Titolo: Giovanni SARTORI. Politologo fuori dagli schemi Inserito da: Admin - Giugno 16, 2007, 06:05:14 pm Se il partito nasce vecchio
Prodi e la strada in salita per il Pd di Giovanni Sartori Nascerà davvero il Partito Democratico? Intendi: nascerà vitale o nascerà morto? Sarà un successo o sarà un fiasco? Margherita e Ds riusciranno davvero a fondersi, oppure la loro sarà soltanto una somma di due partiti che restano litigiosi ed eterogenei? E quale sarà «il valore aggiunto» del nuovo pargolo? Di regola la somma (unificazione) di due o più partiti non produce valore aggiunto: la somma dei voti ricevuti dal partito unificato è inferiore alla somma dei voti ricevuti dai partiti separati. Nel nostro caso, perché mai un marxista dovrebbe gradire di trovarsi diluito in sempre meno marxismo; oppure perché mai un cattolico dovrebbe gradire di essere soverchiato da laici? Sia come sia, dobbiamo capire a quali condizioni un nuovo movimento o partito riesce a sfondare. La prima condizione è che la nascita del Pd comporti una drastica semplificazione del sistema partitico, e così l'eliminazione del pulviscolo dei partitucci, dei «nanetti». E da quando i partiti esistono il loro numero viene ridotto dai sistemi elettorali, non dalla nascita di un nuovo partito che se li mangia. Prodi si è messo in testa, invece, di risolvere il problema con un partito «mangia-partiti », con un partito-pitone. Ma, se così, a me sembra un controsenso che il progetto aggreghi soltanto due su circa dodici partiti. E' vero che la Margherita e i Ds mettono assieme circa la metà dei voti dello schieramento; ma i restanti nanetti mantengono lo stesso il loro potere di interdizione e di ricatto. Il che lascia il problema come è. Tanto più che nell'accorparsi i Ds si sono scissi perdendo il loro Correntone. La seconda condizione è che il nuovo partito sia percepito come davvero nuovo, come portatore di aria fresca e di energie giovani. Invece il Pd sta nascendo senza slancio, già logorato dai tempi troppo lenti della sua gestazione e soprattutto dalle complicazioni nelle quali riesce sempre a impastoiarsi. Se fosse un architetto, Prodi costruirebbe tortuosissime pagode; e certo ha il genio della complessità superflua. Per le elezioni del 2006 escogitò una pletorica officina di teste d'uovo che gli regalò un programma di quasi trecento pagine, che gli fece quasi perdere le elezioni e che quotidianamente lo impaccia nel governare. E per il nuovo partito la tabella di marcia prevede un Comitato dei 45 per le regole dell'assemblea costituente; poi, il 14 ottobre, l'elezione dei delegati alla suddetta assemblea costituente, alla quale compete la redazione dello statuto del Partito Democratico; per poi finalmente arrivare, quando sarà, alla prova delle elezioni politiche. Nell'interim i 45 già dissentono su come e quando eleggere il loro leader e il loro segretario. Il tutto appesantito da un ulteriore, e sospetto, ricorso alla primarie. Dico «sospetto» perché per Prodi è ovvio che le primarie devono confermare e scegliere lui. Tantovero che, al momento, non le vuole perché i sondaggi danno per vincente Veltroni. Con tanti saluti al partito che «nasce dal basso». A Prodi piace far sembrare che sia il suo popolo a creare il suo Pd. Ma in verità non è così. E a questo modo molte, troppe energie vengono sprecate nel costruire una finzione populista. Allora, il Pd nascerà vitale o morto? La previsione è difficile. Ma il fatto è che le elezioni amministrative hanno confermato la regola che le unioni perdono voti. Dove Ds e Margherita si sono uniti, hanno perso mediamente 10 punti percentuali (vedi Genova, La Spezia, Ancona). Questo è solo un campanello di allarme. Certo è, però, che la strada del Pd è piu che mai in salita. 16 giugno 2007 da corriere.it Titolo: Giovanni Sartori Domande al nuovo leader Inserito da: Admin - Giugno 27, 2007, 12:03:21 pm Domande al nuovo leader
È proprio vero che la paura fa novanta. Il governo Prodi sbanda e inciampa ogni giorno; i sondaggi sono infausti; e in Senato è come se non esistesse, non riesce a legiferare. L'Ulivo ha ragione di essere spaventato. E così d'un tratto si è svegliato. Ha capito che il balletto dei cavalli (o ronzini) di razza che da vent'anni si bloccano l'un l'altro — la somma di impotenze dalle quali è emerso Prodi — deve finire. Pena una pessima partenza il nuovo partito, il Pd, non può nascere senza un nuovo leader che sia davvero tale. Prodi ha escogitato un partito per rinforzarsi in sella. Paradossalmente ha costruito una macchina che lo disarciona. E così, d'un tratto, Veltroni è diventato il candidato di tutti. Quantomeno a parole. Ma facciamo come se l'ultima parola sia stata detta. Veltroni vola nei sondaggi ed ha fatto bene come sindaco di Roma. Pertanto sta negoziando da posizioni di forza e chiede sin d'ora il sostegno dei suoi sulle riforme elettorali e istituzionali che ha in mente. Ma, appunto, cosa ha in mente? È bene chiederselo subito visto che in passato (quando Veltroni era segretario dei Ds e non fece bene) sbagliò, per esempio, sul sistema elettorale. Il problema è che in media gli attribuiscono idee contraddittorie. Leggo che Veltroni intende proporsi come «sindaco d'Italia» (è lo slogan di Mario Segni), ma leggo altrove che è per il sistema semipresidenziale francese. Sono due formule diversissime. La prima è caratterizzata dalla elezione popolare diretta del capo del governo, la seconda dalla elezione diretta del capo dello Stato. Non posso credere che Veltroni le confonda. Forse le confondono i giornalisti. L'altro giorno sentivo su una televisione «ammiraglia» che lo scarto tra voti e seggi era dovuto, nelle elezioni francesi, al premio di maggioranza. Ma la Francia non ha premio di maggioranza. Del pari ogni tanto leggo che dal referendum Guzzetta sul sistema elettorale nascerebbe un sistema bipartitico. Assolutamente no (anche se sono per il referendum, non lo vendo raccontando balle). Non è detto, allora, che chi fa confusione sia Veltroni. Però un sospettuccio, e nemmeno tanto piccolo, lo covo. L'elezione diretta del premier fu inventata in Israele con l'intento di contrastare la frammentazione partitica dovuta a un proporzionalismo che è il più proporzionale al mondo. Israele si è gia rimangiato dopo tre elezioni questo esperimento, che è risultato disastroso. Ma in Italia l'idea piace. Piacque a D'Alema (per sé) ai tempi della Bicamerale, sotto sotto piace (per sé) a Prodi, e piace anche da tempo (per sé) a Veltroni. Che l'esperimento sia fallito nell'unico Paese che l'ha tentato risulta del tutto indifferente ai nostri aspiranti premier. E ai suddetti non importa un fico che per una lunghissima maggioranza di costituzionalisti la formula del «sindaco d'Italia » sia ingannevole e impraticabile. Non so se Veltroni abbia davvero detto che lui non si impelagherà in «astruse discussioni sulle riforme», perché gli basta sapere che «premierato significa un governo che può decidere». Ma proprio no. Le strutture di governo che danno governabilità sono parecchie: presidenzialismo, semi-presidenzialismo, premierato inglese, cancellierato tedesco. Pertanto chi non distingue pasticcia. E non vorrei che Veltroni ci introduca in una notte hegeliana nella quale tutte le vacche sono nere, e cioè sembrano uguali. Giovanni Sartori 27 giugno 2007 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI... Perché nessun incendiario resta in carcere Inserito da: Admin - Agosto 26, 2007, 12:11:16 am Perché nessun incendiario resta in carcere
Garantismi insensatidi Giovanni Sartori Ogni estate ripassa la stessa dolente storia dell'Italia incendiata da incendiari che meriterebbero, a mio sommesso parere, di essere incendiati. Invece nulla. Una legge del 2000 (la 423 bis del Codice penale) ha finalmente stabilito condanne da 4 a 10 anni per i piromani boschivi. Dopo sette anni le condanne definitive sono state zero, dico zero. Ci viene raccontato che i nostri fuochisti sono difficilissimi da acchiappare. Davvero? Un lettore ci scrive così: «Abito a Palermo e, come tutti i siciliani, sarei in grado di determinare il giorno e i luoghi dove scoppieranno gli incendi. Basta guardare le previsioni del tempo: una giornata di forte vento caldo è quella giusta. Quanto ai luoghi, i boschi veri si contano sulle dita». Ma anche se concediamo che la caccia all'incendiario sia più difficile, per esempio, della caccia al ladro, anche in questa dannatissima ipotesi il fatto resta che nel 2006 i piromani denunziati, e quindi individuati, sono stati 353. Tutti a spasso. Possibile? Perché? Un po' perché gli italiani sono italiani. Che proprio non sono un popolo di santi, navigatori ed eroi, ma in buona parte un popolo di cultura contadina che detesta gli alberi e che non ama la natura. Una foresta che va in fiamme non li commuove. Tanto vero che i nostri incendiari sono largamente protetti da una indulgenza che non li vede come criminali, ma come poveracci che si arrangiano. Ma neanche i giudici aiutano. I nostri magistrati sono stati addestrati da un formalismo giuridico avulso dalla sostanza dei problemi. Se poi questo formalismo li induce a violare il principio summum ius, summa iniuria (troppo diritto è somma ingiustizia), la difesa è che il loro dovere è di applicare la legge, non di interpretarla. Sì e no. Qualsiasi applicazione di una norma astratta a una fattispecie concreta sottintende un'interpretazione. Che talvolta diventa molto «creativa», come nel caso, a Milano, del gip Clementina Forleo che rilascia dei probabilissimi terroristi inventando una sua definizione di cosa sia terrorismo. Tornando agli incendiari, forse le nostre facoltà di Legge dovrebbero insegnare anche un po' di ambientalismo: che i boschi sono un prezioso bene pubblico e che bruciarli li trasforma in un micidiale gas serra che inquina l'atmosfera e minaccia la nostra stessa sopravvivenza. Pare che i nostri piromani usino anche i gatti cosparsi di benzina ai quali danno fuoco. Il che dovrebbe commuovere almeno quei magistrati per i quali la legna è soltanto legna, ma che stravedono per il loro gatto. Se il capo del Corpo forestale ritiene che «anche la proposta di un vescovo di scomunicare i piromani è una buona idea», allora a me ne viene in mente un'altra: proviamo a regalare a tutti i giudici un gatto. Se ogni gatto mettesse in galera un piromane, sarebbe un buon affare. Prendiamo un caso per tutti. Il 10 agosto viene arrestato un pastore passeggiante nei boschi con tanto di 17 inneschi incendiari in saccoccia. Ma un pm di Latina lo rilascia perché «non si può arrestare se non in flagranza di reato e il pastore non stava accendendo un fuoco». Il che implica che un signore carico di inneschi deve aspettare, primo, l'arrivo della Forestale e che poi, secondo, la Forestale lo lasci effettivamente incendiare il bosco al fine di coglierlo in flagranza di reato e così di fornire al magistrato prove sufficienti per arrestarlo. Altrimenti ridiventa libero di continuare a incendiare (tanto vero che il nostro pastore era recidivo). Insensato? Sì. Ma il magistrato risponde che la colpa è del Codice penale, al quale lui deve obbedire. E siccome noi dobbiamo obbedire al magistrato anche quando è insensato, la soluzione può soltanto essere di rivedere il Codice. Una faccendina non da poco, per un prossimo articolo. 25 agosto 2007 da corriere.it Titolo: Giovanni SARTORI - La terra trema sotto la casta... Inserito da: Admin - Settembre 19, 2007, 04:30:43 pm La Seconda Repubblica e lo spontaneismo
La terra trema sotto la casta di Giovanni Sartori La terra trema ormai sotto i piedi della Casta. Per la prima volta il popolo bue la minaccia davvero. Finora i signori del potere se ne sono infischiati della rabbia crescente di un elettorato che si sente irretito nell’impotenza (a dispetto dei rombanti discorsi che lo proclamano, poverello, sempre più sovrano). Ma ecco che, inaspettatamente, Beppe Grillo entra nella tana del nemico e, alla festa dell’Unità di Milano, spara a mitraglia contro gli ottimati Ds. Fino a meno di un anno fa Grillo sarebbe stato subissato dai fischi; invece, è stato subissato da applausi. Un episodio che richiama alla mente la caduta della Bastiglia. Di per sé quell’evento della rivoluzione francese fu un nonnulla; ma ne divenne il simbolo. Forse sto forzando troppo i fatti. Forse. Vediamo perché. Intanto, e in premessa, cosa si deve intendere per «antipolitica »? La dizione è ambigua: sta per «uscire» dalla politica, estraniarsi; oppure per «entrare» a tutta forza nella politica per azzerarla (il caso di Grillo). Ciò premesso, le novità sono due. Primo, Grillo entra in politica avendo prima creato una infrastruttura tecnologica di supporto e di rilancio: Internet, blog, e un radicamento territoriale assicurato, ad oggi, dai 224 meet up (gruppi di incontro) che in un giorno raccolsero 300 mila sottoscrittori per una legge di iniziativa popolare. Ora, né la satira politica di altri bravissimi comici (Luttazzi, per esempio), né i girotondini hanno mai dispiegato un armamentario del genere. Dal che ricavo che misurare la forza di Grillo con riferimento ai suoi predecessori sarebbe una grave sottovalutazione. Secondo. Grillo ci sa fare. Non propone un nuovo partito (il 32˚, come ironizzano a torto gli altri 31), ma un movimento spontaneo che li spazzi tutti via. Inoltre ha messo subito il dito sul ventre sensibile della Casta: il controllo dei voti. Se vogliamo davvero sapere quale sia lo stato di putrefazione del Paese, la fonte non è Grillo ma il libro La Casta di Stella e Rizzo. Quel libro ha venduto un milione di copie—un record di successo mai visto — eppure non ha smosso nulla. Gli italiani dovrebbero esprimere la loro protesta «razionale» continuando a comprarlo. Ma anche così dubito che la Casta ascolterebbe. Perché Stella e Rizzo non controllano voti. Invece Grillo sì. Lo ha già dimostrato e si propone di rincarare la dose al più presto. Per le prossime elezioni amministrative Grillo sosterrà liste civiche spontanee «certificate » (da lui) che escludano iscritti ai partiti e personaggi penalmente sporchi. Ne potrebbe risultare uno tsunami. Anche perché il grillismo capitalizza, oggi, sulla retorica (ipocrita) di esaltazione dello «spontaneismo» dispensata da anni sia da Prodi come da Berlusconi. Hegel elogiava la guerra come un colpo di vento che spazza via i miasmi dalle paludi. Io non elogio la guerra, e nemmeno approvo le ricette politiche «al positivo» del grillismo (a cominciare dalla stupidata della ineleggibilità di tutti dopo due legislature; stupidata che l’oramai infallibile incompetenza del nostro presidente del Consiglio ha già approvato). Ciò fermamente fermato, confesso che una ventata — solo una ventata — che spazzi via i miasmi di questa imputridita palude che è ormai la Seconda Repubblica, darebbe sollievo anche a me. E certo questa ventata non verrà fermata dalla ormai logora retorica del gridare al qualunquismo, al fascismo, e simili. 19 settembre 2007 DA corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI... Il revival del populismo Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2007, 05:53:28 pm Il fenomeno Grillo e il lessico della democrazia
Il revival del populismo Non vorrei che il grillismo si arenasse in un confuso e inconcludente dibattito sulla antipolitica. Nel caso di Beppe Grillo, anti sta solo per dire «basta » con questi politici, con questi partiti e con questa politica. E, se così, il grillismo non ha sottintesi o implicazioni antidemocratiche. Io non temo ritorni al fascismo né al comunismo (storico) perché entrambi questi regimi hanno perduto, in Occidente, il loro principio di legittimità. Oggi nemmeno Chávez, il più avanzato demagogo dell'America Latina, osa dire che «lo Stato sono io». Oggi la legittimazione del potere (a meno che non sia teocratica) deve essere democratica, deve essere «in nome del popolo ». Però e invece temo «la democrazia che uccide la democrazia, la democrazia che si suicida». Un timore che ci impone di rivisitare la trinità democrazia- populismo-demagogia. Si tratta di una trinità perché queste nozioni hanno la stessa testa: la parola demos in greco, populus in latino, e popolo in italiano. Ma questo fatto non le rende sinonimi. Demagogia è l'arte di trascinare e incantare le masse che, secondo Aristotile, porta alla oligarchia o alla tirannide. In ogni caso, il termine indica un agire e un «mobilitare» dall'alto che non ha nulla da spartire con la democrazia come potere attivato dal basso. Il termine populismo è molto più recente e ci arriva dalla Russia, dove fu coniato alla metà dell'Ottocento per indicare una rivoluzione dei contadini (fermo restando che la parola narod sta, in russo, per popolo). Un significato che poi riemerge all'inizio del secolo scorso negli Stati Uniti. Il primo movimento fu represso, e il secondo fallì. Il che fece anche sparire la parola. Così la teoria della democrazia continuò a usare, per indicare una degenerazione o una minaccia alla democrazia, la parola demagogia. Poi, d'un tratto, da una ventina d'anni, diventa di moda «populismo». Perché? Non sono ancora riuscito a capirlo. Intanto offro la mia interpretazione e relativa proposta. Concettualmente è irrilevante che il populismo sia nato «agrario». Concettualmente è importante, invece, che denoti una genuina democrazia «immediata » che nasce dal basso e che, per questo rispetto, è l'esatto contrario di demagogia. Pertanto il populismo così definito (si sa che io sono un maniaco delle definizioni) ha la forza di essere una democrazia embrionale genuina, ma al contempo la terribile debolezza di incarnare un infantilismo politico (direbbe Lenin) incapace di costruire alcunché. Le sue proposte «al positivo» sono, appunto, puerili e inconsistenti. Da quanto sopra si ricava che Grillo è, ad oggi, un populista, non un demagogo. La demagogia, in Italia, sta al governo. Intendiamoci: nelle democrazie di massa e contestualmente di video- potere senza un modico di demagogia nessun leader farebbe oramai molta strada. Eppure se paragoniamo Prodi e Berlusconi a Schröder e alla Merkel, o alla Thatcher e Tony Blair, o a Zapatero e predecessori in Spagna, risulta in modo lampante che solo i «nostri» antepongono la conquista del potere o l'abbarbicamento al potere a qualsiasi interesse e necessità del Paese. Come sarò pronto a dimostrare a richiesta. Qui mi interessa soltanto di portare in evidenza la caratterizzazione fortemente demagogica dei nostri malanni. Alla classica domanda «cosa avete fatto per il vostro Paese?», Berlusconi potrebbe rispondere: niente, salvo che liberarlo da Prodi. E viceversa. Cioè Prodi potrà dire: niente, salvo che liberarlo da Berlusconi. Giovanni Sartori 02 ottobre 2007 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI - Se io fossi un politico Inserito da: Admin - Novembre 28, 2007, 05:20:30 pm L'ITALIA E I PARTITI
Se io fossi un politico di Giovanni Sartori Avete mai sentito la frase «questa è una questione politica»? Io migliaia di volte. Pensa e ripensa, ho finalmente capito che quando era indirizzata a me voleva dire: levati di mezzo, tanto tu la politica pratica, la politica «come veramente è», non la capisci. Sì, per mia fortuna io non sono in politica; ma è proprio vero che io non capisca di politica? Così in questa occasione ho deciso di travestirmi da politico. Il momento è eccitante: in questo momento tutto è in movimento. Berlusconi che fa sparire, con la sua bacchetta magica, Forza Italia e il connesso Polo delle libertà; Fini e Casini che in autodifesa sono costretti a «rompere» con Berlusconi; la collusione (che comincia a essere documentata) Rai-Mediaset che costringe Prodi a tirare fuori dal cassetto le riforme sulla tv predisposte dal ministro Gentiloni; e Veltroni che si deve destreggiare su tre fronti: la riforma elettorale (e connessi) con il Cavaliere, il salvataggio del governo Prodi, e la patata bollente della questione tv (che torna a far esplodere il problema del conflitto di interessi). Comincio i miei travestimenti facendo finta di essere Berlusconi. Nei suoi panni io darei la priorità a «far fuori» Fini e Casini per acchiapparne i voti. Ma per farli fuori gli occorre tutta la potenza di fuoco della sua televisione. I soldi li ha; ma se quel suo monopolio si incrinasse, allora anche la pappata dei suoi ex alleati potrebbe fallire. Il Cavaliere è sceso in campo sulla riforma elettorale sicuro di dominare il gioco; invece la riforma della tv lo rende vulnerabile. Mi immedesimo ora con Fini e Casini. Per non essere costretti a tornare all'ovile ancor più in sudditanza di prima, Fini si deve rapidamente scordare del referendum Guzzetta- Segni e appoggiare un sistema elettorale (come quello tedesco preferito dal suo nuovo alleato Casini) che gli consenta di andare tranquillamente da solo alle prossime elezioni. Inoltre Fini e Casini hanno bisogno, per sopravvivere, di indebolire il peso televisivo del loro nuovo nemico. Eppure, Casini si è affrettato a dire no a qualsiasi «legge punitiva » contro Mediaset, riecheggiato da An. Bravi davvero. Sarebbero questi i politici che davvero si intendono di politica? Passo a mettermi nei panni di Veltroni. La sua quotidiana spina nel fianco è Prodi, geloso, sospettoso e, sotto sotto, sempre ostile. Ma negli ultimi giorni la sua mano si è molto rafforzata. Il sussulto di onnipotenza di Berlusconi gli ha inopinatamente regalato Fini e Casini. Né potrebbe ottenere il voto non solo per la riforma tv ma anche contro la Frattini, cioè per ripescare la necessarissima legge sul conflitto di interessi che giace già pronta, gli ricordo, da due legislature. Mi immedesimo, infine, con Prodi. Il presidente del Consiglio ha in testa, chiarissima, una sola idea: durare. Se si muove, e quando si muove, è per restare immobile a Palazzo Chigi. Per Veltroni è un peso morto; ma per sé è un vero «politico puro». Il che spiega perché a me non piacerebbe essere al suo posto. Forse la politica pura la capisco. Ma non fa per me. 28 novembre 2007 da corriere.it Titolo: Colloquio con Giovanni Sartori Azzeriamo questa Rai Inserito da: Admin - Novembre 30, 2007, 04:47:56 pm Azzeriamo questa Rai
di Antonio Carlucci La sudditanza della tv di Stato verso Berlusconi. Il dominio dei partiti e il conflitto di interessi nascosto da Prodi. Ma ora ci sono le condizioni per la riforma. Perché conviene a Veltroni, Fini e Casini. La ricetta del politologo. Colloquio con Giovanni Sartori Lo strapotere di Silvio Belusconi è il dato più evidente di questa vicenda, proprietario di tre reti Finivest e in più controllore delle tre reti Rai quando era presidente del Consiglio. "Il bello è che anche dopo aver lasciato Palazzo Chigi a lui resta il controllo della Rai con un consigliere di amministrazione, Angelo Maria Petroni, che gli dà la maggioranza. Per più di un anno il presidente del consiglio Romano Prodi non ha dato mostra di voler agire. Ora, grazie a Dio, con i documenti pubblicati da 'Repubblica' il caso diventa scottante". Secondo lei, perché il governo di centrosinistra è stato inerte sulle distorsioni che hanno creato quello strapotere, ovvero la legge Frattini sul conflitto di interessi e la legge Gasparri sulla televisione? "Se era per Prodi, il conflitto di interessi sarebbe chiuso nel cassetto e amen. Il guaio è che le questioni conflitto di interessi e televisione sono interdipendenti. E bisogna cominciare dalla prima per poi mettere mano alla riforma della televisione". Non è un po' esagerato dare tutta la colpa a Prodi? "Questo non l'ho detto, ma se me lo chiedono sarei incline a rispondere di sì. Perché Prodi ha inventato un nuovo modo di fare politica che è, a mio avviso, tutto sbagliato. Difatti ora è arrivato alla sua ultima spiaggia. È ridotto a sopravvivere alla giornata, facendo la quadra con i suoi ministri. I problemi se li è procurati da solo, imbarcando nel governo l'estrema sinistra e scrivendo uno sterminato programma al quale ora resta impiccato. Rispetto alla tv solo la pubblicazione di quelle telefonate lo ha risvegliato, facendogli ricordare che c'erano nel cassetto due disegni di legge sulla televisione. Non sono la soluzione del problema, ma sono un notevole passo in avanti. Diciamolo chiaro: Berlusconi ha continuato a fare quello che voleva anche una volta uscito da Palazzo Chigi". Come ci è riuscito? "Il governo di centrosinistra non è stato capace neanche di spostare a suo favore la maggioranza nel consiglio di amministrazione della Rai dopo aver vinto le elezioni. Non ci sarebbe stato nulla di terribile se il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa avesse subito sostituito il consigliere Angelo Maria Petroni, nominato dal centrodestra, con un nome specchiato di sua fiducia. Aver atteso più un anno per farlo ha creato il problema...". La prova del segreto che tutti conoscevano ha rimesso in moto un possibile processo di riforma, o tutto ritornerà tranquillo come prima? "Ora il segretario del Partito democratico Walter Veltroni, per quanto ostacolato da Romano Prodi, ha una sua libertà di manovra e può approfittare di una situazione che si è rimessa in moto". Ma come fa a trovare un accordo sulla riforma elettorale senza inserire anche il conflitto di interessi e la televisione? "Lui è partito dicendo che c'è bisogno di riformare la legge elettorale, e i connessi che da vent'anni tutti i costituzionalisti invitano a fare, a cominciare dal rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio. Veltroni ha l'obiettivo di creare un partito che sia in grado di vincere le elezioni, e questo gli deve consentire libertà di movimento. In più Berlusconi, in un sussulto di onnipotenza, ha commesso l'errore di alienarsi il sostegno di Gianfranco Fini e di Pier Ferdinando Casini, creando un nuovo partito personale. Dunque, Veltroni ha davanti una prospettiva favorevole". Con questa situazione il controllo della televisione resta fondamentale. E la Rai paralizzata. Lei ritiene che Veltroni possa cambiare qualcosa? "Il controllo della Rai è decisivo per Berlusconi ora che ha perso due alleati. Ma è decisivo anche per Fini e Casini che altrimenti rischiano di sparire. Ed è decisivo per il centrosinistra. Così Veltroni ha l'occasione di negoziare con Fini e Casini non solo sulla legge elettorale, ma anche sul conflitto di interessi e la riforma della televisione, visto che anche a Fini e Casini interessa indebolire Berlusconi. Né la strada è irta di ostacoli: oltre ai due disegni di legge del ministro Gentiloni, esiste da tempo la buona legge Passigli sul conflitto di interessi già approvata due volte in passato da uno dei rami del Parlamento". In questa situazione come giudica il comportamento e gli atti del gruppo dirigente della Rai? "Beh, il presidente Claudio Petruccioli e gli altri consiglieri del centrosinistra sono stati lasciati in una situazione assurda e impossibile". Qual è il suo giudizio sui giornalisti, in particolare i direttori dei tg, che disegnavano i loro prodotti in modo conforme ai desideri del governo e i dirigenti che facevano altrettanto con i palinsesti? "La questione non è che le persone si parlino. Il problema è il rapporto di subordinazione. Alla fine ne viene fuori un colloquio asimmetrico e la totale dipendenza dal potere". In tutto questo resta intoccabile la questione del canone Rai, una tassa impossibile da contestare e da pagare anche se il potere gioca con programmi e informazione. "Se si vuole una televisione pubblica è difficile eludere il canone. Io avevo fatto tempo fa un paio di proposte di riforma della tv di Stato, che affrontavano anche il problema del canone. E che sono naturalmente cadute nel vuoto". Ce le ricorda? "Erano due. La prima partiva da questa riflessione: poiché la tv privata, a cominciare da Mediaset, deve pagare le frequenze che sono di proprietà dello Stato, si potrebbe stabilire che metà dei profitti netti delle tv private vadano alla tv pubblica come pagamento dell'uso dell'etere. Sparisce il canone e i privati pagano solo sui loro profitti. In questo caso, la tv pubblica non deve avere pubblicità. E nel caso che la quota dei profitti dei privati non basti per sostenere la Rai, delle tre reti pubbliche una può essere commerciale con pubblicità. Così si otterrebbero vari risultati: si riduce lo strapotere di Berlusconi, si crea una tv pubblica gratuita e si rende l'insieme un po' più pluralistico". E la seconda? "Se proprio i partiti non intendono rinunciare alla lottizzazione, e cioè se non c'è verso di eliminare il controllo della politica sulla tv pubblica, allora due canali Rai siano apertamente affidati alla maggioranza di governo, e uno all'opposizione. Con consigli di amministrazione e bilanci diversi. La lottizzazione avverrà nella totale chiarezza, l'opposizione sarà libera di criticare e la maggioranza dovrà rispondere". E il cittadino paga il canone per tutto ciò? "Perché no? Ci sarebbe vera dialettica politica tra i partiti: la maggioranza ha i suoi canali e l'opposizione il suo. Quello che non va è la situazione di oggi". Professore, le piace la televisione che va in onda in questi giorni? "No, la trovo pessima, l'informazione non dice più niente, il mondo è sparito, si parla solo di delitti caserecci. In parte perché il reclutamento partitico ha fatto scendere il livello professionale di chi ci lavora. E poi perché è una televisione che ha il terrore di raccontare i fatti che dispiacciono a qualcuno, il terrore di sollevare problemi. E le eccezioni di bravura, che pur ci sono, non riescono a incrinare questa cappa del nulla". (29 novembre 2007) da espresso.repubblica.it Titolo: GIOVANNI SARTORI - Il ricatto dei nanetti Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2007, 11:06:06 pm Editoriali I PICCOLI PARTITI
Il ricatto dei nanetti di Giovanni Sartori Tempo fa formulavo la «legge dei nanetti »: se una riforma elettorale è avversata dai partitini, vorrà dire che va bene; se invece piacerà ai partitini, vorrà dire che è cattiva. La rivolta dei nanetti è ora puntualmente avvenuta. Per la mia «legge» andrebbe combattuta. Invece Prodi in cuor suo gongola. Perché ora può affrontare Veltroni a muso duro, così: sei tu che hai inferocito i miei micro-partiti, e quindi sei tu che li devi placare facendo marcia indietro; altrimenti i nanetti mi fanno cadere e tu sei il traditore che affonda la sinistra al governo. Se io fossi Veltroni (sia chiaro: non lo sono) gli risponderei a muso altrettanto duro così: se tu usi i nanetti per ricattarmi, io non ci sto. I nanetti sono tuoi, sei tu che te li sei coccolati e messi in casa. E debbo resistere sulla riforma elettorale che ho proposto proprio perché non voglio finire come te, e cioè paralizzato in un culo di sacco. E poi i tuoi nanetti li hai attizzati anche te fornendo loro la copertura di argomenti che ne nascondono la vera motivazione: mantenere il potere di ricattare il potere. Dicevo che non sono Veltroni e che davvero non saprei come si regolerà. Resta utile passare in rassegna gli argomenti che i prodiani (anche con apporti esterni) fanno valere contro i sistemi proporzionali «impuri» (e cioè di proporzionalità ridotta) in discussione tra Veltroni e Berlusconi. Il primo è che la proporzionale uccide il bipolarismo. La tesi è infondata. Inoltre i bipolarismi sono due. Quello che andrà a morire — si spera — è il bipolarismo sbagliato, all'italiana, che va a finire (Prodi docet) nell'ingovernabilità e nell'imbottigliamento. L'altro, è il bipolarismo flessibile praticato da tutte le democrazie parlamentari. Pertanto la «fine» del bipolarismo denunciato dai prodiani è uno spauracchio che non ci deve spaventare. C'è poi l'argomento che gli italiani hanno conquistato il diritto «irrinunciabile » di sapere, prima del voto, quale coalizione (immodificabile) li governerà. Confesso che la straordinaria importanza di questo diritto mi sfugge. Ci viene raccontato che a questo modo i partiti sono soppiantati dalla volontà degli elettori. Ahimè no: questo è soltanto un imbroglio, o comunque un auto-inganno. In realtà la dottrina del «sapere prima» e delle coalizioni bloccate serve solo a garantire la durata in carica per cinque anni anche a un governo di incompetenti, di incapaci e di zombi. Il che equivale a dire che comporta — tra un'elezione e l'altra — un'intoccabile oligarchia partitocratica. Prodi si propone di insegnare in futuro la teoria delle coalizioni. Mi permetto di segnalargli che per questa teoria, che esiste da tempo, le coalizioni «ottimali » (che funzionano) devono essere minimal e connected, vale a dire minime (quanto più piccole possibili) e connesse (tra partiti contigui, vicini). Spiego meglio: la coalizione dev'essere minima, perché così è probabilmente più coesa, meno eterogenea; e deve essere tra vicini per minimizzare la loro distanza ideologico-programmatica. Invece noi abbiamo cercato coalizioni massime caratterizzate ovviamente da sconnessione. Prima di fare (malfare) bisognerebbe sapere. 05 dicembre 2007 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI - Bilancio amaro di una stagione Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2008, 11:01:40 am LA CRISI DI GOVERNO
Bilancio amaro di una stagione di GIOVANNI SARTORI I colleghi Angelo Panebianco ed Ernesto Galli della Loggia hanno già ben analizzato la Parabola del prodismo e le Origini del fallimento. Iomi propongo invece di ricostruire il «Prodi pensiero» o meglio di tentarne la ricostruzione. L'idea fissa è che il sistema politico debba essere bipolare in modo rigido e prestabilito, e cioè fondato su due poli chiusi e blindati. Ogni polo esprime la volontà dei suoi elettori e quindi la sua composizione non deve essere modificata da «ribaltoni», nemmeno da «volenterosi» spiccioli disposti a dare una mano. Il primo governo Prodi cadde per un voto e perché il Nostro si rifiutò di accettare i voti di soccorso che gli offriva Cossiga. Dopodiché Prodi si è ancor più trincerato. Il suo primo governo si fondava sulle «desistenze » elettorali concordate con Rifondazione comunista. Questa volta Prodi ha voluto Bertinotti e i suoi nanetti di contorno al governo. Così—immagino abbia pensato — li catturava. E per catturarli ancora meglio ha escogitato un’«officina» non tanto di cervelli ma di spartizione alla Cencelli delle istanze di tutti. Con il bel risultato di impiccare il suo governo alle concessioni che il suo programma di ben 280 pagine aveva fatto ai suoi sinistrini. Questa è una sequela di errori da manuale. Una volta Ciriaco De Mita disse che Prodi «non capisce nulla di politica». Ma al Nostro non importa granché di capire; gli importano soprattutto i modi per puntellare e rendere insostituibile la sua leadership. Chi, se non soltanto lui, poteva gestire una baracca così mal congegnata? Chi, se non soltanto lui, poteva «fare la quadra» in tanto spappolume? Il sospetto è avvalorato dall'altro versante della sua indefessa operosità: il polity-building, la costruzione della città politica more prodiano. In quest’ottica i vecchi partiti della sinistra devono sparire e si devono rifondare in un nuovo partito progettato da lui, e quindi davvero suo. Per attuare questo disegno Prodi si è prodigato in demagogismo democratico: tutto doveva nascere «spontaneamente » dal basso (con primarie a cascare) e il capo del governo doveva essere eletto direttamente dal popolo. Ma questo disegno gli è scoppiato tra le mani. Il nuovo partito ha incoronato Veltroni, ha perduto nella rifusione l'ala sinistra dei Ds, e si è trovato esposto al fuoco amico dei cespugli che Prodi si illudeva di addomesticare. E' bastato che Veltroni dichiarasse che non li avrebbe imbarcati, per far dichiarare a Prodi che i nanetti li proteggeva lui. Collisione perfetta, frittata fatta. Io sono contrario a elezioni immediate senza riforma elettorale. Ma non sono contento di scoprire che da qualche giorno anche Prodi la pensa così. Perché non riesco a dimenticare che per gli ultimi 18 mesi il Nostro ha minacciato i suoi con il ritornello: «Se mi fate cadere, tutti alle urne». Tra poco Prodi lascerà Palazzo Chigi. Però non per tornare a casa ma per tornare a tempo pieno al partito a rilanciare «Prodopoli» e a fare le sue vendette. L’eredità delle sue cattive idee sarà purtroppo lunga da smaltire. 30 gennaio 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI - Elezioni subito non vanno bene Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2008, 06:10:17 pm LA CRISI DI GOVERNO
Elezioni subito non vanno bene di Giovanni Sartori I politici disinteressati che operano soltanto nell'interesse del Paese sono oramai rari. Dilagano invece i ribaldi, i politici che operano soltanto nell'interesse proprio. Come fermarli? Come rimandarli a casa? È sempre più difficile perché il Berlusco-Prodismo (in questo perfettamente appaiati) ha sempre più indebolito il potere dell'elettorato. A dispetto delle apparenze, siamo sempre più impotenti. Alle urne, alle urne! Alle urne per decidere che cosa? La risposta di rito è: persino per decidere il capo del governo. Ma quando mai? Se davvero il Berlusco- Prodismo volesse attribuire al popolo il potere di scegliere il premier, allora la scheda di voto dovrebbe chiedere: 1˚Volete il suddetto come premier? Sì / No; 2˚ Se No, allora chi...? Invece sulle nostre schede il nome è prestampato e nemmeno ne è ammessa la cancellazione. Il che configura una scelta senza scelta, e così un classico raggiro. Ancora. In passato gli elettori votavano per singoli partiti, il che vuol dire che avevano libertà di scegliere tra una molteplicità di offerte relativamente precise e distinguibili. Ma il Mattarellum e il Berlusco-Prodismo ci hanno regalato carrozzoni «coatti» che imbarcano cani e gatti e che propongono offerte fumose e intrinsecamente contraddittorie. I carrozzoni offrono all'elettore una maggiore libertà di scelta dei partiti separati? Direi proprio di no. Infine, oggi il problema più scottante è quello della «casta». A dir poco, almeno metà degli italiani è indignata e se ne vorrebbe liberare. Ma come? Non sanno come fare. E hanno ragione. Le caste (sia di destra che di sinistra) sono trincerate ovunque, e non saranno le proteste né l'astensionismo a sloggiarle. Il tanto inneggiato popolo sovrano non è mai stato incastrato, per non dire castrato, peggio di così. Dicevo all'inizio che oramai i politici disinteressati si contano sulle dita. Non se ne deve ricavare che anche se coltivano tutti il proprio interesse siano tutti egualmente dannosi per l'interesse generale. A Berlusconi conviene (per sé) saltare la riforma elettorale? Sì. A Veltroni conviene (per sé) avere la riforma elettorale? Sì. La differenza è che mentre l'utile del Cavaliere confligge con l'interesse del Paese, l'utile di Veltroni è anche nell'interesse del Paese. Su una scala da 0 (cinismo puro) a 10 (altruismo massimo), in questa partita piazzerei Berlusconi a zero e Veltroni a 5. Quanto al dibattito su elezioni subito o no, è un dibattito del tutto pretestuoso. Nemmeno è vero che non ci sia tempo, o che perdere tempo sia «delittuoso» (Fini). In Senato giace quasi pronta una buona proposta di riforma (la bozza Bianco) sulla quale un accordo trasversale potrebbe essere stipulato in pochissimi giorni. Se Berlusconi dicesse di sì, sarebbe cosa fatta. Ma Berlusconi dice di no, perché a lui, dicevo, l'interesse del Paese non importa un fico secco. Si avverta: una piccola generosità non lo danneggerebbe di molto e gli farebbe fare, in compenso, una bella figura. Ma il Cavaliere non è fatto così. Oramai gravemente afflitto dal «mal di potere», lo rivuole subito. Anche un solo giorno di potere mancato lo fa soffrire. 01 febbraio 2008 da corriere.it Titolo: Sartori: «Bisogna assolutamente andare avanti sulla strada già intrapresa» Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2008, 12:23:48 am IL Parere del politologo sulla tramvia a Firenze
«Serve, l'inquinamento fa più male» Sartori: «Bisogna assolutamente andare avanti sulla strada già intrapresa» FIRENZE - Il politologo Giovanni Sartori parte da una percentuale: «Quella delle gente che si interessa alla politica: il 10-15 per cento. Così in tutto il mondo. Con l'eccezione dei dibattiti sulle questioni locali. Ma non a Firenze, pare. E questo fa nascere un dubbio: che la protesta della piazza, qui come altrove, sia una battaglia di pochi». Professore, l'affluenza al referendum. «Molto bassa. Due i possibili perché. Primo: la gente è stufa dei referendum. Secondo: questa chiamata alle urne in particolare non l'ha appassionata. Certo, su un problema concreto e vicino alla città come questo mi aspettavo un'affluenza maggiore». A questo punto, che fare? «Con un'affluenza come questa credo che il referendum non debba essere tenuto in considerazione. L'amministrazione comunale deve esercitare il suo diritto: portare avanti le decisioni prese, magari migliorandole in corsa. Ma bisogna assolutamente andare avanti sulla strada già intrapresa». Una strada che lei condivide? «Mi rimetto ai tecnici, convinto che abbiano preso in considerazione anche il più piccolo rischio. Personalmente sono favorevole al tram e al tram in centro. Quando da ragazzo vivevo a Firenze c'era. Passava attorno al Duomo, traballava tutto. Oggi i tram sono silenziosi, senza vibrazioni. L'inquinamento fa più male». E a chi continua a ribadire il suo «no»? «Max Weber diceva: "Lo Stato è l'esercizio legale della forza". Oggi, ovunque e a tutti i livelli, questo esercizio della forza non c'è più e lo Stato, o chi per esso, ha il dovere di recuperarlo. Diversamente sarà la paralisi». Quale paralisi? «Non bisogna generalizzare, ma dalla Tav agli inceneritori, ovunque è un pullulare di comitati del "no" che fanno massa, ricatti (fanno pagare caro il loro sì, quando lo danno) e paralizzano il Paese. Una situazione dannosa e intollerabile che va fermata». Lo strumento del referendum può aiutare? «Se il referendum può servire a sbloccare, ben venga. Se può aiutare a smascherare le battaglie di pochi fatte passare per il pensiero dei più, pure. Ma attenzione: se anche il referendum viene utilizzato come strumento per fermare tutto, meglio non farlo». Alessandra Mangiarotti 18 febbraio 2008 da corriere.it Titolo: Giovanni Sartori. Democrazia al verde Inserito da: Admin - Marzo 17, 2008, 02:42:39 pm IL SOMMERSO DEI PROGRAMMI
Democrazia al verde di Giovanni Sartori Torno ai programmi elettorali. Scrivevo che oramai si riducono a essere strumenti acchiappa- voti. Servono per vincere. Il che non implica che servano per ben governare. Può darsi; ma può anche darsi che costringano a governare malissimo. In parte perché promettono quel che non dovrebbero, e in parte perché occultano i veri problemi, i problemi che sono davvero da affrontare. Questi problemi, scrivevo, costituiscono la parte sommersa delle campagne elettorali. Vediamo di farla emergere. Una prima partita sulla quale troppo si sorvola è quella del nostro debito pubblico. Sì, sappiamo che c'è; ma poi si svicola. Eppure batte ogni record: oscilla intorno al 105% del Pil (prodotto interno lordo), e cioè della ricchezza prodotta dal Paese in un anno; il che comporta un carico di interessi di 70 miliardi di euro. Ora, anche un bambino (ma non i sindacati e nemmeno la sinistra-sinistra) arriva a capire che trovarsi ogni anno con 70 miliardi bloccati è un’intollerabile palla al piede. Questo debito era superato, in passato, dal Belgio, che però è riuscito a dimezzarlo. A noi non riesce. Perché? E' un segreto di Pulcinella, debitamente oscurato da tutti. Una seconda partita dolente, anzi dolentissima, è quella della mafia (nella quale ricomprendo camorra e 'ndrangheta). Vedi caso, nessun programma si impegna in una «guerra alla mafia». Eppure la mafia è la più grossa azienda del Paese, con un fatturato nell'ordine di 90 miliardi all'anno, tutti esentasse, tutti in nero. Ma né Tremonti né Visco né nessuno hanno mai davvero cercato soldi nel colossale patrimonio mafioso. Perché? E' un altro segreto di Pulcinella. E' che il voto malavitoso condiziona e inquina la politica e le elezioni di metà del Paese. Nel 2001 Berlusconi vinse in Sicilia 61 collegi su 61. E’ comune opinione che quel trionfo fu dovuto anche ai voti controllati dalla mafia. E ora il Cavaliere ritenta il colpo rilanciando il ponte di Messina, che sarebbe inevitabilmente una colossale pacchia per l'onorata società. Come insegna l'autostrada Salerno- Reggio Calabria, fatturata metro per metro dalle cosche. Aggiungo che questo lassismo, e ancor più la collusione tra politica e mafia, sono particolarmente vergognosi perché impiombano l'economia del Sud e di riflesso tutta l'economia italiana. Il Sud non riesce a decollare, economicamente, anche perché strangolato dal «pizzo» e da un gigantesco parassita che oramai è arrivato al Lazio. Come scrive Giorgio Bocca, la malavita sta «sconfiggendo lo Stato in metà dello Stato». Eppure i partiti (paghi di qualche fortunato arresto) non fiatano e anzi candidano personaggi in altissimo odore di sospetto. Una terza grossa partita è quella delle infrastrutture. Sono tante. Qui ho in mente strade e ferrovie, che sono infrastrutture disattese da decenni. Giuseppe Turani stima che la rete ferroviaria da rifare costerebbe 30-40 miliardi, e che «per diventare (in materia di viabilità) un Paese moderno in media con gli altri Paesi europei dovremmo spendere nell'arco di una ventina d'anni almeno un altro Pil al completo». Basta e avanza così? Purtroppo no. Perché tra le partite ad alto costo c'è anche la partita ecologica e dell'incombente disastro climatico. In materia i nostri Verdi fanno ridere o fanno danno. Per loro il problema principale è di bloccare strade, ferrovie e fabbricati «brutti», nonché il grosso degli impianti per l'energia elettrica e la rigassificazione del metano. Il brutto non piace nemmeno a me. Ma è irresponsabile raccontarci che il fabbisogno energetico (in vertiginosa crescita) sarà fronteggiato dal sole e dal vento. Nel contempo si limitano a piangere, soltanto l'estate, quando i nostri boschi bruciano; e il ministro Pecoraro Scanio si è distinto nel bloccare a Napoli i termovalorizzatori perché il suo collegio elettorale è, appunto, Napoli. Abbiamo sottoscritto gli accordi di Kyoto, dopodiché le nostre emissioni di gas serra (il vero problema) hanno superato del 13% il limite che abbiamo accettato. La verità è che sia Berlusconi che Prodi del riscaldamento della Terra si sono strafregati, e nemmeno Veltroni si stravolge più di tanto. Quanti Pil verrà a costare, quando i nodi verranno al pettine (sarà presto), questa cecità? Nessuno lo sa né lo vuol sapere. Infine c'è il costo del federalismo promesso a Bossi da Berlusconi. Nei programmi è un costo non contemplato, come se spezzettare il Paese in parecchie Sicilie aggiuntive non comportasse un esiziale aggravio di sprechi clientelari e di ogni sorta di disfunzioni. Pertanto quando si osserva che i programmi del Pd e del Pdl si equivalgono, si dimentica che se Berlusconi vincerà dovrà pagare a Bossi il salatissimo prezzo del suo sostegno. Ripeto, nessuno lo nota ma su questa partita Berlusconi, e soltanto lui, ci costerà molto caro. Cerchiamo di fare il punto a oggi. Siamo una democrazia troppo indebitata? Sicuramente sì. Siamo anche una «democrazia in deficit», per dire che le uscite superano regolarmente le entrate? Per ora è ancora così; e dubito sulla redenzione prevista per il 2012. La cosa certa è, invece, che siamo una «democrazia al verde», senza un soldo in tasca, e che ha raschiato il fondo del barile (ci resta soltanto la risorsa, poco saggia, di continuare a vendere il patrimonio dello Stato). Si risponde che siamo pur sempre una «democrazia in crescita» in termini di Pil. Ma questa crescita è modestissima. Eppoi il Pil a questo effetto non è un buon indicatore. Il dato significativo è che oggi, secondo i dati Ocse, il potere di acquisto dei nostri lavoratori è del 18% circa inferiore a quello dei Paesi dell’euro. E siccome ci mancano i soldi per rimediare, il mio sospetto è che noi siamo una «democrazia in decrescita» e cioè caduta nel vortice di uno sviluppo non sostenibile che distribuisce più di quel che produce. 13 marzo 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. - Strane elezioni senza battaglia Inserito da: Admin - Aprile 02, 2008, 03:05:52 pm LA STRATEGIA DEL PD
Strane elezioni senza battaglia di Giovanni Sartori In vita mia di elezioni in giro per il mondo ne ho viste parecchie, se non altro per dovere professionale (le studiavo). Eppure la campagna elettorale in corso non cessa di stupirmi: è sicuramente la più strana che io abbia mai visto. Di regola, nelle democrazie «normali» le elezioni sono il momento del combattimento, della guerra senza esclusione di colpi. Ma subito dopo la guerra finisce. Abbastanza spesso chi ha perso «concede» e si rallegra con il vincitore. Dopodiché il leader sconfitto non passa a gestire in Parlamento una «opposizione- rivincita» ma un’opposizione senza barricate che non subordina il bene del Paese al bene della sua parte. In Italia abbiamo invece capovolto tutte queste regole. Dalla seconda metà degli anni 90 il rapporto tra governo e opposizione è sempre stato di guerra continua; dopodiché a Prodi subentra un Veltroni che combatte un’elezione quasi senza combatterla: nomina il meno possibile il suo principale avversario, non risponde o risponde debolmente (senza contrattaccare) ai suoi attacchi. Diciamo che questa è una strategia irenica (in greco irene è pace). È una strategia vincente? Per chi si trova a dover risalire una china di circa 7 punti percentuali di svantaggio direi proprio di no. Non so chi abbia suggerito a Veltroni la strategia soft, morbida e in sottotono, che ha perseguito sinora. Forse è Veltroni stesso che l’ha ricavata dai sondaggi, e cioè dall’esistenza di un largo pubblico esasperato e stufo della litigiosità continua dei nostri politici. Questa esasperazione c’è; ma i dati bisogna saperli interpretare. Io, per esempio, li interpreto così: che mentre gli italiani sono stufi della rissosità quotidiana, in tempo di elezioni hanno pur sempre bisogno di un combattimento, di botte e risposte, atte a chiarire le idee. Invece Veltroni batte le piazze illustrando il suo programma. Uno sforzo generoso ma poco redditizio. Per rendersene conto occorre identificare i criteri del voto. Che può essere: 1) retrospettivo, punisce o premia il già fatto; 2) proiettivo o novitista, il votante spera e crede in un candidato; 3) identificato, il voto fisso di chi sposa una fede o bandiera a vita. Va da sé che il terzo tipo di voto ci interessa poco; così come va da sé che il voto retrospettivo e proiettivo si mescolano anche se in proporzioni diverse. Ed ecco un’ulteriore stranezza. Veltroni gioca tutte le sue carte sul voto proiettivo, sulla novità. Così scarta il voto punitivo, il consuntivo sul passato. Certo, risvegliare la memoria può essere pericoloso anche per la sinistra. I1 breve governo Prodi non lascia un buon ricordo, e la sinistra al governo è stata troppo di sinistra. Al che Veltroni può rispondere che i l malgoverno e non-governo di Berlusconi per 5 anni di fila è stato molto peggiore, e che lui della sinistra «troppo sinistra » si è liberato. Resta, però, che il voto «in avanti » si impernia sulla credibilità e sull’affidabilità dei candidati. E come si accerta questa credibilità? Ovviamente sulla base delle promesse che in passato hanno mantenuto o tradito. La stranezza è, allora, che Veltroni punta su una fiducia-sfiducia sulla quale si imbavaglia. Regalando così al Cavaliere una verginità che non merita. Temo che ormai sia tardi per rimediare. Ma forse non è tardi per dare più grinta e mordente a una campagna elettorale troppo flaccida. 02 aprile 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Voto di sfiducia costruttivo Inserito da: Admin - Aprile 10, 2008, 04:02:24 pm Editoriali L’ELETTORE E LA SCHEDA
