: se l’opposizione risultasse troppo debole e frammentata nessuno potrebbe prenderla in considerazione come possibile vincitrice delle elezioni successive. Confermando di essere il furbissimo politico che sappiamo, Matteo Renzi ha preparato un progetto di riforma (la cui discussione comincia oggi in Aula al Senato) che, se approvata così com’è, renderebbe assai probabile la prima eventualità (la possibilità di un vincitore netto) ma non la seconda (la riduzione della frammentazione e dell’impotenza dell’opposizione).

La legge prescrive una cosa ottima: crea un’autostrada che può portare, grazie al premio di maggioranza, il partito favorito, il più forte del momento, a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi e a governare da solo. La legge, però, prescrive anche una cosa pessima: uno sbarramento solo del 3 per cento per tutti i partiti. Se la legge passerà così, lo scenario più probabile dopo le prossime elezioni sarà il seguente: il Pd ottiene la maggioranza assoluta, l’opposizione risulta invece divisa e frammentata fra un gran numero di partiti piccoli e medi. Il guaio è che questo, plausibilmente, non sarebbe solo lo scenario della prossima legislatura ma di diverse legislature a venire: un governo monocolore (Pd) con di fronte a sé il nulla, ossia un’opposizione vociante e impotente senza nessuna possibilità di costituire una minaccia elettorale seria per l’esecutivo in carica. Si aggiunga che, con la riforma del Senato, quest’ultimo passerebbe sotto il controllo pressoché totale del Pd, data la sua posizione dominante negli enti locali e regionali.

Naturalmente, la politica può sempre mettersi in mezzo e mandare all’aria piani e calcoli ma è evidente che la proposta di legge è stata costruita con le finalità che ho detto. La ragione che rende apprezzabili i sistemi maggioritari con collegi uninominali è che in quei sistemi sono alte sia le probabilità di un vincitore netto che quelle di una spinta alla (ri)composizione dell’opposizione. Con l’attuale proposta, invece, la sorte dell’opposizione appare segnata: verrebbe ad essere costituita in permanenza da tante piccole e medie oligarchie in lotta fra loro, senza alcun progetto che vada al di là della sopravvivenza politica dei singoli oligarchi.

Sia chiaro: una legge va varata a tutti i costi. Altrimenti, ci ritroveremmo a votare con il pessimo sistema elettorale (proporzionale puro) che ci ha regalato, con una invasione di campo, la sentenza della Corte costituzionale. Giunti a questo punto, c’è un solo modo per rimediare, pur mantenendo l’impianto attuale della legge: alzare seriamente la soglia di sbarramento, obbligare i partiti alla riaggregazione. Va aggiunto che l’abbassamento al 3 per cento della soglia di sbarramento non è il solo frutto avvelenato della proposta di legge nella sua formulazione attuale. C’è anche il pasticcio del voto di scambio (ipocritamente denominato voto di preferenza) surrettiziamente reintrodotto, salvo per i capilista. Dato che non si vuole il collegio uninominale non c’è altra strada decente se non quella delle liste bloccate con circoscrizioni piccole. Il voto di scambio (pardon, di preferenza) è invece la soluzione peggiore. Si può fin d’ora immaginare, se davvero il voto di preferenza venisse reintrodotto, quanta agitazione e quanto fervore si registrerebbero improvvisamente in tutte le Procure d’Italia a partire dal giorno successivo alle elezioni.

È evidente che spetta soprattutto a Berlusconi (il partner del patto del Nazareno) decidere se accettare di fare i suddetti regali a Renzi, e ai clientes politici che quest’ultimo vuole accontentare. Le leggi elettorali sono, di solito, vestiti che i vincitori si cuciono addosso e non c’è da scandalizzarsi per questo. Ma, per lo più, i vincitori del momento sono costretti, mentre fanno la legge, a stipulare compromessi, a fare concessioni all’opposizione. A seconda della natura di quegli accordi si avranno leggi migliori o peggiori. I «compromessi» fin qui visti non appaiono fra i migliori.

P.S. Non sarebbe male se si usasse l’occasione della nuova legge anche per mettere un freno a certi nostri cattivi costumi. Sarebbe bene eliminare, ad esempio, il poco glorioso istituto delle «candidature plurime»: i candidati (di solito i leader) che si presentano in più circoscrizioni. Paracaduti di riserva (se il candidato perde in una circoscrizione potrà essere ripescato in un’altra) e specchietti per le allodole (il povero elettore crede di votare il leader ma in realtà sta eleggendo, a sua insaputa, uno sconosciuto), le candidature plurime ci ricordano soprattutto quanto scarso sia il rispetto della classe politica per gli elettori.

7 gennaio 2015 | 08:05
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_07/scomparsa-dell-opposizione-a069fbd0-9634-11e4-9ec2-c9b18eab1a93.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Musulmani integralisti e moderati La guerra in casa che non..
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2015, 10:42:30 pm
Musulmani integralisti e moderati
La guerra in casa che non capiamo


Di Angelo Panebianco

La guerra portata dall’estremismo islamico in Europa non è «asimmetrica» solo in senso militare. Lo è anche in senso culturale. A svantaggio di noi europei e a vantaggio dei jihadisti. Loro ci comprendono, se non altro, conoscono i nostri punti deboli. Noi non li comprendiamo.

Un segno di questa incomprensione è il fatto che tanti europei mostrano di condividere una falsità, ossia che chi uccide in nome di Dio non sia un «vero credente». Dimenticando che gli uomini si sono sempre ammazzati fra loro in omaggio a un Dio o a un pugno di Dei. È vero che gli europei non sono più disposti a farlo. Ma ciò dipende anche dal fatto che sono tanti gli europei che non credono più in Dio: l’Europa è infatti il più secolarizzato continente del mondo. Chi non crede in Dio fatica a capire gli assassini in nome di Dio, gli sembrano marziani, alieni. Sulla durata ed esiti di un conflitto che tutti temiamo lungo e sanguinoso (quante cellule pronte a colpire esistono già in Europa?) inciderà l’andamento delle guerre in atto fra l’estremismo islamico e i suoi nemici - musulmani e occidentali - in tanti scacchieri del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia: eventuali dure sconfitte militari dell’estremismo islamico nei diversi scacchieri potrebbero gradualmente indebolire la sfida jihadista qui in Europa mentre, per contro, i successi militari potrebbero ulteriormente aggravarla. Ma durata ed esiti del conflitto saranno anche influenzati da quanto accadrà dentro le comunità musulmane europee. Si tratta di capire se il finto unanimismo di cui quelle comunità si servono oggi come un paravento verrà messo da parte ed emergeranno le divisioni: fra quelli che potremmo definire i «contaminati» (da noi, dalle nostre libertà) da una parte e gli «incontaminati» (i puri), dall’altra. La condanna generica dei jihadisti di Parigi, il mantra secondo cui essi avrebbero danneggiato prima di tutto l’islam, le posizioni, insomma, su cui si sono ora attestati i rappresentanti delle comunità islamiche europee, nascondono anziché chiarire, tentano di occultare contiguità e continuità culturali. Così facendo, alimentano ancora una volta l’ambiguità e costringono persone accumunate dalla fede musulmana ma con atteggiamenti, presumibilmente, fra loro diversi, sotto una stessa etichetta.

Se crediamo sul serio che l’Occidente, con la separazione fra religione e politica, con i suoi diritti, con l’uguaglianza formale, con le libertà (individuali), rappresenti un modo di vita più attraente di altri per molti uomini che ne sperimentino i benefici, allora dobbiamo credere che diversi musulmani viventi da tempo in Europa abbiano trovato il modo di fare convivere pragmaticamente la loro fede con le libertà occidentali. Nonostante la loro religione non abbia mai fatto i conti con la modernità (come il presidente egiziano Al Sisi ha denunciato nel suo dirompente discorso all’Università di Al Azhar), questi sono i musulmani «contaminati» dal nostro modo di vivere ma che non per questo rinunciano a pregare nella religione dei loro padri. Ma il guaio è che essi devono fare i conti con un’altra parte, numerosa, e anche assai bene finanziata dalle petro-monarchie e da altri regimi musulmani: gli «incontaminati», i portavoce di un islam puro, iper tradizionalista, antioccidentale, nelle varianti (fra loro antagoniste) wahabita e dei Fratelli musulmani. È qui, fra gli «incontaminati», che si trovano i predicatori che alimentano atteggiamenti di rifiuto della cultura occidentale anche quando si accompagnano a un provvisorio rispetto delle nostre leggi. È qui il brodo di coltura da cui emergono anche le frange estreme jihadiste. Sono questi i musulmani che pensano che un giorno in Europa dovrà essere riconosciuto un ruolo pubblico alla sharia , alla legge islamica.

La distinzione contaminati/ incontaminati qui utilizzata non ha nulla a che fare con quella, fasulla, fra islam moderato e immoderato. Chi usa quest’ultima divisione, in realtà, cade nella trappola concettuale in cui vogliono farlo cadere i fondamentalisti. Si finisce infatti, quasi sempre, per chiamare «moderato» un wahabita o un fratello musulmano solo perché prende le distanze dall’azione sanguinaria dei jihadisti del momento. Perdendo così di vista le continuità culturali, la comune lettura iper tradizionalista dei testi sacri.

L’«islamicamente corretto» in cui continuano a indulgere tanti europei non è solo patetico. È pericoloso. Fornisce alibi quando non se ne dovrebbero più fornire. E non aiuta le comunità musulmane a fare esplodere al loro interno il confronto aperto e duro fra le diverse componenti. Se i musulmani che vogliono integrarsi in Europa riuscissero a prevalere sui tradizionalisti anti occidentali, allora, nonostante la cupezza del presente, potremmo pensare con un po’ più di fiducia e di ottimismo al futuro. Se invece continueranno a prevalere i finti unanimismi, le ambiguità, le ipocrisie, i guai potranno soltanto aumentare. E perderemo tutti.

12 gennaio 2015 | 08:31
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_12/guerra-casa-che-non-capiamo-7b6e7dcc-9a1e-11e4-806b-2b4cc98e1f17.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Noi, l’Europa e i riscatti Ostaggi e riscatti: non piegarsi..
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2015, 10:20:24 am
Noi, l’Europa e i riscatti
Ostaggi e riscatti: non piegarsi ai tagliagole

Di Angelo Panebianco

Alle polemiche, più o meno inevitabili, è necessario, prima o poi, fare seguire la riflessione. Altrimenti, si finisce per polemizzare a vuoto. Con la certezza di ricominciare daccapo la volta successiva. Bisogna piegarsi sempre e comunque ai tagliagole e pagare i riscatti salvando così la vita dei rapiti? Oppure farlo significa sì riportare a casa quella singola persona ma anche finanziare nuove imprese criminali e, soprattutto, accrescere le probabilità che altre persone vengano successivamente rapite? Sappiamo che i governi italiani (di destra e di sinistra, senza eccezioni) hanno sempre pagato o almeno lo hanno fatto tutte le volte che hanno potuto. E sappiamo anche che molti altri governi europei fanno la stessa cosa. Solo gli anglosassoni no o, per lo meno, è quanto in genere affermano.

Fino ad oggi, le scelte sono rimaste saldamente nelle mani dei governi nazionali. È quasi inevitabile che un governo, lasciato a se stesso, paghi per salvare la vita dell’ostaggio. Il costo dell’impopolarità sarebbe troppo alto se l’ostaggio venisse ucciso a causa del rifiuto di pagare. Ma è anche un fatto che in questo modo si alimenta l’industria del sequestro, si favoriscono nuovi rapimenti. Per non parlare dei possibili usi terroristici del denaro dei riscatti. Ricordava sul Corriere di ieri Marco Demarco che l’Italia sconfisse i sequestri di malavita, un tempo assai diffusi, ricorrendo al blocco dei beni, impedendo ai familiari di pagare per la vita dei loro cari sequestrati.

Come se ne esce? C’è un solo modo possibile: bisogna usare l’Europa. Fare, per il caso dei sequestri, ciò che i governi europei hanno sempre fatto per tante altre cose. Non posso adottare una certa linea di condotta perché la mia opinione pubblica, il mio Parlamento, eccetera, me lo impedirebbero? Benissimo, faccio adottare quella linea di condotta alle istituzioni europee e ad essa mi adeguo. In seguito, di fronte alle eventuali proteste nazionali, potrò sempre dire «mi spiace, non è colpa mia. Me lo ha imposto l’Europa». È un giochetto che i governi europei hanno praticato per decenni anche in rapporto a cose assai meno importanti. È arrivato il momento di mobilitare l’Europa - che oggi riunisce il Consiglio dei ministri degli Esteri dei 28 Paesi membri - per una faccenda davvero seria. Occorre un’interpretazione creativa dei trattati che porti a uno scatto, a un salto di qualità, in materia di sicurezza. N on c’è solo da accrescere la cooperazione fra le agenzie di intelligence. C’è anche (fra l’altro) da elaborare, e imporre ai governi, una linea dura, e condivisa, in materia di sequestri: non si paga più. E occorre che il messaggio arrivi, forte e chiaro, e soprattutto credibile, agli «addetti» dell’industria del sequestro in Medio Oriente e altrove. Per stroncare finalmente il traffico.

Con gli assalti a Parigi e la minaccia che incombe su tutta Europa siamo entrati in una nuova fase della guerra jihadista iniziata, se proprio si vuole scegliere una data emblematica, l’11 settembre del 2001. Di fronte alla nuova e sempre più grave situazione (almeno per l’Europa) non è più tempo di «fai da te». Ciò non vale solo per i volontari in zone di guerra. Vale pure per i governi nazionali. Anche in materia di sequestri occorre ormai un’azione concordata.

Dopo tanto inutile bla bla sulla necessità di una «Europa politica», ecco che arriva davvero (purtroppo, data la terribile situazione in cui ci troviamo) l’occasione per far fare all’Europa un salto di qualità politico. Almeno se la politica ha a che fare (ed è proprio così) prima di tutto, e soprattutto, con la sicurezza.
Si tratti di caccia alle cellule dormienti, o ai foreign fighters di ritorno, o ai reclutatori e ai propagandisti della guerra santa, si tratti di scambio di informazioni o si tratti, infine, di una linea comune da adottare sui sequestri, è arrivato per l’Unione europea il momento di dimostrare, ai tanti che vorrebbero sbarazzarsene, che essa ci serve anche per la sicurezza. Se è rimasto ancora qualche europeista asserragliato dentro le istituzioni europee farebbe bene a cogliere la palla al balzo.

19 gennaio 2015 | 07:50
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_19/ostaggi-riscatti-greta-vanessa-d62793fa-9fa2-11e4-84eb-449217828c75.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il presidente con un doppio profilo
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2015, 04:59:23 pm
La scelta
Il presidente con un doppio profilo

Di Angelo Panebianco

Secondo il sondaggio pubblicato dal Corriere domenica, gli italiani vogliono come presidente della Repubblica un politico di esperienza. Hanno ragione. Non servono proprio, Dio ce ne scampi, i dilettanti allo sbaraglio, i cosiddetti «candidati della società civile». Dove invece gli italiani hanno ragione solo a metà è quando chiedono un presidente «interventista». Ciò che invece è necessario, forse, è un capo dello Stato a soffietto: del cui settennato gli storici del futuro possano dire che esso ebbe certi caratteri nei primi anni e caratteri esattamente opposti negli ultimi. Un presidente con l’esperienza e l’elasticità necessarie per saper passare dallo stato di quiete allo stato di moto, dall’immobilismo all’attivismo. Occorre insomma un presidente disposto, con tutto il rispetto, a fare da soprammobile per il tempo (forse quattro o cinque anni) in cui Matteo Renzi sarà un forte e incontrastato premier, e che sia però anche capace di esprimere il massimo di interventismo e di leadership nella fase successiva, quella del declino del premier, che inevitabilmente arriverà prima o poi.

Oggi il nostro sistema politico è così congegnato: dispone di uno stuolo assai elevato di «poteri di veto», capaci solo di bloccare l’azione altrui, ma dispone anche di due (e solo due) posizioni di autorità corredate, in linea di principio, di autentico potere propositivo: il primo ministro e il presidente della Repubblica. Anche a prescindere da ciò che dice e non dice la Costituzione. È necessario evitare due situazioni estreme: quelle in cui entrambe le posizioni di autorità siano contemporaneamente rette da leader forti o, all’opposto, da leader deboli. Nel primo caso, i due poteri si bloccherebbero a vicenda provocando la paralisi. Nel secondo caso, la democrazia sarebbe priva di guida. Occorre che se uno dei due poteri è momentaneamente forte, l’altro sia debole. E viceversa. Chi dice che il presidente deve «bilanciare» e «frenare» il primo ministro confonde il sistema politico italiano con quello, completamente diverso, degli Stati Uniti (esso sì fondato sul meccanismo dei checks and balances, dei pesi e contrappesi).

Ci serve un presidente disposto a fare da spalla a Matteo Renzi per il periodo in cui costui resterà un leader forte. Ma anche dotato dell’esperienza necessaria per «subentrare», con energia e saggezza, il giorno in cui la leadership di Renzi comincerà a vacillare.

28 gennaio 2015 | 08:50
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_28/presidente-repubblica-doppio-profilo-4b8a903c-a6b7-11e4-93fc-9b9679dd4aa0.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Mattarella, lo sgarbo e il futuro del patto del Nazareno
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2015, 07:45:55 am
Centrodestra al bivio
Mattarella, lo sgarbo e il futuro del patto del Nazareno

Di Angelo Panebianco

È una domanda, a volte implicita e altre volte esplicita, presente in quasi tutti i commenti sulla brillante operazione con cui Renzi, da campione di tattica quale è, ha portato alla presidenza della Repubblica Sergio Mattarella: e se avesse vinto «troppo»? Se la sua vittoria di oggi si rivelasse un boomerang domani? Il punto, naturalmente, riguarda il futuro della collaborazione fra Renzi e Berlusconi. Certo, è assai probabile che, digerita la sconfitta, fattosi una ragione dello «sgarbo» subito (la politica è il luogo per eccellenza della sopraffazione: il più forte impone la sua volontà e il più debole subisce), Berlusconi sia di nuovo pronto, tra qualche tempo, a puntellare Renzi sulle riforme.

Come è stato osservato da tanti, egli non ha vere alternative. Ma se poi non ci riuscisse? Se, già debole per un insieme di ragioni, fosse ora diventato debolissimo a causa della botta inflittagli dal premier? Un Berlusconi troppo debole non servirebbe nemmeno a Renzi, perché non avrebbe più la capacità di trascinarsi dietro un numero di parlamentari sufficiente per sostenerne la politica. A quel punto Renzi che farebbe? Fin qui ha usato Berlusconi come un machete per colpire i suoi nemici interni di partito e per aprirsi un varco nella boscaglia (parlamentare) attraverso cui far passare le riforme: legge elettorale, Senato, Jobs act, eccetera. Se in futuro questa possibilità, a causa dell’eccessivo indebolimento politico di Berlusconi, non ci fosse più, che ne sarebbe delle sue riforme? I n quel caso, i veri vincitori della partita sulla presidenza della Repubblica risulterebbero essere non i renziani ma i nemici di Renzi, e del patto del Nazareno.
 
Non sappiamo, naturalmente, se quella inferta da Renzi a Berlusconi sia la botta definitiva ma sappiamo che il centrodestra, sulla cui condizione di sbandamento ha scritto lucidamente Pierluigi Battista sul Corriere di ieri, difficilmente potrà bloccare il processo che lo spinge verso la frammentazione, il caos, e l’insignificanza politica. Non è soltanto una questione di leadership: un capo in declino e nessun sostituto in vista. È anche questione di uno spostamento verso Renzi di rilevanti segmenti societari che in passato avevano guardato a Berlusconi. Ci sono sia ai piani alti (le élite economiche) che ai piani bassi (certi settori del ceto medio) una attenzione e una disponibilità a seguire Renzi, a prenderlo in parola, a scommettere sul suo riformismo, che automaticamente toglie spazio al centrodestra, ne riduce drasticamente il serbatoio elettorale. Lo stesso successo (relativo) di Matteo Salvini, su posizioni estremiste, è in realtà una dimostrazione che, a causa dell’affermazione della leadership di Renzi, lo stritolamento elettorale della destra, e la sua ghettizzazione, non sono al momento contrastabili.

La politica, naturalmente, è imprevedibile. Ma è forse possibile scommettere che fin quando non si sarà esaurita (come disse Enrico Berlinguer della Rivoluzione d’Ottobre) la «spinta propulsiva» di Matteo Renzi, non ci sarà spazio per una rinascita del centrodestra. Quella spinta propulsiva un giorno finirà e la parte della società italiana che, culturalmente, non ha nulla in comune con la sinistra, ma che è tuttavia oggi disposta a scommettere su Renzi, gli ritirerà improvvisamente la delega. E si metterà a cercare un nuovo cavallo su cui puntare a destra. Solo a quel punto una destra di governo, ossia una destra in grado di sconfiggere elettoralmente la sinistra, potrà forse rinascere. Verosimilmente, ciò non accadrà molto presto. La spinta propulsiva si esaurirà forse solo fra qualche anno. A meno che, tirando troppo la corda, e per eccesso di fiducia in se stesso, Renzi non si trovi, involontariamente, ad accelerare i tempi.

2 febbraio 2015 | 08:06
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_02/mattarella-sgarbo-futuro-patto-nazareno-b0577e46-aaa2-11e4-87bf-b41fb662438c.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L’opposizione che non c’è Il carro affollato del potere
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:43:45 pm
L’opposizione che non c’è
Il carro affollato del potere

Di Angelo Panebianco
Nelle tribù umane accade esattamente ciò che avviene nelle tribù dei nostri parenti più prossimi, gli scimpanzé. Dopo che un membro del gruppo ha sconfitto i rivali al termine di una dura lotta di potere, diventando il maschio alfa, o dominante, si mette subito in moto un processo di bandwagoning: quasi tutti gli altri membri della tribù saltano sul carro del vincitore, corrono a rendergli omaggio. C’è però un’importante differenza. Fra gli umani, nel bandwagoning è sempre presente una dimensione comica. Perché gli umani sembrano obbligati a negare la vera ragione per cui saltano sul carro del vincitore, ossia il fatto che, come tutti, tengono famiglia. Sono costretti ad inventarsi i più nobili motivi, dichiararsi solennemente interessati solo al bene del Paese: non lo fo per piacer mio, eccetera.

È da quando Renzi è a capo del governo che, in parte per le circostanze e in parte per merito suo, della sua bravura, viviamo in un sistema politico praticamente senza più opposizione. Le più recenti ondate di bandwagoning, e quelle che seguiranno, rafforzano e consolidano questo nuovo carattere della politica italiana. Ciò porta con sé, oltre ad alcuni innegabili vantaggi, anche dei rischi. Rischi che riguardano sia il breve che il medio e lungo termine. I rischi di breve termine hanno a che fare con le politiche del governo. Renzi ha usato Berlusconi finché gli è convenuto per neutralizzare gli ultraconservatori della sua parte politica (la Cgil, la sinistra del Pd). Ma adesso, grazie agli smottamenti parlamentari in atto a suo favore, e a quelli che avverranno prevedibilmente nel prossimo futuro, egli ritiene di non avere più bisogno di quell’alleanza. I numeri parlamentari sembrano dargli ragione. Però non è verosimile che un così radicale mutamento degli equilibri politici non tocchi anche la sostanza dell’azione di governo. Renzi può negarlo quanto vuole ma è un fatto che, in mezzo a tante promesse e chiacchiere (una vera overdose), se qualche riforma è stata comunque fatta, ciò si deve anche all’apporto dei berlusconiani (un sostegno che, come Berlusconi ha appena ribadito, difficilmente ci sarà in futuro).

L’intelligenza di Renzi fu infatti quella di capire subito che non c’era riformismo possibile senza alleanza con la destra (di governo con Alfano, sulle riforme con Berlusconi), che l’alternativa sarebbe stata quella di diventare ostaggio della sua sinistra interna. Con la certezza di affondare nella palude e nell’immobilismo.

Ma basterà questa nuova massa eterogenea di profughi in fuga da territori (partiti) disastrati - dai 5Stelle a Scelta civica e, a breve, sicuramente, anche Forza Italia - a svolgere lo stesso ruolo che ha svolto il patto del Nazareno? C’è da dubitarne. E poiché Renzi è tutt’altro che sciocco è impossibile che non se ne renda conto anche lui. Vuole forse dire che egli accetta il fatto che avvengano cambiamenti di sostanza nella politica del governo, e che questo prezzo egli sia disposto a pagare volentieri in cambio della nuova unità del suo partito?

La fine dell’opposizione dovuta al generalizzato bandwagoning porta anche con sé rischi «sistemici». Che cosa è una democrazia senza opposizione? Precisiamo: è sbagliato lamentarsi del fatto che le riforme istituzionali in cantiere (legge elettorale, Senato) accrescano notevolmente il potere del premier. Chi teme questa concentrazione e la considera addirittura «antidemocratica», è vittima di un abbaglio: non sa che una forte concentrazione del potere nelle mani del primo ministro (Gran Bretagna, Germania, Spagna) o del presidente (Francia) è la norma nelle grandi democrazie europee. Ed è, inoltre, vittima di un pregiudizio culturale: crede che la tradizione italiana, quella della democrazia acefala, quella in cui nessuno comanda e tutti pongono, con successo, veti all’azione altrui, sia l’unica democrazia possibile o, almeno, la più bella del mondo. Non è così. Le riforme che accrescono il potere del governo dovrebbero essere accolte con favore perché possono rendere meno inefficiente il processo democratico.

Ma se una forte concentrazione del potere nell’esecutivo è la norma nelle democrazie europeo-continentali, non lo è invece l’assenza di una credibile opposizione. La mancanza di una tale opposizione finisce inevitabilmente per ingenerare nei governanti un eccesso di sicurezza e di arroganza (nel caso del governo Renzi, se ne sono già visti gli effetti, qua e là, in qualche occasione). Soprattutto, l’assenza di una credibile opposizione toglie al governo la tensione e l’attenzione che sono necessarie per schivare errori e passi falsi, come ha giustamente osservato Alessandro Giuli sul Foglio di ieri.

Da questo punto di vista, ciò che c’è di sbagliato nella legge elettorale detta Italicum non è il fatto che essa - come è giusto - dia a chi vince la possibilità di governare. C’è di sbagliato il fatto che essa non tuteli la democrazia contro il rischio di un’eccessiva frammentazione dell’opposizione. Abbiamo sperimentato per lungo tempo un bipolarismo che non funzionava, a causa della ferocia degli scontri e dell’odio etnico tra i due schieramenti. Può essere allora che il nostro destino sia quello di un «monopartitismo democratico» in grado di durare per tutto il tempo in cui dureranno la lucidità e la fortuna del suo leader. E destinato ad essere sostituito dal caos non appena lucidità e fortuna se ne andranno.

8 febbraio 2015 | 09:14
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_08/carro-affollato-potere-99004376-af62-11e4-bc0d-ad35c6a1f8f9.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Ucraina, Grecia e Libia Mai stati così insicuri
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2015, 08:06:20 am
LE NUOVE CRISI
Ucraina, Grecia e Libia
Mai stati così insicuri

Di Angelo Panebianco

Puoi cercare quanto vuoi di evitarla ma prima o poi la politica ti troverà. E se non sarai pronto ad afferrarla ti travolgerà. È stata felice e fortunata la lunga epoca in cui l’Europa poteva evitare di occuparsi del principale aspetto della politica: il suo rapporto con la sicurezza (che poi riguarda, al dunque, la sopravvivenza fisica delle persone). Della politica in questo senso se ne occupavano altri: le due superpotenze durante la Guerra fredda e, per qualche lustro, nell’era unipolare, i soli Stati Uniti. Ora non è più così, ma gli europei sembrano ormai incapaci di pensare seriamente alla sicurezza.

Ucraina, Grecia, Libia: tre diverse crisi che hanno a che fare tutte (anche quella greca) con la sicurezza e rispetto alle quali gli affanni dell’Europa sono fino ad ora apparsi evidenti. I complimenti di tanti ad Angela Merkel per il piglio con cui ha condotto le trattative con Putin sono stati prematuri. Dallo Zar di tutte le Russie la Merkel ha ottenuto poco, solo una tregua resa fragile e precaria dal fatto che le posizioni delle parti sono tuttora antitetiche, non c’è stato, almeno fino ad oggi, neppure lo straccio di un compromesso. Putin non sembra avere rinunciato alla volontà di creare un corridoio che colleghi direttamente la Russia alla Crimea passando per i territori controllati dai filorussi. E dunque a che cosa mai si brinda quando si brinda?

Registriamo invece quanto sia stata debole, fin dall’inizio, la posizione negoziale dei franco-tedeschi. Escludere a priori l’invio di armi a Kiev prima dei negoziati non ha giovato a tale posizione negoziale. Né hanno giovato altre dichiarazioni più o meno improvvide. Per esempio, l’affermazione della Merkel secondo cui la Russia è un «vicino di casa» e in quanto tale bisogna per forza accordarsi con essa, è sembrata, più che altro, una voce dal sen fuggita, di una persona cresciuta nella Ddr (la Germania comunista) e segnata psicologicamente da quell’esperienza. Che la Russia sia un vicino, infatti, è un’ovvietà geografica che nulla però dice su ciò che dovremmo fare. Anche l’Unione sovietica, infatti, era un «vicino di casa» ma non per questo entrammo nel Patto di Varsavia. Entrammo invece nella Nato, l’organizzazione che era nemica mortale del suddetto vicino. Sfortunatamente, dire, prima del negoziato, che la Russia è un vicino di casa con cui dobbiamo accordarci, è una dichiarazione preventiva di resa: fai ciò che vuoi, noi poi accetteremo il fatto compiuto (come è già accaduto con la Crimea).

Anche la negoziazione sul debito greco, contrariamente alle apparenze, ha molto a che fare con la sicurezza. Chi dice che bisogna usare criteri «politici» nel trattare con i greci dice il vero anche se intende qualcosa di diverso da ciò che qui si intende. In realtà, bisognerebbe mettere in gioco criteri geopolitici: la Grecia è politicamente un sodale della Russia e questa circostanza dovrebbe entrare a pieno titolo nelle valutazioni di chi tratta con i suoi governanti. Come gli uomini di Syriza hanno precisato subito, essi sono pronti a porre il veto se altre sanzioni contro la Russia venissero decise dall’Unione nel caso di un ulteriore aggravamento della crisi ucraina. Per non dire che hanno anche chiarito che voterebbero contro, facendo andare a picco l’accordo, se mai dovesse fare progressi il trattato Ttip (Transatlantic trade and investment partnership), per il libero commercio fra Stati Uniti ed Europa.

Ci sono ottime ragioni - a sentire le autorità di Bruxelles e anche diversi economisti - per trovare un compromesso e «tenere dentro» i greci. E se esistessero anche ottime ragioni per buttarli fuori (non solo dall’Euroclub ma anche dall’Unione)? Forse è meglio che la Grecia diventi apertamente un alleato della Russia (che, peraltro, al momento, avrebbe qualche difficoltà a soccorrerla, essendo essa stessa economicamente stremata) piuttosto che permetterle di giocare impunemente il ruolo di quinta colonna in seno all’Unione. Se fossero capaci di pensare politicamente, gli europei dovrebbero porsi questi interrogativi nelle sedi appropriate. Non c’è solo il fatto che se ad Atene viene concesso ciò che non è stato concesso a nessun altro, si prepara la fine certa dell’euro (nessuno si farà mai più imporre niente). Ci sono anche alcune robuste ragioni geopolitiche.

E veniamo al caso che, drammaticamente, ci riguarda più da vicino, la Libia. Va dato atto a Matteo Renzi di avere sollevato il tema per tempo, e con la consueta energia, nelle sedi europee e in altre. Fino ad oggi, però, a quanto sembra, senza grandi risultati, soprattutto a causa del disinteresse americano e dell’impoliticità dell’Europa. Adesso, le conquiste dello Stato islamico hanno reso il quadro ancora più cupo. Come dimostrano anche le minacce provenienti dal Califfato contro il ministro Gentiloni, il «crociato» reo di avere ribadito la disponibilità dell’Italia a guidare una missione militare internazionale per riportare la pace in territorio libico. Mentre l’Onu prende tempo e l’Europa, fino ad oggi inerte anche sulla vicenda libica, lascia intendere che l’Unione politica forse non esisterà mai, ci conviene restare realisticamente abbarbicati al poco che abbiamo e a ciò che siamo. Dovremmo, ad esempio, domandarci se riusciremmo a intercettare e a neutralizzare un eventuale missile proveniente dalla Libia. Dovremmo chiedere al ministro competente e ai vertici delle forze armate di spiegare agli italiani quali siano, al momento, le nostre possibilità di difesa.

15 febbraio 2015 | 08:42
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_15/ucraina-grecia-libia-mai-stati-cosi-insicuri-9b0dc464-b4e3-11e4-b826-6676214d98fd.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Difesa e contraddizioni
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2015, 04:25:38 pm
Difesa e contraddizioni
Sentenze miopi e tagli sbagliati, le armi puntate contro di noi

di Angelo Panebianco

Mentre la politica discute se toccherà al nostro Paese la guida di un’eventuale missione militare di pacificazione (non chiamatela guerra, per carità) in Libia quando e se l’Onu darà il benestare, da diverse fonti emerge l’impreparazione dell’Italia di fronte ai nuovi pericoli.

Il generale dell’aeronautica Leonardo Tricarico, già vicecomandante della missione in Kosovo, in una drammatica intervista all’ Espresso di questa settimana, spiega che l’Italia non solo non è pronta per intervenire in Libia ma non ha neppure la capacità di difendere adeguatamente il nostro territorio.