Voto di sfiducia costruttivo di Giovanni Sartori Mai come questa volta molta gente è incline a non votare. Anche perché mai come questa volta la gente non sa per chi votare. Mi astengo? Mi turo il naso? Pensa e ripensa mi è venuta una pensata. Lasciamo da parte il nocciolo duro dei partiti, i fedeli che votano e voteranno sempre per il loro. Il fatto è che gli «infedeli » sono aumentati, e che in questa elezione il numero dei cosiddetti indecisi arriva ad essere stimato addirittura un terzo dell'elettorato. Si sa anche che un buon numero di questi indecisi ha deciso di non votare: sono infuriati e ce l'hanno con tutti. Questi signori hanno ragione di essere infuriati. Ma astenersi a cosa serve? Punisce davvero la Casta? Rimedia davvero qualcosa? Temo di no. Se verrà fuori, a elezioni avvenute, che i votanti sono diminuiti di parecchio, è sicuro che i nostri politici non riconosceranno che le astensioni in più sono punitive, sono astensioni di rigetto (e non di disinteresse). Diranno, semmai, che ci stiamo «normalizzando» ai bassi livelli di voto di molte democrazie. Tutt'al più verseranno lacrime di coccodrillo sul fenomeno del crescente distacco dalla politica. Qual è allora la pensata? È che sapendo usare il voto disgiunto tra le due Camere ne possiamo ricavare un voto-rifiuto, un voto che puramente e semplicemente dice no. Mettiamo che al Senato io voti Veltroni e invece per la Camera io voti Berlusconi (o viceversa). In tal caso il mio secondo voto pareggia e cancella il primo. L'effetto sull'esito elettorale è zero. Però io ho votato, e quel mio voto esprime senza ombra di dubbio il secco rifiuto del Palazzo e della Casta. Si dice che come elettori siamo impotenti. Sì. Ma se, mettiamo, 10 milioni di italiani votassero così, allora saremmo potentissimi. Aggiungo che il voto disgiunto può anche indicare, volendo, il male minore (o maggiore). Il sistema elettorale, il Porcellum, prevede un lauto premio di maggioranza che per il Senato non è attribuito su base nazionale ma spezzettato regione per regione. Il che lo rende il più incerto e il più decisivo. Nel caso della Camera il premio lo vince chi ha più voti in tutto il Paese; nel caso del Senato lo vince chi conquista più seggi nelle regioni che ne hanno di più. Mettiamo, per esempio, che il nostro elettore voti Veltroni al Senato e Berlusconi alla Camera. Così facendo indica che, male per male, il «malissimo» è per lui un governo di destra. Viceversa se vota Berlusconi al Senato e Veltroni alla Camera, indica che per lui il maggior male è un governo di sinistra. Dunque, nel disgiungere il voto l'effetto complessivo è sempre zero; ma chi ottiene il voto per il Senato è avvantaggiato. In ogni caso uno vota contro ma la strategia sinora disegnata consente di scegliere il male minore. S'intende che il voto disgiunto può essere applicato anche ai «secondi partiti». Per esempio, uno a Veltroni e uno a Bertinotti; oppure uno a Casini e uno a Berlusconi. In tal caso il voto ai minori sarà sprecato ai fini del premio di maggioranza, ma utile per la loro sopravvivenza, per superare lo sbarramento (che per il Senato è dell'8%). Allora, io come voterò? Certo, adottando i criteri che ho suggerito. Ma certo non dirò per chi. Ognuno deve decidere per sé. 10 aprile 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Le elezioni dirompenti Inserito da: Admin - Aprile 24, 2008, 09:04:01 am RIFLESSIONI SUL VOTO
Le elezioni dirompenti di Giovanni Sartori Le elezioni del 13 e 14 aprile sono da interpretare come una svolta speciale? Sì e no; ma direi più sì che no. Enzo Bettiza sulla Stampa minimizza: «La Seconda Repubblica non è morta per il semplice fatto che non era mai esistita. È morta invece definitivamente la Prima, di cui la Seconda non era che un'ombra storta e contorta». Neanche io, come Bettiza, ho una alta opinione del periodo 1994-2008; ma quel periodo è pur sempre contrassegnato da una sua peculiare identità. Intanto ha avuto un illustre defunto: il potere democristiano. E poi una svolta c'è stata. Non tanto in chiave di distribuzione bipolare del voto (che c'era anche tra Pci e Dc) ma in chiave di alternanza bipolare dei governi. Una svolta danneggiata, purtroppo, dalla frammentazione- frantumazione del sistema partitico. Questa volta abbiamo invece una felice controsvolta: da decine di partiti e partitini (tanti da essere difficili da contare) siamo scesi a 4-6. Inoltre c'è un fatto nuovo: la Lega che sembra diventata definitiva al Nord e che sfonda anche in direzione Sud. Il che complica di parecchio la competizione partitica, che oramai si dispiega lungo due assi: destra- sinistra, ma anche Nord-Sud, e cioè centro- periferia. Comincio da alcune riflessioni sulla Lega. Passo poi alla scomparsa della sinistra alternativa. Per concludere sulle prospettive della sinistra riformista. La Lega. A naso direi che nel suo successo convergono tre fattori: 1) l'elemento centrifugo (via da Roma ladrona); 2) l'elemento della protesta antipolitica (in alternativa all'astensione, voto un partito estraneo al sistema); 3) il federalismo fiscale (a sé stante rispetto al federalismo istituzionale). Direi anche, sempre a naso, che l'elemento che sfonda al Sud è il terzo: alle regioni ricche piace l'idea che ognuno abbia diritto di tenere per sé i soldi che fa (una contabilità difficile da attuare ma appetitosa come slogan). Il che prelude a uno scontro con la lega siciliana in pectore di Raffaele Lombardo, il Mpa. Al momento lo scontro è rinviato: Lombardo non chiede allo Stato le risorse che Bossi vuole tenere al Nord, ma già chiede di trattenere le accise sulla benzina raffinata in Sicilia (uno scippo di un miliardo di euro). La sinistra alternativa. La sua scomparsa in Parlamento fa versare a tutti copiose lacrime di coccodrillo, e cioè lacrime ipocrite. Ipocrite perché chi chiede la governabilità non può volere i partitini che la impediscono. Né la scomparsa dei «nanetti» in generale viola le istanze della rappresentanza. Questo argomento confonde la rappresentatività come somiglianza con la rappresentanza come tecnica costituzionale di trasmissione del potere. Per esempio, dire che io sono rappresentativo dei cretini non vuol dire che io sia rappresentante dei cretini. D'altronde il mondo delle democrazie è pieno di minoranze che non sono rappresentate. Il caso più clamoroso è quello degli Stati Uniti, che non hanno mai avuto un partito socialista senza che la sinistra si ritenga non rappresentata per questo. La sinistra riformista. La sconfitta è stata secca. All'inizio della campagna elettorale quasi tutti i sondaggi stimavano il Pd sotto di circa 7 punti: più o meno la stessa distanza che nel 2006 separava Berlusconi da Prodi. Ma allora Berlusconi risalì la china, mentre Veltroni è restato al palo e semmai ha perso 2 punti percentuali. Perché? Eredità negativa di Prodi a parte, a mio avviso anche Veltroni è colpevole di avere sbagliato la sua campagna elettorale. Veltroni ha combattuto un'elezione senza combatterla; si è disperso in 104 province invece di concentrarsi sulle regioni in bilico e sul connesso premio di maggioranza; e ha puntato troppo sul programma mentre il Cavaliere puntava soltanto su poche ma efficaci parole d'ordine. Un'idea: quando sarà (tra 12 anni?) in ozio, la sinistra dovrebbe reclutare Berlusconi come consigliere elettorale. Con lui vincerebbe. Il discorso serio è che non credo — come si sente dire in giro — che la sinistra di governo sia sempre destinata a perdere. In Gran Bretagna, Germania, Spagna e in tutte le piccole democrazie nordiche, la socialdemocrazia governa e torna regolarmente a governare. Perché in Italia no? Secondo me è perché su di noi pesa ancora l'eredità di un Pci che è stato il primo della classe del comunismo internazionale. Ne consegue che Veltroni si trova ancora in mezzo al guado, e cioè gravato da un bagaglio ideologico che le altre socialdemocrazie hanno da tempo ricusato. Per esempio, si sapeva che moltissimi elettori chiedevano sicurezza e mano ferma sugli extracomunitari clandestini. Due richieste che di per sé non sarebbero né di destra né di sinistra, ma che i nostri catto-comunisti hanno trasformato in richieste «repressive» di destra. Così su questi punti il governo Prodi si è incartato, e anche Veltroni non li ha messi in sufficiente evidenza. Non raccomando, s'intende, una sinistra puramente opportunista e «acchiappatutto ». Ma in democrazia l'elettorato ha diritto di farsi valere. Se no ti fa perdere. 24 aprile 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. La coperta è più corta Inserito da: Admin - Maggio 07, 2008, 01:07:01 am FAME E DEMOGRAFIA
La coperta è più corta di Giovanni Sartori D’un tratto abbiamo scoperto che nel mondo c'è molta gente che muore di fame. Eppure si sapeva da tempo. Sei anni fa contestavo i dati Fao (Food and Agricultural 0rganization delle Nazioni Unite) la cui previsione era che nel 2030 il numero delle persone che soffrono la fame sarebbe stato dimezzato e scrivevo così: «La semplice verità è che la fame sta vincendo perché ci rifiutiamo di ammettere che la soluzione non è di aumentare il cibo ma di diminuire le nascite, e cioè le bocche da sfamare. La Fao, la Chiesa e altri ancora si ostinano a credere che 6-8 miliardi di persone consentano uno sviluppo ancora sostenibile. No. Più mangianti si traducono oggi in più affamati. I 30 mila bambini che muoiono di fame ogni giorno li ha sulla coscienza chi li fa nascere» (Corriere del 9 giugno 2002). Da allora provo ogni tanto a ricordare che alla origine di tutti i nostri mali, ivi incluso il disastro ecologico, sta l'esplosione demografica. Agli inizi del secolo scorso eravamo 1.500 milioni; oggi siamo 6.500 milioni (tuttora in crescita di 60 milioni l'anno). Ma è un predicare al vento. Sul punto si è creato un blocco mentale. L'argomento è tabù, è religiosamente scorrettissimo e proprio non se ne deve parlare. E così continuiamo a essere impegnati in una rincorsa inevitabilmente perdente, insensata e anche suicida. Tornando agli affamati, sei anni fa erano stimati in 800 milioni; oggi si può prevedere che arriveranno a 2 miliardi e passa. Sono stime che sottintendono una vera e propria «strage » in corso, che non ha fatto notizia finché avveniva in ordine sparso. E’ quando una carestia arriva nelle città che diventa visibile e minacciosa. Ed è nelle città del mondo in via di sviluppo (come si diceva) che oggi manca il grano, manca il riso, manca il mais. Perché? Di colpo si scopre che la colpa è dei biocarburanti che sottraggono terreno agricolo alle coltivazioni alimentari. In verità il Brasile va quasi tutto a biocarburanti e in trent'anni nessun premio Nobel (in economia sono tantissimi) ha avvertito il pericolo. Ma ora che l'America si è messa a incentivare l'etanolo, ecco il colpevole: la politica energetica di Washington e la speculazione che si concentra a Chicago. Sulla speculazione (che c'è) mi limito a osservare che presuppone che un bene diventi raro. Sull'acqua di mare non ci sarà mai speculazione. Quindi la speculazione non è all'origine del problema. Il problema è che le risorse petrolifere sono in diminuzione e soprattutto sempre più a rischio. Se l'America restasse a secco sarebbe una catastrofe (anche per tutto l'Occidente) rispetto alla quale la crisi del 1929 sarebbe una inezia. La situazione è, allora, che per 6-7 miliardi di persone la coperta è corta. Per rimediare, tutti cercano di tirarla a sé. E così per turare una falla ne apriamo un'altra. Quando la coperta è sempre più corta, l'unica soluzione è di ridurre il numero di chi ne deve essere coperto e protetto. In attesa ogni egoismo è sacro, e cioè il diritto di sopravvivere è eguale per tutti. Pertanto trovo insensato e irresponsabile dichiarare che alienare i terreni dalla produzione agricola «è un crimine contro l'umanità» (così le Nazioni Unite per bocca di Jean Ziegler, riecheggiato con mia sorpresa anche da Tremonti). Per un problema terribilmente serio, occorre essere seri. 06 maggio 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. La coperta troppo corta Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 04:37:26 pm La coperta troppo corta
di Giovanni Sartori La grande carnevalata della Fao si è chiusa il 6 giugno (dopo avere intasato Roma per tre giorni) con la risibile e irresponsabile promessa di vincere la fame nel mondo entro il 2050. Speriamo che prima venga chiusa la Fao. Perché i discorsi seri si fanno altrove: tra poco, il 16 e 17 giugno, al convegno indetto dalla fondazione Aurelio Peccei per celebrare il 40˚anniversario del Club di Roma. Siccome risulta che moltissimi italiani non sanno nemmeno che cosa festeggiano il 2 Giugno, ricorderò che Peccei fu il primo «profeta » della impossibilità di una crescita illimitata del pianeta Terra, così come due secoli fa il bravo abate Malthus fu il primo a intravedere la «bomba demografica ». Oggi Malthus viene molto irriso da chi non lo ha letto. Eppure in principio aveva ragione. Calcolò che mentre la popolazione poteva crescere in progressione geometrica (1, 2, 4, 8), la produzione agricola può solo crescere in progressione aritmetica (1, 2, 3, 4). Ma Malthus non riteneva che questa crescita geometrica della popolazione sarebbe mai avvenuta: lo impediva, appunto, la fame. D'altra parte il suo Saggio sul principio di popolazione usciva nel 1798, prima della rivoluzione industriale. Ed è l'agricoltura meccanizzata, che Malthus non poteva prevedere, che ha rinviato di due secoli la resa dei conti. Ma ora ci siamo. La preoccupazione di Peccei e del Club di Roma fu diversa: segnalava l'imminente venir meno delle risorse naturali, e segnatamente del petrolio. Si capisce, consumiamo troppo perché siamo in troppi. Ma nel 1972, quando uscì il primo rapporto, I limiti dello sviluppo, la popolazione mondiale era di 3 miliardi e 850 milioni. Vi rendete conto? In meno di quaranta anni si è quasi raddoppiata. Così oggi la preoccupazione primaria diventa quella del riscaldamento della Terra e dell'impazzimento del clima. Riscaldamento perché? Anche se è vero che la Terra ha sempre avuto cicli di glaciazione seguiti da riscaldamenti, una stragrande maggioranza di esperti ritiene che nessun ciclo astronomico possa spiegare la velocità, intensità e frequenza delle nostre variazioni climatiche; e dunque ritiene che il disastro ecologico che ci aspetta sia causato dall'uomo e dal sovraffollamento del nostro pianeta. Non occorre una intelligenza straordinaria per capire che tutti i suddetti fattori — popolazione, esaurimento delle materie prime (e dell'acqua), sconquasso del clima — afferiscono al problema della fame. Ma gli intelligentoni delle Nazioni Unite, della Fao, e anche dei media, preferiscono scoprire, invece, che la colpa è dei biocarburanti che tolgono terreno alla agricoltura alimentare. Ma se senza mangiare si muore, anche senza petrolio si muore. L'agricoltura è meccanizzata, e cioè va a nafta; e così i pescherecci e le navi che trasportano il cibo. Alla fin fine nel nostro mondo tutto richiede energia largamente generata dal petrolio. Scrivevo poco fa che oramai viviamo su una coperta troppo corta che se tirata da una parte lascia scoperta un'altra parte. Con questo giochino non si risolve nulla e si aggravano i problemi. 16 giugno 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Saper fare l'opposizione Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 04:44:42 pm Editoriali
IL DILEMMA DEI DEMOCRATICI Saper fare l'opposizione di Giovanni Sartori L’opposizione muro contro muro, sempre, ad ogni costo, del Prodi-pensiero sembrava relegata al passato. Purtroppo sembra riemergere. Per colpa di chi? Questa volta di Berlusconi. È lui che dopo un felice esordio rompe il tessuto del dialogo ricadendo nell’antico vizio di usare il potere a proprio vantaggio, di tutelare i suoi interessi privati in atti di ufficio. Berlusconi quando si occupa di se stesso è sempre risolutissimo, si appella sempre alla volontà popolare, e oggi al fatto di essere sostenuto da un consenso del 60 e passa per cento. Ma il consenso elettorale non è un consenso «specifico », ma un consenso all’ingrosso. E il punto è se l’elettorato berlusconiano si rende conto della gravità del caso. Provo a spiegarlo con esempi. Mettiamo che Tizio sia proprietario di una banca, e che come tale stabilisca di poter prelevare quanti soldi vuole. Va bene? No, non va bene. Poniamo che Caio sia capo della polizia, che uccida la moglie e che stabilisca che la polizia non può indagare su di lui. Va bene? Direi di no. Tornando a Berlusconi, lui è capo del governo e come tale vuole essere intoccabile. Ha ragione? Vediamo. L’immunità dei parlamentari è un istituto antico che si afferma, nelle monarchie assolute, per proteggerli dal sovrano. Giusto. Oggi, peraltro, i monarchi assoluti non esistono più. Così la protezione è diminuita: è fornita dalla autorizzazione a procedere. Che però al Cavaliere non serve, visto che il processo che lo preoccupa (il caso Mills) andrà a sentenza tra pochi mesi. Pertanto chiede, per salvare se stesso, un emendamento che rischia di mandare al macero fino a 100 mila procedimenti; e qui siamo davvero fuori proporzione. Non contento, il Nostro riesuma anche la ex Schifani per blindarsi senza fine. Questo secondo provvedimento prevede l’immunità nell’esercizio delle proprie funzioni per 19 casi, incluso ovviamente il suo. E tutti sanno che dopo Palazzo Chigi Berlusconi conta subito di salire per sette anni al Quirinale. Se non siamo ancora a una immunità a vita, siamo nei paraggi. In frangenti come questi, una opposizione «responsabile » (così, bene, Piero Ostellino) cosa può fare per rendersi efficace, il più efficace possibile? Deve presentare contro- progetti che obblighino la maggioranza a discuterli. Nel caso del primo emendamento il suggerimento ragionevole per alleggerire un carico di arretrati giudiziari che è davvero irragionevole, è di accantonare tutti i procedimenti inutili, inutili perché finirebbero in prescrizione. E nel secondo caso la controproposta ragionevole potrebbe essere di concedere l’immunità a tutti i parlamentari che la richiedono, a patto, però, di non essere rieleggibili alla scadenza del loro mandato fino alla sentenza definitiva del procedimento a loro carico. Perché nessuno può essere al di sopra della legge a vita. Lo sono, appunto, i dittatori. Solo loro, vorrei sperare. Leggo che il presidente Napolitano è irritato e molto perplesso. Ne ha ben donde. Il «pacchetto sicurezza » gli sta bene; ma deve inghiottire per questo anche il «pacchettino» salva- Berlusconi? Il suo predecessore, presidente Ciampi, non usò mai — per negare al governo l’autorizzazione a procedere —l’art. 87 della Costituzione; e così fu poi tutto un cedere. Napolitano ha davvero motivo di meditare a fondo. 21 giugno 2008 Titolo: GIOVANNI SARTORI. Gli onorevoli in soggezione Inserito da: Admin - Luglio 06, 2008, 09:34:12 pm IL PREMIER E LA MAGGIORANZA
Gli onorevoli in soggezione di Giovanni Sartori Nell'ultima campagna elettorale Veltroni ha combattuto un anonimo, un avversario senza nome e cognome. Ha malamente perso (anche per questo, ritengo). È vero che uno dei tantissimi difetti della politica italiana è la eccessiva personalizzazione del potere, il potere che addirittura coincide con una persona. Ma l'occasione per dimostrare che non deve essere così non è una contesa elettorale. Ciò premesso, il fatto resta che gli italiani oramai si dividono (asimmetricamente) tra berlusconiani e no. Da un lato c'è sempre e soltanto Berlusconi; dall'altro ci sono stati Prodi, D'Alema, Amato, Rutelli, Veltroni, tutti in transito e sempre in contesa tra loro. Dunque un polo coincide con una persona. Il che equivale a dire che non riusciamo più a separare i problemi come tali da una persona che li impersona. Questa eccessiva personalizzazione è, a mio avviso, dannosissima; e per contrastarla inventerò qui un nome finto: Silvio Arcore. Il premier Arcore in questo momento è furioso. Dopo aver vinto tre elezioni ancora non è riuscito a saldare i conti con la magistratura. È ancora imputato nel processo Mills che andrà a sentenza prima della prescrizione; e per di più teme altri scherzi che ne ostacolino, a suo tempo, il disegno di salire al Quirinale. E così vara con urgenza una legge «blocca processi» che ferma per un anno tutti i procedimenti che prevedono pene massime al di sotto dei dieci anni (nel caso Mills sarebbero sei); e per ogni evenienza interpola, nel «pacchetto sicurezza» al quale gli italiani tengono, una coda estranea (il lodo Alfano) che rende Arcore intoccabile fino all'aprile 2013, e probabilmente oltre. Ora, se davvero si trattasse del signor Arcore, quasi tutti direbbero che le due escogitazioni sono pessime, e che servono soltanto a lui. Invece il nostro Silvio sostiene che sono necessarie e nell'interesse di tutti. Ammettiamo che siano necessarie. Anche così si potrebbe sicuramente far meglio. Una legge che diminuisce il carico degli arretrati giudiziari ci vuole. Ma dovrebbe cancellare i processi inutili, tali perché destinati a finire nel macero delle prescrizioni. Ma no. No perché, così riformulata, la legge non salverebbe il premier Arcore. Anche se una sua eventuale condanna in una sentenza di primo grado gli lascia dieci anni e passa di ricorsi e di appelli, il Nostro antepone il suo interesse e prestigio privati a quello di far funzionare la macchina della giustizia. E considerazioni analoghe (la mia è sul Corriere del 21 giugno) si possono fare sull'immunità. Eppure la maggioranza parlamentare di Arcore fa quadrato (superbulgaro, senza nemmeno un dissenso) nel sostenere che le due proposte in questione sono nell'interesse generale, nell'interesse di tutti. È vero: anche Arcore ne beneficia, ma soltanto perché lui è uno dei tutti. Le cose che mi spaventano sono oramai parecchie; ma il livello di soggezione e di degrado intellettuale manifestato in questa occasione da una maggioranza dei nostri «onorevoli» (sic) mi spaventa più di tutto. Altro che bipartitismo compiuto! Qui siamo al sultanato, alla peggiore delle corti. Cavour diceva: meglio una Camera che un'anticamera. Ma quando un'anticamera si sovrappone alla Camera, non so più cosa sia peggio. 05 luglio 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Governare senza sondaggi Inserito da: Admin - Luglio 29, 2008, 06:26:44 pm GLI ERRORI DA EVITARE
Governare senza sondaggi di Giovanni Sartori Tra poco anche la politica andrà in vacanza. Sarà, per Silvio Berlusconi, la prima vacanza tranquilla. Perché ha finalmente sistemato tutti i suoi interessi privati (da quelli del suo impero mediatico a quelli delle sue residue pendenze giudiziarie). Finalmente il Nostro è un uomo libero, libero di mostrare la sua bravura come uomo di governo, la sua statura di statista. Finora Berlusconi si è molto regolato, nel suo passato governare, sui sondaggi di opinione. Così fanno un po' tutti; ma nessuno quanto lui. Ecco allora la domanda: un governo molto (moltissimo) guidato dai sondaggi può essere un buon governo? Dipende da come i sondaggi vengono letti. Il più delle volte, male. E il punto è che il territorio coperto dai sondaggi è molto più piccolo del territorio, dell'ambito, che i governi debbono coprire. Che lo vogliano o no. I sondaggi rilevano — tra le tante cose—i pareri e le priorità dell'«uomo comune» difeso e elogiato negli anni Quaranta da Karl Friedrich (un importante costituzionalista di allora). Il che già indica quale ne sia la gittata. Ma vediamo meglio distinguendo fra tre contesti. In primo luogo il contesto dei tutti. In questo contesto i sondaggi mettono in evidenza l'esperienza quotidiana, e quindi più frequente, dell'uomo comune: la spesa per mangiare, il costo della vita, il peso delle tasse e simili. Queste priorità sono ovvie; ma i sondaggi le misurano, e per ciò stesso ne precisano l'importanza, il «peso». In secondo luogo ci sono le cose che fanno infuriare soltanto porzioni (più o meno estese) della popolazione: la lentezza della burocrazia, la paralisi della giustizia, lo sfascio della scuola e della sanità, l'insufficienza delle infrastrutture e simili. Ma siccome non si dà mai il caso che tutti abbiano cause in corso (anche se gli italiani che aspettano giustizia sono più di 7 milioni), che non tutti sono simultaneamente a scuola, che non tutti sono malati, ecco che i valori percentuali di questi casi scendono. Ma sarebbe una cattiva lettura dei dati ricavarne che per gli italiani quei problemi siano poco rilevanti. La differenza rilevata dai sondaggi riguarda solo la frequenza con la quale ciascuno di noi «batte la testa», in concreto, in queste disfunzioni. In terzo luogo ci sono i problemi che per il grosso pubblico sono «astratti », e che non capisce finché la tegola non gli cade sulla testa. L'uomo comune non afferra che le disfunzioni di cui sopra dipendono da una macchina istituzionale che a sua volta non funziona. E afferra ancor meno i problemi in arrivo, i problemi del futuro (anche se prossimo). L'acqua, la benzina, l'elettricità e anche i prodotti alimentari stanno già diventando insufficienti; ma acqua, benzina, energia gli mancano soltanto quando di fatto mancano; non prima e purtroppo non a tempo. Dal che consegue che i sondaggi sottostimano alla grande il problema ecologico che è, invece, il più grave di tutti. E' proprio per questo che un governante che asseconda e ascolta soltanto i sondaggi è un pessimo governante. Il non-fare perché «tanto agli italiani non interessa» è un non-fare vergognosamente irresponsabile. Ci sono tantissime cose che un buon governo deve fare (per essere buono) a prescindere dai sondaggi. 29 luglio 2008 da lastampa.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Vita artificiale e libertà di scelta Inserito da: Admin - Agosto 02, 2008, 03:26:32 pm IL DIBATTITO SU ELUANA
Vita artificiale e libertà di scelta di Giovanni Sartori Tutto è cominciato con l'Enciclica del 1968 Humanae Vitae di Paolo VI. A 40 anni esatti di distanza, l'altro giorno il Corriere ha accolto nella sua pubblicità la «Lettera aperta al Papa» del movimento dei Catholics for Choice (il diritto di scegliere) sottoscritta da un centinaio di organizzazioni cattoliche di tutto il mondo. L'esordio della Lettera è duro: «Le gerarchie cattoliche hanno fondato sulla Humanae Vitae la politica di opposizione alla contraccezione». Politica, continua la Lettera, «che ha avuto effetti catastrofici sui poveri, ha messo in pericolo la vita delle donne ed esposto milioni di persone al rischio di contrarre l'Hiv». Ma il testo si ferma su questo problema ignorando il crescendo successivo. Con Wojtyla e Ratzinger la contraccezione e l'aborto vengono condannate allo stesso titolo. Ma perché? Con quale logica? La contraccezione— lo dice la parola— impedisce la concezione. E prevenire una gravidanza non è «uccidere», non è interrompere una gravidanza (aborto). Vorrei che qualcuno mi dimostrasse il contrario. Un altro passo in avanti consiste nell'asserire che l'embrione è già vita umana. Per dimostrarlo la Chiesa dovrebbe distinguere tra «vita» e «vita umana», e provare che le caratteristiche della seconda sono già presenti nell'embrione. In passato, e con San Tommaso, la vita dell'uomo era contraddistinta dalla presenza dell'«anima razionale». Ma quest'ultima, per Tommaso, arrivava «tardi», in vicinanza della nascita e non certo dell'embrione. Teologicamente parlando l'ostacolo è grosso, e Wojtyla lo supera dimenticandosi dell'anima e citando la scienza. Così: «La scienza ha ormai dimostrato che l'embrione è un individuo umano che possiede fin dalla fecondazione la propria identità». Ma la scienza può soltanto attestare che l'embrione è programmato per diventare, dopo 9 mesi, un individuo umano ma non che lo è già sub specie di embrione. Anche se un uovo diventerà una gallina non è gallina finchè resta uovo; né io, mangiando un uovo, divento assassino di una gallina. Dunque, in teoria qualsiasi vita è intoccabile (anche quella dei pidocchi o delle zanzare), visto che la Chiesa spesso e volentieri confonde tra qualsiasi vita e vita specificamente umana. In pratica, però, la vita intoccabile è solo la vita dell'uomo. Ma ecco ancora un ulteriore salto in avanti. Finora la vita umana era intoccabile «in entrata» (aborto) e anche «in pre-entrata» (contraccettivi); ma «in uscita» le persone erano lasciate libere di morire. Beninteso, non di suicidarsi ma di morire «naturalmente». Ma siccome la scienza ha inventato la sopravvivenza artificiale, ecco che oggi la Chiesa nega il diritto di morire anche a chi, come essere umano, è già morto. L'ultimo caso è quello di Eluana Englaro, in coma profondo da addirittura 16 anni. A questo punto i genitori chiedono che venga staccata dal macchinario che la tiene in vita (in vita vegetale) e due tribunali (Cassazione e Corte d’appello) consentono. Apriti cielo! A distanza di pochi giorni il pg di Milano blocca. Il che implica che dovrebbe intervenire il Parlamento. Sì, il Parlamento si dovrebbe svegliare nel consentire il «testamento biologico» di ciascuno di noi quando siamo ancora sani di corpo e di mente. Anche il legislatore «papista» lo potrebbe benissimo fare in tutta coerenza, visto che Wojtyla si era rimesso alla scienza per stabilire quando comincia la vita. E la scienza stabilisce che una persona è morta quando il suo cervello è morto, quando l'elettroencefalogramma è piatto e non rileva più onde magnetiche cerebrali. Punto e finito lì. Per me. Ma non per la deputata azzurra Isabella Bertolini la cui mozione, sostenuta da 80 firme di neo-sanfedisti, chiede che il governo introduca «il divieto di qualunque atto che legittimi pratiche eutanasiche o di morte indotta». Non facciamo finta di non capire. Questo testo impedirebbe il «testamento biologico». Già consentito negli Usa, in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna, agli italiani non lo si vuole consentire. Poveri noi, e intanto povera Eluana. 02 agosto 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Verdi fasulli governo sordo Inserito da: Admin - Agosto 17, 2008, 01:44:22 am ECOLOGIA E POLITICA
Verdi fasulli governo sordo di Giovanni Sartori Verde è il colore emblematico della natura. Emperrocché chi si dichiara «verde» si dovrebbe occupare della natura. Ma i Verdi italiani sono anch’essi all’italiana. Sono una costola mal riuscita del ’68 e sono restati alla «piccola natura» di quaranta anni fa. Da allora la natura è diventata «grande» e ricomprende tutto l’ambiente nel quale viviamo e tutte le risorse che ci danno da vivere. La differenza tra la natura in piccolo e la natura in grande è tanta che per designare la seconda usiamo la parola ecologia (e la nozione di ecosistema). Ma i nostri Verdi all’ecologia non sono mai arrivati. Non sono nemmeno mai arrivati a combattere efficacemente gli incendi dolosi dei nostri boschi. Il governo Berlusconi ha soppresso il ministero della Sanità e salvato il ministero dell’Ambiente. Chissà perché. Ma certo non perché il gran capo dia importanza all’ecologia. Come si ricava dal fatto che all’Ambiente ha insediato la leggiadra onorevole Prestigiacomo, che sinora non ha battuto colpo e che ha fatto notizia solo perché il suo è l’unico dicastero che sfida Brunetta e non riduce l’assenteismo. Il timore è, allora, che anche dal governo in carica di ecologia sentiremo parlare poco e fare ancora meno. Eppure la domanda che oramai si pone in tutto l’Occidente è: come va la salute della Terra? Domanda alla quale quasi tutti (salvo i silenziosissimi italiani) rispondono: maluccio, e anzi ancor peggio del previsto. Finora nelle previsioni dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), una delle fonti più autorevoli sul cambiamento climatico, prevaleva, per così dire, l’ottimismo: da oggi al 2100 un aumento di temperatura di 2 gradi. Ma le ultime rilevazioni indicano un’accelerazione crescente nello scioglimento dei ghiacci del Polo Nord che lascia prevedere un riscaldamento, davvero catastrofico, che potrebbe arrivare a sei gradi. La gente fa spallucce. Pensano che se avremo più caldo i nostri figli e nipoti lo combatteranno con l’aria condizionata e sopravviveranno lo stesso. Sbagliato. Se nel 2100 fossimo 9 miliardi (come sembra che il Vaticano e chi raccomanda «più figli » si augurino), in tal caso mancherebbe l’energia per raffreddarsi. E poi il punto non è questo. E’ che per il pianeta Terra già quattro gradi in più farebbero crescere il livello dei mari di 5 metri (addio Venezia), creerebbero enormi zone desertificate nelle fasce che sono oggi di clima temperato (Italia inclusa), falcerebbero la vita animale e vegetale (e addio anche alla foresta Amazzonica). E’ esatto parlare di catastrofe? Per un’anima sensibile, sì. Eppure i nostri governanti — tutti — dormono della grossa. Se la cavano — irresponsabilmente— con il vile argomento che l’ecologia non interessa. Certo, anche l’acqua non interessa finché c’è; anche l’aria non interessa finché è respirabile; e anche le carestie non interessano finché non ci ammazzano. Rispetto agli accordi di Kyoto eravamo tenuti a ridurre le nostre emissioni di gas serra del 6,5%; invece le abbiamo aumentate del 13%. Che fare? Svegliarsi. Per una volta i cittadini siano migliori dei loro governi. 15 agosto 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. La scomparsa del buon senso Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2008, 09:11:33 am DALL'ALITALIA A PUTIN
La scomparsa del buon senso di Giovanni Sartori Quel «buon senso» che fa dire e fare «cose sensate» è oramai un caro estinto soppiantato dall'insensato, dall'insensatezza e dal «dementismo » (ahimè, una demenza giovanile assai più che senile). Chi ha ucciso il buon senso? E perché? Lo dirò man mano. Intanto illustriamo il problema con due casi esemplari di insensatezza: nel nostro piccolo, il lungamente perseguito e pressoché riuscito suicidio dell'Alitalia; e, nel più grande mondo circostante, il crescente, e anch'esso insensato, «rigelo » nei rapporti tra Washington e Mosca. Quella dell'Alitalia era una morte preannunziata — e anche più che meritata — da almeno un decennio. Né sarebbe stato un suicidio inedito. Negli Stati Uniti la Twa (Trans World Airlines) è stata uccisa proprio dal suo personale di volo; e fu anche fatta tranquillamente fallire, come si fa nei Paesi seri. In Europa, e più di recente, alcune rispettabili compagnie di bandiera, come la Swissair e la Sabena, sono come qualmente passate in altre mani. Anche la Svizzera avrebbe avuto come noi l'alibi del turismo; ma che io sappia nessuno l'ha invocato e i turisti, mi dicono, ci sono ancora. Allora, chi ha messo in testa ai nostri piloti e alle vociferose hostess che ancora l'altro giorno esultavano gridando «meglio falliti che in mano ai banditi » (leggi: Colaninno) che Alitalia era una vacca sacra, una voragine mangiasoldi che però nessuno avrebbe osato toccare? Forse nessuno. Forse tra le nostre aquile e aquilette «selvagge» non ci sono più teste in grado di usare la testa. Certo è che fino alla ventitreesima ora dell'ultimo giorno chi ha pensato (male) per tutti è stata la casta dei piloti, l'Anpac; ben assistita, si intende, dalla Cgil e altri protettori politici. E ancor più certo è che il buon senso avrebbe affrontato e risolto il caso Alitalia da gran tempo. Se, appunto, il buonsenso esistesse ancora. L'altro caso, dicevo, è quello del deterioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Russia. Era inevitabile? No. A mio avviso era evitabile e assolutamente da evitare. E la colpa di chi è? Per Salomone sarebbe stata per metà di Bush e per metà di Putin. Per il grosso degli occidentali è soprattutto di Putin. Per i meno, che mi includono, la colpa è invece soprattutto di Bush e dell'«ideologismo democratico» che oggi imperversa incorporato nell'altrettanto imperversante contesto del politicamente corretto. Sia chiaro: la teoria della democrazia liberale non è, in quanto tale, un'ideologia, visto che è una teoria che ha funzionato in pratica, che si è realizzata nel mondo reale, mentre le ideologie sono (come le utopie che le hanno precedute) teorie senza pratica che clamorosamente falliscono nell'attuazione (vedi per tutti l'Urss), e che sopravvivono come fedi, come un pensiero che nessuno ripensa più, come un ex pensiero fossilizzato. Dunque la teoria della democrazia è una cosa, e l'ideologismo democratico che è esploso nel '68 e che ne proviene, è tutt'altra cosa. La prima ha fatto le democrazie, la seconda semmai le disfa. Ciò premesso, oggi l'urgenza è di stabilire e ristabilire senza paraocchi ideologici la realtà dei fatti, la realtà della «forza delle cose». E il fatto è che il mondo nel quale stiamo vivendo è il mondo più pericoloso nel quale l'uomo sia mai vissuto. In parte perché stanno proliferando armi di distruzione di massa che ci potrebbero sterminare tutti; e in parte perché la dissennata crescita della popolazione (che il buon senso anche a questo effetto avrebbe dovuto impedire) ha innescato una sequela di altre crisi: dell'acqua che manca, del clima, delle risorse energetiche. E quest'ultima è la crisi più esplosiva del momento, visto che sta ridisegnando la mappa del potere mondiale tra chi dispone di petrolio e di gas e chi no. Gli Stati Uniti di petrolio ne hanno poco, l'Europa quasi punto. Invece la Russia ne ha. Ne hanno anche, si sa, il Venezuela, la Nigeria, l'Iran e alcuni Stati arabi del Medio Oriente; ma sono tutti Stati o traballanti o ostili e infidi. Il buon senso suggerisce, allora, che la Russia di Putin è, per l'Occidente, un alleato indispensabile. Se Putin venisse indispettito oltre misura, potrebbe chiudere i suoi rubinetti e l'Europa sarebbe in ginocchio in due mesi, gli Stati Uniti in gravi difficoltà entro sei. Eppure il presidente Bush sta facendo di tutto per indispettirlo. È lui che per primo ha violato le intese indebitamente consentendo l'indipendenza del Kosovo; è lui che si propone di avvicinare i suoi missili intercettori ai confini della Russia, è lui che vuole incorporare nella Nato i Paesi dell'Europa orientale, è infine lui che sotto sotto ha incoraggiato la Georgia a sfidare Putin. Insomma Bush si comporta come se lui fosse il gatto e Putin il topo. L'acume di Bush mi è sempre sfuggito. Ma quando ho conosciuto Condoleezza Rice in panni accademici, lei era davvero intelligente (a detta di tutti). Pertanto quando una decina di giorni fa ha dichiarato che la crisi del Caucaso lascia la Russia «isolata e irrilevante» sono restato di stucco. Possibile che il potere logori anche l'intelligenza delle donne? Davvero gli Stati Uniti credono di poter condizionare Putin con rappresaglie finanziarie e bloccandone l'ingresso nell'Ocse e nel Wto? Eccezion fatta per il formidabile potere deterrente del suo arsenale atomico, a tutti gli altri effetti gli Stati Uniti sono oramai, al cospetto della Russia (e anche della Cina) una tigre di carta. E questa è la realtà. Beninteso io rispetto e mi sento anche debitore dello zelo missionario degli americani atteso a promuovere la democrazia nel mondo. Ma sono spaventato da uno zelo missionario che cade in mano a un «ideologismo democratico» di marca Sessantottina che, appunto, stravolge ogni buon senso. 03 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Buonsenso e cretinismo Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2008, 05:56:44 pm I GRANDI DELLA TERRA
Buonsenso e cretinismo di Giovanni Sartori Il tema del buonsenso del quale scrivevo venerdì della settimana scorsa ha stuzzicato parecchi lettori. Uno mi chiede se una persona intelligente senza buonsenso equivale a un cretino. Un altro se il buonsenso è l'antidoto contro la stupidità. Un terzo se la scomparsa del buonsenso comporta l'ascesa inarrestabile del cretinismo. Infine, il buonsenso è saggezza e, viceversa, la saggezza è buonsenso? Sono tutte domande belline. L'intelligenza è difficilissima da definire. La parola viene dal latino intelligere e quindi indica, etimologicamente, una capacità di capire. Il che, però, non stabilisce criteri per accertarla. In pratica, in tutti i rami del sapere e anche della expertise, l'intelligenza viene attribuita o negata dai peers, dagli esperti e studiosi dello stesso ambito di competenze. Non sarà un grande criterio (anche nel sapere ci sono fame scroccate e riconoscimenti ingiustamente negati), ma certo non possiamo accettare il genio che stabilisce da sé, bontà sua, di essere tale. Qui, però, non interessa l'intelligenza speculativa che originariamente era l'intelligere del filosofo, di chi «ama il sapere». Qui interessa l'intelligenza pratica che si cimenta con il fare e con i fatti. Ed è questa intelligenza «terra terra» che si avvicina molto a un'intelligenza del buonsenso. Il maggiore costituzionalista inglese dell'Ottocento, Walter Bagehot, spiegava che il sistema di governo del suo Paese si fondava sulla «stupidità deferente» degli inglesi. Forzando quel testo mi azzarderei a dire che una deferential stupidity è, può essere, una forma di intelligenza pratica. Se sai di non sapere, se sai di non capire, è intelligente essere deferenti. Invece assistiamo sempre più a un crescendo di «ignoranza armata», e così di un'arroganza dell' ignoranza, che rappresenta un perfetto e devastante cretinismo pratico. Passo così a rispondere ai quesiti iniziali. Sì, a mio avviso una persona intelligente senza buonsenso si trasforma facilmente in un cretino, s'intende, un cretino pratico. Sì, il buonsenso può correggere la stupidità e aiuta a «scretinizzare» i cretini. Sì, la scomparsa del buonsenso prefigura un mondo sempre più popolato da stupidi la cui caratteristica, scriveva giocosamente Carlo Cipolla, è di non fare soltanto il male proprio ma anche il male altrui. E, infine, ancora sì alla quarta domanda: il buonsenso è tale perché incorpora saggezza, la saggezza che le società prelitterate trasmettevano sotto forma di proverbi. Nel pezzo di venerdì i due esempi di insensatezza erano l'Alitalia e il «rigelo » dei rapporti tra Bush e Putin. Vedi caso, l'indomani cadeva il 40mo anniversario dell'enciclica Humanae Vitae, e papa Ratzinger ha colto l'occasione per ribadire il suo drastico No ai contraccettivi. Un No il cui terrorizzante risvolto è il Sì all'esplosione demografica che ci sta travolgendo, e con noi il pianeta Terra. Sul punto, e sulla dubbia teologia che sostiene questo inedito «furore » della chiesa cattolica (e di nessun'altra) ho scritto più volte. Dirò solo, qui, che considero in ogni caso quel No un'estrema, colossale violazione di ogni buon senso. Come San Tommaso, io credo in una ratio confortata fide e diffido dalla fede senza ratio. 11 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Le previsioni fallite Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2008, 06:56:50 pm Le previsioni fallite
di Giovanni Sartori Sulla pericolosissima crisi economica in corso finora non ho fiatato. Aspettavo lumi dagli economisti. Speravo, tra l'altro, in un loro mea culpa. Perché il fatto è che il grosso della loro disciplina non ha previsto la catastrofe in arrivo. Era impossibile prevederla? Balle. Non solo era prevedibilissima, ma il punto di principio è che una scienza economica che non sa prevedere è una scienza da poco, quasi da punto. Science for what? Un sapere «pratico» che consiglia male e che prevede altrettanto male, produce guai o comunque ci lascia nei guai. Molti economisti se la cavano scaricando la colpa sul liberismo «selvaggio » che ha predicato la deregulation, l'abbattimento delle regole. A suo tempo — e cioè in tempo — scrivevo che se le regole sono malfatte, allora sono regole da eliminare; ma «sregolare» è solo un rimedio a breve, e un vuoto di regole non toglie che dobbiamo avere regole. Anzi, oggi, le regole ridiventano più necessarie che mai. Le banche non sorvegliate sono libere di fallire a danno dei loro depositanti. Il mercato finanziario è sempre più infestato da imbroglioni che vanno imbrigliati. L'alternativa non è tra intervenire o no, ma tra capacità di «buon intervento» o no. Leggo che le crisi finanziarie sono intrinseche al capitalismo, che pensare di eliminare il rischio è una sciocchezza e che per ogni regola esiste un modo di aggirarla. Ma spero proprio che non sia così. Il mercato è un meccanismo che, per esistere e funzionare, deve essere protetto da leggi che vietano i monopoli e che puniscono i falsi garantendo la autenticità delle merci. Addio mercato se io posso impunemente spacciare per oro un qualsiasi metallo giallo. Così come vanno controllate le medicine e, oramai, persino la produzione industriale del cibo. Pertanto l'argomento «fatta la legge trovato l'inganno» è suicida. Né ritengo che i collassi «alla 29» siano fisiologici. Siccome il sistema di mercato è un automatismo che procede per auto-correzione, è normale che il suo andamento sia ciclico e che includa recessioni. Ma se un sistema di mercato che si auto-distrugge facendo collassare tutto il sistema economico fosse «normale», allora siamo al cospetto di un sistema mal congegnato. Torno al quesito che è la madre di tutti gli altri: perché gli economisti non hanno adeguatamente previsto e denunciato la follia dei subprime, dei mutui senza sufficiente copertura? Sono quei prestiti che hanno scavato la voragine nella quale stiamo ora affondando. Eppure tutti zitti e pronti a bere la favola (all'oppio) dei «derivati», e cioè che il rischio veniva minimizzato distribuendolo a tutti in tutto il mondo. Ovviamente (al solito, elementare buon senso) può essere così solo se il «debito cattivo » non diventa gigantesco. Invece nessuno lo ha controllato, è diventato gigantesco, e così siamo tutti a rischio. Dunque — lo ripeto — quel che è successo era facilmente prevedibile. Io mi sono spaventato quando ho vissuto (negli Stati Uniti) il bombardamento delle offerte di credito facile, troppo facile. Ma ora sono gli economisti che non si sono spaventati a tempo e che devono fare l'esame di coscienza e rivedere le proprie bucce. Perché chi non sa prevedere, nemmeno sa prevenire. 16 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Meglio intendersi sulle previsioni Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2008, 04:35:10 pm L'intervento
Meglio intendersi sulle previsioni Caso vuole che ho fatto appena in tempo a scrivere che gli economisti, e per essi la scienza dell'economia, non hanno saputo prevedere (e quindi prevenire) la crisi che ci sta travolgendo, ed ecco che veniamo inondati dalla scoperta di autori e scritti che — a detta soprattutto dei librai, ma anche delle gonfiature dei media— l'avrebbero invece prevista. È proprio così? No, non è affatto così. Tutto dipende da cosa si intende per «previsione». Tutti noi cerchiamo, nel nostro piccolo, di «vedere prima» tutto il tempo: anche il mio gatto sa prevedere le mie mosse. Ma la previsione scientifica è un'altra cosa. Nelle scienze sociali (e anche l'economia lo è) la parola acquista un significato tecnico diverso dal significato della conversazione comune. E per avere validità e credibilità cognitiva, il prevedere deve essere formulato così: dato un ben circoscritto e precisato progetto di intervento, quale ne sarà precisamente l'effetto? Riuscirà come previsto o no? Se no, perché no? Nel settore di mia competenza, per esempio, ho meticolosamente previsto che il sistema elettorale che scherzosamente battezzai Mattarellum non avrebbe prodotto gli effetti previsti (mal previsti) ma anzi effetti contrari. E mi propongo di procedere con lo stesso metodo sul federalismo quando finalmente sapremo con precisione come sarà congegnato e con quali presunti costi e benefici. Invece — ho scritto l'altro giorno — nessun economista di rilievo ha davvero visto in tempo e capito a fondo i fatti e misfatti di Wall Street. Mi sono sbagliato? La rassegna di venerdì di Massimo Gaggi sui tardivi successi in libreria di autori dichiarati «profetici» mi dà ancora più ragione di quanto io meriti. Intanto, non è vero che il neo-Nobel Paul Krugman abbia mai previsto la crisi in corso. Poco male, anche perché Krugman non è nemmeno un economista riconosciuto come tale. Il male è, però, che nemmeno uno dei Nobel davvero meritevoli del premio abbia mai previsto (nel significato scientifico del termine) quel che stava ineluttabilmente per accadere. I nomi ricordati da Gaggi sono tutti di eminentissimi mezzi-busti della finanza, degli affari, dell'avvocatura e della politica; ma non includono, anche a prescindere dai Nobel, nessun economista di prestigio, se per economista si intendono i professori a pieno titolo che insegnano la materia nelle Università, e se per prestigio si intende non solo il riconoscimento accademico ma anche una influenza extra-accademica. Allora? Allora la tesi che ho sostenuto sulla cattiva salute dell'economia come scienza, non è in alcun modo smentita dalla tardiva riscoperta (commerciale) di «profeti» che tutt'al più hanno ben fiutato il vento. Perché resta vero che gli economisti importanti e di indubbia capacità professionale non hanno visto in tempo (secondo i canoni delle previsioni scientifiche) le disastrose conseguenze dei crediti sub-prime e di tutte le diavolerie di contorno; a cominciare dai credit default swaps che qui non voglio nemmeno spiegare per paura che se ne giovi qualche furbetto nostrano. Giovanni Sartori 19 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Evviva noi crepi il mondo Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2008, 03:43:50 pm POLITICA E AMBIENTE
Evviva noi crepi il mondo di Giovanni Sartori Sono arrivate le vacche magre (magrissime) ed è purtroppo tempo di «tagli», di tagli al borsellino e alle spese. I tagli nessuno li vuole (quantomeno per sé). Ma siccome sono inevitabili, avrei giurato che i primi sarebbero stati a carico dell'ecologia. Vedete come è facile essere profeti? E' stato proprio così. Sulla salute del pianeta Terra noi facciamo da sempre gli struzzi. L'Italia ha sottoscritto a suo tempo gli accordi di Kyoto che ci imponevano di ridurre le emissioni di C02 — tra il 1990 e il 2012 — del 6.5%. Noi invece le emissioni di gas serra le abbiamo tranquillamente aumentate accumulando così un debito di circa 1,5 miliardi. Dunque, fin qui niente tagli, o meglio, siamo morosi e ci proponiamo di non pagare. Dopodiché abbiamo annunciato che l'accordo europeo per il 2012-2020 che abbiamo testé firmato in gennaio (che prevede una riduzione delle emissioni del 20%) non ci sta più bene. Ipse dixit (Berlusconi): «Non possiamo, in un momento di crisi, caricarci il costo di qualcosa di irragionevole». Irragionevole? Intendiamoci: sin dall'inizio abbiamo tutti detto che le riduzioni di Kyoto erano insufficienti, insufficientissime. Ma bisognava pur cominciare, soprattutto a sensibilizzare l'opinione pubblica. Resta l'obiezione seria che senza Usa, Cina e India (che hanno rifiutato gli accordi di Kyoto) non si arriva a risolvere nulla. Vero. Ma gli Stati Uniti si sono già ravveduti, e a dispetto del «texano tossico» (il presidente Bush) fanno già più e meglio di noi. Quanto a India e Cina, saranno i primi a essere drammaticamente puniti per il loro «sacro egoismo» (visto che sono i Paesi di gran lunga più fragili e più esposti al collasso climatico). Il discorso è, allora, che siamo arrivati a essere più di 6 miliardi e mezzo di abitanti su un pianetino che oramai è come una casa pericolante, in imminente pericolo di crollo. Per le singole abitazioni di solito intervengono i pompieri che le fanno sgomberare. Ma il pianeta Terra non può essere salvato così. Non abbiamo a disposizione un pianetone contiguo dove ci possiamo trasferire. Se c'è dunque una priorità assoluta, inderogabile, e non differibile è questa. Lo sottolinea con allarme quasi tutto il sapere scientifico. Ma la nostra ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo ha ricevuto i suoi ordini e va all' assalto. L'accordo post-Kyoto sulla futura politica ecologica europea non è più accettabile. Chiediamo la dilazione di un anno (per quanti anni?), la diminuzione del nostro onere (che la nostra ministro ha artificiosamente esagerato), e un ricalcolo dei costi-benefici (perché ora e non quando abbiamo firmato?). Insomma, siamo alle solite. Siamo sleali, infidi, e facciamo i furbacchioni. Allora, la nostra prima decapitazione sarà sui costi che ci dovrebbero consentire — si spera — di sopravvivere come genere umano. Eppure il nostro Paese è tuttora sovraccarico di «grasso » parassitario. Intanto alleva e lascia prosperare una mafia che è davvero una micidiale sanguisuga. Inoltre abbiamo una pubblica amministrazione elefantiaca, e una scuola (mi dispiace ammetterlo) con troppi insegnanti. Anche sull'Università chi è senza peccato scagli la prima pietra. Sì, mancano i soldi per la ricerca: ma intanto abbiamo moltiplicato docenti di materie ridicole e anche una miriade di piccole università cartacee e scadenti. E che dire, infine, degli sperperi clientelari di moltissime amministrazioni locali? Presidente Berlusconi, di «grasso» in giro ce n'è tantissimo. Ma è più comodo non scontentare nessuno a danno del futuro dei ragazzi di oggi. 29 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. L'idea dei soldi come manna Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2008, 12:11:09 pm L'IMPORTANZA DI CREARE RICCHEZZA
L'idea dei soldi come manna di Giovanni Sartori Il 2009 sarà il primo anno — temo — di una tempesta economica perfetta. Una tempesta perfetta destinata a durare finché non torneremo a capire come nasce il denaro, cosa fa ricchezza. Grazie a una scuola che non è più magistra vitae, i giovani non lo sanno di certo. Per loro è come se piovesse dal cielo come la manna. Per loro il denaro ci deve essere e basta. Ma è così, purtroppo, anche per i non-più-giovani. Nell'ottica di quasi tutti la ricchezza c'è, così come c'è l'aria o il mare. Se manca è perché è maldistribuita e perché se la mangiano i ricchi. E nemmeno i ricchi, o quantomeno gli straricchi, ne sanno di più. I Berlusconi del mondo sanno benissimo fare i soldi per sé; ma perché i soldi ci siano, e come e da cosa zampillino, non è un problema che li interessi. L'economia come scienza ha cominciato a deragliare con la sua politicizzazione diciamo di sinistra: una politicizzazione che la induce ad anteporre il problema della distribuzione della ricchezza al problema della creazione della ricchezza e, in questo solco, anche a confondere i due problemi. Ed è questa confusione che ha allevato una opinione pubblica graniticamente convinta del fatto che la ricchezza ci sia (come ci sono, che so, le piante), e che il guaio sta in come viene distribuita, cioè maldistribuita. Ora, che la distribuzione della ricchezza sia per lo più iniqua, moralmente inaccettabile e spesso anche economicamente dannosa, è un fatto. Un fatto che però non autorizza a confondere tra la grandezza della torta e la sua divisione in fette. Perché non è in alcun modo vero che la ridistribuzione della ricchezza produca ricchezza. Anzi, se la mettiamo così, è più probabile che produca povertà. In prospettiva — e la prospettiva ci vuole — fino alla rivoluzione industriale del primissimo Ottocento l'economia è stata prevalentemente agricola, e quindi una economia di sostentamento. Dopo la lunga stagnazione medievale il primo accumulo di ricchezza avviene con il commercio e con le città marinare (per esempio, Venezia) nelle quali è fiorito. Ma la ricchezza prodotta dalla società pre-industriale fu ricchezza da consumare (in palazzi, chiese e, s'intende, in bella vita per i pochissimi che ne disponevano), non ricchezza da accumulare per investimento, e quindi ricchezza in denaro da investire nel processo economico. Pertanto fino alla rivoluzione industriale, che è poi la rivoluzione della macchina che moltiplica a dismisura il lavoro manuale, l'uomo è vissuto in grande povertà. Il tepore del benessere si affacciò, nel contesto dello Stato territoriale nel suo complesso, soltanto nel corso dell'Ottocento. Ma sino al Novecento, talvolta inoltrato, l'uomo occidentale non ha conosciuto la società opulenta, la cosiddetta società del benessere. Che da noi è durata soltanto una cinquantina d'anni. Per dire come si fa presto a diventare viziati. Come e quando usciremo dalla gravissima recessione nella quale siamo peccaminosamente incappati nessuno lo sa. Il punto da capire sin d'ora è che il diritto a qualcosa sussiste solo se c'è la cosa. Il diritto di mangiare presuppone che ci sia cibo. E il «diritto ai soldi» presuppone che i soldi vengano creati. 31 dicembre 2008 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. L'incudine e il martello Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2009, 04:32:58 pm GOVERNO E CRISI
L'incudine e il martello di Giovanni Sartori Non deve sfuggire che le esternazioni del 15 gennaio di Tremonti svelano le difficoltà nelle quali si dibatte. Il nostro si trova tra l'incudine e il martello. L'incudine è la realtà di una gravissima crisi economica. Il martello è il suo boss, Berlusconi, che invece gronda ottimismo e gli ordina di spendere per salvare la sua popolarità. E così Tremonti si divincola tra dire il vero e esternare assurdità. È vero che «nessuno spiega qual è la causa che ha determinato la crisi». Sì — soggiungo — nessuno lo spiega perché dovrebbero spiegarlo gli economisti, che se ne guardano bene dal momento che non l'hanno prevista, che certo non l'hanno impedita, e che semmai l'hanno avallata partecipando alla pappatoria. Di vero Tremonti ha anche detto che questa crisi non è di tipo ciclico, che «stiamo attraversando una terra ignota», e che non ne conosciamo le cure. Difatti stiamo navigando a vista, nebulosamente consigliati da liberisti che si affidano troppo ai miracoli del mercato e, diciamo, da «regolisti » che non sanno che pesci, pardon, che regole pigliare. Fin qui Tremonti ha ragione. Ma non riesco a seguirlo quando pasticcia tra previsioni e ipotesi, e si lascia scappare di bocca che oggi il prevedere è «un mestiere da astrologi». Asserire che il sole non sorgerà domani è una previsione o una ipotesi? Risposta: è soltanto una ipotesi sballata smentita da miliardi di miliardi di prove contrarie. Certo non è una previsione nel significato tecnico del termine; e questo perché non è sostenuta da prove. Per la stessa ragione chiromanti, astrologi e simili non prevedono un bel nulla, e cioè non hanno credibilità scientifica, credibilità «provabile». Ma, dicevo, capisco perché Tremonti si debba divincolare. Non solo non può smentire l'inossidabile ottimismo del Cavaliere, ma gli viene imposto di spendere soldi che teme di non poter racimolare. Oggi, è vero, tutti i governi democratici si sentono costretti a spendere indebitandosi. C'è chi se lo può permettere, e chi meno. Il nostro Paese, con il colossale debito pubblico nel quale si culla da gran tempo, i soldi li trova con difficoltà. Il che mi riporta al tema da me trattato a fine anno su chi e che cosa produce soldi, produce ricchezza. A questo proposito su Repubblica Giorgio Ruffolo mi dà ragione sul problema da me sollevato, ma torto sulla colpa della sinistra di anteporre il problema della distribuzione a quello della creazione della ricchezza. In verità il mio discorso è tutto a futura memoria. Quindi emendo il mio dire così: finché le vacche sono grasse è giusto che la sinistra si preoccupi di distribuire; ma quando le vacche diventano magrissime anche la sinistra deve rifare i suoi conti. Ma il problema, aggiungo, non è tanto della sinistra in generale, ma ancor più del nostro sindacalismo. Che da un lato si permette una frammentazione selvaggia e inaccettabile, e che dall'altro esibisce sindacati che hanno la fortuna- sfortuna di essere i più forti e, contestualmente, i meno riformisti (nel senso socialdemocratico del termine) dell'Occidente. Ma noi abbiamo ancora un sindacalismo invecchiato che nella Cgil non dimentica le sue origini barricadiere e comuniste, e dedito soprattutto a salvare il posto di lavoro dei «vecchi», di chi il posto di lavoro lo ha già. Anche su questo fronte, allora, siamo assai malmessi. Tremonti ha ragione di essere spaventato. 24 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. PD - Una sconfitta cercata a lungo Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2009, 10:26:23 am LE RADICI DEL TRACOLLO DEL PD
Una sconfitta cercata a lungo di Giovanni Sartori Povera sinistra. Peggio messa di come è non potrebbe. E l'onda lunga che l’ha portata al tracollo viene da lontano, da molto più lontano di quanto i commentatori ricordino. L’altro giorno l’elezione di Dario Franceschini a nuovo segretario del Pd è stata una decisione sensata e forse l’unica possibile. Ma il salvataggio viene rinviato a elezioni primarie che dovrebbero spazzare via la vecchia nomenklatura e miracolosamente scoprire nuovi leader. Le primarie sono state una fissazione di Prodi; e sinora si sono rivelate un enorme dispendio di energie senza frutto, che non hanno fondato o rifondato un bel nulla. Per carità, riproviamo ancora. Ma non illudiamoci che scoprano ignoti né quello che non c’è. A oggi ogni capopartito ha allevato i suoi e cioè potenziato la sua fazione, la sua corrente, promuovendo gli obbedienti (anche se deficienti) e cacciando gli indipendenti (anche se intelligenti). Pertanto la crisi di leadership della sinistra è una realtà dietro la quale non è detto che si nascondano geni incompresi, geni repressi. Il guaio risale al fatto che per una trentina di anni abbiamo avuto la più grande sinistra dell’Occidente, che era però egemonizzata dal Pci e forgiata dallo stalinismo di Palmiro Togliatti. Non era una sinistra addestrata a pensare con la sua testa, ma invece ingabbiata nel preconfezionato di un dogmatismo ideologico. Caduta la patria sovietica, quel pensare e pensarsi che altrove ha rifondato la sinistra su basi socialdemocratiche da noi non si è risvegliato. La fede comunista si è semplicemente trasformata in un puro e semplice cinismo di potere; e il non pensare ideologico, il sonno dogmatico del marxismo, si è semplicemente trasformato nella sconnessa brodaglia del «politicamente corretto». Una brodaglia nella quale anche il semplice buonsenso brilla per la sua assenza. Dunque la malattia è grave e di vecchia data. Una malattia che coinvolge anche — passando al versante pratico del problema — l’erosione dei bacini elettorali tradizionali della sinistra. In passato la sinistra era, in tutta semplicità, il partito del proletariato operaio. Quel proletariato non esiste più. Lo ha sostituito un sindacalismo che in passato obbediva al partito, ma che ora lo condiziona. Domanda: il collateralismo o condizionamento sindacale conviene davvero, oggi, alla «sinistra di governo » (come diceva Veltroni)? Ne dubito. La Cgil è oramai un sindacato antiquato «di piazza e di sciopero», abbandonato dai giovani, che rappresenta i pensionati (la maggioranza dei suoi tesserati), che difende gli sprechi e anche i fannulloni. E siccome siamo al cospetto di una gravissima crisi economica, la sinistra non la può fronteggiare appesantita dalla palla al piede della Cgil. O così mi pare. Altra domanda, questa volta sul collateralismo (dico così per dire) con la magistratura. Fermo restando che l’indipendenza del potere giudiziario è sacrosanta, il fatto resta che gli italiani sono indignati per la sua lentezza e inefficienza. Prodi si vanta di avere vinto due elezioni. Allora ci spieghi perché, in vittoria, non abbia alzato un dito per aiutare e anche costringere la giustizia a funzionare. La sinistra fa bene a difendere il potere giudiziario dagli assalti interessati di Berlusconi. Ma fa male a non difendere un cittadino così mal servito da una giustizia, diciamolo pure, ingiusta. 25 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: Re: GIOVANNI SARTORI... perché mi fidanzo a 80 anni Inserito da: Admin - Marzo 05, 2009, 03:25:37 pm «Ecco perché mi fidanzo a 80 anni» Il politologo di fama internazionale racconta come ha conosciuto Isabella Gherardi, pittrice e fotografa Isabella Gherardi e Giovanni Sartori sono una coppia nuova. Lei artista, pittrice e fotografa molto apprezzata fuori e dentro Italia, autrice di eterei, fantasmagorici nudi di donna, tutti occhi grandi e pubi scurissimi; lui, politologo tra i più letti e studiati al mondo, arcigno censore dei mali delle istituzioni patrie, editorialista rispettato e temuto, professore a Firenze, la sua città, poi a Stanford, Yale, Harvard, alla Columbia University di New York, nove lauree honoris causa… Sartori: «Dica pure quanti anni ho, così siamo a posto…». Ma forse non è elegante. S.: «Tanto è su tutte le mie biografie». Ottantacinque anni. S.: «Esagerato : non ancora». Professore, ma com’è andata? S.: «Ah, non guardi me. E si ricordi: io sulla mia vita privata racconto solo bugie». E va bene. Isabella, com’è andata? Gherardi: «La prima volta che ci siamo visti, tre anni fa...». S.: «Ma secondo me erano trenta», levandosi e mettendosi in continuazione gli occhiali. Allora è vero, che racconta bugie! Isabella Gherardi butta indietro la testa, ride: «Diciamo qualche anno fa… È stato alla presentazione di un libro. Io ero molto curiosa di incontrarlo, sentivo tutte le signore che cinguettavano: “Come è fascinoso il professore, come è fascinoso il professore…Però tutto finì lì». Perché anche Sartori, come molti uomini di età importante, esercitano un fascino tutto particolare sulle donne assai più giovani di loro. Lei come se lo spiega? G.: «Io posso dirle che lui mi ha affascinato con la sua intelligenza, la sua carica vitale, il suo modo rigoroso di pensare, la capacità di attrarti e di tenerti legata a sé con la parola e il ragionamento. Senza contare le sue fulminati battute». S.: «Concordo, he he…». Dicono che gli intellettuali siano tutti vanitosi. Lei si considera vanitoso, professor Sartori? S.: «Io? Molto. A Carnevale mi travesto sempre da tacchino e faccio la ruota». G.: «Come dice il critico d’arte Achille Bonito Oliva: “La vanità è il pret à porter del narcisismo”». S.: «…però credo che l’arma seduttoria per eccellenza, per un uomo, sia la persistenza». Prendere la donna per sfinimento. G.: «Non sono d’accordo. Io non cederei mai a una persona che mi corteggia in maniera ossessiva». E infatti nel vostro caso è avvenuto il contrario, mi sembra.L’iniziativa è partita da Isabella. S.: «Ma io non ho detto di me stesso di essere persistente e insistente con le donne. Però ho molti amici che sono così. E poi il fatto è che molte donne soffrono di tempo vuoto. Lo spasimante lo riempie». E allora come fa a riscuotere tanto successo con le donne? S.: «Tanto mica tanto. La mia forza resta che non mi preoccupo della mia età». Sono curioso di sapere cos’ha trovato il professor Sartori nell’architetto-pittrice-fotografa Isabella Gherardi, che gli ha stravolto la vita. S.: «La prima cosa è che Isabella ha la sua vita e il suo lavoro (oltre ad essere una gran bella donna). Io sono terrorizzato dalle donne che dopo aver prodotto e allevato i loro figli non sanno più cosa fare. Aggiungo che Isabella legge moltissimo.Che lei sapesse chi era Samuel Johnson poteva anche capitare; in fondo Johnson è stato una delle personalità di maggiore spicco del Settecento inglese. Ma che avesse letto la sua biografia scritta da James Boswell, mi ha lasciato di stucco. Un giorno, poi, a tavola, le ho detto che io ero “apoto” e Isabella non ha fatto la faccia inebetita che fa lei in questo momento». Confesso che mi sento preso in castagna. S.: «Viene dal greco antico. Significa “colui che non beve”.Fu un conio di Papini e Prezzolini». Capito. Tutto questo, però, è capitato quando? Poi che è successo? G.: «L’anno scorso, a maggio, ho proposto al Corriere della Sera, edizione di Firenze, per il quale curo una rubrica, di fotografare il professor Sartori insieme ad altri uomini che secondo me incarnano una certa idea di eleganza. E quando mi sono trovata faccia a faccia con lui, sa cosa mi ha detto ? “Signorina, qui a Firenze non ho molto mercato. A New York, invece …”. E mi ha piantata lì». S.: «Non è che proprio non avessi mercato, a Firenze. Solo che a New York, con l’appartamento situato al ventisettesimo piano e una vista quasi a trecentosessanta gradi, con affaccio sul Central Park, il “mercato” era più ampio». G.: «Poi a Settembre l’ho incontrato di nuovo a New York, dove mi ero recata per fare delle interviste fra cui la sua. Volevo scrivere un articolo su alcuni personaggi e gli oggetti per loro più importanti. Così scoprii che Sartori aveva un tavolo straordinario al quale è molto legato.E per fotografarlo andai nella sua casa di New York». Un tavolo? S.: «Il mio tavolo da lavoro preferito, un pezzo del Settecento, molto stretto e lungo circa tre metri». Galeotto fu il tavolo, quindi. G.: «Eh sì, forse è stato tutto merito di quel tavolo. Comunque ci siamo messi insieme alla fine dell’ autunno». Giovanni Sartori e Isabella Gherardi (foto di Adolfo Franzò per «A») Ma come vivono insieme un politologo di fama mondiale e un’artista fuori dagli schemi? Cosa imparate l’uno dall’altra? S.: «Lei mi mette a soqquadro la giornata, mi sposta tutto. Però fa dei quadri che mi incantano e allietano la casa. Questo qui», indica un enorme acquerello di Isabella che sembra un autoritratto, con gli occhi grandissimi, la bocca socchiusa, «è quello che mi piace più di tutti». G.: «Noi siamo anche caratterialmente diversi. Lui è posato, metodico, razionale. Io sono uno spirito inquieto, impulsivo, mi piace improvvisare. E questa diversità ci compensa e ci arricchisce». Veniamo ai giovani-vecchi in politica, professore. S.: «Non se ne salva uno. Evitiamo di fare nomi, ma oggi, a destra come a sinistra non vedo proprio nessuna personalità di spessore, non uno statista in pectore. Niente». Nemmeno nella storia passata c’è stato qualcuno che ha saputo fare qualcosa di buono? Mentre il professore ci pensa, Isabella butta là: «Forse Craxi, i primi tempi». S.: «Craxi era personalmente arrogante e antipatico, ma ebbe il merito di emancipare il partito socialista dalla sudditanza al Pci. Solo che dopo è rimasto invischiato nei meccanismi dei soldi e del potere». Pensa anche lei che in Italia ci sia una dittatura strisciante? S.: «Storicamente la dittatura ha sempre comportato la trasformazione dell’assetto istituzionale, come successe con Mussolini e Hitler. Berlusconi, invece, non ha bisogno di cambiare la Carta costituzionale, la sua strategia è quella di occupare tutti i posti di comando. No, il suo sistema di potere lo definirei piuttosto una sorta di sultanato, con tanto di harem e di corte. Come spiego nell’ultima raccolta per Laterza, dei miei editoriali sul Corriere, che si intitola appunto Il Sultanato” di prossima pubblicazione a marzo». E io che speravo di chiudere l’intervista con un messaggio positivo, professore. Come facciamo? S.: «Facciamo concludere a Isabella». Allora parliamo di arte. È possibile che la crisi in cui ci stiamo dibattendo, alla fine aiuterà a riscoprire l’arte in sé e non come business legato alle quotazioni di mercato? G.: «Io credo di sì. E credo anche che stiano per finire certi stereotipi di una certa accademia, legati a presunte correnti artistiche di sinistra o di destra. Credo, insomma, che de-ideologizzata e de-mercantizzata, l’arte tornerà forse ad essere la pura espressione del sentimento e dell’idea». Avete progetti per il futuro? S.: «Vuol sapere se c’è aria di matrimonio? Ci penseremo nei prossimi decenni». Mario Prignano 05 marzo 2009 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Libertà di sopruso Inserito da: Admin - Marzo 08, 2009, 03:52:16 pm SCIOPERI E REGOLE
Libertà di sopruso di Giovanni Sartori Quasi da sempre il diritto di sciopero è stato abusato dagli scioperanti e tollerato oltre ogni misura da tutti i nostri governi. Ora il governo Berlusconi si propone di disciplinarlo. È una decisione tempestiva e più che mai necessaria, visto che ci aspettano tempi durissimi di dilagante disoccupazione e, di riflesso, di esasperato «ribellismo» con blocchi di strade, ferrovie, aeroporti e anche di servizi pubblici: blocchi che saranno «cattivi», carichi di rabbia e infiammati dalla disperazione. Come qualsiasi indovino avrebbe indovinato, a Epifani, e con lui alla Cgil, la cosa non piace per niente. Tra le sue tante obiezioni emerge la tesi che il diritto di sciopero è una «libertà fondamentale». Sì, nei limiti; ma assolutamente no fuori limiti. La regola fondante di tutte le libertà è che la mia libertà non deve danneggiare né ostacolare la libertà di nessun altro. Cioè, la mia libertà è delimitata dalla libertà degli altri (e viceversa). Dal che si ricava che uno sciopero dei servizi o dei trasporti è una patente violazione dei diritti di libertà di tutti. Lo sciopero nasce, nell’800, nelle fabbriche, e in quel contesto il danno è tra le parti in causa, tra un prestatore d’opera e il suo datore di lavoro. Invece nell’odierno andazzo italico il cittadino diventa ostaggio, e anche vittima, di un conflitto che non lo riguarda. Libertà o sopruso? A me sembra libertà di sopruso. Tantovero che negli Stati Uniti lo sciopero dei servizi (ivi inclusi i trasporti) è quasi sempre vietato, e che i conflitti di questo tipo sono sottoposti ad arbitrato obbligatorio. Ricordo due casi. Nel 1981 i controllori del traffico aereo, forti della loro insostituibilità (così credevano), sfidarono il divieto di sciopero. Il presidente Reagan li licenziò tutti in tronco, e non mi risulta che furono mai reintegrati. Certo è che da allora nessuno si è riprovato. L’altro caso, quello della City Transit Authority di New York che ogni giorno fa entrare e uscire da Manhattan 7,5 milioni di passeggeri, è del 20 dicembre 2005. Quello sciopero, che era appunto illegale, non durò nemmeno due giorni. Il pomeriggio del 20 il giudice competente (proprio non siamo in Italia) impose al sindacato una multa di un milione di dollari al giorno. Il sindacato capitolò subito. Invece il nostro legislatore prevede multe individuali. Campa cavallo. Tornando in patria, sulla proposta che uno sciopero debba essere proclamato da un sindacato rappresentativo del 51 per cento della categoria in agitazione, Epifani obietta così: «Ma perché può scioperare il 51 per cento e il 49 no? Che senso ha?». La risposta è facile: ha esattamente lo stesso senso di tutte le decisioni prese a maggioranza. Quando poi votiamo con il principio maggioritario in collegi uninominali, può persino accadere che il primo, il più votato, prenda tutto (il seggio) con meno del 40 per cento dei voti. È la regola maggioritaria, bellezza. Sono tutte cose che Epifani sa benissimo. Proprio per questo mi sconcerta che qui il Nostro si atteggi a difensore dei suoi «nanetti», del pulviscolo dei micidiali sindacati autonomi (spesso di quattro gatti) che ci affliggono. Emi sembra un pessimo segno, perché gli scioperi selvaggi e le occupazioni non aiuteranno in alcun modo la crisi economica, ma anzi la aggraveranno. Essendo noi già malati gravi. 08 marzo 2009 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. LA SINISTRA IN CRISI Due tipi di partito Inserito da: Admin - Marzo 13, 2009, 03:49:23 pm LA SINISTRA IN CRISI
Due tipi di partito di Giovanni Sartori C’è il partito elettoralistico che esiste per vincere le elezioni e catturare il governo, e all’altro estremo esiste il «partito testimone» che si costituisce per affermare valori etico-politici e, appunto, dare testimonianza di una buona città politica. Questo secondo tipo di partito sa di non essere maggioritario, ma non se ne cruccia più di tanto. Se la sua volta verrà, tanto meglio; ma se non viene non è la fine del mondo. Forse il tempo è galantuomo. Diamo tempo al tempo. Dopo la recente rovinosa esperienza del governo Prodi la sinistra torna a scoprire che il nostro Paese non ha mai avuto una maggioranza di elettorato di sinistra. Certo, non l’hai mai avuta con il Pc. Ma nel 1994 la sinistra (l’allora Pds di Occhetto) e Forza Italia di Berlusconi fecero quasi pari (alla Camera). Oggi non più. Oggi il distacco è fortissimo. Perché? Una bella domanda sulla quale ognuno dirà la sua. La mia è che la sinistra ha commesso sbagli colossali, con D’Alema che avrebbe regalato a Berlusconi l’impero della tv (tutta quanta), e con Prodi che si è ossessivamente dedicato alla creazione di un partito «contro natura» tra cattolici di sinistra e sinistra «dura» e laica. La legge vigente sul conflitto di interessi che in sostanza consente a Berlusconi non solo di essere il monopolista di tutta la tv privata ma anche, quando vince le elezioni, di controllare a suo piacimento tutta la tv pubblica, è la legge Frattini (oggi ricompensato con il ministero degli Esteri). Ora, la sinistra poteva benissimo approvare, tra il 1995 e il 1998, una legge che invece bloccava Berlusconi. Non l’ha fatto. Il testo c’era (steso dal senatore Passigli), era ben disegnato e fu approvato dal Senato nel 1995. Decadde per lo scioglimento anticipato della legislatura, ma fu subito ripresentato dal centrosinistra nel 1996. Dopodiché niente. Niente anche se allora esisteva una sicura maggioranza (ci stava anche la Lega) per vararlo. Non avevo mai capito, confesso, questa stupefacente inazione. L’arcano è stato poi inopinatamente svelato da Violante, che nel 2002 era capogruppo Ds a Montecitorio, con questa dichiarazione: nel 1994 a Berlusconi «è stata data la garanzia piena che non gli sarebbero state toccate le televisioni ». Garanzia da chi? I sospetti possono soltanto convergere su D’Alema, a quel tempo segretario del Pds. (Per la precisione, la citazione è del Corriere del 1˚Marzo 2002; e lo stesso si legge su La Repubblica). Dunque l’inerzia della XIII legislatura è oramai spiegata; resta però da spiegare come mai D’Alema (o se no chi?) abbia condannato la sinistra a restare a terra «senza voce». Quanto a Prodi, ho sempre obiettato alle «fusioni a freddo». I partiti si fondono solo se vengono drammaticamente sconfitti alle elezioni; altrimenti gli apparati e le posizioni di potere di due partiti sopravvivono e si contrastano nel partito unificato (a chiacchiere), con il bel risultato di perdere elettori cattolici al centro ed elettori di sinistra a sinistra. E in questi frangenti Franceschini ha in mente di impegnarsi a corpo morto nelle Europee, invece di defilarsi impegnandosi nel ridare pulizia e serietà al partito «testimone» (altro che a «vocazione maggioritaria »!) che si trova a dover gestire. 13 marzo 2009 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Una terra verde produce meglio Inserito da: Admin - Aprile 24, 2009, 10:30:45 am ECOLOGIA & ECONOMIA
Una terra verde produce meglio di Giovanni Sartori La Terra come sta? Di recente abbiamo avuto tanti terribili dispiaceri — dal terremoto all’Aquila alla depressione economica globale—che lo stato di salute del nostro pianetino (che diventa tanto più piccolo quanto più i suoi abitanti diventano numerosi) è stato quasi dimenticato. Il 22 aprile è stata celebrata, nel mondo, la «giornata della Terra». Da noi questa celebrazione è passata quasi inosservata. L’importante notizia resta che, dopo le sciagurate presidenze Bush, gli Stati Uniti di Obama si stanno rapidamente sensibilizzando anche al problema ecologico. E un po’ anche la nostra Confindustria (Marcegaglia dixit). Ma è proprio vero che il surriscaldamento del nostro pianetino sia opera dell’uomo, che sia colpa nostra? Il sempre più sparuto plotone di scienziati che lo nega pur sempre ammette che le emissioni inquinanti dell’uomo contribuiscono, nell’ordine di almeno un 25%, all’effetto serra e quindi alla alterazione del clima. Anche se così fosse (e per i più così non è) in ogni caso non vedo perché non ci si debba impegnare a oltranza nel combattere la catastrofe climatica che ci minaccia. Ciò premesso, il problema non è solo il clima. E’ anche che manca, e mancherà sempre più, l’acqua potabile, o comunque l’acqua per l’agricoltura. Dal che consegue che nelle zone povere e sovrappopolate mancherà il cibo, e quindi che in Africa, India e anche in Cina incombe la minaccia di terribili carestie. Non basta. Un ulteriore problema è che per sopravvivere in tanti, in troppi, abbiamo sempre più bisogno di energia, mentre le nostre riserve di energia (a cominciare dal petrolio) sono in via di esaurimento; e non ci sarà, temo, vento o sole che bastino per soddisfare la fame di energia dei sette miliardi di esseri umani ai quali presto arriveremo, per non parlare dei nove miliardi stimati da infauste previsioni. Tutti i suddetti problemi non esisterebbero se fossimo ancora i tre miliardi di quando io nascevo. Il che equivale a dire che la popolazione della Terra non deve crescere ma diminuire. Elementare, mi sembra. Ma per la Chiesa l’argomento è tabù. E anche il grosso degli economisti ha sinora puntato su uno «sviluppismo » (arricchismo?) infinito, come se noi vivessimo in uno spazio illimitato provvisto di risorse inesauribili. Il guaio è che da gran tempo gli economisti leggono solo se stessi e che si sono chiusi anche loro nella propria nicchia specialistica. Così come i giuristi evadono dai problemi della realtà dichiarandoli extra-giuridici, alla stessa stregua gli economisti eliminano i problemi che non sanno o non vogliono affrontare sotto la voce externalities, di effetti esterni che non li riguardano. Vedi caso, tra queste externalities c’è l’inquinamento dell’atmosfera e dell’acqua, la deforestazione selvaggia che desertifica il suolo e, insomma, tutti i problemi posti dal tracollo ecologico. Eppure è di tutta evidenza che il danno ambientale già prodotto è enorme e che comporterà costi enormi di riparazione e di ripristino. Ammesso che non sia già troppo tardi. Dio non voglia. E’ vero che al momento l’emissione dei gas inquinanti sta calando; ma è perché siamo in una recessione che chiude industrie. E un male che ne scaccia un altro non è la soluzione del problema. Per questo rispetto la soluzione è di capire che l’avvenire dello sviluppo industriale è la sua riconversione in un’economia «verde» di risparmio energetico. 24 aprile 2009 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Gli esiti nocivi del referendum Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 11:24:40 am LEGGE ELETTORALE
Gli esiti nocivi del referendum Tra poco saremo chiamati a votare parecchio. Ma il voto che sin d’ora accende gli animi e fa più discutere è sul referendum Guzzetta-Segni in calendario per il 21 giugno: un referendum che modifica il sistema elettorale in vigore, il giustamente malfamato Porcellum. Per l’esattezza i quesiti referendari sono due. Il secondo propone di vietare le candidature multiple, e questa proposta è sacrosanta. Però il quesito importante è il primo, che mantiene il premio di maggioranza ma lo attribuisce soltanto alla lista vincente e non più alla coalizione vincente. Di questa proposta 1) si deve dire bene, 2) si può aggiungere che è inutile, ma 3) si deve anche dire che è pessima. Bene perché il Porcellum esibiva un controsenso, il controsenso di predisporre uno sbarramento (alla Camera il 4% per un partito, il 10 per una coalizione) e di consentire al tempo stesso coalizioni che lo avrebbero scavalcato. Per esempio, cinque «nanetti» del 2% cadauno si potevano alleare e così beffare la barriera. Il che non toglie, però, che il divieto di coalizioni previsto dal referendum fosse inutile. Inutile perché la legge parla di «liste» e non di partiti, e quindi quel divieto sarebbe stato aggirato dall’invenzione, per le elezioni, di due «listoni » acchiappatutti al coperto dei quali restavano e sarebbero riemersi i partiti di prima. Insomma, fatta la legge, trovato l’inganno. Inganno lucidamente previsto da Franceschini, allora presidente dei deputati Ds, che a quel tempo era evidentemente ancora lucido. Pessima. Pessima perché si tratta davvero di un premio di maggioranza truffaldino e distorcente. Il professor Guzzetta lo poteva tranquillamente cancellare. Non lo ha fatto. Peccato. Un premio di maggioranza non è truffaldino (come non lo fu all’inizio degli anni Cinquanta) quando rinforza una vera maggioranza, e cioè quando richiede, per scattare, che la coalizione vincente arrivi almeno al 50% del voto. Invece il premio previsto dal referendum scatta in ogni caso, e così trasforma in maggioranza la maggiore minoranza. Anche se, per esempio, il Pdl ottenesse alle prossime elezioni soltanto il 30% dei voti, otterrebbe lo stesso alla Camera il 55% dei seggi. Già lo scrivevo in data 1 novembre 2006: il rischio più grave è che «un partito di maggioranza relativa possa vincere il premio senza aggregarsi con nessuno e così conseguire una maggioranza assoluta tutto da solo: il che prefigura, in ipotesi, un inedito strapotere di Berlusconi». Purtroppo l’ipotesi di allora è la certezza di oggi. Che fare? Si avverta: il sistema elettorale, in Italia, è stabilito con legge ordinaria a maggioranza semplice. Pertanto non è espressione di una volontà popolare ma di una normale volontà parlamentare. Ma se sottoposto a referendum, allora ottiene un rinforzo di legittimità. Nel caso in esame, se vinceranno i No (il rifiuto delle modifiche referendarie) allora si potrà dire che il popolo italiano vuole il Porcellum così come è. Se invece vincessero i Sì, allora si dirà che la sovranità popolare vuole una maggioranza ope legis. E in entrambi i casi ci dovremo tenere questa manipolazione truffaldina a lungo. Allora, che fare? Personalmente io non voterò. Non per indifferenza o pigrizia, ma perché rifiuto di conferire legittimità a due soluzioni che sono entrambe nocive. Non sarà, questa, una soluzione brillante. Ma è forse il male minore. Giovanni Sartori 17 maggio 2009 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Il pozzo senza fondo Inserito da: Admin - Giugno 15, 2009, 11:43:27 am IMMIGRAZIONE E DIRITTO D’ASILO
Il pozzo senza fondo di Giovanni Sartori Per chi non lo sapesse, il pozzo di San Patrizio è un pozzo senza fondo, e quindi un pozzo che non si riempie mai. Finora risultava che la terra fosse un pianeta tondo e racchiuso in se stesso. Ma per i «popolazionisti » e per chi si occupa di migrazioni di massa è, si direbbe, un pozzo di San Patrizio. Siamo più di 7 miliardi? Nessun problema, il pozzo li ingurgita tutti. Sarebbe lo stesso se fossimo 77 miliardi: provvederebbe sempre San Patrizio. Un Santo del VI secolo che la Chiesa dovrebbe rivalutare. Ma procediamo con ordine. Di recente Alberto Ronchey ricordava su queste colonne che un secolo fa gli africani erano 170 milioni, mentre oggi si ritiene che siano 930 milioni. La sola Nigeria potrebbe arrivare, nel 2050, a 260 milioni di abitanti; e le Nazioni Unite stimano che Paesi come l’Etiopia, il Congo e il Sudan, già stremati da ricorrenti carestie, rischiano di raddoppiare, entro il 2050, la loro popolazione. E mentre la popolazione cresce a dismisura, le risorse alimentari del continente africano sono state malamente dilapidate dall’erosione del suolo e dalla desertificazione. Questi sono, all’ingrosso, i numeri della «pressione dell’Africa» richiamata da Ronchey, che è la pressione a noi più vicina e quindi più minacciosa. Una pressione che si ascrive alla categoria degli «eco-profughi », e correlativamente degli «eco-rifugiati». Che fare? Come accoglierli? Finora si è parlato di diritto di asilo. Ora si comincia a parlare di «profughi ambientali ». La prima categoria è impropria e difficile da accertare, mentre la seconda è davvero troppo larga, troppo onnicapiente: presuppone che il mondo sia quel pozzo di San Patrizio che non è. Il diritto di asilo è stato, nei millenni, una protezione, una immunità religiosa dalla «vendetta del sangue » (i parenti di un ucciso, o simili) per chi si rifugiava in un luogo sacro. Questo asilo trova la sua massima espansione nell’Europa medievale, per poi venir meno. E il punto è che l’asilo non è mai stato riconosciuto come «diritto » di intere comunità e tanto meno per motivi politici. Pertanto il diritto di asilo concepito come titolo di entrata in un Paese per i rifugiati politici è una recente invenzione. E andiamo ancora peggio con la nozione di «vittime ecologiche». Questa categoria è davvero smisurata e sconfitta dai numeri. Gli eco-profughi sono già centinaia di milioni; e basterebbe che il dissesto del clima spostasse i monsoni per ridurre alla fame mezzo miliardo di indiani. Il rimedio certo non può essere di accogliere tutti e di un Occidente che si prende carico dei diritti di asilo e dei profughi ambientali. Per l’Africa un’idea sarebbe di «rinverdirla», di renderla di nuovo fertile e vivibile. Un po’ tardi, visto che l’agricoltura è già per metà perduta, che i laghi si prosciugano e che la desertificazione è irreversibile. Per carità, l’Africa va aiutata. Ma tutto è inutile se e finché non apriremo gli occhi alla realtà, al fatto che l’Africa (e non soltanto l’Africa) muore di sovrappopolazione, e che la crescita demografica (ovunque avvenga) va risolutamente affrontata e fermata. 15 giugno 2009 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. I CONFRONTI SBAGLIATI CON IL PASSATO Inserito da: Admin - Agosto 16, 2009, 04:21:51 pm I CONFRONTI SBAGLIATI CON IL PASSATO
La salute dell'ambiente Passa un Ferragosto, passa l’altro, torno sempre al tema dell’ambiente e del clima. Chi la dura la vince, dice il proverbio. Speriamo che sia vero. Che tempo fa? Che tempo farà? E’ quel che ogni giorno vien spiegato e previsto dai meteorologi. Qual è il clima, e cosa succede del clima, è invece una domanda del tutto diversa che verte, nel lungo periodo, sulle condizioni di siccità, calore, inquinamento e vivibilità del nostro pianeta. Eppure moltissime persone confondono le due cose. L’anno scorso — dicono — ha piovuto poco e ha fatto molto caldo; ma quest’anno ha piovuto molto e siamo stati bene. Dunque — concludono — quelle dei climatologi sono balle. E se la pensa così anche un bravo giornalista come Pietro Calabrese, mi tocca di rispiegare tutto daccapo. L’indicatore più ovvio del riscaldamento climatico è che i ghiacciai si stanno sciogliendo, con una velocità imprevista, dappertutto: in Asia, Africa, Europa, sulle Ande, ai Poli. Abbiamo poi misure precise della quantità crescente di anidride carbonica e di altri gas serra nell’atmosfera. Pertanto la disputa non è più sul riscaldamento del clima terrestre — il fatto è indubbio —ma sulle sue cause. Chi dubita che la causa prima, primaria, «siamo noi», ricorda che i cicli di riscaldamento e di raffreddamento della Terra sono sempre avvenuti, e quindi che possono soltanto dipendere da cause astronomiche. Sì, ma nel ciclo che stiamo vivendo sono entrate due nuove variabili: la società industriale, che è fortemente inquinante, e un gigantesco «salto» in popolazione. E l’entrata in gioco di questi due nuovi fattori inficia le analogie con il passato. Tantovero che la stragrande maggioranza degli studiosi ritiene che il riscaldamento in corso non appartiene alla naturale variabilità del clima. Beninteso la scienza non è mai unanime. C’è ancora chi nega, per esempio, che il virus dell’Hiv sia la causa dell’Aids. Inoltre, e soprattutto, il problema del clima e dell’ambiente è davvero un macro- problema, tanto grande e complesso da non consentirci di stabilire chi sia un competente e chi no, chi abbia davvero voce in capitolo e chi no. Ma non c’è dubbio che la scienza nel suo complesso punti il dito su un malfare e strafare dell’uomo, su cause «antropiche». Ciò posto, a che punto siamo? La buona notizia è che ci siamo liberati del «texano tossico», del nefasto ex presidente Bush, e che il suo successore Obama ha già fatto approvare dal Congresso una severa legge anti-inquinamento che prevede una riduzione dei gas serra dell’83% entro il 2050. E l’America è un Paese che quando si mobilita, si mobilita sul serio. Anche l’Unione europea si è convinta, e propone la formula del 20-20-20 (meno 20% di emissioni di anidride carbonica, più 20% di efficienza energetica, più 20% da fonti di energia rinnovabili). Ma Berlusconi è come Bush, Berlusconi non ci sta. Combatte persino le esigue (e insufficientissime) riduzioni imposte dal protocollo di Kyoto; e a dicembre ha brutalmente dichiarato a Bruxelles: «Trovo assurdo parlare di emissioni quando è in atto una crisi». Sì, ma no. Perché una catastrofe ecologica sarebbe mille volte più grave della crisi in atto. Giovanni Sartori 15 agosto 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA Titolo: GIOVANNI SARTORI. Il testamento senza volontà Inserito da: Admin - Settembre 16, 2009, 03:48:02 pm LA CHIESA E LA LEGGE SUL FINE VITA
Il testamento senza volontà Paradossalmente, quando la Dc era al potere la Chiesa non comandava. De Gasperi e altri leader democristiani agirono, rispetto alle richieste del Vaticano, secondo coscienza e seppero anche dire seccamente No. Oggi la Chiesa comanda (parecchio) e Prodi, pur cattolico fervente, la indispettì per aver osato dire che era «un cattolico adulto», e cioè capace di ragionare con la sua testa. E l’ulteriore paradosso è che oggi il più «aperto» ai voleri del Vaticano sia Berlusconi. Bossi tiene, e sulla immigrazione clandestina non si piega. Invece Berlusconi, che non è certo un cattolico esemplare, è pronto a cedere quasi su tutto (salvo che sulla sua persona). Il testamento biologico approvato tempo fa dal Senato e fortemente voluto dalla Chiesa, è stato approvato dalla sua maggioranza. Ed è arrivato ieri alla Commissione competente della Camera per l’approvazione definitiva. Si prevede che sarà ritoccato. Anche così resterà un testamento che viola la volontà del testatore. Perché questo è l’intento della Santa Sede. La Chiesa, e per essa il suo Pontefice, può sbagliare? Certo che può sbagliare. Tantovero che agli ultimi Pontefici è venuto addirittura il vezzo di chiedere scusa per errori e anche male azioni di loro predecessori. D’altronde la dottrina della infallibilità papale è recente, è del 1870, e si applica soltanto ai pronunciamenti solenni, ex cathedra, in materia di fede e di morale. Quando papa Ratzinger è andato in Africa a discettare di preservativi e di Aids, il suo discettare non era solenne ed era anche sicuramente sbagliato. Nemmeno è vero che in quella occasione il Papa non abbia detto niente di nuovo. Sì, il Vaticano si oppone da sempre agli anticoncezionali. Ma un Pontefice non ha mai asserito, che io ricordi, che «la distribuzione dei preservativi » non serva a combattere davvero l’Aids: una tesi (cito dalla importante rivista Lancet ) che «manipola la scienza » . Restiamo al testamento biologico, in merito al quale il Vaticano vuole ad ogni costo impedire ulteriori «omicidi», se non assassinii, alla Eluana. Perché, nell’autorevole dire del cardinale Bagnasco (presidente della Conferenza episcopale italiana, e cioè dei nostri vescovi), non è accettabile «un diritto di libertà tanto inedito quanto raccapricciante: il diritto di morire ». Ma «raccapricciante» è invece per me la tesi del cardinale. Come è ovvio, i miei diritti di libertà sono limitati e delimitati dai diritti di libertà degli altri. Cioè, io sono libero finché non invado e danneggio la libertà altrui. E viceversa. L’unica eccezione, l’unico diritto di libertà assoluto, che spetta soltanto a me perché è soltanto «solitario», è il mio diritto di morire (di morte naturale) come scelgo. Pertanto la novità, l’inedito, è che si vuole persino negare la libertà di morire senza inutili sofferenze e prolungate agonie. Sia chiaro: questa imposizione, questa illibertà, esisterebbe solo da noi. Dal che ricavo che il testamento biologico «alla Vaticana» dovrebbe essere rispedito al mittente. Libera Chiesa nel suo libero Stato. Aggiungi che la partita non è — come ha ben precisato Massimo Salvadori — tra cattolici e laici. È, piuttosto, tra un rinato sanfedismo, un fideismo che acceca la ragione e, dall’altro lato, tutte le persone, laiche o cattoliche che siano, che vogliono decidere da sé sulla propria sorte, o, se si vuole, malasorte. Giovanni Sartori 16 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. L'anomalia di quel lodo Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2009, 06:32:32 pm LA LEGGE ALFANO E LA CORTE
L'anomalia di quel lodo Poco più di sette anni fa — era il 2002 — scrivevo dell'immunità parlamentare e avanzavo una proposta: «consentire al parlamentare di scegliere tra sottomettersi al giudizio della magistratura o invocare l'immunità. Però nel secondo caso non si potrà ripresentare alle elezioni e dovrà affrontare, a mandato scaduto, il corso della giustizia. Questa proposta protegge il rappresentante nell'esercizio delle sue funzioni ma non consente a nessuno di sfuggire alla giustizia per tutta la vita. Immunità sì; ma non un’immunità che trasformi le Camere in un santuario di indiziati in altissimo odore di colpevolezza». Va da sé che questa proposta non fu accolta. Venne invece approvata una legge che fu poi bocciata, nel 2004, dalla Corte Costituzionale. Così ora ci risiamo con il cosiddetto Lodo Alfano. Le novità sono due. Intanto scompare la parola immunità sostituita dalla melliflua dizione «sospensione del processo penale». In secondo luogo questa immunità (perché tale è) si applica soltanto alle più alte cariche dello Stato, e così diventa, in apparenza, «immunità salva-quattro». In apparenza, perché anche questo è un camuffamento. I presidenti delle due Camere non hanno mai chiesto un’immunità privilegiata, speciale, né si capisce perché ne abbiano bisogno, e cioè perché debbano essere insostituibili. Quanto al capo dello Stato, l'inquilino del Quirinale è già tutelato dall'articolo 90 della Costituzione, che lo rende indiziabile soltanto per «alto tradimento e per attentato alla Costituzione»; e in tal caso «è messo in stato d'accusa dal Parlamento» (non dalla magistratura). Ne consegue che la «salva- quattro» è in realtà una cortina fumogena per una leggina ad personam (davvero con fotografia) che è soltanto «salva-uno» che è soltanto salva-Cavaliere. Il fatto è che in tutte le democrazie un capo del governo viene sostituito senza drammi e senza che questo evento «possa ostacolare seriamente l'esercizio delle funzioni politicamente più elevate» (come sostiene melodrammaticamente l'Avvocatura dello Stato). Melodrammatico o no, l'argomento (discutibilissimo) non è un argomento giuridico. La Corte, che udirà il caso domani, dovrà soltanto valutare se il privilegio di intoccabilità a vita appetito da Berlusconi sia costituzionalmente accettabile. Già, a vita. Il Lodo parla di sospensione temporanea; ma sembra che lasci aperto, senza dare nell'occhio, un varco fatto su misura per Berlusconi. Nel testo Alfano, articolo 5, la «sospensione non è reiterabile » se applicata a successive investiture in altre cariche; ma tace su successive investiture nella stessa carica. Pertanto basta che Berlusconi si faccia sempre rieleggere presidente delConsiglioperessere salvaguardato sine die , senza termine. Intravedo già che l’onorevole avvocato Ghedini dirà proprio così. Mi chiedo se la mia proposta del 5 agosto 2002 non fosse meglio dei mostriciattoli escogitati da allora. Giovanni Sartori 05 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. La costituzione immateriale Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2009, 12:36:25 pm POTERI DEL PREMIER E REPUBBLICA PARLAMENTARE