Colpa dei tagli di bilancio che si sono susseguiti per anni, la nostra Difesa è oggi assai mal ridotta. Manca, ad esempio, la copertura finanziaria per garantire la continuità quando scadranno i contratti di manutenzione di diversi importanti sistemi d’arma aerea. Inoltre, i nostri Predators, aerei a controllo remoto, che potrebbero rivelarsi cruciali per la lotta al terrorismo, non sono armati. Né disponiamo di una adeguata capacità di difesa da eventuali attacchi dalla Libia: non sappiamo che fine abbiano fatto tutti gli Scud di Gheddafi (senza parlare del fatto che lo «Stato islamico» possiede soldi a sufficienza per procurarsi armamenti anche più sofisticati).

L’incuria denunciata dal generale Tricarico ha almeno due cause. La prima è data dal disinteresse, condiviso a lungo da quasi tutta la classe politica italiana, per la sicurezza nazionale. C’è da trovare soldi per garantire una categoria elettoralmente influente? Non c’è problema, i soldi si trovano tagliando i fondi della Difesa. La seconda causa è culturale. Come si è visto anche durante le discussioni sugli F 35, la quantità di parlamentari - a loro volta in sintonia con un settore rilevante dell’opinione pubblica - che vorrebbe lo smantellamento delle nostre forze armate in omaggio ai propri ideali pacifisti, è piuttosto ampia. La combinazione di disinteresse e di opposizione di principio ci ha condotto dove ora siamo: in presenza di una emergenza che non abbiamo i mezzi sufficienti per fronteggiare con efficacia.

Ma c’è di più. Magari bastasse solo un cambiamento degli orientamenti della classe politica. Ci sono altre cose assai gravi. A molti è forse sfuggito ma proprio mentre l’altra settimana eravamo alle prese con le minacce dello «Stato islamico» all’Italia dei crociati, l’ineffabile Tar di Palermo, con una sentenza, bloccava la costruzione, nella locale base Nato, della stazione di terra del Muos, il più avanzato sistema americano di comunicazioni satellitari a scopi militari, dando ragione al Comune di Niscemi che la definiva «dannosa per la salute».

La sentenza, naturalmente, è stata accolta con esultanza da tanti bravi cittadini della zona. Qui non si vuole scherzare su cose così gravi ma forse servirebbe una riflessione collettiva sul fatto che i «danni per la salute», se la situazione in Nord Africa continuerà a deteriorarsi, potrebbero risultare maggiori di quelli che può procurare una stazione Muos. Ma davvero la sicurezza nazionale, nonché i nostri impegni Nato, possono essere appesi alle sentenze dei Tar?

Siamo passati di colpo dall’età dell’oro all’età dell’emergenza. Nell’età dell’oro potevamo permetterci di abrogare unilateralmente la guerra (tanto a farla ci pensavano i nostri protettori militari americani), fare a meno di una cultura della difesa e, persino, affidare ai tribunali amministrativi le decisioni ultime sulla sicurezza militare. L’età dell’oro è finita, anche se molti figli di quella stagione tuttora in circolazione non se ne rendono conto. Non avremo difesa efficace finché non lo capiranno.

23 febbraio 2015 | 08:46
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_23/sentenze-miopi-tagli-sbagliati-armi-puntate-contro-noi-33a48176-bb2f-11e4-aa19-1dc436785f83.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Gli amici del Cremlino La Russia di Putin e le relazioni...
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2015, 07:53:20 am
Gli amici del Cremlino
La Russia di Putin e le relazioni imbarazzanti

Di Angelo Panebianco

Se esistesse un indice di moralità politica applicabile alle tirannie, Benito Mussolini otterrebbe un punteggio più alto di Vladimir Putin. Mussolini, dopo il delitto Matteotti, se ne assunse la responsabilità. Putin, invece, di fronte all’omicidio del suo avversario Boris Nemtsov, ha saputo solo parlare di «provocazione». Come peraltro è avvenuto in occasione di altri omicidi di oppositori del Cremlino.

I simpatizzanti che Putin può annoverare in Italia dovrebbero porsi qualche domanda. A destra, lo dovrebbero fare Berlusconi, amico personale di Putin, e Salvini. A sinistra il compito spetterebbe a molti, a cominciare dalla Mogherini, e dallo stesso Renzi, sempre molto comprensivi per le «esigenze» russe nella crisi ucraina.

Varrebbe la pena di riflettere sul fatto che esiste un legame fra la politica estera e la natura dei regimi politici. La natura del regime russo - non una tirannia in senso classico ma una democrazia autoritaria - è oggi brutalmente disvelata dall’omicidio Nemtsov. Perché continuare a fingere che il neoimperialismo della Russia non abbia una stretta connessione con l’autoritarismo interno? Quando Putin si è incamerato la Crimea, cambiando in modo non consensuale i confini dell’Europa, ha fatto ciò che una grande potenza che aspiri a cogestire l’ordine internazionale mai avrebbe dovuto fare. Perché quella decisione ha alterato irreversibilmente i suoi rapporti con l’Europa e gli Usa. Putin lo ha fatto perché un regime come il suo può sostenersi soltanto aizzando frenesie nazionaliste. Poi, una volta fatta quella scelta (irrimediabile), Putin non si è più fermato né, probabilmente, avrebbe ormai avuto senso fermarsi: dopo la Crimea, ha trasferito nel resto dell’Ucraina orientale la guerra.

È necessario che gli amici di Putin ci pensino su prima di continuare a fiancheggiarlo. Devono riconoscere la pericolosità di quel regime, per ciò che fa agli oppositori interni e per il fatto che negli obiettivi della sua politica estera, oltre all’espansionismo territoriale, c’è anche il condizionamento da esercitare sull’Europa tramite i suoi amici politici greci, italiani, francesi, tedeschi.

Piuttosto che stendere tappeti rossi davanti al nostro «vicino di casa» (come lo ha definito la Merkel), è meglio rendersi conto della sua pericolosità e chiudere i buchi della rete divisoria che ci separa dal suddetto vicino. Significa adottare una postura più decisa nella crisi ucraina. E pensare a come diversificare al meglio gli approvvigionamenti energetici in modo da renderci meno esposti ai suoi ricatti.

2 marzo 2015 | 08:18
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_02/russia-putin-relazioni-imbarazzanti-6d6365f6-c0a4-11e4-b2c9-4738a8583ea9.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I moderati e Salvini Il complesso dell’altro Matteo
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2015, 03:53:35 pm
I moderati e Salvini
Il complesso dell’altro Matteo

Di Angelo Panebianco

L a questione delle alleanze elettorali è oggi il solo argomento di rilievo di cui si discuta pubblicamente nell’area moderata (Forza Italia, Ncd) del centrodestra. Forza Italia deve allearsi con Alfano e Casini o con la Lega di Salvini? O deve riuscire a tenerli tutti insieme? Le alleanze sono importanti ma è patologico che soltanto di questo si parli. Svela il vuoto di idee da cui quella parte del centrodestra è afflitto e mostra, più in generale, uno schieramento di destra che, sul piano nazionale almeno, potrebbe essere destinato a non toccar palla per un tempo assai lungo (cinque anni? dieci? di più?). Perché discutere di alleanze anziché delle cose che si intendono fare, significa non avere capito quali novità abbia introdotto nel discorso pubblico l’ascesa di Matteo Renzi.

Lega di Salvini a parte (che invia messaggi chiari agli elettori sulle cose che vuole fare), se guardiamo agli stili comunicativi dei vari esponenti del centrodestra, solo pochissimi sembrano avere mangiato la foglia, sembrano aver compreso la novità.
Prima di Renzi, la politica elettorale funzionava così: si formavano l’una contro l’altra armata due coalizioni altamente eterogenee, attraversate da dissensi programmatici radicali, tenute insieme solo dalla volontà di battere il comune nemico. Così faceva Berlusconi, così faceva la sinistra. Chi vinceva le elezioni, naturalmente, non riusciva a governare. Mettendo insieme il diavolo e l’acqua santa, la Lega di Bossi e l’Alleanza Nazionale di Fini, gli ex democristiani di Casini e Mastella e i liberisti della prima Forza Italia, nel 1994 Silvio Berlusconi fece il miracolo di fare nascere uno schieramento politico di destra. In una Repubblica che un tale schieramento non aveva mai conosciuto la novità fu sconvolgente. Negli anni seguenti, però, i limiti di alleanze elettorali culturalmente e programmaticamente eterogenee vennero tutti fuori. Si faceva una grande fatica a governare, non parliamo poi della possibilità di mantenere le ambiziose promesse elettorali.
Chiedersi oggi se ci sarà o no una alleanza che comprenda i pro-euro di Alfano e gli anti-euro di Salvini, il liberoscambismo di Forza Italia (o di certi suoi settori) e il protezionismo economico duro e puro della Lega, i filo-americani e i filo-russi, significa ragionare nei termini antichi, quelli che hanno preceduto il ciclone Renzi. Alle Regionali ancora ancora, ma chi volete che possa prendere sul serio una simile armata Brancaleone nel caso di elezioni politiche nazionali?

Come e perché Renzi ha cambiato le carte in tavola? Le ha cambiate dicendo cosa avrebbe fatto o voluto fare, anche in barba ai maggiorenti del suo partito. Ha avuto successo (è stato premiato dall’opinione pubblica) perché ha rotto con la tradizione. Non ha detto alla sinistra, come si faceva prima di lui: mettiamoci tutti insieme intorno a un tavolo e troviamo un minimo comun denominatore. Ha detto invece: io voglio fare questo e quello, chi ci sta venga con me.

Non c’è bisogno di prendere per oro colato tutto ciò che Renzi ha detto e dice, o ha fatto e fa, per riconoscere il cambiamento radicale di cui è stato l’artefice. Si può anche pensare tutto il male possibile delle sue riforme, ma gli va comunque dato atto del fatto, ad esempio, che sta cercando di sconfiggere (eliminando il bicameralismo paritetico) il conservatorismo costituzionale tradizionalmente dominante a sinistra. Ancora, si possono anche fare le bucce al Jobs act ma si deve riconoscere che lo scontro fra Renzi da un lato e la Cgil e la sinistra del Pd dall’altro non è una pantomima, è un conflitto vero.

In queste circostanze, continuare, come fa Forza Italia, ad invocare alleanze fra gli opposti (come Alfano e Salvini) significa non avere capito che le regole del gioco sono cambiate.

A destra, solo Salvini parla di cose da fare anziché di alleanze. Proprio questo probabilmente, lo premierà elettoralmente. Solo che se ciò avvenisse, se a destra il baricentro si spostasse verso la Lega, il centrodestra nel suo insieme non sarebbe più competitivo per un lungo periodo. Se il suo più temibile avversario dei prossimi anni risulterà Salvini, Renzi potrà dormire tra due guanciali. Nessuno lo farà sloggiare da Palazzo Chigi per chissà quanto tempo.

Il centrodestra tornerà competitivo solo se e quando la parte più centrista di quell’area avrà appreso la lezione. Quando avrà capito, cioè, che per vincere non deve smussare le differenze fra i partiti, al fine di dare vita a alleanze elettorali incoerenti e purchessia, deve fare invece proposte chiare agli elettori. Per rendere di nuovo il centrodestra competitivo rispetto alla «sinistra dopo la cura Renzi» quelle proposte, presumibilmente, dovrebbero avere due obiettivi: il contrasto, sul piano culturale oltre che politico, in nome del libero scambio, all’impraticabile e irrealistico protezionismo economico propugnato dalla Lega, nonché il definitivo abbandono di quel corporativismo spicciolo (caro sia al Nuovo centrodestra che a settori di Forza Italia), quella vocazione a tutelare ogni categoria professionale «amica», che ha sempre impedito al centrodestra, quando ha governato, di aprire i mercati chiusi e protetti alla concorrenza. Se le proposte intercetteranno favori e umori dell’opinione pubblica, le alleanze seguiranno. È vero il fatto, naturalmente, che, proprio come ha dimostrato la sinistra, le nuove idee richiedono nuovi leader.
Stringere buoni accordi elettorali, in politica, è sempre cosa utile. Ma lo è di più capire come e perché il gioco sia cambiato e quali siano le nuove regole.

6 marzo 2015 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_marzo_06/complesso-dell-altro-matteo-44bc4682-c3c8-11e4-8449-728dbb91cb1a.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Ma serve ancora votare?
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2015, 11:53:53 pm
Ma serve ancora votare?

Di Angelo Panebianco

I l ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis (in foto), tra un attacco alla Germania e l’altro, ha anche dichiarato che, per arrivare a un accordo con l’Europa, il suo governo è pronto a rinviare alcune promesse elettorali. Poiché i greci non vogliono suicidarsi e il resto d’Europa (con l’apparente eccezione del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble) sembra pensare che Grexit, l’uscita della Grecia dall’euro, sarebbe un disastro per tutti, è possibile che alla fine si riesca a trovare un compromesso. In tal caso, la speranza di aver chiuso definitivamente la partita greca sarebbe talmente forte che governi, autorità dell’Unione, mass media, cercherebbero di presentare il compromesso come un grande successo. Però, stiano attenti alla natura del compromesso che si realizzerà (se si realizzerà) perché il suddetto «successo» potrebbe anche essere l’anticamera di un più generale fallimento, quello dell’Unione.

Quale è il grande e irrisolto problema dell’Europa oggi? È il «disallineamento» in atto da tempo fra il patto europeo e le regole e i principi su cui si reggono tuttora le democrazie nazionali (europee): il primo (il patto) impone che gli impegni presi reciprocamente fra i governi dell’Unione debbano essere rispettati, i secondi (le regole e i principi) impongono che i governi rispondano prima di tutto ai loro elettorati e soltanto dopo, solo in seconda istanza, all’Unione.

La data emblematica in cui prende il via, platealmente, il processo di disallineamento è il 2005. Fino ad allora, integrazione europea e democrazie nazionali avevano quasi sempre marciato insieme (con qualche eccezione, soprattutto all’epoca del gollismo negli anni Sessanta). Nel senso che gli accordi in sede europea erano sempre stati tacitamente accettati e sottoscritti dai vari elettorati.

Nel 2005, il referendum francese che affondò il trattato costituzionale europeo fu il primo segnale della grande svolta: ormai non era più pacifico o automatico che gli elettorati trangugiassero senza fiatare tutti i cocktail (o gli intrugli) preparati a Bruxelles. Poi la crisi economica ha fatto il resto: oggi il disallineamento è assai forte. Da un capo all’altro del Vecchio Continente ci sono ormai tanti leader politici che ottengono grandi ascolti e mietono successi elettorali contrapponendo la democrazia (nazionale), le prerogative degli elettori, i diritti dell’uomo comune, alla «dittatura» europea, al potere, più o meno anonimo, delle eurotecnocrazie, alla «arroganza» della Germania, eccetera, eccetera.

Conta poco il fatto che nella propaganda antieuropea ci siano, oltre a qualche verità, anche diverse bugie. Importa che, per effetto sia di una lunga crisi economica che degli errori commessi nel corso del tempo dalle autorità europee, quella propaganda faccia breccia in porzioni non irrilevanti degli elettorati.

Allora, attenti alla natura del compromesso che ci sarà (se ci sarà) fra i greci e l’Europa. Se potrà essere letto soprattutto come una vittoria dei greci, scatenerà i rancori dell’opinione pubblica tedesca e dei Paesi più vicini all’orientamento tedesco: sarà letto come il successo degli imbroglioni (quelli che truccano i conti), degli scialacquatori, dei parassiti che vivono alle spalle altrui. Niente di buono si preparerebbe allora per l’Unione. Se il compromesso sarà invece letto come una sconfitta del governo greco, allora il messaggio generale - che verrà usato e rilanciato da tutti i leader antieuropei - sarà che la democrazia, in Europa, non conta nulla, che è irrilevante ciò che gli elettori vogliono mandando al governo questo o quello. Anche in questo secondo caso un futuro piuttosto cupo si preparerebbe per l’Unione.

Un’uscita della Grecia dall’euro sarebbe una catastrofe per l’Europa, dicono quasi tutti. E se lo dicono quasi tutti, sarà vero. Però, alla Grecia - un Paese che non avrebbe mai dovuto essere ammesso nell’Europa monetaria - si chiedono «riforme» che dovrebbero trasformarla in una «buona economia di mercato» (come ha osservato Giacomo Vaciago, Il Sole 24Ore, 11 marzo), in quanto tale compatibile con la moneta unica. Il punto, naturalmente, è che nessun governo greco è in grado di riuscire nell’impresa, men che mai in tempi brevi. Figuriamoci poi se può farlo un governo formato da una coalizione fra un partito di estrema sinistra (Syriza) e una formazione di destra (Greci Indipendenti). Sarebbe come se in Italia qualcuno chiedesse a un eventuale governo presieduto da Nichi Vendola e appoggiato dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, di lavorare per il libero mercato. Vendola e Meloni (giustamente, dal loro punto di vista) penserebbero che a quel qualcuno manchi una rotella.

Grexit, dicono tante voci autorevoli, sarebbe un disastro. E chi siamo noi per dubitarne? Non tutte le alternative, però, sono migliori.

15 marzo 2015 | 08:57
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_marzo_15/ma-serve-ancora-votare-582c4924-cada-11e4-9a7c-4c357fdc7cec.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il paese nelle mani dei Tar
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2015, 12:00:13 pm
Il blocco del Muos
Il paese nelle mani dei Tar
La procura di Caltagirone e l’ordine del sequestro dell’impianto satellitare

Di Angelo Panebianco

Non sembra una storia vera ma una barzelletta inventata da qualcuno che ce l’ha con gli italiani. Solo poche settimane dopo la sentenza del Tar di Palermo che ha dato ragione al Comune di Niscemi e ai vari comitati ambientalisti, ecco che la procura di Caltagirone ha ordinato il sequestro dell’impianto satellitare Muos della locale base americana. Il Muos (Mobile User Objective System) è il più avanzato sistema americano di comunicazioni satellitari a scopi militari. Una volta funzionante dovrebbe essere dislocato in permanenza su quattro stazioni di terra (oltre a Niscemi, oggi in forse, in Virginia, nelle Hawaii e in Australia). È un sistema di comunicazione concepito per accrescere la capacità di individuazione dei pericoli. Ma ciò, a quanto pare, non ha importanza. Il sindaco di Niscemi, i 5 Stelle, i verdi, e persino il locale «comitato delle mamme» hanno comunicato al mondo il loro entusiasmo per la decisione della procura.

Ci sono tre aspetti sconcertanti. È sconcertante che la nostra sicurezza nazionale (di cui gli impegni con l’alleato americano sono un’essenziale componente) sia appesa alle decisioni di Tar e procure. È sconcertante, inoltre, che tali decisioni siano prese sotto la spinta di una mobilitazione cosiddetta ambientalista contro presunti, e tutti da dimostrare, «rischi per la salute», proprio in una fase in cui si profilano minacce gravissime per la vita (e dunque - si suppone - anche per la «salute») degli italiani, in una fase in cui andrebbero accresciuti, e non indeboliti, tutti gli strumenti possibili di difesa, nonché la capacità del Paese di dimostrarsi un partner affidabile per i suoi alleati militari. Nessuno legge i giornali o guarda la televisione da quelle parti? Nessuno sa che cosa stia accadendo in Libia? Nessuno ha mai sentito parlare del Califfo? Nessuno si rende conto che la Sicilia è la parte del territorio italiano più esposta, quella che viene prima nella linea di tiro, il bersaglio più vicino? La memoria storica, da quelle parti, è così evanescente che nessuno si ricorda più dei missili di Gheddafi lanciati contro l’Italia nel 1986 e fortunatamente caduti al largo dell’isola di Lampedusa?

Infine, è sconcertante il silenzio delle autorità nazionali. Il nostro loquace premier non ha detto una parola. E nemmeno le altre autorità dello Stato. E molti mezzi di comunicazione, con l’eccezione del Corriere e di pochi altri, hanno preferito ignorare la notizia. Eppure, il tema meriterebbe una discussione più intensa e appassionata di quelle che vengono riservate a tanti altri argomenti.

«Sovrano - diceva il giurista Carl Schmitt - è colui che decide sullo stato d’eccezione». In Italia le decisioni sullo stato d’eccezione, e dunque la sovranità, appartengono ai Tar e alle procure? Alla luce di quanto è accaduto in questo Paese negli ultimi trent’anni eravamo in molti a sospettarlo. La vicenda Muos è la conferma? Questa storia è una variante di un fenomeno più generale, di quella «terribile alleanza» che si è ormai da tempo consolidata in tante parti d’Italia. Di solito, la terribile alleanza vede coinvolti «soggetti ambientalisti» che puntano alla deindustrializzazione del Paese, sfruttano la combinazione di ignoranza e paure irrazionali che si manifesta nella sindrome «non nel mio giardino», e trovano, troppo spesso, l’avallo e il sostegno di tribunali amministrativi e procure. Nel caso Muos c’è una differenza. Qui l’ambientalismo, verosimilmente, è la copertura di un movimento di opposizione all’alleanza militare fra Italia e Stati Uniti, e la posta in gioco è la sicurezza nazionale. Nel nostro Paese, lo scarto fra gli auspici e i disegni dei nostri governanti, e dei professionisti della politica estera e di difesa che li coadiuvano, e la realtà dei processi decisionali, non potrebbe essere più forte. Così forte da danneggiare, se non neutralizzare del tutto, quegli auspici e quei disegni. L’interesse nazionale italiano ci spinge a chiedere un impegno della Nato sul fronte Sud assai maggiore di quello attuale, un rafforzamento della difesa collettiva dalle minacce che arrivano dal Vicino e Medio Oriente. Ciò richiede, ovviamente, e prima di tutto, che si riescano a convincere gli Stati Uniti. È vitale, infatti, per gli italiani, ottenere che l’attenzione della Nato non sia concentrata soltanto sull’Ucraina e su quanto accade ad Est.

Fin qui i propositi, le strategie geopolitiche, eccetera. Ma poi ci sono i processi decisionali, quelli veri. Dopo la vicenda Muos, con che faccia, con che credibilità, potremo sostenere tali richieste?
Forse, stabilire finalmente quali confini non possano e non debbano essere mai attraversati, superati, dalle magistrature, in quali ambiti siano soltanto i governi nazionali (in virtù di un mandato elettorale) a decidere, aiuterebbe a impostare politiche di sicurezza più efficaci. E poiché le politiche di sicurezza hanno a che fare con la vita e con la morte, decidono chi sopravviverà, è bene che, almeno in questa materia, sia chiaro a tutti dove risieda la sovranità .

4 aprile 2015 | 08:17
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_aprile_04/paese-mani-tar-37a2c05c-da89-11e4-8d86-255e683820d9.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Berlusconi e Renzi Ai tempi in cui c’era lui
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2015, 12:20:42 pm
Berlusconi e Renzi
Ai tempi in cui c’era lui

Di Angelo Panebianco

Sia Berlusconi ai suoi bei dì che Matteo Renzi da quando è al governo sono stati accusati di autoritarismo, di rappresentare una minaccia per la democrazia. Ma c’è una grandissima differenza. Berlusconi aveva contro (ferocemente contro) metà dell’Italia e, per conseguenza, anche una grande quantità di persone che contavano tantissimo sia dentro che fuori il Paese. Renzi, invece, è accusato di autoritarismo solo da una minoranza (sinistra pd, Cinque Stelle, una parte del sindacato), per lo più composta da sconfitti, molti dei quali presumibilmente in marcia verso una definitiva marginalità politica. Non è la stessa cosa. E infatti le campagne contro Berlusconi e il suo supposto autoritarismo videro impegnati eserciti sterminati, guidati da persone dotate delle risorse necessarie per alimentare un volume di fuoco elevatissimo, capaci anche, ad esempio, di arruolare nella crociata antiberlusconiana fior di cronisti stranieri, figure di spicco del Parlamento europeo, eccetera eccetera.

Niente del genere è accaduto e accade a Matteo Renzi. Eppure Renzi, ad esempio, ha predisposto una riforma della Rai di cui un aspetto non secondario è accrescere il controllo di Palazzo Chigi. Sta proponendo, con esiti ancora incerti, una stretta sulla pubblicazione delle intercettazioni giudiziarie e uno dei suoi, per l’occasione, ha ipotizzato (pensate cosa sarebbe successo ai tempi di Berlusconi) il ricorso al carcere. Renzi, inoltre, ha messo in piedi una riforma elettorale che gli cade addosso perfettamente come fosse un vestito di alta sartoria (invece, la cattiva legge elettorale fatta a suo tempo da Berlusconi servì a lui ma anche, e forse soprattutto, ai suoi alleati). Infine, Renzi sta (finalmente) imponendo il superamento del bicameralismo paritetico. Quando Berlusconi tentava di fare cose simili, veniva giù il Paese, gli attacchi e gli allarmi contro il «nuovo fascismo» erano quotidiani, anche sulle reti Rai. O qualcuno si è forse dimenticato di cosa accadeva all’epoca dei governi Berlusconi?

Ci sono tre considerazioni da fare. La prima è che, molte volte, quanto più i «grandi principi» e i «grandi valori» vengono sbandierati con ossessione, quanto più ci si straccia pubblicamente le vesti in loro difesa gridando al lupo, tanto meno chi lo fa crede davvero in quei principi e valori. I principi vengono spesso usati in modo strumentale, piegati alle esigenze politiche del momento, sono, per molti, armi da usare contro il nemico politico e da rinfoderare quando è l’amico a fare ciò che faceva il nemico.

La seconda considerazione è che era insopportabilmente esagerata la «mobilitazione anti autoritaria» contro Berlusconi. È pertanto decisamente un bene che (sia pure a causa dell’opportunismo e del doppiopesismo di tanti) tale mobilitazione non ci sia, o coinvolga comunque assai meno persone, nel caso di Renzi.

La terza considerazione è che non c’è contraddizione fra volere un rafforzamento del governo (e dunque un accrescimento delle capacità d’azione di chi momentaneamente lo controlla) ed essere pronti a criticarne le singole decisioni e azioni. Proprio se si auspica, perché serve alla democrazia, un più forte potere esecutivo, occorre essere pronti a fargli le bucce ad ogni passo falso. Le democrazie hanno bisogno di governi forti (e chi scambia ciò per «autoritarismo» prende lucciole per lanterne). Non hanno invece bisogno di stuoli di cortigiani sdraiati ai piedi del suddetto governo forte. E il premier ne ha tanti.

Renzi ha un grande merito: sta abituando la democrazia italiana all’idea che «un uomo solo al comando» non equivalga, in quanto tale, e solo per questo, al fascismo. È anche possibile che i futuri libri di storia finiscano per ricordarlo soprattutto per questa eccellente, meritoria impresa. Ma questo non deve renderlo immune dalle critiche. Le lodi doverose per certe buone cose varate non possono oscurare i motivi di biasimo. Sia per il tanto fumo e poco arrosto che per certe scelte, le quali spacciano come «grandi innovazioni» banali, antiche, e collaudate, furbizie elettorali.

29 marzo 2015 | 09:38
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_marzo_29/ai-tempi-cui-c-era-lui-457c91c6-d5de-11e4-b0f7-93d578ddf348.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Legge elettorale Il rivale che serve a Renzi
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2015, 06:00:06 pm
Legge elettorale
Il rivale che serve a Renzi

Di Angelo Panebianco

Poiché «l’era Renzi» promette di durare a lungo, una domanda diventa legittima: gli storici futuri ne parleranno come di un’epoca di buongoverno oppure di malgoverno? Si dirà un giorno che durante l’era Renzi vennero introdotte serie innovazioni a correzione dei nostri mali antichi, oppure se ne parlerà come di un periodo costellato da improvvisazioni demagogiche, capaci di suscitare consensi immediati ma anche di aggravare, nel medio termine, le difficoltà del Paese?

La risposta più ovvia a questa domanda («dipenderà da Renzi») è, almeno in parte, sbagliata. Perché molto, moltissimo, invece, dipenderà non da Renzi ma dall’opposizione, dalla qualità dell’opposizione. Se il premier sentirà sul collo il fiato di un’opposizione vigorosa (che non significa affatto agitata, scomposta o urlatrice) con serie possibilità di sconfiggerlo, di mandarlo a casa nelle elezioni successive, allora è probabile che egli venga costretto dalla forza delle cose a ben governare. Se Renzi dovrà invece fronteggiare un’opposizione non credibile, plausibilmente incapace di batterlo elettoralmente, se avrà la sensazione dell’impunità qualunque cosa egli dichiari o faccia, e qualunque errore commetta, allora non ci saranno santi: il suo diventerà rapidamente un malgoverno.

Poiché, come è noto, la storia non insegna mai niente a nessuno, sembra che oggi molti si apprestino a commettere, di fronte a Renzi, gli stessi errori che altri commisero durante la cosiddetta Prima Repubblica, quando giudicavano le performance dei governi della Democrazia cristiana. Allora, tanti commentatori, e tanti agitatori politici, si specializzarono nella critica del (vero o presunto) «malgoverno democristiano». Senza rendersi però conto del fatto che quel malgoverno dipendeva da una circostanza: la Dc non poteva perdere le elezioni, era inamovibile, e proprio per questo poteva dedicarsi in tutta tranquillità a ciò che i suoi critici chiamavano malgoverno. La ragione della sua inamovibilità aveva un nome preciso: quello del Partito comunista. Poiché il Pci era al tempo stesso il più forte partito di opposizione e un’opposizione non credibile, incapace di vincere le elezioni, la Dc restava per l’appunto inamovibile, impunibile e impunita. Chi ce l’aveva con la Dc, in realtà, avrebbe dovuto prendere di petto il Partito comunista, avrebbe dovuto augurarsi che quel partito cessasse di essere il principale partito d’opposizione. Solo così, un giorno, si sarebbe potuto sconfiggere elettoralmente la Dc. E solo così i democristiani, temendo di perdere il potere, si sarebbero sforzati di migliorare la propria capacità di governo.

Oggi si fanno troppe chiacchiere su presunti sviluppi autoritari alle porte. Non è affatto quello il rischio che corre la democrazia italiana. Il rischio è quello di un governo Renzi senza rivali plausibili, spinto a mal governare (poiché mal governare è sempre molto più facile che governare bene) dall’assenza di serie sfide elettorali. Se nei prossimi anni i cosiddetti principali sfidanti di Renzi saranno Beppe Grillo e Matteo Salvini, allora vorrà dire che Renzi non dovrà fronteggiare alcuna opposizione capace di batterlo. Certo, gli sbarchi continui di migranti gonfieranno plausibilmente i voti della Lega ma ciò, di sicuro, non basterà a farne uno sfidante vero.

Ciò che servirebbe all’Italia, allora, è una qualche soluzione (che ancora non si vede) della crisi innescata nel centrodestra dal declino politico di Berlusconi. Perché solo se rinasce una forte opposizione - conservatrice ma non estremista - Renzi si sentirà elettoralmente minacciato e sarà costretto a governare limitando al minimo indispensabile il ricorso ai trucchi da avanspettacolo, non sarà tentato di nascondere le difficoltà del governare ricorrendo ad armi di «distrazione di massa» (così il Sole 24 Ore di qualche giorno fa a proposito di tesoretti, bonus e altre tentazioni peroniste).

Qualcosa a che fare col tema che stiamo discutendo ce l’ha la legge elettorale che si andrà fra poco a votare. Non aiuterà la formazione di una forte e credibile opposizione la scelta di consentire a chiunque di entrare in Parlamento superando una misera soglia del tre per cento (come la proposta di legge prevede). Si è detto che una soglia così bassa è stata una concessione di Renzi ad Alfano e alle altre formazioni minori che sostengono il suo governo. Lo è ma non è solo questo. Perché favorisce, in prospettiva, una frammentazione dell’opposizione che a Renzi, forse, non dispiace. Fu Berlusconi ad accettare, ai tempi del patto del Nazareno, una soglia così bassa e commise un grave errore, un errore che, presumibilmente, in futuro, pagheranno proprio i suoi eredi politici.
Alla democrazia conviene che esista un’opposizione credibile. Converrebbe anche a Renzi, in realtà.

19 aprile 2015 | 08:45
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Titolo: Angelo PANEBIANCO. La morte di Lo Porto Il nemico non è l’America
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 11:55:00 am
La morte di Lo Porto
Il nemico non è l’America

Di Angelo Panebianco

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, porgendo le scuse alle famiglie, nella sua qualità di comandante in capo delle forze armate, si è assunto la responsabilità per la morte dei due cooperanti Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein. Speriamo che a nessuno, qui da noi, venga in mente di spedirgli un avviso di garanzia. I precedenti non mancano. È il caso, ad esempio, della mirabolante inchiesta giudiziaria degli anni Novanta denominata Cheque to Cheque, a proposito di un supposto traffico d’armi internazionale. Quell’inchiesta, naturalmente, finì come doveva finire, ossia in niente. Ma tenne per mesi e mesi le prime pagine dei giornali anche perché era stata condita e «caricata» con indagini su personalità internazionali varie, dall’allora leader nazionalista russo Zhirinovski all’arcivescovo di Barcellona.

Non accadrà anche a Obama (si spera) ma ciò che rende una tale eventualità non del tutto implausibile è il clima che si respira oggi nel nostro Paese. Sembra, ad ascoltare certi commenti, che gli americani siano il «nemico», i veri assassini. Assassini reticenti, per di più: il principale tema in discussione è se Obama sapesse o non sapesse e, nel caso sapesse, perché non l’abbia detto prima. Si perde così di vista l’essenziale. E l’essenziale è che se anche gli americani hanno commesso un errore (e chi non ne commette in guerra?) i nemici, gli assassini, non sono loro: sono coloro che hanno rapito, imprigionato per anni e mai rilasciato Lo Porto e Weinstein. Perché questa semplice e incontrovertibile verità fatica ad affermarsi? Fondamentalmente, perché la legittimità dell’azione militare occidentale contro i gruppi jihadisti nelle varie parti del mondo è contestata o non accettata da rilevanti settori del Paese. Si guardi a come molti parlano della guerra in Afghanistan. Facendo di tutta un’erba un fascio la mettono insieme all’invasione dell’Iraq. Sarebbe anch’essa, nient’altro che una «guerra di Bush». Dimenticando che se certamente l’Iraq è un caso controverso, che ha fin dall’inizio diviso l’opinione pubblica occidentale, questo non è vero per l’Afghanistan. Gli americani intervennero in Afghanistan a seguito dell’11 settembre 2001 proprio perché lì era stato concepito e organizzato quell’attacco. Se c’è stata una guerra con tutti i crismi della «guerra giusta» (così come è stata codificata dal cristianesimo medievale) questa è stata senz’altro la guerra d’Afghanistan. Ma il fatto che questo aspetto non venga riconosciuto o sia stato dimenticato contribuisce a spiegare la diffidenza e il distacco con cui le azioni americane anche in quella parte del mondo vengono guardate da certi settori dell’opinione pubblica italiana: una diffidenza e un distacco tanto più sgradevoli e fuori luogo se si tiene conto del ruolo attivo che i nostri militari hanno avuto e tuttora hanno in Afghanistan e del tributo di sangue pagato in quella missione da tanti nostri soldati.