La costituzione immateriale Uno dei quesiti messi in evidenza dalla sentenza della Corte costituzionale sul lodo Alfano è se il capo del governo sia, in Italia, un primus inter pares oppure un primus super pares . In nome della «costituzione formale» (il testo della costituzione vigente) la Corte ha ribadito che è un «primo tra pari». Ma in Italia viene invece diffusa l’idea che la costituzione formale sia oramai superata da una «costituzione materiale » per la quale Berlusconi incarna la volontà della maggioranza degli italiani; il che gli attribuisce il diritto, in nome del popolo, di scavalcare, occorrendo, la volontà degli organi che non sono eletti dal popolo (tra i quali la Corte costituzionale e il capo dello Stato). Ora, la distinzione tra costituzione formale e costituzione materiale, e cioè la prassi costituzionale, è una distinzione largamente accolta dalla dottrina. Ma si applica al caso in esame? Precisiamo bene la tesi. Intemperanze verbali a parte, la tesi di fondo di Berlusconi è che lui ha il diritto di prevalere su tutti gli altri poteri dello Stato (questione di diritto), perché lui e soltanto lui è «eletto direttamente dal popolo» (questione di fatto). Va da sé che se l’asserzione di fatto è falsa, anche la tesi giuridica che ne deriva risulta infondata. Allora, Berlusconi è davvero un premier insediato «direttamente » dalla volontà popolare? Per Ilvo Diamanti questa asserzione è «quantomeno dubbia» perché è smentita da tutti i dati dei quali disponiamo. Purtroppo è vero che sulla scheda elettorale viene indicato il nome del premier designato dai partiti (un colpo di mano che fu a suo tempo lasciato incautamente passare dal presidente Ciampi); ma il fatto resta che il voto viene dato ai partiti. Pertanto il voto per Berlusconi è in realtà soltanto il voto conseguito dal Pdl. Che ha ottenuto nel 2008 (cito Diamanti) «il 37,4% dei voti validi, ma il 35,9% dei votanti e il 28,9% degli aventi diritto. Insomma, intorno a un terzo del 'popolo'». Aggiungi che in questa maggiore minoranza (o maggioranza relativa) sono inclusi i voti di An, in buona parte ancora fedeli a Fini; e che se guardiamo agli anni precedenti FI non ha mai superato il 30%. Deve anche essere chiaro che il voto per FI, e ora per il Pdl, non equivale automaticamente ad un voto per Berlusconi. Una parte degli elettori di destra vota contro la sinistra, non necessariamente per Berlusconi. Fa una bella differenza. Dunque la tesi del popolo che si identifica, quantomeno nella sua maggioranza assoluta di almeno il 51%, con un leader che vorrebbe onnipotente (o quasi), è di fatto falsa. Chi la sostiene è un imbroglione oppure un imbrogliato. E questa conclusione è dettata dai numeri. Ciò fermato, torniamo alla costituzione materiale. In sede di Consulta gli avvocati di Berlusconi hanno sostenuto che per la costituzione vivente (come dicono gli inglesi) il principio che vale per Berlusconi è che sta «sopra », che è un primus super pares . E siccome è possibile che questa formula l’abbia inventata io in un libro del 1994, mi preme che non venga storpiata. Io l’ho usata per precisare la differenza tra parlamentarismo classico e la sua variante inglese e anche tedesca del premierato. Ma in Italia il fatto è che questa variante non è mai stata messa in pratica. E dunque in Italia non c’è differenza, a questo proposito, tra costituzione formale e costituzione materiale. Come dicevo, la tesi del premierato di Berlusconi voluto dal popolo è seppellita dai numeri. Sul punto, il punto è soltanto questo. Giovanni Sartori 31 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Il bilancio negativo di due progetti Inserito da: Admin - Novembre 13, 2009, 11:55:36 am La Repubblica dei giocattoli
Il bilancio negativo di due progetti La cosiddetta Seconda Repubblica ce la stiamo godendo da un quindicennio. Qual è il bilancio a oggi? Quando ne scriveranno gli storici a mente più distaccata della nostra, probabilmente diranno, immagino, che non ha combinato quasi nulla di costruttivo. Ha mantenuto più che altro le infrastrutture materiali e di personale della Prima, peggiorate dall’usura del tempo e dalla cattiva gestione, mentre ha brillato per l’invenzione di due «giocattoli»: il progetto Italia di Prodi e il progetto Italia di Berlusconi. Il giocattolo di Prodi è oramai esploso, come era inevitabile, uccidendo prima se stesso (il suo ultimo governo), poi Veltroni e Franceschini, così lasciando in eredità a Bersani un partito dimezzato. Mi limito a ricordare che Rutelli, alle elezioni del 2001, ottenne quasi il 43% dei suffragi, mentre oggi come oggi Bersani, senza Rutelli, non può contare su più del 20% dell’elettorato. Il fiasco del giocattolo di Prodi è davvero da manuale. Invece Berlusconi, all’inizio, nel 1994, non aveva in mente un progetto Italia; perduta la copertura di Craxi voleva soprattutto salvare il suo nascente impero mediatico. Ma ebbe subito un’idea geniale, che poi diventò il suo giocattolo: porsi come anello di congiunzione tra un Bossi e un Fini che allora neanche si salutavano. Nacque così uno strano terzetto che nel ’94 vinse le elezioni e lo insediò a Palazzo Chigi. Dopo sei mesi fu Bossi a silurarlo. Ma quindici anni dopo lo strano terzetto (modificato) è di nuovo, per la terza volta e più forte che mai, al governo. Modificato perché nel frattempo Berlusconi aveva messo a segno un altro colpo. Il progetto prodiano era stato di fondere attorno a sé tutta la sinistra. Prodi ha coltivato questo disegno per una quindicina di anni senza cavarne le gambe. Berlusconi ha contromanovrato in un giorno, e tempo un anno ha messo assieme Forza Italia e An rifuse sotto il nome di Popolo della Libertà. Con i colonnelli di Fini diventati «suoi», suoi ministri, mentre Fini viene promosso per essere emarginato. Sembrerebbe un’altra operazione geniale andata a buon fine. Tanto più che la Lega, senza volerlo, gli ha regalato una legge elettorale, il Porcellum , che gli consente di presentarsi alle elezioni da solo, di vincerle da solo, e così di ottenere grazie al premio di maggioranza, il 55% dei seggi della Camera: il che lo svincolerebbe anche dal condizionamento di Bossi. Insomma, il giocattolo del Cavaliere ha sinora funzionato a meraviglia. Eppure la costruzione berlusconiana scricchiola. Forse il Cavaliere è logorato dalla sua vita di «superman » ( ipse dixit ). Forse è logorato perché il potere logora. Ma soprattutto scricchiola perché ha incubato un problema più grande di lui. Nonostante lo sgambetto iniziale, Bossi è diventato il suo alleato di ferro. E più Bossi si rafforza, più diventa esigente. Di recente, a Venezia, ha rispolverato il suo grido di battaglia iniziale: «La Padania sarà Stato indipendente ». Non succederà; ma già il federalismo fiscale sta più che mai spaccando il Paese in due. L’Italia è sempre stata divisa tra un Nord più ricco e più pulito, e un Sud clientelare e povero. Finora il Nord ha accettato, sia pure con crescente malavoglia, di sovvenzionare il Sud. Ma perché la Sicilia deve essere più indipendente della Padania? Già, perché? Alle ultime elezioni Berlusconi in Sicilia ha stravinto. Gratis? Sicuramente no. E così la gestione scandalosa dell’autonomia siciliana continua impunita e si moltiplica risalendo la penisola. Il Sud non vuole l’indipendenza perché dipende dai soldi che riceve da Roma. Ma vuole gli stessi vantaggi che Bossi chiede per sé. Il nuovo «presidente » della Sicilia, Lombardo, è tosto; ed è un anti-Bossi in pectore. Il fatto è che quanto più Berlusconi concede a Bossi, e quanto più gli lascia spazio elettorale a Nord, di altrettanto il Pdl diventa un partito meridionalizzato che sempre più pesca i suoi voti al Sud. Ma il voto del Sud è particolarmente inquinato da mafie, clientelismo e corruzione. Non è un voto che si vince con la televisione, ma un voto che si deve pagare e comprare in loco. Pertanto i genuflessi di Montecitorio sanno che sul territorio i voti se li debbono guadagnare, e quindi rialzano il capino facendo sapere al gran capo che alla casa propria «ghe pensi mi». La cerniera Nord-Sud non tiene più, e si sta trasformando in un imprevisto boomerang. Al colmo del suo potere il Cavaliere scricchiola, mi sembra, perché è la sua Italia che si scolla. Il «progetto Berlusconi» rischia anch’esso di esplodere, o di implodere, come il progetto Prodi. Come dicevo all’inizio, forse gli storici spiegheranno come me la vicenda della Seconda Repubblica: una repubblica del nulla che però è riuscita, sia con la sinistra che con la destra, a ingigantire oltre misura il debito pubblico, a precipitare agli ultimi posti in Europa nel suo tasso di crescita, a perdere 15 punti nella produttività del lavoro, a salvare pensioni anticipate che nessun Paese si può permettere, e via di questo passo. Quanto ai prossimi (passi), io mi affido a San Gennaro. Giovanni Sartori 12 novembre 2009(ultima modifica: 13 novembre 2009)© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Senza ideali molta ruberia Inserito da: Admin - Novembre 21, 2009, 02:31:14 pm IL DEGRADO DELLA POLITICA
Senza ideali molta ruberia Francesco Alberoni scriveva giorni fa (il 20 ottobre) che «Persi gli ideali a cosa si rivolge la spinta umana? Solo al potere e al denaro». Sì: ma è utile approfondire. In primo luogo, non dobbiamo confondere ideali con ideologie. Sono cose diverse e anche nemiche. Intesi come obiettivi di valore gli ideali acquistano centralità, nella politica, con l’Illuminismo, non prima. La parola «ideologia» viene poi coniata da Destutt de Tracy nel 1796, e dunque in sul finire dell’Illuminismo, per dire «scienza delle idee»; un significato letterale che non ha attecchito e che è stato stravolto dal marxismo, per il quale l’ideologia diventa killeraggio, e cioè un pensiero che non-è-più-pensato, un ex pensiero dogmatico e fanatizzato che appunto ammazza il pensiero e le idee. Una seconda precisazione verte sul rapporto tra ideali e democrazia. Che è un rapporto strettissimo ma soltanto moderno, recente. Aristotele distingueva tra governo dell’uno, dei pochi e dei molti, e poi tra il governare nell’interesse proprio o nell’interesse comune. E per Aristotele la democrazia era il governo dei molti, o dei poveri, nel proprio interesse, e quindi un cattivo governo. Ma, attenzione, l’interesse comune che caratterizzava i buoni regimi non era, per lui, posto da ideali e tantomeno dall’ideale della libertà individuale del cittadino. Hobbes lo precisava lapidariamente: «Ateniesi e Romani erano liberi, e cioè le loro città erano libere». La grossa differenza è che il mondo antico su su fino al Rinascimento non si proiettava verso il futuro ma si poneva come un aumento, una crescita, delle origini. Alla stessa stregua non era «giovanilista»: l’autorità, la auctoritas, spettava alla saggezza degli anziani. Questa visione del mondo venne rovesciata dal Romanticismo «scoprendo la storia» come una dinamica innovativa che porterà man mano a configurare la democrazia liberale come l’ottimo governo sospinto e realizzato dai suoi ideali. Il retroterra di questo sviluppo era che per la prima volta nella storia gli «esclusi» dalla politica venivano effettivamente inclusi dal suffragio universale. Ma se questa inclusione «perde gli ideali», e con essa il senso del «dovere etico», allora il buon governo democratico va alla deriva. Si è detto che la politica è la guerra con altri mezzi. Oramai sarei più incline a dire che la politica è il ladrocinio, la pappatoria, con altri mezzi. Omnia Romae cum pretio, tutto a Roma si può comprare, scriveva Giovenale. Invece oggi? Ci stupiamo che anche la sinistra venga travolta in questa frana. Ma perché? Le sue credenziali intellettuali risalgono all’immediato dopoguerra, a quando il Pci ereditò il grosso della cultura idealistica (Crociana o Gentiliana che fosse) che allora dominava in Italia. Marx «rovesciò» la filosofia idealistica di Hegel. Un secolo dopo i nostri idealisti rovesciarono, a loro volta, Croce e Gentile e si ritrovarono, senza alcuno sforzo, marxisti. Ma il Pci del Migliore era, di suo, spietato cinismo di potere nei vertici, e un partito di ideologia (non di ideale) nel suo apparato. E una volta usciti di scena gli idealisti marxisti, a loro sono subentrati, come nucleo dirigente del Pci, gli addestrati alle Frattocchie; addestrati, appunto, al killeraggio ideologico, e per ciò stesso largamente incapaci di ripensarsi e di pensare ex novo. Il che lascia il Pd (oggi di Bersani) come un gruppo di potere— con nobili eccezioni, si intende — altrettanto cinico e baro dei gruppi di potere al potere. Giovanni Sartori 21 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Non giochiamo con il fuoco Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2009, 04:00:11 pm LA CONFERENZA SUL CLIMA
Non giochiamo con il fuoco Dicono i medici che il paziente ha la polmonite. Rispondono i congiunti: anche se è vero non abbiamo soldi per curarlo e nemmeno siamo d’accordo sulla terapia. Allora lo lasciamo morire? Risposta: forse se la caverà, intanto speriamo. Il paziente in questione è la Terra, e i congiunti al suo capezzale sono i cosiddetti «grandi» della Terra, che si riuniscono a Copenaghen da lunedì 7 dicembre per un vertice sul clima che suscitava molte speranze e che invece già nasce mezzo morto. Finalmente gli Stati Uniti hanno un presidente consapevole dell’incombente collasso ambientale; ma Obama è andato in Cina, e la Cina lo blocca. Subito dopo l’India torna a farci sapere che non è per niente pronta a portarsi bene. Figurarsi tutti gli altri Paesi a «sviluppo ritardato». Se l’India deve ancora crescere (prima di preoccuparsi di altre inezie come il destino dei monsoni), figurarsi loro. Perché non riusciamo a sfondare? È perché siamo impiombati, oltre che da vischiosissimi interessi costituiti, da un mare di pretesti senza capo né coda. Per dirne una, la tesi che i Paesi sottosviluppati devono essere risarciti per quel passato durante il quale gli «sviluppati » li hanno inquinati. Ma quando mai? Come si fa a sostenere che una persona è responsabile di avere trasmesso l’Aids prima che fosse scoperto? Alla stessa stregua, quando la società industriale fece proliferare le ciminiere alimentate a carbone nessuno sapeva che quelle ciminiere avrebbero minacciato il clima. Nel 1968 Paul Ehrlich denunziava l’esplosione demografica (a ragione), ma nemmeno lui sapeva della bomba ecologica. E lo stesso vale, a metà degli anni 70, per Aurelio Peccei e il Club di Roma, che concentrò la sua attenzione sulla limitazione delle risorse, non su un collasso ecologico che la scienza non aveva ancora captato. Dunque, nessuno può essere ritenuto responsabile di un evento non voluto e non previsto. Eppure assistiamo allo spettacolo di un Occidente piagnone che si sente «colpevole» e promette risarcimenti non dovuti pagati con soldi che, tra l’altro, non ha. Ma passiamo al punto cruciale: la contabilità, come si conta che cosa. Oggi i Paesi che inquinano di più sono, nell’ordine, Cina, Stati Uniti, India. Ma Cina e India obiettano, a loro difesa, che chi sporca e spreca di più sono, pro capite, individuo per individuo, gli americani. Vero. Ma irrilevante. L’inquinamento è globale, aleggia su tutto il pianeta nel suo insieme. Pertanto quel che conta è il totale, soltanto il totale, delle emissioni inquinanti. La Cina (e l’India seguirà presto) fa più danno inquinante di tutti perché i cinesi sono un miliardo e trecento milioni. Che poi, singolarmente presi, siano più frugali degli americani, non sposta il problema di un millimetro. E il fatto resta che se negli ultimi 50 anni le emissioni di Co2 dei Paesi ricchi sono raddoppiate, quelle dell’India sono decuplicate. Ma non è più tempo di recriminare e di mercanteggiare. Chi arriva a Copenaghen con questi intenti vuole il male di tutti e anche il male proprio. di Giovanni Sartori 06 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. L'integrazione degli islamici Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2009, 03:48:55 pm LE NUOVE REGOLE PER L’IMMIGRAZIONE
L'integrazione degli islamici In tempi brevi la Camera dovrà pronunciarsi sulla cittadinanza e quindi, anche, sull’«italianizzazione » di chi, bene o male, si è accasato in casa nostra. Il problema viene combattuto, di regola, a colpi di ingiurie, in chiave di «razzismo». Io dirò, più pacatamente, che chi non gradisce lo straniero che sente estraneo è uno «xenofobo», mentre chi lo gradisce è uno «xenofilo ». E che non c’è intrinsecamente niente di male in nessuna delle due reazioni. Chi più avversa l’immigrazione è da sempre la Lega; ma a suo tempo, nel 2002, anche Fini firmò, con Bossi, una legge molto restrittiva. Ora, invece, Fini si è trasformato in un acceso sostenitore dell’italianizzazione rapida. Chissà perché. Fini è un tattico e il suo dire è «asciutto»: troppo asciutto per chi vorrebbe capire. Ma a parte questa giravolta, il fronte è da tempo lo stesso. Berlusconi appoggia Bossi (per esserne appoggiato in contraccambio nelle cose che lo interessano). Invece il fronte «accogliente» è costituito dalla Chiesa e dalla sinistra. La Chiesa deve essere, si sa, misericordiosa, mentre la xenofilia della sinistra è soltanto un «politicamente corretto» che finora è restato male approfondito e spiegato. Due premesse. Primo, che la questione non è tra bianchi, neri e gialli, non è sul colore della pelle, ma invece sulla «integrabilità » dell’islamico. Secondo, che a fini pratici (il da fare ora e qui) non serve leggere il Corano ma imparare dall'esperienza. La domanda è allora se la storia ci racconti di casi, dal 630 d.C. in poi, di integrazione degli islamici, o comunque di una loro riuscita incorporazione etico-politica (nei valori del sistema politico), in società non islamiche. La risposta è sconfortante: no. Il caso esemplare è l’India, dove le armate di Allah si affacciarono agli inizi del 1500, insediarono l’impero dei Moghul, e per due secoli dominarono l’intero Paese. Si avverta: gli indiani «indigeni» sono buddisti e quindi paciosi, pacifici; e la maggioranza è indù, e cioè politeista capace di accogliere nel suo pantheon di divinità persino un Maometto. Eppure quando gli inglesi abbandonarono l’India dovettero inventare il Pakistan, per evitare che cinque secoli di coesistenza in cagnesco finissero in un mare di sangue. Conosco, s’intende, anche altri casi e varianti: dalla Indonesia alla Turchia. Tutti casi che rivelano un ritorno a una maggiore islamizzazione, e non (come si sperava almeno per la Turchia) l’avvento di una popolazione musulmana che accetta lo Stato laico. Veniamo all’Europa. Inghilterra e Francia si sono impegnate a fondo nel problema, eppure si ritrovano con una terza generazione di giovani islamici più infervorati e incattiviti che mai. Il fatto sorprende perché cinesi, giapponesi, indiani, si accasano senza problemi nell’Occidente pur mantenendo le loro rispettive identità culturali e religiose. Ma — ecco la differenza — l’Islam non è una religione domestica; è invece un invasivo monoteismo teocratico che dopo un lungo ristagno si è risvegliato e si sta vieppiù infiammando. Illudersi di integrarlo «italianizzandolo » è un rischio da giganteschi sprovveduti, un rischio da non rischiare. Giovanni Sartori 20 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Una replica ai pensabenisti sull'Islam Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2010, 10:20:58 am Il dibattito
Una replica ai pensabenisti sull'Islam di Giovanni Sartori Il mio editoriale del 20 dicembre «La integrazione degli islamici» resta attuale perché la legge sulla cittadinanza resta ancora da approvare (alla Camera). Nel frattempo altri ne hanno discusso su questo giornale. Tra questi il professor Tito Boeri mi ha dedicato (Corriere del 23 dicembre) un attacco sgradevole nel tono e irrilevante nella sostanza. Il che mi ha spaventato. Se Boeri, che è professore di Economia del lavoro alla Bocconi e autorevole collaboratore di Repubblica, non è in grado di capire quel che scrivo (il suo attacco ignora totalmente il mio argomento) e dimostra di non sapere nulla del tema nel quale si spericola, figurarsi gli altri, figurarsi i politici. Il Nostro esordisce così: «Dunque Sartori ha deciso che gli immigrati di fede islamica non sono integrabili nel nostro tessuto sociale, non devono poter diventare cittadini italiani». In verità il mio articolo si limitava a ricordare che gli islamici non si sono mai integrati, nel corso dei secoli (un millennio e passa) in nessuna società non-islamica. Il che era detto per sottolineare la difficoltà del problema. Se poi a Boeri interessa sapere che cosa «ho deciso», allora gli segnalo che in argomento ho scritto molti saggi, più il volume «Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei» (Rizzoli 2002), più alcuni capitoletti del libriccino «La Democrazia in Trenta Lezioni » (Mondadori, 2008). Ma non pretendo di affaticare la mente di un «pensabenista», di un ripetitore rituale del politicamente corretto, che perciò sa già tutto, con inutili letture. Mi limiterò a chiosare due perle del suo intervento. Boeri mi chiede: «Pensa Sartori che chi nasce in Italia, studia, lavora e paga le tasse per diventare italiano debba abbandonare la fede islamica?». Ovviamente non lo penso. Invece ho sempre scritto che le società liberal- pluralistiche non richiedono nessuna assimilazione. Fermo restando che ogni estraneo (straniero) mantiene la sua religione e la sua identità culturale, la sua integrazione richiede soltanto che accetti i valori etico-politici di una Città fondata sulla tolleranza e sulla separazione tra religione e politica. Se l’immigrato rifiuta quei valori, allora non è integrato; e certo non diventa tale perché viene italianizzato, e cioè in virtù di un pezzo di carta. Al qual proposito l’esempio classico è quello delle comunità ebraiche che mantengono, nelle odierne liberaldemocrazie, la loro millenaria identità religiosa e culturale ma che, al tempo stesso, risultano perfettamente integrate nel sistema politico nel quale vivono. Ultima perla. Boeri sottintende che io la pensi come «quei sindaci leghisti» eccetera eccetera. No. A parte il colpo basso (che non lo onora), la verità è che io seguo l’interpretazione della civiltà islamica e della sua decadenza di Arnold Toynbee, il grande e insuperato autore di una monumentale storia delle civilizzazioni (vedi Democrazia 2008, pp. 78-80). Il mio pedigree di studioso è in ordine. È quello del mio assaltatore che non lo è. Il Corriere ha poi pubblicato il 29 dicembre le lettere di due lettori i quali, a differenza del professor Boeri, hanno capito benissimo la natura e l’importanza del problema che avevo posto, e che chiedevano lumi a Sergio Romano. Ai suoi «lumi» posso aggiungere il mio? Romano, che è accademicamente uno storico, fa capo alle moltissime variabili che sono in gioco, ai loro molteplici contesti, e pertanto alla straordinaria complessità del problema. D’accordo. Ma nelle scienze sociali lo studioso deve procedere diversamente, deve isolare la variabile a più alto potere esplicativo, che spiega più delle altre. Nel nostro caso la variabile islamica (il suo monoteismo teocratico) risulta essere la più potente. S’intende che questa ipotesi viene poi sottoposta a ricerche che la confermano, smentiscono e comunque misurano. Ma soprattutto si deve intendere che questa variabile «varia», appunto, in intensità, diciamo in grado di riscaldamento. Alla sua intensità massima produce l’uomo- bomba, il martire della fede che si fa esplodere, che si uccide per uccidere (e che nessuna altra cultura ha mai prodotto). Diciamo, a caso, che a questo grado di surriscaldamento, di fanatismo religioso, arrivano uno-due musulmani su un milione. Tanto può bastare per terrorizzare gli infedeli, e al tempo stesso per rinforzare e galvanizzare l’identità fideistica (grazie anche ai nuovi potentissimi strumenti di comunicazione di massa) di centinaia di milioni di musulmani che così ritrovano il proprio orgoglio di antica civiltà. Ecco perché, allora, l’integrazione dell’islamico nelle società modernizzate diventa più difficile che mai. Fermo restando, come ricordavo nel mio fondo e come ho spiegato nei miei libri, che è sempre stata difficilissima. da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. No al multiculturalismo ideologico Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2010, 05:06:37 pm NOI E L’ISLAM
Il pluralismo valorizza la diversità No al multiculturalismo ideologico A quanto pare il tema della cittadinanza agli islamici è sentito. Il Corriere ha selezionato ieri 11 lettere, ricavate da un totale di quasi 450 accolte su 23 pagine di Internet. Ne ignoro la distribuzione. Ma un mio amico ha calcolato che più della metà di queste lettere sono a mio favore, e che le altre sono per lo più divagazioni ondeggianti tra il sì e il no. Grazie a tutti, anche perché ho così modo di estendere il discorso (seppure complicandolo un po’). Primo. Non si deve confondere tra il multiculturalismo che esiste in alcuni Paesi, che c’è di fatto, e il multiculturalismo come ideologia, come predicazione di frammentazione e di separazione di etnie in ghetti culturali. Per esempio la Svizzera è oggi, di fatto, un Paese multiculturale che funziona bene come tale, anche se il lieto fine ha richiesto addirittura una guerra intestina. Invece Belgio e Canada sono oggi due Paesi bi-culturali in difficoltà, specie il primo. Anche la felix Austria fu, sotto gli Asburgo, un grande Stato multiculturale che però si è subitamente disintegrato alla fine della prima guerra mondiale. Comunque, i casi citati sono o sono stati multiculturali di fatto. Il multiculturalismo ideologico di moda è invece una predicazione che distrugge il pluralismo e che va perciò combattuta. Secondo. Contrariamente a quanto scritto da alcuni lettori, è il pluralismo che valorizza e pregia la diversità. Ma una diversità fondata su cross-cutting cleavages, su affiliazioni e appartenenze che si incrociano, che sono intersecanti, e non, come nel caso dell’ideologia multiculturale, da affiliazioni coincidenti che si cumulano e rinforzano l’una con l’altra. Pertanto è sbagliato, sbagliatissimo, raccontare che ormai viviamo tutti in società multiculturali, e che questo è inevitabilmente il nostro destino. Invece sinora viviamo quasi tutti, nell’Occidente, in società pluralistiche in grado di assorbire e di gestire al meglio l’eterogeneità culturale. Attenzione, allora, a non attribuire al multiculturalismo pregi che sono invece del pluralismo. Terzo. Un’altra confusione da evitare è tra conflitti religiosi e conflitti etnici. Questi ultimi sono purtroppo eterni e ricorrenti. Lo sono anche, tra l’altro, all’interno del mondo musulmano. Per esempio gli iraniani sono etnicamente persiani, non arabi; e la comune fede islamica non ha impedito, di recente, una sanguinosissima guerra tra l’Iraq di Saddam Hussein e l’Iran degli ayatollah. Le religioni possono invece coesistere pacificamente ignorandosi l’una con l’altra. Si combattono quando sono «calde», invasive, fanatizzate; non altrimenti. Quarto. Qual è il vero Islam? Gli intellettuali musulmani accasati in Occidente si affannano quasi tutti a spiegare che non è quello propagandato dai fondamentalisti. Anche io ho letto, ovviamente, il Corano, che è simile all’Antico Testamento nel suggerire tutto e il suo contrario. Ma il fatto è che gli islamisti contrari al fondamentalismo hanno voce e peso soltanto con gli occidentali. Il diritto islamico viene stabilito, nei secoli, dai dottori della legge, gli ulama. Sono loro a stabilire quali sono, o non sono, gli sviluppi conformi alla dottrina coranica; e anche in Occidente il comportamento dei fedeli è dettato, ogni venerdì, nella moschea dal discorso del Khateb che accompagna la preghiera pubblica. La moschea, si ricordi, non è solo un luogo di culto, una chiesa nel nostro significato del termine, è anche la città-Stato dei credenti, la loro vera patria. Quinto. I rimedi. Tutti si chiedono quali siano, eppure sono ovvi. È stato il bombardamento del «politicamente corretto» che ce li ha fatti dimenticare o dichiarare superati. A suo tempo i tedeschi accolsero milioni di turchi come «lavoratori ospiti»; noi avevamo e abbiamo i permessi di soggiorno a lunga scadenza; gli Stati Uniti concedono agli stranieri la residenza permanente. Sono tutte formule che si possono, se e quando occorre, migliorare e «umanizzare». Ma sono certo preferibili alla creazione del cittadino «contro-cittadino» che, una volta conseguita la massa critica necessaria, crea e vota il suo partito islamico che rivendica diritti islamici se così istruito nelle moschee. Non dico che avverrà; ma se il fondamentalismo si consolida, potrebbe avvenire. È un rischio che sarebbe stupido correre. O almeno a me così sembra. Giovanni Sartori 07 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Il Presidente guerriero Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2010, 03:44:03 pm GLI INTERVENTI MILITARI DI OBAMA
Il Presidente guerriero Nel suo primo messaggio sullo stato dell'Unione il presidente Obama ha lasciato la politica estera in sordina ma ha ribadito, a proposito dell'Afghanistan, il progetto che sappiamo: nuove truppe oggi ma inizio del loro ritiro a metà del 2011. Capisco che questa logica distorta (se annunzi che te ne vai perdi più che mai) sia imposta dall’impopolarità della guerra, di qualsiasi guerra. La guerra è di per sé orribile. L'Occidente (salvo eccezioni balcaniche) lo ha capito e ne è profondamente convinto. Ma non è sempre evitabile. E dobbiamo tutti cominciare a capire che la guerra che resta inevitabile sarà diversissima da tutte le guerre che sono state combattute dall'inizio dei tempi. Le vecchie guerre venivano combattute da eserciti identificabili per conquiste territoriali e anche per bottino, per saccheggio. È solo da pochi secoli che il bottino è venuto meno, ed è solo dopo le due ultime guerre mondiali che la conquista territoriale ha perduto senso. Ciò premesso, qual è il senso, oggi, della classica distinzione tra guerra giusta e guerra ingiusta? Mi dispiace per i «ciecopacisti» — i pacifisti accecati dalla loro ossessione — ma un Paese che si difende dall'attacco di un altro Paese combatte una guerra giusta. Però la nozione di guerra giusta non include soltanto la guerra difensiva. Per esempio una guerra che si propone di abbattere un tiranno e di instaurare la democrazia è una guerra giusta? Questa è sempre stata l'ideologia missionaria degli Stati Uniti invocata da ultimo dal presidente Bush jr per giustificare, in mancanza di meglio, l'assalto all'Iraq. Ma è una dottrina che non ci possiamo più permettere; senza contare che in moltissimi casi è destinata a fallire. Nel caso dell'Iraq il successo è stato di abbattere un tiranno sanguinario e pericoloso per tutti; ma il «successo democratico » di quella guerra è molto dubbio. E in Afghanistan? Anche lì guerra giusta per imporre democrazia? Per carità, scordiamocene. Lì si tratta di pura e semplice guerra necessaria resa obbligatoria ai fini della salvezza di tutto l'Occidente. Per decenni abbiamo temuto l'annientamento nucleare. Ma il pericolo delle armi atomiche è fronteggiabile. E comunque il pericolo maggiore è diventato quello delle armi chimiche e batteriologiche «tascabili». Qui la cattiva notizia è che mezzo chilo di tossina botulinica potrebbe uccidere un miliardo di persone. E l'Afghanistan conquistato (riconquistato) dai talebani, e al servizio di Al Qaeda, pone questo problema. Pertanto scappare non è una soluzione. Ma è anche vero che la guerra come viene combattuta oggi in Afghanistan, la guerra di occupazione e controllo del territorio contro un nemico invisibile, non può essere vinta. Il problema è nuovo e impone soluzioni nuove. L'alternativa, propongo, è di abbandonare il territorio e di creare una zona militare fortificata (senza popolazione civile al suo interno) in grado di controllare e di distruggere dall'alto, con i droni militari americani, qualsiasi installazione sospetta di produzione di armi chimiche e batteriologiche. Questa «fortezza» dovrebbe essere collocata al confine con il Pakistan. E il punto è, in generale, che la tecnologia per difenderci dalla nuova tecnologia del terrorismo esiste. I generali, si dice, sono preparati a combattere la guerra del passato. Occorrono generali che si preparino alle guerre necessarie del futuro. Giovanni Sartori 29 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Multiculturalismo e cattivo vicinato Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2010, 05:41:41 pm L’ESEMPIO AMERICANO NON CI SERVE
Multiculturalismo e cattivo vicinato L’Europa è caratterizzata da secoli da popolazioni stanziali, stabili, e dotate di una propria identità linguistica e culturale. Dal Settecento il Vecchio Mondo ha generato molti emigrati e accolto pochi immigrati. Il mestiere di come accoglierli e di come incamerarli è un mestiere che non conosciamo. Ed ecco che d’un tratto veniamo inondati da immigrati di ogni sorta in gran parte provenienti da «altri mondi», da mondi che sentiamo estranei. Il problema è, allora, di estraneità e di vicinanza. L’uomo è un animale sociale che vive raggruppato in tribù, in villaggi, in città. Quindi tutti noi abbiamo un vicino, dei vicini; e tutti noi cerchiamo un «buon vicinato» costituito da persone che sono un po’ come noi, o comunque non troppo diverse da noi. Il troppo diverso, l’estraneo, è scomodo e ci fa anche paura. Che fare? Come fare? Per i faciloni il problema è semplice: faremo come gli Stati Uniti. Ma l’esempio non ci aiuta. Il Vecchio Mondo è da gran tempo uno spazio pieno occupato, dicevo, da popolazioni stanziali. Il Nuovo Mondo era uno spazio vuoto colmato soltanto da immigrati che nel corso di due generazioni si sono largamente integrati nella loro «terra promessa». Ma anche lì gli inizi non sono stati facili. Pur essendo quasi tutti europei (niente islamici), i nuovi arrivati si sono tutti «ghettizzati» nel senso che si sono messi assieme nelle loro «piccole città» (little Italy e analoghi). In parte era perché non conoscevano la lingua del Paese nel quale si accasavano; ma era soprattutto perché così «stavano assieme», così ristabilivano un vicinato familiare. Queste piccole città etniche si sono in parte dissolte tempo un secolo (salvo eccezioni, come più di tutti i cinesi), ma si sono dissolte abbastanza rapidamente perché gli Stati Uniti sono un Paese di altissima mobilità sociale e di lavoro. Un americano cambia casa e località anche sei-sette volte; e ogni volta si deve rifare un vicinato, collegarsi e legarsi con nuovi neighbours, nuovi confinanti. Il che produce e assicura una miriade di piccole comunità funzionali di vicini compatibili. Ovviamente il problema è tutto diverso in Europa. Gli europei sono da gran tempo residenti fissi. Hanno cambiato molti sovrani (i territori passavano da un monarca all’altro anche per matrimonio e eredità); ma gli abitanti restavano e vivevano nei loro borghi e città per secoli e secoli. Arrivavano anche a combattersi; ma si conoscevano e si somigliavano. Successivamente le recenti megalopoli hanno semmai creato una «folla solitaria» (così David Riesman) che però non è una folla di dissimili ma semmai di vicini indifferenti. Un primo punto è, allora, che non dobbiamo confondere il problema dell’integrazione politica dell’immigrante con il diverso problema di come e dove accasarli. Una cosa è il «cattivo cittadino» (che per esempio rifiuta la democrazia e preferisce una teocrazia), e altra cosa è il «cattivo vicino» che crea una convivenza invivibile tra chi c’era prima e chi sopraggiunge. Va da sé che il problema è aggravato dal fatto che i nuovi immigrati sono diventati troppo rapidamente troppi (il prefetto di Milano ricordava l’altro giorno che gli stranieri sono aumentati, dal 1980, da 3 mila a 400 mila). Ma è ancor più aggravato dalla confusione delle idee. Per la teoria-ideologia del multiculturalismo ogni cultura si dovrebbe separare dalle altre creando così «identità mono-culturali». Pertanto questa soluzione produrrebbe ghetti davvero blindati che bloccherebbero qualsiasi integrazione. Ma quel che di fatto avviene negli insediamenti italiani (e anche nelle periferie parigine) è il caos multiculturale, l’ammucchiata di ogni sorta di estranei che sono anche estranei tra di loro. A Milano l’assassinato di via Padova era un egiziano (regolare), gli aggressori latino-americani di Santo Domingo. Ma nei quartieri conquistati dagli allogeni c’è di tutto, ivi inclusi molti africani e tutti— alla prima rissa— l’un contro l’altro armati. Fa ridere, o piangere, che siffatte situazioni di disastrosa disgregazione sociale vengano acclamate come l’avvento di un glorioso futuro multietnico e multiculturale. Che fare? Il primo passo sarebbe di invitare i suddetti laudatori a trasferirsi in via Padova (dove tra l’altro, le case degli italiani sono in svendita: davvero un affare). Poi si potrà cominciare a ragionare. Giovanni Sartori 21 febbraio 2010 da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. HIMALAYA BENE IL RESTO MALE Inserito da: Admin - Marzo 08, 2010, 10:26:38 am DATI FALSI ED EMERGENZA AMBIENTALE
HIMALAYA BENE IL RESTO MALE Himalaya bene, il resto male. L'ultima novità ecologica è che i ghiacciai dell'Himalaya non si sciolgono più, che questa previsione dell’Ipcc (l'organizzazione che studia per l'Onu l'effetto serra) è stata sbagliata di grosso. E molti gongolano. Per l'India gongolo anch'io, perché senza l'acqua dei ghiacciai che alimentano i suoi maggiori fiumi centinaia di milioni di persone rischierebbero di morire di fame e di sete. Ma se anch'io sono lieto per l'India, è esageratissimo ricavare da questo episodio che la scienza «non sa», che vanta un sapere che non possiede, e anche che cerca di imbrogliare. Che esistano ricercatori che falsano i dati per fare carriera è noto a tutti. Ma di regola le frodi scientifiche sono facili da scoprire perché le scienze sono tali in quanto consentono la replicabilità delle ricerche. Il Signor Tizio ci dica come ha fatto, e il signor Caio farà la riprova. Torniamo all'Himalaya. Qual è stato l'errore? È stato, in linea di principio, di attribuire una data, una scadenza temporale, a un trend, a un andamento di fondo. Essendo un po' del mestiere, io evito sempre di citare date e scadenze; registro soltanto linee di tendenza. Alcune delle quali sono, in ecologia, certe, anche certissime. Per esempio è certissimo che respiriamo aria sempre più inquinata. È meno certo, invece, se il surriscaldamento della Terra sia lineare e quali siano i fattori che lo possano rallentare. Dico rallentare perché se l'Himalaya tiene, l'Artico è tuttora in rapido scioglimento. È anche certissimo che le risorse naturali, a cominciare dal petrolio, finiranno. Quando? Non si sa, non è sicuro. Ma è sicuro che la tecnologia le potrebbe rimpiazzare per i 2 miliardi di viventi di quando io nascevo, ma non certo per i 9 miliardi di formiche umane previste dai demografi per la metà di questo secolo. Senza contare che lo «sviluppismo » frenetico predicato dagli economisti ci prevede anche tutti egualmente benestanti in tutto il mondo. Mettiamo allora che la Cina, diventata opulenta come noi, consumi (è un calcolo che è stato fatto) trenta volte più di oggi. In tal caso il conteggio demografico sarebbe da moltiplicare per la quantità di consumo pro capite. Fantascienza? A questo punto sì. Anche perché a quel punto saremo, o saremmo, tutti estinti. Fantasticherie economiche a parte, il punto serio, e anche certissimo, sul quale tutti sorvolano è la scarsità dell'acqua. Che già manca endemicamente in Africa (specialmente all'Est), ma anche altrove. Come si sa, circa il 70-80 per cento dell'acqua dolce è assorbito dall’agricoltura; un assorbimento che può essere ridotto adottando colture che richiedono meno acqua. Anche così il problema resta drammatico perché da tempo consumiamo in eccesso acqua di falda che non si ricostituisce. di GIOVANNI SARTORI 08 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. IL TRIENNIO DI BOSSI E BERLUSCONI Inserito da: Admin - Aprile 02, 2010, 08:59:53 pm IL TRIENNIO DI BOSSI E BERLUSCONI
Uno scenario complicato Le elezioni dell’altro giorno pongono parecchi problemi, o anche problemoni, ai tre anni «tranquilli» (senza elezioni) durante i quali Berlusconi continuerà a governare. E’ chiaro che il Cavaliere resta in sella; ma indebolito nei confronti di Bossi, anche perché il suo partito, il Pdl, diventa sempre più un partito «meridionalizzato» e per ciò stesso in inevitabile rotta di collisione contro il federalismo fiscale della Lega. Beninteso, questi non sono problemi che toccano personalmente il Cavaliere. E quindi non sono, per lui, problemi veri, problemi seri. La Lega lo incalza sul federalismo (non solo fiscale ma anche nazionale)? Berlusconi concederà il concedibile senza alcuna sofferenza. Il Vaticano invade sempre più la sfera del «libero Stato» (in libera Chiesa)? Il Cavaliere è notoriamente persona molto devota (bacia, forse per sbaglio o per lunga abitudine, persino l’anello di Gheddafi); e quindi anche qui nessun problema. Il gran capo si risente solo quando è accusato di non saper governare. Ohibò, questo no. La verità è che i giudici e una cattiva Costituzione che lo intralcia da mattina a sera gli impediscono di governare. Ma ora basta. Ora chiederà (Bossi consenziente) il presidenzialismo, da lui inteso all’ingrosso come il pieno potere di fare quel che vuole, e contestualmente metterà finalmente la mordacchia alle «toghe rosse». Dopodiché tutti vedranno quale sia la sua statura di uomo di governo. Ma se il capo dei capi prevede per sé una navigazione trionfale, o comunque senza più problemi che lo infastidiscano personalmente, le opposizioni non possono negare di essere nei guai. Sono nei guai in parte perché sono state variamente ammaccate o sconfitte. La sinistra può esibire, è vero, due vincitori: Di Pietro e Vendola. Ma sono entrambi vincitori scomodi, quantomeno per il Pd. Vendola sposta la sinistra a sinistra, mentre alla sinistra occorrono soprattutto elettori di centro-sinistra. Invece Di Pietro carica sempre a testa bassa; e sempre è troppo spesso. Però la sinistra è nei guai soprattutto perché è gestita da menti confuse. Primum vivere, si è sempre detto. Ma il Porcellum, la legge elettorale vigente, promette di renderla un quasi-defunto perpetuo. Il Porcellum attribuisce un premio di maggioranza del 55% dei seggi a chi ottiene la maggioranza relativa dei voti. Così è già sicuro che nel 2013 Berlusconi più Bossi vincerebbero, con il Porcellum, una comoda maggioranza di governo. Pertanto l’interesse prioritario di tutte le opposizioni è di battersi per un sistema elettorale meno iniquo. Ma Bersani ci fa soltanto sapere, di passata, che lui vedrebbe bene un ritorno al Mattarellum (ricorderete: un sistema uninominale per il 75% dei seggi). Sarebbe, per il Pd, passare dalla padella nella brace. Perché non punta, invece, sul sistema tedesco tenacemente chiesto da Casini? E’ che per Bersani il problema pare che sia di ammazzare il «centrino» di Casini. Invece è, dovrebbe essere, di salvare se stesso. Come dicevo, primum vivere. Poi, sul resto, si vedrà. Giovanni Sartori 02 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. PERCHE’ E’ PREFERIBILE IL MODELLO FRANCESE Inserito da: Admin - Aprile 09, 2010, 09:09:36 am PERCHE’ E’ PREFERIBILE IL MODELLO FRANCESE
Presidenzialismi vari e sbagliati Dico presidenzialismi (al plurale) perché ne esiste più di uno, ai quali si aggiungono poi presidenzialismi fasulli inventati dall'ignoranza dei politici e dal pressappochismo crescente dei giornalisti. Per esempio molti chiamano il regime berlusconiano un «presidenzialismo». No: non c'entra per niente. Altri ritengono che un sistema è presidenziale se e quando il capo dello Stato è eletto direttamente dal popolo. Ancora no: non è così. In Irlanda, Islanda e Austria, per esempio, il capo dello Stato è eletto direttamente ma i presidenti in questione sono «di facciata» (cito il politologo francese Maurice Duverger, che se ne intende). Il sistema presidenziale fu inventato dai costituenti americani di Filadelfia perché a loro mancava il re, mancava il monarca (e nel Settecento tutti i grandi stati erano dinastici); e per quanto successivamente adottato in tutta l'America del Sud, lì il modello degli Stati Uniti ha funzionato, di regola, maluccio. Pertanto si potrebbe dire che i presidenzialismi del Nuovo Mondo sono due; e la differenza che forse più di ogni altra ha fatto la differenza è il rispettivo sistema elettorale: maggioritario negli Stati Uniti, quasi sempre proporzionale al Sud. Non lo dico per sostenere che al presidenzialismo occorra l'uninominale, ma solo per far presente che con il presidenzialismo (e probabilmente anche con tutte le democrazie che funzionano) il sistema elettorale è parte integrante e costitutiva dell’edificio. Se il presidenzialismo puro riesce a funzionare solo a Washington, se ne ricava che il semi-presidenzialismo di tipo francese è — nel contesto dei presidenzialismi — l'opzione di gran lunga preferibile. Se Fini ora appoggia davvero questa formula (finora era sempre restato nel vago), e se la Lega — che ha già il placet di Berlusconi — si è davvero convertita al semi- presidenzialismo (alla Bicamerale del 1997 lo votò non per convinzione ma per intralciare il gioco di D’Alema che allora puntava, immagino per sé, al premierato di tipo israeliano), questa soluzione è, ritengo, accettabile e difendibilissima. A condizione, beninteso, che non venga «ripastrocchiata» all’italiana (come si sta già cercando di fare). Altrimenti l’altra opzione diciamo in grande (perché esiste anche l’opzione di piccole riforme di governabilità nel contesto della Costituzione esistente) è il cancellierato di tipo tedesco. Il rifacimento costituzionale è in questo caso più modesto (visto che restiamo nell'ambito di un sistema parlamentare); ma il sistema elettorale è ugualmente decisivo e dovrebbe restare così come è in Germania: proporzionale con sbarramento al 5% non aggirabile mediante alleanze elettorali truffaldine. Anche a questo proposito sento da gran tempo ripetere che il «genio italico» non può imitare, non si deve degradare nel copiare. Stupidaggini. Il nostro Statuto Albertino del 1848 fu copiato dalla costituzione belga del 1831; e tutti i sistemi parlamentari europei dell’Ottocento furono ispirati dall’Inghilterra di allora. Se il modello tedesco ci convince, non obietto: ma deve essere tedesco, non rifatto all’amatriciana. Al Giappone sconfitto venne imposto dagli americani un costituzionalismo di tipo parlamentare; e quando gli americani se ne sono andati, quel costituzionalismo i giapponesi se lo sono tenuto. Smettiamola di essere «geniali». Non solo non lo siamo, ma è inutile esserlo quando non occorre. Se l’ombrello è già stato inventato, occorre davvero reinventare l’ombrello all’italiana? Finora ho richiamato due presidenzialismi veri e propri, più un semi-presidenzialismo che è tutt’altra cosa (difatti potrebbe anche essere detto «semi-parlamentarismo»), più il premierato parlamentare di tipo tedesco, il cancellierato. Resta l’elezione diretta del capo del governo (non, sia chiaro, del capo dello Stato) inventata in Israele e ivi rapidamente ripudiata dopo le due elezioni mal riuscite del 1996 e del 2001. Dunque il modello israeliano è stato sconfessato dai suoi inventori, e non è stato preso in considerazione da nessun altro Paese. Salvo che in Italia, che lo ha coccolato non solo prima che fallisse ma che continua a coccolarlo a tutt’oggi. Questo coccolamento deriva dal fatto che il grosso dei nostri legislatori, e del personale mediatico che li pappagalleggia, non afferra la differenza tra l’elezione diretta di un presidente (sistema presidenziale) e l’elezione diretta del capo del governo (in un sistema che resta pur sempre di tipo parlamentare). Ma purtroppo il grosso degli italiani non si interessa di queste astruserie, delle riforme costituzionali, nemmeno quando sono in cantiere. Peggio per loro. Finché sarà così si meriteranno il cattivo governo e il «malservizio» dei quali si lamentano. Giovanni Sartori 09 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Le incognite del federalismo Inserito da: Admin - Aprile 15, 2010, 03:55:40 pm QUATTRO SCENARI PER UNA RIFORMA
Le incognite del federalismo All’inizio la Lega parlava di secessione, poi è passata al federalismo, e ora dice «federalismo fiscale». L’ultima dizione è uno specchietto per le allodole? In gran parte sì. Il «fiscale» piace al Nord (che lo legge: più soldi da tenere per sé), e inoltre la qualifica di fiscale dà l’idea di un federalismo circoscritto, più modesto. Ma non è così. Se sarà, sarà completo e, temo, micidiale. Il collega Angelo Panebianco, sulle colonne di «Sette» è tranquillo. Per lui le riforme istituzionali saranno chiacchiere che non arriveranno a nessuna conclusione. Io sono meno tranquillo, confesso. A Berlusconi restano tre anni di governo per i quali non può più addurre il pretesto — anche se continua a invocarlo — di non avere il potere di governare. In realtà nessuno, dopo l’infausto regime, ne ha avuto quanto lui. Si vede che il Nostro non è forte in storia, nemmeno recente. Il fatto è però che Berlusconi non ha soldi (s’intende, soldi pubblici) e che Tremonti non glieli può dare perché, vedi caso, il fisco non piace agli italiani (Berlusconi incluso) e lascia le casse dello Stato a secco. Invece le riforme inizialmente non costano nulla, sono pezzi di carta. Dopo costeranno, ci scommetto, moltissimo. Ma après moi le déluge, dopo me venga pure il diluvio. Tra tre anni Berlusconi medita di insediarsi al Quirinale, da dove il diluvio lo può guardare al sicuro dall’alto. Intanto, ripeto, le riforme sarebbero a costo zero. I problemi sollevati dal nostro rifacimento federalistico esauriscono il mio pallottoliere. Qui li raggrupperò sotto quattro stringatissime voci. Primo, il costo finanziario: nuove sedi, nuovo personale, nuovi stipendi. Questa cosiddetta devolution quanto verrà a costare? Nessuno lo sa, nemmeno all’incirca (come è stato onestamente ammesso da Tremonti). In passato l’impavido Calderoli diceva: niente. Niente, tra l’altro, perché a suo dire il personale «federalizzato » verrà trasferito da quello statale. Si è visto. Man mano che le Regioni si consolidavano i «trasferiti» sono stati quattro gatti (salvo che da una sede romana all’altra) e contestualmente il personale centrale ha continuato a crescere. Dunque costi crescenti, sicuramente ingenti, e ignoti. In un’altra sua esternazione il faceto Calderoli ha asserito che il problema non esiste perché «tutti gli Stati federali costano meno di quelli centrali». Questa è davvero una perla. Tutti gli Stati federali in funzione, e che funzionano, sono nati federali. Pertanto non possiamo sapere quanto costavano prima quando erano (non erano) centralizzati. Secondo, i costi decisionali: quanto si allungheranno i tempi, e anche quanto aumenteranno i veti, i blocchi sui permessi di fare qualcosa. Di regola, più sono i passaggi di una pratica da una scrivania all’altra, più tempo ci vuole perché arrivi in porto. Però i costi decisionali sono anche dovuti alla incompetenza e al menefreghismo del personale che gestisce i papelli. E purtroppo il reclutamento del personale regionale è soprattutto clientelare, e anche, man mano che si scende al Sud, sfacciatamente familistico e pericolosamente infiltrato dalla malavita. Comunque sia, il punto è che il grosso delle nuove assunzioni non avviene per merito e capacità ma per alleviare la disoccupazione e allevare clientele elettorali. Federalismo clientelare? Sarebbe un bel risultato. Terzo, il costo della frammentazione localistica. Il mondo reale è sempre più interconnesso e richiede strutture diciamo «lunghe» e allungabili: strade e ferrovie di migliaia di chilometri, oleodotti e gasdotti che traversano i continenti, linee di trasmissione dell'energia davvero globali, e così via. Invece da noi, un comune blocca un traliccio elettrico (spesso solo per farsi pagare, per fare cassa), il grande Nichi Vendola blocca da anni il rigassificatore di Brindisi (per l'Italia una riserva vitale), e Firenze non riesce ad avere un aeroporto decente perché il comune limitrofo nega da sempre qualche centinaio di metri del suo preziosissimo territorio per allungare la pista. Eccetera, eccetera, eccetera. Il federalismo andrà a spezzettare un paese già troppo spezzettato. Se ne dovrebbe quantomeno discutere a fondo, sul serio. Ma la tv è imbavagliata, e la partita sembra oramai aggiudicata. Dimenticavo: gli italiani sono buoni, il nostro sarà un federalismo «solidale». Vorrei vedere prima di credere. Quarto, e brevissimo. Esiste, o può esistere, una qualsiasi organizzazione senza punizioni? La Sicilia fa da gran tempo tutto quel che vuole, eppure non è mai punita. Altrove esistono ancora i «commissariamenti»; ma andranno a sparire. Negli Stati Uniti (un sistema federale serio) la città di New York può fallire; e proprio per questo non fallisce. Ma in Italia Palermo, Napoli, Catania, saranno libere, come meriterebbero, di fallire? Oppure costringeranno le banche delle quali si andranno a impadronire, a fallire per loro? Sarei curioso di sapere dal ministro Calderoli (Bossi e Berlusconi non lo sanno di certo) se il federalismo leghista contempla sanzioni, e quali. Grazie, se ci sarà, dell'attenzione. Giovanni Sartori 15 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI... e Calderoli. Inserito da: Admin - Aprile 24, 2010, 11:32:01 pm DOPO SARTORI
Trasferire le funzioni non basta È il momento del federalismo fiscale L'intervento del ministro Calderoli Caro Direttore, i recenti editoriali di «nonno» Sartori sul federalismo partono da un presupposto sbagliato perché confonde federalismo e federalismo fiscale; non cogliendo minimamente quella che è la situazione. Sartori pone questa domanda: «nuove sedi, nuovo personale, nuovi stipendi. Questa cosiddetta devolution quanto verrà a costare? Nessuno lo sa, nemmeno all’incirca». Se la domanda è radicalmente sbagliata non merita risposta. Ma siccome insiste spieghiamo. L’Italia ormai da dieci anni è vittima di un’anomalia strutturale: il cantiere federalista è stato avviato solo a metà, trasferendo funzioni e competenze ma rimanendo invece fermo sul fronte del finanziamento, affossato in un modello di «finanza derivata». Anche nella Spagna degli Anni 80, all’indomani della nuova Costituzione con la quale furono assegnati maggiori poteri alle Comunità Autonome, mancava la responsabilità impositiva; questa dissociazione tra spending power e imposizione aveva fatto esplodere i conti pubblici. Il rimedio— e il successo — del federalismo spagnolo è stato il federalismo fiscale, poi avviato con decisione. Nell’Italia di oggi la spesa pubblica (escluse pensioni e interessi) si divide ormai a metà tra Stato e sistema delle autonomie, ma per queste ultime il potere impositivo è limitato a poco più del 10%. Si è così realizzata una forte dissociazione della responsabilità impositiva da quella di spesa. A pagare per questa situazione sono stati tutti gli italiani. Un sistema di finanza derivata finisce per premiare chi ha creato più disavanzi, favorisce una politica dell’inefficienza, mentre chi ha speso meno— perché è stato più efficiente — deve continuare a spendere e ricevere di meno. Inoltre, ha diffuso il costume dello «scaricabarile» delle responsabilità: il sindaco scarica sulla Regione le responsabilità delle sue inefficienze, la Regione accusa lo Stato di non avergli dato i soldi con una evidente confusione di responsabilità. Senza rovesciare questa dinamica e senza reali incentivi all’efficienza non si potranno creare sufficienti motivazioni per una razionalizzazione della spesa pubblica. Il federalismo fiscale è quindi il rimedio. È stato ampiamente condiviso dalle forze politiche, anche di opposizione e dalle autonomie territoriali (tutti ignoranti e irresponsabili, secondo Sartori?). La legge si fonda su due principali coordinate: la prima è quella del passaggio dalla spesa storica al costo standard e opera sul lato della spesa: si passerà dal finanziamento dei servizi in base a quanto si è speso in passato ad un finanziamento del solo costo standard. Il finanziamento in base al costo standard porta per definizione a un risparmio e a una razionalizzazione della spesa pubblica: se un servizio ha un costo effettivo di 10 euro —e fino ad oggi è stato finanziato per 15 — di sicuro risparmieremo 5 euro e in più, garantendo il finanziamento integrale, assicureremo l’esercizio dei diritti garantiti dalla Costituzione su tutto il territorio nazionale, cosa che oggi non avviene. Le maggiori risorse che si renderanno disponibili andranno a ridurre il debito pubblico, la pressione fiscale o a migliorare la qualità dei servizi. La seconda coordinata sarà l’attribuzione agli enti territoriali di un’autonomia impositiva sufficiente: gli enti disporranno di proprie entrate autonome e saranno obbligati ad essere gli attori principali della lotta all’evasione, grazie alla conoscenza che hanno del territorio. In più, i cittadini avranno a disposizione la «tracciabilità» dei tributi: sapranno non solo quanto e a chi versare, ma anche come saranno utilizzate le loro risorse. Dunque, al momento del voto saranno loro, finalmente consapevoli, in grado di premiare o sanzionare gli amministratori. Ma non solo responsabilità politica ma anche controlli e sanzioni. Gli amministratori che non rispetteranno le regole non potranno assumere personale, si vedranno bloccate le spese discrezionali, dovranno insomma ridurre le spese (perché altrimenti dovranno richiedere risorse aggiuntive ai propri amministrati). Chi causa dissesto non solo andrà a casa, ma non sarà rieleggibile ad alcuna carica. Ecco che cosa intendiamo per fallimento politico, ovvero responsabilizzazione con le buone o con le cattive. Il federalismo fiscale, da solo, però non basta per ridurre i centri di spesa. Una parte di tale riduzione l’abbiamo realizzata con il decreto legge sugli enti locali e il suo completamento si realizzerà con il Codice delle autonomie, all’esame del Parlamento, e con la prossima revisione costituzionale, necessari per definire compiutamente «chi fa che cosa» e garantire che quella cosa sia fatta da un solo soggetto. Certo è una strada in salita di cui però abbiamo percorso già un bel pezzo. Abbiamo cuore e polmoni per raggiungere la vetta. Infine, chi di Shakespeare ferisce, di Shakespeare perisce: «Il saggio sa di essere stupido, è lo stupido invece che crede di essere saggio». ministro per la Semplificazione normativa Roberto Calderoli 24 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA ----- IL DIBATTITO Ma resta il nodo dei controlli La replica a Calderoli Tira e molla, il «bambino » ministro Calderoli risponde al «nonno» (sarei io) in modo serio e civile. Grazie. La forza di essere nonni, e cioè di avere già molto visto e vissuto, è che io ho insegnato per quasi quarant’anni negli Stati Uniti, dal che consegue che del federalismo Usa so parecchio. Ho anche fatto continue visite e anche consulenze in Sudamerica, e cioè dove il federalismo funziona poco e di solito male. Non sto a chiosare il testo di Calderoli, tanto più che lui si sa spiegare bene. E so benissimo che l’impianto «quadro» del nostro federalismo fu una improvvisata (e improvvida) pensata (per vincere le elezioni) della sinistra. A suo tempo ne scrissi, come scrissi sui costi (tra i quali i costi di riconversione) che si ipotizzarono allora per poi essere abbandonati. Qui mi vorrei soffermare su un solo punto: quello dei controlli, su chi controllerà chi, e con quali strumenti di sanzione. Calderoli sa come me e come tutti che il nostro Paese è in buona parte clientelare, variamente marcio, molto corrotto e eminentemente corruttibile. Pertanto la normativa che il ministro cita sarà facilmente derogata, rinviata, modificata o anche cancellata. Se il Nostro la prende sul serio è forse perché non è abbastanza nonno, perché soffre di inesperienza giovanile. Secondo lui la lotta all’evasione (di ogni sorta e tipo) si fonderà proprio sulla «conoscenza che gli eletti hanno del territorio ». Ahimè no. Così mi raccontava mia nonna, ma da allora è un’arma spuntata che funziona solo nei piccoli comuni di poche migliaia di abitanti, dove tutti si conoscono e vedono con i loro occhi (non con gli occhiali della televisione di Minzolini e consimili) quel che succede. Ma prendiamo la Lombardia, tanto per citare un esempio diciamo normale, che è da tempo saldamente in mano di Formigoni. Se io ne fossi il governatore mi studierei bene la geografia elettorale del territorio, individuerei bene le zone e le categorie elettorali da privilegiare per vincere sempre, e del resto, degli altri, mi curerei poco o nulla. Che il voto a livello regionale metta in grado gli amministrati, i cittadini, di «premiare e sanzionare gli amministratori » è sempre meno vero. Per carità, il voto ci vuole, guai se non ci fosse. Ma oggi e sempre più dovrebbe essere integrato da «autorità di controllo» davvero indipendenti, non bloccate da infiniti ricorsi, e munite di poteri di punizione, che davvero spaventano. L’andazzo è invece (a cominciare da Palazzo Chigi) che sono i controllati che nominano i controllori che li dovrebbero controllare. Berlusconi non nasconde — anzi, lo proclama a chiarissime lettere — che cambierà anche il reclutamento della Corte costituzionale per impacchettarlo di amici suoi, di signor «sì». Tornando alle Regioni, sarebbe davvero carino se fossero i loro rispettivi presidenti a nominare chi dovrebbe controllare l’operato loro, delle loro giunte, e delle consorterie di contorno. Mi scuso con il ministro di sollevare soltanto un punto. Ma è un punto pregiudiziale. Se non viene risolto, tutto il resto sono chiacchiere e fanfaluche. Giovanni Sartori 24 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Spifferi, correnti e preferenze Inserito da: Admin - Aprile 28, 2010, 05:27:43 pm LOTTA NEI PARTITI E SCELTE DEGLI ELETTORI
Spifferi, correnti e preferenze Faccio sempre fatica, confesso, a seguire la mobilità mentale del Cavaliere. D’un tratto scopre che le correnti sono la «metastasi », il cancro dei partiti. Ma di che si preoccupa? Lui non ha mai avuto un partito che si dichiarasse partito. Il Nostro esordì con Forza Italia (esortazione sportiva per le gare all’estero) e poi inventò il Pdl, che vuol dire «popolo » (non partito) della libertà. Un po’ è che un partito vero Berlusconi non l’ha mai costruito né fatto funzionare (in Germania sarebbe da sempre fuori legge, proibito). Ma è soprattutto che i sondaggisti gli hanno spiegato che la parola partito è impopolare. Per la verità anche la sinistra si è buttata per un po’ sulla botanica (la Quercia, l’Ulivo, la Margherita); ma un sussulto di dignità l’ha riportata a chiamare partito quel che partito è. Ora ci risiamo con le cosiddette «correnti» interne di partito. Il nome viene proibito. Ma la cosa? In latino la parola che precede «partito» è stata per secoli «fazione». Poi la fazione è man mano diventata una componente interna del partito. In inglese si dice ancora faction, i tedeschi dicono Fraktion. I più melliflui democristiani hanno dolcificato fazione in «corrente ». Ma come si fa ad adoperare ancora una parola che ci compromette con un bieco passato? Io stavo meditando di proporre «spiffero». Purtroppo gli eventi mi hanno scavalcato. La sinistra ha scoperto le «fondazioni» — e quasi ogni leader ha la sua — mentre Berlusconi per una volta tanto era impreparato. Siccome sinora ha avuto un aggregato di genuflessi convocati solo per applaudirlo, ha soltanto potuto decretare, su due piedi, che non solo le correnti in casa sua sono proibite, ma che fanno male alla salute. Ma il problema per gli italiani non è questo. Forse sanno che un partito, qualsiasi vero partito, è sempre suddiviso in correnti, «spifferi», o come i sondaggisti vorranno che si dica. Né è affatto male che sia così. Il problema non è, diciamo, di pluralismo interno ma è la virulenza, slealtà e scorrettezza (o meno) con la quale si dispiega. Però il problema che oggi gli italiani più sentono è quello delle preferenze: il fatto che l’elettore non può «preferire» sulla scheda chi preferisce. A loro sentire questa è una gravissima lesione dei loro diritti. Ora, è vero che nel proporre i candidati i partiti sostanzialmente li impongono ai loro elettori. Resta però il fatto che fino al 1991 noi le preferenze multiple (tre o quattro) le abbiamo avute, e che un referendum Segni-Pannella le ha cancellate (lasciandone una sola) il 9 giugno 1991 con una travolgente maggioranza del 96 per cento dei votanti. E anche la residua preferenza unica venne poco dopo cassata a furor di popolo. Allora a che gioco giochiamo? Prima le preferenze le aboliamo, ora ci sembrano un salvatutto. Io, a suo tempo, votai contro la proposta referendaria per le preferenze multiple. E torno a spiegare perché, visto che il tema delle preferenze è collegato al tema delle «correnti» che Berlusconi proibisce. Occulti o palesi che siano, qualsiasi organizzazione si organizza in sottogruppi di potere che ambiscono al potere. Io favorivo, quando c’erano, le preferenze multiple perché consentivano accordi tra «cordate» di aspiranti atte a pacificarle. Ridurre la preferenza a una sola aggrava, invece, il cannibalismo tra le correnti. Ciò ricordato (nessuno sembra ricordarsene) mi chiedo se saremo mai coerenti e contenti. Giovanni Sartori 28 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: GIOVANNI SARTORI. Spendiamo troppo, spendiamo male Inserito da: Admin - Maggio 14, 2010, 11:10:54 pm UNA CRISI CHE NON PASSERA’ PRESTO
Spendiamo troppo, spendiamo male Fino a poco fa eravamo abbastanza tranquilli, visto che da mezzo secolo gli economisti ci avevano spiegato che un big crash, un grande collasso come quello del 1929 e anni seguenti, non poteva più accadere. Perché dagli sbagli di allora abbiamo imparato— ci è stato ripetuto a sazietà da chi se ne dovrebbe intendere — a non sbagliare più in futuro. Certo, l’andamento dei processi economici sarà sempre ciclico; certo, ci saranno sempre sbalzi, cali e rialzi; ma catastrofi no, catastrofi mai più. Si è visto. Anzi, come diceva Flaiano, il meglio è già passato. Le falle già scoperte (ce ne sono altre da scoprire) sono state tamponate inondando il mercato di liquidità. Che però sono debiti. Sissignori: sono debiti, e cioè soldi da rimborsare, soldi da restituire. Prescindo dall’ultimo impegno di mettere in campo (Unione europea, più altri) 750 miliardi di euro per fronteggiare ulteriori attacchi degli speculatori. I dati che sono già certi sono che entro il 2014 verranno in scadenza circa 700 miliardi di dollari di junk bonds, di obbligazioni spazzatura. Peggio per chi li possiede. Questi signori non sono stati ingannati, sapevano il rischio che correvano, e non mi fanno nessuna pena. Però anche questo sarà un bel problema. Ci sono poi i debiti di Stato (federali) che hanno dovuto fronteggiare i salvataggi delle banche. Questa è stata una necessità imposta dagli eventi, e può anche darsi che questa partita vada a posto meglio del previsto. Però gli imprevisti che restano sono due, e sono grossi. In primo luogo ci sono i cosiddetti sub-prime: mutui offerti a profusione dalle banche senza adeguata copertura. Non sappiamo quanti ne salteranno fuori. Certo è che gli Stati Uniti sono costellati di avvisi di vendita (svendita) di beni acquistati, diciamolo pure, per colpa delle banche. Una colpa che risale, nei decenni, alla incosciente dottrina della consumer confidence il cui messaggio è che è proprio il consumatore che compra con carte di credito in rosso che dà slancio alla crescita economica. Così gli americani non risparmiano. E questo nodo è venuto al pettine. Ma l’imprevisto più grosso e più pericoloso è quello dei cosiddetti «derivati »: un marchingegno, una invenzione di due matematici che nemmeno i banchieri hanno capito bene, e che certo non mi provo a spiegare. I derivati in giro per il mondo quanti sono? Non si sa, né lo si vuol rivelare. Ma sono persino finiti nei portafogli di alcune nostre amministrazioni locali. Questa, molto all’ingrosso, la situazione. Perché? Cosa vuol dire? Vuol dire, per l’Occidente, che dagli anni Sessanta in poi abbiamo cominciato a spendere più di quel che guadagniamo, al di sopra delle nostre risorse. Alla consumer confidence noi abbiamo aggiunto le «aspettative crescenti», che poi sono man mano diventate «diritti», diritti intoccabili. Una spiegazione supplementare è che in molti Paesi le finanze pubbliche sono disastrate dall’evasione fiscale. Se tutti pagassero le tasse dovute, il debito dello Stato non costituirebbe più un problema. Vero. Ma il problema è di difficile soluzione. Le nostre tasse dovrebbero pagare «servizi» e il costo dei cosiddetti beni pubblici (strade, polizia etc.). Ma in molti Paesi (Grecia in primissima fila, ma l’elenco include anche l’Italia) il problema si è incancrenito. Purtroppo, e di molto troppo, il servizio pubblico diventa un «disservizio» e uno spreco usato per assorbire la disoccupazione e per acquisire clientele elettorali. Dunque, non dobbiamo spendere soldi che non abbiamo, e al tempo stesso non dobbiamo «spendere male» i soldi che abbiamo. Visto che in crisi siamo, se non affrontiamo con coraggio e determinazione i problemi nei quali ci siamo infognati, in crisi ancor più resteremo. Speriamo che la necessità porti consiglio. di GIOVANNI SARTORI 14 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_14/spendiamo_troppo_male_9163c052-5f17-11df-8c6e-00144f02aabe.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. I sacrifici necessari Inserito da: Admin - Giugno 02, 2010, 12:00:50 pm CRISI ECONOMICA, SCENARI POLITICI
I sacrifici necessari Quando vinse le elezioni due anni fa si dava per scontato che il Cavaliere sarebbe arrivato saldo in sella a fine legislatura. Io sono stato tra i pochi dubitosi perché prevedevo (il 12 novembre 2009) che il successo di Bossi avrebbe creato un Pdl troppo concentrato al Sud e quindi in conflitto di interessi con il Nord. Nel frattempo gli economisti si sono finalmente accorti — in colpevole ritardo —, di aver allevato una perfetta catastrofe economica. Berlusconi ha fatto il sordo finché ha potuto, ma oramai ammette che la crisi c’è e così si trova anche lui impigliato in problemi che non ama e che non conosce. Sì, l’economia domestica, l’economia della sua «masserizia» (come la chiamava Leon Battista Alberti) il Nostro la conosce a perfezione; ma del resto, dello Stato e del suo bilancio, si deve occupare Tremonti, non lui. Sulla «stangata» si è defilato e se ne chiama fuori adducendo, poverino, di non avere «poteri», quasi fosse il prestanome di chissà chi. Però, bravo. Finora gli va riconosciuto di essersi mosso con impareggiabile astuzia. Ma siamo soltanto all’anteprima della vicenda. La stangata è stata soltanto preannunziata, ed è ancora materia di trattativa e di ritocchi. A tutt’oggi si discute e basta. Ma i tagli della stangata arriveranno prestino, perché per l’euro e per l’Europa noi siamo importanti. Fino a pochissimo tempo fa l’Italia rischiava di precipitare nel gruppetto dei cosiddetti pigs, la sigla o l’acronimo per Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna: appunto, i Paesi sull’orlo del collasso. Però, salvo uno, Paesi di secondaria importanza. La Grecia ha 11 milioni di abitanti, il Portogallo 10 milioni, e l’Irlanda appena 4 e mezzo. Dei quattro pigs (vuole il caso che la parola significhi in inglese «maiali») il caso allarmante è la Spagna: 45 milioni di abitanti e, da sempre, di alta disoccupazione. L’Italia, allora. Come reagirà il Paese quando la mannaia comincerà davvero a decapitare? Con ragionevole, seppur dolentissima rassegnazione, oppure con un crescendo di ribellismo? Beato chi lo sa. Nelle emergenze la dottrina prevede tre soluzioni. Primo, un «governissimo», detto di solito governo di unità nazionale, un governo con tutti dentro. Secondo, una grosse Koalition alla tedesca, un governo dei partiti maggiori, o comunque di una larga maggioranza compatibile, e cioè in grado di mettersi d’accordo, di volta in volta, sui provvedimenti necessari e urgenti. Infine, terzo, un governo tecnico (pur sempre sottoposto, s’intende, al controllo del Parlamento) i cui dicasteri sono affidati a tecnici invece che a politici di mestiere. Queste soluzioni sono ovviamente molto diverse, ma sono legate da una logica comune. Se tutti i governanti impongono decisioni impopolari, e anzi le stesse misure impopolari, l’elettorato non sa più chi punire. O il castigo popolare si distribuisce più o meno a caso, oppure si attenua: se la stessa stangata viene appioppata da tutti, può darsi che sia davvero inevitabile. La formula tedesca della più larga coalizione possibile è la più razionale ma resta esposta ai ricatti degli estremisti che ne restano fuori. È pertanto la più rischiosa per chi governa. Giovanni Sartori 02 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_02/sartori_f0c5b9aa-6e04-11df-b855-00144f02aabe.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. L’ECONOMIA DI CARTA E I LIMITI ALLO SVILUPPO Inserito da: Admin - Giugno 25, 2010, 11:40:39 am L’ECONOMIA DI CARTA E I LIMITI ALLO SVILUPPO
Quei soldi maledetti L’ultima stima di qualche anno fa che ho sott’occhio contabilizza il Pil, il Prodotto interno lordo, del mondo in 54 trilioni di dollari, mentre gli attivi finanziari globali risultano quattro volte tanto, di addirittura 240 trilioni di dollari. Oggi, con i derivati e altre furbate del genere, questa sproporzione è ancora cresciuta di chissà quanto. E questa sproporzione non solo è di per sé malsana ma modifica la nozione stessa di sistema economico, di economia. Semplificando al massimo, da un lato abbiamo una economia produttiva che produce beni, che crea «cose», e i servizi richiesti da questo produrre, e dall’altro lato abbiamo una economia finanziaria essenzialmente cartacea fondata su vorticose compravendite di pezzi di carta. Questa economia cartacea non è da condannare perché tale, e nessuno nega che debba esistere. Il problema è la sproporzione; una sproporzione che trasforma l’economia finanziaria in un gigantesco parassita speculativo la cui mira è soltanto di «fare soldi », di arricchirsi presto e molto, a volte nello spazio di un secondo. Gli economisti «classici » facevano capo all'economia produttiva; oggi i giovani sono passati in massa all’economia finanziaria. È lì, hanno capito, che si fanno i soldi, ed è in quel contesto che l’economia come disciplina che dovrebbe prevedere, e perciò stesso prevenire e bloccare gli errori, si trasforma in una miriade dispersa di economisti «complici» che partecipano anch’essi alla pacchia. È chiaro che in futuro tutta la materia dell’economia finanziaria dovrà essere rigorosamente regolata e controllata. Ma anche l’economia produttiva si deve riorientare e deve cominciare a includere nei propri conti le cosiddette esternalità. Per esempio, chi inquina l’aria, l’acqua, il suolo, deve pagare. Vale a dire, tutto il sistema di incentivi va modificato. La dissennata esplosione demografica degli ultimi decenni mette a nudo che la terra è troppo piccola per una popolazione che è troppo grande. Ma anche su questa sproporzione gli economisti non hanno battuto ciglio. Anzi, per loro stiamo andando di bene in meglio, perché tanti più bambini tanti più consumatori e tanti più soldi. Il loro «far finta di non ricevere», di non vedere, è così clamoroso da indurre Mario Pirani a chiedersi (su Repubblica) se gli economisti abitino sulla terra o sulla luna. Io direi su una luna che è due volte più grande della terra. Ma qui cedo la parola a Serge Latouche, professore alla Università di Parigi, economista eretico ma anche lungimirante. Latouche ha calcolato che lo spazio «bioproduttivo » (utile, utilizzabile) del pianeta Terra è di 12 miliardi di ettari. Divisa per la popolazione mondiale attuale questa superficie assegna 1,8 ettari a persona. Invece lo spazio bioproduttivo attualmente consumato pro capite è già, in media, di 2,2 ettari. E questa media nasconde disparità enormi. Se tutti vivessero come i francesi ci vorrebbero tre pianeti; e se tutti vivessero come gli americani ce ne vorrebbero sei. La morale di questa storia è che già da troppo tempo siamo infognati in uno sviluppo non-sostenibile, e che dobbiamo perciò fare marcia indietro. Latouche la chiama «decrescita serena». Serena o no, il punto è che la crescita continua, infinita, non è obbligatoria. Oramai è soltanto suicida. Giovanni Sartori 25 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_25/sartori_4973e336-8018-11df-85d3-00144f02aabe.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. LA POLITICA DELLO STRUZZO SUL CLIMA Inserito da: Admin - Agosto 16, 2010, 09:23:42 am LA POLITICA DELLO STRUZZO SUL CLIMA
IL COLLASSO ECOLOGICO Estate rovente o piogge torrenziali, siccità o diluvi un po' dappertutto. In Italia il caldo è stato soffocante per gran parte di giugno e di luglio. Ed è stato aggravato, nelle grandi città, dall'ozono troposferico, che ha impoverito l'ossigenazione dell'aria che respiriamo. Ma l'estate è stata torrida in tutta Europa, negli Stati Uniti, Cina, Russia. Soprattutto, e per la prima volta, in Russia, colpita da un'ondata di calore mai raggiunta nei 130 anni di registrazioni ufficiali. Gli incendi spontanei dei boschi che lambiscono anche Mosca non hanno precedenti. Altrove, invece, abbiamo avuto alluvioni devastanti, inedite soprattutto in Pakistan. Allora, è proprio vero che il clima sta cambiando? Io credo di sì; ma di per sé il gran caldo così come i grandi freddi non costituiscono prova sufficiente di niente. Anche se una frequenza crescente di oscillazioni climatiche estreme rafforza i nostri sospetti. Ma molti governi, Italia in testa, non fanno nulla per creare un'opinione «verde» né per affrontare seriamente il problema del collasso ecologico. La crisi economica è e resta grave, ma il problema della crescente invivibilità del nostro pianeta è molto, molto più grave. Eppure da noi è fiorita soltanto l'industria dell'eolico, dei mulini a vento. Ed è fiorita quasi soltanto perché fonte di tangenti e di intrallazzi. Perché l'energia prodotta dal vento è largamente un imbroglio, visto che la nostra penisola non ha abbastanza vento per giustificarla. Anni fa il portavoce per eccellenza, di fatto, degli interessi petroliferi e di gran parte della grande industria è stato il danese Bjorn Lomborg, che con il suo molto reclamizzato libro L'ambientalista scettico negava la stessa esistenza del problema ecologico e anche la crescente scarsità delle risorse energetiche e dell'acqua. Ma Lomborg ora dichiara che «il riscaldamento globale esiste, è provocato dall'uomo, e che l'uomo deve fare qualcosa per porvi rimedio». Bene. Alla buon'ora. Lomborg soggiunge, però, che «la tattica consistente nell'incutere timore, per quanto abbia buone intenzioni, non è la soluzione giusta». D'accordo. Ma quale è la soluzione giusta? Gli scienziati che oggi studiano il clima, la rarefazione delle risorse naturali e, in ultima analisi, il problema della nostra sopravvivenza, sono migliaia. S'intende che possono sbagliare. Ma la scienza procede provando e riprovando. E noi già disponiamo di un enorme patrimonio di dati e di conoscenze che però vengono bellamente ignorate dai più. Il fatto è che gli esseri umani non si muovono «a freddo» guidati dalle ragioni della ragione. Gli umani si attivano «a caldo», se hanno paura o se mossi da passioni (ivi incluse la passione per il potere e per il denaro). E così la scienza ricorre, per farsi ascoltare, a proiezioni con date ravvicinate di scadenza. Ma noi siamo in grado di prevedere un percorso, dei trends, non il «quando». Dunque predire scadenze è sbagliato; ma non farlo rende la predizione inefficace. Come uscire da questo circolo vizioso? Non lo so. Ma so che la politica dello struzzo dei nostri governanti è la politica peggiore. Giovanni Sartori 15 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_15/sartori-collasso-ecologico_93258b4c-a83b-11df-94a2-00144f02aabe.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Il potere di chi vota Inserito da: Admin - Settembre 01, 2010, 09:05:52 am Il potere di chi vota
Che la legge elettorale in vigore sia una «porcata» è stato detto proprio dal suo estensore, il ministro Calderoli. È lui che mi ha dato l’idea di battezzarlo Porcellum. Ed è una porcata nel senso che è una legge elettorale truffaldina: tale perché assegna un premio di maggioranza alla maggiore minoranza. Per esempio, se Berlusconi conseguisse alle prossime elezioni il 30 per cento del voti, e se nessun altro partito o coalizione arrivasse a tanto (al 30 per cento), Berlusconi otterrebbe alla Camera il 55 per cento dei seggi. Ora, un premio di maggioranza è lecito se rafforza chi consegue la maggioranza assoluta dei voti (il 50 o più per cento); ma non se trasforma una minoranza elettorale in una maggioranza di governo. Su questo punto credo che anche i fautori del sistema maggioritario «secco » (all’inglese) siano d’accordo. Eppure anche quel sistema trasforma spesso e volentieri, per esempio, un 40 per cento dei voti in una maggioranza di seggi in Parlamento. In questo caso non c’è, beninteso, un premio di maggioranza; ma è il meccanismo del «primo che piglia tutto» dei sistemi uninominali che opera, di fatto, come un premio. Questa stortura viene invece eliminata dal sistema maggioritario a doppio turno. Non riesco pertanto a capire come mai i nostri fautori del maggioritario si ostinino a sostenere il sistema inglese invece del maggioritario a doppio turno del sistema francese. Il primo è distorcente, il secondo non lo è. E allora? Le radici di questa ostinata anglofilia risiedono, credo, nell’errata persuasione che solo il maggioritario secco porti alla creazione di un sistema bipartitico. Ma questa persuasione è sicuramente sbagliata e ampiamente smentita dai fatti. Già negli anni Sessanta correggevo le «leggi» di Duverger sull’influenza dei sistemi elettorali asserendo, sul punto, che i sistemi maggioritari a un turno «proteggono un sistema bipartitico che c’è, ma non trasformano in bipartitico un sistema multipartitico». La nostra esperienza con il Mattarellum, la legge elettorale per tre quarti maggioritaria che ha preceduto il Porcellum, ha abbondantemente confermato la mia tesi. Con il sistema proporzionale della prima Repubblica i partiti rilevanti sono stati 5-6; con il successivo Mattarellum si sono triplicati. Perché? La ragione di questa frantumazione l’ho spiegata (invano) non so quante volte. È che nei collegi uninominali i partitini acquistano un potere di ricatto che altrimenti non hanno. Sanno di non poter vincere, ma nei collegi «insicuri» dove lo scarto tra i maggiori partiti è piccolo, sanno che il loro voto è decisivo. Nasce così il sistema delle «desistenze»: io non mi presento, mettiamo, in dieci collegi e tu, in contraccambio, mi assicuri un collegio ogni dieci. La frantumazione del nostro sistema partitico nasce così. Sì, ripudiare il Porcellum è essenziale e doveroso. Ma tornare al maggioritario secco è tornare a una esperienza fallimentare. Ecco perché non posso firmare l’appello promosso dal professor Pietro Ichino. Ma sarei prontissimo a sottoscrivere un suo appello per un sistema elettorale maggioritario a doppio turno. Giovanni Sartori 01 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_01/sartori-politica-voti-potere_b92c3df0-b587-11df-89bc-00144f02aabe.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Populismo costituzionale Inserito da: Admin - Settembre 09, 2010, 09:16:53 am DEMOCRAZIA PARLAMENTARE (E DIRETTA)
Populismo costituzionale Lo spettacolo della politica italiana è caotico e disperante. In tanto caos l’unico punto fermo che ci resta è la Costituzione. Ma anche la nostra Costituzione viene sempre più «forzata» da letture che la distorcono. Cominciamo da un dato incontestabile: le democrazie moderne non sono democrazie dirette. Tali furono la democrazia ateniese (che già Aristotele riteneva una forma cattiva del «governo dei molti »), nonché le piccole democrazie fiorite, e presto sfiorite, nel Medioevo; e tali restano le democrazie cittadine di piccole comunità. Ma la democrazia «in grande» degli Stati territoriali non sono mai state, né possono essere, democrazie dirette. Sono invece democrazie indirette fondate sul principio della rappresentanza, e perciò democrazie rappresentative. Il loro meccanismo è che il demos, il popolo, elegge in quanto titolare del potere assemblee di rappresentanti che a loro volta esercitano il potere tra una elezione e l’altra. E la rappresentanza in questione viene configurata, in tutte le costituzioni liberal-democratiche, così: che l’eletto rappresenta la nazione (non i suoi elettori) «senza vincolo di mandato ». Questa formula risale alla rivoluzione francese del 1789 e stabilisce la differenza tra rappresentanza di diritto privato (per esempio, il rapporto tra me e l’avvocato che mi rappresenta) e rappresentanza di diritto pubblico, e cioè la rappresentanza politica. I vari parlamenti medievali e delle monarchie assolute erano, appunto, parlamenti di delegati che trattavano con il sovrano sulla imposizione fiscale. Il noto principio no taxation without representation, niente tasse senza rappresentanza, si fondava ancora sulla rappresentanza di diritto privato e non prefigurava in nessun modo una democrazia rappresentativa. Eppure oggi Berlusconi, Bossi e tanti altri ancora invocano un mandato che la Costituzione espressamente vieta. Perché? A monte la colpa è del Presidente Ciampi che lasciò passare, senza fiatare e senza capire il problema, l’indicazione del nome del candidato premier sulla scheda elettorale. Il che è servito soprattutto a Berlusconi per rivendicare di essere scelto direttamente dall’elettorato. Questa rivendicazione non è comprovata dalla contabilità elettorale, visto che i voti per il suo partito ammontano, più o meno, a un terzo dell’elettorato. Ma il punto è soprattutto che la cosiddetta «scelta» del premier non è, assolutamente non è, una scelta. Una scelta presuppone che l’elettore abbia una alternativa, e quindi richiede che il nome del candidato premier stampato sulla scheda possa essere approvato oppure disapprovato (prevedendo due caselle del Sì o del No), dal votante. Il che non è. L’idea del mandato si trasforma poi nella tesi che il governo e la maggioranza di governo sono stabiliti dagli elettori, e pertanto che il parlamento non possa creare o sostenere governi diversi da quello indicato dagli elettori. Ma allora a cosa serve il sistema parlamentare? La sua forza risiede proprio nella sua flessibilità, nella sua capacità di auto-correzione. È vero che questa flessibilità può essere abusata; ma questo abuso può essere impedito, per esempio, dal voto di sfiducia costruttivo del sistema tedesco. Altrimenti si cade in un sistema di «rivotismo continuo » che è il peggiore di tutti. E che nemmeno è consentito— sia chiaro—dai sistemi presidenziali o semipresidenziali di tipo francese. Dicevo che l’unico punto fermo che ancora ci resta è la Costituzione e un sistema costituzionale. Che oggi è insidiato da un infantile populismo costituzionale e da un «direttismo» sconfitto da duemilacinquecento anni di esperienza. Sarebbe l’ultima sciagura. Giovanni Sartori 09 settembre 2010 © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_09/sartori-populismo-costituzionale_8fd4a598-bbcf-11df-8260-00144f02aabe.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. L'immagine di un paese Inserito da: Admin - Novembre 03, 2010, 10:00:30 pm L'immagine di un paese
di SERGIO ROMANO Il lettore troverà in altre parti del giornale le parole inaccettabili che il presidente del Consiglio ha pronunciato ieri alla Fiera di Milano. Posso quindi esimermi dall’obbligo di ripetere ciò che è stato detto sui gay e sui mezzi d’informazione. Ma non posso impedirmi di pensare che Berlusconi stia distruggendo ciò che è riuscito a fare in questi anni. Conoscevamo il suo carattere, le sue debolezze, il suo conflitto d’interessi, le leggi ad personam e certi aspetti goliardici della sua personalità. Sapevamo che i suoi continui scontri con la magistratura rappresentavano un rischio per la tenuta delle istituzioni e l’equilibrio fra i poteri dello Stato. Ma non ho mai pensato, a differenza di altri, che i suoi governi fossero inetti e impotenti. Mi sarebbe sembrato assurdo ignorare i risultati della lotta contro la criminalità organizzata, la riforma universitaria del ministro dell’Istruzione, gli entusiastici furori riformatori del ministro della Funzione pubblica, i passi compiuti sulla strada del federalismo fiscale, le missioni militari all’estero, l’attenzione dedicata ai problemi dell’energia, il progetto sulla legislazione del lavoro, la maggiore sensibilità per le opere pubbliche, certi interventi della Protezione civile, il recupero dell’evasione fiscale, la prudenza e l’abilità con cui è stata affrontata la crisi del credito. So che il bilancio deve tenere conto anche delle molte cose promesse e non fatte o fatte male. Ma se mi guardo attorno e confronto la politica italiana con quella di altri Paesi dell’Unione europea, non mi sembra che l’Italia, quando la partita si gioca sulle cose fatte e da fare, sia rimasta indietro. E guardandomi attorno non vedo altro Paese dell’Unione europea in cui lo stile di vita del premier, spesso per sua deliberata volontà, sia divenuto il tema centrale della politica nazionale. Berlusconi non sembra rendersi conto che questa pubblica rivendicazione delle sue debolezze private sta divertendo il mondo, riaccendendo tutti i più triti pregiudizi sul carattere degli italiani e soprattutto oscurando quello che il governo è riuscito a fare in questi momenti difficili. Non credo che il presidente del Consiglio possa continuare a polemizzare con tutti, a braccio e nelle occasioni più disparate, senza neppure calcolare gli effetti delle sue parole su coloro che non gli sono pregiudizialmente ostili. Voglio sperare invece che Berlusconi possa ancora, se lo vuole, lasciare la tribuna delle dichiarazioni improvvisate per tornare a Palazzo Chigi dove lo aspettano molte cose da fare e molti problemi da risolvere. Se vi è ancora spazio per un accordo con Fini, tanto meglio. Il Paese non ha bisogno di una crisi che rischierebbe di frantumare il quadro politico nazionale con conseguenze forse devastanti. La nazione ha il diritto di essere rappresentata autorevolmente nelle sedi in cui si sta disegnando il nuovo profilo della finanza internazionale e soprattutto a Bruxelles, dove nei prossimi mesi si deciderà, tra l’altro, la politica fiscale dell’Europa. Ma se la prospettiva razionale non fosse praticabile, è meglio tornare alle urne senza la scorciatoia di improbabili governi tecnici. Temo che dalle elezioni anticipate possano uscire equilibri ancora più traballanti degli attuali. Ma niente è più grave di questo continuo stillicidio di picche e ripicche, questa sciagurata confusione di pubblico e privato. Gli italiani non lo meritano. 03 novembre 2010 http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_03/romano_immagine_paese_a2e747fa-e701-11df-a903-00144f02aabc.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Legge elettorale che cosa fare Inserito da: Admin - Novembre 07, 2010, 07:08:00 pm IL SUPERPREMIO DI MAGGIORANZA
Legge elettorale che cosa fare In uno Stato ben ordinato debbono esistere punti fermi e problemi risolti. Per esempio la Costituzione (la regola delle regole) e anche il sistema elettorale. Invece la nostra Costituzione viene sempre più stravolta da interpretazioni «materiali» di natura populistica che appunto la stravolgono. E ora torna prepotentemente in ballo il sistema elettorale. La Prima Repubblica adottò un sistema proporzionale che funzionò discretamente fino alla caduta del potere democristiano. Ma il proporzionalismo è esposto a due degenerazioni: la trasformazione del sistema parlamentare in un sistema assembleare ingovernabile perché troppo frantumato e anche perché troppo indisciplinato. In Italia queste degenerazioni furono bloccate sia dalla malfamata «partitocrazia », sia perché il pericolo comunista non consentiva voti sprecati. Così la proporzionale non moltiplicò il nostro sistema partitico oltre misura. La Prima Repubblica fu governata da più o meno cinque partiti, uno dei quali, la Dc, era dominante. Ma questo edificio crollò con la fine del comunismo sovietico. Io raccomandai, a quel tempo, un sistema maggioritario a doppio turno, come in Francia. Invano. Fu adottato, invece, il Mattarellum, un sistema per 3/4 maggioritario e per 1/4 proporzionale. Secondo i promotori di questa pensata il Mattarellum avrebbe prodotto anche in Italia un sistema bipartitico all’inglese. E quando il bipartitismo non arrivò (come si sapeva benissimo) la colpa fu addossata al «misto», al 25 per cento di proporzionale. Accusa ridicola, tanto più che se distribuita sulle due Camere la sua incidenza complessiva si riduceva a un misero 12,5 per cento. In realtà il Mattarellum produsse la frantumazione del nostro sistema partitico. Tanto vero che il secondo governo Prodi dovette imbarcare una sconnessa ammucchiata di partitini che lo fecero franare nell’inconcludenza. Riacciuffato il potere, il governo Berlusconi-Bossi inventò un sistema inedito, il Porcellum, fondato su uno smisurato e inaccettabile premio di maggioranza. Un premio in virtù del quale la maggiore minoranza (anche se fosse soltanto, per esempio, del 30 per cento dei voti) conquista il 55 per cento dei seggi in Parlamento. Si capisce che questo sistema piaccia al Cavaliere, che lo dichiara intoccabile. E siccome nuove elezioni potrebbero essere prossime, ecco che si moltiplicano le proposte per farlo saltare. Tra queste l’iniziativa di ieri (su questo giornale) del professor Stefano Passigli, già senatore, è quella che mi convince di più. Passigli preannunzia un referendum abrogativo della legge vigente, del Porcellum, che in sostanza ne cancella il premio di maggioranza. Si potrebbe fare di più e anche di meglio. Ma è già emerso dall’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere del 12 ottobre che i nostri esperti continuano a essere in disaccordo e anche a proporre sistemi elettorali fantasiosi. So bene che il referendum è un grosso sforzo ma produrrebbe una soluzione accettabile e sensata per tutti. Sarebbe l’ora Giovanni Sartori 07 novembre 2010 © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_07/sartori-che-fare_602ef5ea-ea47-11df-acba-00144f02aabc.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Una repubblica assai confusa Inserito da: Admin - Novembre 18, 2010, 12:20:58 pm IL VOCABOLARIO DELLA CRISI
Una repubblica assai confusa La nostra Seconda Repubblica lascia poche tracce di opere compiute, di riforme ben fatte e di problemi risolti. In compenso ha profondamente inquinato il vocabolario costituzionale e perciò stesso la nostra Costituzione e la politica che ne discende. Comincio da «ribaltone». È una parola che non è accolta in nessun testo di nessun'altra democrazia parlamentare, visto che cambiare governo e cambiare maggioranza (o anche cambiare partito) costituisce parte integrante del loro modus operandi, del loro funzionamento. I sistemi parlamentari sono per eccellenza sistemi flessibili che nel corso del loro cammino possono benissimo cambiare personale e politiche. Secondo: «Porcellum». È così che viene chiamata, con ragione, la nostra vigente legge elettorale. Ma perché è una porcheria, una porcata? Secondo Fini è perché non consente all'elettore la scelta del proprio rappresentante. Ma questa è una tesi puramente demagogica. Ricordo che noi abbiamo avuto un sistema proporzionale che consentiva all'elettore quattro-tre preferenze, poi ridotte ad una, e che queste preferenze sono state cancellate nel 1991-1993 da due travolgenti referendum di Pannella e Mariotto Segni. Io allora non mi scaldai molto perché ritenevo e continuo a ritenere che il potere di scelta del singolo elettore in collegi elettorali nei quali un seggio richiede circa 60 mila voti è un potere di scelta infinitesimale. C'è chi sostiene che nel collegio uninominale questo potere di scelta è maggiore. Ma dipende da chi ha i soldi: se il candidato (come quasi sempre negli Stati Uniti) oppure il partito. Se li ha il partito, anche nei sistemi uninominali le scelte dei candidati vengono dall'alto. Comunque sia, il punto non è che il Porcellum sia tale (una porcata) perché non consente al votante di scegliere l'eletto, ma perché elargisce un premio di maggioranza spropositato che falsa completamente il risultato di una elezione. Peggio di così, in materia, si può soltanto ricordare la legge Acerbo del 1923, che installò Mussolini al potere attribuendo i 2/3 dei seggi, in Parlamento, a chi raggiungeva il 25 per cento dei voti. Sia chiaro: un premio di maggioranza è accettabile se rinforza chi ha già vinto il 50.01 per cento dei suffragi; ma non se trasforma una minoranza in una maggioranza come fa il Porcellum attribuendo il 55 per cento dei seggi alla maggiore minoranza. Un'ultima sciocchezza, o comunque deviazione dalle costituzioni dei sistemi parlamentari, è che l'elettorato deve sapere, sin dall'inizio della legislatura, chi sarà il capo del governo e che il suo governo non potrà essere cambiato. Altrimenti - orrore orrore - incorriamo nel crimine di «ribaltonismo». C'è poi il grido di dolore di chi si preoccupa di «salvare il bipolarismo». Ma chi ne fa un porro unum esagera; in realtà teme che si affermi, tra destra e sinistra, un partito di centro che lo danneggi. E così propone un sistema elettorale che penalizzi il centro, come l'uninominale inglese (e che erroneamente invoca, per questo, un ritorno a quel Mattarellum che ci ha rovinati). Invece il bipolarismo tedesco ha sempre funzionato bene con un terzo partito minore al centro. Al momento, allora, non c'è nulla da salvare. Ci sarà tutto da rifare utilizzando (a mio parere) o il sistema elettorale francese o quello tedesco. Giovanni Sartori 18 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_18/una-repubblica-assai-confusa-editoriale-sartori_8c1cd734-f2db-11df-8691-00144f02aabc.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Giovanilismo e rottamazione Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2010, 06:28:50 pm RENZI, VENDOLA E LA GENERAZIONE CONTRO
Giovanilismo e rottamazione Se Berlusconi non ride (perlomeno sino al 15 dicembre) la sinistra di Bersani e dintorni può solo piangere. Quando il Pd era il Pc—da Togliatti a Berlinguer — il cursus honorum, la carriera, era rigidamente disciplinata: prima una esperienza nelle amministrazioni locali, poi, per i più bravi, il parlamento nazionale. Il tutto era deciso dalla segreteria del partito e, in ultima istanza, dal suo segretario. Allora nessuno osava dire, e nemmeno pensare, che i Pajetta e i Terracini di quel tempo fossero da «rottamare», da pensionare perché vecchi. E se Togliatti non fosse deceduto anzitempo, nessuno lo avrebbe contestato nemmeno a 90 anni. Eppure quel Pc, nel complesso «anzianotto», arrivò a conseguire un terzo del voto degli italiani e quasi a sorpassare la Dc. Rispetto alla sua epoca d’oro la nostra sinistra post-comunista di oggi esibisce leader relativamente giovani, da D’Alema a Fassino a Veltroni e Bersani. Nessun vegliardo. Eppure il sindaco di Firenze Matteo Renzi (35 anni) e il governatore della Puglia Vendola (52 anni) li definiscono «roba vecchia», materiale da pensione. La loro parola d’ordine è avanti i giovani, e cioè sé stessi. Nella storia, da sempre e dappertutto, il giovanilismo è raro. Le irrequietezze giovanili cominciano con lo Sturm und Drang (tempesta e assalto) dei primi romantici e, in Italia, con il futurismo e il fascismo. Ma furono fuochi fatui. Le rivoluzioni sono spesso promosse dai giovani; giovani che però si attaccano al potere sino alla morte. Quando l’Urss si dissolse esibiva la più straordinaria gerontocrazia (governo dei vecchi) al mondo. Dicevo che il giovanilismo non dura. È così per forza, perché i giovani diventano vecchi. Ma è anche bene che sia così. I giovani apportano un elemento — l’energia — che gli anziani non hanno più, mentre gli anziani apportano l’elemento che i giovani ancora non hanno, e cioè esperienza e conoscenze. Insomma, gioventù è energia senza sapere, anzianità è sapere senza energia. Le civiltà decadono per senescenza e quando diventano gerontocrazia. Però, nessuna civiltà è mai emersa da una paidocrazia, dal potere dei giovani. In questo momento la scuola è in subbuglio e i giovani si battono contro la riforma dell’Università. È una riforma senza soldi, e questo è il suo più grave limite. Ma, soldi a parte, la riforma Gelmini non è una cattiva riforma. Ed è una riforma necessaria perché affronta le insensatezze legislative e gli abusi «baronali » degli ultimi decenni. Non so se la generazione in agitazione sia, come scrive Barbara Spinelli su Repubblica, una «generazione bruciata». Ma è certamente una generazione allevata dalla promessa insensata delle «aspettative crescenti». Sì, i giovani di oggi avranno una vita dura. Ma fu dura anche la vita dei giovani che si trovarono, dopo la fine dell’ultima guerra, con un Paese distrutto e un avvenire che sembrava senza avvenire. Noi, i giovani di allora, ce la siamo cavata. Ma i giovani di oggi che si battono contro la riforma universitaria Gelmini si battono a proprio danno e per il proprio male. Giovanni Sartori 11 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_11/sartori_giovanilismo-rottamazione-vendola-renzi_364fe652-04f1-11e0-b4fb-00144f02aabc.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Berlusconi, il peso della vittoria Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2010, 05:27:58 pm DOPO LA FIDUCIA