Difficoltà a distinguere fra gli americani e i veri nemici, difficoltà ad accettare la piena legittimità delle azioni militari di contrasto ai gruppi jihadisti nei vari luoghi ove si combatte, ci fanno correre, qui e ora, un gravissimo rischio. Il rischio è quello del disarmo morale di fronte a una aggressione jihadista che ha ormai anche noi italiani nel mirino (non avevamo certo bisogno degli arresti di jihadisti di qualche giorno fa per averne la conferma). Il rischio è quello di restare psicologicamente, e quindi anche praticamente, impreparati di fronte alla minaccia. Ci sono dalle nostre parti parecchi aspiranti Don Ferrante (il personaggio manzoniano che attribuiva la peste ad influssi astrali anziché al contagio), gente che si rifiuta di riconoscere la natura del male e le ragioni per cui si propaga, gente che non vuole guardare in faccia la realtà, che preferisce aggrapparsi alla rassicurante idea secondo cui la guerra dei jihadisti abbia un solo vero nemico: gli altri musulmani. I Don Ferrante non vogliono sentirsi dire che i nemici dei jihadisti, invece, sono di due tipi: i musulmani corrotti dalla modernità e il mondo occidentale (i crociati) epicentro di quella modernità.

Forse è arrivato il momento di svegliarsi. I nemici ci sono, e non sono gli americani. Ed è un peccato che non bastino gli avvisi di garanzia per fermarli.

27 aprile 2015 | 08:20
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_27/nemico-non-l-america-editoriale-corriere-sera-27-aprile-2015-panebianco-b757cc7a-ec9f-11e4-8e05-565b17b54795.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un governo che si rafforza e l’assenza dell’opposizione
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2015, 09:51:09 am
Italicum

Un governo che si rafforza e l’assenza dell’opposizione
Matteo Renzi è solo a metà strada per quanto riguarda il rinnovamento delle istituzioni. Se riuscirà a portare a termine l’impresa, si porrà un nuovo problema per l’Italia: la necessità di una minoranza che si faccia sentire e che possa puntare il dito sulla ripresa economica (che non c’è)

Di Angelo Panebianco

Quanto durerà l’Italicum, la nuova legge elettorale? C’è la possibilità che duri fino al momento in cui un governo (quale che sia) si convinca di essere in procinto di perdere le elezioni successive. Quel tal governo, probabilmente, cercherebbe di cambiare il sistema elettorale per evitare la prevista sconfitta. Ed è possibile che il suddetto governo si faccia forza, per riuscire nell’ impresa, anche delle polemiche e delle aspre divisioni che hanno oggi accompagnato il varo della legge. Una legge, come è già stato rilevato da molti, che ha chiari e scuri: assicura la governabilità grazie al ballottaggio e al premio di maggioranza ma rischia anche, a causa della clausola di sbarramento del tre per cento, troppo bassa, di favorire la frammentazione delle opposizioni.

Renzi, comunque, ha fatto, in materia istituzionale, solo metà del cammino. La metà che manca, altrettanto impegnativa, riguarda la definitiva riforma del Senato. I suoi avversari possono ancora impallinarlo, bloccando quella riforma. In tal caso, la vittoria ottenuta da Renzi con l’Italicum sarebbe di fatto neutralizzata, annullata. È la ragione per cui continuo a ritenere sia stata sbagliata la rottura con Berlusconi. Si è persa la possibilità di disporre di una maggioranza ampia, sicura, confortevole, per riformare in tutta tranquillità il Parlamento. Se Renzi, però, batterà gli avversari anche sul Senato, allora potremo dire che, grazie al combinato disposto Italicum più fine del bicameralismo paritetico, egli avrà fatto davvero la «Grande Riforma» di cui si è parlato inutilmente per decenni, egli avrà cambiato su un punto decisivo l’impianto costituzionale: avrà tolto di mezzo quel meccanismo di «contrappesi senza pesi» (governi istituzionalmente deboli accerchiati da una pluralità di forti poteri di veto) costruito dai costituenti in coerenza con la propria allergia per i governi forti, per gli esecutivi che dominano i Parlamenti anziché esserne dominati.

Se le opposizioni non riusciranno a fermare Renzi neppure sul Senato, allora dovranno rifare molti conti. Nulla ha più successo del successo. Se Renzi vincerà su tutta la linea, nella stessa minoranza del Pd, oggi in rotta di collisione con il premier, ci saranno probabilmente ripensamenti e riposizionamenti. È persino possibile che certi suoi esponenti, a quel punto, scoprano improvvisamente di essere sempre stati («in fondo in fondo») renziani.

Ma anche le altre opposizioni dovranno, fra un’invettiva e l’altra, trovare il tempo per mettersi a pensare. L’Aventino, il fascismo. Ecco come si fa a banalizzare pagine serie e tragiche di storia patria: è sufficiente evocarle a sproposito. Non c’è nessun fascismo. E uscire dall’Aula al momento del voto per tenere compatto il proprio gruppo è del tutto legittimo ma non ha niente a che fare con l’Aventino. È proprio perché Renzi sta rafforzando, con le sue riforme, la posizione del governo all’interno del sistema politico che diventa necessaria, anzi vitale, l’emergere di una opposizione seria, non velleitaria.

Il rischio più grave che corre l’Italia in questa fase storica è di avere, al tempo stesso, un governo che si irrobustisce e un’opposizione che diventa sempre più debole, che si riduce a una confusa congrega di individui politicamente impotenti, agitatissimi e fastidiosamente urlanti proprio perché politicamente impotenti.

Se un’opposizione seria ci fosse, oppure si (ri)formasse, il premier dovrebbe avere timore: dopo un anno e mezzo di governo, infatti, ancora non si è vista una vigorosa ripresa dell’economia. Se avesse di fronte a sé una siffatta opposizione, Renzi dovrebbe cominciare a preoccuparsi. È proprio a questo, a preoccupare i governi, che servono le opposizioni serie.

7 maggio 2015 | 10:26
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_maggio_07/governo-che-si-rafforza-l-assenza-dell-opposizione-78426472-f489-11e4-83c3-0865d0e5485f.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Forza Italia Il destino bloccato di un partito
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2015, 04:28:08 pm
Forza Italia
Il destino bloccato di un partito

Di Angelo Panebianco

Il buon risultato del Partito democratico nel Trentino e, insieme, la débâcle di Berlusconi e i successi dei 5 Stelle e della Lega, sono musica soave per le orecchie di Matteo Renzi. Confermano ciò che già si sapeva, ossia che, in assenza di un’opposizione credibile, egli è attualmente, e lo sarà probabilmente, per molto tempo, imbattibile, inaffondabile.
Il punto decisivo, naturalmente, è lo stato comatoso di Forza Italia. Si tratta di un partito in cui il declino del carisma del fondatore ha aperto la strada a una miriade di conflitti fra i notabili che si disputano pezzi di eredità, che litigano per assicurarsi porzioni di territorio dell’antico regno: un partito che anche per questo (ma non solo per questo) non è più in grado di attrarre gli elettori di centrodestra. Ai partiti carismatici nei quali il carisma del leader si indebolisce o evapora, accade più o meno ciò che accade agli «Stati falliti» (come la Libia): i signori della guerra cominciano a scannarsi fra loro e ciò continua fin quando non arriva qualcuno, più potente o abile, a sottometterli con la forza.

Forza Italia è, al momento, un partito «bloccato», non può vivere né con né senza Berlusconi. Da un lato, non può farne a meno perché lui è il fondatore e solo lui può decidere se e quando tirarsi fuori. E anche perché, pur essendo la stella di Berlusconi offuscata, egli resta comunque l’unico leader che possa ancora fare presa su settori dell’elettorato conservatore: qualcuno che riesca a prenderne il posto non è ancora emerso. D all’altro lato, è ormai nella consapevolezza generale che il vecchio leader non sia più in grado di calamitare i consensi di un tempo. In questo modo, però, molti italiani si trovano privi di riferimento politico. Sono costretti a dividersi fra chi sceglie (provvisoriamente?) Renzi, chi sceglie l’astensione, e chi si fa ammaliare da coloro che urlano più forte, Grillo e Salvini.

Ma poiché Berlusconi resta, nonostante tutto, molte spanne al di sopra degli altri politici di centrodestra, sembra anche il solo ancora capace di intuizioni giuste: tale potrebbe essere l’idea di dare vita a un Partito repubblicano (ispirato ai conservatori americani). Solo che non basta creare un contenitore nuovo. Occorre anche rinnovare la leadership. E la leadership, a sua volta, non può essere rinnovata senza un rinnovamento delle idee. Il Foglio rilevava correttamente ieri quanto sia ottuso, ad esempio, da parte di esponenti di Forza Italia, l’accodarsi (col solo scopo di dar fastidio al governo Renzi) alla sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni. Non è ottuso solo perché quella sentenza calpesta una legge del governo Monti a suo tempo votata da Forza Italia. Lo è anche perché impedisce a Forza Italia (o al Partito repubblicano in fieri) di adottare una piattaforma politica coerente. Non puoi, ad esempio, puntare, come un Partito repubblicano degno del nome dovrebbe fare, alla riduzione drastica delle tasse e, contemporaneamente, applaudire una sentenza che colpisce i conti pubblici, rischia di far lievitate le tasse, o comunque di bloccarne la riduzione, e può piacere, pertanto, solo agli statalisti, non a dei liberali anti tasse (ammesso che siano tali davvero e non per finta). Ha ragione probabilmente Antonio Martino, economista liberale e uno dei fondatori di Forza Italia, quando ritiene che il rilancio potrebbe avvenire solo intorno a una piattaforma politica centrata sull’idea del superamento della tassazione progressiva e dell’introduzione della flat tax (non importa quanto guadagni: tolta la fascia dei più poveri, esentati dalle tasse, il prelievo fiscale dovrebbe essere una percentuale x uguale per tutti). Se diventasse qualcosa di diverso da uno slogan ma un progetto politico coerente, fattibile, e pertanto credibile nel giudizio degli elettori, avrebbe anche, probabilmente, effetti dirompenti, avrebbe la capacità di calamitare i consensi di mezzo Paese. Se fosse poi davvero adottata, la flat tax accentuerebbe le disuguaglianze (per questa ragione può essere proposta solo da destra, non da sinistra) ma avrebbe anche, assai plausibilmente, la capacità di innescare una crescita economica vigorosa, forse anche, nel tempo, spettacolare. Poiché, a quanto si è letto, anche Salvini sembrerebbe orientato ad adottare una simile proposta, questo potrebbe diventare un motivo di convergenza fra una Forza Italia rinnovata e la Lega.

C’è un ampio elettorato di centrodestra che al momento si sente politicamente orfano, non rappresentato. Ma può essere riconquistato se gli si presentano nuovi leader e nuove idee. Se ciò accadesse, Renzi troverebbe subito pane per i suoi denti e, per vincere, dovrebbe faticare molto di più di quanto non fatichi oggi.

13 maggio 2015 | 09:32
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Titolo: Angelo PANEBIANCO. Bene e male, quella linea incerta
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2015, 10:06:29 am
Medio Oriente
Bene e male, quella linea incerta
Noi europei e il medio Oriente: decidere quale sia l’interesse che a noi europei (come gruppo di Stati o come Stati singoli) conviene perseguire non è sempre facile

Di Angelo Panebianco

C’è stato un tempo, il tempo della Guerra fredda, in cui gli amici e i nemici, il bene e il male erano facilmente riconoscibili. Una volta presa la decisione fondamentale (stare con i democratici occidentali oppure con i comunisti sovietici) tutto discendeva di conseguenza. Era un mondo «semplice», chiaro e limpido sotto il profilo morale, ove si sapeva sempre da che parte stare, ove era sempre evidente dove fossero ubicati il bene e il male. Ed era anche un mondo in cui ciascuno era in grado di calcolare, per lo meno all’ingrosso, il proprio interesse.

Oggi non è più così. Si guardi all’atteggiamento di noi europei di fronte all’intricatissima situazione del Medio Oriente. Non solo il bene e il male si confondono ogni giorno, non è possibile distinguerli, ma anche decidere quale sia l’interesse che a noi europei (come gruppo di Stati o come Stati singoli) conviene perseguire non è sempre facile. In molti casi ci troviamo di fronte a scelte che hanno contemporaneamente un lato luminoso e un lato oscuro, che sono segnate da un’ineliminabile ambiguità. Ad esempio, come ha scritto giustamente Franco Venturini sul Corriere di ieri, gli europei dovrebbero fare pressione sull’Egitto del generale Al-Sisi perché la condanna a morte dell’ex presidente Morsi non venga eseguita (probabilmente non lo sarà. Al-Sisi non è uno sciocco, non ha interesse a suscitare l’ostilità della comunità internazionale). M a al tempo stesso è un fatto che non possiamo dare alla società egiziana l’impressione di parteggiare per i Fratelli musulmani, un errore che gli occidentali commisero (alienandosi molte simpatie fra gli egiziani) quando Morsi era ancora al potere. E sempre a proposito dell’Egitto: i regimi militari nati da colpi di Stato sono sicuramente una gran brutta cosa ma sono anche peggiori dello Stato autoritario islamico che il maldestro Morsi a un certo punto tentò di imporre nel suo Paese? Dove stanno il bene e il male?

Oppure prendiamo il caso di Saddam Hussein e di Gheddafi. Fu una buona cosa spazzare via due regimi sanguinari o era meglio lasciarli al potere tenuto conto di ciò che ne è seguito sia in Iraq che in Libia? E c’è poi il caso del dittatore siriano Assad. C’è chi pensa che convenisse, e che convenga tuttora, all’Occidente impegnarsi per abbatterlo, tenuto conto di quante cose tremende quel dittatore ha fatto al suo stesso popolo. Sì, ma dopo? Anche ammesso (e non concesso) che fosse stato possibile mandare al potere in Siria uomini ragionevoli anziché fanatici, anziché estremisti islamici, come saremmo riusciti, ad esempio, ad assicurare protezione a quella minoranza cristiana che in Siria sta con Assad perché teme le persecuzioni che seguirebbero a una eventuale vittoria sunnita? E l’elenco non è finito. È chiaramente nel nostro più vitale interesse colpire con la massima durezza lo Stato islamico (ex Isis), indebolirlo militarmente e fare in modo che il mito del Califfato prima o poi si appanni e si sgonfi, che il suo carisma smetta di eccitare e di attrarre giovani islamici da ogni parte del mondo. Ma per perseguire questo vitale interesse abbiamo forse anche bisogno di rendere esplicita, consolidandola, l’alleanza militare fino ad oggi implicita, di fatto, con Assad di Siria e con l’Iran (sciita)? C’è il rischio che un’alleanza esplicita di tal fatta faccia pagare a noi occidentali costi molto elevati. I sunniti (che sono la netta maggioranza nel mondo islamico) diventerebbero ancora più ostili di quanto già oggi non siano nei confronti degli occidentali laddove questi risultassero anche formalmente alleati con i loro arci-nemici sciiti.

Anche la trattativa con l’Iran per il nucleare ha il suo lato oscuro. È una trattativa ragionevole se riesce a ritardare nel tempo l’avvento di un Medio Oriente nucleare (quando l’Iran si doterà della bomba, l’Arabia Saudita, l’Egitto, e forse anche altri, seguiranno immediatamente). Ma non è ragionevole se contribuisce a spezzare i residui esili fili fra gli occidentali e le potenze sunnite.

E ancora: forse abbiamo fatto bene a tenere la Turchia, con i suoi ottanta milioni di musulmani, fuori dall’Europa. Ma, forse, il prezzo di una Turchia in via di accelerata ri-islamizzazione (quanto sta oggi accadendo), impegnata a sostenere l’islamismo politico ovunque esso si trovi (per esempio, in Libia) è, per gli europei, ancor più salato.

Come si vede, non solo il bene e il male si confondono, ma la stessa definizione di quali siano i nostri interessi in una così complicata vicenda è difficile da stabilire. Alla fin fine, forse, possiamo dire che in Medio Oriente gli europei dovrebbero avere, oltre diversi obiettivi pragmatici, da definire e ridefinire giorno per giorno (si tratti di business, rifornimenti energetici, controllo dei flussi migratori, contenimento delle minacce terroriste, eccetera), due soli obiettivi duraturi e irrinunciabili, due soli obiettivi che possiamo chiamare «di civiltà», collegati alla storia e alla identità europee e occidentali: fare il possibile perché non avvenga mai una seconda Shoah (quella distruzione di Israele che continua ad essere sognata e invocata da tanti musulmani in Medio Oriente) e proteggere le minoranze cristiane colpite dalla violenza dei fondamentalisti islamici.

Al primo ministro britannico ottocentesco Benjamin Disraeli è attribuita l’affermazione secondo cui le nazioni non hanno amici o nemici stabili ma solo interessi permanenti. Forse è così. Ma non sempre si riesce a capire come soddisfarli.

18 maggio 2015 | 08:57
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_18/medio-oriente-bene-male-linea-incerta-0d127de0-fd1c-11e4-b490-15c8b7164398.shtml


Titolo: PANEBIANCO. Le tre ragioni che preoccupano il centrosinistra
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2015, 10:53:22 pm
Le previsioni azzardate
Dall’analisi del voto le tre ragioni che preoccupano il centrosinistra


Di Angelo Panebianco

Anche se in Italia invitare alla prudenza contro la pretesa di trarre da elezioni regionali indicazioni sulle future elezioni politiche è, per lo più, un’impresa inutile, proviamoci ugualmente, non si sa mai. Ci sono almeno tre ragioni per diffidare di siffatte indicazioni e previsioni. La prima riguarda il numero dei votanti. Con il 52,2 per cento dei voti queste elezioni hanno registrato un elevato astensionismo. È difficile che alle prossime consultazioni politiche la percentuale dei votanti resti così bassa (se non altro perché la posta in gioco sarà diversa, e più alta, di quella regionale). S e salirà significativamente, vorrà dire che quella parte, rilevante, dell’elettorato detto moderato, poco portato verso le varie forme di estremismo, che è oggi rimasta a casa, sarà andata a votare. Se ciò accadrà, plausibilmente, le percentuali di voti dei partiti più estremi si ridurranno. Tutto dipenderà dalle offerte politiche che Renzi da un lato e ciò che oggi continua a ruotare intorno a Berlusconi dall’altro lato, saranno in grado di offrire agli elettori. È improbabile, ad esempio, che i 5 Stelle, contrariamente a ciò che qualcuno ha ipotizzato, possano domani andare al ballottaggio contro Renzi in elezioni politiche nazionali. È forse sufficiente, perché ciò non si verifichi, che salga in modo significativo la percentuale dei votanti.

La seconda ragione per tenersi alla larga da previsioni azzardate ha a che fare con la fondamentale regola di saggezza secondo cui è vietato confrontare mele e pere. Regge assai poco il confronto fra le Europee dello scorso anno e le Regionali di oggi, fra una elezione tutta giocata sulla leadership di Renzi e elezioni regionali in cui sia le facce dei candidati in lizza (vedi, ad esempio, fra i vincenti, Emiliano e De Luca) sia i risultati conseguiti o non conseguiti nella passata gestione, contano quanto, se non più, delle leadership nazionali. Al netto delle divisioni entro la sinistra, chi ha perso in Liguria? Renzi oppure chi ha gestito la Regione nel decennio precedente? Per lo meno, possiamo dire che se Renzi vinse le Europee tutto da solo, in Liguria ha perso in buona e folta compagnia. Per la stessa regola di saggezza si eviti di accostare troppo disinvoltamente elezioni fra loro così diverse come le Regionali e le Politiche. Fare finta che i risultati di elezioni locali non siano fortissimamente influenzati da motivi locali è sbagliato, frutto di un pregiudizio ipercentralista secondo il quale tutto ciò che accade in giro per l’Italia è solo un riflesso di ciò che accade a Roma.

La terza ragione ha a che fare con le differenze di sistema elettorale. Se alle prossime Politiche si voterà con l’Italicum e se non potrà essere aggirata la regola che vieta le coalizioni (già ora si sente parlare di listoni, un modo per far rientrare dalla finestra quelle coalizioni che sono state vietate dalla legge), si giocherà con regole assai diverse da quelle delle Regionali, e anche delle precedenti elezioni politiche. Se non ci saranno coalizioni, allora anche l’attuale auto-incoronazione di Matteo Salvini quale leader del centrodestra non significherà molto. Perché ciascuno dovrà giocare per sé. E se gli astensionisti di centrodestra (quelli che già si astennero alle Politiche precedenti) ritorneranno in campo attirati da una buona offerta politica, la partita a destra diventerà apertissima.
In linea di principio, il ballottaggio favorisce le formazioni centriste. Ma perché ciò accada occorre che, per lo meno, tali formazioni esistano. C’è già oggi il (centro)sinistra, il Pd di Renzi. Manca ancora un (centro)destra con una rinnovata capacità di attrazione. Chi metterà mano alla sua ricostruzione dovrà affrontare un difficile problema: se è vero infatti che, con l’Italicum, ciascuno correrà per sé, è anche vero che le due principali formazioni di destra (Lega e ex Forza Italia) non potranno comunque esasperare troppo la loro competizione politica. Chi andrà al ballottaggio dovrà poter contare, al secondo turno, sugli elettori della parte esclusa. Ciò significa che, anche senza formare una coalizione, le varie anime del centrodestra dovranno cercare un punto di mediazione. È un’operazione difficile: come si fa, ad esempio, a mettere insieme il no all’euro di Salvini e il sì all’euro della destra moderata? C’è chi pensa che Salvini abbia la duttilità necessaria per fare la richiesta convergenza al centro e c’è chi pensa che non potrà permetterselo. Ma non dipenderà solo da lui. Dipenderà anche dalla forza o dalla debolezza dei suoi interlocutori.

3 giugno 2015 | 07:59
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Titolo: Angelo PANEBIANCO. Medio Oriente Bene e male, quella linea incerta
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2015, 05:51:10 pm
Medio Oriente
Bene e male, quella linea incerta
Noi europei e il medio Oriente: decidere quale sia l’interesse che a noi europei (come gruppo di Stati o come Stati singoli) conviene perseguire non è sempre facile

Di Angelo Panebianco

C’è stato un tempo, il tempo della Guerra fredda, in cui gli amici e i nemici, il bene e il male erano facilmente riconoscibili. Una volta presa la decisione fondamentale (stare con i democratici occidentali oppure con i comunisti sovietici) tutto discendeva di conseguenza. Era un mondo «semplice», chiaro e limpido sotto il profilo morale, ove si sapeva sempre da che parte stare, ove era sempre evidente dove fossero ubicati il bene e il male. Ed era anche un mondo in cui ciascuno era in grado di calcolare, per lo meno all’ingrosso, il proprio interesse.

Oggi non è più così. Si guardi all’atteggiamento di noi europei di fronte all’intricatissima situazione del Medio Oriente. Non solo il bene e il male si confondono ogni giorno, non è possibile distinguerli, ma anche decidere quale sia l’interesse che a noi europei (come gruppo di Stati o come Stati singoli) conviene perseguire non è sempre facile. In molti casi ci troviamo di fronte a scelte che hanno contemporaneamente un lato luminoso e un lato oscuro, che sono segnate da un’ineliminabile ambiguità. Ad esempio, come ha scritto giustamente Franco Venturini sul Corriere di ieri, gli europei dovrebbero fare pressione sull’Egitto del generale Al-Sisi perché la condanna a morte dell’ex presidente Morsi non venga eseguita (probabilmente non lo sarà. Al-Sisi non è uno sciocco, non ha interesse a suscitare l’ostilità della comunità internazionale). M a al tempo stesso è un fatto che non possiamo dare alla società egiziana l’impressione di parteggiare per i Fratelli musulmani, un errore che gli occidentali commisero (alienandosi molte simpatie fra gli egiziani) quando Morsi era ancora al potere. E sempre a proposito dell’Egitto: i regimi militari nati da colpi di Stato sono sicuramente una gran brutta cosa ma sono anche peggiori dello Stato autoritario islamico che il maldestro Morsi a un certo punto tentò di imporre nel suo Paese? Dove stanno il bene e il male?

Oppure prendiamo il caso di Saddam Hussein e di Gheddafi. Fu una buona cosa spazzare via due regimi sanguinari o era meglio lasciarli al potere tenuto conto di ciò che ne è seguito sia in Iraq che in Libia? E c’è poi il caso del dittatore siriano Assad. C’è chi pensa che convenisse, e che convenga tuttora, all’Occidente impegnarsi per abbatterlo, tenuto conto di quante cose tremende quel dittatore ha fatto al suo stesso popolo. Sì, ma dopo? Anche ammesso (e non concesso) che fosse stato possibile mandare al potere in Siria uomini ragionevoli anziché fanatici, anziché estremisti islamici, come saremmo riusciti, ad esempio, ad assicurare protezione a quella minoranza cristiana che in Siria sta con Assad perché teme le persecuzioni che seguirebbero a una eventuale vittoria sunnita? E l’elenco non è finito. È chiaramente nel nostro più vitale interesse colpire con la massima durezza lo Stato islamico (ex Isis), indebolirlo militarmente e fare in modo che il mito del Califfato prima o poi si appanni e si sgonfi, che il suo carisma smetta di eccitare e di attrarre giovani islamici da ogni parte del mondo. Ma per perseguire questo vitale interesse abbiamo forse anche bisogno di rendere esplicita, consolidandola, l’alleanza militare fino ad oggi implicita, di fatto, con Assad di Siria e con l’Iran (sciita)? C’è il rischio che un’alleanza esplicita di tal fatta faccia pagare a noi occidentali costi molto elevati. I sunniti (che sono la netta maggioranza nel mondo islamico) diventerebbero ancora più ostili di quanto già oggi non siano nei confronti degli occidentali laddove questi risultassero anche formalmente alleati con i loro arci-nemici sciiti.

Anche la trattativa con l’Iran per il nucleare ha il suo lato oscuro. È una trattativa ragionevole se riesce a ritardare nel tempo l’avvento di un Medio Oriente nucleare (quando l’Iran si doterà della bomba, l’Arabia Saudita, l’Egitto, e forse anche altri, seguiranno immediatamente). Ma non è ragionevole se contribuisce a spezzare i residui esili fili fra gli occidentali e le potenze sunnite.

E ancora: forse abbiamo fatto bene a tenere la Turchia, con i suoi ottanta milioni di musulmani, fuori dall’Europa. Ma, forse, il prezzo di una Turchia in via di accelerata ri-islamizzazione (quanto sta oggi accadendo), impegnata a sostenere l’islamismo politico ovunque esso si trovi (per esempio, in Libia) è, per gli europei, ancor più salato.

Come si vede, non solo il bene e il male si confondono, ma la stessa definizione di quali siano i nostri interessi in una così complicata vicenda è difficile da stabilire. Alla fin fine, forse, possiamo dire che in Medio Oriente gli europei dovrebbero avere, oltre diversi obiettivi pragmatici, da definire e ridefinire giorno per giorno (si tratti di business, rifornimenti energetici, controllo dei flussi migratori, contenimento delle minacce terroriste, eccetera), due soli obiettivi duraturi e irrinunciabili, due soli obiettivi che possiamo chiamare «di civiltà», collegati alla storia e alla identità europee e occidentali: fare il possibile perché non avvenga mai una seconda Shoah (quella distruzione di Israele che continua ad essere sognata e invocata da tanti musulmani in Medio Oriente) e proteggere le minoranze cristiane colpite dalla violenza dei fondamentalisti islamici.

Al primo ministro britannico ottocentesco Benjamin Disraeli è attribuita l’affermazione secondo cui le nazioni non hanno amici o nemici stabili ma solo interessi permanenti. Forse è così. Ma non sempre si riesce a capire come soddisfarli.

18 maggio 2015 | 08:57
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_18/medio-oriente-bene-male-linea-incerta-0d127de0-fd1c-11e4-b490-15c8b7164398.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I compiti che l’Europa deve fare
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2015, 11:12:18 pm
I compiti che l’Europa deve fare
Il nuovo patto confederale per far ripartire l’Unione

Di Angelo Panebianco

Né con te né senza di te: forse si può riassumere così l’attuale atteggiamento della maggioranza degli europei verso l’Unione: da un lato, c’è l’insofferenza per ciò che l’Unione europea è, per i suoi vistosi limiti e difetti; dall’altro lato, c’è il timore di ciò che potrebbe capitarci se l’Unione improvvisamente si disgregasse. Vero, ci sono anche quelli che hanno tradotto l’insofferenza per l’Unione in un programma d’azione antieuropeo, che pensano che dell’Unione possiamo fare a meno, persone che seguono movimenti politici che rivendicano il ritorno alle sovranità nazionali. Sono tanti in Europa, forse anche in crescita, ma sono ancora lontani, secondo i sondaggi, dall’essere maggioranza. Più o meno oscuramente, tanti europei, comunque, comprendono che in un mondo di colossi non si compete mantenendo le «taglie», demografiche, economiche e politiche, dei vecchi Stati europei: sarebbe come se (accadde di frequente ai tempi della colonizzazione europea) piccole tribù con archi e frecce si scontrassero contro grandi eserciti dotati di cannoni e mitragliatrici.

Persino Marine Le Pen non riesce a essere convincente quando rivendica il ritorno alla sovranità, nonostante che ella stia parlando della Francia, dello Stato-nazione meglio strutturato e organizzato che la storia europea abbia espresso. Figurarsi poi quando la rivendicazione di ritorno alla sovranità è invocata dai movimenti antieuropeisti vocianti all’interno delle «pulci», gli staterelli europei. O anche dell’Italia, che pulce non è: la Lega di Matteo Salvini, ad esempio, che contrasta l’euro e invoca il ritorno alla sovranità, non fa i conti con la cronica debolezza dello Stato-nazione italiano. Se il protezionismo economico (statal-nazionale) invocato dai movimenti anti-euro è insostenibile per tutti, nel caso italiano ci sono anche buone ragioni geopolitiche per evitare il «faccio da sola, grazie»: hanno a che fare con le turbolenze mediterranee. Se bastasse sigillare le frontiere per tenersi al riparo dai guai, allora vivremmo da un pezzo in un mondo stabile e pacifico.

Se dunque, quando si parla di Europa, il «senza di te» non è praticabile, bisogna però anche aggiungere che una sorte migliore non arride al «con te», checché ne pensino certi europeisti un po’ acritici. Ha ragione Francesco Giavazzi (Corriere, 5 giugno): ma come è possibile che, mentre nel mondo accade di tutto, l’Europa, da cinque anni, sia inchiodata a parlare quasi esclusivamente di Grecia? Per giunta, occupandosene in un modo che oscilla fra l’ipocrita e il patetico: pretendendo dai greci una modernizzazione dell’economia (proposte «assurde», ribadisce l’ineffabile primo ministro Tsipras), che la società greca, a maggioranza, non ha mai avuto intenzione di fare? Forse è il caso di dire basta e cominciare a parlar d’altro.

Giavazzi ritiene che se proprio vogliamo tener dentro una Grecia che ha scelto di non modernizzarsi pagandone (noi europei) il prezzo, dovremmo farlo solo per ragioni geopolitiche, essendo quello un Paese cerniera fra Europa e Medio Oriente. In teoria, Giavazzi ha ragione. In pratica, questa Europa, in virtù della sua storia pregressa, ha sviluppato una particolare sordità di fronte alle più stringenti necessità geopolitiche. Come dimostra anche la sua incapacità di creare una politica comune dell’immigrazione.

Contrariamente a quanto si aspettava l’europeismo tradizionale, l’integrazione economica non è stata affatto un viatico o un facilitatore dell’integrazione politica. La prova sta nella rinascita dei nazionalismi e nel condizionamento che essi esercitano su tutte le classi politiche europee. Servirebbe un nuovo «patto europeo» da proporre alle opinioni pubbliche con la giusta enfasi ma senza fumosità e ipocrisie, fondato sulla chiarezza dei propositi. Insieme a uomini politici dotati di coraggio e di visione. Servirebbe un nuovo patto perché quello su cui è stata edificata l’Europa in oltre mezzo secolo si è irreparabilmente usurato, e fare finta che non sia così rischia di portarla alla distruzione. Occorre che agli europei venga offerta la possibilità di dare vita a un accordo confederale (come ce ne sono stati tanti nella storia del mondo): si mettono in comune poche cose cruciali (moneta, controllo dei confini mediante la regolamentazione dei flussi, trattati internazionali), senza troppa retorica, per ragioni di pura convenienza, convincendo le opinioni pubbliche che i Paesi europei, andando ciascuno per suo conto, non potrebbero fronteggiare le dure condizioni della competizione internazionale. Si lascia contemporaneamente la gestione di tutto il resto ai singoli Stati, nel rispetto di identità antiche, forgiate dalla storia, non cancellabili con un burocratico tratto di penna. Sarebbe anche necessario un nuovo trattato per riorganizzare la macchina dell’Unione, per ridefinirne compiti e funzioni. Persino Angela Merkel, persona prudente ma politica di razza, dovrà prima o poi capire che occorre un salto di qualità.