Berlusconi, il peso della vittoria Dovrà rinunciare ai lodi personali e alle polemiche nei confronti della magistratura Berlusconi ha certamente vinto. Sarebbe assurdo negarlo e inutile disquisire con acrimonia, in questo momento, sul modo in cui ha sconfitto i suoi avversari. Ma la portata della vittoria e le sue conseguenze dovrebbero suggerire al vincitore qualche riflessione. Alla vigilia del voto le posizioni dei due gruppi, all'interno del centrodestra, si erano considerevolmente avvicinate. Nessuno aveva rinunciato ai suoi argomenti polemici, ma tutti sembravano d'accordo sull'opportunità che Berlusconi continuasse a governare il Paese e sulla necessità di un governo diverso, per la sua composizione e il suo programma, da quello attuale. Il contrasto era sul modo in cui affrontare la seconda metà della legislatura. L'opposizione voleva che Berlusconi si dimettesse e il presidente del Consiglio rifiutava di piegarsi a tale richiesta. Il problema non era formale o procedurale. Le dimissioni, se Berlusconi fosse stato costretto a presentarle, avrebbero permesso a Fini e a Casini di affrontare i negoziati per la formazione del nuovo governo da posizioni di forza. Il presidente del Consiglio si è impuntato, ha scatenato una sorta di controffensiva e ha segnato il punto. La vittoria non è travolgente, ma la sconfitta dei suoi avversari è indiscutibile. Fini, in particolare, dovrà chiedersi se la sua presenza al vertice della Camera non abbia contribuito a rendere la sua azione meno credibile e convincente. Ma il punto cruciale, quello che veramente interessa il Paese, è l'uso che Berlusconi intende fare della sua vittoria. Credo che il presidente del Consiglio abbia di fronte a sé due strade. Può compiacersi del successo, infierire sugli sconfitti, lasciare le cose come stanno e dichiarare che governerà sino alla fine della legislatura. I tre voti di maggioranza non gli permetteranno di evitare gli innumerevoli trabocchetti che gli si apriranno sotto i piedi alla Camera e nelle commissioni, in gran parte delle quali la maggioranza non c'è. Ma gli forniranno l'occasione per sostenere che l'impotenza del governo è colpa delle opposizioni e di recitare di fronte agli elettori, se e quando riuscirà a ottenere lo scioglimento delle Camere, la parte del leader vilmente tradito. Il Paese, se Berlusconi adottasse questa linea, sarebbe condannato a un supplemento dell'indecoroso spettacolo a cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi: polemiche, litigi, sberleffi goliardici e una generale disattenzione per i problemi economici e finanziari che il Paese sta attraversando. Se vi saranno nuove elezioni in un tale clima, poco importa chi vince e chi perde. L'Italia ne uscirà certamente perdente. La seconda strada è la ricomposizione della maggioranza su basi nuove. Oggi la prospettiva può sembrare improbabile, ma diverrà praticabile soltanto se Berlusconi saprà rinunciare ai lodi personali, alle polemiche contro la magistratura (quanto più attacca i magistrati tanto più allontana nel tempo la possibilità di una riforma), agli aspetti più discutibili della sua diplomazia personale. Non basta. Sul piatto dell'intesa dovrà esserci una nuova legge elettorale. Un realista come Berlusconi non può ignorare che quella con cui siamo andati alle urne ha prodotto risultati catastrofici, sia sul piano politico, sia su quello morale. Gli italiani sono stanchi di mandare in Parlamento gli «eletti» dei partiti e vogliono il diritto di scegliere. Berlusconi ha vinto. Ma ogni vittoria può essere guastata dalle decisioni sbagliate del giorno dopo. Tocca a lui ora trasformare una vittoria personale in una vittoria del Paese. Sergio Romano 15 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_15/berlusconi-il-peso-della-vittoria-editoriale-sergio-romano_5c8f6598-0813-11e0-b759-00144f02aabc.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Le primarie fanno male al Pd Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2011, 04:44:21 pm RISCHI E STRANEZZE DI UNA SCELTA Le primarie fanno male al Pd Le elezioni primarie sono una invenzione americana. E negli Stati Uniti servono specialmente (ma non soltanto) per selezionare i candidati alla presidenza del Paese. In Italia sono state, invece, una invenzione di Prodi e del suo fido Parisi. Dico invenzione e non importazione perché le primarie prodiane non erano una vera contesa, una vera gara; erano piuttosto un modo per rafforzare e legittimare un candidato che era un leader senza partito, che non aveva il sostegno di un suo partito. Negli Stati Uniti esistono molte varietà di primarie, alcune «aperte» a tutti, altre «chiuse», e cioè riservate agli iscritti o a chi si dichiara tale. Ma non mi addentro in questa casistica, che è varia, cangiante e complessa. Il punto è che dopo il fallimento del progetto prodiano le primarie, quelle vere, sono state adottate dalla sinistra. È una buona idea? In linea di principio, sì. Perché non c'è dubbio che le primarie sono uno strumento e un «aumento di democrazia» molto più efficace del voto di preferenza. Sono le primarie, ben più che le preferenze, a dare voce e peso effettivo all'elettorato nella scelta dei candidati. Inoltre la sinistra italiana soffre oggi di mancanza di idee, di nuove «idee di sinistra». E le primarie diventano una idea di sinistra, visto che Berlusconi ha una concezione padronale del suo partito, e visto, quindi, che per lui le primarie sono inaccettabili. Ciò detto, non è detto che le primarie funzionino sempre come dovrebbero. Un primo rischio è che le primarie «estremizzino» la scelta dei candidati. È così, o può essere così, perché chi va a votare nelle primarie è di solito più coinvolto nella politica, e quindi più «intenso», più appassionato dell'elettore medio, dell'elettore normale. In tal caso il candidato scelto dalle primarie è un candidato sbagliato, un candidato perdente. Se, per esempio, Vendola trionfasse nelle primarie della sinistra, la mia previsione è che per il Pd sarebbe una catastrofe. Un secondo rischio è che le primarie producano, all'interno del partito che le adotta, un forte frazionismo. Per vincere nelle primarie i pretendenti debbono avere una propria organizzazione elettorale interna. La prima volta, o per un paio di volte, le primarie possono essere salutari: immettono aria fresca, svecchiano un partito troppo ingessato e intorpidito. Ma poi la frammentazione in correnti, oggi variamente travestite da «fondazioni», centri studio e simili, diventa inevitabile. Negli Stati Uniti non è così perché lì i partiti sono deboli, non scelgono i candidati ma, piuttosto, sono scelti dai candidati. Inoltre negli Stati Uniti i soldi (elettorali) saltano il partito e vanno direttamente a chi scende in campo. In Italia, invece, i soldi per i partiti vanno ai partiti. E questa differenza fa molta differenza. Infine, una stranezza (forse). A lume di logica i partiti con primarie dovrebbero piacere agli elettori più dei partiti senza primarie. Ma in Italia non è così. Agli elettori di Berlusconi sembra (dai sondaggi) che delle primarie non importi un fico. Giovanni Sartori 03 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_03/sartori_8fc7510a-16ff-11e0-b956-00144f02aabc.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. I RISCHI DEL MEDIO ORIENTE IN FIAMME Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2011, 11:25:58 am I RISCHI DEL MEDIO ORIENTE IN FIAMME Illusioni e delusioni Sin da quando esistono, gli Stati Uniti si sentono investiti della missione di diffondere la libertà e la democrazia nel mondo. L’intento è nobilissimo. Ma le buone intenzioni possono generare cattivi risultati. Da quando la Cina ha sepolto il maoismo e ristabilito buoni rapporti con l’Occidente, non c’è presidente americano che non si senta in dovere, in Cina, di bacchettare i governanti di Pechino sul rispetto dei diritti umani. Serve a qualcosa? Ovviamente no; semmai li irrita. I cinesi si sentono eredi della più antica civiltà del mondo. La civiltà del Celeste Impero ha avuto alti e bassi, ma non si è mai dissolta. Persino a dispetto di Mao è restata, nel fondo, confuciana da 2.500 anni. E oggi non è la Cina ad aver bisogno degli Stati Uniti, ma gli Stati Uniti della Cina. Che tra l’altro protegge (per fare dispetto?) la Corea del Nord. Venendo al Medio Oriente, lì il grosso sbaglio del missionarismo americano è stato l’Iran. Lo scià Reza Pahlavi era sì un despota, ma un despota illuminato inteso a modernizzare il suo Paese. Quando scoppiò la rivolta istigata dal clero islamico, gli americani consigliarono ai generali dello scià di non resistere, di arrendersi. Khomeini rientrò trionfante da Parigi e li fece tutti fucilare. E da allora l’Iran degli ayatollah minaccia tutti i suoi vicini. Passando all’Iraq, probabilmente Bush credeva davvero che Saddam Hussein fabbricasse armi nucleari; ma in ogni caso credeva che la sua guerra avrebbe instaurato una democrazia a Bagdad. Poverino, l’intelligenza non è mai stata il suo forte. E lo stesso discorso si dovrà fare al più presto per l’Afghanistan, dove il problema non è di trasformare un millenario sistema tribale in uno Stato democratico, ma di impedire che diventi, o ridiventi, uno «Stato canaglia » nel quale il terrorismo islamico possa liberamente produrre micidiali armi chimiche e batteriologiche. Ma veniamo all’oggi, al fatto che parte dell’Africa araba che si affaccia sul Mediterraneo (Algeria, Tunisia, Egitto) è subitamente esplosa. C’era da aspettarselo? No, nel senso che tutti sono stati colti di sorpresa. Ma sì nel senso che sappiamo, o dovremmo sapere, che Internet, telefonini cellulari e simili sono formidabili strumenti di mobilitazione istantanea, e quindi anche di esplosioni insurrezionali (a fin di bene o a fin di male che siano). Al momento il caso più preoccupante è quello dell’Egitto. E al momento in cui scrivo Mubarak non è fuggito, è ancora lì; ma ha dovuto cedere il potere ai militari. Gli Stati Uniti hanno condannato, come da copione, Mubarak per l’impiego della violenza contro i manifestanti e sospeso gli aiuti militari. E ora il rischio è (come ha scritto sul Corriere Benny Morris) di ripetere «un secondo Iran». Mubarak è stato un leale alleato dell’Occidente, ha firmato la pace con Israele, non è stato un dittatore sanguinario e ha bloccato i Fratelli musulmani (che si presentano come un islam moderato che però appoggia Hamas in Palestina). Spero che Obama sappia come è andata in Iran e che non ripeta gli errori di allora. Viviamo in un mondo pericolosissimo, che dobbiamo fronteggiare non da missionari ma scegliendo il male minore. Giovanni Sartori 31 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - corriere.it/editoriali/11_gennaio_31 Titolo: GIOVANNI SARTORI. LE SCELTE DELLE OPPOSIZIONI Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2011, 04:30:40 pm LE SCELTE DELLE OPPOSIZIONI Come perdere le elezioni Se fossi al teatro non mi sarei mai divertito tanto. Ma non sono al teatro e non mi diverto per niente. Lo spettacolo allestito da Berlusconi&Co. è allucinante. Ma anche lo spettacolo offerto dalle opposizioni è desolante. Piluccando fior da fiore, non si era mai visto, nemmeno in Italia, che ben 315 parlamentari votassero e accreditassero la favola (favola anche per un bambino di sei anni) di un Berlusconi che crede davvero che la carnosa Ruby fosse una nipote di Mubarak e che lui era intervenuto telefonando a notte fonda alla questura di Milano per evitare un incidente diplomatico con l'Egitto. A parte il fatto che il Nostro trasforma una marocchina in una egiziana, non si capisce proprio quale terribile incidente diplomatico potesse nascere da questo modestissimo episodio. Non si capisce proprio, anche se 315 onorevoli sono evidentemente più intelligenti di me e l'hanno capito. Ma forse la questione non è di intelligenza, è che i 315 sono (come scrive Mauro Calise, politologo della Università di Napoli) inglobati in un «partito personale» al quale debbono obbedienza cieca. Perché se fiatano perdono il posto. Ma se Berlusconi non ride, le opposizioni possono solo piangere. Chiedono le sue dimissioni e quindi nuove elezioni. Ma sono davvero in condizioni di affrontarle con una ragionevole speranza di vincerle? Oggi come oggi direi proprio di no. Per la semplicissima ragione che sono opposizioni al plurale spesso profondamente divise (anche al proprio interno) che hanno poco di «unitario» da proporre. E il recente congresso dei finiani ha peggiorato questo quadro rivelando che anche in quel partito regna la zizzania. Eppure il duo Berlusconi-Bossi è battibile solo se tutte le opposizioni fanno, elettoralmente, fronte comune. È possibile? Sarà possibile? Forse lo è se ricordiamo il principio che mettersi d'accordo per dire no è molto più facile che mettersi d'accordo per dire sì. Una alleanza sulle tante cose da ripudiare o disfare del lungo periodo berlusconiano potrebbe risultare più facile del previsto. Una circostanza facilitante, in questo disegno, è proprio il Porcellum. Tutte le opposizioni sono state danneggiate da questo iniquo sistema elettorale, perché il premio di maggioranza regala seggi a minor prezzo ai partiti che ne usufruiscono mentre rende più «cari» (e rari) i seggi degli altri partiti. Il no al Porcellum di tutte le opposizioni è da considerare scontato. Analogamente tutti hanno da guadagnare dalla abrogazione di un'altra scandalosa «legge truffa», la legge Frattini sul conflitto di interessi, che ha regalato a Sua Emittenza un esorbitante potere sugli strumenti di comunicazione di massa. Sono anche da cancellare tutte le leggi o leggine ad personam, fatte per favorire e proteggere il Cavaliere. Tanto può già bastare per giustificare - lo dico solo a titolo del tutto personale e non propongo affatto un'«ammucchiata programmatica», contro la quale il Corriere si è già espresso - una «Federazione democratica» nella quale ogni partito sottoscrive le abrogazioni che accennavo, e poi mantiene la propria identità specificando le proprie proposte caratterizzanti. Giovanni Sartori 18 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali Titolo: GIOVANNI SARTORI. Senza nucleare e senza petrolio Inserito da: Admin - Marzo 27, 2011, 10:45:14 am IN GIAPPONE DISASTRO SISMICO, NON ATOMICO
Senza nucleare e senza petrolio Il titolo è interrogativo: è una domanda. Ma la grafica non vuole punti interrogativi nel titolo. Ce li deve mettere il lettore. Non so se resteremo senza nucleare e anche senza petrolio. Me lo chiedo. La catastrofe dell'impianto nucleare in Giappone bloccherà o altrimenti rinvierà di parecchio la costruzione di nuove centrali atomiche. Però la verità è che in Giappone la catastrofe è stata in primo luogo sismica (un terremoto tra i tre maggiori mai accaduti da quando li misuriamo) seguita da un maremoto gigantesco che ha spazzato via i collegamenti elettrici delle pompe di raffreddamento. Pertanto la lezione non è che le centrali nucleari siano di per sé pericolose, ma che non debbono essere costruite in zone sismiche. Ma al momento questa distinzione sfugge, travolta dall'orrore e dal terrore che tutti proviamo nell'aver visto le immagini di Fukushima. Sfortuna vuole che contemporaneamente la produzione del petrolio cada sempre più in mani infide (per l'Occidente). L'Europa Occidentale quasi non ne ha, e anche gli Stati Uniti non ne hanno a sufficienza nemmeno per sé. In quell'emisfero il Paese con più petrolio è il Venezuela, governato «a vita» da un caudillo alla cubana e nemico viscerale degli Stati Uniti. In Africa l'oro nero si trova soprattutto in Nigeria dove guerriglieri-pirati infestano il delta del Niger e i musulmani scannano i cristiani; e poi, appunto, soprattutto in Libia. Mubarak è caduto lestamente perché il suo esercito dipendeva dagli aiuti americani (che non potevano consentire un massacro della popolazione civile). Gheddafi, invece, paga i suoi soldati e mercenari con i proventi del petrolio e quindi si può permettere di resistere e anche di massacrare chi gli resiste. In verità Gheddafi avrebbe già schiacciato la rivolta nel sangue senza l'intervento autorizzato dalle Nazioni Unite; purtroppo un intervento vacillante che rischia di affondare nel ridicolo. Al momento la sola certezza è che se Gheddafi resta in sella si vendicherà negandoci il suo petrolio. Cosa resta? Restano l'Arabia Saudita e i vari emirati arabi di contorno; e resta la Russia, più l'Iran degli ayatollah. E siccome l'Iran è un nemico mortale dell'Occidente, è chiaro che resta troppo poco per un mondo affamato di petrolio. Senza contare che anche l'Arabia Saudita diventa instabile se tutto il Medio Oriente traballa. Resta anche - non lo posso dimenticare per dovere di inventario - il metano. L'Italia lo riceve dalla Russia, dall'Algeria (instabile) e finora (ma probabilmente non più) dalla Libia. Torno al nucleare. Sulla sua insostituibilità convengo con quanto già scritto sul Corriere da Panebianco e Boncinelli (16 marzo). E torno a ripetere che la catastrofe avvenuta in Giappone non è atomica: è sismica. La lezione è che è follia costruire centrali dove sappiamo che la terra trema. Ma è anche follia non costruirle dove la terra non trema e dove uno tsunami non può arrivare. Nei prossimi 25 anni il fabbisogno energetico mondiale crescerà, si prevede, del 60 per cento. Non sarà con il sole né con il vento che potremo colmare la voragine di vuoto energetico che si sta profilando. Giovanni Sartori 27 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_marzo_27 Titolo: GIOVANNI SARTORI. Il calderone mediterraneo Inserito da: Admin - Aprile 15, 2011, 04:41:37 pm LE RIVOLTE TRA MILITARI E CORANO
Il calderone mediterraneo Le insurrezioni nel mondo arabo che si affaccia sul Mediterraneo hanno colto l'Occidente di sorpresa. Non poteva essere diversamente: sono insurrezioni di giovani attizzati dalla tecnologia, dai telefonini, dalla televisione e soprattutto da Internet. Come si fa a indovinare se e quando «la Rete» accenderà un incendio? Molti dicono «rivoluzione». Ma sbagliano. Per ora assistiamo soltanto a rivolte, a insurrezioni. Che in passato sono state per lo più rivolte di contadini che non hanno mai portato a nulla perché erano soltanto rivolte. Le rivoluzioni sono una cosa diversa e sono soltanto moderne. La prima ad essere chiamata tale fu la «gloriosa rivoluzione» inglese del 1688-89. Ma fu una rivoluzione anomala. Rivoluzione perché trasformò la monarchia inglese in una monarchia parlamentare; ma anomala perché avvenne quasi senza colpo ferire. Pertanto la rivoluzione per antonomasia, la rivoluzione «modello», fu la rivoluzione francese del 1789. Che fa testo perché fu una conquista violenta del potere dal basso, che poi ristruttura il potere. Il che sottintende che una rivoluzione è tale perché incorpora un progetto che poi realizza. Alle spalle della rivoluzione francese c'era l'età dei lumi, l'illuminismo. Invece alle spalle delle insurrezioni non c'è nulla. Sono esplosioni senza progetto. In quasi tutta l'Africa e dintorni, seppure con importanti eccezioni, il potere è oggi dei militari, e sono i militari che bloccano l'Islam. In Siria Assad, padre dell'attuale presidente, sterminò i Fratelli Musulmani a cannonate. In Iraq la feroce dittatura di Saddam Hussein fu laica perché Saddam estromise l'Islam dal suo sistema di potere. In Egitto Mubarak, che era un dittatore moderato, pur sempre controllava strettamente i Fratelli Musulmani di casa sua. Però, nel 2005 permise che si presentassero alle elezioni in un centinaio di circoscrizioni e si ritrovò, con sua sorpresa, con 88 seggi (un 20 per cento dell'assemblea popolare) conquistati dagli islamici. E dove regna il caos, come in Somalia, è solo l'intervento etiopico che impedisce agli estremisti di Al Qaeda di conquistare il Paese. Pertanto chi proclama, in Occidente, che le «rivoluzioni arabe hanno seppellito l'islamismo» parla a vanvera con poca conoscenza di causa. Torno all'Egitto. Anche lì i ribelli chiedono «democrazia». Ma se guardiamo alle strutture l'Egitto è già, ufficialmente, una «Repubblica araba con un sistema democratico socialista» di tipo presidenziale, con un Presidente eletto a suffragio diretto per 6 anni (rinnovabili) e un parlamento bicamerale anch'esso eletto periodicamente. Eppure era, di fatto, un regime autoritario fondato sul potere dei militari. Sulla carta l'Egitto è già, o potrebbe già essere, una democrazia. Ma le forze organizzate che muovono le pedine del gioco sono il potere della forza da un lato, e il Corano dall'altro. Può darsi che i giovani che hanno dominato la piazza cerchino a loro volta di organizzarsi in partiti o comunque in forze elettorali e di governo. Può darsi, ma la gioventù che si ribella in Nord Africa e dintorni non è preparata per questo. Come dicevo, non ha un progetto. E il dramma è che si ritroverà, in Egitto, in Tunisia e anche in Libia (dove assistiamo davvero a una «drôle de guerre», a una guerra strana e impasticciata che non ha precedenti) più affamata che mai. Giovanni Sartori 15 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_aprile_15/ Titolo: GIOVANNI SARTORI. IL «PORCELLISSIMUM» ELETTORALE Inserito da: Admin - Aprile 27, 2011, 02:47:57 pm IL «PORCELLISSIMUM» ELETTORALE
Il superpremio di maggioranza Se le opposizioni sono a pezzi e divise in troppi pezzi, anche il partito del Cavaliere scricchiola, afflitto da troppe combriccole, capetti e appetiti. Però quando si tratta di salvare il suo leader il Pdl è granitico. Perché Berlusconi sa come vincere le elezioni: è una formidabile macchina elettorale. Lo sa lui e lo sanno i suoi. E quindi è difficile che il Pdl si sfasci. Ma se le cose stanno così, non si capisce se le opposizioni chiedano nuove elezioni per finta oppure sul serio. Sono assai più sfasciate del partito del Cavaliere. E da tutti i sondaggi risulta che potrebbero vincere solo se unite. Però, attenzione. I sondaggi sommano preferenze di voto che in realtà, nel mondo reale, non si sommano. Se per esempio Vendola e Casini si presentassero assieme, sia l'uno che l'altro perderebbero parecchi voti. Il totale dei sondaggisti non è, in questo caso, un totale realistico. Una ulteriore stranezza è che il maggior partito dell'opposizione ha scoperto che attaccare Berlusconi non serve, che «non rende». Sarà. Ma se attaccare il Cavaliere non rende, mi sfugge perché renda «non attaccarlo». Questa è stata la strategia elettorale di Veltroni ed è anche stata, si è visto, una strategia perdente: non da partito a vocazione maggioritaria ma da partito a vocazione minoritaria. Torno alla domanda: perché le opposizioni chiedono con insistenza nuove elezioni, elezioni anticipate, se non sono in grado di vincerle? La risposta è che contano sul fatto che il premio di maggioranza (truffaldino) della legge elettorale vigente, del famigerato Porcellum, viene attribuito per la Camera su base nazionale ma per il Senato su base regionale. Pertanto se le opposizioni vincono il premio di maggioranza in un numero sufficiente di regioni, Berlusconi rischia di trovarsi in minoranza al Senato. Il Cavaliere lo sa, e per mettersi al sicuro fa rispolverare una norma (già proposta dal senatore Quagliariello in ottobre) che estende anche al Senato il premio di maggioranza su base nazionale. Così quando dorme può dormire tranquillo. Ma forse no. Ricordo che l'attribuzione del premio di maggioranza su base regionale fu giustificata, a suo tempo, dal fatto che l'incombente riforma federale dello Stato prevede, come è sensato che sia, un Senato delle regioni fondato sul principio della rappresentanza territoriale, non della rappresentanza individuale. Così mentre a Bossi viene concesso un federalismo fiscale che è già in corso di attuazione, allo stesso tempo gli viene sottratta la struttura portante di un federalismo costituzionale e del federalismo politico. Se gli sta bene, bene. Ma se no, Berlusconi rischia di imbattersi nel veto della Lega. C'è poi anche un problema costituzionale. L'articolo 57 della Costituzione stabilisce che «Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale». È per questo che a suo tempo il presidente Ciampi chiese e ottenne che il premio di maggioranza venisse assegnato su base regionale. Così mentre il sistema elettorale è materia di legge ordinaria, su questo punto siamo in materia di legge costituzionale. Se il presidente Napolitano solleverà la stessa eccezione del suo predecessore, allora a Berlusconi le elezioni anticipate non convengono più. Tanto meglio per il Paese - siamo stanchi di troppe elezioni - e anche per le nostre scervellate opposizioni. Giovanni Sartori 27 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_aprile_27/ Titolo: GIOVANNI SARTORI. Pasticcio libico. Febbre padana Inserito da: Admin - Maggio 01, 2011, 05:35:20 pm IL PREMIER, L’ALLEATO E IL DITTATORE
Pasticcio libico. Febbre padana Che l’asse Berlusconi- Bossi si incrinasse in modo vistoso su Gheddafi proprio non me lo aspettavo. E per una volta (mi capita di rado) devo dare ragione a Berlusconi. Che la politica estera del nostro premier sia dilettantesca è comune opinione dell’Occidente che conta. Però il nostro premier non è stupido. Ne combina di tutti i colori, ma è intelligente. È chiaro che a Berlusconi la ribellione in Libia contro il suo molto corteggiato e baciato (sulla mano) Gheddafi, è andata di traverso, e molto. Gheddafi era, per noi, petrolio assicurato e anche un guardiano che poteva socchiudere, invece di spalancare, i cancelli dell’immigrazione clandestina degli africani. Lampedusa è vicina, la Spagna e la Francia sono lontane; e quindi noi siamo i più esposti. All’inizio Berlusconi ha temporeggiato. Non poteva rompere con Francia, Inghilterra e Stati Uniti né sconfessare una delibera delle Nazioni Unite. Così ha inventato la ingegnosa formula degli aerei da guerra che volano ma non sparano. Sperando in cuor suo (immagino) che il Colonnello domasse la ribellione in fretta, e così contando di ripresentarsi a lui a Tripoli come la persona che, frenando gli altri, lo aveva salvato. Ma poi, passa un giorno passa l’altro, si è accorto che non poteva fare un doppio gioco, o un gioco su due fronti, più di tanto. Ha anche capito, immagino, che ormai Gheddafi non lo avrebbe perdonato in nessun caso, e che la sua ovvia vendetta sarebbe stata di negarci il petrolio e di inondarci di migranti. E così, obtorto collo, ha capito che si doveva schierare, e che la cacciata di Gheddafi era diventata un vitale interesse anche per lui. Ora Berlusconi si batte il petto e ammette di aver sbagliato nel lasciare Bossi all’oscuro del suo voltafaccia. Ma secondo me non ha sbagliato per niente. Sapeva che avvertendo Bossi si sarebbe imbattuto nel suo veto. Dopo aver detto sì al presidente Obama non poteva richiamarlo per dirgli che Bossi non voleva. Molto meglio far finta ex post, a cose fatte, di essere dispiaciuto e di scusarsi. Tanto Bossi sa di aver bisogno di Berlusconi per varare il suo agognato federalismo, così come il Cavaliere sa di aver bisogno di Bossi per restare in sella. Difatti il Senatur ha già detto che non farà cadere il governo, anche se al momento i rapporti tra i due restano gelidi. Comunque sia la vicenda mette a nudo quanto sia profondo e purtroppo radicato il «localismo» chiuso della Lega. Niente Europa, niente guerra, niente stranieri, insomma niente di niente. La Lega è come un mulo che s’impunta, e che si impunta sempre. Inoltre, nel frattempo, l’Europa ci ha appena condannati per la legge che considera l’immigrazione clandestina un «reato ». Difatti, e a prescindere da quanta accoglienza l’Italia vorrà e potrà dare agli stranieri che fuggono dai loro Paesi, dalla fame o anche dalla tirannide, l’idea del reato non è stata una buona idea, anche perché coinvolge una magistratura bizzarra e già oberata da troppi carichi e troppi arretrati. Davvero un bel pasticcio. Giovanni Sartori 30 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_aprile_30/ Titolo: GIOVANNI SARTORI. - Un paese di poveri lo siamo già Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 12:33:34 pm TREMONTI E LA GIUSTA DIFESA DEI CONTI PUBBLICI
Un paese di poveri lo siamo già La Camusso, nuovo segretario della Cgil, dichiara che stiamo costruendo «un Paese di poveri». Ma lo abbiamo già costruito. L'Italia esibisce da tempo un debito pubblico colossale, che dopo una lieve diminuzione con il governo Prodi è tornato a salire e si aggira attorno al 120 per cento del nostro Pil, del nostro Prodotto interno lordo. Con un carico di interessi annuale di circa 80 miliardi superiore ai 75 miliardi che evidentemente paralizza il poco che resta da spendere. Perché ci siamo ridotti così male? La ovvia risposta è che negli ultimi decenni gli italiani hanno speso più di quanto abbiano prodotto e guadagnato. Insomma, siamo vissuti a debito, accumulando debiti. Beninteso, non è successo soltanto da noi. Negli anni Sessanta molti intellettuali, e poi i baldi sessantottini della rivoluzione studentesca, hanno promesso «aspettative crescenti»; una idea che a tutt'oggi eccita gli economisti. Al contempo i sociologi osannavano l'avvento di una «società post industriale» che sarebbe poi stata la «società dei servizi». E così per alcuni decenni siamo andati allegramente avanti incamerando la disoccupazione post industriale in una ipertrofia di servizi parassitari, e confidando (aspettative crescenti) in una crescita infinita. Quando la bolla di una economia segnatamente finanziaria e speculativa è scoppiata, c'è chi non ha retto (oggi specialmente la Grecia, davvero sull'orlo della bancarotta). L'Italia si è salvata perché il nostro sistema bancario è restato, per fortuna, abbastanza provinciale, e perché gli italiani sino a poco tempo fa hanno risparmiato. Ma ora non sono più in grado di farlo. E così la nostra salvezza finanziaria dipende dalla fermezza di Tremonti nel difendere la cassa dello Stato. So bene che i tagli uniformi sono ingiusti e a volte dannosi. Però vorrei vedere come si fa, in Italia, a negoziare taglio per taglio ministero per ministero. Ma il quesito sembra sorpassato dagli eventi. Sono ormai una quindicina di anni che vedo Berlusconi in televisione sempre raggiante, sempre radioso. Ma dopo la batosta delle elezioni amministrative l'ho visto più volte nero come la pece (in volto). Quando è volato da Obama alla riunione del G8 per spiegargli che lui era un perseguitato da giudici comunisti (una alzata di ingegno che ha lasciato tutti allibiti) era livido. E l'ho rivisto livido, in questi giorni, anche in altre occasioni. Questa volta abbiamo davvero a che fare con un Orlando, pardon, un Berlusca, furioso. Non ho mai pensato che il Cavaliere avrebbe mai rinunziato al potere. E se finora ha lasciato fare Tremonti era perché Bossi lo sosteneva e anche perché così poteva scaricare l'impopolarità del rigore fiscale su di lui. Ma ora il Cavaliere fa lui la mossa della popolarità intimando che «Tremonti deve tagliare le tasse». Povero Tremonti e anche poveri noi. A nessuno piace pagare le altissime tasse pagate da chi non le evade. Ma un primo ministro responsabile deve chiedere al suo ministro del Tesoro di far pagare le tasse a tutti, di impegnarsi a fondo nel combattere l'evasione fiscale. Chiedergli invece di ridurre le tasse equivale a far salire il nostro debito pubblico oltre ogni limite di sostenibilità. Come ha scritto su queste colonne Massimo Mucchetti, «questa volta ha ragione Tremonti». Che non deve dare le dimissioni come ha già fatto in passato, ma invece resistere. Per cacciarlo a forza Berlusconi rischia di dover affrontare una crisi di governo. Gli conviene? Giovanni Sartori 04 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_giugno_04/sartori_siamo-un-paese-di-poveri_9d65e2ba-8e6c-11e0-a8a9-c25beeea819c.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Il gioco stanco delle retromarce Inserito da: Admin - Giugno 23, 2011, 09:50:16 am LA POLITICA DEGLI ANNUNCI
Il gioco stanco delle retromarce Ormai è sempre più evidente che siamo nelle mani di leader penosi, di leader da strapazzo. A Pontida Bossi si è trovato al cospetto di un popolo, il suo popolo, che gridava «secessione, secessione ». Credevo, o meglio mi illudevo, che oramai la Lega si fosse attestata sul federalismo. Ma la autentica razza padana di Pontida resta indomita, vuole di più. Addirittura secessione, uscita. E sì che il nostro capo dello Stato si è impegnato come più non si poteva nel celebrare la festa della Repubblica e l’unità «indivisibile» del Paese. E Bossi? Bossi ha glissato. Aveva invece le sue richieste che ha presentato come ultimatum. Prima richiesta: ritiro pressoché immediato dalla malriuscita e malconcepita guerra libica, oltretutto e se non altro perché ci costa un miliardo di euro (cifra che per altri sarebbe di 3-400 milioni). Ora, che l’impresa libica fosse balorda e malconcepita si è visto subito. Che Berlusconi ci sia stato tirato dentro controvoglia è un punto a suo merito. Ma oramai siamo coinvolti. E se Gheddafi restasse in sella, noi il petrolio della Libia ce lo possiamo scordare. Un grossissimo guaio perché i nostri governi non hanno mai avuto una politica energetica, e quindi rischiamo di ritrovarci senza petrolio e anche senza rigassificatori sufficienti per il metano. Bossi e Maroni lo capiscono? Si direbbe di no. Maroni cerca anche di venderci la favola (se fosse intelligente saprebbe che è una favola) che Gheddafi ci manda profughi per vendetta, e che se «facciamo pace» non lo farebbe più. Al contrario, se Gheddafi vincesse continuerà a vendicarsi con sempre più soddisfazione mandandoci profughi a valanga spediti proprio da lui. La seconda perentoria richiesta di Bossi è di trasferire alcuni ministeri al Nord. Le voci di corridoio sussurrano che dapprima Berlusconi abbia consentito, ma che poi se l’è fatta addosso (è una parafrasi del più colorito vocabolario bossiano) e ha fatto retromarcia annunziando soltanto traslochi di «sedi di rappresentanza operative ». Di conserva anche Bossi ha fatto retromarcia realizzando che la sua richiesta avrebbe suscitato un vespaio e comunque che era assurda. Sarebbe un costo (anche di disorganizzazione e di confusione) che non possiamo assolutamente sopportare. Dopo tante marce avanti e indietro, cosa resta? Resta che tanto Berlusconi che Bossi chiedono perentoriamente a Tremonti di ridurre la pressione fiscale, di ridurre le tasse. È la medicina demagogica e irresponsabile di tutti i tempi. Ed è, in questo momento, una richiesta che disonora tutta la classe dirigente che la asseconda. Come siamo arrivati a un colossale debito pubblico del 120 per cento del nostro Pil, del nostro Prodotto interno lordo? Ci siamo arrivati, molto semplicemente, spendendo più di quanto lo Stato incassa. E questo debito pubblico comporta che lo Stato deve oggi pagare circa 80 miliardi di interessi annui ai sottoscrittori dei buoni del tesoro. L’Italia ha assunto l’impegno con l’Europa di ridurre il deficit con una manovra di 40 miliardi. Se non lo facciamo, i conti pubblici peggioreranno, e noi rischiamo la fine della Grecia. Il dramma è che oramai a Berlusconi basta sopravvivere, e che a Bossi basta fare il padroncino al Nord. Giovanni Sartori 23 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_giugno_23/sartori-gioco-stanco-delle-retromarce-editoriale_ca498b9e-9d56-11e0-b1a1-4623f252d3e7.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Citrullaggini e confusione sul sistema elettorale Inserito da: Admin - Luglio 17, 2011, 09:33:05 am Citrullaggini e confusione sul sistema elettorale
Tra le tante ragioni che impediscono al nostro Paese di rimettersi in piedi c'è anche la citrullaggine elettorale e cioè l'incapacità di adottare un sistema di voto che funzioni e che, di conseguenza, consenta alla politica di funzionare. La nostra prima Repubblica esordì con un sistema proporzionale puro (senza sbarramenti) che consentiva all'elettore di indicare tre preferenze tra i candidati in lizza (in lista). Queste preferenze furono eliminate da un referendum a furor di popolo. Dal che risulta che agli elettori di allora le preferenze non sembravano importanti come agli elettori di oggi. Il Sud segnava sulla scheda molti più nomi del Centro-Nord. Ma non era senso civico; era che al Sud il voto clientelare era già vivo e vegeto. E il punto resta che allora nessuno difese le preferenze proclamandole l'essenza stessa della democrazia. Lo potrebbero essere solo se e quando gli elettori si interessano di politica e si informano sui candidati. Ma finché se ne impipano, le preferenze possono fare più male che bene. Il passo seguente fu la richiesta ossessiva di Pannella, con Mariotto Segni sempre di sostegno, di sostituire il sistema proporzionale con il sistema maggioritario secco, all'inglese. Pannella prometteva e giurava che quel sistema avrebbe prodotto il bipartitismo, e cioè solo due partiti. Mai promessa fu più sciocca e infondata. Ma in gran parte venne accolta nella legge che battezzai il Mattarellum: un sistema elettorale per tre quarti uninominale e per un quarto proporzionale. Sin dal primo giorno protestai, prevedendo che il Mattarellum non avrebbe ridotto ma anzi moltiplicato i partiti (i miei editoriali sono tutti raccolti in volumi, chi non mi crede può controllare). Così fu: quando il Mattarellum venne abolito, i partiti, partitelli e partitini erano diventati tanti che era difficile contarli. Ma al male è seguito l'ancor peggio. Dopo la caduta del secondo governo Prodi il governo Berlusconi-Bossi impose un sistema elettorale che dissi il Porcellum, visto che il suo stesso estensore, Calderoli, lo aveva dichiarato una «porcata». Lo sfaldamento del centrodestra offre l'opportunità e segnala l'urgenza di una riforma elettorale che almeno elimini la maggiore orrendezza del Porcellum: premio di maggioranza assegnato alla maggiore minoranza. Un 35% dei voti che può ottenere il 55% dei seggi in Parlamento, è una intollerabile e vergognosa distorsione del processo democratico, senza precedenti in nessuna democrazia. E se in queste condizioni una opposizione chiede nuove elezioni senza almeno tentare di eliminare questa distorsione, allora è una opposizione che vuole il proprio male. Ed è proprio così. Il professor Passigli, già senatore del Pd, si è mosso proponendo un referendum abrogativo del Porcellum. E si è trovato mezzo partito contro. Il professor Ceccanti, il costituzionalista prediletto da Veltroni, lo attacca asserendo che «il ritorno alla proporzionale segnerebbe la fine del bipolarismo». Ma quando mai, ma perché? Quasi tutta l'Europa occidentale usa la proporzionale ed esibisce al tempo stesso una struttura bipolare. Inoltre non sarebbe il ritorno alla stessa proporzionale di prima, visto che ora avremmo una proporzionale con sbarramento del 4 per cento. Il professor Ceccanti ricorda anche che il partito è sempre stato per il sistema maggioritario a doppio turno di tipo francese. Ma non ricorda bene. Proprio Veltroni, quando era segretario del partito, lo cancellò dall'agenda. L'altra idea è di tornare al Mattarellum. Come se avesse funzionato bene, come se fosse degno di riesumazione. E in ogni caso mi sfugge come un sistema maggioritario possa essere ricavato da un referendum abrogativo che può soltanto cancellare ma non sostituire. A prescindere dalla proposta Passigli, che mi sembra già silurata dal suo stesso partito, mi ha colpito che anche Bersani, tra le tante stramberie, ne abbia detta una anche lui: che la proporzionale è da respingere «perché non dice come sarà composto il governo». Ma, di grazia, come potrebbe? Le elezioni (mi si perdoni l'ovvietà) eleggono, punto e basta. I governi, quali saranno e da chi composti, li stabilisce il Parlamento. Nei sistemi parlamentari è così. E il nostro è pur sempre un sistema parlamentare, per quanto malconcio e tartassato. Giovanni Sartori 16 luglio 2011 08:24© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_16/sartori_citrullaggini_elettorali_5bbb5716-af6c-11e0-8215-204269b1beec.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Quando saremo dieci miliardi Inserito da: Admin - Agosto 18, 2011, 05:29:09 pm DEMOGRAFIA, TECNOLOGIE E TABU’
Quando saremo dieci miliardi Mentre tutto va male nel mondo economico, ci siamo dimenticati che dai palazzi vaticani arriva la buona notizia che stiamo per diventare (in ottobre) 7 miliardi. Per di più, e meglio ancora, arriva anche una nuova previsione demografica. Finora si stimava che nel 2050 saremmo arrivati a 9 miliardi, per poi cominciare a decrescere. Ma oggi la stima è diventata che a fine secolo, nel 2100, saremo 10 miliardi. È anche perché l’Aids è diventato controllabile e non ucciderà più come prima. Ma è anche per merito (o per colpa) della Chiesa cattolica che si ostina – pressoché sola tra tutte le religioni – a proibire i contraccettivi e a demonizzare il controllo delle nascite. Eppure la nuova proiezione dei dieci miliardi è terrorizzante. Anche perché il sovraccarico demografico colpirà soprattutto l’Africa. Per fortuna per fine secolo la popolazione cinese scenderà a quota 950 milioni, e anche se l’India dovrebbe salire da 1 miliardo e 200 milioni di oggi a più di un miliardo e 500 milioni, anche così il totale dei due colossi asiatici rimarrebbe invariato. Invece l’Africa è davvero votata al disastro. Quest’anno la zona in crisi di siccità e di cibo è il Corno d’Africa; ma lo è da parecchio, si tratta di una crisi ricorrente. Che ricorre un po’ dappertutto. Ma la proiezione che più spaventa è quella della Nigeria, che dai 150 milioni di oggi dovrebbe addirittura salire a 730 milioni. Follia suicida? Certo. Ma la stessa follia è diffusa in tutta l’area, fino al Sud Africa. Aggiungi che i dati demografici non dicono tutto. Di tanto un Paese povero si sviluppa davvero, di altrettanto aumentano i consumi pro capite: consumi di cibo ma anche di comodità di vita. Chi non ha mai visto la luce elettrica, ora la vuole; chi ha sofferto il freddo dell’inverno e il caldo dell’estate ora vuole riscaldamento e condizionatori; chi va in bicicletta aspira a una motocicletta; chi mangiava solo riso ora vuole anche carne. Quindi l’aumento demografico comporta aumenti moltiplicati di cibo e di comodità. È giusto. Ma il «carico ecologico» diventa così sempre più insostenibile. L’altra faccia del problema è che la sovrapopolazione fa salire l’inquinamento e anche il riscaldamento dell’aria. Per il 2100 l’aumento dovrebbe essere di 4 gradi con effetti sconvolgenti sul clima e anche sul livello del mare. E mentre l’acqua salata cresce, l’acqua dolce diminuisce. Ovunque le falde acquifere che alimentano l’agricoltura si assottigliano (scendono) da decenni. Cina e India possono ancora contare sui fiumi alimentati dai ghiacciai dell’Himalaya; ma il granaio del mondo, gli Stati Uniti, dipende in buona parte dalle falde acquifere di Ogallala, che oramai si abbassano tra i trenta e i novanta centimetri l’anno. Che fare? Io dico che la crescita demografica va fermata ad ogni costo. Ma nessuno osa dirlo; l’argomento è proibito. Tutti o quasi tutti invocano la tecnologia e le sue scoperte. Ma non c’è tecnologia che basti e che ci salvi con dieci miliardi di viventi. Giovanni Sartori 15 agosto 2011 09:54© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_15/sartori-quando-saremo-dieci-miliardi_14b2965e-c70e-11e0-8ab9-b687ebb5f78f.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. DEBITI FACILI, PREVISIONI SBAGLIATE Inserito da: Admin - Agosto 29, 2011, 10:47:45 am DEBITI FACILI, PREVISIONI SBAGLIATE
Un tracollo ben preparato Tutti gli economisti, o quasi tutti, sostengono che la salvezza sta nella «crescita». Perché il mondo occidentale non cresce più (in nessun senso della parola). La sola crescita globale è stata, da un secolo a questa parte, quella della popolazione. Oggi siamo 7 miliardi, forse arriveremo a 9 o anche a 10. E di tanto cresce la popolazione, di altrettanto (se non più) crescono i problemi che la crescita economica dovrebbe risolvere. Problemi che oramai sono di «grande depressione». E problemi che le ricette degli economisti non sembrano in grado di risolvere. Forse perché sono ricette che ci hanno fatto sbagliare previsioni e terapie da almeno mezzo secolo a questa parte. Perché da mezzo secolo a questa parte gli economisti ci hanno incoraggiato a spendere più di quanto guadagniamo, creando così un progresso economico fondato sul debito. Il debito pubblico che oggi assilla tutti (anche se alcuni più, alcuni meno) nasce così: dallo Stato che spende e spande, che elargisce più di quanto incassa. Negli Stati Uniti, per decenni, l'indicatore di una economia che «tira» è stato la consumer confidence , la fiducia del consumatore di poter spendere non sui soldi che si hanno ma sui soldi che verranno. Un altro problema delle società industriali avanzate è che alla fine le macchine «disoccupano». Certo, all'inizio creano occupazione per creare le macchine; ma poi, alla lunga, finisce che sono le macchine che lavorano per l'uomo e che lo sostituiscono. Questo problema è stato oscurato dalla teoria (eminentemente sociologica) che la società post industriale era, e doveva diventare, una «società dei servizi». Certo, in parte sì. Ma in parte la società dei servizi è diventata sovrappopolata e parassitaria perché serve a colmare il buco della disoccupazione crescente. Il nostro Sud è un magnifico esempio di politica che diventa strumento di pubblico impiego. Il sistema che sono andato descrivendo era destinato a crollare. E difatti sta crollando. L'aggravante è poi stata la globalizzazione. Nel 1993 scrivevo che a parità di tecnologia i Paesi poveri a basso costo di lavoro erano destinati a togliere lavoro alla manodopera dei Paesi ricchi. Invece gli economisti hanno inneggiato alla globalizzazione come nuovi mercati di espansione e di vendita. È finita, per ora, che la Cina è diventata la cassaforte che sostiene il debito pubblico degli Stati Uniti, e che sono i cinesi che esportano più di noi. Ci sono, infine, le malefatte dei banchieri e del loro avventurismo speculativo con i soldi degli altri. Hanno cominciato a elargire mutui subprime e cioè insufficientemente garantiti. E poi si sono buttati sui derivati, una diavoleria escogitata da due matematici che nemmeno i banchieri né i loro economisti hanno ben capito. Il che non toglie che siano riusciti a inondare il mondo con un nuovo tipo di pericolosa spazzatura. Così oggi si scopre che abbiamo consumato le risorse per stimolare la ripresa, la crescita, senza che le nostre economie ripartano, senza che ci sia ripresa. Anche la locomotiva tedesca sembra che si sia fermata, la disoccupazione giovanile è altissima un po' dappertutto, e non può essere assorbita da impieghi burocratici che già soffrono di elefantiasi. Sì, in Italia bisogna assolutamente ridurre in modo drastico un deficit che continua ad alimentare uno dei più alti debiti pubblici del mondo. Ma bisogna anche dire la verità, tutta la verità. Come ha ben dichiarato il presidente Napolitano: «La maggioranza ha nascosto la gravità della crisi». Berlusconi è bravo, bravissimo, come illusionista. Resta da scoprire se sa vedere e dire la verità. Giovanni Sartori 29 agosto 2011 08:34© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_29/un-tracollo-ben-preparato-giovanni-sartori_d8446e96-d1fc-11e0-a205-8c1e98b416f7.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Onorevoli, elezioni e bufale Inserito da: Admin - Settembre 09, 2011, 05:52:42 pm Onorevoli, elezioni e bufale
Dopo cinque affannosi e sgangherati rifacimenti la manovra della nostra salvezza economica (perché tale dovrebbe essere) è stata approvata dal Senato e, sempre blindata dal voto di fiducia, passerà tal quale alla Camera. Resta un segreto: che fine ha fatto, si è chiesto ieri su queste colonne Dario Di Vico, il dimezzamento dei nostri parlamentari? Come si ricorderà, fu la prima promessa del governo, anche perché indorava la pillola dei sacrifici. Alla maggioranza degli italiani lasciare a casa metà degli onorevoli dà soddisfazione, è vissuta come una meritata punizione. Ma di questa promessa del primo giorno non si è più parlato. Era uno specchietto per le allodole, oppure è perché il dimezzamento dei parlamentari richiede una modifica costituzionale (così come la soppressione delle Province, che è invece la promessa dell'ultimo giorno)? Confesso che la soddisfazione di vedere un bel mucchio di poco onorevoli onorevoli rimandati a casa è anche mia. Resta però una controindicazione, questa: che tanto maggiore è il numero degli elettori, di altrettanto diminuisce il loro singolo potere di farsi sentire dagli eletti. Come ha di recente ricordato Sergio Romano, in Gran Bretagna la Camera dei Comuni è composta da 650 deputati, il che fissa a 70/80 mila il numero degli elettori rappresentati da ogni singolo parlamentare. Pertanto dimezzare il numero dei nostri rappresentanti crea dei mega-collegi elettorali i cui elettori sono il doppio di oggi. Il che non crea un avvicinamento, ma, semmai, un allontanamento degli elettori dagli eletti. In realtà la «misura umana» sussiste e resta possibile solo al livello comunale, che è, a mio giudizio, l'unità o l'entità non solo da difendere ma da rafforzare. L'altro problema connesso a quello del dimezzamento dei parlamentari è se sia vero che tornando a un sistema elettorale maggioritario (come quasi tutta la sinistra sembra volere), la scelta dei candidati al Parlamento tornerebbe nelle mani degli elettori. Mi dispiace (anche per la mia personale popolarità), ma questa è proprio una bufala. Finché avremo una maggioranza di elettori che si disinteressano perdutamente di politica e che non sanno chi sia chi, in queste condizioni mi sfugge quale possa essere la capacità di scelta delle loro scelte. Non sanno niente, o quasi, di nessuno, né conoscono i problemi che il Paese deve affrontare e risolvere. Ma poniamo che l'Italia torni a un sistema proporzionale con voto di preferenza. In tal caso i partiti ricreano, se già non c'erano, correnti e fazioni intese a promuovere i propri leader, i propri capibastone. Non ricordo chi l'abbia detto per primo, ma la amara verità non è che gli elettori scelgono i candidati, ma piuttosto che i candidati si fanno scegliere dagli elettori. Una ulteriore bufala è di sostenere che gli elettori scelgono meglio se votano con un sistema maggioritario uninominale. Ma perché mai? Se votano per affiliazioni di partito, il loro partito propone «un nome solo» (sistema, appunto, uninominale). Semmai il sistema che più e meglio consente all'elettore di scegliere è il sistema maggioritario a doppio turno, perché in tal caso può scegliere due volte. Contro il doppio turno si argomenta che alla seconda votazione il numero dei votanti diminuisce. Ma anche se così fosse (non è sempre così) vuol dire che i più somari vengono perduti per strada. Tanto meglio. Giovanni Sartori 08 settembre 2011 07:54© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_08/onorevoli-elezioni-e-bufale-giovanni-sartori_32a7dcc0-d9db-11e0-89f9-582afdf2c611.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. La nave sbanda. Chi c'è al timone? Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2011, 06:24:35 pm La nave sbanda. Chi c'è al timone?