C’è stato un tempo in cui l’Europa aveva un tale prestigio che poteva «vendere» qualunque cosa a chiunque. Allora, ad esempio, avrebbe potuto persino far credere a tanti che uno come l’attuale presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, fosse un «grande leader europeo». Quell’epoca è finita. Prima lo si capisce e prima diventerà possibile inventarsi una nuova offerta politica.

8 giugno 2015 | 07:56
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_08/i-compiti-che-l-europa-deve-fare-661c0094-0d9f-11e5-9908-1dd6c96f23f8.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Retorica e illusioni La politica che manca all’Europa
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2015, 05:04:18 pm
Retorica e illusioni
La politica che manca all’Europa

Di Angelo Panebianco

Da decenni, con un’accelerazione dopo il varo della moneta unica, tanti invocano l’integrazione politica come panacea dei mali d’Europa. C’è del giusto. Non appare sostenibile la moneta unica in assenza di una «sintesi politica», di un sistema di governo. Semplice buon senso. In questi ragionamenti, però, c’è sempre stato anche qualcosa di poco convincente. Non è chiaro se chi invoca l’integrazione politica si renda pienamente conto delle implicazioni. Si ha l’impressione che molti la immaginino come una specie di assemblea di quartiere «in grande», nella quale si formano disciplinate maggioranze che decidono sulle proposte della giunta di quartiere su come ripartire oneri e vantaggi. Non c’è mai stato niente di più «spoliticizzato» della concezione della politica prevalente in quei commenti. Per ragioni che attengono alla storia dell’integrazione europea, l’idea di politica che vi è stata appiccicata sopra è quella che poteva inventarsi (con l’interessata complicità dei governi) un club di tecnocrati convinti che le decisioni che contano dovessero essere prese all’interno del club medesimo: gente educata e preparata che pacatamente discute del bene comune. Il popolo, poi, null’altro avrebbe dovuto fare che avallare le lungimiranti decisioni.
Niente di più lontano da ciò che la politica è: conflitti di potere in cui si consumano ambizioni personali e di gruppo, e scontri frontali, e spesso feroci, fra contrapposte visioni di ciò che è collettivamente bene o male. L a politica, quella vera, si fonda sul principio dell’inclusione e dell’esclusione sulla base di criteri predefiniti (tu sei dentro e tu sei fuori) e ha un rapporto intimo, e inesorabile, con l’uso della forza. C’è una spiegazione del perché la concezione della politica prevalente sia stata quella del suddetto club di tecnocrati. Era l’idea di politica propria di un’Europa che non contava politicamente più nulla.
Quando l’integrazione europea mosse i primi passi, negli anni Cinquanta, e ancora nei decenni successivi, l’Europa era divisa fra sfere di influenza, dipendeva dalle superpotenze. È parte della retorica europeista la bugia secondo cui gli europei decisero di mettersi insieme perché non volevano più farsi la guerra come era avvenuto per secoli. Invece, gli europei si misero insieme perché non potevano più farsi la guerra: non erano più il centro del mondo, ora dipendevano dagli americani e dai russi. Poiché la politica (in quel suo aspetto fondamentale che riguarda le decisioni su guerra e pace e sull’uso della coercizione) era competenza delle superpotenze, poiché l’Europa era ormai solo spettatrice delle gare di potenza, ne derivò una concezione irrealistica, distorta, di ciò che avrebbe significato, nei decenni a venire, unificarla politicamente.
Ora le illusioni dovrebbero essere cadute. Se era comprensibile fino a qualche anno fa che si pensasse all’integrazione nei termini sopra descritti, adesso che la politica, quella vera, è venuta a cercarci, diventa colpevole insistere.
Altro che Grecia. Che fare con la Russia o con le popolazioni in movimento dall’Africa e dal Medio Oriente, o con lo tsunami dell’estremismo islamico? Che fare insomma con i grandi nodi geopolitici?
Sulla Russia, ad esempio, gli europei hanno adottato una posizione comune (le sanzioni) ma una parte di loro la subisce, si è dovuta inchinare di malavoglia a ciò che resta della leadership americana. Ma quella parte d’Europa è anche pronta, se potrà, ad accordarsi con lo zar delle Russie. Ma una cosa è dire che della collaborazione dei russi abbiamo bisogno (per esempio, in Medio Oriente), una cosa diversa è aspettare l’occasione per normalizzare i rapporti con loro fingendo che, dall’occupazione della Crimea in poi, nulla sia successo. Che razza d’Europa hanno in mente coloro che, ragionando solo di esportazioni e importazioni, pensano sia possibile una rinnovata partnership con Putin alle condizioni di quest’ultimo? È il solito vuoto, il solito «nulla politico», di cui in Europa esistono fior di cultori e specialisti.
Sull’immigrazione si è scatenata una competizione di stampo nazionalista fra i Paesi europei. Renzi, nell’intervista di ieri al “Corriere”, ha sostenuto con ragione che dobbiamo battere i pugni in Europa e che lo stiamo facendo. Ma è un fatto che i vari governi europei, pronti a lasciare l’Italia nelle peste, non sono «cattivi», sono pressati da opinioni pubbliche che pretendono argini contro i flussi migratori. E in democrazia, ciò che vogliono le opinioni pubbliche è «legge» per i governi. Nulla meglio dell’incapacità di elaborare una politica comune dell’immigrazione illustra quanto ingenue siano sempre state le idee prevalenti sulla «integrazione politica».
C’è qualcosa che si può fare? Sì, ma occorre tempo. Si elimini per sempre, quando si parla di Europa, qualunque riferimento alla parola «Stato» o simili: non ci sarà mai nessuno Stato europeo e genera crisi di rigetto il solo accennarvi. Come la Lega anseatica, la confederazione di città mercantili tedesche del tardo Medio Evo, abbiamo bisogno di mettere in comune poche cose e dobbiamo spiegarlo bene agli europei: niente superstato, niente scavalcamento (se non per il poco che è indispensabile) delle democrazie nazionali, solo un ristretto insieme di decisioni comuni per fronteggiare le più insidiose sfide esterne.
Abbiamo effettivamente bisogno di politica. Ma anche di sapere di che cosa stiamo parlando.

15 giugno 2015 | 08:26
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_15/politica-che-manca-all-europa-2babcfa4-131f-11e5-8f7b-8677cfd62f52.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO Perché la paura sta diventando cattiva consigliera dell’Europa
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2015, 09:41:48 am
La forza degli elettori
Perché la paura sta diventando cattiva consigliera dell’Europa

Di Angelo Panebianco

In questo drammatico finale di partita è forte e fondato il timore che i greci possano fare scuola, essere imitati da altri in giro per l’Europa. Più in generale, è giusto essere preoccupati constatando quanto siano ormai diffusi i sentimenti antieuropei. È anche lecito spaventarsi di fronte alla disinvoltura con cui i vari movimenti anti-Europa diffondono slogan sulla necessità di «uscire dall’euro», invocano virili «recuperi della sovranità nazionale», eccetera. Come se quella fosse la strada che può condurci verso un radioso futuro. M a una volta denunciata la superficialità di molti argomenti degli antieuropeisti, sarà anche il caso di domandarsi - vicenda greca a parte - se i comportamenti dell’Unione non abbiano qualcosa a che fare con i loro successi. Antonio Polito sul Corriere (30 giugno) ha giustamente osservato che se i capi dell’Unione non cambiano, non capiscono che esiste ormai una «sfera pubblica» europea e che bisogna coinvolgere i cittadini, sarà la rovina. Ma quei capi saranno capaci di cambiare?

I precedenti non sono incoraggianti. Dieci anni fa, un trattato che doveva mettere un po’ d’ordine nelle normative europee venne dapprima battezzato, con una formula ambigua, «trattato costituzionale» dagli europeisti più ortodossi. Non contenti, subito dopo, costoro rilanciarono decidendo che il suddetto trattato dovesse essere considerato, a tutti gli effetti, una «costituzione». Si decise insomma di raccontare agli europei che essi stavano per avere una nuova costituzione. Si aggiunse anche che la suddetta carta, tranne in alcuni casi (come la Francia), sarebbe stata ratificata dai Parlamenti nazionali. In deferente osservanza - così dissero - delle regole della democrazia. Alcuni, compreso chi scrive, si permisero di osservare che se il suddetto trattato era solo un trattato, allora andava benissimo farlo ratificare dai Parlamenti, ma se si trattava - come si stava millantando - di una costituzione, allora bisognava obbligatoriamente lasciare la parola agli elettori, magari in un referendum da indire nello stesso giorno in tutti i Paesi dell’Unione. Poiché non si può dare una costituzione a un popolo (ammesso che quello europeo fosse tale) senza chiedere il suo permesso, senza mettere nelle sue mani il potere costituente. Chi di noi lo disse venne trattato da dottrinario pedante o da rompiscatole euroscettico. Sappiamo come andò a finire. Correva l’anno 2005. Nei pochi casi (Francia, Paesi Bassi) in cui agli elettori fu consentito di dire la loro, l’esito fu uno sberleffo, un clamoroso «no». Quel «no» fu anche causato dal modo maldestro, arrogante, e impolitico, con cui si pretese di travestire un trattato da costituzione. Ma la lezione non è mai stata appresa. Arroganza e impoliticità continuano a tenere banco.

C’è poco da meravigliarsi, allora, se i movimenti antieuropei dilagano. Le liti a cui abbiamo assistito e gli accordi ambigui e tortuosi sull’immigrazione ne sono, al tempo stesso, un effetto e una causa (rafforzano la convinzione di molti che l’Europa sia diventata inutile). E, sempre a proposito di impoliticità, ricordiamo che al summit della settimana scorsa fra i 28 capi di Stato è stato presentato un documento - il cui principale autore è il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker - sui passi da intraprendere per rafforzare l’Unione nei suoi aspetti economici, finanziari e di bilancio. Il testo è interessante ma c’è anche un «ma». Non avendo imparato nulla dagli errori passati, le autorità europee continuano a comportarsi come se dal parere degli elettori si possa prescindere, come se le battaglie politiche, anche quelle a favore dell’integrazione europea, non si debbano combattere davanti, e in mezzo, agli elettori, coinvolgendoli e convincendoli.

Il documento suddetto propone una serie di passi per rendere sempre più stringente l’Unione, propone di completare l’integrazione economico-finanziaria, il che ha come inevitabile corollario un’ulteriore compressione dei margini di manovra dei governi nazionali. Senza entrare nel merito della proposta (che comunque vuole rafforzare, anziché allentare, nodi e vincoli e che, per questo, ad esempio, plausibilmente, non verrà accolta con favore dalla Gran Bretagna) va detto che le autorità dell’Unione hanno il diritto di formularla. Non hanno diritto però di continuare ad ignorare l’Abc della politica democratica. Non si può venire a raccontare che un complesso processo teso a rafforzare l’integrazione incidendo significativamente sulla «costituzione materiale» dei vari Paesi dell’Unione, rispetterebbe le regole democratiche solo che venisse sostenuto e approvato dal Parlamento europeo e da quelli nazionali.

La composizione dei Parlamenti riflette le divisioni sui temi che agitavano l’agenda politica al momento delle elezioni. Non si può pensare di farli deliberare in modo tale da incidere profondamente su poteri decisionali e assetti socio-economici senza che le opinioni pubbliche siano chiamate in causa. O meglio: lo si può fare ma solo offrendo nuovi argomenti di propaganda ai movimenti antieuropei.

Sarebbe stato meglio indirlo diversi mesi fa il referendum che si terrà domani in Grecia (il quesito, di fatto, è: restare o togliere il disturbo?). Forse fuori tempo massimo, e nonostante tutto, i cittadini greci - chissà? - potrebbero dimostrarsi più saggi di quanto non siano stati fin qui i loro governanti e scegliere l’Europa con tutti gli oneri connessi. Se faranno la scelta opposta, saranno comunque - come è giusto - gli artefici del proprio destino. O almeno così sarà se il governo greco e gli altri governi prenderanno sul serio i risultati del referendum.

Gli europeisti possono perdere soprattutto perché, a differenza degli antieuropeisti, hanno paura degli elettori, hanno paura della democrazia.

Continuate così e sfascerete tutto. Non conviene.

4 luglio 2015 | 18:16
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_luglio_04/grecia-perche-paura-sta-diventando-cattiva-consigliera-dell-europa-00352efa-2266-11e5-a8a7-86b884c5fff2.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il Jobs act non basta Un’agenda per crescere davvero
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2015, 06:11:47 pm
Il Jobs act non basta
Un’agenda per crescere davvero

Di Angelo Panebianco

La cosiddetta «austerità», quell’ordine teutonico che secondo i critici più accesi la Germania avrebbe imposto a tutta l’Europa, è fin qui andata incontro a due diverse obiezioni. La prima è quella di tipo greco (almeno fino all’attuale, apparente, rinsavimento di Tsipras) e si sostanzia nella rivendicazione del diritto di espandere ad libitum la spesa pubblica. È il senso, l’unico possibile, delle polemiche contro l’austerità dei vari ammiratori europei (italiani inclusi) dell’attuale governo greco. La seconda obiezione è quella di chi chiede più margini allo scopo di fare politiche pro sviluppo (che significa, prima di tutto, tagliare le tasse là dove sia vigente un regime di tasse alte). È sperabile che sia questo, e non altro, ciò che intende il primo ministro italiano quando, come ha ripetutamente fatto in queste settimane, dichiara la sua insoddisfazione per la politica di austerità.

In realtà, non ci sarebbe nemmeno bisogno di chiedere una revisione delle politiche europee per innestare la marcia dello sviluppo se si avesse la forza per ridurre significativamente la spesa pubblica, al fine di ricavarne le risorse necessarie per diminuire la pressione fiscale. Ma poiché quella forza il governo italiano non la possiede (abbiamo visto che fine ha fatto la spending review) non resta che cercare a Bruxelles l’allentamento dei vincoli che è necessario per tagliare le tasse. Renzi è in difficoltà. I segnali di ripresa economica ci sono ma sono ancora troppo timidi. Egli rischia, tra pochi mesi, di concludere il suo secondo anno come capo di governo senza che ci sia stato un serio rilancio economico. Il Jobs act è stato un ottimo provvedimento ma da solo non basta. Possiamo immaginare una specie di «triangolo delle Bermude»: i Paesi che si trovano al suo interno, che non riescono a uscirne, non hanno possibilità di sperimentare un forte sviluppo. Il primo lato del triangolo è costituito da un regime di tasse alte; il secondo lato, da una estesissima area di intermediazione pubblica; il terzo lato, infine, da una cultura anti-impresa che permea l’amministrazione e la giurisdizione. Se così è, agire soltanto sul primo lato del triangolo (abbassare le tasse), ancorché necessario, non è sufficiente per rimettere in moto lo sviluppo. Bisogna anche agire sugli altri due lati, e qui le resistenze, sia politiche che culturali, possono essere fortissime: così forti da far considerare, al confronto, le proteste sindacali per la riforma della scuola come una timida, composta, e solo accennata, manifestazione di dissenso.

Ridurre l’area dell’intermediazione pubblica, abnormemente cresciuta nell’ultimo trentennio, è difficilissimo (e difatti, fino ad ora, non si sono visti segnali significativi che vadano in quella direzione). Ridurre la «presa» dello Stato centrale, nonché dei poteri locali, sull’economia non è soltanto una questione di contrazione della spesa. Implica anche un cambiamento nei meccanismi di regolazione pubblica, significa mettere le mani su un sistema normativo soffocante i cui controlli sulle attività dei cittadini, non soltanto economiche in senso stretto, hanno portato zero vantaggi in termini di lotta alla devianza (ogni giorno nascono nuove inchieste giudiziarie, come e più di prima) ma anche costi economici, palesi e occulti, assai alti. Si noti che se non si agisce su questo versante, se non si riduce la presenza dello Stato nella vita economica e sociale, allora anche ogni eventuale contrazione del peso fiscale non potrà che essere temporanea: presto o tardi, le necessità di finanziamento di un vorace sistema pubblico, centrale e locale, torneranno a imporsi esigendo, di nuovo, più tasse.

Il terzo lato del triangolo riguarda la cultura anti-impresa prevalente nell’amministrazione e nella giurisdizione. Qui le cose sono ancora più difficili: una mentalità anti-impresa e, al fondo, anticapitalistica, si è incistata nel corso degli anni in gangli vitali degli apparati dello Stato ed è difficile contrastarla anche perché essa può contare sul sostegno di parti importanti dell’opinione pubblica. Prendendo lo spunto dal sequestro giudiziario degli impianti di Fincantieri a Monfalcone e ricordando il grande pasticcio dell’Ilva di Taranto, Dario Di Vico ( Corriere , 1° luglio) ha innescato un salutare dibattito, che fortunatamente continua, sui rapporti fra magistratura e impresa. Di Vico ricordava che nei casi di sequestro si manifesta sempre un «asse culturale» tra la magistratura e le anime più radicali del sindacalismo. Per fortuna, il dibattito ha mostrato che ci sono magistrati consapevoli dei danni colossali per l’economia nazionale che certe azioni delle procure (ma anche, possiamo aggiungere, certe sentenze dei Tar) possono comportare. E tuttavia non è facile rimediare.

Non è facile fare in modo che i rischi di impresa siano in Italia uguali a quelli che si corrono negli altri Paesi occidentali. Non è facile impedire che, dalla sera alla mattina, azioni di sequestro mandino a gambe all’aria imprese che, senza quell’intervento, continuerebbero a competere con successo nel mercato. Difficile far nascere imprese, e anche attrarre investitori, dove la burocrazia esercita le sue consuete, tradizionali, angherie e dove, soprattutto, la libertà di impresa non è affatto garantita, dove un improvviso provvedimento di sequestro (per via giudiziaria come per via amministrativa) può condurre facilmente al fallimento.

Siamo al centro del triangolo ed è per questo che non possiamo crescere più di tanto. Chiunque riuscisse a trascinarci fuori di lì meriterebbe eterna gratitudine.

12 luglio 2015 | 09:18
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_12/ripresa-economica-troppo-timida-jobs-act-non-basta-da7a7844-285c-11e5-8e27-9292b85fb2a2.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L’interesse nazionale dimezzato
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2015, 11:45:45 am
L’interesse nazionale dimezzato

Di Angelo Panebianco

Quando l’ambiente internazionale diventa minaccioso, la classe dirigente di un Paese dovrebbe creare un fronte unito per orientare l’opinione pubblica. Ma ciò può accadere solo in un mondo ideale, lontano da quello reale. Alcuni Paesi, con una tradizione di coesione nazionale, si sono in passato avvicinati un po’ all’ideale. Altri ne sono sempre rimasti distanti. Per decenni, guardando alle nostre esasperate divisioni, certi osservatori si sono chiesti se sia mai esistito un «interesse nazionale italiano», un insieme di stabili obiettivi in relazione al mondo esterno che la classe dirigente condividesse a prescindere dai suoi conflitti.

Se la domanda è posta in questi termini la risposta deve essere affermativa: sì, esiste un interesse nazionale italiano e c’è un corpo diplomatico di buona qualità che si sforza di tutelare con continuità quell’interesse chiunque sia di volta in volta al governo. Ciò che ci ha insegnato il ventennio e passa seguito alla fine della Guerra fredda, e nel quale abbiamo sperimentato la frequente alternanza al governo di sinistra e destra, è che, a ogni cambio di maggioranza, mutano gli stili comunicativi, qualche alleanza internazionale diventa più stretta, qualche altra si allenta, ma il «cuore» della politica estera non cambia radicalmente.

Tutto bene dunque? Non proprio. Ci sono due limiti.
Il primo è che le nostre convergenze interne sulla politica estera sono spesso occulte. La classe politica disorienta l’opinione pubblica fingendo divisioni dove non ci sono, occultando le convergenze, e in definitiva vergognandosene. Facciamo tre esempi. Senza voler formulare giudizi di merito appare chiaro che Renzi, Berlusconi e Salvini (ma probabilmente anche Vendola, la Boldrini, eccetera) la pensano più o meno allo stesso modo su Putin. Ma non lo ammetterebbero nemmeno sotto tortura. Cosa pensano? Pensano che con la Russia bisogna venire a patti, punto. Alla faccia di quei prepotenti degli americani. Se l’Ucraina non ne esce stritolata, meglio. Altrimenti, pazienza. L’Italia ha pagato un prezzo troppo alto, in termini di mancate esportazioni, per le sanzioni alla Russia. E ciò dovrà finire. Chi è all’opposizione è più libero di fare sfoggio della propria russofilia. Chi è al governo deve fare anche i conti con Obama, la Merkel, eccetera. Ma è chiaro che, in materia di Russia, esiste una definizione condivisa di cosa sia l’interesse italiano.

Secondo esempio. Gli italiani sono entusiasti dell’accordo nucleare sull’Iran. Gli affari sono affari e l’accordo schiude anche per gli italiani verdi pascoli, dorate praterie. Del resto, tutti i governi italiani sono sempre stati attenti alle esigenze iraniane.

Terzo esempio. Gheddafi. Al tempo della guerra occidentale contro il dittatore libico alcuni iper-faziosi qui da noi salutarono con favore quell’intervento militare perché lo ritenevano (scioccamente) un colpo contro Berlusconi. Si trattava di distruggere l’amico di Berlusconi, quello a cui l’odiato Cavaliere aveva baciato l’anello. Ma Gheddafi non era un «famiglio» di Berlusconi, era un famiglio dell’Italia. Con lui, sia la destra che la sinistra avevano sempre cooperato. Anche in relazione alla Libia, è sempre esistito un (occultamente) condiviso interesse nazionale.

Se il primo limite è che laddove c’è comune riconoscimento dell’interesse nazionale manca la volontà di ammetterlo, il secondo è dato dalla sottovalutazione dei problemi della sicurezza. Accomuna destra e sinistra. La destra pare preoccuparsene solo in relazione all’immigrazione, il che è assai riduttivo.

Ma sulla sicurezza intesa in senso lato, tolti coloro che se ne devono occupare per ruolo (ministri degli Esteri e della Difesa, diplomatici, apparati della forza), la disattenzione è massima a tutte le latitudini politiche. Nei convergenti atteggiamenti italiani sulla Russia, ad esempio, le considerazioni sulla sicurezza (che fare con una Russia la cui nuova dottrina strategica indica nell’Occidente il principale nemico?) hanno un ruolo secondario.

Anche nel caso dei rapporti con l’Iran la sicurezza non pare in cima alle preoccupazioni italiane. Nonostante le dichiarazioni in senso contrario: l’Iran, si dice, aiuterà a colpire lo Stato islamico. Forse, ma perché non chiedersi anche quale sarà l’effetto sul mondo sunnita dell’alleanza fra i crociati e gli eretici sciiti contro il Califfo, sunnita pure lui? In questo clima è merito di Renzi essere volato in Israele, proprio dove la nuova libertà di manovra che l’accordo regala all’Iran può generare i più gravi rischi esistenziali.

Solo nel caso della Libia, possiamo forse dire, le preoccupazioni per l’interesse economico e per la sicurezza sono sempre stati appaiate, anziché divergenti (ai tempi di Gheddafi come oggi). E si capisce, data la vicinanza geografica e i legami storici, e il rischio che la dissoluzione dello Stato libico fa correre all’Italia.

Gli eccezionali settant’anni di pace che l’Europa ha alle spalle hanno fatto perdere di vista a tanti europei il fatto che la pace è un bene precario che richiede di essere coltivato investendo di continuo in politiche della sicurezza.

Questa consapevolezza è ancora minore in Italia dove a lungo si è creduto che l’interesse italiano fosse una cosa e la sicurezza un’altra, dato che di quest’ultima (fino ad oggi appaltata agli americani via Nato) si sarebbe occupata un giorno l’Europa. Ma la rinazionalizzazione degli interessi dei Paesi europei impone anche all’Italia meno opacità e meno amnesie. Possibile che né a destra né a sinistra si trovi oggi il modo di discutere della Nato e del ruolo italiano in essa? Non siamo speciali: anche per noi, come per tutti, difendere l’interesse nazionale significa conciliare affari e sicurezza.

3 agosto 2015 (modifica il 3 agosto 2015 | 07:14)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_03/sicurezza-trascurata-interesse-nzionale-dimezzato-b3b89d4c-399d-11e5-b49b-ae37d5ff3efe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Cattolici e politica L’equilibrio che cerca la Chiesa
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2015, 05:18:46 pm
Cattolici e politica
L’equilibrio che cerca la Chiesa
Il rapporto conflittuale tra il segretario della Cei Galantino e la classe politica italiana segnala la possibilità di un presa di distanza

L a violenta polemica che ha opposto monsignor Nunzio Galantino, il segretario della Conferenza episcopale italiana, alla classe politica, sia di governo che di opposizione, potrebbe restare negli annali come un fatto eccezionale. Ma potrebbe anche indicare che rapporti molto più conflittuali rispetto al passato andranno a stabilirsi in permanenza fra la Chiesa e i principali leader della democrazia italiana. Se questo fosse il caso e se, per effetto di tali conflitti, alla lunga, una parte significativa del mondo cattolico prendesse le distanze, anche sul piano elettorale (per esempio, optando massicciamente, e permanentemente, per l’astensione) da quella stessa classe politica, allora la nostra fragile democrazia si troverebbe a fronteggiare una sfida assai severa. Al tempo del non expedit, quando dopo l’unificazione italiana, il conflitto fra il nuovo Stato e la Chiesa tenne per tanti decenni i cattolici fuori dallo Stato, le conseguenze politiche di lungo periodo furono gravi. È vero che allora i cattolici praticanti erano la schiacciante maggioranza nel Paese e oggi, nell’Italia secolarizzata, non lo sono più. Ma una nuova forma di alienazione politica, o di ritiro della delega alla politica rappresentativa, da parte di settori rilevanti del mondo cattolico potrebbe avere di nuovo conseguenze gravi.

Ha certamente ragione Mauro Magatti (sul Corriere di ieri) quando osserva che si tratta di trovare, a partire dal riconoscimento che la Chiesa e la politica secolare hanno compiti e vocazioni diversi, un luogo d’incontro. U n terreno nel quale, come talora è accaduto in passato, la dialettica, e anche le eventuali tensioni, fra religione e politica non abbiano esiti distruttivi ma vadano a beneficio di entrambi.

Nella prospettiva qui prescelta si tratta soprattutto di capire se è possibile che il nuovo impulso dato da papa Francesco all’azione globale della Chiesa, nonché la nuova «agenda» adottata da questo pontificato, possano trovare una soddisfacente articolazione, e un efficace momento di mediazione, in una comunità cattolica nazionale in grado di conciliare il messaggio universalistico con le esigenze del Paese di appartenenza. Né più né meno, peraltro, di ciò che la Chiesa ha sempre fatto, nei suoi momenti più felici, in tantissime, fra loro differenti, realtà nazionali.

Il Papa che viene dall’altra parte del mondo segnala, come è stato detto tante volte, un radicale riallineamento «geopolitico» della Chiesa. Implica la presa d’atto che l’Europa non è più il centro del cristianesimo e che il suo futuro si giocherà soprattutto in America Latina, in Africa, e in certe zone dell’Asia. Papa Francesco è, con il suo carisma e il suo attivismo, l’espressione di questo cambiamento. Proprio per questa ragione, però, è anche inevitabile che un momento di mediazione fra il messaggio papale e le esigenze delle varie comunità nazionali europee si affermi. In Italia specialmente, essendo qui la sede del Papato.

È inevitabile - ciascuno di noi è figlio della propria storia - che questo Papa, come tutti quelli che l’hanno preceduto, si porti dietro, oltre alla sua fede e alla sua lettura del Vangelo, anche esperienze, idee e sentimenti che sono parte della tradizione della sua terra. Tradizione che non coincide necessariamente con la nostra. È plausibile che in un Paese di capitalismo maturo quale è, nonostante tutto, l’Italia, non siano pochi, anche fra i cattolici, quelli che dissentono da Bergoglio in materia di lavoro e di profitto o che, per fare un altro esempio, non credono che le guerre contemporanee siano solo il frutto del desiderio di guadagno di avidi capitalisti. Ed è anche plausibile che molti si rendano conto che le concezioni economiche del Papa derivano da una certa interpretazione delle Scritture ma, forse, derivano anche da una tradizione, fortemente anticapitalista, radicata nel Paese da cui proviene.

In Italia abbiamo ottimi studiosi dell’America Latina in generale e dell’Argentina e della sua storia in particolare. Forse è il caso che comincino a occuparsi dei legami culturali fra questo Papa e quella tradizione.

Tutto ciò per dire che un filtro e una mediazione sono necessari. I cattolici italiani sono, per l’appunto, sia cattolici che italiani. In quanto cattolici, non possono che aderire al messaggio universalistico della loro Chiesa e del loro Papa. In quanto italiani, però, hanno esigenze, sia interessi che valori, che condividono con altri italiani, credenti e non - ad esempio, esigenze relative a questioni come la sostenibilità del sistema di welfare, i livelli di tassazione, eccetera - e che rispondono a una differente logica. E hanno anche un interesse alla stabilità del loro (nostro) sistema democratico.

Come si è potuto apprezzare benissimo in questi giorni, ci sono certamente vescovi italiani consapevoli del problema e, quindi, dell’indispensabilità di una mediazione. Questa è un’ottima cosa. Se i cattolici si dividessero fra una parte dialogante e una parte alienata e ostile nei confronti della politica rappresentativa (nelle parole di monsignor Galantino «un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi») e se, inoltre, in certe persone, le due identità di cattolico e di italiano entrassero in conflitto, questo sarebbe, immaginiamo, un grave problema per la Chiesa. Ma lo sarebbe, di sicuro, anche per la democrazia italiana.

di Angelo Panebianco

21 agosto 2015 (modifica il 21 agosto 2015 | 08:18)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_21/equilibrio-che-cerca-chiesa-70798cf0-47c4-11e5-9031-22dbf5f9fa34.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I riflessi condizionati sulle tasse
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2015, 11:30:42 pm
I riflessi condizionati sulle tasse

Di Angelo Panebianco

Sono le tasse dunque il terreno politico ed elettorale che Renzi ha scelto per affrontare i suoi avversari. Se riuscirà ad abbassarle sensibilmente consoliderà la sua leadership alla testa di una sinistra radicalmente rinnovata, forse capace anche di attrarre ampie porzioni di quelle classi medie indipendenti (imprenditori, professionisti, commercianti, artigiani) tradizionalmente ostili alla sinistra.

Sulle spalle del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, soprattutto, ricadrà l’arduo compito di reperire le risorse necessarie. Ma sbaglia chi crede che in gioco ci sia solo una questione di risorse.

Più delle riforme istituzionali, forse anche più della scuola, le tasse toccano il cuore identitario della sinistra per come l’abbiamo conosciuta. La promessa di abbassarle coincide con la più grave minaccia a quella identità. Apparentemente, ciò accade solo per la nota ragione secondo cui, finito il comunismo, azzerati i grandi ideali, morta l’utopia, la sinistra si era ridotta, sotto il profilo identitario, a due cose: l’ideologia liberal (i vari temi del «politicamente corretto» - gender e così via - interpretati come diritti civili) e l’imperativo del «tassa e spendi» rivendicato come garanzia di ridistribuzione del reddito e di equità sociale. Renzi, sulle orme di Tony Blair, e pur con tutti gli adattamenti a un caso assai diverso da quello britannico, promette di preservare, e di cavalcare, l’ideologia liberal ma anche di mettere fuori gioco l’imperativo del tassa e spendi, il piatto forte, il cuore identitario. Può essere tutto meno che un’operazione indolore. Anche perché al di sotto del principio del tassa e spendi c’è una visione del mondo, così radicata e incistata che molti non ne sembrano nemmeno consapevoli. Quando il segretario della Cgil Susanna Camusso (sul Corriere del 24 agosto) propone di abbassare l’età pensionabile, mandare prima le persone in pensione per lasciare i loro posti ai giovani, sta precisamente parlando a coloro che condividono una particolare visione del mondo, una visione che apprezza le società statiche, per non dire immobili, che teme il dinamismo e l’innovazione più di ogni altra cosa. Chi attribuisce valore al dinamismo sociale, chi pensa che la continua innovazione caratterizzi le società davvero vitali, punta ad ampliare, attraverso la crescita economica (a sua volta effetto della libertà di innovare e della presenza di diffuse capacità imprenditoriali), oltre alla ricchezza, anche la base occupazionale disponibile.

Invece, chi ha fatto proprio l’ideale di una società statica pensa sia alla ricchezza che al lavoro come a giochi a somma zero: si deve togliere più soldi all’uno (il più ricco) per darli all’altro (il più povero), si deve mandare in pensione Tizio (il più anziano) per lasciare il posto a Caio (il più giovane). Non si tratta mai di ampliare la torta ma di mantenerla inalterata tagliando diversamente le fette. È questa mentalità, propria di tanti, una parte dei quali nemmeno è consapevole di averla, che sta dietro all’imperativo del tassa e spendi e, quindi, all’identità di una parte rilevante della sinistra. È questa mentalità che alimenta l’ideale di una società composta prevalentemente da impiegati pubblici, e nella quale il mercato sia tenuto a bada, al suo posto, in condizioni di non nuocere, di non dare libero sfogo ai suoi impulsi più «eversivi» e aggressivi: poiché è proprio del mercato di essere la principale fonte dell’innovazione e del dinamismo sociale.

Esattamente ciò che da sempre la sinistra esorcizza bollandolo come «liberismo selvaggio». Si capisce perché gli antirenziani di sinistra odino tanto Renzi: sta aggredendo, e forse distruggendo, un pezzo alla volta, il loro universo simbolico, il loro piccolo mondo statico. Forse ha anche capito meglio di loro che cosa è successo negli stessi strati sociali che sono stati per decenni il tradizionale serbatoio elettorale della sinistra: lì, ad esempio, ci sono persone di estrazione popolare (con la casa di proprietà) sempre meno disponibili a prendere per buona l’ideologia del tassa e spendi e ciò che essa sottintende. Se queste persone risulteranno essere molte la scommessa di Renzi verrà forse vinta.