Sistemi di voto e naufragio delle idee La notizia è che la richiesta di referendum sulla riforma del sistema elettorale ha trionfato con un milione e duecentomila firme (ne bastavano 500.000). Se verrà accettato dalla Corte costituzionale, molti dicono e scrivono che così «si tornerebbe al sistema precedente, al Mattarellum». Ma non è vero o comunque non è detto. L'articolo 75 della Costituzione dice così: «È indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione totale o parziale di una legge». Il testo dice chiaramente, dunque, che il nostro referendum è soltanto abrogativo e quindi che consente soltanto cancellazioni, non aggiunte e modificazioni. Inoltre, la prassi della Corte costituzionale è, di regola, di richiedere che il testo «tagliato» risulti immediatamente applicabile. Come è ovvio, perché nessun sistema politico può restare senza sistema elettorale. Ma il discorso finisce qui. Nessun referendum può ripescare una precedente legge elettorale (in questo caso il Mattarellum). Io, per esempio, ho combattuto il Porcellum, ma ho anche avversato il Mattarellum. E forse non sono il solo. Proseguendo, anche Bossi, oramai, dà i numeri. Le sue truppe sono stanche e scontente. Così Bossi le ha galvanizzate, a Pontida, ripescando dal suo vecchio repertorio la secessione. L'Italia rischia la bancarotta e Bossi sa solo sguainare la sua sciabolina di latta. E vuole Grilli come nuovo governatore della Banca d'Italia perché lui, Grilli, è milanese. Siamo al limite del ridicolo. Ma se la destra non ride, la sinistra dovrebbe piangere. A dispetto di tutto, il centrodestra di Berlusconi nei sondaggi regge. Lui, Berlusconi, è in calo di popolarità; ma il suo partito, inclusi comprati e alleati, tutto sommato tiene. Ogni settimana il tg di Mentana ci presenta lo stato dell'opinione rilevato dal suo aruspice e le variazioni sono piccole, pressoché insignificanti: mezzo punto più, mezzo punto meno o giù di lì. Eppure, come scrive Ostellino, per Berlusconi «il tempo è scaduto» visto che «non è stato la soluzione dei problemi del Paese ed è diventato lui stesso il problema». Non si potrebbe sintetizzare meglio. Eppure, le opposizioni e la sinistra restano dove sono. I loro guadagni sono magrissimi. Perché? È ovvio: perché non hanno trovato un vero leader, perché Di Pietro e Vendola sono controproducenti per la sinistra riformista e moderata che ha perduto la sua vecchia ideologia senza riuscire a rifondarsi, come invece è riuscito a quasi tutte le altre socialdemocrazie europee. Le nostre sinistre si esaltano, oggi, con le primarie e con i voti che riescono a mobilitare per un referendum. Ma non sono nemmeno capaci di decidere quale sia il buon sistema elettorale che propongono. Io ho conosciuto bene, data la mia età, la Prima Repubblica. Allora protestavo. Ma la Seconda Repubblica è stata incomparabilmente peggiore. È il momento di dirlo a chiare lettere. Giovanni Sartori 03 ottobre 2011 08:23© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_03/sartori_nave_sbanda_19180a3e-ed7f-11e0-8721-690dea02417b.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. - La resistenza del Cavaliere Inserito da: Admin - Novembre 06, 2011, 10:54:38 pm SCENARI DI UNA TRANSIZIONE
La resistenza del Cavaliere Quando Silvio Berlusconi vinse la sua prima elezione, siccome cambiava sempre parere, smentiva, diceva e disdiceva, lo battezzai per celia «Cavalier Traballa». È stata una delle mie peggiori trovate. Il Cavaliere è restato in sella, salvo brevi intermezzi, per diciassette anni e ancora non dà mostra di volersene scendere. Eppure stavolta, come raccontano le cronache politiche di questi giorni, traballa davvero. Ma, se volesse lasciare la presidenza del Consiglio, come dovrebbe fare? Qual è la procedura per liberarsi del fardello del potere? Prima ipotesi: Berlusconi chiede la fiducia in Parlamento, non la ottiene, va subito al Quirinale dal presidente della Repubblica e chiede nuove elezioni. Proprio subito, illico et immediate . Ma in tal caso dubito che il capo dello Stato gliele conceda. Perché la nostra Costituzione richiede che prima di indire nuove elezioni il presidente della Repubblica debba accertare se nelle due Camere esistano altre possibili maggioranze di governo. Ma sento già le dichiarazioni di stizza di Fabrizio Cicchitto e altri portavoce: ma questo sarebbe un infame «ribaltone»; la nuova maggioranza, se ci fosse, sarebbe costituita da «traditori» della volontà popolare, da venduti. Spero che il capo dello Stato si infischierà della dottrina del ribaltone (che tra l'altro non esiste in nessun altro ordinamento costituzionale). Dunque non è detto che, caduto Berlusconi, non possa seguire un nuovo governo di «tecnici» (per esempio presieduto da Mario Monti). So bene che per gli onorevoli in carica un governo dei tecnici sarebbe esecrando perché li spoglierebbe (temporaneamente) dei loro emolumenti e privilegi. Ma l'attuale stato di sfascio dei nostri partiti di sinistra non rassicurerebbe né il Paese né il resto del mondo. Perché noi italiani siamo ormai dei «sorvegliati speciali». Berlusconi promette ma non mantiene, dice ma non fa. E «sorvegliati speciali» resteremmo anche se il governo fosse sostenuto dall'alleanza Bersani-Di Pietro-Vendola. Avevamo detto della prospettiva delle elezioni in tempi ravvicinati. Con l'occasione mi permetterei anche di suggerire al presidente di far cancellare sulla scheda elettorale l'indicazione del premier già bellamente stampata. Se si vuole davvero offrire all'elettorato una scelta seria, allora accanto al nome del candidato devono esistere due caselline per dire «sì» oppure «no». Si può essere di destra eppure non volere Berlusconi, o di sinistra e non volere Vendola. Questo può sembrare un punto di poco momento, ma invece fonda l'interpretazione presidenzialista e al contempo «direttista» della nostra Costituzione. Meno male che Silvio c'è oppure meno male che non ci sia più? Giovanni Sartori 06 novembre 2011 10:36© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_06/la-resistenza-del-cavaliere_7a255f08-084f-11e1-8af3-7422a022c6dd.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Merito e selezione per salvarci tutti Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2011, 04:51:00 pm DEMOCRAZIA, VOTO E CITTADINI
Merito e selezione per salvarci tutti Da parecchi anni, oramai, insisto sulla distinzione tra democrazia protettiva o difensiva, che protegge la libertà dei cittadini e che è irrinunciabile, e democrazia distributiva, che dovrebbe distribuire ai cittadini i benefici della democrazia, e che invece funziona sempre meno e sempre peggio. Non mi è ancora capitato di sentirmi citare oppure contestare da qualcuno su questa distinzione. Eppure senza la democrazia protettiva noi ridiventiamo sudditi, non più cittadini. Il cittadino è quasi sparito dopo la fine del mondo greco-romano, salvo qualche eccezione. Era tanto sparito che del termine civis, cittadino e polites si era pressoché perduta la memoria. Riappare solo con le rivoluzioni settecentesche. Con fatica. Ricordo che in Germania il vocabolo polites ricompare a casaccio per denotare più che altro la polizia. Ci sono poi i partiti. Nel 1921 James Bryce asseriva che i «partiti sono inevitabili... Nessuno ha dimostrato come il governo rappresentativo possa operare senza». Per più di un secolo questa è stata la comune dottrina. L'idea era che i partiti dovessero aggregare le opinioni dell'elettorato per poi trasmetterle al governo, che a sua volta le avrebbe recepite e, nella misura del possibile, ne avrebbe soddisfatte le richieste. Ma non è andata così. Tanto per cominciare, l'elezione doveva anche essere una selezione, una selezione dei migliori. Anche a lume di buonsenso, che senso avrebbe una selezione dei peggiori? Tantovero che per tutto il Medioevo il principio di scelta è stato espresso dalla formula della melior et sanior pars. Fin quando la sciaguratissima rivoluzione studentesca degli anni Sessanta inalberò la bandiera dell'anti-elitismo: abbasso le élites, evviva chi le abbatte. Confesso di non avere mai capito se gli anti-elitisti erano in verità degli scalatori con la voglia di far presto. Certo è che gli anti-elitisti di allora sono oggi ben sistemati in posti di potere e di comando. Erano, negli anni Sessanta, soltanto dei furbacchioni in mala fede? Resta il fatto che svalutando la meritocrazia otteniamo soltanto la immeritocrazia, che svalutando la selezione otteniamo soltanto la disselezione, e che attaccando il merito otteniamo soltanto il demerito e con esso il governo dei peggiori. Che l'Italia sia un Paese profondamente corrotto è noto. Ma scoprire che si trova nella graduatoria di Transparency International al sessantanovesimo posto (per corruzione) lascia allibito anche me. Certo, non abbiamo un passato glorioso. La mafia, l'onorata società, sboccia in Sicilia, per poi risalire per tutta la penisola e diffondersi al tempo stesso negli Stati Uniti. Abbiamo anche un passato assai più lungo. In un bellissimo libro, L'Italia e i suoi invasori, Girolamo Arnaldi racconta che nessun popolo è mai stato invaso quanto il nostro. A quei tempi i barbari ammazzavano. Noi l'abbiamo quasi sempre scampata, come se fossimo dotati del genio della sopravvivenza. O Spagna o Francia, purché se magna. Siamo, allora, di vecchissimo mestiere. Se vogliamo capire come è nato e nasce tanto odierno marciume forse conviene ripartire da qui. Quanto all'oggi, il governo tecnico di Monti è l'unica chance di salvezza che ci resta. Giovanni Sartori 19 dicembre 2011 | 7:22© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_19/merito-e-selezione-per-salvarci-tutti-giovanni-sartori_1623b268-2a08-11e1-88bd-433b1e8e4c01.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. BIPOLARISMO E PREFERENZE Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2011, 10:42:11 pm BIPOLARISMO E PREFERENZE
Una politica a corto di idee Forse esagero, ma è da cinquant'anni che dalla politica italiana non nasce una sola idea. Siamo partiti con il Bipartitismo Imperfetto di Giorgio Galli, dove «imperfetto» stava per dire che non c'era alternanza al potere. È sì un difetto. Ma sin da allora facevo notare che i Paesi senza alternanza di governo erano parecchi, specialmente il Giappone, che pure è stato per lungo tempo un Paese di prima fila. Poi si è affermata l'idea che se un Paese non aveva una struttura bipolare non poteva funzionare. Per anni ho cercato di spiegare che una struttura bipolare (tipo destra-sinistra) veniva di solito da sé, che era fisiologica. Chi si prova, ogni tanto, a dichiararsi «terzo polo» è un politico spiazzato dagli eventi. D'altronde, i sistemi bipolari hanno spesso bisogno di un piccolo partito intermedio di sostegno. Come in Germania. Qual è, allora, lo scandalo italiano? È che non abbiamo il voto di preferenza. Lo avevamo, ma a furor di popolo venne cancellato da due referendum. Non era un secolo fa, eppure ce ne siamo dimenticati. E ci siamo anche dimenticati perché non funzionò allora, e perché funzionerebbe ancora peggio se ripristinato. In passato la prassi costante, tra gli scrutatori dei seggi, era di controllare attentamente i voti di lista ma di consentire a sé stessi di aggiungere crocette di preferenza ai raccomandati del proprio partito. Oggi siamo più smaliziati. Così è ancora più sicuro che il votante non riuscirà quasi mai a eleggere chi voleva. Eppure ci crede. In questo cinquantennio la vera novità è invece passata inosservata. Nel 1918 Max Weber scriveva un saggio, La politica come professione, che è illuminante già nel titolo, e che stabilisce una volta per tutte qual è il problema. Questo: che si è man mano consolidata e moltiplicata una popolazione che vive di politica e che non sa fare altro. Se perde il posto o le entrature nella «città del potere», allora resta disoccupato: o politica o fame. È evidente che la politica come professione è una inevitabile conseguenza della entrata in politica delle classi povere. Finché l'accesso al potere era ristretto ai benestanti, il cosiddetto «politico gentiluomo», non si faceva pagare. Non ne aveva bisogno. Ma i nullatenenti, invece, sì. Va da sé che il politico di professione esiste oramai un po' dappertutto. Ma da noi con una virulenza inedita che ci assegna tra i Paesi più corrotti al mondo (al 69° posto). È che da noi mancano le controforze politiche, manca un vero pluralismo politico. Il fascismo ha favorito lo sviluppo di quelle che oggi ci siamo abituati a chiamare lobbies , ovvero corporazioni di interessi economici. Dopodiché il dopoguerra ci ha restituito un sindacalismo largamente massimalista. Mentre nel 1959 i sindacati tedeschi ripudiavano a Bad Godesberg il sindacalismo rivoluzionario e da allora collaborano con le aziende, noi continuiamo il rito di inutili e dannosi scioperi. Il punto è, allora, che lo strapotere della nostra casta di politici di professione non si imbatte in vere controforze che lo combattono. Noi siamo precipitati nel momento in cui la stupidità della sinistra, allora di D'Alema e di Violante, ha consegnato il Paese a Berlusconi regalandogli tutta o quasi tutta la televisione. Giovanni Sartori 27 dicembre 2011 | 8:05© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_27/politica-a-corto-di-idee-sartori_a4485334-3055-11e1-8f40-f15d26f90444.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Una soluzione di buon senso Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2012, 09:06:31 am LA CITTADINANZA AGLI IMMIGRATI?
Una soluzione di buon senso Non sappiamo se l'Europa verrà sottoposta nei prossimi anni a migrazioni bibliche a seguito della «primavera araba» che senza dubbio ha rotto le dighe che sinora la frenavano. Il fatto è che l'esplosione demografica dell'Africa è già avviata; e siccome gli affamati non cercano la salvezza tra altri affamati, è piuttosto ovvio che un numero sempre crescente di povera (poverissima) gente cercherà la salvezza in Europa. È un problema, questo, che sinora abbiamo affrontato in chiave ideologica (di razzismo o no), che è un modo di renderlo insolubile o comunque mal risolto. Ma due giorni fa Beppe Grillo lo ha inopinatamente risollevato. Tanto vale, allora, ricominciare a pensarci. E avrei un'idea, una proposta. Inghilterra e Francia sono a oggi i Paesi più «invasi» (anche per via della loro eredità coloniale) e oramai accomodano una terza generazione di immigrati da tempo accettati come cittadini. La sorpresa è stata che una parte significativa di questa terza generazione non si è affatto «integrata». Vive in periferie ribelli e ridiventa, o sempre più diventa, islamica. Si contava di assorbirli e invece si scopre che i valori etico-politici dell'Occidente sono più che mai rifiutati. Che senso ha, allora, trasformare automaticamente in cittadini tutti coloro che nascono in Italia, oppure, dopo qualche anno, chi risiede in Italia? Questa è stata, finito il comunismo, la tesi della nostra sinistra, sostenuta dall'argomento che chi lavora e paga le tasse in un Paese si paga, per ciò stesso, il diritto di cittadinanza. Ma non è così. Le tasse pagano i servizi (polizia, pompieri, manutenzione delle strade e simili) dei quali qualsiasi residente usufruisce e che non paga, o meglio che paga, appunto, pagando le tasse. E vengo alla mia idea. Da sempre il diritto di cittadinanza è fondato sui due principi del ius soli (diventi cittadino di dove nasci) oppure del ius sanguinis (mantieni la cittadinanza dei tuoi genitori). Vorrei proporre un terzo principio: la concessione della residenza permanente trasferibile ai figli, ma pur sempre revocabile. Chiunque entri in un Paese legalmente, con le carte in regola e un posto di lavoro non dico assicurato ma quantomeno promesso o credibile, diventa residente a vita (senza fastidiosi e inutili rinnovi). In attesa di scoprire quanti saremo, se li possiamo assorbire o meno, questa formula dà tempo e non fa danno. Certo, se un residente viene pizzicato per strada a vendere droga, a rubare, e simili, la residenza viene cancellata e l'espulsione è automatica (senza entrare nel ginepraio, spesso allucinante, della nostra giurisprudenza). Insisto: l'inestimabile vantaggio di questa formula è che dà tempo. Quanti saremo? Quale sarà il punto di saturazione invalicabile? L'unica privazione di questo status è il diritto di voto; il che non mi sembra terribile a meno che i residenti in questione vogliano condizionare e controllare un Paese creando il loro partito (islamico o altro). Se così fosse, è proprio quel che io raccomanderei di impedire. Giovanni Sartori 26 gennaio 2012 | 7:33© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_26/una-soluzione-di-buon-senso-giovanni-sartori_1d2340dc-47e6-11e1-9901-97592fb91505.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Presidenzialismo parlamentare Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2012, 06:26:12 pm PROPOSTE PER RIFORMARE I POTERI
Presidenzialismo parlamentare L'imprevisto governo dei tecnici ha riaperto tutti i giochi, ivi incluso quello (necessarissimo) della riforma elettorale. Difatti i maggiori partiti (Lega esclusa) si stanno già incontrando per accordarsi su una nuova legge per votare. Ma dai primi incontri sono emerse soltanto, per ora, stramberie che anch'io stento a capire. Aspettando idee migliori, è tempo di realizzare che noi abbiamo già sviluppato e stiamo già praticando un costituzionalismo anomalo che dirò «presidenzialismo parlamentare». Che non ha bisogno di essere spiegato ai lettori del Corriere perché questa formula trova nel mio collega Angelo Panebianco un inventore di straordinaria perseveranza e bravura. Il che mi consente di entrare subito in argomento. Ripartendo dall'inizio, noi abbiamo una costituzione parlamentare «pura» il cui difetto di nascita è di essere nata nel 1948 e quindi con la paura del «troppo potere» (uscivamo da una dittatura e già si intravedeva, nel Pci, un temibile partito comunista). Questo difetto di nascita non ha creato problemi finché è durata l'egemonia democristiana; ma con la sua fine è presto diventato evidente che il nostro era un potere di governo troppo debole. Difatti il grosso dei nostri costituzionalisti da gran tempo suggerisce due rinforzi: l'adozione del voto di sfiducia costruttivo vigente in Germania (un governo non può essere rovesciato se non è già concordato il nuovo premier) e, secondo, l'attribuzione al premier del potere di cambiare sua sponte i ministri del suo governo. Io e molti altri si accontenterebbero di queste due piccole e semplici riforme. Ma Panebianco e il gruppo al quale appartiene persegue da tempo un altro disegno: quello di trasformare il nostro sistema parlamentare in un sistema di potere presidenziale diretto e pressoché incontrollato (molto più forte del presidenzialismo americano, perché non sarebbe intralciato dalla divisione dei poteri tra esecutivo e legislativo). Non posso illustrare qui l'intero disegno; basterà ricordarne qualche aspetto. Intanto, uno spauracchio: attenti, rischiamo di perdere il nostro bipolarismo. Ma questa perdita non dipende, se avviene, dal sistema elettorale (maggioritario o proporzionale che sia) ma semmai dalla frammentazione-polverizzazione del sistema partitico. Secondo, la dottrina del ribaltone. Un reato che non è contemplato da nessun sistema parlamentare, perché la caratteristica di questi sistemi è, appunto, la loro flessibilità e cioè di consentire cambiamenti di governo e di maggioranze. L'ultima trovata, la più recente, è di conferire al premier (togliendolo al capo dello Stato) il potere di sciogliere le Camere. Una proposta che mi sembra inaccettabile, visto che darebbe al premier un potere sui parlamentari che è davvero uno strapotere. Tutta questa deriva verso un presidenzialismo (anzi un iperpresidenzialismo), che non è disciplinato né dalle regole del sistema parlamentare né dai vincoli del presidenzialismo americano, si riassume nel colpo di mano (avallato a suo tempo senza fiatare dal presidente Ciampi) che introdusse il nome del candidato premier sulla scheda elettorale. Per ora non è successo, ma un qualche futuro candidato potrebbe sostenere che il capo dello Stato non interviene più nel processo di nomina. Lui è già eletto capo del governo dal voto popolare e poi potrà governare vantando di essere direttamente eletto e voluto dal popolo. Un vanto infondato (il suo nome non è scritto dal votante e la scheda nemmeno consente cancellazioni). Mi auguro che il prossimo sistema elettorale cancelli anche questa pericolosa birbonata. Giovanni Sartori 26 febbraio 2012 | 9:28© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_26/presidenzialismo-parlamentare-sartori_e9bbde44-6049-11e1-aa87-12427cb0d5f0.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. SCENARI DI FINE LEGISLATURA Inserito da: Admin - Aprile 02, 2012, 12:06:42 am SCENARI DI FINE LEGISLATURA
Notturno Italiano Il caso del rigassificatore di Brindisi, finanziato dalla British Gas, che ha atteso undici anni per i permessi; dico undici anni L'altra notte ho sognato Monti. Mi diceva che si sentiva in difficoltà e che era anche un po' irato. Ti capisco, gli ho risposto. Ma perché mai hai proprio scelto, tra i tantissimi problemi sul tappeto, proprio l'articolo 18? Capisco che è un simbolo, in Europa e nel mondo, della rigidità del mercato del lavoro in Italia, il che scoraggia, ovviamente, gli investitori. Perché venirsi a cercare un Landini quando altrove il costo del lavoro è minore (anche molto minore) e i Landini non ci sono più? Inoltre, deferendo la questione al Parlamento rischi di uscirne azzoppato e magari anche perdente. Laddove sappiamo dai sondaggi che esistono temi popolarissimi: per esempio, una riforma della magistratura che ne aumenti l'efficienza e ancor più la velocità; una radicale ristrutturazione e depoliticizzazione della Rai; una caccia implacabile degli evasori fiscali e dei patrimoni nascosti all'estero, e così via. Oppure scegli provvedimenti che Alfano, su ordine del suo capo, sarebbe costretto a bocciare. Dirà di no anche la Lega, visto che ha scelto la tattica dell'opposizione permanente. In tal caso la sfiducia al «governo dei tecnici» è assicurata. Monti coglie la palla al balzo e rassegna le dimissioni. Il presidente Napolitano dovrà cercare se esiste in Parlamento una maggioranza di governo alternativa in grado di funzionare. Non la troverà, o la troverà inaccettabile. Pertanto sarà costretto a indire nuove elezioni dalle quali il dimissionario Monti e il gruppo di candidati che andrà a scegliere uscirà, prevedo, trionfante. Tra l'altro, perché i furbetti di Montecitorio e di Palazzo Madama non hanno abrogato il Porcellum (con il pretesto che la futura legge elettorale deve essere abbinata con alcune riforme costituzionali; il che non è vero, ma serve a prendere tempo). Ne consegue che una lista Monti sarebbe votata con il Porcellum e il suo smodato premio di maggioranza. Così nel mio scenario Ti troveresti a governare da solo, senza soci di coalizione e, questa volta, legittimato dalle urne. Mi sono svegliato, e il sogno mi è parso troppo bello per diventare vero. Così mi sono rimesso a guardare i sondaggi sulla popolarità di Monti, che sono tutti al di sopra del 60 per cento fino quando si è infognato nella fossa dei serpenti dell'articolo 18. Credo che quasi tutti i lettori dei giornali abbiano visto (mentre non li ha visti, vedi caso, chi guarda soltanto i notiziari Rai o Mediaset). Eppure anche i governi locali non solo spendono a gogò e disonorevolmente contribuiscono alla classifica mondiale della corruzione (che ci colloca al 68° posto), ma rallentano oltre il lecito e anche il verosimile i permessi di costruzioni industriali e di opere pubbliche non adeguatamente foraggiate. Valga per tutti il caso del rigassificatore di Brindisi, finanziato dalla British Gas, che ha atteso undici anni per i permessi; dico undici anni. Gli inglesi hanno ora rinunciato. Eppure l'Italia ha un disperato bisogno di sottrarsi alla servitù del solo petrolio. I Mario Monti a mesi e con le mani legate sicuramente non bastano. E questo lo dico da sveglio. Giovanni Sartori 1 aprile 2012 | 14:21© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_01/notturno-italiano-sartori_28ca41e6-7bc2-11e1-95a2-17cafbbd8350.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Com'è liquido il Grillismo Inserito da: Admin - Aprile 25, 2012, 04:16:58 pm RADIOGRAFIA DI UNO STRANO PARTITO
Com'è liquido il Grillismo Chiarisco subito: «liquidismo» è un termine che ricavo dal sociologo polacco Zygmunt Bauman che chiama liquide le società che cambiano troppo in fretta per restare solide. E comincio, qui, dal «partito liquido». Quando discettavo sui partiti e sistemi di partito (davvero parecchio tempo fa, il mio librone uscì nel 1976) i partiti liquidi non esistevano. I partiti importanti, allora, erano i partiti di organizzazione di massa (come i partiti comunisti, socialisti e religiosi). Poi la televisione divenne sempre più importante per la propaganda politica e così l'organizzazione divenne secondaria. A tal punto che da una ventina di anni parliamo del «partito leggero». Di leggero in leggero, siamo ora arrivati al «partito liquido» e persino alla cancellazione della parola partito. Secondo molti sondaggisti l'antipolitica, il rifiuto della politica, è ormai così profondo da costringere i partiti a non chiamarsi tali. Intendiamoci: anche se travestiti i partiti esistono e devono (dovrebbero) esistere. Ma se la società liquida approda al «liquidismo», a un calderone nel quale tutto è disfatto e nulla rifatto, allora arriviamo a Grillo, che non solo è emblematico di questo processo ma che oggi ne è anche protagonista. Io mi diverto ad azzardare previsioni. Su Grillo scrissi due editoriali nel settembre e ottobre 2007 nei quali notavo che il suddetto «entra in politica avendo prima creato una infrastruttura di supporto e di rilancio: internet, blog e una rete territoriale assicurata dai 224 meetups (gruppi di incontro) che in un giorno raccolsero 300 mila sottoscrittori per una legge di iniziativa popolare». Mica male, pensai. Ma la mia fu allora, ovviamente, una previsione prematura. Però oggi la «liquidificazione» della politica (vedremo alle prossime elezioni amministrative) riporta Grillo alla ribalta. Oggi, come allora, cinque anni fa, Grillo propone liste civiche spontanee «certificate» da lui (che alcuni sondaggi accreditano di percentuali alte al voto). E poi? E poi niente perché in ogni caso Grillo si dispiega soltanto nella politica che dico «orizzontale» che culmina nelle elezioni, ma non ha nessuna ricetta né comprensione sensata della politica «verticale» che partendo dalle elezioni deve creare, o anche ricreare ma pur sempre gestire, una immensa organizzazione gerarchica: appunto, lo Stato. Nell'orizzonte mentale di Grillo questo potere è tutto suo. Ma non perché Grillo voglia essere un dittatore. Per carità. È che Grillo, spesso efficace nel criticare, è incapace di progettare. Quando propone le cose che sarebbero da fare, il più delle volte propone assurdità o sciocchezze. Con Grillo la politica liquefatta ci riporta all'«infantilismo politico» del quale parlava Lenin. Dicevo che alle imminenti elezioni amministrative appariranno - si prevede - innumerevoli liste civiche, liste civetta e simili. Grillo, se ho capito bene, le «certificherà», dichiarerà se sono buone o cattive. O forse Grillo certificherà soltanto liste sue, liste di «grillisti». Vedremo. E vedremo a quel momento a che punto sia arrivata la «liquidificazione» della politica italiana. Giovanni Sartori 25 aprile 2012 | 7:59© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_25/com-e-liquido-il-grillismo-giovanni-sartori_9a3bacf4-8e99-11e1-8466-78a3503db387.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. UNO SCENARIO PER IL GOVERNO MONTI Inserito da: Admin - Maggio 06, 2012, 04:46:28 pm Lo stato anfibio funziona male Le costituzioni ottocentesche erano più previdenti delle nostre. In genere prevedevano uno stato di necessità, di emergenza o di assedio (che in Italia il governo Facta chiese invano nel 1922 per fermare la marcia su Roma di Mussolini). Ma non è più così. Tantovero che il presidente Napolitano ha dovuto inventare, per fronteggiare un nostro collasso economico-finanziario, una sorta di «stato anfibio»: un governo tecnico, o di tecnici, che però deve ottenere per ogni suo disegno di legge l'approvazione delle Camere. Il risultato è che se il governo Monti non pone subito la fiducia i provvedimenti del governo rischiano di impantanarsi o di essere stravolti da troppe o anche contrastanti modifiche. Insomma, il «governo anfibio» funziona poco e male. Come rimediare? Il governo Monti dovrebbe durare, dicono tutti (non so se in buona o mala fede) sino alla regolare fine della legislatura. Ma se così fosse lascerebbe, temo, molti, anzi troppi, problemi irrisolti. L'alternativa è di forzare la mano, di porre sempre, o quasi sempre, la fiducia, fino a quando non verrà negata (ed è facile pensare a una diecina di provvedimenti che Berlusconi proprio non vuole, costringendo così il suo partito a votare la sfiducia). E siccome la Lega si è data all'opposizione ad oltranza, se il Pdl vota contro il governo la sfiducia è sicura. Tragedia? No. In tal caso Monti doverosamente presenta le dimissioni, il presidente Napolitano accerta che in questo Parlamento non ci sono, come non ci sono, credibili alternative di governo, e quindi dovrà indire nuove elezioni confermando Monti in carica «per il disbrigo degli affari ordinari». Ma in questo momento gli affari sono quasi tutti urgenti e straordinari; in questa situazione c'è poco di «ordinario». Pertanto Monti dovrà continuare ad avere, in effetti, pieni poteri di governo. E visto che i furbacchioni dei nostri partiti non hanno ancora cambiato la legge elettorale, il Porcellum, e con esso lo smisurato premio di maggioranza per il primo arrivato, è sicuro (oso spericolarmi a predire) che il primo arrivato sarà, da solo e senza bisogno di alleati, proprio Monti (che non dovrebbe avere difficoltà nell'improvvisare un partito elettorale di candidati degni e «puliti»). Conosco l'obiezione: se non c'è Monti cade tutto, finiamo come la Grecia. Ma la realtà - nel mio scenario - è che Monti c'è sempre. Pertanto la prospettiva, per la comunità internazionale che ci sorveglia, sarà di un Monti più forte e più consolidato di quanto non lo sia oggi. Non dobbiamo aver paura di un interregno che poi è apparenza più che sostanza. Dobbiamo semmai aver paura di un Monti invischiato in Parlamento da questo Parlamento, o anche in uscita anzitempo. Semmai dobbiamo temere che nemmeno cinque anni possano bastare per rimediare al non-fatto e al malfatto degli ultimi venti-venticinque anni. La recessione, nelle sue cause, parte da lontano. E i rimedi, specie per i Paesi che, come il nostro, sono indebitati oltre ogni limite di decenza, sono difficili da trovare. Persino per i tecnici. Giovanni Sartori 4 maggio 2012 | 7:29© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_04/stato-anfibio-funziona-male-sartori_7e6c0396-95a8-11e1-b2cf-0f42ed87ec02.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Le sciocchezze e le riforme Inserito da: Admin - Maggio 31, 2012, 04:33:04 pm LA PROPOSTA SEMIPRESIDENZIALISTA
Le sciocchezze e le riforme In questo momento gli italiani si interessano poco o anche punto del sistema elettorale. Si interessano di sopravvivere. Eppure il sistema elettorale resta importante. Costruisce il sistema politico «vivente», i partiti (quanti e quali) e la governabilità. Finora abbiamo avuto, specie nel corso della Seconda Repubblica, cattivi sistemi elettorali, e anche per questo cattivi governi e cattivo governare. E ci teniamo ancora il peggiore di tutti, il Porcellum, impudicamente inventato per consentire all'alleanza Berlusconi-Bossi di stravincere con una maggioranza assoluta in Parlamento. Ma ora quest'alleanza che pareva inossidabile non c'è più, e le stesse sorti della Lega bossiana sono in forse. Il Porcellum resta così come una mina vagante che tutti a parole sconfessano. E allora? Improvvisamente Berlusconi (che di fiuto ne ha da vendere e che non si rassegna certo a stare in panchina) tira fuori dal cappello il modello francese: un sistema elettorale a doppio turno coronato da un semipresidenzialismo (bisogna sempre specificare così, perché il presidenzialismo americano è tutt'altra cosa). Questa volta Berlusconi fa sul serio? Nessuno lo sa, forse nemmeno lui. Certo è che del modello in questione sa poco, visto che ci ha infilato dentro anche le primarie, che non c'entrano per niente ma che oggi suonano bene all'orecchio del colto e dell'inclita. Il doppio turno è già, a suo modo, una primaria. È anche uno dei pochissimi sistemi nei quali l'elettore è davvero messo in grado di scegliere con cognizione di causa. Al primo turno gli elettori esprimono liberamente la loro prima preferenza. Ma al secondo turno i candidati potrebbero essere soltanto quattro (è la proposta che feci anni fa per evitare il tira e molla sulla soglia di esclusione che è oggi, in Francia, del 12,5 per cento; una soglia che scatenerebbe in Italia una furibonda reazione dei partitini). Ma è prematuro entrare in questo dibattito. Il punto è che con due settimane di tempo e pochissimi candidati, l'elettore serio ha tempo e modo di studiarli. E se non lo fa, peggio per lui: è un cattivo elettore. Primarie e consimili sciocchezze a parte, quali sono gli inconvenienti del semipresidenzialismo? Il più citato è che se il presidente non vince anche la maggioranza in Parlamento, allora il «maggior potere» passa a un primo ministro che, appunto, ha la maggioranza in Parlamento. Questa eventualità viene detta «coabitazione»; e viene demonizzata da chi non vuole il sistema francese. Ma questa coabitazione è avvenuta, in Francia, due volte; e non è successo niente di tragico. D'altro canto anche i presidenti Usa si trovano sempre più spesso in minoranza nel Congresso (è il cosiddetto devided government ) e anche lì il sistema funziona lo stesso. D'altronde se la coabitazione del semipresidenzialismo spaventa, per renderla altamente improbabile basta far coincidere l'elezione del corpo legislativo con quella del presidente. Ma aspettiamo a vedere se Berlusconi è serio e se Bersani non vorrà fare troppo il furbo (il premio di maggioranza del Porcellum sembra tentarlo). Forse è vero che non c'è più tempo per riforme costituzionali. Ma c'è abbondantemente tempo per una riforma elettorale che adotti il doppio turno. Giovanni Sartori 28 maggio 2012 | 8:42© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_28/sciocchezze-riforme-sartori_bd39fa26-a884-11e1-9745-9bc890f97404.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. FENOMENOLOGIA DEL GRILLISMO Inserito da: Admin - Giugno 17, 2012, 09:53:16 am FENOMENOLOGIA DEL GRILLISMO
Se le illusioni volano in Rete Mi sono sempre chiesto se Berlusconi leggesse qualcosa. Finalmente ho scoperto che studia i comizi di Grillo (cito Verderami sul Corriere di sabato scorso). Studia nel senso che passa almeno un paio di ore al giorno a visionare i suoi filmati e a leggere testi del suo blog. A detta di Verderami, il Cavaliere lo ritiene «la sua brutta copia». A me non sembra, ma non importa. Importa che Berlusconi si proponga di surclassarlo e di batterlo al suo gioco. E se così fosse prenoto sin d'ora un posto in prima fila per lo spettacolo. Berlusconi ha capito per primo la forza politica della televisione, e difatti se ne è anche impadronito. Grillo ha capito a sua volta la forza dei blog, e piano piano ha fatto breccia usando questa nuova tecnologia «povera». Ma Berlusconi è arrivato al governo, e ha governato perché ha anche costruito un partito che per quanto «liquido» e mai denominato tale, resta pur sempre un partito, mentre Grillo non costruisce niente. Dichiara a Gian Antonio Stella (su Sette dell'1 giugno): «Diventi un partito quando discuti della struttura. Non va bene. Bisogna discutere all'aperto, con i cittadini. Facciamo l'iperdemocrazia... e il Parlamento deve avere l'obbligo di discutere le leggi popolari che vengono presentate». Presentate da chi? Formulate da chi? In attesa di saperlo, il discorso poggia sul vuoto, poggia pressoché sul nulla. Però di quel nulla Grillo è il padre-padrone. Per questo rispetto, Grillo è come Bossi, o persino più padre-padrone di Bossi (pre ictus, si intende). Il recentissimo caso di Parma è esemplare. Il nuovo sindaco è un grillino, Federico Pizzarotti. Potrà essere un bravo sindaco che farà, imparerà a fare, il mestiere «pulitamente». Ma anche a lui occorre uno staff . Così appena eletto si propone di nominare Valentino Tavolazzi direttore generale del Comune. La persona è specchiata e, a quanto pare, stimata. Ma il povero Tavolazzi si è permesso, in passato, di esprimere qualche blanda critica su Grillo. E così niente da fare: Grillo pone il suo veto e fa sapere al suo sindaco che il movimento delle Cinque Stelle lo avrebbe sconfessato. Pizzarotti ha dovuto trovare un pretesto per obbedire. Ma l'episodio è, nel suo piccolo, gravissimo. Il grillismo, nella predicazione del suo capo, è un insieme di critiche quasi sempre ovvie e anche fondate, e di proposte che sono invece troppo spesso o sballate o imbecilli o soltanto demagogiche. Poco male, dicevo a me stesso. Di una nuova generazione «pulita», anche se impreparata, il Paese ha molto bisogno. E il grillismo, così come ha già fatto il leghismo, potrà fornire soprattutto a livello di Comuni medio-piccoli bravi sindaci e bravi amministratori. Vedi il leghista Flavio Tosi, sindaco di Verona. Ma né Bossi né Grillo possono allevare una classe di governo. Loro sono i primi a non avere nessunissima idea delle complessità nelle quali i governi dell'Occidente si trovano oggi invischiati. Cacciare i politici «ladri», questo sì; ma portare al potere centrale brave persone che però non sanno nulla e sui quali Grillo si propone anche di comandare, questo no. So che così dicendo mi metto fuori gioco. Pazienza. Lo sono già per meriti dì età. Giovanni Sartori 15 giugno 2012 (modifica il 16 giugno 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_15/sartori-illusioni-in-rete_8fa3dea8-b6ab-11e1-b636-304ca8822896.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Un traballante sistema anfibio Inserito da: Admin - Luglio 27, 2012, 11:55:48 am I TECNICI E LA STRANA MAGGIORANZA
Un traballante sistema anfibio Quando il presidente Napolitano insediò un governo tecnico (di tecnici) non era chiaro come quel governo dovesse o potesse governare. In Italia il solo precedente di un'esperienza analoga è stato il governo Dini; ma fu un caso molto anomalo. Quel governo fu indicato al presidente Scalfaro da Berlusconi (quando fu sbalzato di sella a sorpresa da Bossi), e quindi nacque come un esecutivo implicitamente di centrodestra; ma poi Berlusconi gli votò quasi subito contro (era alle prime armi) e la sinistra colse l'occasione per sostenerlo come un governo, appunto, di sinistra. Dini capì esattamente come questa strana genesi non impediva a un governo, appunto, tecnico di governare. E nei limiti di elasticità che la sinistra gli doveva consentire, governò bene. Resta il fatto che il governo Dini fu un caso a sé che non fa precedente. Tornando a noi, Monti si è trovato d'un tratto insediato a palazzo Chigi per decisione, s'intende, del capo dello Stato, ma anche con il lieto consenso (sì, credo che fosse lieto) di un Berlusconi che si ritirava per non dover affrontare una crisi internazionale che capiva di non avere l'autorità di gestire. In teoria Monti poteva scegliere di governare, invocando l'emergenza, per decreto e chiedendo sistematicamente la fiducia, oppure di cercare di governare in condominio con il Parlamento. Ma di fatto ha man mano scelto questa seconda via, creando così un sistema anfibio, mezzo carne e mezzo pesce, mezzo acquatico e mezzo terrestre, che ha finito per invischiarlo nei giochetti di un Parlamento che si preparava ad affrontare elezioni particolarmente difficili (per chi vuol restare). Si è detto che Monti non poteva rischiare un voto di sfiducia, e che questo spiega il sistema anfibio nel quale si è cacciato. Ma questa spiegazione non mi convince. Uno dei ministri del governo Monti, Elsa Fornero, ha più volte dichiarato che un voto di sfiducia manderebbe tutti a casa. Ma non è esattamente così. Se Monti venisse sfiduciato, il capo dello Stato dovrebbe in primo luogo accertare se nell'attuale Parlamento esista la possibilità di governi alternativi. A me non sembra. Se così, il presidente Napolitano è tenuto ad incaricare Monti di restare in carica per il disbrigo degli affari correnti (che, vedi caso, sono e restano «grandi affari») e per gestire le elezioni. Quindi non è necessariamente vero che in tal caso la credibilità internazionale del nostro Paese verrebbe meno. Tantopiù che un Monti che gestisce le elezioni le potrebbe anche vincere. Ha certo il sostegno nell'elettorato (inclusi molti dei molti che non voterebbero) per mettere rapidamente assieme - come fece a suo tempo Berlusconi - un partito di persone nuove e credibili. Queste sono soltanto mie congetture. Però è vero che Monti si indebolisce ogni volta che dichiara che non si ripresenterà alle prossime elezioni (s'intende come capo del governo, visto che è già senatore a vita). In politica è spesso sbagliato dichiarare anzitempo cosa intendiamo fare. Berlusconi insegna: mai scoprire le proprie carte. Giovanni Sartori 26 luglio 2012 | 8:45© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_26/un-traballante-sistema-anfibio-giovanni-sartori_ecdbe09c-d6dc-11e1-a7bb-b1b271585285.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Il mal d'acqua del mondo Inserito da: Admin - Agosto 16, 2012, 07:12:23 pm L'EMERGENZA DAL NILO AL GANGE