Per completezza di discorso, bisogna aggiungere che l’ideale di una società statica non è proprio soltanto della sinistra. C’è in Italia, da sempre, anche una destra antimercato e corporativa che ha ugualmente paura del dinamismo sociale: a differenza della sinistra, tuttavia, questa destra, per lo più, non ha fatto delle tasse alte una bandiera identitaria. Se ciò che qui è stato detto è corretto allora Renzi, per abbassare le tasse, non dovrà solo procurarsi le risorse. Dovrà combattere, e sconfiggere, una radicata e diffusa mentalità. L’impresa, a occhio, si presenta più difficile e complicata di quella in cui è impegnato, poniamo, chi vuole soltanto riformare una Costituzione.

28 agosto 2015 (modifica il 28 agosto 2015 | 07:27)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_28/fisco-tasse-riflessi-condizionati-editoriale-panebianco-b66ee798-4d44-11e5-816c-ead72dc4bf5c.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il premier e la sinistra La rottura che serve sulle tasse
Inserito da: Arlecchino - Settembre 08, 2015, 04:37:49 pm
Il premier e la sinistra
La rottura che serve sulle tasse

Di Angelo Panebianco

La disputa sulle tasse è uno dei due temi (l’altro è l’immigrazione) al centro dell’agenda politica. Renzi vi si giocherà il proprio futuro politico oltre che quello del Paese.
La «battaglia delle tasse» si preannuncia come un conflitto epocale. Non solo interessi ma anche incompatibili visioni del mondo si affronteranno in una lotta senza esclusione di colpi. Volendo aggredire l’ideologia del «tassa e spendi», Renzi sembra deciso a una definitiva resa dei conti con quella parte della sinistra che lo odia e vorrebbe sbarazzarsi di lui. Si tratta appunto di una resa dei conti perché, più che sulle riforme costituzionali, più che sulla scuola, sulle tasse si combatte una battaglia per l’identità della sinistra. Non si scherza con le identità: una volta che siano entrate in gioco, nessuno è più disposto a fare prigionieri.

Fondamentalmente, lo scontro è fra chi propone di abbassare la pressione fiscale allo scopo di rilanciare la crescita economica (e quindi allargare la torta della ricchezza nazionale) e chi, invece, non è interessato alla crescita ma alla sola ridistribuzione del reddito (che verrebbe garantita, secondo tale ideologia, da tasse alte e da alta spesa pubblica) pur in presenza di una torta che va riducendosi, di una ricchezza nazionale in declino. È il conflitto fra una visione che apprezza il dinamismo sociale e una visione che preferisce le società statiche, a bassa crescita, ove i conflitti sono a somma zero (togliere a Tizio per dare a Caio anziché fare in modo che - ampliando la torta - ottengano di più entrambi). Commentando un mio editoriale su questo tema (Corriere, 28 agosto), Eugenio Scalfari (La Repubblica, 30 agosto), ha osservato che Renzi avrebbe mostrato molta più coerenza a suo tempo se, anziché impegnare risorse nella distribuzione degli ottanta euro a certe fasce di lavoratori dipendenti, avesse puntato a una seria riduzione del cuneo fiscale. Concordo con Scalfari. La misura degli ottanta euro (presentata come una riduzione delle tasse ma, in realtà, un classico caso di ridistribuzione del reddito), come mostrato anche dallo studio - di cui ha dato conto due giorni fa il Corriere -, diretto e coordinato da Luigi Guiso, ha avuto effetti ambigui: gli ottanta euro sono stati per lo più impegnati in consumi da coloro che ne hanno beneficiato, il che ha aiutato, in un momento di grave difficoltà, la domanda interna. Però, all’effetto positivo si è sommato un effetto negativo dovuto al varo di diverse misure, ivi compresi aumenti delle tasse, necessario per reperire le risorse.

In realtà, quella degli ottanta euro fu una mossa spiegabile soprattutto in termini politici: servì, nelle consultazioni europee di due anni fa, per mantenere ancorato al Pd un elettorato che, senza quella misura, forse, lo avrebbe abbandonato (per l’astensione o per i Cinque Stelle).

Non mi pare però che questo cambi sostanzialmente il quadro. Se Renzi si impegnerà sul serio nella battaglia delle tasse, sarà coinvolto in uno scontro durissimo. Peraltro, con non molte probabilità di farcela: è possibile che in un Paese che invecchia coloro che scommettono sul futuro, che puntano su dinamismo e innovazione, risultino in minoranza. In ogni caso, egli dovrà consumare definitivamente quella «rottura sentimentale», di cui ha parlato Massimo D’Alema, con la tradizione post-comunista.

7 settembre 2015 (modifica il 7 settembre 2015 | 06:59)
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Da - http://www.corriere.it/economia/15_settembre_07/rottura-che-serve-tasse-c008f80e-551c-11e5-b550-2d0dfde7eae0.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Noi e le guerre Rimettere i piedi per terra
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2015, 10:41:40 am
Noi e le guerre
Rimettere i piedi per terra

Di Angelo Panebianco

Si può forse dire che non è ancora apparso all’orizzonte un nuovo Winston Churchill in grado di dare la sveglia agli europei. Le benemerenze della Merkel (mettere in riga i dissipatori di risorse altrui senza scassare l’unione monetaria, usare il bastone del comando per tentare di governare il flusso dei profughi) sono indubbie ma anche circoscritte. C’è sproporzione fra quanto l’Europa fa o si propone di fare e l’intensità del terremoto mediorientale in atto (la guerra civile siriana, il caos libico, l’avanzata dello Stato islamico). Di fronte a così radicali sconvolgimenti governi e opinioni pubbliche dovrebbero interrogarsi su come impedire che la guerra arrivi prima o poi, sotto forma di devastanti azioni terroristiche, nelle stesse città europee.

È difficile non concordare sul fatto che gli europei abbiano un interesse vitale alla sconfitta dello Stato islamico (condizione necessaria, oltre a tutto, perché si trovi una soluzione di compromesso in Siria). C’è chi pensa che occorrerà aspettare la nuova Amministrazione americana e un radicale cambiamento della strategia statunitense in Medio Oriente. Ma se gli europei, per lo meno, si chiarissero le idee fra loro, potrebbero poi parlare agli alleati americani, quale che sia il presidente in carica, con una voce sola. Ci sono eccellenti ragioni morali (fermare lo sterminio di esseri umani, nonché la distruzione di un patrimonio culturale che appartiene a tutti) per voler mettere alle corde lo Stato Islamico. Ma c’è anche il nostro interesse a non diventare i suoi prossimi bersagli. C’ è qualcosa, anzi molto, che non va nel modo in cui noi europei invochiamo abitualmente «soluzioni diplomatiche», e ci muoviamo di conseguenza, per fermare l’azione di coloro che noi stessi definiamo «nemici». Sembra quasi che la nostra ricetta diplomatica consista nel tentare di sfinire il nemico a chiacchiere nella speranza che, alla fine, per disperazione, si suicidi. Sembriamo ignorare che, nelle zone di guerra, non può avere successo alcuna azione diplomatica che non sia sorretta dalla forza militare e dalla disponibilità a farne uso.

Federica Mogherini, l’alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, dell’Europa fa propria anche la fragilità, quando immagina, ad esempio, che la guerra in Siria possa essere semplicemente risolta facendo sedere le parti intorno a un «tavolo» (Corriere della Sera, 6 settembre). Come se, in guerra, non siano gli esiti dei conflitti armati a decidere se e quando, e con quali carte negoziali in mano, le parti combattenti si renderanno disponibili a trattare.
Sfruttando l’inerzia occidentale, gli «scarponi sul terreno» li sta mettendo Putin. Forse, come pensano certi analisti militari, le forze che egli è in grado di schierare possono servire solo a puntellare il regime di Assad, non a infliggere, in alleanza con gli iraniani, duri colpi allo Stato islamico. Forse è davvero così. Ma, di sicuro, più il tempo passa senza che gli occidentali siano capaci di scuotersi e di dotarsi di una strategia plausibile, più il loro spazio di manovra andrà a ridursi. Proprio in un’area così vitale per la sicurezza europea.

In un certo senso, possiamo dire che noi europei (soprattutto noi europei occidentali) siamo vittime del nostro successo. Abbiamo alle spalle il più lungo periodo di pace della storia d’Europa. È umano che ciò abbia creato in tanti, forse nella schiacciante maggioranza, la falsa convinzione che la pace di cui godiamo appartenga all’ordine naturale delle cose, che essa non sia - come invece è - il frutto di equilibri che possono in qualunque momento spezzarsi. Gli europei (con la parziale eccezione di francesi e inglesi) sembrano ormai largamente inconsapevoli del fatto che la pace, per durare, debba essere tutelata dalla forza e dalla volontà di usarla contro le minacce.

Non c’è nessun «ordine naturale», in quanto tale pacifico: la pace di cui abbiamo goduto è stata garantita, durante la Guerra fredda, dalle armi americane e poi, a Guerra fredda finita, dal fatto che lo «scongelamento», in Medio Oriente e altrove, degli equilibri affermatesi dopo la Seconda guerra mondiale, non si è verificato immediatamente ma ha richiesto un certo lasso di tempo. A conclusione di un’epoca (davvero d’oro) in cui gli europei hanno potuto illudersi di vivere in un mondo post-politico, senza più le grandi contese mortali fra visioni del mondo contrapposte, essi, purtroppo, devono oggi rimettere i piedi per terra, devono fare la fatica di ricominciare a pensare politicamente.

14 settembre 2015 (modifica il 14 settembre 2015 | 07:31)
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_14/rimettere-piedi-terra-692c08e2-5a9d-11e5-8668-49f4f9e155ef.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Sondaggi e voto Il debito di Renzi con Grillo
Inserito da: Arlecchino - Settembre 27, 2015, 11:44:24 am
Sondaggi e voto
Il debito di Renzi con Grillo

Di Angelo Panebianco

I sondaggi sulle intenzioni di voto attribuiscono al movimento Cinque Stelle percentuali da capogiro, lo indicano come il secondo partito in Italia. La rilevazione di Pagnoncelli, pubblicata sabato scorso dal Corriere, conferma: i Cinque Stelle sono al momento scelti dal 27% degli elettori potenziali contro il 33% di preferenze per il Partito democratico. Tenuto conto dell’altissimo numero di indecisi rilevati, però, è difficile credere al momento che in elezioni politiche «vere» i Cinque Stelle possano conquistare una così elevata percentuale di votanti.

Tuttavia, gli orientamenti fotografati oggi dai sondaggi hanno l’effetto di tenere sotto pressione la classe politica. E dovrebbero anche ricordare a Matteo Renzi quanto grande sia il debito di gratitudine che egli ha contratto con Beppe Grillo. Per due ragioni.

La prima è che senza il clamoroso successo elettorale dei Cinque Stelle nelle elezioni del 2013 e la conseguente sconfitta (perché di una sconfitta si trattò) di Pier Luigi Bersani e del partito da lui guidato, Matteo Renzi non avrebbe potuto vincere le successive primarie, non sarebbe diventato segretario del Pd, non sarebbe al governo. Furono la crisi e lo sbandamento indotti fra i militanti e gli elettori democratici da quel risultato a spianargli la strada. Tolto il caso dei true believers, dei veri credenti (quelli che credevano e credono nei Cinque Stelle e nei loro programmi), è un fatto che coloro che, in quelle elezioni, votarono Grillo con il solo scopo di scatenare una reazione all’interno della classe politica tradizionale, ottennero il risultato voluto: l’arrivo di Renzi ne fu una diretta conseguenza. M a c’è anche una seconda ragione per cui Renzi deve essere grato a Beppe Grillo. Ha precisamente a che fare con i sondaggi testé ricordati. Fin quando il movimento Cinque Stelle continuerà ad essere percepito come il più temibile competitor del Partito democratico, Renzi potrà rivendicare la propria indispensabilità: una variante aggiornata della «diga» incarnata dalla Democrazia Cristiana agli occhi degli elettori ai tempi della Guerra fredda: vade retro Partito comunista allora, vade retro Cinque Stelle oggi.

Si noti che quei sondaggi tolgono anche un po’ di credibilità ai propositi scissionisti della sinistra del Pd. Se il grosso degli elettori di sinistra che odia Renzi si indirizzerà davvero verso i Cinque Stelle, gli eventuali scissionisti potrebbero trovarsi a dare vita a un piccolo «partito dei pensionati» (magari iscritti alla Cgil) destinato all’irrilevanza.

Sembra che il Paese non riesca a sfuggire a una maledizione, non riesca a fare a meno di trovarsi di fronte a due alternative, nessuna delle quali davvero allettante. La prima è quella che abbiamo conosciuto nel periodo 1994 - 2011 (anno della caduta dell’ultimo governo Berlusconi): un bipolarismo «immoderato», fondato sulla delegittimazione reciproca fra gli schieramenti. Il vantaggio di quell’assetto era che permetteva l’alternanza al governo. Lo svantaggio era che il clima da guerra civile rendeva la democrazia assai mal funzionante.

La seconda alternativa è quella conosciuta nel cinquantennio democristiano e che, con tutti gli adattamenti del caso, potrebbe trovare una parziale replica nell’era Renzi: un partito elettoralmente grande che si colloca al centro dello schieramento, in grado di fare incetta di voti sia a destra che a sinistra, e che è anche il più credibile ostacolo al dilagare di forze anti-sistema o percepite come tali. In tale assetto, molto o poco che duri, l’alternanza al governo è di fatto impossibile.

Se Renzi supererà lo scoglio della riforma del Senato e se non sarà costretto a fare concessioni alle minoranze sulla legge elettorale, le sue probabilità di vittoria alle prossime elezioni politiche saranno assai alte. Per l’assenza di alternative plausibili. Naturalmente, devono realizzarsi due condizioni. La prima è che la ripresa economica si consolidi. La seconda è che egli abbia dall’Europa aiuti adeguati per governare (o per dare l’impressione di governare) l’immigrazione. Se queste due condizioni si realizzeranno, Renzi avrà vinto la sua scommessa. Continueranno in tanti, come hanno fatto fin qui, a dargli del «democristiano». Anche se, per la verità, sia le condizioni storiche generali che le stesse caratteristiche di Renzi, rendono improprio quell’accostamento. Tranne che per la questione della «diga».

23 settembre 2015 (modifica il 23 settembre 2015 | 07:20)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_23/debito-renzi-grillo-7435ed50-61b1-11e5-a22c-898dd609436f.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il tocco magico che l’Onu non può avere
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 05, 2015, 06:25:39 pm
Le risorse scarse e le illusioni
Il tocco magico che l’Onu non può avere

Di Angelo Panebianco

La settantesima sessione plenaria dell’Assemblea generale dell’Onu si è aperta in una fase delicata della vita del pianeta. Si spara in molti luoghi e, in altri, rumori minacciosi preannunciano tempeste. Nel Mar della Cina la volontà egemonica dell’Impero celeste mette a rischio la pace mondiale entrando in collisione con gli interessi vitali di tanti Paesi, ivi compresi alcuni alleati degli Stati Uniti come Giappone o Filippine. In Europa la guerra, ancorché di bassa intensità, è tornata nelle regioni orientali dell’Ucraina e la Russia non chiede ma pretende che ci si dimentichi dell’annessione della Crimea rivendicando il suo ruolo nella lotta allo Stato Islamico in Medio Oriente.

L’abulia strategica degli occidentali (degli americani in primo luogo ma anche degli europei alle prese con la difficoltà di governare gli ingenti flussi migratori) lascia vuoti che altri, dai russi agli iraniani ai turchi - con i loro interessi non coincidenti con quelli occidentali - vanno riempiendo a modo loro. L’incontro che si è svolto ieri tra Obama e Putin forse porterà a una svolta (e forse no), innescherà, nelle prossime settimane, il salto di qualità che tutti attendono all’azione di contrasto allo Stato islamico (condizione indispensabile perché si possa un giorno costruire un ordine accettabile in Siria). Ma è un fatto che è Putin a guidare il gioco e i suoi interessi non sono necessariamente coincidenti con quegli degli Stati Uniti o con quelli dell’Europa.

Mentre i rumori di guerra si diffondono e a New York si danno convegno potenze coinvolte in giochi «misti» (parziale coincidenza di interessi su alcuni temi unita a una dura competizione su molti altri), l’Onu non rinuncia all’ideologia onusiana e, in suo omaggio, si impegnerà anche in questa occasione a votare a favore della distribuzione a tutti dell’elisir della felicità. Tra gli impegni che verranno solennemente presi ci saranno cose come bloccare i cambiamenti climatici in atto, assicurare a tutti la sicurezza alimentare, il disarmo, eccetera. Chi non è d’accordo?
Non si tratta solo di ipocrisia. È anche un omaggio al mito fondante dell’Onu. L’Onu fu voluta da Franklin Delano Roosevelt per rilanciare l’utopia che durante la Prima guerra mondiale aveva spinto il presidente Woodrow Wilson a concepire la Società delle Nazioni.

Quell’utopia era uno dei lasciti del pensiero liberale del secolo diciannovesimo: l’idea era che imbrigliandoli entro organizzazioni guidate da un nuovo diritto internazionale, gli Stati avrebbero cessato di farsi la guerra, direttamente o per procura, come avevano fatto per secoli. Si sarebbero assoggettati al diritto dirimendo le loro controversie pacificamente, allo stesso modo in cui i cittadini degli Stati liberali dirimono le loro. La conquistata armonia degli interessi avrebbe consentito agli Stati di cooperare lealmente per risolvere i problemi del mondo.

Non è andata così. Il compito ambizioso che era stato attribuito all’Onu si rivelò irrealizzabile non appena esplose la competizione fra Usa e Urss. Dopo la Guerra fredda, molte illusioni sul ruolo dell’Onu rinacquero ma si scontrarono quasi subito, e di nuovo, con l’impossibilità di sostituire la «armonia» alla competizione e al conflitto fra gli Stati. Così come si era dovuta adattare alla distribuzione bipolare del potere durante la Guerra fredda, l’Onu si è poi piegata (anche se con molte tensioni) all’unipolarismo americano successivo. Allo stesso modo, oggi va adattandosi al multipolarismo emergente.

Ciò non rende inutile l’Onu, essa continua a servire come vetrina e tribuna, un consesso in cui ciò che accade racconta a tutti noi quali siano il clima imperante e lo stato dei contenziosi in atto. Non si tratta di pretendere che l’Onu rinunci ai suoi miti fondanti, alla sua ideologia ufficiale e a quel tanto di ipocrisia che vi è inevitabilmente appiccicato. Si tratta solo, per chi ne ha voglia, di guardare alle cose con realismo. Non è vero che i problemi mondiali si risolverebbero tutti facilmente se solo ci fosse la «buona volontà». Chi ragiona così non vede che in un mondo di scarsità non c’è verso di sfuggire alla competizione.

Ed è proprio l’idea di scarsità, e delle conseguenze della scarsità, che manca, e non solo nell’ideologia ufficiale dell’Onu. Si pensi alla lodevole richiesta di papa Francesco di dare terra, casa, lavoro a tutti gli uomini. Anche nel suo caso c’è la sottovalutazione del vincolo della scarsità. Come nel proposito onusiano di assicurare a tutti la sicurezza alimentare, c’è in Francesco l’idea che le risorse siano tutte a disposizione e che la scarsità, anziché un vincolo obiettivo, sia piuttosto l’effetto di una congiura delle classi dominanti ai danni dei poveri del pianeta. Tanto in Francesco quanto nella visione ufficiale onusiana si sentono echi dell’ideologia ottocentesca del progresso (sia in variante liberale che socialista), l’idea secondo cui l’umanità sarebbe ormai entrata nell’era dell’abbondanza illimitata. Non è così. Non ci sono risorse illimitate che possano cadere dal cielo rinnovando il miracolo della manna. La scarsità non è venuta meno.

La povertà, ad esempio, non può essere eliminata con la bacchetta magica. Gli unici strumenti che l’hanno ridotta e che promettono di ridurla ulteriormente in futuro, sfortunatamente, sono proprio quelli che al Papa non piacciono e che, per giunta, non possono essere evocati esplicitamente in sede Onu, data la diversa costituzione economico-sociale di numerosi membri dell’Assemblea: il mercato e il capitalismo di mercato.

In un mondo di scarsità ove, per giunta, non sono affatto superate le sovranità territoriali, la competizione fra gli Stati, in barba alla mission dell’Onu, resta endemica e ineliminabile. Si possono anche mandare soldati per infoltire i caschi blu come ha fatto Renzi in omaggio a quell’ideologia onusiana che qui in Italia conta tanti adepti. A patto però di non dimenticare che esistono poi interessi (nostri e dell’Europa), in competizione con gli interessi di altri, e che l’Onu, di sicuro, non può tutelare.

29 settembre 2015 (modifica il 29 settembre 2015 | 07:18)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_29/tocco-magico-che-onu-non-puo-avere-panebianco-529b6aec-6668-11e5-ba5a-ab3e662cdc07.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Noi tra Libia e Siria Il dovere della verità sull’Isis
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2015, 02:54:54 pm
Noi tra Libia e Siria
Per Renzi in politica estera verità senza eufemismi
Il dovere della verità sull’Isis
Il premier deve spiegare agli italiani il ruolo dell’Italia nella crisi internazionale


Di Angelo Panebianco

Se qualcuno vorrà scommettere sulla capacità di Matteo Renzi di continuare a sconfiggere i suoi nemici, vincere le prossime elezioni e governare a lungo, dovrà essere consapevole del fatto che si tratterà di una scommessa al buio. A occhio, le probabilità sono Fifth Fifth, cinquanta per cento a favore di Renzi e cinquanta contro.

A suo favore giocano diversi fattori. Innanzitutto, la sua personalità: il suo fortissimo istinto per il potere unito a una non comune disponibilità al rischio. Nell’avventura di Renzi sembra trovare molte conferme il detto secondo cui la fortuna arride agli audaci. In secondo luogo, il fatto che, per un concorso di circostanze, egli non sia sostenuto solo da coloro che lo apprezzano. Gode anche dell’appoggio di molti a cui non piace ma che pensano di lui ciò che Winston Churchill pensava della democrazia: la peggiore soluzione escluse tutte le altre.

Poi c’è il fatto che, come ormai è accertato, Renzi riuscirà a portare a casa la riforma costituzionale. Liquidare il bicameralismo simmetrico non è fare una «riformetta»: significa cambiare la «costituzione materiale» del Paese, ristrutturare le regole del gioco. Anche se non è garantito, colui che riesce a farlo, di solito, si trova in vantaggio nella competizione politica successiva. Da ultimo, c’è la ripresa economica in atto. Se la tendenza si confermerà Renzi se ne prenderà tutto il merito.

Ciò gli darà un fortissimo vantaggio rispetto agli avversari. Fin qui le probabilità a suo favore. Le probabilità contro dipendono dal fatto che la politica nostrana non è un compartimento stagno, isolabile dal resto del mondo. Sono le conseguenze dell’irruzione del mondo esterno nelle nostre vicende interne che possono, politicamente parlando, tagliare le gambe a Renzi. In parte a causa della visione del mondo che impregna segmenti rilevanti della coalizione sociopolitica che sostiene il suo governo e, in parte, forse, anche a causa dell’incapacità di Renzi di emanciparsi del tutto dal suo passato «scoutistico» (e lapiriano).

In tempi di grandi emergenze occorrono leader capaci di dire la verità all’opinione pubblica e di trascinarsela dietro. È precisamente per questo - non certo per la battuta sopra citata sulla democrazia - che Churchill è passato alla storia come uno dei grandi statisti del XX secolo.

Il modo in cui Renzi ha deciso di trattare le questioni siriana e libica non convince. Da un lato, abbiamo scelto di non contribuire con azioni di fuoco ai bombardamenti della coalizione anti Stato Islamico (lo faremo, e stiamo decidendo come e quando, solo in Iraq). Non partecipando a tali azioni di fuoco della coalizione in Siria ne restiamo membri di serie B. Corriamo rischi (i nostri aerei svolgono attività di intelligence) ma non partecipiamo a pieno titolo, col diritto di dire la nostra, all’attività decisionale della coalizione. Dall’altro lato, ci siamo dichiarati disponibili a guidare una rischiosissima missione militare (eufemisticamente descritta come Peace enforcing) contro i gruppi armati che alimentano il caos libico. Come mai? Eppure è chiaro che le due cose sono interdipendenti, è chiaro che se non si riesce a indebolire lo Stato Islamico non sarà neppure possibile pacificare la Libia. E, inoltre, come mai, rinunciando a bombardare lo Stato Islamico, rinunciamo anche alla forza negoziale che quella partecipazione ci conferirebbe, per esempio, ai tavoli ove si decide come fronteggiare il flusso di profughi in fuga dalla Siria?

La risposta è semplice. Partecipare ai bombardamenti contro lo Stato Islamico significa partecipare a una guerra che non può essere camuffata da altro. Guidare la missione in Libia significa ugualmente partecipare a una guerra ma con la possibilità - almeno nella prima fase - di camuffarla da Peace enforcing. È per questo che si insiste tanto su argomenti che dovrebbero essere resi irrilevanti dallo stato di necessità in cui ci troviamo: come l’argomento secondo cui l’articolo 11 della Costituzione ci autorizzerebbe ad agire in Libia (sotto l’egida delle Nazioni Unite) ma non in Siria. Per inciso, i costituenti vollero l’articolo 11 per bollare le guerre di aggressione condotte dal fascismo. Non potevano immaginare quali manipolazioni ideologiche ne sarebbero seguite.

Naturalmente, quando si scoprirà che la suddetta guerra, camuffata da Peace enforcing, come tutte le guerre, lascerà sul terreno sia combattenti che vittime civili, la finzione non potrà più reggere e il governo dovrà fronteggiare la mobilitazione «pacifista» contro l’intervento in Libia. Tipici pasticci in cui va a infilarsi un’Italia pubblica che ha ribattezzato «operatori di pace» i propri soldati e che di eufemismi sembra anche disposta a morire. Niente di quanto accade nel grande incendio mediorientale, dal crollo di interi Stati all’impennata del flusso dei profughi verso l’Europa, fino alla destabilizzazione in atto della Turchia, sembra in grado di scuotere questa Italia facendole comprendere che il mondo sicuro e pacifico in cui vivevamo fino a poco tempo fa è finito. Una incapacità che, a quanto pare, condividiamo con i tedeschi.

Chi crede che le ripetute minacce del Califfo contro Roma o che le immagini di San Pietro su cui sventolano le bandiere dello Stato Islamico, siano scherzi, boutade, non ha capito nulla. Spetterebbe a Renzi spiegare all’opinione pubblica come stiano davvero le cose. Il fatto che uno di solito così loquace non abbia trovato ancora le parole giuste per spiegare la verità agli italiani, non è di buon auspicio. Per noi, prima di tutto. Ma anche per la sua futura carriera politica.

13 ottobre 2015 (modifica il 13 ottobre 2015 | 07:30)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_13/per-renzi-politica-estera-verita-senza-eufemismi-dovere-verita-sull-isis-03b2fa5c-7168-11e5-b015-f1d3b8f071aa.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Troppa fiducia nell’Onu
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 26, 2015, 11:50:59 am
Troppa fiducia nell’Onu
Abbiamo bisogno di adottare un più alto profilo nel Mediterraneo rispetto al passato.
Se vogliamo provvedere alla nostra sicurezza nelle nuove condizioni abbiamo bisogno di svolgervi un ruolo sempre più attivo

Di Angelo Panebianco

È stato un successo italiano, la settimana scorsa, l’accoglimento da parte dell’Unesco della nostra proposta di istituire un corpo di «caschi blu della cultura» a protezione dei patrimoni culturali messi a rischio dalla furia umana e dalle catastrofi naturali. L’Italia avrà inoltre un ruolo centrale nella creazione di questa task force specializzata. C’è da rallegrarsene. Arte e cultura sono, per il mondo, ciò che meglio definisce l’identità italiana ed è giusto che al nostro Paese sia riconosciuto un ruolo di leadership. Nulla da eccepire. Tranne forse il nostro solito eccesso di fiducia nelle capacità operative dell’Onu e delle sue affiliate. I caschi blu (anche quelli più tradizionali, con compiti militari) godono di grande popolarità dalle parti del governo Renzi. È solo di qualche settimana fa la decisione del premier di aumentare il nostro contributo in uomini ai contingenti delle Nazioni Unite. Ma vale la pena di sfoggiare tanto ossequio?

Da un bel film del 2001, No Man’s Land (del regista bosniaco Danis Tanovic), il grande pubblico apprese quale nomignolo i miliziani (serbi, croati, musulmani) delle guerre jugoslave avessero appiccicato ai caschi blu delle Nazioni Unite. Li chiamavano «i puffi» (per via del blu che li accomunava ai celebri personaggi dei cartoni) considerandoli al tempo stesso costosi e del tutto inutili.

È urgente che l’Italia assuma un atteggiamento più disincantato, meno genuflesso, nei confronti delle Nazioni Unite.

La destabilizzazione in atto del Mediterraneo ci obbliga, al fine di tutelare la nostra sicurezza, ad adottare un approccio non ideologico, realista, di fronte alle crisi attuali. Quando in gioco c’è la tua pelle, non puoi stare lì ad aspettare che la tua azione difensiva venga preventivamente approvata dall’Onu. Continuando così a indulgere nella finzione secondo cui solo il marchio delle Nazioni Unite sia in grado di conferire a qualunque azione internazionale «legalità» e «legittimità» (due parole che molti, erroneamente, considerano sinonimi).

Può anche essere giusta, può anche rispondere ad ineccepibili valutazioni tecnico-operative, la decisione italiana di non partecipare ai bombardamenti dello Stato islamico in Siria. Basta che non si tirino fuori le cosiddette «ragioni giuridiche» (l’assenza del marchio delle Nazioni Unite). Poiché di fronte a una minaccia come lo Stato islamico tali ragioni giuridiche contano zero.

A rovescio, il ragionamento vale anche, almeno in parte, per la Libia. Che si debba andare oppure no in Libia per combattere quella particolare guerra detta di Peace enforcing, di imposizione della pace mediante le armi, può essere una decisione saggia oppure no. Ma pur riconoscendo l’indubbia utilità del fatto che una simile spedizione goda della copertura Onu e quindi, implicitamente, dell’assenso di governi arabi (per renderla accettabile agli occhi di una parte dei libici), non è l’Onu che può stabilirne il grado di saggezza. Questo possono farlo solo i governi degli Stati, Italia in testa, la cui sicurezza è oggi a rischio a causa del caos libico. Senza contare che gli sforzi dell’Onu di trovare una soluzione politica nel caso libico sono fin qui tutti falliti. Da ultimo è già fallito il tentativo di piegare a un accordo i governi nemici di Tobruk e di Tripoli.

Bisognerebbe sbarazzarsi di quell’ideologia onusiana qui da noi diffusa in ambiti piuttosto ristretti (volontariato cattolico, militanti di sinistra) e tuttavia influenti sugli atteggiamenti del governo. L’Onu non è l’embrione di un «governo mondiale» come si tende a pensare in quegli ambienti. Non vi somiglia neanche un po’.

Ed è pure una fortuna, tenuto conto della natura dei regimi di alcune grandi potenze che siedono nel Consiglio di Sicurezza (Cina, Russia), nonché di tanti Paesi rappresentati nell’Assemblea Generale. Dio ci scampi da un governo mondiale (ancorché embrionale) così impestato di autoritarismo. L’Onu è soltanto un utile luogo di discussione che consente all’opinione pubblica mondiale di comprendere quale sia il clima, soprattutto nei rapporti fra le grandi potenze. E a questo c’è ben poco da aggiungere.

Prima assumiamo un atteggiamento disincantato verso le Nazioni Unite e meglio è. Soprattutto oggi che abbiamo bisogno di adottare un più alto profilo nel Mediterraneo rispetto al passato. Se vogliamo provvedere alla nostra sicurezza nelle nuove condizioni abbiamo bisogno di svolgervi un ruolo sempre più attivo. Occorre investire non solo tempo ma anche risorse per potenziare la nostra capacità di intervento militare e di influenza diplomatica. Senza farsi inutili illusioni sull’Onu. Muovendoci piuttosto, se è possibile, in accordo con la Nato (l’esercitazione Nato in corso nel Mediterraneo segnala, se non la fine di una inerzia durata a lungo, per lo meno una volontà di risveglio).

Sapendo però anche che dire Nato significa dire Stati Uniti e che, senza un nuovo attivismo dell’amministrazione americana nell’area, dovremo arrangiarci, diventare punto di raccordo fra i Paesi della regione con interessi di sicurezza simili ai nostri.

Un atteggiamento più «laico» nei confronti delle Nazioni Unite appare tuttavia di difficile adozione da parte del governo Renzi. Per il quale, evidentemente, una politica economica che dà così tanti dispiaceri alla sinistra tradizionale deve essere bilanciata da concessioni su altri versanti, si tratti di unioni civili o di omaggi all’ideologia onusiana. Solo che quando è in ballo la sicurezza diventa rischioso continuare a giocare con l’ideologia.

23 ottobre 2015 (modifica il 23 ottobre 2015 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_23/italia-crisi-troppa-fiducia-nell-onu-c180f9b2-7942-11e5-a624-46f9df231ebf.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un errore cambiare L’Italicum e la paura di Grillo
Inserito da: Arlecchino - Novembre 04, 2015, 05:36:32 pm
Un errore cambiare
L’Italicum e la paura di Grillo

Di Angelo Panebianco

In politica non si può dare nulla per scontato ma, al momento, sembra che Renzi e il Pd debbano rassegnarsi: Roma, per loro, è perduta. È verosimile che fra qualche mese, quando si andrà a votare, a giocarsi la partita saranno i grillini e, ma solo se troverà un leader all’altezza (Alfio Marchini?), il centrodestra.

Tenuto conto della débâcle di Marino, nonché del clima generale alimentato dai gravi episodi di malaffare e corruzione (ma la mafia non c’entra), ci sono buone probabilità che a conquistare la Capitale siano proprio i Cinque Stelle. Se questo accadrà l’intera Italia pubblica finirà «sull’orlo di una crisi di nervi». Circoleranno inverosimili sondaggi che attribuiranno ai Cinque Stelle il ruolo di primo partito nelle intenzioni di voto (ma rivelando, contestualmente, percentuali ancora più alte di indecisi), e tanti commentatori cominceranno a «riposizionarsi» (un termine asettico ed elegante che indica i movimenti trasformistici) preparandosi a una futura presa del Palazzo d’Inverno da parte di Grillo e soci. Il nervosismo andrà alle stelle. Mentre i corrispondenti esteri correranno a intervistare i vari capi grillini i quali parleranno come se fossero già al governo, come se avessero già in tasca il Paese.

L’unica certezza è che, per lo meno, Renzi non si farà troppo impressionare, forse sarà l’unico, in quella situazione, a non perdere la Trebisonda. Ma dovrà anche resistere a fortissime pressioni tese ad ottenere un cambiamento della legge elettorale. L’argomento è già stato usato ma, se i grillini sfonderanno a Roma, diventerà dominante.

Il ragionamento è il seguente: essendo il sistema politico nazionale ormai tripolare, in caso di ballottaggio fra Renzi e i grillini il centrodestra sposterà i suoi voti su questi ultimi dando così a Grillo la vittoria. A riprova c’è il fatto che, in tempi recenti, in alcune amministrazioni locali, il ballottaggio fra il Pd e i Cinque Stelle si è risolto a favore di questi ultimi. Si può ribattere che è sempre rischioso pensare alle elezioni nazionali come se fossero una replica di quelle locali. Ciò che accade localmente dipende soprattutto da fattori locali (ad esempio, chi erano i candidati sindaci del Pd battuti dai Cinque Stelle?). Inoltre, siamo sicuri che i voti serviti al grillino locale per battere i democratici arrivassero dal centrodestra? È noto che, nelle elezioni locali, gli elettori del centrodestra hanno una forte propensione all’astensione al secondo turno, persino quando al ballottaggio va un loro rappresentante. Questa propensione dovrebbe essere ancora più accentuata quando lo spareggio è fra candidati entrambi estranei al centrodestra. Infine, anche ammesso che, in certi casi, elettori del centrodestra abbiano premiato, nel ballottaggio locale, un Cinque Stelle, questo non autorizza a pensare che rifarebbero la stessa scelta in un ballottaggio nazionale. Conviene non dimenticare certe specificità delle elezioni locali. Le stesse che, ad esempio, ai tempi della Guerra fredda, spingevano elettori anticomunisti a diciotto carati a votare, in certe città emiliane, per il sindaco comunista, considerato da loro un buon amministratore.

Nelle elezioni nazionali, tolti i giovanissimi che studiano e vivono a casa dei genitori, le persone votano soprattutto con il portafoglio, badando al proprio interesse. Davvero i leader del centrodestra potrebbero, a cuor leggero, chiedere agli elettori di votare un Cinque Stelle in odio a Renzi? E se anche ciò avvenisse, sarebbero molti gli elettori disposti a seguire una tale indicazione? Non è verosimile. Difficilmente quegli elettori - molti dei quali, sicuramente, avrebbero tanto da perdere - correrebbero un rischio simile. Un grillino a Palazzo Chigi scatenerebbe il panico su tutte le piazze internazionali: un fuggi fuggi generale. Più o meno ciò che accadde ad Atene alle prime elezioni in cui vinse Syriza. L’Italia non è la Grecia ma, presumibilmente, gli effetti (almeno quelli immediati) non sarebbero diversi. È difficile che gli elettori di centrodestra non lo intuiscano. Per queste ragioni Renzi farà bene a resistere ai tentativi di imporgli un cambiamento della legge elettorale che, a quel punto, verrà proposto con la scusa di voler fermare i grillini ma che (col voto alla coalizione anziché al partito e altri trucchi proporzionalistici) comprometterebbe la futura governabilità. Dal momento che resta assai probabile che, in caso di ballottaggio, il grosso degli elettori del centrodestra vada in soccorso di Renzi anziché di un Cinque Stelle, quale che sia l’indicazione dei loro leader.

Tuttavia, è dura a morire l’idea che così non sarebbe. Per due motivi. Il primo è che si tende a pensare agli elettori come se fossero «pacchi»: i leader li pigliano e li mettono dove vogliono. Ma gli elettori non sono pacchi, sono persone che pensano (chi più e chi meno lucidamente) con la propria testa.

Il secondo motivo ha a che fare con una sopravalutazione delle possibilità dei grillini di sfondare sul piano nazionale quali che siano i loro successi locali. Qualunque cosa raccontino i sondaggi (ma sempre occhio alla percentuale di indecisi), è improbabile che il partito di Grillo ottenga, alle prossime elezioni politiche, gli stessi voti del 2013. Allora i grillini vennero scelti anche da tanti che non li conoscevano e volevano fare uno sberleffo al potere costituito. È difficile che costoro li votino di nuovo. I grillini otterranno plausibilmente molti meno voti del 2013 . Ci saranno allora commentatori che prenderanno un’altra cantonata, che parleranno di «clamorosa sconfitta» e di «inizio della fine» del movimento grillino. Sarà invece l’inizio del suo consolidamento. Plausibilmente, esso andrà a rappresentare stabilmente quella quota di elettorato «anti-sistema», ampia ma non maggioritaria, la cui presenza è una costante nella storia d’Italia.

1 novembre 2015 (modifica il 1 novembre 2015 | 09:12)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_01/italicum-paura-grillo-12fead2c-8062-11e5-aac9-59b4cd97071f.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tocca anche a noi Il terrore (e qualche risposta)
Inserito da: Arlecchino - Novembre 09, 2015, 04:50:08 pm
Tocca anche a noi
Il terrore (e qualche risposta)

Di Angelo Panebianco

Vivere al tempo del terrorismo. Sembra quasi certo che sia stata una bomba a fare esplodere sul Sinai l’aereo russo che riportava a casa i turisti da Sharm el Sheikh. Ma se anche così non fosse (se anche, a dispetto degli indizi, fosse stato un incidente), non avrebbe più molta importanza: lo Stato islamico, l’organizzazione che al momento batte qualunque altra per capacità propagandistica, e che si è attribuito - ufficialmente per rappresaglia contro la presenza militare russa al fianco della Siria - la responsabilità dell’attentato, ha ottenuto una vittoria (contro l’Egitto). Il presidente Putin, bloccando i voli russi per quel Paese, ha fatto ad Al Sisi, il nuovo rais, una richiesta che sembra un ultimatum: rimetti sotto controllo il Sinai, riporta la sicurezza negli aeroporti e nei cieli o pagherai un conto economico salato. Se Al Sisi vuole continuare a usare il rapporto con i russi per non ritrovarsi alla mercé degli americani, dovrà darsi molto da fare. Magari anche chiedendo l’aiuto degli israeliani per tentare di riprendere il controllo del Sinai. Nonostante i tentativi egiziani di negare l’attentato, la mossa russa, che segue la cancellazione dei voli per Sharm decisa da molte compagnie europee, colpisce al cuore l’industria turistica egiziana. Rimediare non sarà facile. Il Califfato si è dunque aggiudicato il round .
Contro lo Stato islamico le chiacchiere sono tante ma i fatti degni di nota pochissimi. Più il tempo passa, più sarà arduo toglierlo di mezzo. È difficile che l’inerzia americana termini prima che ci sia un cambio della guardia alla Casa Bianca .
Per conseguenza è quindi difficile che la grande (sulla carta) coalizione contro il Califfato riesca a sconfiggerlo. Nato dalla confluenza di due Stati in cui i sunniti erano sottomessi agli sciiti da sempre (Siria) o dal momento della fine di Saddam Hussein (Iraq), lo Stato islamico, con la sua stessa esistenza, segnala l’impossibilità di tornare alla situazione precedente, quella di Stati artificiali i cui confini vennero tracciati nel ventesimo secolo dalle potenze europee. E se così è, il quesito diventa: sarà possibile che in quell’area i sunniti riescano a darsi un regime e un volto diversi da quelli dello Stato islamico, rinunciando al radicalismo e alla guerra santa? Se anche questo prima o poi accadrà, dovrà comunque passare molto tempo.

Nel frattempo, il mondo sarà costretto a convivere a lungo con una minaccia ancor più grave di quella a suo tempo rappresentata da Bin Laden e da Al Qaeda. Si tratti di giustiziare con spettacolare ferocia gli infedeli, schiavizzare migliaia di donne, distruggere patrimoni artistici, resistere sul terreno a una coalizione che se esistesse di fatto, e non solo nominalmente, dovrebbe averlo già spazzato via da un pezzo, lo Stato islamico continua a fare proseliti e a far sognare giovani musulmani insoddisfatti della propria condizione in ogni parte del mondo. Eccellenti qualità propagandistiche a parte, per il solo fatto di durare, dimostrando la sua capacità di resistere ai nemici, lo Stato islamico diventa un moltiplicatore di minacce terroriste.
Come sempre è avvenuto quando le minacce si fanno gravi è la libertà che ci va di mezzo. Non solo la libertà di movimento ma anche quella libertà - dai controlli del governo - che le democrazie liberali ben funzionanti un tempo tutelavano. Danilo Taino (sull’ultimo numero di Sette , il supplemento settimanale del Corriere ) elenca varie proposte di legge avanzate in Germania, Austria, Finlandia e altri Paesi, tese a limitare la privacy e a rendere pervasivi i controlli governativi sui cittadini in funzione antiterrorismo. Lasciamo da parte il fatto che da noi, in Italia, quelle proposte di legge non possono fare una grande impressione: la nostra infatti, retorica a parte, è una democrazia poco liberale nella quale gli abusi delle intercettazioni giudiziarie hanno da tanto tempo spazzato via il diritto alla privacy . Specificità italiana a parte, resta però vero, come scrive Taino, che le minacce spingono a rinunciare a molte libertà le quali, in seguito, quando la minaccia sarà svanita, diventerà difficile riprendersi.


L’alternativa è purtroppo chiara: o si riesce a riportare a livelli relativamente bassi la minaccia oppure sarà difficile impedire una sensibile contrazione degli spazi di libertà. Anche in un Paese apparentemente spensierato come il nostro non si potrà continuare a fingere a lungo che il problema non ci riguardi. Un campanello d’allarme deve pur suonare anche in Italia nel momento in cui fallisce la mediazione dell’inviato dell’Onu Bernardino León in Libia, e il León medesimo, nella costernazione (si spera almeno che siano costernati) di coloro che qui da noi tanto mitizzano l’Onu, va a farsi stipendiare dagli Emirati, una delle parti in causa nel pasticcio libico.

A partire da novembre, Roma dovrà vedersela con il Giubileo straordinario voluto da papa Francesco. Il Giubileo precedente, quello del 2000, fu gestito con successo dallo Stato italiano e dal Comune di Roma in accordo con il Vaticano. Allora però non c’erano i problemi di sicurezza di oggi. Persino un Paese spensierato dovrebbe rendersene conto.

8 novembre 2015 (modifica il 8 novembre 2015 | 08:18)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_08/terrore-qualche-risposta-3de0fcc6-85e8-11e5-af91-bb1507114fbb.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Gli attentati a Parigi e l’occidente disunito
Inserito da: Arlecchino - Novembre 17, 2015, 06:56:34 pm
EDITORIALE

Gli attentati a Parigi e l’occidente disunito
La combinazione di pensiero politicamente corretto e di paura è una miscela micidiale (non solo in Francia, in tutta Europa), può spingere verso l’imposizione di una censura più implacabile di quella che sarebbe in grado di attuare un governo: alimentata soprattutto dalla paura collettiva

Di Angelo Panebianco

Due domande ritornano in molti commenti angosciati dopo la strage di Parigi. La prima riguarda il futuro delle libertà nell’Europa aggredita. Ci diciamo che sono proprio le nostre libertà, levatrici di un modo di vivere che dal loro punto di vista è corrotto e blasfemo, che i terroristi islamici vogliono distruggere, e anche per questo dobbiamo difenderle. È giusto ma, purtroppo, ciò che è vero in linea di principio fatica ad esserlo anche in pratica. Nessuno sa come conciliare libertà e sicurezza nel momento in cui la sicurezza subisca un vulnus così pesante. Nelle guerre convenzionali del passato anche le democrazie erano costrette a ridurre l’area delle libertà (censura, controllo degli spostamenti e della corrispondenza, coprifuoco). Solo quando la guerra finiva si poteva invertire la tendenza.

Le leggi antiterrorismo approvate in Francia e quelle in via di approvazione in molti Paesi europei, ci dicono che andiamo verso restrizioni sensibili della libertà. Dopo Parigi, è difficile che questo processo possa essere bloccato: l’Europa dell’età del terrorismo sarà purtroppo meno libera di quella che abbiamo conosciuto.
Si spera almeno che alla limitazione delle libertà imposta dai governi non si affianchino anche movimenti «spontanei» nella stessa direzione. La paura fa brutti scherzi, spinge al conformismo. Dopo il dolore e lo sgomento dei primi momenti, c’è il rischio che mass media, intellettuali, educatori, scelgano di imporre il silenzio sui temi che più scottano: il contrario di quella battaglia culturale che, giustamente, Ernesto Galli della Loggia (sul Corriere di ieri) ritiene indispensabile per contrastare le menzogne dell’estremismo islamico. La Francia, d’altra parte, prima della strage, aveva già dato prove di disponibilità al conformismo (i processi per islamofobia ne sono un esempio). La combinazione di pensiero politicamente corretto e di paura è una miscela micidiale (non solo in Francia, in tutta Europa), può spingere verso l’imposizione di una censura più implacabile di quella che sarebbe in grado di attuare un governo: alimentata soprattutto dalla paura collettiva.

La seconda domanda è collegata alla prima. Avremo la coesione necessaria per fronteggiare coloro che ci hanno dichiarato guerra? Di «guerra» ha parlato il presidente Hollande dopo la strage. Prima di allora (anche dopo l’attentato di Charlie Hebdo ) nessun leader europeo si era arrischiato a usare quella parola.
Guardiamo ai fatti. Ci si rallegra giustamente perché al vertice del G20 in Turchia, americani e russi sembrano avere trovato un accordo per contrastare lo Stato Islamico. E anche perché nei colloqui di Vienna fra le parti interessate sia iniziato un percorso - che tutti sanno comunque in salita - per trovare una soluzione diplomatica alla questione siriana.

In tempi di disperazione è giusto aggrapparsi a qualunque cosa. Ma non si possono nascondere le difficoltà. Sulla carta, la posizione di Obama è giusta: lo Stato Islamico (sunnita) deve essere sconfitto soprattutto dai sunniti. Se fossero le potenze occidentali più la Russia, più l’Iran sciita, a distruggerlo, sarebbe difficile non antagonizzare i sunniti, che sono maggioranza nel mondo islamico. In pratica, è però difficile, ad esempio, che l’Iran accetti di svolgere un ruolo secondario. Altrettanto difficile è che certi Stati sunniti (come la Turchia, nemica di quei curdi che, unici sul terreno, combattono il Califfato) si impegnino a fondo in questa guerra.

La coalizione militare è troppo ampia e troppo diversificati sono gli interessi. Forte resta anche, come sempre nelle coalizioni ampie, la tentazione dello «scaricabarile» (spostare su altri il peso della guerra). Senza contare che oggi lo Stato Islamico è, grazie a un’inerzia durata troppo a lungo, molto più forte di ieri. E la sua gramigna si è diffusa in molti luoghi.

Se la grande coalizione anti Stato Islamico resta più fragile di come la si vorrebbe, che dire poi di quel vaso di coccio che è l’Europa? Hollande, consapevole che Obama non è disposto a fare molto più di quello che sta facendo, con una mossa a sorpresa, anziché appellarsi all’articolo 5 della Nato (che impone ai membri dell’alleanza di soccorrere militarmente l’aggredito) ha richiamato per la prima volta una norma europea (l’articolo 42 del Trattato) chiedendo l’aiuto (militare) dei partner dell’Unione. È difficile pensare che ciò possa avere un seguito. Ad esempio, né la Germania né l’Italia, verosimilmente, sono pronte a un impegno di quella portata. Prima di pensare a una cosa del genere, occorrerebbe ottenere (ma è assai difficile) una maggiore coesione non solo fra gli Stati europei ma anche all’interno di ciascuno di essi.

È più probabile che l’Europa, in breve tempo, sia di nuovo pronta a dividersi fra due fronti ugualmente insensati; da un lato, il fronte di chi vuole fare di tutta l’erba un fascio, prendersela con tutti i musulmani (sarebbe un favore allo Stato Islamico, getterebbe fra le sue braccia anche gente che avrebbe fatto altro) e, dall’altro lato, il fronte di chi pretende di trattare l’estremismo terrorista come un fatto estraneo all’islam e comunque isolato. Come la prima, anche questa seconda posizione si risolve in un favore per gli estremisti: impedisce di mettere a nudo, e combattere, le affinità cultural-ideologiche fra la minoranza jihadista e settori più ampi del mondo musulmano. Se quelle affinità non ci fossero, ad esempio, non ci sarebbero stati (come osservava Giles Kepel sul Corriere di ieri), i tanti consensi registrati a suo tempo nel mondo islamico per l’azione contro Charlie Hebdo . Né certi giornali del mondo arabo avrebbero potuto permettersi in questi giorni di pubblicare vignette satiriche contro la Francia aggredita.

Dallo scontro fra due insensatezze non nasce nulla di sensato. L’Europa, se non vuole essere sconfitta, deve imparare ad essere più intelligente di così.

17 novembre 2015 (modifica il 17 novembre 2015 | 08:22)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_17/occidente-disunito-4454ffa4-8cef-11e5-a51e-5844305cc7f9.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il ruolo offuscato degli Usa
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 04, 2015, 07:04:37 pm
Medio Oriente
Il ruolo offuscato degli Usa
Un’America che rinuncia alla leadership atlantica, come si è visto, è un’America che rinuncia alla leadership tout court.
Ma anche l’Europa, come testimoniano questi anni, diventa un continente allo sbando

Di Angelo Panebianco

Previsioni no ma un’ipotesi fondata su qualche dato di fatto si può avanzare: l’offensiva finale contro il Califfato, plausibilmente, non comincerà prima della metà del 2017. Nel 2016 ci saranno le elezioni presidenziali statunitensi. Il nuovo presidente si insedierà all’inizio del 2017. A lui o a lei occorrerà un po’ di tempo per elaborare una strategia utile allo scopo di venire a capo del problema nei suoi aspetti militari e politici. Obama, figlio di una stagione in cui l’opinione pubblica americana era stanca di guerre (accadde anche negli anni Settanta: Jimmy Carter fu il presidente di un Paese estenuato dopo il Vietnam), non farà nulla di nuovo, non restituirà all’America, men che mai nelle faccende mediorientali, il ruolo dello Stato guida, della potenza che esercita una forte leadership sull’insieme degli alleati.

A meno di eventi così sconvolgenti da far cambiare idea a Obama, perché ciò accada bisognerà aspettare un nuovo presidente, democratico o repubblicano.

Fino ad allora vivremo in mezzo alle contraddizioni di coalizioni di guerra più nominali che reali, prive del collante che può fornire solo uno Stato egemone e deciso a esercitare l’egemonia. Inoltre, non potendo distruggere subito la principale fonte dell’infezione, continueremo ancora a lungo a fronteggiare un elevato rischio terrorismo.

Va così inquadrato anche lo scontro in atto fra il russo Putin e il turco Erdogan. Putin non sta soltanto attaccando un nemico del suo alleato Assad di Siria (l’aereo russo abbattuto era in azione contro i ribelli anti Assad filoturchi). Sta anche sferrando colpi alla già precaria posizione americana. Mettendo a nudo il doppiogioco della Turchia (membro della Nato) nel rapporto col Califfato, Putin ottiene il risultato di accrescere le difficoltà degli americani e di rendere ancor più ardua la formazione di una vera coalizione a guida occidentale contro lo Stato Islamico. È in questo quadro strategico che va anche collocata la polemica russa contro il Montenegro nella Nato: serve ad alzare il prezzo nei negoziati con gli occidentali sui futuri assetti mediorientali (e far distogliere l’attenzione, il che non guasta, dalle responsabilità russe in Ucraina).
Il presidente francese Hollande spera di realizzare («nodo» Assad permettendo) una cooperazione stretta con la Russia contro lo Stato Islamico. E sono molti i leader, Matteo Renzi compreso, che pensano che senza la Russia non si potrà fare nulla.

Berlusconi (Corriere del 2 dicembre) auspica un’ampia coalizione Onu guidata dalle principali potenze, Usa e Russia in primo luogo. Ma se è giusto sostenere che con la Russia occorra comunque cooperare in quel conflitto, è un’illusione pensare che ciò possa essere fatto senza un rilancio della leadership americana.
Una Russia aggregata a una coalizione guidata, militarmente e politicamente, dagli americani è una cosa. Una Russia che non deve fare i conti con una forte America è un’altra cosa: perché sarebbe libera di fare soltanto i propri interessi, non necessariamente coincidenti con i nostri. Ha ragione l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fisher (Corriere del 29 novembre): per tentare di liberarci dello Stato Islamico, oggi rischiamo di doverci affidare a un blocco sciita (Iran, Siria di Assad, hezbollah libanesi) sotto la guida russa. Sarebbe politicamente una catastrofe - si pensi a come reagirebbero i sunniti- se Assad assurgesse al ruolo di «liberatore» dei territori oggi in mano al Califfato. La Russia va bene, insomma, ma non con un’America debole.

Oltre a imprimere una forza che oggi manca alla coalizione anti Stato Islamico rendendo possibile una seria azione di contrasto all’estremismo, il ritorno della leadership americana servirebbe in molti modi agli europei. Servirebbe, per esempio, a distogliere tanti dalla cattiva idea secondo cui, poiché l’America latita, tanto vale legare le proprie sorti a quelle di un «vero» uomo forte. Il fascino che Putin esercita su molti europei è pericoloso: fa dimenticare che la Russia è un regime illiberale con cui dobbiamo certamente collaborare ma senza abbassare la guardia, senza dimenticare l’abisso, culturale e istituzionale, che separa quella democrazia autoritaria dalle nostre democrazie liberali. Nonché le insidie che sono sempre presenti nei rapporti con i regimi autoritari.

Servirebbe anche a ridare ragioni e motivazioni a una comunità atlantica che non è stata solo un’alleanza di pura convenienza dei tempi della Guerra fredda. Nel lontano 1958, un grande storico liberale, Vittorio de Capraris, scrisse un libro suggestivo e quasi dimenticato, Storia di un’alleanza: la comunità atlantica, per lui, era il punto di arrivo di un percorso secolare, il momento di coagulo di un blocco di Paesi unito dalla consapevolezza di rappresentare una «comunità di destino», fondata sulla condivisione di valori e dotata degli istituti necessari alla vita e allo sviluppo di società libere.

Un’America che rinuncia alla leadership atlantica, come si è visto, è un’America che rinuncia alla leadership tout court. Ma anche l’Europa, come testimoniano questi anni, diventa un continente allo sbando. Come De Capraris aveva capito fin dagli anni Cinquanta, non c’è nessuna integrazione europea possibile se non all’interno di un rapporto di partnership con gli Stati Uniti. Entrata in crisi la seconda, difatti, è entrata in crisi anche la prima.

Talvolta, nel momento di maggior pericolo, di fronte a gravissime minacce esistenziali, uno scatto inaspettato non solo allontana il pericolo ma apre nuovi scenari. Oggi il mondo occidentale è certamente in pericolo. È difficile che possa superarlo se non ritroverà le smarrite ragioni di un’antica solidarietà.

4 dicembre 2015 (modifica il 4 dicembre 2015 | 07:38)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_04/ruolo-offuscato-usa-a348dc8a-9a4e-11e5-99f9-ca90c88b87df.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le Pen e la Ue Il segnale francese all’Europa
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 17, 2015, 07:15:42 pm
Le Pen e la Ue
Il segnale francese all’Europa
L’Europa che ci serve, e che può sconfiggere le forze centrifughe in atto, è un’Europa che fa scelte diverse dal passato

Di Angelo Panebianco

Gli elettori hanno fermato la corsa del Fronte Nazionale di Marine Le Pen al secondo turno delle Regionali. Ma sbagliano coloro che, preoccupati per le sorti dell’Europa, tirano un sospiro di sollievo. La Le Pen si avvicina al trenta per cento dei voti e ha ottime chance di arrivare al ballottaggio alle Presidenziali del 2017. La forza del lepenismo dimostra che l’europeismo tradizionale è finito e che senza un rinnovamento di linguaggi e di pratiche la disgregazione dell’Unione Europea diventerà probabile.

Bastava ascoltare i discorsi del primo ministro Valls e dell’ex presidente Sarkozy sui risultati delle Regionali: ostilità nei confronti del Fronte, richiami ai valori della «République», nessun accenno all’Europa. Solo l’ex primo ministro Alain Juppé, compagno di partito e avversario di Sarkozy, si arrischia a stigmatizzare l’antieuropeismo del Fronte. I «patrioti», come li chiama la Le Pen, i fautori del ritorno alla piena sovranità nazionale, i nemici della globalizzazione e dell’Europa, sono già vittoriosi nel discorso pubblico francese.

Per giunta, tale «patriottismo» non è una specialità solo francese. Una decennale crisi economica, la sfida dell’immigrazione, la delegittimazione delle istituzioni europee (esclusa la Banca centrale ma non si sa ancora per quanto) ad opera di governi - Germania in testa - che hanno scelto la rinazionalizzazione delle decisioni, hanno favorito la diffusione dell’antieuropeismo.
I «patrioti» o sono già maggioranza, come in Polonia o in Ungheria, o alimentano ovunque forti movimenti di opposizione di cui chi governa è costretto a tenere conto.

Chi pensa che se prevalesse la disgregazione dell’Unione ci troveremmo a buttar via non solo l’acqua sporca (il tanto che non va) ma anche il bambino (i benefici) dovrebbe capire che se non si cambia subito registro è finita.

È da almeno un decennio (dal referendum francese del 2005 sulla cosiddetta «Costituzione europea») che si è aperta la crisi dell’europeismo tradizionale, ma i suoi adepti sono stati per lo più incapaci di rinnovarsi. Non si sono accorti di un’opinione pubblica che stava ritirando la delega, il mandato in bianco che per tanti decenni aveva concesso alle élites impegnate nella costruzione europea.
Il linguaggio spoliticizzato, pseudo-tecnico, dell’europeismo tradizionale non è più vendibile nel momento in cui l’Europa si politicizza, diventa un tema di confronto e divisione negli elettorati. Considerate quanto scarso appeal abbiano per l’opinione pubblica gli argomenti di solito proposti a favore dell’integrazione politica. Il primo è l’argomento del «si può contare di più»: non è il titolo di una canzone ma il ritornello di chi vorrebbe convincerci che abbiamo bisogno di un’Europa unita perché solo così possiamo «contare» in un mondo di giganti. È un argomento veritiero ma politicamente inutile se proposto in questi termini alle opinioni pubbliche: come potrebbe convincere le persone ad abbandonare identificazioni secolari (nei loro Stati) a favore di una entità burocratica così distante dalle loro menti e dai loro cuori? Il secondo argomento è quello del «hai voluto la bicicletta? Ora pedala». È di chi dice che fatta l’integrazione monetaria non possiamo che farla seguire dall’integrazione politica. Insomma, dovremmo unificarci politicamente - a sentire costoro - per una ragione tecnico-funzionale. Ma vi pare che un argomento di tal fatta possa mobilitare le opinioni pubbliche?

Il terzo argomento è migliore dei primi due. È di chi dice che se il processo di integrazione si arrestasse il rischio sarebbe la dissoluzione: una tragedia peggiore non sarebbe possibile perché l’integrazione ha contribuito (insieme alla Nato) a tenere la guerra lontana dalle contrade europee. È un argomento serio. Per i «patrioti», ritornare alla sovranità nazionale significa sia ripristinare rigidi controlli alle frontiere sia recuperare sovranità economica (da qui l’ostilità all’euro), da ottenere con dosi massicce, si suppone, di protezionismo. Realistico o irrealistico che sia un tale programma, basterebbe una sua attuazione solo parziale per generare decadenza economica. E non soltanto. Lo si sappia o meno, con il recupero dell’antica sovranità nazionale, la guerra fra Stati tornerebbe (non subito ma in prospettiva) ad essere una possibilità in Europa.

Dei tre argomenti è, in teoria, il più comprensibile per l’opinione pubblica ma si scontra con il fatto che, quasi scomparsi del tutto coloro che hanno vissuto sulla propria pelle la Seconda guerra mondiale, divenute maggioritarie le generazioni post-belliche, la sua capacità di convincimento è ogni giorno più debole.

Non è più tempo di élites che «si parlino addosso», che agitino temi incomprensibili per le opinioni pubbliche. Chi volesse impegnarsi in una battaglia culturale a favore dell’Europa per sconfiggere i «patrioti», dovrebbe poter dire ciò che al momento non può credibilmente dire, ossia che grazie all’Europa (ma in alleanza con gli Stati Uniti) avremo la sicurezza in più che ci serve per sconfiggere i nostri nemici, nonché più prosperità e più libertà per tutti.

Ma non c’è rinnovamento possibile del linguaggio senza un contestuale rinnovamento delle pratiche. L’Europa che ci serve, e che può sconfiggere le forze centrifughe in atto, è un’Europa che fa scelte diverse dal passato. Non va più a raccontare favole sulla possibilità di «superare» gli Stati nazionali, anche se non rinuncia a mettere in guardia contro i rischi di scelte nazionaliste. All’Europa serve una riscrittura dei Trattati che ne riorienti istituzioni e pratiche in direzione confederale: poche cose riservate al centro e tutto il resto nella potestà degli Stati. Il che significa ridisegnare i poteri delle istituzioni (e anche togliere prerogative alla Commissione e al Parlamento europeo).

Continuare come se nulla fosse accaduto, riproporre un europeismo di maniera, fossilizzato, proprio del tempo in cui l’Europa era una faccenda per iniziati, fingere che all’Unione non serva un radicale cambiamento, è il modo per sfasciare tutto, per distruggere anche il buono che c’è.

16 dicembre 2015 (modifica il 16 dicembre 2015 | 07:23)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_16/segnale-francese-all-europa-15d36ab0-a3bc-11e5-900d-2dd5b80ea9fe.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il sistema elettorale L’Italicum è il minore dei mali
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 29, 2015, 12:26:21 pm
Il sistema elettorale
L’Italicum è il minore dei mali

Di Angelo Panebianco

Anche se molti faticano ad accettarlo, la politica non ci mette mai o quasi mai nella condizione di scegliere fra il bene e il male. Nella schiacciante maggioranza dei casi, ci è data solo la possibilità di decidere quale sia, dal nostro punto di vista, il male minore e quale sia il maggiore. Non danno l’impressione di esserne consapevoli coloro che criticano l’Italicum, il sistema elettorale voluto da Renzi e già approvato dal Parlamento. Alcuni di questi critici (i quali sperano in una bocciatura da parte della Corte costituzionale) lo considerano un pasticcio e vorrebbero al suo posto un maggioritario con collegi uninominali. Questi critici hanno ragione nel ritenere i sistemi maggioritari (non entro qui nella disputa per iniziati su turno unico, all’inglese, o doppio turno, alla francese) decisamente migliori dell’Italicum. Ma hanno torto nel pensare che se la Corte lo bocciasse si riaprirebbero i giochi. Nossignore, non si riaprirebbe nessun gioco per chissà quanto tempo, ci troveremmo a votare con un sistema proporzionale puro. Per la felicità di quei nostalgici i quali non hanno capito che senza i partiti forti e radicati della Prima Repubblica (partiti che non è più possibile riprodurre) la proporzionale assicura l’ingovernabilità e, alla lunga, mette a rischio la democrazia.

Ricapitoliamo brevemente le caratteristiche dell’Italicum. Si tratta di un (complicato) sistema «misto» che combina ripartizione dei seggi con metodo proporzionale, collegi plurinominali e doppio turno, con clausola di sbarramento, ballottaggio e premio di maggioranza.

La superiorità dei maggioritari classici rispetto all’Italicum è indubbia anche se non è sicuro che le ragioni qui addotte per sostenere tale tesi siano condivise dai suddetti critici. Se pensiamo che un sistema elettorale funzioni meglio o peggio non solo in virtù delle sue caratteristiche tecniche ma anche per come viene recepito e utilizzato dagli elettori e dai politici, allora possiamo comprendere quale sia la principale debolezza dell’Italicum e dove stia la superiorità dei sistemi maggioritari con collegi uninominali.

La debolezza consiste nel fatto che un sistema misto (una combinazione di elementi proporzionali e maggioritari), adottato in un Paese con un’antica e radicatissima tradizione proporzionalistica, non permette di seppellire tale tradizione, la mantiene viva e vegeta, e ciò ha effetti distorsivi, rende meno efficaci i marchingegni maggioritari previsti (clausola di sbarramento, ballottaggio e premio di maggioranza).

Nel periodo in cui restò in vigore (1993-2005) un altro sistema misto (maggioritario con collegi uninominali e lista proporzionale), la componente proporzionale residua ebbe potenti effetti negativi: impedì al Paese di perdere abitudini radicate, favorì i continui tentativi di forzare quel sistema elettorale in senso proporzionale.

In che cosa consiste la principale ragione di superiorità di un sistema maggioritario puro? Nel fatto che le persone, in poco tempo, si abituano ad accettare come «naturale» il fatto che il governo che esce dalle urne sia espressione di una minoranza (la minoranza più forte) del corpo elettorale. Poiché, salvo casi rari, è questo l’esito normale dell’operare di un sistema maggioritario.
Invece, dove resiste la tradizione proporzionalistica tante persone credono che un governo non espresso dalla maggioranza (o qualcosa che vi si avvicini) degli elettori - per il tramite di partiti che dispongono di una quantità di seggi proporzionale alla quantità di voti ricevuti - non sia realmente «democratico», e faticano a riconoscerne la legittimità.

Essendo un sistema misto, l’Italicum produrrà (in virtù della sua componente maggioritaria) governi di minoranza ma non potrà mai scacciare (in virtù della sua componente proporzionale) le abitudini proporzionaliste dei partiti. Né potrà mai togliere dalla testa degli elettori l’idea che un governo scelto da una minoranza non abbia tutte le carte democratiche in regola. Per questa ragione, si può ipotizzare che il carattere misto dell’Italicum ne impedirà il radicamento. Probabilmente, esso durerà quanto durerà la leadership di Matteo Renzi. Quando Renzi uscirà politicamente di scena, uscirà di scena anche l’Italicum.

Perché allora Renzi non ha scelto un maggioritario con collegi uninominali (a un turno o a due turni), perché ha optato per un sistema elettorale che certamente garantisce un vincitore (questo è l’aspetto positivo) ma che ha anche costi notevoli? Per due ragioni. La prima è l’allergia di tutto il Parlamento per i collegi uninominali: troppo rischiosi per i peones (si vince l’unico seggio in palio o si va a casa) e poco affidabili dal punto di vista dei leader (l’eletto in un collegio uninominale può più facilmente sfuggire al controllo gerarchico). La seconda ragione consiste in un calcolo, non si sa ancora se corretto o no: con l’Italicum non è soltanto probabile la vittoria di Renzi. Lo è anche la frammentazione, e quindi, plausibilmente, l’impotenza dell’opposizione.

Se abitassimo nell’«Isola che non c’è», dove ogni desiderio dei bimbi perduti si realizza, potremmo (anzi, dovremmo) sbarazzarci dell’Italicum e sostituirlo con un semplice, pulito, sano sistema maggioritario con collegi uninominali. Ma poiché viviamo nel mondo reale, dobbiamo tenerci stretto l’Italicum, il male minore.
28 dicembre 2015 (modifica il 28 dicembre 2015 | 07:28)
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Titolo: Angelo PANEBIANCO. Due errori strategici Il fronte estero del premier
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 09, 2016, 05:52:22 pm
Due errori strategici
Il fronte estero del premier

Di Angelo Panebianco

Gli amici italiani della Russia si dividono in due categorie, gli antiamericani (Grillo e Salvini) e i filoamericani, quelli che si barcamenano (Renzi e Berlusconi). Questi ultimi devono essersi sentiti affranti quando pochi giorni fa, a conferma di una svolta che risale a qualche anno addietro, Putin ha varato il nuovo piano strategico, ribadendo che Nato e Usa sono l’avversario principale, il potenziale nemico numero uno. E Renzi deve essere ancor più a disagio di Berlusconi visto che è lui che governa, è lui che deve fare fronte a tutte le grane.

Grane che dipendono da una congiuntura internazionale che per noi europei si rivela ogni giorno più cupa: il Medio Oriente è a ferro e fuoco per diverse ragioni, fra le quali una delle più importanti è lo scontro fra sunniti e sciiti precipitato nella rivalità, e nella crisi in atto, fra Arabia Saudita e Iran, ma anche nel conflitto yemenita, nella guerra civile siriana, nella cancellazione dei confini statali (Siria, Iraq) tracciati nel Novecento dalle potenze coloniali, e di cui è espressione la nascita dello Stato islamico. Si aggiungano gli effetti dirompenti che le vicende mediorientali esercitano sull’Islam europeo, i flussi migratori potenti e così difficili da controllare, il terrorismo, la competizione di potenza fra Russia e Stati Uniti che complica la partita mediorientale ed esaspera le divisioni entro l’Ue (fra i Paesi dell’Est che temono l’imperialismo russo e quelli dell’Ovest per i quali la Russia è solo un partner commerciale, un’opportunità per gli affari). Tutto ciò obbliga a rifare qualche conto anche in Italia.

Fino a poco tempo fa si poteva pensare che la scommessa politica di Renzi fosse legata esclusivamente alla sua capacità di fare ripartire una macchina economica imballata. Adesso non è più così. Oggi egli deve anche rassicurare gli italiani a proposito della propria capacità di guidare il Paese in acque internazionali turbolente. Non è sicuro che sia in grado di dare questa dimostrazione, di convincere l’opinione pubblica che egli possieda qualità di condottiero. Sia chiaro: gli oppositori, per quel che si vede, non sono meglio di lui. Ma non è questo il punto. Il punto è che l’onere di dimostrarsi all’altezza spetta a chi governa. Gli oppositori possono limitarsi a gridare improperi e a fare confusione.

È stata soprattutto la sfida terrorista ad evidenziare i limiti dell’azione internazionale di Renzi. È vero, c’era in ballo il Giubileo, il che rendeva e rende l’Italia particolarmente esposta al rischio di aggressioni terroristiche ma, comunque, non pare proprio che la reazione di Renzi di fronte agli attacchi di Parigi sia stata adeguata. Sarà stato probabilmente a causa di una maggioranza parlamentare nella quale è così forte il partito del «mettete dei fiori nei vostri cannoni», ma Renzi ha commesso due grandi errori in quel frangente, seminando dubbi sulla propria capacità di guidare il Paese in condizioni di emergenza. Ha preso di fatto le distanze da Hollande negandogli quel sostegno militare che il presidente francese gli aveva richiesto. Con ripercussioni negative anche su altri tavoli europei: non puoi, come ha fatto Renzi, contrapporti al «governo tedesco» dell’Europa se pochi giorni prima hai perso l’occasione di stringere i tuoi legami di solidarietà con la Francia e non sei in grado quindi di rivendicarne l’appoggio.

Se il primo errore ha avuto ripercussioni diplomatico-politiche, il secondo ha intorbidito le acque dal punto di vista dell’interpretazione del fenomeno terroristico. Perché siamo stati così in pochi a scuotere la testa quando Renzi se ne è uscito dicendo che, di fronte al terrorismo, bisogna sì investire in sicurezza ma anche in «cultura», bisogna contrastare il degrado culturale delle periferie urbane? Non che non sia una buona cosa occuparsi del degrado urbano. Ma il fatto è che non c’entra nulla, proprio nulla, con la difesa dall’aggressione terrorista. Siamo stati in pochi a scuotere la testa perché tanti condividono, o sembrano condividere, l’argomentazione pseudo-sociologica (radicalmente sbagliata) secondo cui il terrorismo islamico sarebbe figlio del «degrado» e della «povertà». Detto per inciso, è stupefacente che la pensino così anche diversi cattolici: se costoro, infatti, considerano il radicalismo islamico (che è comunque frutto di scelte religiose) un fatto «sovrastrutturale» in senso marxiano, dipendente cioè dalle condizioni «materiali», come fanno poi a non pensare la stessa cosa del proprio cattolicesimo, della propria scelta religiosa?

Le prese di posizione di Renzi non sono state comunque all’altezza. In una situazione di emergenza serve un Churchill, non un Andreotti (pur con tutto il rispetto dovuto ad Andreotti). Vero è naturalmente che l’Italia è impegnatissima sul fronte mediorientale. I nostri soldati verranno impiegati nella difesa della diga di Mosul. E sono anche impegnati da tempo con compiti vari (addestramento truppe, logistica) a sostegno di coloro che combattono sul terreno contro lo Stato Islamico. Nessuno di questi compiti prevede, se non a fini strettamente difensivi, la partecipazione a scontri a fuoco. La causa, plausibilmente, è che, in caso contrario, la maggioranza parlamentare si squaglierebbe.

C’è poi la diplomazia. Abbiamo svolto un importante lavoro di sostegno per favorire un accordo, in funzione anti Stato Islamico, fra le diverse fazioni libiche. E abbiamo rivendicato a più riprese per noi stessi un ruolo preminente nel futuro processo di pacificazione della Libia. Ma le nostre condizioni politiche interne lo permetteranno? Sarà impossibile pacificare la Libia senza usare la forza. Che succederà a Roma quando arriveranno le notizie dei primi scontri a fuoco fra italiani e jihadisti?

In condizioni di emergenza, un vero capo politico si rivela tale perché non si mette a rimorchio della sua maggioranza, si sforza di rimodellarla, come fosse creta, di imporle una diversa visione delle cose. Renzi non ha ancora mostrato di possedere una tale qualità.

5 gennaio 2016 (modifica il 5 gennaio 2016 | 07:34)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_05/fronte-estero-premier-fbc30772-b372-11e5-9fa2-487e9759599e.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il Senato e le alleanze Quel club anomalo anti riforma
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 17, 2016, 05:35:57 pm
Il Senato e le alleanze
Quel club anomalo anti riforma

Di Angelo Panebianco

La politica può dare luogo alle più imprevedibili e bizzarre convergenze. Se non abbiamo capito male, nella lotta, già iniziata, fra le opposte propagande in vista del referendum costituzionale di ottobre, assisteremo - come ha già notato Il Foglio - all’alleanza di fatto fra due gruppi (i quali useranno più o meno gli stessi argomenti) che, un tempo, mai avremmo potuto immaginare insieme: gli iper-conservatori costituzionali, i fan della «Costituzione più bella del mondo», a braccetto con i berlusconiani. Per vent’anni, i primi hanno accusato i secondi, oltre che di ogni possibile misfatto, anche di tramare disegni autoritari. Sarà curioso vederli spalla a spalla, mano nella mano, a inveire contro «l’autoritarismo» di Matteo Renzi, a mobilitare il Paese contro l’incombente tirannia renziana. Va peraltro ricordato che fra i due gruppi, e futuri alleati, una differenza importante c’è: gli iper-conservatori costituzionali sono per lo meno coerenti con la propria storia, i berlusconiani no.

Anche se i vantaggi dell’abolizione del bicameralismo paritetico (due Camere con uguali poteri) superano di gran lunga, secondo chi scrive, gli svantaggi, non è certo illecito essere contro la riforma del Senato. Per esempio, perché si è perplessi su certe soluzioni tecniche o su aspetti della riforma che richiederebbero un approfondimento ulteriore (e su cui ha richiamato l’attenzione Michele Ainis sul Corriere del 14 gennaio).

Oppure si è contrari alla riforma perché si ricordano i tanti casi del passato in cui la seconda Camera rimediò a qualche grave errore commesso dalla prima. O anche, per esempio, perché si sostiene una tesi (tutt’altro che disprezzabile) la quale suona grosso modo così: avete già fatto un grave errore abolendo le Province (che avevano tradizioni e dignità amministrativa) anziché quei carrozzoni burocratici che sono le Regioni, e adesso perseverate nell’errore attribuendo alle medesime Regioni - che di sicuro non sono i Lander tedeschi - un potere decisivo nella formazione del nuovo Senato. Sono critiche legittime anche se non dirimenti: l’alternativa, lasciare le cose come stanno, tenersi il bicameralismo paritetico, è peggiore. Ma che dire, invece, dell’obiezione (la principale obiezione dei nemici della riforma) secondo cui il superamento del bicameralismo paritetico sarebbe parte di un disegno autoritario?

È vietato ridere. Perché dietro una simile convinzione c’è qualcosa di molto serio: ci sono, nientemeno, una tradizione costituzionale e una cultura politica che per decenni sono stati dominanti nel nostro Paese. Tutto si decise ai tempi della Costituente. Fu allora che il «complesso del tiranno» da una parte e i reciproci sospetti fra comunisti e democristiani dall’altra, spinsero a creare un assetto costituzionale fondato sulla debolezza dell’esecutivo, un assetto che non doveva permettere in alcun caso la formazione di governi forti e efficienti ma solo di governi fragili, circondati, e anche eventualmente paralizzati, da forti poteri di veto. Un assetto istituzionale in cui c’erano (ed erano fortissimi) i «contrappesi» ma in cui mancava il «peso» di un forte esecutivo. Il bicameralismo paritetico che ora si tenta di superare fu uno di questi cosiddetti, e mal detti, contrappesi.

Fu così che, da allora, in Italia l’assemblearismo è sempre stato confuso con il parlamentarismo (mentre il primo va piuttosto trattato come una forma degenerata del secondo). Fu così che si affermò la stravagante idea secondo cui un governo istituzionalmente forte (come è, ad esempio, il Cancellierato tedesco) sia del tutto incompatibile con la democrazia. Ciò che, a quanto pare, sentiremo ripetere continuamente prima del referendum d’ottobre a proposito di autoritarismi e progetti autoritari ha dunque un’origine antica, e non si spiega se non ricordando ciò che scrisse Keynes: le idee circolanti in ogni momento si devono invariabilmente alla penna di scribacchini defunti ormai da tempo.

L’incapacità di distinguere, di tracciare una linea in grado di separare assemblearismo e parlamentarismo, si trascina dietro un’altra conseguenza: rende difficile riconoscere la differenza che corre fra la democrazia liberale e la democrazia autoritaria. Se volete sapere che cosa sia una democrazia autoritaria dovete guardare alla Turchia di Erdogan o anche alla Russia di quel Putin che, a quanto pare, gode di così vaste simpatie qui in Europa. In una democrazia autoritaria, i media sono controllati dal governo, i giornalisti scomodi finiscono in galera, gli oppositori considerati più pericolosi muoiono per mano di misteriosi assassini che la polizia non riesce mai a trovare. Per cortesia, se è possibile, non si dica che la volontà di superare il bicameralismo paritetico abbia qualcosa a che spartire con tali esperienze.

Oltre a certe virtù, Renzi ha anche, indubbiamente, molti difetti. Fra questi difetti non pare proprio che ci sia quello di voler emulare Erdogan o Putin.

17 gennaio 2016 (modifica il 17 gennaio 2016 | 07:12)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_17/quel-club-anomalo-anti-riforma-senato-e6d381b2-bce0-11e5-9ebd-3d31e1693d62.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Noi e l’islam L’Europa non venda la sua anima
Inserito da: Arlecchino - Aprile 02, 2016, 12:33:31 pm
Noi e l’islam
L’Europa non venda la sua anima
La guerra si combatte sul fronte militare in Medio oriente e su quello interno: per vincere l’estremismo dovremo fare delle concessioni alle comunità dei seguaci di Allah più ragionevoli.
Dobbiamo sapere fino che punto possiamo andare loro incontro

Di Angelo Panebianco

Quale prezzo dovrà pagare l’Europa, quali concessioni dovrà fare alle comunità musulmane che risiedono nei suoi territori per ottenere che esse si impegnino a contrastare le vaste aree (così risulta dai sondaggi) di simpatizzanti e sostenitori dell’estremismo islamico presenti al loro interno? La guerra santa viene combattuta su due scacchieri distinti ma interdipendenti: il Grande Medio Oriente (dal Pakistan alla penisola arabica, a una parte dell’Africa) e l’Europa. Il primo scacchiere corrisponde al dar al-islam (la dimora dell’islam), ossia i territori a maggioranza musulmana. Qui le minoranze cristiane (come in Pakistan) sono oggetto di attacchi continui perché considerate filiazioni dell’odiato Occidente, ma il principale bersaglio della guerra santa sono altri musulmani. Il secondo scacchiere è l’Europa (ex) cristiana, il dar al-harb (la dimora della guerra), dove vivono gli infedeli e dove l’islam è minoranza.

Naturalmente, ciò che accadrà nel primo scacchiere influenzerà ciò che accadrà nel secondo. Se, ad esempio, lo Stato islamico subirà brucianti sconfitte militari, gli entusiasmi che oggi suscita in molti giovani musulmani europei, col tempo si smorzeranno. Ma non si creda che ciò sia semplice da ottenere. Non si tratta di una questione risolvibile solo sul piano militare. Si pensi al fatto che se si vorranno stabilizzare politicamente le zone ove è nato e si è sviluppato lo Stato islamico non si potrà tornare alla situazione precedente A lla sconfitta militare dello Stato islamico dovrà accompagnarsi una conferenza di pace, presenti tutte le potenze interessate, che dia vita, sulle ceneri del vecchio Iraq e della vecchia Siria, a nuove organizzazioni statali (rispettivamente dei sunniti, degli sciiti e dei curdi) e a nuovi confini. E sapendo comunque che nella futura carta geopolitica del Medio Oriente, se si formeranno, come è probabile, Stati mono-religiosi o mono-etnici, non ci sarà spazio, purtroppo, per altre minoranze, cristiani in testa. L’Europa dovrà allora accoglierli con la necessaria generosità.

Ma anche se questa complicatissima operazione riuscisse è evidente che non basterebbe per mettere in sicurezza l’Europa. Ciò potrebbe accadere solo se venissero avviate trattative con i rappresentanti della seconda religione di diversi Paesi europei per numero di adepti, l’islam appunto. Perché solo le comunità musulmane possiedono le risorse culturali per riportare alla ragione tutti quei giovani (ma non solo) che oggi simpatizzano per l’estremismo. Ma poiché nessuno fa niente per niente, il problema diventerà: quali concessioni verranno fatte dai governi europei in cambio dell’aiuto richiesto? Non è difficile immaginare che natura e entità di quelle concessioni avranno una grande influenza sul futuro dell’Europa.

Gli europei sono soliti nascondere la propria inerzia e la propria impotenza dietro a una cortina fumogena fatta di bolsa retorica e di parole vuote, del tipo (una delle preferite) «difenderemo i nostri valori e i nostri principi». Il bello (o il brutto) è che questi valori e principi vengono spesso lasciati nel vago: di quali valori e principi si parla? Il punto non è affatto irrilevante. Soprattutto se si andrà (e ci si andrà senz’altro) a negoziazioni, aperte o tacite, con le comunità musulmane europee. Fra questi «valori» c’è per caso la laicità, a sua volta fondata sulla capacità di distinguere fra il sacro e il profano, fra il regno di Dio e il regno di Cesare? E, ancora, fra questi valori c’è per caso l’uguaglianza giuridica fra gli individui a prescindere da sesso, religione o altro? E c’è, infine, per caso, il principio della libertà individuale? Perché se è così, allora bisogna sapere che quando si andrà a trattare con le comunità musulmane per ottenere il loro appoggio, i suddetti valori e principi dovranno essere difesi con particolare accanimento. Occorrerà pronunciare degli inequivocabili «no» di fronte alle eventuali richieste, se non di sospendere, quanto meno di attenuare la validità e l’applicabilità di tali principi in presenza di cittadini musulmani.

Sembra facile ma non lo è. Soprattutto perché le società europee sono divise e, per questo, non daranno un sostegno compatto, sincero e coerente ai governi impegnati in queste cruciali negoziazioni. Uno dei fatti più singolari della storia recente è l’alleanza che si è stabilita fra certi settori della società europea (con parecchi intellettuali al seguito) che questa società, in sostanza, detestano e la parte più reazionaria, chiusa alla modernità, del mondo islamico. I nemici europei della società liberale hanno trovato in quella parte un alleato. Sono quelli che «è sempre colpa dell’Occidente». Quelli che «Salman Rushdie, l’autore dei Versetti satanici, si meritò la condanna a morte, la fatwa di Khomeini del 1989». Quelli che qualunque intellettuale di origine musulmana denunci i difetti dell’islam è uno spregevole e pericoloso «islamofobo». Eccetera, eccetera. È evidente che la folta presenza di questi «compagni di strada» dell’islamismo indebolirà le capacità negoziali degli europei.

Quali «patti» verranno siglati? Quali alla luce del sole e quali sottobanco? La parte più insidiosa di qualunque patto sta nei suoi effetti differiti, nel fatto che le conseguenze sociali, politiche, economiche, culturali, del patto stesso si vedranno solo molto tempo dopo, probabilmente molti anni dopo. Riuscirà l’Europa ad ottenere l’appoggio delle comunità musulmane contro il terrorismo e l’estremismo in genere senza vendersi l’anima? Servirebbe a tutti (anche ai musulmani) se laicità, libertà individuale, uguaglianza di fronte alla legge, non risultassero infine formule vuote e retoriche ma principi non negoziabili.

1 aprile 2016 (modifica il 1 aprile 2016 | 20:02)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_aprile_02/europa-non-venda-sua-anima-1cf7cdc4-f833-11e5-b848-7bd2f7c41e07.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I movimenti populisti e gli errori delle élite
Inserito da: Arlecchino - Maggio 30, 2016, 06:10:26 pm
SCENARI

I movimenti populisti e gli errori delle élite
Dietro i movimenti cosiddetti populisti ci sono problemi autentici.
Solo se verranno offerte risposte convincenti, essi potranno essere battuti. Se si sceglie il silenzio o il disprezzo, allora hanno già vinto e l’Europa andrà in pezzi

Di Angelo Panebianco

Le battaglie politiche sono condotte usando le parole e se le parole di qualcuno sono sbagliate la sua sconfitta è sicura. Chi continua a usare come un insulto la parola «populisti» per bollare gli attuali movimenti di protesta in crescita in tutta Europa (ma anche negli Stati Uniti), sembra non capire quanto grande sia il favore che ha già fatto e che sta facendo a quei movimenti. Senza rendersene conto sta dicendo all’opinione pubblica, agli elettori, che di qua ci sono coloro che comandano, le élite al potere, con il loro palato fino e il birignao e le arie da aristocratici, e dall’altro lato i «populisti», gli uomini e le donne rudi che si rivolgono al popolo, chiedono il voto del popolo (contro le suddette élite) e parlano anche «come» il popolo. Una volta ascoltate le élite fare concioni contro i populisti, per chi altri, se non costoro, potrebbe mai votare il «popolo»?

Il vero problema, e il tarlo, delle democrazie occidentali non sono i suddetti movimenti di protesta. Sono le non risposte o le risposte sbagliate delle élite, degli establishment. Sono loro a portare la responsabilità per la crescita dei movimenti che li sfidano. Questi ultimi non sono la malattia ma la febbre che segnala la malattia. Di fronte alla marea montante dei movimenti di protesta le élite hanno fin qui risposto con due strategie. La prima è consistita nell’inazione: non fare niente, limitarsi a condannare con parole dure tali movimenti, delegittimarli in ogni modo, e aspettare che passi «’a nuttata».

L a seconda strategia, a cui talvolta si è fatto ricorso quando ci si è accorti che la prima non funzionava, è consistita nel cavalcare la protesta: come hanno fatto i socialisti austriaci al governo minacciando la chiusura del valico del Brennero. Entrambe le strategie sono fallite. La prima perché, ignorando i problemi che hanno fatto insorgere le proteste, non facendo nulla per affrontarli, le ha alimentate. La seconda perché, legittimando implicitamente le tesi dei protestatari, ha convinto gli elettori che fosse meglio fidarsi degli originali anziché delle copie, dei protestatari anziché di coloro che li scimmiottavano. È così che i partiti storici austriaci (socialdemocratico e cristiano - sociale) si stanno suicidando, stanno aiutando chi vuole spazzarli via.

Sono problemi autentici quelli che alimentano i movimenti di protesta. Solo se alle opinioni pubbliche verranno offerte convincenti soluzioni, diverse da quelle proposte da quei movimenti, essi potranno essere battuti. Al di là delle differenze, anche al di là del fatto che essi si collochino a sinistra (come Sanders) o a destra (come Trump o Le Pen o tanti altri), o in qualunque altro luogo, ciò che li accomuna, il loro minimo comun denominatore, è la voglia di isolazionismo politico e di protezionismo economico. Il cosiddetto antieuropeismo ne è una conseguenza. È il loro modo di intercettare le paure (più che comprensibili, da non disprezzare affatto) delle persone di fronte a un mondo interdipendente, di fronte a ciò che viene malamente riassunto con il termine «globalizzazione». Se si sceglie il silenzio o il disprezzo nei confronti di quelle paure, allora i cosiddetti «populisti» hanno già vinto: l’Europa andrà in pezzi, al pari dei legami transatlantici, ci troveremo in un mondo occidentale completamente «ri-nazionalizzato» che ricorderà una delle fasi più buie della storia europea recente, gli anni Trenta dello scorso secolo. Solo se quelle paure verranno prese sul serio e si riuscirà a mostrare alle opinioni pubbliche che proprio grazie all’Europa e al suo mercato comune, nonché grazie all’interdipendenza globale, si potranno avere più sviluppo, più posti di lavoro, più benessere, solo allora sarà possibile contrastare efficacemente la propaganda dei movimenti di protesta. Se invece si sceglierà un atteggiamento protezionista (come ha già fatto Hollande a proposito del trattato di libero scambio con gli Stati Uniti) allora si darà ragione a Marine Le Pen e a tutti gli altri come lei, non si offrirà agli elettori un buon motivo per non votarli.

La stessa cosa vale per l’immigrazione. O le classi di governo europee riusciranno a trovare la forza di fare una politica comune mostrando alle opinioni pubbliche che in tal modo è possibile governare senza troppi traumi questo fenomeno, oppure i movimenti che vogliono la chiusura delle frontiere nazionali, quali che ne siano i costi economici e politici, alla fine vinceranno.

Occorre anche smetterla con le sciocchezze e le superficialità politicamente corrette (anch’esse alimentano il voto di protesta) in materia di multiculturalismo. Che le nostre società siano multiculturali è un fatto. Ma ritenere che questo non sia anche un problema che richiede di essere governato è un atteggiamento che prepara disastri. Occorre soprattutto chiarire alle opinioni pubbliche che non si intende permettere che si formino ordinamenti giuridici paralleli, che non possono e non devono esserci eccezioni, culturalmente o religiosamente giustificate, all’uguale trattamento di tutti i cittadini. Se si vogliono rassicurare le opinioni pubbliche occorre scolpire questi principi nella roccia, nelle leggi e, meglio ancora, nelle costituzioni. Abbiamo bisogno di un melting pot, di una pacifica convivenza fra persone di diversa origine all’insegna di leggi uguali per tutti, non di una «segmentazione» di tipo libanese (tanti gruppi organizzati, ciascuno con le proprie leggi) delle nostre società.

Oltre che ridicolo, il «vade retro» rivolto agli attuali movimenti di protesta è politicamente controproducente. È la regola della democrazia: devi saper offrire agli elettori, alle prese con problemi veri, soluzioni migliori, più convincenti, di quelle del tuo avversario. Queste soluzioni convincenti non sono state ancora proposte.

26 maggio 2016 (modifica il 26 maggio 2016 | 21:18)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_maggio_27/i-movimenti-populisti-errori-elite-54241e1a-236c-11e6-853e-9c2971638379.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. I rischi della Ue tra Brexit e Trump
Inserito da: Arlecchino - Giugno 18, 2016, 12:02:42 pm
Scenario
I rischi della Ue tra Brexit e Trump
Nel giro di due mesi ci potrebbe essere l’uscita della Gran Bretagna e la vittoria del repubblicano alla Casa Bianca.
O ci si rassegna alla propria definitiva implosione o ci si impegna in una radicale riorganizzazione

Di Angelo Panebianco

Ipotizzare il peggio può aiutare ad aguzzare l’ingegno, a ricercare le soluzioni se il peggio si realizzasse. In questo momento, l’Europa è con il fiato sospeso in attesa del referendum britannico del 23 giugno. Ma le tegole che potrebbero cadere in testa all’Europa nel giro di pochi mesi sono due. Nello scenario più cupo, la Gran Bretagna abbandona l’Unione Europea e pochi mesi dopo Donald Trump viene eletto presidente degli Stati Uniti. Se questi due eventi si realizzassero entrambi, l’Europa si troverebbe a fare i conti con un mondo completamente diverso rispetto a quello fin qui conosciuto e dovrebbe molto presto scegliere fra rassegnarsi alla propria definitiva implosione o impegnarsi in una radicale riorganizzazione di se stessa.

Le conseguenze di una vittoria dei fautori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione — tutti gli osservatori concordano — sono imprevedibili. I danni economici per la Gran Bretagna sarebbero, presumibilmente, ingenti ma lo sarebbero anche per gli altri Paesi europei data la stretta interdipendenza esistente. I danni politici sono ancora meno calcolabili. È vero che l’Unione sarebbe forse tentata di trattare con la massima durezza la Gran Bretagna allo scopo di farle pagare un prezzo economico salatissimo cercando così di scoraggiare il contagio, di rendere il più possibile difficile la vita agli imitatori, a tutti coloro che in giro per l’Unione vorrebbero seguire le orme del Regno Unito È anche vero che la Gran Bretagna non è la Grecia e che colpirla troppo duramente potrebbe rivelarsi un boomerang, provocare danni altrettanto gravi ai Paesi membri, come hanno giustamente osservato Alesina e Giavazzi sul Corriere di due giorni fa.

In ogni caso, le conseguenze di Brexit sarebbero di vasta portata. Il prestigio e la reputazione dell’Unione, già piuttosto bassi di questi tempi, diminuirebbero ancora nel momento in cui uno Stato membro così importante se ne andasse sbattendo la porta. Lungo tutta la loro storia, le istituzioni europee avevano potuto contare sul fatto che i vari Paesi facessero la fila per entrare, non per uscire. Inoltre, la Brexit modificherebbe i rapporti di forza dentro l’Unione facendo venire meno un contrappeso, che comunque esisteva, rispetto alla potenza tedesca. Da ultimo (ma questo pare interessare solo ai pochi europei che ancora hanno a cuore l’economia liberale), verrebbe meno un elemento di resistenza a quegli eccessi di dirigismo economico sempre troppo apprezzati e praticati sul Continente. In ogni caso, la natura dell’Unione cambierebbe.

Ma l’attenzione spasmodica per la possibile tegola numero 1, la Brexit, non dovrebbe farci dimenticare la possibilità che ci arrivi in testa, nel giro di pochi mesi, anche la tegola numero 2. Forse (qualunque europeo dovrebbe augurarselo) Hillary Clinton vincerà le elezioni presidenziali americane. E forse no. Data la scarsa simpatia che l’ex segretario di Stato riscuote persino fra gli elettori democratici, date le affinità di fondo (il comune sentire economicamente protezionista e politicamente isolazionista) che esistono fra l’elettorato che ha votato Sanders e quello che vota Trump, una vittoria finale di quest’ultimo non può essere esclusa. Fuori dagli Stati Uniti, chi più potrebbe rallegrarsi per il trionfo di Trump sarebbe Vladimir Putin. Trump significherebbe il definitivo affossamento del trattato di libero scambio fra Europa e Stati Uniti. Ma significherebbe, soprattutto, l’apertura di una crisi, la più grave da quando l’organizzazione esiste, della Nato. Gli Stati Uniti di Trump pretenderebbero, come egli ha già anticipato, un impegno finanziario assai più ampio dell’attuale da parte dei Paesi membri dell’organizzazione.

Ma l’America ha sempre accettato fino ad oggi di sopportare gli oneri finanziari maggiori in cambio del riconoscimento della sua leadership da parte degli europei. Un diverso atteggiamento significherebbe rinunciare alla leadership. E poiché i Paesi europei membri della Nato difficilmente potrebbero accedere alle richieste americane, la conseguenza sarebbe una crisi del sistema di sicurezza occidentale. Si sfregherebbero le mani soddisfatti tutti coloro che, da sempre, vogliono sbarazzarsi dell’«impero» americano. Ma si aprirebbe anche una voragine: chi potrebbe, e come, sostituire la Nato come garante della sicurezza europea? Nascerebbe finalmente il famoso «esercito europeo» sognato da sempre dai federalisti spinelliani? Chi conosce lo stato dell’Europa sa che questa è solo un’illusione. In materia di sicurezza, gli europei, senza gli americani, sono in grado di combinare poco o nulla. È anche la ragione per cui Putin brinderebbe a champagne in caso di elezione di Trump. La sua influenza politica sull’Europa (come sul Medio Oriente) si accrescerebbe. I gravissimi problemi economici della Russia non impedirebbero alla più grande potenza militare che incombe sui nostri confini orientali di sfruttare ogni occasione per condizionarci sul piano politico. Per la gioia dei tanti amici europeo-occidentali dell’uomo forte di Mosca.

Già duramente provati a causa dell’incapacità di trovare soluzioni condivise nel governo dei flussi migratori, gli europei si troverebbero a dover fronteggiare la peggiore combinazione possibile: i danni economici e politici provocati da Brexit e l’avvento di un presidente americano isolazionista e protezionista. Se ci arrivassero addosso tutte e due le tegole, l’Europa continentale dovrebbe decidere in fretta — prossime elezioni francesi e tedesche permettendo — come riorganizzarsi. Si noti per giunta che una riorganizzazione, che a quel punto dovrebbe anche farsi carico della sicurezza (un tema con cui l’Europa, nonostante Maastricht, non ha alcuna dimestichezza) in una Unione resa ancora più «tedesca» di oggi dall’uscita della Gran Bretagna, richiederebbe di essere condotta con grande tatto e abilità: per non alimentare sentimenti ancora più forti di quelli che già oggi circolano di ostilità per la Germania. Magari poi il fosco scenario sopra immaginato non si realizzerà. La Gran Bretagna resterà nell’Unione (i fautori del Remain vinceranno con un buon margine) e Trump verrà sonoramente sconfitto da Hillary Clinton. L’Europa, allora, continuerà a galleggiare restando così come è oggi ancora per un po’.

15 giugno 2016 (modifica il 15 giugno 2016 | 21:39)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_giugno_16/i-rischi-ue-brexit-trump-3d51b1b0-3330-11e6-a482-ab4404438124.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Esplora il significato del termine: SCENARI IN MOVIMENTO
Inserito da: Arlecchino - Agosto 13, 2016, 10:55:50 pm
Esplora il significato del termine: SCENARI IN MOVIMENTO
Il sultano islamico tra alleati e fratelli
La crescente estraneità culturale fra la Turchia e l’Occidente, conseguenza di quella ri-islamizzazione della società iniziata con la conquista elettorale del potere avvenuta nel 2002, si è ora nettamente accelerata dopo il vittorioso contro-colpo di Stato di Erdogan

Di Angelo Panebianco

Ci saranno solo momentanee convergenze di interessi, da contrattare volta per volta. Conseguenza della crescente estraneità culturale fra la Turchia e l’Occidente, conseguenza di quella ri-islamizzazione della società turca, iniziata con la conquista elettorale del potere da parte del partito islamico nel 2002, favorita e condotta in modo prudente e strisciante per diversi anni, e ora nettamente accelerata a seguito del vittorioso contro-colpo di Stato di Erdogan.
Spetta agli specialisti, ai conoscitori della società turca, rispondere a un quesito: Erdogan riuscirà a schiacciare definitivamente la Turchia europea, la Turchia laica erede di Ataturk? Certamente, egli ha oggi dalla sua la maggioranza del Paese. È grazie alle masse islamiche, oggi maggioritarie, che Erdogan ha conservato il potere contro i militari. Ma che ne sarà di quella cospicua, assai numerosa, minoranza (quasi la metà del Paese) figlia di un secolo di politica laica, che ne sarà della Turchia che non ha fin qui mostrato alcuna voglia di ri-islamizzarsi? Basteranno le brutali epurazioni del regime a piegarla definitivamente?
È questa la chiave per capire come si muoverà sulla scena internazionale la Turchia del futuro. Se Erdogan non riuscisse a consolidare il suo potere a causa della impossibilità di soggiogare completamente la parte non islamica del Paese, allora la sua debolezza interna si riverbererebbe sulla sua azione internazionale: probabilmente favorendo, come è frequente quando i governi autocratici sono deboli, avventurismi e varie esplosioni di aggressività internazionale.
Se invece il sultanato islamico si consoliderà, se la Turchia europea verrà definitivamente spazzata via, allora bisognerà fare i conti con l’apparizione di una nuova potenza che, come ha fatto a lungo l’Iran sciita, userà la religione per alimentare «scontri di civiltà», per porsi come potenza-guida della rivoluzione islamista.
Diventerà in tal caso molto complesso il rapporto fra Turchia e mondo occidentale. Come conciliare, ad esempio, islamismo militante e permanenza nella Nato? Il realismo imporrebbe di essere molto cauti al riguardo. Per molte ragioni di carattere strategico, ivi compreso il rischio che il neo-sultanato islamico si impadronisca delle armi nucleari presenti nelle basi della Nato sparse sul suo territorio. Al tempo stesso, sarebbe complicato trattenere nella Nato, mettendolo a parte dei segreti dell’organizzazione, un Paese che, a quel punto, non potrebbe più fare mistero della propria vocazione antioccidentale. Se il sultanato islamico si consolidasse, ci sarebbe anche un grosso problema per l’Europa. La Turchia diventerebbe il grande sponsor, protettore politico e finanziatore, di quei Fratelli musulmani che sono ben radicati nell’Islam europeo. Dopo il colpo di stato che ha estromesso la Fratellanza dal potere in Egitto, Erdogan è rimasto il loro principale punto di riferimento.
A differenza degli occidentali, essi non possono che applaudire la sua azione repressiva. È del resto naturale e comprensibile: per l’Islam politico, Ataturk e la sua eredità erano una aberrazione. Da cancellare, da spazzare via con ogni mezzo. Se il sultanato islamico si consolidasse, i rapporti fra i suoi sostenitori e le società europee in cui essi vivono diventerebbero piuttosto complicati.

10 agosto 2016 (modifica il 10 agosto 2016 | 21:30)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/16_agosto_11/sultano-islamico-8dff0692-5f2e-11e6-bfed-33aa6b5e1635.shtml


Titolo: PANEBIANCO. Democrazia e popolo La cattiva coscienza della nostra politica
Inserito da: Arlecchino - Novembre 01, 2016, 05:28:42 pm
Democrazia e popolo
La cattiva coscienza della nostra politica
I tentativi di rintuzzare la sfida dell’antipolitica culturalmente subalterni al nemico.
Come quando, ad esempio, a proposito della riforma costituzionale, si presenta come una delle virtù principali la riduzione del numero dei parlamentari

Di Angelo Panebianco

I tentativi della politica di rintuzzare la sfida dell’antipolitica sono fiacchi, controproducenti, spesso corrivi, culturalmente subalterni al nemico. Come quando, ad esempio, a proposito della riforma costituzionale, si liscia il pelo al gatto dell’antipolitica presentando come una delle virtù principali della riforma la riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, un aspetto secondario rispetto a quelli che davvero contano: fine del bicameralismo paritario, indebolimento dei (oggi fortissimi) poteri di veto, maggiore stabilità e maggiore capacità decisionale dei governi.

Ci sono due tipi di antipolitica, una vera e una finta. L’antipolitica vera non è oggi di moda (lo è stata ai tempi di Reagan e Thatcher). È quella che non vuole una politica impicciona, che ha per ideale — da perseguire benché non possa mai essere compiutamente realizzato — lo «Stato minimo», uno Stato che si occupi di fronteggiare emergenze e sfide alla sicurezza e di produrre pochi beni pubblici essenziali, lasciando il resto al mercato e al libero associazionismo volontario. Ma non è questa l’antipolitica oggi di moda. È di moda l’antipolitica finta, la quale convoglia il disprezzo dei cittadini sulla politica ma pretende altresì che la politica resti l’impicciona di sempre (non si propongono privatizzazioni e liberalizzazioni ma protezionismo e dosi ancor più massicce di statalismo). L’antipolitica oggi di moda è un ossimoro: è un’antipolitica statalista.

Cosa risponde la politica a questa antipolitica, cosa risponde quando l’antipolitica ripropone il mito del cittadino comune (o dell’Uomo qualunque) che sarebbe in grado di governare la cosa pubblica meglio — con più efficacia e con meno costi — dei politici di professione? La politica non sa cosa rispondere, balbetta frasi sconnesse. Non è capace per lo più di rintuzzare la sfida con argomenti seri in difesa di se stessa e delle proprie virtù.

Certamente l’antipolitica non nasce sotto un cavolo né senza ragioni. La ragione principale del suo successo è che, sfiancati da una lunga crisi economica, i cittadini non possono più tollerare le cattive abitudini, lo spreco di denaro pubblico, molti chiedono (e hanno ragione) una politica più sobria, meno disinvolta nell’impiego dei soldi dei contribuenti. Ma il lecito slitta nell’illecito quando, estremizzando, si abbracciano i peggiori argomenti affioranti dal passato, da un’antica tradizione antidemocratica e antiparlamentare. Si passa all’illecito quando si sostengono tre tesi, diverse ma collegate. La prima dice che i politici sono «cittadini come tutti gli altri». La seconda afferma che qualunque cittadino (come la «cuoca» di Lenin) è in grado di amministrare la cosa pubblica. La terza (ma qui gioca, oltre all’ideologia antidemocratica anche quella antiscientifica) sostiene che non solo una «competenza politica» specifica ma anche le altre competenze (si tratti di competenze amministrative o di saperi tecnico-scientifici), quelle che, in principio, servono a coadiuvare l’azione dei politici, non hanno valore: conta solo il volere del popolo, e il volere è potere, non esistono vincoli od ostacoli (finanziari, tecnici) che rendano indispensabile il ricorso alle competenze. Basta volerlo e, ad esempio, si può dare il salario minimo a tutti riducendo contemporaneamente le tasse o distribuire benessere e fare a meno della libera circolazione delle merci.

Quanto alla prima tesi, chi-unque affermi che i politici, anche quelli eletti, siano «cittadini come tutti gli altri» ha urgente bisogno di qualche lezione di educazione civica. I politici eletti non lo sono affatto. I cittadini comuni rappresentano solo se stessi. Quei politici rappresentano i loro elettori. C’è in gioco il delicatissimo rapporto di rappresentanza (l’essenza della democrazia moderna) il quale rende il politico eletto diverso dal cittadino comune. La tesi «il politico è un cittadino come tutti gli altri» nega valore alla democrazia rappresentativa. Deve essere rintuzzata da chiunque la apprezzi pensando che essa, pur con i suoi limiti, sia l’unica possibile democrazia. È il rapporto di rappresentanza che rende necessarie quelle guarentigie (inaccettabili «privilegi» per gli esponenti dell’antipolitica), che vanno dall’immunità parlamentare (del tempo che fu) alla disponibilità di risorse economiche necessarie a svolgere i compiti di rappresentanza.

Anche la seconda tesi non sta in piedi. Non è vero che chiunque possa improvvisarsi politico e magari amministrare la cosa pubblica ai massimi livelli. Fatta eccezione per pochissimi particolarmente dotati, ai più alti livelli conviene arrivare dopo una lunga gavetta politica. In Italia, un tempo erano i partiti ad addestrare le persone. Oggi non più. Ma partiti come quelli di allora non sono indispensabili. Negli Stati Uniti, ad esempio, partiti di tipo italiano non ce ne sono mai stati ma sono comunque sempre esistiti percorsi alternativi in cui i politici tuttora si formano e acquistano competenze. I Trump non sono la regola.

Le assemblee rappresentative, locali e nazionali, sono tipicamente le migliori palestre per la formazione di politici competenti, in grado poi di governare. Governare significa organizzare il consenso, formare coalizioni fra interessi anche divergenti e mantenerle unite mentre si affrontano i vari problemi pubblici. Chi crede che ciò sia alla portata di chiunque prende fischi per fiaschi. Se l’antiparlamentarismo e l’ostilità per la democrazia rappresentativa sono alla base delle suddette tesi, si deve soprattutto al pregiudizio antiscientifico (le scie chimiche, la polemica sulle vaccinazioni) la svalorizzazione delle competenze altre, di quelle competenze non politiche che tuttavia servono alla politica per affrontare i vari temi dell’agenda pubblica.

Nonostante la loro inconsistenza, le tesi antipolitiche hanno successo, si diffondono e si radicano. Possono farlo impunemente perché la politica non sa ribattere colpo su colpo, non sa contrapporre argomenti seri, forti e duri in difesa di se stessa, della propria indispensabilità, delle proprie virtù. Non è stata fin qui capace di farlo a causa della cattiva coscienza, della consapevolezza degli errori accumulati. Emendarsene è necessario. Ma abbracciare i cattivi argomenti dell’antipolitica, non difendere con fierezza le virtù della democrazia rappresentativa, significa lasciare il campo senza combattere, significa suicidarsi.

31 ottobre 2016 (modifica il 31 ottobre 2016 | 21:07)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/16_novembre_01/cattiva-coscienza-nostra-politica-9549107c-9fa3-11e6-9daf-5530d930d472.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Nuova egemonia La resa culturale ai 5 stelle
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2017, 11:53:12 am
Nuova egemonia
La resa culturale ai 5 stelle

Di Angelo Panebianco

In modo non coordinato, una pluralità di forze sembra agire ormai da tempo, con scarsa consapevolezza della posta in gioco, per offrire su un piatto d’argento il Paese al movimento Cinque Stelle, fornendo ad esso la possibilità di imporre, su una parte cospicua dell’opinione pubblica, una propria egemonia culturale.
Una classe politica sulla difensiva che non sa contrapporsi alla propaganda dei Cinque Stelle e anzi la subisce, molti mezzi di comunicazione che cavalcano, e amplificano, la cosiddetta «indignazione popolare contro la classe politica», le inchieste giudiziarie che toccando ogni giorno gangli vitali della vita pubblica, mantengono sulla graticola la democrazia, non consentono di attenuare lo stato di permanente delegittimazione della politica rappresentativa che ci trasciniamo dietro dai tempi (primi anni Novanta) di Mani Pulite. Come scoprire se si è affermata una egemonia culturale? C’è un modo: se una qualsiasi falsificazione della storia viene messa in circolazione con intenti partigiani e se, dopo un po’ di tempo, si scopre che quella falsificazione è penetrata nelle menti di molti, diventando una verità di senso comune, una verità che le persone accettano come ovvia, auto-evidente, allora è possibile riconoscere che una egemonia culturale si è consolidata.

Durante la guerra fredda il Pci era escluso dai ruoli di governo ma la qualità dei suoi dirigenti e la forza della sua organizzazione erano tali che esso seppe trasformare varie falsificazioni della storia, messe in circolazione pro domo sua, in verità di senso comune, accettate come tali persino da una parte rilevante di non comunisti. Si pensi a come si diffuse, anche in ambienti lontani dal Pci, una espressione come «legge truffa», uno slogan contro la tentata (1953) riforma elettorale della Dc. Oppure, si pensi al successo propagandistico della tesi secondo cui fu la resistenza partigiana a liberarci dal fascismo (come se gli americani non c’entrassero per niente), una tesi che serviva al Pci a fini di legittimazione e che si trasformò in verità di senso comune anche per tanti non comunisti. O ancora, si ricordi con quanta abilità il Pci riuscì a convincere vari ambienti che la parola «sinistra» e la parola «anticomunismo» fossero incompatibili, talché l’anticomunismo poteva essere soltanto di destra (questa diffusa convinzione diede di certo un contributo alla sconfitta finale di Bettino Craxi). Gli esempi potrebbero essere moltiplicati e servirebbero tutti a dimostrare con quanta efficienza, in una condizione difficile, nell’Italia democristiana e alleata degli americani, i comunisti riuscirono a costruire una egemonia culturale che finì per diventare incontrastata in luoghi strategici per la trasmissione delle idee, dal mondo dello spettacolo alle Università.

Ho citato il caso del Pci perché fu un caso di parziale egemonia culturale ma anche per un’altra ragione. Per dimostrare che le egemonie culturali sono talvolta il frutto della capacità di chi le ha create ma altre volte danno un vantaggio a qualcuno senza particolari meriti di costui. L’egemonia culturale del Pci fu voluta e ricercata da gente di qualità (i dirigenti comunisti di allora). I Cinque Stelle potrebbero beneficiare di una egemonia culturale non per meriti propri ma per dabbenaggine altrui, perché altri ne hanno creato le condizioni. I Cinque Stelle stanno costruendo una egemonia culturale limitandosi a fare il loro mestiere: attaccare ogni giorno la democrazia rappresentativa. Nel loro caso, il contrasto alla democrazia rappresentativa (come provano le loro origini: i Vdays, l’utopia pseudo-democratica e illiberale di Casaleggio), è la loro più autentica ragione sociale. La combattono praticamente senza incontrare resistenza, sferrano attacchi con la porta avversaria vuota: coloro che dovrebbero difenderla sono scappati oppure restano silenti, oppure si sono uniti al quotidiano linciaggio mediatico della democrazia (l’unica possibile: quella rappresentativa appunto) pensando, puerilmente, che i Cinque Stelle si possano sconfiggere solo dando loro ragione.

I Cinque Stelle sono i portavoce di una parte del Paese che della democrazia rappresentativa vorrebbe sbarazzarsi (“« politici? Tutti ladri»). Si tratti di colpire quel pilastro della rappresentanza moderna che è il divieto del mandato imperativo, di abbattere i privilegi dei parlamentari (stipendi, vitalizi) o di affermare la presunzione di colpevolezza in caso di inchieste giudiziarie che riguardino gli avversari, i grillini non incontrano vere opposizioni. Gli altri sono incapaci di restituire colpo su colpo, sembrano dare per scontato che la battaglia sia perduta. Nessuno che si batta con energia per far capire che i parlamentari non sono cittadini come gli altri (non rappresentano se stessi ma elettori che hanno dato loro fiducia) e per difendere dignità e insostituibilità della democrazia rappresentativa. Ad essere maliziosi si potrebbe osservare che questi attacchi avvengono proprio quando la classe politica è particolarmente debilitata e fragile, in balia di forze, amministrative e giudiziarie, molto più potenti. Non credendo nelle cospirazioni, ci limitiamo a constatare la diffusione di alcune «verità di senso comune» (falsificazioni della realtà) sulle presunte nefandezze della democrazia rappresentativa che segnalano lavori in corso: la costruzione di una egemonia culturale destinata forse a durare

7 marzo 2017 (modifica il 7 marzo 2017 | 20:19)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_marzo_08/resa-culturale-5-stelle-bc57cc2e-0369-11e7-abb5-4486feee70af.shtml



Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un nuovo ruolo in Europa? Ma l’Italia è debole
Inserito da: Arlecchino - Maggio 12, 2017, 04:21:59 pm
SCENARIO
Un nuovo ruolo in Europa? Ma l’Italia è debole
Dopo la svolta delle elezioni francesi, l’Italia dovrebbe lavorare per ritagliarsi un ruolo nuovo e importante negli equilibri europei, ma le nostre condizioni economiche e istituzionali difficilmente ce lo permetteranno

Di Angelo Panebianco

Subisce una decisa battuta d’arresto la «sequenza infernale» cominciata con Brexit, proseguita con la vittoria di Trump e con la conferma (esito del referendum costituzionale) che in un Paese-chiave dell’Europa e del mondo occidentale, l’Italia, non possono attecchire istituzioni in grado di dare un po’ di stabilità ai governi. Marine Le Pen prende tanti voti ma molti di meno di quelli che ci si poteva immaginare solo poco tempo fa, quando una sua vittoria non era data per probabile ma per possibile sì. La sua netta sconfitta, salvo sorprese, dovrebbe riverberarsi sulle elezioni parlamentari di giugno (con un effetto deprimente e respingente anziché di trascinamento dell’elettorato). È probabile che dopo quelle elezioni Macron dovrà accettare di formare un governo di coalizione con ciò che resta dei partiti storici francesi (socialisti e/o gollisti) annacquando un po’ il suo programma. Il rischio più grave che corre l’Europa adesso è quello di sedersi, congratularsi con la Francia e brindare per lo scampato pericolo, e non fare nulla, non riformare nulla.
Tutto questo come se i problemi che negli ultimi anni hanno permesso all’antieuropeismo di gonfiarsi nel Continente non fossero ancora lì. Sospiri di sollievo a parte, le attese che circondano il neopresidente francese appaiono piuttosto esagerate. Un presidente liberale ed europeista è una buona notizia. Come lo è il fatto che la sconfitta di Le Pen sia un colpo per tutti i protezionisti-sovranisti d’Europa. Ma non conviene immaginare chi sa quali radicali cambiamenti. Certamente la Francia, con il suo nuovo presidente, avrà l’ambizione di ricostituire quell'asse franco-tedesco che fu il motore dell’Europa per decenni. Comunque vadano le elezioni tedesche del prossimo settembre, la speranza francese è destinata a essere frustrata. Macron non riuscirà a ricostituire il «governo» franco-tedesco dell’Europa, come non ci sono riusciti alcuni presidenti (come Sarkozy) che lo hanno preceduto. La Germania è troppo forte, lo squilibrio di potenza fra Germania e Francia è troppo accentuato, perché i vecchi tempi possano ritornare. Resta il fatto che ci proverà. Il che solleva la domanda su quale ruolo dovrà cercare di ritagliarsi l’Italia nel nuovo gioco che sta per aprirsi in Europa. Sulla carta l’Italia dovrebbe essere avvantaggiata dall'uscita della Gran Bretagna. Potrebbe occupare stabilmente la posizione del «terzo», traendo beneficio dalla possibilità di manovrare fra Germania e Francia. In pratica, le sue tradizionali debolezze interne ne riducono le potenzialità.

C’è, innanzitutto, e come al solito, la palla al piede rappresentata dal debito pubblico. Ha sempre ridotto in Europa i nostri margini di libertà e la nostra autorevolezza. Continuerà a farlo. C’è poi, soprattutto, la nuova fase di instabilità e di ingovernabilità politica che si apre davanti a noi. Ormai è chiaro che ci terremo per chissà quante altre generazioni ancora la democrazia acefala a cui siamo da sempre abituati (fatta salva la parentesi di imperfetti esperimenti semimaggioritari durata circa un ventennio): un parlamentarismo congegnato in modo da assicurare governi instabili e precari, primi ministri deboli e ricattabili, una legge elettorale proporzionale senza neppure più i partiti forti di un tempo. Certo, quando, come in questo frangente, si vedono all’opera le istituzioni francesi, con la loro capacità di produrre stabilità politica e leadership solide, l’invidia è forte. E molti sognano di importare anche da noi qualcosa di simile. Ma è impossibile. Ricordo un tale, un uomo adulto e apparentemente raziocinante (il quale si limitava a ripetere argomenti della propaganda allora corrente), che, in mia presenza, prima del referendum costituzionale, paragonò la proposta di superamento del bicameralismo paritetico niente meno che alla marcia su Roma. Come pensate che potrebbero reagire simili lucidissimi cervelli di fronte a una proposta presidenzialista di tipo francese? Qui è già molto se riusciremo (sempre che la Corte costituzionale non abbia da ridire) a mettere nella legge elettorale proporzionale con cui presto voteremo un misero sbarramento elettorale del tre per cento: una foglia di fico che non frenerà in nessun modo l’instabilità politica ventura. Le istituzioni che abbiamo, generando ingovernabilità, ci tolgono la possibilità di svolgere un ruolo «pesante», ossia efficace e autorevole, in Europa. Ma il Parlamento non se ne preoccupa. Tanto meno se ne preoccupano quelle forze, amministrative e giudiziarie, che hanno interesse a che la politica in Italia sia sempre debole, sottomessa, ricattabile.
C’è un altro elemento di preoccupazione. Uno dei grandi sconfitti delle elezioni francesi è Vladimir Putin. Al primo turno egli poteva contare su ben tre candidati filorussi (Fillon, Le Pen, Mélenchon). Ha vinto il politico da lui più lontano, il meno amichevole di tutti.
Cercherà di rifarsi in Italia. Si spera che in vista delle prossime elezioni i servizi di sicurezza vigilino per ridurre al minimo le interferenze russe (che, probabilmente, ci saranno comunque) volte a favorire i nostri partiti filo-Putin (e, pertanto, antieuropei). Difficilmente potremo permetterci di avere un grande ruolo in Europa. Evitiamo, per lo meno, di diventare terra di conquista.

8 maggio 2017 (modifica il 8 maggio 2017 | 22:07)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_maggio_09/ma-l-italia-debole-5fa9e378-341e-11e7-8367-3ab733a34736.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. L’unione da rilanciare
Inserito da: Arlecchino - Maggio 16, 2017, 02:08:47 pm

L’unione da rilanciare
Noi, i Paesi forti e l’occasione europea dell’Italia
Un ipotetico nuovo asse franco-tedesco sarebbe molto squilibrato al suo interno (a favore della Germania) e meno autorevole e influente nei confronti del resto dell’Ue

Di Angelo Panebianco

Il rischio è di vendere la pelle dell’orso con eccessivo anticipo. La sconfitta di Marine Le Pen e la vittoria dell’europeista Macron in Francia segnalano solo uno scampato pericolo (avesse vinto Le Pen il colpo, per l’Unione, sarebbe stato fatale). Tutto qui. Per giunta, la vittoria di Macron, al momento, è solo parziale. Per sapere se potrà contare su una maggioranza, e di che tipo, bisognerà aspettare i risultati delle elezioni parlamentari di giugno. Solo allora capiremo se si tratterà di un presidente forte oppure debole, dimezzato.

Poniamo che Macron esca vincitore anche da quelle elezioni, che dia vita
a una presidenza forte, sostenuta da una coesa maggioranza parlamentare. Basterà perché egli possa ricostituire quell’asse franco-tedesco che fu un tempo il motore dell’Europa e il cui venir meno negli ultimi decenni è da molti considerato la principale causa della sua crisi? E, inoltre, è solo così che si potranno finalmente affrontare i suoi più gravi problemi?

È vero che l’asse franco-tedesco fu il vero governo dell’Europa per un lungo periodo e che il suo tramonto ha coinciso con l’inizio della crisi dell’Unione. Ma la difficoltà di ricostituire quell’asse è dovuta al fatto che le condizioni europee sono drasticamente cambiate. Negli anni passati si sono verificati due processi, apparentemente, contraddittori, di concentrazione e, contemporaneamente, di diffusione di potenza.

Il successo dell’unificazione tedesca ha concentrato potenza sulla Germania e ha reso il divario delle forze fra Germania e Francia molto grande. Contemporaneamente, l’allargamento dell’Unione ha diffuso potenza fra gli Stati europei. Un ipotetico nuovo asse franco-tedesco sarebbe molto squilibrato al suo interno (a favore della Germania) e meno autorevole e influente nei confronti del resto dell’Unione (a causa dell’allargamento e della risultante diffusione di potenza). In ogni caso, si tratterebbe di qualcosa di realmente nuovo, e non la riproposizione — come alcuni sembrano pensare — di una esperienza già vissuta. Certamente la Francia possiede degli atout importanti, il principale dei quali è rappresentato dal fatto che, dopo l’uscita della Gran Bretagna, si tratta della prima potenza militare d’Europa. Inoltre, per ragioni storiche, possiede una capacità di influenza, che manca alla Germania, su aree geografiche (Africa francofona) rilevanti per l’Europa. Ma ciò basterà per fare accettare all’opinione pubblica e, quindi, alla classe politica tedesche, un parziale ridimensionamento di quella posizione di assoluta supremazia entro l’Unione a cui entrambe si sono ormai assuefatte?

La soluzione può allora venire dall’Europa a più velocità, un nucleo centrale più integrato composto da chi ci sta e, a corona, i restanti membri dell’Unione? Sì e no. Per certi aspetti le cose si semplificherebbero ma per altri si complicherebbero. Si semplificherebbero perché ormai è chiaro che, con l’attuale assetto, non ci sono alternative alla paralisi decisionale. Un’Europa a più velocità aggirerebbe e neutralizzerebbe i poteri di veto che oggi la bloccano. Si porrebbe rimedio agli effetti negativi della diffusione di potenza. Ma le cose, contemporaneamente, si complicherebbero. Perché nel nucleo duro, centrale, la Germania concentrerebbe ancora più potere di oggi, le relazioni interne sarebbero ancora più squilibrate.

Per quanto alle orecchie di molti italiani questo possa apparire poco verosimile, proprio il nostro Paese, almeno in teoria, potrebbe essere chiamato a svolgere un ruolo di rilievo, potrebbe contribuire a superare l’impasse europeo. L’Italia potrebbe, e dovrebbe, essere un partner stabile per una Francia impegnata a bilanciare, almeno in parte, la potenza tedesca. Ciò, naturalmente, richiederebbe due condizioni. La prima è che l’Italia riesca a dare una soluzione minimamente decente ai propri attuali, gravi problemi di governabilità. La seconda è che abbia la possibilità di entrare a fare parte dell’eventuale nucleo duro dell’Unione. Le due condizioni sono fra loro connesse. Sono entrambe eventualità possibili anche se, al momento, nessuna delle due appare probabile.

Chi l’avrebbe mai detto che le circostanze avrebbero reso proprio l’Italia decisiva al fine del rilancio del progetto europeo? Tale progetto dovrebbe in ogni caso essere ridefinito, reinterpretato. Occorre certamente puntare sulla sicurezza (è, del resto, ciò che chiedono i cittadini più attratti dalle sirene antieuropee). Ciò significa impostare sia una difesa comune che un effettivo controllo europeo delle frontiere. Ma significa anche rimediare ad errori passati: occorre attribuire all’Europa pochi compiti essenziali (solo quelli che gli Stati nazionali non possono più svolgere) mentre bisogna ri-nazionalizzare prerogative e poteri indebitamente trasferiti all’Unione nei decenni trascorsi. Sperando anche, naturalmente, che classe politica e opinione pubblica tedesche siano disposte in futuro a fare, sul governo dell’eurozona, qualche concessione ai partner. Rimettere in moto il motore imballato dell’Europa è una impresa assai complicata. Non è sufficiente l’elezione di un giovane e simpatico presidente francese.

14 maggio 2017 (modifica il 14 maggio 2017 | 21:18)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_maggio_15/noi-paesi-forti-l-occasione-europea-dell-italia-56028cc6-38ce-11e7-8530-ea2b12fbdf2c.shtml


Titolo: Angelo PANEBIANCO. Legge elettorale, una gara tra chi urla di più
Inserito da: Arlecchino - Agosto 08, 2017, 06:23:27 pm
IL COMMENTO

Legge elettorale, una gara tra chi urla di più
Col proporzionale ognuno gioca per sé e si premia l’estremismo

Di Angelo Panebianco

La comunicazione politica funziona per automatismi: si dice ciò che ci si aspetta che i propri elettori vogliano sentire anche se si tratta di frasi senza senso o riferite a oggetti non più esistenti. Ecco due esempi: «Un centrodestra unito vincerebbe» (Berlusconi e i suoi). «Il leader del partito che risulterà più forte alle elezioni sarà il candidato-premier» (Renzi). Peccato che il «centrodestra» non esista più e che, difficilmente, nelle vigenti condizioni il leader del partito che avrà più voti diventerà primo ministro. Spesso, gli stati maggiori si preparano per la prossima guerra immaginando che sia simile alla precedente. Allo stesso modo i politici usano gli slogan di una stagione passata quando ormai il contesto è radicalmente mutato. Nel 1994 si tennero le prime elezioni con il sistema maggioritario. Anziché adattarsi immediatamente alle nuove condizioni i politici iniziarono quella campagna elettorale facendo riferimento agli schemi di gioco, agli stilemi e ai tic della passata epoca, quando era in vigore la proporzionale. Solo quando «scese in campo» Berlusconi, il primo autentico leader dell’età maggioritaria, il gioco cambiò bruscamente.
Accade oggi di nuovo: ci avviamo (dopo un ventennio) alle prime elezioni con la legge proporzionale e molti politici parlano «come se» fosse ancora in vigore il sistema maggioritario. Se non sapessimo che è una finzione dovremmo accusare di incoerenza e di illogicità Berlusconi e i suoi quando evocano il «centrodestra».

Il centrodestra esiste in regime di maggioritario e scompare in regime di proporzionale (da noi, ormai resiste sul piano locale e regionale solo perché lì è ancora in vigore una variante del maggioritario). Non si può volere la proporzionale, come vogliono Berlusconi e i suoi, e poi evocare una «creatura» che con la proporzionale non c’entra nulla.

Idem per quanto riguarda la possibilità che diventi premier il leader del partito elettoralmente più forte. Sono cose da maggioritario, non da proporzionale. In età proporzionale si formano governi di coalizione dopo le elezioni e a nessuno dei partner conviene che il primo ministro sia anche il capo del partito più grande: meglio, per loro, che la presidenza del Consiglio vada a un esponente politicamente meno forte, con meno truppe al seguito. Dal loro punto di vista, poniamo, un Gentiloni sarebbe sempre molto più accettabile di un Renzi.

Se si passa dal maggioritario al proporzionale (e viceversa) significa davvero che tutto cambia. La prima cosa che cambia è questa: se vige il sistema maggioritario si vota «contro», se vige il sistema proporzionale si vota «per». Nel primo caso, voto per A non necessariamente perché mi piace A ma perché votare A è il modo migliore per impedire che vinca B (da me detestato). Nel secondo caso, invece, scelgo, nell’ampio menù che mi viene presentato, la pietanza (il partito) che più si adatta ai miei gusti. È vero che, in circostanze eccezionali — come quelle propiziate in Italia dalla guerra fredda — si può votare «contro» anche in regime di proporzionale (come ci ricorda il celebre invito di Indro Montanelli: «Tappatevi il naso e votate Dc»). Ma non è la regola.
Che si sia entrati in un nuovo mondo lo hanno capito per primi gli scissionisti del Pd, D’Alema, Bersani e soci: se vige la proporzionale ritorna il voto identitario (che è un tipico voto «per») e ci sarà pure nel Paese una quantità di nostalgici sufficiente per assicurare una rappresentanza parlamentare al loro partitino. Allo stesso modo, sul versante opposto, sembra che Salvini abbia compreso meglio dei berlusconiani come ci si deve muovere (e comunicare) in epoca di proporzionale.

Certamente, la retorica politica ha le sue esigenze. E la democrazia ne vive. Prepariamoci a una campagna elettorale in cui verranno dette tante parole destinate a finire nel dimenticatoio appena si chiuderanno le urne. Si ipotizzeranno alleanze nonché fiere opposizioni alle presunte alleanze altrui. Ma solo quando si conosceranno i risultati elettorali, e la consistenza parlamentare dei vari partiti, cominceranno le manovre per formare un qualche governo di coalizione. Fra quelle manovre e le cose promesse in campagna elettorale non ci sarà una stretta relazione. Così vanno le cose in regime di proporzionale dove ciascuno gioca per sé e le alleanze si fanno dopo il voto. Fin qui i fatti. Dopo di che, cominciano le valutazioni. Non siamo in pochi a tremare per gli effetti che può avere il ritorno della proporzionale. Essa ha garantito in Italia la democrazia (pur al prezzo di una continua instabilità governativa) quando esistevano partiti forti, radicati nel Paese. Ora quei partiti non ci sono più (né mai più ci saranno): ci attende un futuro di instabilità e forse anche di rischi per la democrazia.

Per giunta, il sistema proporzionale, quando la maggior parte dei partiti presenti è priva di un forte insediamento sociale, finisce facilmente per premiare l’estremismo. Per due ragioni. La prima è quella del tertius gaudens: i più moderati sono impegnati a combattersi fra loro per portarsi via i voti e ciò dà un vantaggio al partito estremista che li combatte tutti. La seconda ragione ha a che fare con le regole della comunicazione: tante voci, tante facce, tanti messaggi in conflitto confondono l’elettore e lo annoiano. In tanto bailamme, le voci degli estremisti risaltano. Essi urlano più forte di tutti e catturano l’attenzione dei presenti vendendo l’elisir di lunga vita: soluzioni semplicissime per problemi complicatissimi.

6 agosto 2017 (modifica il 6 agosto 2017 | 22:19)
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Da - http://www.corriere.it/politica/17_agosto_06/legge-elettorale-gara-chi-urla-piu-ddf1b2cc-7ae3-11e7-8803-6174d9288686.shtml