Il mal d'acqua del mondo Almeno di Ferragosto, niente politica. Ci sono cose più serie da considerare. La Terra brucia in una sempre più lunga sequela di estati, oppure si congela in inverni gelidi come non mai. I tranquillisti di professione (o anche a pagamento) obbiettano che la terra ha sempre subito cicli di raffreddamento e poi di riscaldamento. Sì, ma cicli di secoli, di millenni, o anche di milioni di anni; mai di decenni. Quando ero ragazzo esistevano le stagioni, e il caldo cominciava di regola a metà luglio. Quest'anno a metà giugno era già molto caldo e da luglio siamo stati quasi arrostiti. Di pari passo, quando non occorreva, specie di inverno, siamo stati ripetutamente alluvionati, dopodiché le piogge non si sono quasi più fatte vedere. Vedi, appunto, la siccità che affligge la Pianura Padana, ma che affligge anche gli Stati Uniti, che hanno registrato il luglio più caldo della loro storia, la Russia e tanti altri Paesi ancora, mentre nel contempo in Ucraina piove a dirotto. Potrei continuare a elencare. Ma oramai tutti concedono che il clima è impazzito. Prima si diceva che il clima era «pazzo» a marzo; ora è pazzo tutto l'anno. E oramai quasi tutti convengono che la colpa è del riscaldamento della Terra prodotto dai «gas serra» a sua volta prodotti dall'uomo, o meglio dai troppi, troppissimi uomini (siamo già a 7 miliardi, si prevedeva che arriveremo a 9 miliardi, ma ora si parla addirittura di 10. Poveri noi!). Presto mancherà sempre più quasi tutto (nonostante i miracoli tecnologici che escogitiamo, visto che vengono subito annullati dalla crescita demografica). Ma veniamo al tema che mi sono assegnato. In parte perché verte sul disastro che ritengo più imminente e in parte perché stimolato dal recente editoriale (più articolo di domenica) di Massimo Gaggi su La Battaglia dell'Acqua , che ha poi ottenuto il placet di Formigoni. L'acqua, dichiara il nostro governatore, «sarà il tema centrale dell'Expo Milanese del 2015». Per allora - rassicuro i lettori - l'acqua ci sarà ancora (il rischio è semmai che non ci sia l'Expo), ma temo che ce ne sarà sempre meno non solo per via del numero crescente degli assetati ma ancor più perché non si sa quando e dove arrivi. L'acqua serve per bere, ma anche per mangiare, e cioè per l'agricoltura. E qui il caso più grave è quello dei monsoni dai quali dipende la vita o la morte (esagero un po', ma non esageratamente) di qualcosa come 600 milioni di contadini indiani, più o meno la metà della popolazione complessiva del Paese. Sì, l'India ha un grande fiume, il Gange, che però è oramai ridotto allo stremo, e che purtroppo attraversa a monte il Pakistan, un nemico giurato (musulmano) che ne può aumentare a piacimento i prelievi. Pertanto l'acqua che salva l'agricoltura indiana è quella dei monsoni: pesanti piogge estive portate dal vento di Sud-Ovest che ogni anno cominciava a soffiare all'inizio di giugno. Ora non si sa più. Il monsone del 2012 al suo esordio ha lasciato il Nord-Ovest dell'India all'asciutto mentre ha alluvionato il Nord-Est. Per di più, o per di peggio, in varie zone le precipitazioni si sono dimezzate. E non occorre spiegare che se i monsoni impazzissero l'India sarebbe in ginocchio e potrebbe dover piangere montagne di morti. Un altro caso molto serio e che ci tocca da vicino è quello del Nilo, il fiume più lungo del mondo (se si sommano Nilo Bianco e Nilo Azzurro). La sorgente principale del Nilo è il lago Vittoria che è sì un lago immenso ma poco profondo (80 metri massimo), e che si sta non solo restringendo (il livello dell'acqua è sceso di due metri negli ultimi anni) ma che sta anche morendo perché invaso da alghe giganti che lo imputridiscono. A suo tempo le potenze coloniali spartirono le acque del Nilo (che per l'Egitto sono questione di vita o di morte per oramai 83 milioni di abitanti) tra Egitto (con il 90%) e il Sudan. Ma ora esistono altri cinque Stati - tra i quali Tanzania, Uganda e Kenya - che vantano diritti sulle acque del fiume e che si trovano a monte degli altri due. Guerra imminente per le acque del Nilo? È possibile; ma certo non risolverà il problema perché acqua per tutti già non c'è. Torniamo a casa, al Po. Purtroppo il Po è alimentato da ghiacciai che si stanno sciogliendo più rapidamente di altri. Quasi ogni anno lo vediamo man mano ridotto a un rigagnolo, o poco più. Occorre d'urgenza modificare le colture che dipendono dal bacino del Po, escludendo quelle che «bevono» più acqua. Se davvero Expo 2015 ci sarà, e se sarà davvero sull'acqua, fossi Formigoni (o chi per lui) manderei al più presto un gruppo di esperti in Israele per studiare l'irrigazione a gocce e verificare come gli israeliani siano riusciti, quasi senza acqua, a trasformare una sassaia desertica, quantomeno nel Nord del Paese, in una rigogliosa agricoltura. Acqua di falda, nella Pianura Padana, ancora ce n'è. Non aspettiamo che si prosciughi. Per una volta il mio pezzo di Ferragosto è (localmente) speranzoso. Giovanni Sartori 15 agosto 2012 | 10:16 da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_15/il-mal-d-acqua-del-mondo-giovanni-sartori_ab7036f4-e69e-11e1-aa6d-129c31caec0a.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. IL GROVIGLIO ELETTORALE Inserito da: Admin - Settembre 11, 2012, 10:08:12 pm IL VOTO NEI SISTEMI PARLAMENTARI
IL GROVIGLIO ELETTORALE Un Paese democratico funziona anche perché si è data una buona legge elettorale, una legge che a sua volta produce un sistema politico che funziona. Noi siamo decollati, nel 1948, da un normale sistema proporzionale che era esposto a due rischi: approdare a un eccesso di frammentazione (troppi partiti), e anche a troppe crisi di governo (troppi governi troppo brevi: «governicchi», secondo Panebianco). Ma la presenza del Partito comunista moderò questi difetti. Il voto si concentrò sulla Dc, e i cosiddetti governicchi duravano sì poco, ma per trent'anni furono sempre nelle mani delle stesse persone, come prestabilito dal ben noto «manuale Cencelli», che curava la rotazione delle cariche interne della Dc. I nostri problemi cominciano, paradossalmente, con la fine del comunismo. A quel momento per bloccare la frammentazione sarebbe probabilmente bastata una «soglia di esclusione» del 5%, come insegnava l'esperienza tedesca, che in Germania ha anche prodotto la longevità dei governi. Invece abbiamo inventato il Mattarellum, un sistema per tre quarti maggioritario e per un quarto proporzionale. Io mi opposi (si capisce, inutilmente) sin dal primo giorno osservando che il sistema maggioritario avrebbe attribuito, in Italia, un fortissimo potere di ricatto ai partitini, e che quindi avrebbe prodotto una dannosa frammentazione del sistema partitico. Difatti è stato così. Ed era facile, volendo, rimediare. Ma stavano emergendo due nuove «stelle», due imprevisti, che dovevano, per emergere, sparigliare le carte: Berlusconi e Prodi. La differenza tra i due è che quando Berlusconi si fece avanti nel 1993 aveva già alle spalle una sua televisione a diffusione nazionale (anche con personale dal quale reclutare), mentre Prodi aveva alle spalle un brillante curricolo, a partire dalla presidenza dell'Iri e poi la presidenza della Commissione europea a Bruxelles, ma nessun partito. E così inventò (o lui, o Parisi, o insieme) una strana «primaria» che non era certo il meccanismo inventato dagli americani ma piuttosto uno strumento plebiscitario che stabilì con 4 milioni e passa di votanti che il leader della sinistra era lui. Bravissimo. Ma bravissimo per sé. Come è rivelato dalla intervista di Prodi al Corriere del 3 settembre scorso che merita citare: «A che servirebbe - si chiede - chiamare il popolo di centrosinistra a scegliere il candidato premier se poi la formula di governo, come avviene con la proporzionale, viene delegata alla trattativa tra le forze politiche e solo dopo le elezioni?». Ma qui si svela che Prodi di costituzionalismo sa poco o anche punto. Il nostro sistema politico è, piaccia o non piaccia, un sistema parlamentare. E finché lo è, è normale che i governi vengano decisi dopo le elezioni, e visti i risultati delle elezioni. Il nome del candidato premier stampato sulla scheda di voto fu un colpo di mano inspiegabilmente avallato dal presidente Ciampi. Infatti quel nome sulla scheda ha consentito al vincitore di dichiararsi eletto direttamente da una maggioranza del popolo (il che non è provato), e perciò stesso di ritenersi inamovibile. Se così, il sistema parlamentare viene snaturato in un sistema pseudo-presidenziale, che è poi un bastardo costituzionale. Almeno questa stortura spero che ci sarà evitata. Ma è ancora tutto in ballo. GIOVANNI SARTORI 11 settembre 2012 | 8:32© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_11/il-groviglio-elettorale-giovanni-sartori_49760dbc-fbce-11e1-8357-ee5f88952ff6.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Una nebbia fitta fuori stagione Inserito da: Admin - Settembre 17, 2012, 10:55:59 am LEGGE ELETTORALE E OFFERTA DEI PARTITI
Una nebbia fitta fuori stagione Che il sistema elettorale escogitato dal leghista Calderoli, noto come il Porcellum , fosse un sistema da dimenticare e al più presto seppellire è forse l'unico punto condiviso della riforma elettorale che stiamo oramai discutendo invano da mesi e mesi. Qual è il problema? Si sa che nessun sistema elettorale è del tutto «neutrale». Ma non esageriamo. I sistemi proporzionali favoriscono la frammentazione e i partitini; ma sappiamo che in genere basta uno sbarramento del 5 per cento come in Germania (con divieto, si intende, di alleanze che lo vanifichino) per correggere questo difetto. I sistemi maggioritari o uninominali sono invece accusati del difetto opposto: di favorire i grandi partiti. Ma talvolta è così, talvolta no. Vedi caso, da noi il Mattarellum - un sistema per tre quarti maggioritario - ha prodotto una frammentazione che né Prodi né i suoi fedeli hanno mai ammesso e tantomeno spiegato. Comunque il sistema maggioritario a doppio turno (come oggi in Francia) eliminerebbe, volendo, questo difetto. Allora, non è vero che noi siamo bloccati dalla ricerca di un sistema elettorale neutrale. Siamo bloccati, invece, dal fatto che i nostri partiti non sanno più quale sia l'elettorato sul quale puntare, o quale sia l'elettorato «fedele». Vagano, appunto, nella nebbia. A cominciare da Berlusconi. Il Cavaliere naviga, ma per il resto è fermo. Si supponeva che dopo aver graziosamente lasciato le patate bollenti al «governo dei tecnici» lui sarebbe ridisceso in campo. È vero che il suo partito oramai sta al 22 per cento. Ma contava sull'effetto trainante del suo rientro e sulla sua indubbia bravura di acchiappavoti. Invece la sua sondaggista di fiducia non ha registrato, almeno sinora, nessun effetto trainante, di trascinamento, dalla sua ricomparsa. Così Berlusconi medita e attende. Tanto ha sempre il potere di tutelare i suoi interessi e di bloccare le sue pendenze giudiziarie. Se Berlusconi è fermo, il suo principale avversario, Bersani, si destreggia tra mille difficoltà. Si libera o non si libera di Vendola? Un giorno sì, e un giorno no. Sostiene lealmente il governo Monti, ma non può dimenticare che ha bisogno del voto di una Cgil che sempre più lo combatte. In questi frangenti, ha l'idea (direi poco azzeccata nel momento nel quale centinaia di milioni di musulmani sono scatenati contro l'Occidente per un filmino che nessuno di loro ha visto) di promettere la cittadinanza ai figli degli immigrati, ivi inclusi gli islamici. Ma torniamo al problema di fondo, alla nebbia. La nebbia è creata in primo luogo dai grillini, che al momento risultano al 18 per cento dei consensi anche se nessuno capisce cosa saprebbero fare al governo; e ancor più, in secondo luogo, dall'incognita di quasi la metà del nostro elettorato che dichiara nei sondaggi di non voler votare o di non sapere per chi votare. Questo è il vero terrore dei politici minacciati di rottamazione. Quale sarà il loro elettorato? Dove lo dovrebbero cercare? E come fermare il grillismo? Bravo chi lo sa. Giovanni Sartori 17 settembre 2012 | 8:11© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_17/una-nebbia-fitta-fuori-stagione-giovanni-sartori_cf611b96-0084-11e2-821a-b818e71d5e27.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Il porcellum e i porcellini Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2012, 04:01:01 pm QUALE SISTEMA ELETTORALE
Il porcellum e i porcellini Il testo della nuova legge elettorale sinora lungamente sudata nella sua gestazione nella commissione Affari costituzionali del Senato passerà ora (con calma, si intende) all'esame dell'Aula. Non è una proposta unanime. È una proposta di impianto proporzionale che al Pd di Bersani non piace (secondo me a ragione). Ma Bersani non si oppone come altri facendo fuoco e fiamme. E così la proposta arriverà, finalmente, all'Aula del Senato. Lì il testo passerà così com'è? Forse, perché il Senato non prevede il voto segreto e quindi lì è più difficile fare vigliaccate. Se ne vedremo di belle sarà allora a Montecitorio, dove invece il voto segreto è consentito. In attesa di quel voto segreto, facciamo il punto. Il Porcellum , la legge elettorale di Calderoli, fu un atto di tracotanza: l'allora alleanza di ferro Berlusconi-Bossi bastava ad assicurare il passaggio di una legge truffa che è purtroppo ancora vigente. Questa volta la legge in gestazione è invece un calcolino di paure (di essere rottamati) e di allettamenti demagogici. Ma la paura non è, spesso, buona consigliera. E nemmeno lo è la demagogia sfrenata. Difatti il testo faticosamente partorito in Senato è pieno di stranezze forse intese a salvare i «rottamandi», ma non per questo di stranezze intelligenti. Ne indicherò tre. Un primo problema per tutti i sistemi elettorali proporzionali, o prevalentemente tali, è di bloccare la frammentazione dei partiti (che è, piaccia o non piaccia, la causa prima della ingovernabilità, come nel suo secondo governo Prodi ha forse capito, visto che si è trovato a dover fare ogni giorno «la quadra» con 13 partiti e con un governo di oltre cento governanti. Un po' troppi, no? Comunque sia, per bloccare la frammentazione occorre (Germania docet ) uno sbarramento che elimini i partitini, i nanetti. Invece, udite udite, i nostri legislatori ora propongono uno sbarramento del 5 per cento che per i partiti coalizzati scende al 4 per cento. Invece, se uno sbarramento deve funzionare, le coalizioni elettorali tra i partiti devono essere vietate. Questa è una condizione inderogabile e anche molto ovvia. Possibile che i nostri legislatori non ci arrivino? Analogo è il discorso sul premio di maggioranza. Il progetto prevede un premio del 12,5 per cento. È una misura di premio accettabile, ma di nuovo viziata dal fatto che può essere attribuito non solo al partito ma anche a una coalizione. No, e poi no. Nei sistemi parlamentari le coalizioni si fanno in parlamento, non prima. E si possono anche cambiare. Pertanto il premio va attribuito soltanto al partito che ottiene più voti. Un ultimo punto è sulle preferenze. Quando le avevamo (fino agli anni 90) Mario Segni le fece abolire per referendum, davvero a furor di popolo. Ora, da qualche anno, giornali, tv e partiti sbavano sulle preferenze. Senza preferenze, si proclama, il popolo è spodestato. La domanda resta: le preferenze ricreano davvero il «popolo sovrano»? A suo tempo si sapeva che in Sicilia le preferenze erano manovrate dalla mafia. Ora si scopre che vengono comprate anche a Milano. E allora? Una soluzione ci sarebbe. La propongo da anni, ovviamente invano. Giovanni Sartori 14 ottobre 2012 | 8:52© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_14/porcellum-e-porcellini-sistema-elettorale-Sartori_567a6f8e-15c9-11e2-9913-5894dabaa4c4.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. - SISTEMA ELETTORALE A DOPPIO TURNO Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2012, 04:02:41 pm SISTEMA ELETTORALE A DOPPIO TURNO
Tanto semplice che non si farà La vicenda dei nostri sistemi elettorali spiega, o comunque concorre a spiegare, il fallimentare andazzo della politica italiana. Nel mio ultimo pezzo ( Il Porcellum e i Porcellini di domenica scorsa) concludevo dicendo che un modo non corruttibile di consentire all'elettore di esprimere le sue preferenze sui candidati esiste. Ma non lo indicavo. È che il mio spazio era finito, e anche che volevo mettere assieme e ricordare quante leggi elettorali sbagliate, e quindi dannose, abbiamo accumulato negli ultimi decenni. Ricordare gli sbagli serve ad evitarli? In Italia no. Non mi illudo, ma provo lo stesso. Nel dopoguerra, e dopo l'esperienza del fascismo, era normale adottare un normale sistema proporzionale. Che funzionò senza proliferare partitini perché la paura del Pci portava a concentrare il grosso dei voti sulla Dc. Così fu il Partito comunista che, senza volere, fece funzionare un «bipartitismo imperfetto» che, per quanto imperfetto, ricostruì il Paese e produsse il miracolo economico del nostro dopoguerra. La Francia, con un Pcf molto meno forte, restò invece impantanata in una «repubblica dei deputati» che era poi un parlamentarismo anarchico. Però anche noi, tra gli anni 50 e 60, abbiamo avuto un Gianburrasca, per l'esattezza Marco Giacinto Pannella, che si impadronì dal 1967 in poi, e oramai si direbbe a vita, del Partito radicale e che affascinò, tra i tanti, anche Mariotto Segni. Pannella riuscì a persuadere Segni (e molti altri, si intende) che l'Italia doveva adottare un sistema maggioritario secco (puro e semplice) che avrebbe immancabilmente prodotto un sistema bipartitico all'inglese. Mai tesi fu più campata in aria. Ho scritto e riscritto senza sosta, nei decenni, che Pannella e i suoi si sbagliavano di grosso. E per decenni ho sostenuto che mentre il maggioritario a un turno avrebbe frantumato il nostro sistema partitico, era invece il maggioritario a due turni che ci avrebbe avvicinati al bipartitismo. Ma come resistere alla prepotenza e ai digiuni di Pannella? Vinse anche la viltà della Dc che, sfaldandosi, preferì il meno pericoloso (ritenne) Mattarellum , un sistema misto, maggioritario secco per tre quarti e proporzionale per un quarto. Con il Mattarellum cominciò così la nostra scivolata elettorale verso il peggio e la ingovernabilità. L'alibi invocato dai difensori del Mattarellum è di addebitare la moltiplicazione dei partiti al quarto proporzionale di quella legge. Ridicolo. Quella moltiplicazione fu dovuta alle «desistenze»: i partitini che non potevano vincere nella contesa uninominale ricattavano i partiti maggiori chiedendo in cambio dei loro voti una serie di collegi sicuri per sé. Grazie al Mattarellum siamo così arrivati alla frantumazione partitica che si è conclusa nella grande ammucchiata del secondo governo Prodi. E il rimedio fu ancora peggiore del male che si doveva curare, fu l'ancor vigente legge Calderoli, il Porcellum . Nel frattempo erano tornate alla ribalta le preferenze che poco più di 20 anni prima avevamo ripudiato a furor di popolo. Fortuna vuole che ora si scopra che i voti di preferenza si comprano anche a Milano. Aggiungi che le preferenze ricreano i partiti di corrente, o di fazioni, addetti appunto a catturare le preferenze che poi, in realtà, il popolo non sa dare o a chi dare. Eppure un sistema che consente e anzi produce una genuina espressione delle preferenze degli elettori esiste: è il maggioritario a doppio turno. L'ho proposto più volte. Ma no; i nostri legislatori non lo vogliono. Né vogliono capire che il doppio turno è anche un indicatore di preferenze. Lo debbo rispiegare? Per amor di patria (si dice ancora?) forse sì. Comincio dal ricordare che il sistema maggioritario a doppio turno (che funziona bene da sempre nella V Repubblica francese) è, al primo turno, come un sistema proporzionale: ogni elettore esprime liberamente la sua prima preferenza e, così facendo, immette la sua scelta nel meccanismo elettorale. Meccanismo che conta i voti, che scarta le preferenze dei meno, e che ovviamente non è comprabile. Supponiamo, per esempio, che la mia prima preferenza sia Marco Giacinto Pannella. So benissimo che il mio sarà un voto perduto. Ma lo voto lo stesso e nessuno potrà dire che non mi è stata data la libertà di preferire e di scegliere. Al secondo turno, la seconda volta, mi toccherà invece scegliere un candidato di mia seconda preferenza, o anche il meno sgradito. Ma anche questa è una scelta mia, non del partito o della mafia. In nessun caso sono mai un sovrano spodestato. Dunque, se le preferenze si vogliono le possiamo avere così. Ma il maggioritario a doppio turno (proposto, ma a sprazzi e senza troppa convinzione, soltanto dal Pd) non piace a nessun altro. Forse per ignoranza, non infrequente nei nostri legislatori; ma soprattutto, sospetto, perché manderebbe troppa gente a casa. Siccome non sono cattivo come ho la fama di essere, anni fa proposi un addolcimento. In primo luogo il passaggio al secondo turno sarebbe consentito ai primi quattro. Dopodiché, al secondo turno i due partiti minori (dei quattro) hanno la scelta di ritirarsi e così di fruire di un «premio di tribuna», mettiamo, del 20 per cento dei seggi; oppure di combattere le elezioni, perderle, ma così facendo perdendo anche il proprio premio di tribuna. Questa, oso dire, è una proposta «pulita», tanto più che oggi come oggi è difficile prevedere chi se ne avvantaggerebbe; siamo troppo nel caos (con Grillo, Renzi, i non votanti e una valanga di incerti) per indovinare. Per una volta sarebbe facile fare il bene del Paese. Invece appena presentata in Aula la proposta della commissione Affari Costituzionali del Senato, viene ricevuta da 222 emendamenti. Troppa grazia Sant'Antonio. Giovanni Sartori 20 ottobre 2012 | 8:38© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_20/tanto-semplice-non-si-fara-sartori_eaab1388-1a75-11e2-a470-3b372467b052.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Il freno tirato del governo Inserito da: Admin - Novembre 03, 2012, 11:49:49 am SCELTE NECESSARIE, TERAPIE POSSIBILI
Il freno tirato del governo Premesso che Monti ci ha salvati, tuttavia non capisco bene né come stia cercando di governare, né come possa davvero ridurre la disoccupazione riportandola a livelli fisiologici. All'inizio Monti governò spesso e volentieri per decreto e con frequente ricorso alla fiducia. Ma poi ha sempre più cercato di governare in sintonia con il Parlamento. Farebbe bene se il suo tempo (il tempo del suo governo) non fosse oramai corto, e se il Parlamento non fosse oramai in febbre elettorale, e cioè nel momento nel quale i parlamentari sono al loro peggio. Una ipotesi è che Monti sia ora frenato dal presidente Napolitano, uomo di lunga esperienza parlamentare che resta legato a quel suo passato. Ma proprio non so. So però che di questo passo Monti arriverà al termine del suo mandato con poco di concluso e troppo ancora da concludere. Ma vediamo i problemi. Non c'è dubbio che il primo e inderogabile problema di Monti sia stato di salvare il Paese dalla insolvenza e dalla catastrofe finanziaria evidenziata da un debito che è oramai arrivato al 126 per cento del Pil, del Prodotto interno lordo. A questo punto un Paese non ha più soldi da spendere per investire, dal momento che tutti i suoi introiti sono assorbiti dal pagamento dei servizi, del suo personale e degli interessi dei suoi debiti. Questa era senza dubbio la prima inderogabile priorità da affrontare, e Monti l'ha affrontata con successo pieno in termini di riconoscimento internazionale. Ma con meno successo in termini di entrate fiscali. Se si punta, come è doveroso, sulla lotta alla evasione fiscale bisognerà derogare alla linea dei tagli eguali per tutti. Se il Fisco deve incassare di più, allora deve essere rafforzato e non indebolito. Risparmiare sulla Guardia di finanza è come fare il notissimo dispetto alla moglie. Comunque, fin qui il governo Monti ha (più o meno bene) affrontato il problema prioritario che doveva affrontare. Resta l'altro problema, che è di tutt'altra natura, di come affrontare e ridurre la disoccupazione soprattutto giovanile. Su questo punto quasi tutti gli economisti ciurlano nel manico. Scrivevo (voce nel deserto) quasi vent'anni fa che la disoccupazione nei Paesi diciamo «ricchi» diventa una conseguenza inevitabile e facilmente prevedibile (anche se il grosso degli economisti non lo ha previsto) della «globalizzazione» mal fatta, male o punto meditata, che abbiamo attuato. Ripartendo dall'inizio, nel secondo dopoguerra l'economia si è man mano divisa in due settori: produttivo e finanziario. Il primo si interessa ai beni tangibili; il secondo è di carta (carta moneta, si intende). E le ultime generazioni degli economisti si sono buttati e specializzati nel secondo, che è anche l'economia dei guadagni smisurati, dei «soldi facili». Così l'economia di moda, in auge, fa finta di non vedere, o effettivamente è cieca e non vede, che la disoccupazione dell'Occidente è frutto della differenza, della grandissima differenza dei costi di lavoro tra Paesi benestanti e Paesi malestanti. La regola, o diciamo pure la legge, è che «a parità di tecnologia i Paesi a basso costo di lavoro (anche dieci volte meno) andranno a disoccupare i Paesi ad alto costo di lavoro». Ovvio? A me sembra ovvio. E questa è la causa primaria , di fondo, della nostra disoccupazione crescente. Si capisce, questa legge non è senza eccezioni e per ora non tocca tutti i Paesi di Eurolandia. Ma la linea di tendenza, purtroppo, è questa. E non raccontiamoci la favola che la nostra economia produttiva (di beni) ripartirà tra un anno o due. Mi vorrei sbagliare. Ma temo di no. Giovanni Sartori 1 novembre 2012 | 16:24© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_01/freno-tirato-del-govermo-sartori_b4a060cc-23f3-11e2-9217-937e87f32cd3.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. L'EUROPA DELLA MONETA UNICA... Inserito da: Admin - Novembre 12, 2012, 05:21:19 pm L'EUROPA DELLA MONETA UNICA
Un animale senza difese Non so bene quanti siano gli Stati, Staterelli o isolotti-Stato oggi esistenti. Diciamo, all'ingrosso, circa 200. Eppure il più strano animale tra questi duecento è l'Europa dell'euro. L'animale è grandino, conta ancora nel mondo, ma è anche un animale assurdo. È unificato da una moneta comune sottratta al controllo dei singoli Stati membri. E fin qui va bene. Però disporre di una moneta unica non basta: impedisce, è vero, il rimedio «sporco» della inflazione per fronteggiare i debiti; ma oggi come oggi facilita le incursioni monetarie della speculazione internazionale. Il rimedio? Quello risolutivo sarebbe, a detta dei più, di arrivare a un'Europa federale. Ma temo che sia un rimedio impossibile. Uno Stato federale richiede una lingua comune. Difatti tutti gli Stati federali esistenti sono costituiti da componenti che si capiscono e parlano tra loro. La Germania parla tedesco, gli Stati Uniti e l'Australia l'inglese (e così pure l'India a livello di élite di governo), il Brasile il portoghese, l'Argentina e il Messico lo spagnolo, e così via citando. Se l'Europa diventasse uno Stato federale io mi potrei trovare sulla scheda di voto un candidato finlandese del quale non saprei nemmeno pronunziare il nome e del quale nessun europeo sa nulla. La sola piccolissima eccezione è la Svizzera, che però a livello di classe politica federale si intende benissimo. E trovo stupefacente che nessuno dei proponenti dell'Europa federale si renda conto di questo pressoché insuperabile ostacolo. E allora? Allora il nostro strano animale è anche il più indifeso al mondo. Tutti gli altri Stati si difendono quando i loro interessi vitali vengono minacciati con dazi e severi controlli doganali. Persino l'Inghilterra, con un piede dentro e un piede fuori dall'Europa dell'euro, resta liberissima di proteggersi con dazi sulle importazioni; e siccome mantiene la sterlina resta anche liberissima di stampare moneta. Lo stesso è ancor più vero per gli Stati Uniti, che per esempio hanno di recente protetto «protezionisticamente» la loro produzione di acciaio. L'Europa dell'euro è invece inerme, come se fosse votata al suicidio. Si prenda il recente caso dell'alluminio del Sulcis. L'Alcoa se n'è andata per la semplicissima ragione che la nostra energia elettrica è più cara (la importiamo in parte dalla Francia e, ironia della sorte, dalle sue centrali nucleari). Mi chiedo: non avrebbe senso che l'autorità europea della concorrenza si comportasse in modo più flessibile? Tanto da consentire all'Italia di salvare l'alluminio del Sulcis accollandosi il differenziale elettrico? L'occupazione si difende così. Se no come facciamo a produrre lavoro e ricchezza? È un quesito al quale dovrebbero rispondere gli economisti. Ma negli ultimi venti-trenta anni gli economisti si sono buttati in massa sull'economia finanziaria (che è eccitante e rende anche bene), ignorando la distinzione che ricordavo. Leggevo l'altro giorno su Repubblica un articolo di Luciano Gallino, uno studioso molto serio della materia da tutti rispettato, intitolato «La strada da seguire per creare più lavoro». Mi sono detto: finalmente un titolo che affronta il problema senza fronzoli evasivi, senza paura di fare paura. Ma poi Gallino sa solo proporre la cosiddetta job guarantee (JG), una formula per la quale è lo Stato che crea direttamente occupazione. Sì, ma è troppo poco: sono gocce di acqua in uno stagno. Tutto serve o può servire; ma anche Gallino è costretto dai tabù che ci paralizzano a proporre un rimedio troppo piccolo per un malanno troppo grande. Intanto la realtà è questa: che in Italia le piccole imprese che resistono alla crisi e che prosperano sono soprattutto le circa 13.000 aziende, di regola aziendine, create e gestite da immigrati. Tante grazie. Sono di solito imprese familiari che non hanno (per loro fortuna) la tutela della Camusso e dei nostri sindacati. Aggiungi che le nostre aziende di media grandezza in su continuano sempre più a fuggire dall'Italia (a meno di non poter utilizzare, restando qui, la manodopera sottocosto degli immigrati o anche dei clandestini). Al contempo tra il giugno 2011 e quello 2012 il flusso degli investimenti esteri che ci lasciano è stato di 235 miliardi, pari al 15 per cento del nostro Pil (prodotto interno lordo). E perché meravigliarsi? L'Italia è un Paese la cui burocrazia è probabilmente tra le più lente, inefficienti e anche esasperanti della zona euro. Inoltre l'Italia è classificata tra i Paesi più corrotti tra i 200 che ricordavo all'inizio. Senza contare che persino lo Stato paga i suoi fornitori anche con dodici mesi di ritardo. Infine abbiamo un cuneo fiscale (il prelievo del Fisco sui salari) davvero eccessivo che, dice giustamente il presidente di Confindustria Squinzi, «strangola» la nostra economia. E anche questo non è certo un incentivo per attirare investimenti dall'estero. Tirate le somme, la crisi dell'occupazione non verrà certo rimediata in un anno. E anzi temo che si aggraverà finché non cominceremo a proteggerci. D'altra parte non arrivo a intravedere una soluzione migliore alla politica delle porte spalancate di quella di una concorrenza vigilata e corretta da una forte autorità europea che sia flessibile e attenta alle emergenze. Qualcuno ha idee migliori? Se così, tanto meglio. La mia proposta intende soltanto sollevare il problema. Cominciamo a discuterne, invece di continuare a fare i finti (o magari veri) tonti. Giovanni Sartori 12 novembre 2012 | 8:05© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_12/un-animale-senza-difese-giovanni-sartori_121347e2-2c91-11e2-ac32-eb50b1e8a70b.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. PIU' IDEE E PIU' LAVORO. L’economia del Prozac Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2013, 05:28:51 pm PIU' IDEE E PIU' LAVORO
L’economia del Prozac Fino all’Ottocento l’economia era soprattutto agricola. C’erano anche l’artigianato (le botteghe) e i commerci; ma prima di tutto, tutti dovevano mangiare. Poi arrivò, all’inizio dell’Ottocento, la prima rivoluzione industriale con l’invenzione del telaio meccanico, e per esso delle fabbriche tessili. La seconda rivoluzione industriale fu quella della catena di montaggio delle automobili di Henry Ford, del quale si ricorda il detto: comprate l’automobile del colore che volete purché sia nero. Ma già negli anni Sessanta si profetizzò l’avvento della «società dei servizi» che può essere considerata anch’essa una rivoluzione industriale perché fondata sull’avvento dei computer. Difatti il paesaggio esibì sempre meno fabbriche e sempre più uffici. Il guaio della società dei servizi è che si è gonfiata oltremisura, e che è diventata parassitaria nella misura in cui assorbe la crescita della disoccupazione. Nel contempo abbiamo incautamente sposato una dottrina sprovveduta della globalizzazione, che avrebbe inevitabilmente spostato grosse fette delle merci prodotte in Occidente in Paesi a basso, molto più basso, costo di lavoro. Ma ecco la novità: è in arrivo una quarta rivoluzione industriale che sembra ancora più radicale di tutte quelle che l’hanno preceduta. Non ha ancora un nome ufficiale, ma io la chiamerò «rivoluzione digitale». In questo contesto un prodotto viene disegnato su un computer e poi stampato su una stampante 3D che a sua volta produce un conforme oggetto solido fondendo assieme successivi strati di materiali. Non chiedetemi di più. Sono troppo vecchio per capirlo, e poi a me interessa che fine farà, in questo radioso futuro, l’occupazione o meglio la disoccupazione. È vero che, in condizioni normali, l’economia «tira» di più se siamo ottimisti. Questo principio è stato consacrato negli Stati Uniti dalla formula della consumer confidence, la fiducia del consumatore, e del positive thinking, del pensare positivo. Ma la severissima recessione di gran parte dei Paesi benestanti oramai incrina questa fiducia nella fiducia. Un libro molto letto, oggi, nelle università americane, è Prozac Leadership di David Collinson: un titolo che dice tutto, e cioè che il crac è figlio di una cultura che «premiando l’ottimismo ha indebolito la capacità di pensare criticamente, ha anestetizzato la sensibilità al pericolo». Come si sa, il Prozac è la pillola della felicità; e dunque il testo di Collinson si potrebbe anche intitolare «l’economia del Prozac». E un indiano rincara la dose: «Se non vedi le cose negative del mondo che ti circonda vivi in un paradiso per idioti» (Jaggi Vasudev). Bankitalia ha testé peggiorato le stime sul Pil (Prodotto interno lordo) che nel 2013 scenderà dell’1% e altrettanto scenderà l’occupazione. Che in verità scenderà di più, perché le statistiche non contano gli scoraggiati, chi non fa nemmeno domanda di lavoro. E il livello della nostra disoccupazione giovanile è davvero intollerabile. Le imminenti elezioni non ci illumineranno su niente di tutto questo.Ma urge lo stesso occuparsene. Da noi vige ancora la corsa per fabbricare «tutti dottori». Ma il grosso dei dottori che produciamo e che andremo a produrre saranno inutili. O anche peggio, perché abbiamo troppe università scadenti, di paternità clientelare, che andrebbero chiuse. Alle nuove generazioni occorrono istituti tecnici e scuole di specializzazione collegati alla «economia verde», al ritorno alla terra, e anche alla piccola economia delle piccole cose. Altrimenti saremo sempre più disoccupati. Giovanni Sartori 23 gennaio 2013 | 9:17© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_23/economia-prozac_9d211208-6524-11e2-a9ef-b9089581fbcf.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Bugie elettorali con le gambe corte Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2013, 11:42:00 pm INTERPRETI DI UNA BRUTTA CAMPAGNA
Bugie elettorali con le gambe corte Che brutte elezioni!Sino a fine mese la campagna elettorale diventerà rituale (in televisione) e i sondaggi di opinione dovranno essere clandestini. Poco male. Per mio conto ho già visto e sentito abbastanza. Per dirla alla Renzi, in partenza il «rottamando» sembrava che dovesse essere un Berlusconi che usciva di scena con il sorriso a tutti i denti e docile come non mai. Invece no. È lestamente tornato in scena più in forma di sempre, e in campagna elettorale è sicuramente stato il più bravo di tutti. Il secondo vincitore, si direbbe, è Grillo. Riempie le piazze, azzecca spesso le critiche che piacciono anche per la loro volgarità, e risulta dai sondaggi che spedirà in Parlamento parecchie brave persone che però sono in grandissima parte digiune di tutto quel che occorre sapere per legiferare e governare. Monti, invece, non ha avuto sufficiente presa elettorale. Combattere una elezione cominciando dal discettare su «destra» e «sinistra» dimostra che quel mestiere non gli è congeniale. Quanto a Bersani, è persona solida che però non brilla mai; e che per di più (o per di peggio) si è voluto incastrare in una alleanza di ferro con Nichi Vendola, morbido nel dire ma fanatico nel pensare; il che sposta il Pd a sinistra e ne spaventa la componente e l'elettorato riformista. Su queste premesse, e mettendo in conto una legge elettorale che è davvero un pasticcio (oltre che una «porcata»), è probabile e anche sperabile che avremo un Parlamento breve, nato morto. Tutti, a parole, hanno detto che il Porcellum andava cambiato; ma sotto sotto sia Berlusconi che Bersani erano tentati dall'enorme (abnorme) premio di maggioranza di quella legge, e quindi hanno manovrato, sotto sotto, per tenersela. Se così, male; male certamente per uno di loro, ma anche probabilmente male per tutti. Intanto è interessante capire come è che il Cavaliere batte qualsiasi rivale nell'arte della «bugia continua», tale perché ogni volta viene creduta. Il suo genio è stato di inventare un alibi perfetto: la favola che il nostro capo del governo è impotente, che la Costituzione non gli consente di fare nulla. Questo alibi è falso; ma come fa il grosso pubblico a saperlo? Eppure nelle cose che interessano lui e i suoi interessi il nostro Cavaliere non si è mai lasciato fermare da nessuno. Ha persino imposto alla sua maggioranza in Parlamento di votare che lui riteneva in buona fede che Rubi «rubacuori» fosse egiziana, e anche nipote di Mubarak! Impotente o strapotente? La verità è che se l'alibi di Berlusconi è fasullo, è anche vero, ad onor del vero, che il grosso dei nostri costituzionalisti propone da tempo piccoli e facili rimedi atti a rafforzare i poteri del capo del governo per quel tanto che sarebbe utile e anche necessario. Ma il Cavaliere non è interessato. Per dare credibilità al suo alibi ci racconta che è tutta la Costituzione che va rifatta. Proprio no. Anche io l'ho scritto e spiegato non so quante volte. Ma il Cavaliere non legge, e il suo pubblico nemmeno. Per di più, il Cavaliere si è anche munito, per il futuro, di un secondo alibi: è l'Europa che gli lega le mani, è la Germania che lo vuole fare fuori. Ma se il suo potere è così impotente, la domanda è: perché ci tiene tanto? Lui lo sa. Credo di saperlo anch'io. Ma è tempo che anche gli elettori lo scoprano. Sennò, peggio anche per loro. Giovanni Sartori 11 febbraio 2013 | 10:42© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_11/bugie-elettorali-sartori_cd428b9a-7412-11e2-b945-c75ed2830f7b.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Il firmamento dei sogni costosi Inserito da: Admin - Marzo 07, 2013, 05:14:06 pm LA STRATEGIA DEL LEADER M5S
Il firmamento dei sogni costosi Grillo è dotato, oltre che di eccezionale bravura scenica, di straordinaria furbizia. Finita la campagna elettorale fa notizia stando zitto. La pubblicità se la fa fare (gratis) rifiutando di parlare alle televisioni e ai giornalisti italiani. Sia chiaro, non è che Grillo si neghi a tutti: ai giornali e alle televisioni del resto del mondo parla. A noi no, perché siamo corrotti, venduti, infidi. Se io fossi un giornalista ricambierei la scortesia: se lui non vuole parlare con me, nemmeno io voglio parlare con lui né di lui. Invece ho visto diecine e diecine di operatori delle varie tv accalcati e imploranti di fronte alla sua porta inesorabilmente chiusa. Così, dicevo, ottiene pubblicità gratis e non corre rischi. Attorno a un tavolo, parlando, è molto meno bravo di quanto non lo sia urlando, e dunque lì corre rischi. Alla fine lo dovrà fare; ma forse manderà in sua vece il suo guru. Intanto, che fare? Io ho spesso criticato molte delle regole che abbiamo. Però riesco a capire che non possiamo vivere e convivere senza regole. Se Grillo non le rispetta o non le accetta, le regole che abbiamo debbono rifiutare lui. Per esempio, se il suo non è un partito, allora i suoi eletti non hanno il diritto di costituire un gruppo parlamentare né di usufruire dei benefici connessi (per esempio di utilizzare una sede che grava sul bilancio del Parlamento). E prima di precipitarsi a cercare di «comprarli» (così direbbe Grillo) qualcuno ci dovrebbe spiegare che razza di rappresentanti sono. Chi rappresentano? Tra le richieste perentorie del Nostro c'è anche quella di abolire il divieto del mandato imperativo. Si avverta: questo divieto, istituito dalla rivoluzione francese, esiste a tutt'oggi in tutte le costituzioni democratiche. Perché? È perché altrimenti si ricade nella rappresentanza medievale, o comunque premoderna, per la quale il rappresentante è soltanto l'emissario, l'ambasciatore di un padrone. Il che, intendiamoci, a Grillo va benissimo, visto che tutti i suoi debbono obbedire soltanto a lui e funzionare soltanto come dei «signorsì». Ma questa richiesta è evidentemente inaccettabile per qualsiasi costituzionalista serio (preciso perché non tutti lo sono). Andiamo egualmente male per la proposta pericolosamente demagogica di sottoporre a referendum la nostra appartenenza all'euro. Tecnicamente non si può fare perché la creazione dell'euro discende da trattati internazionali, e per altre ragioni ancora. Che Grillo probabilmente non conosce. Ci sono poi tutte le richieste-proposte economiche. Grillo propone un «reddito del cittadino» di mille euro al mese. Nel conteggio Istat i disoccupati in questione sarebbero circa 3 milioni: il che comporterebbe una spesa annua di 36 miliardi. Ma il conteggio dei disoccupati è notoriamente difficile: sono soltanto coloro che hanno perso il lavoro e che non ne trovano un altro? I 3 milioni di cui sopra includono i cassaintegrati. Ma poi ci sono quasi il 40 per cento di giovani disoccupati. L'altro versante del problema è che abbiamo un debito pubblico vicino al 130 per cento del Pil, del Prodotto interno lordo, e che, con lo spread che torna ad allargarsi, comporta un costo di interessi sui nostri buoni del tesoro che diventa davvero insostenibile. E tutti questi soldi Grillo dove li troverebbe? Io non lo so. Ma non lo sa nemmeno lui. Giovanni Sartori 7 marzo 2013 | 9:35© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_07/sartori-firmamento-dei-sogni-costosi_fe7d7236-86ed-11e2-82ae-71d5d7252090.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Governicchi e governacci Inserito da: Admin - Marzo 27, 2013, 06:29:40 pm Editoriale
Governicchi e governacci Economia e politica, le ragioni della crisi Mentre il parto del nuovo governo si ingarbuglia sempre più, il presidente di Confindustria, Squinzi, dichiara che «siamo alla fine, non c'è più tempo né ossigeno». Sembra anche a me. E per sostenere questa conclusione vorrei cominciare dal ricordare alcuni antefatti dei problemi che ci affliggono. L'EUROPA E GLI IMPEGNI - Forse molti non sanno che l'Unione Europea (Ue) non comporta l'adozione di una moneta comune (l'euro). I Paesi Eu che hanno adottato l'euro sono 17, mentre i Paesi senza euro sono 10. A parte l'Inghilterra che mantiene la sterlina e che è il caso più importante, sono fuori euro Danimarca, Svezia, Polonia, Ungheria, Romania e altri piccoli Stati. L'Unione Europea nacque quando venne di moda (diciamo così) la «globalizzazione». S'intende che la globalizzazione finanziaria venne da sé, con la tecnologia che la rendeva non solo possibile ma anche ineluttabile. La globalizzazione economica è tutt'alta cosa, avendo in mente, per l'Europa, il modello Stati Uniti. IL MODELLO USA - Il problema è che un sistema federale richiede un linguaggio comune. Gli Stati Uniti parlano l'inglese, la Germania il tedesco, l'India ha ereditato l'inglese, il Messico lo spagnolo, il Brasile il portoghese. L'Europa parla invece circa 22 lingue, che certo non possono alimentare una aggregazione federale. Invece l'Europa può diventare una comunità economica, che oggi è la comunità dell'euro. Ma purtroppo la messa in opera di questa unione è stata frettolosa e insufficientemente pensata. Tutti gli Stati del mondo controllano la propria moneta e si possono difendere, economicamente, con dazi, dogane, e anche svalutando o rivalutando la propria moneta. Così gli Stati Uniti tengono il dollaro «basso» per facilitare le proprie esportazioni. Invece l'Unione Europea è una comunità economica indifesa. I singoli Stati che la compongono non possono stampare moneta, né difendere le proprie industrie con barriere doganali, né impedire che le popolazioni più povere dell'Unione si trasferiscano dove lo Stato sociale paga meglio. Difatti quattro Paesi (Germania, Gran Bretagna, Austria e Olanda) chiedono di poter rifiutare il welfare agli immigrati comunitari. LE NOSTRE COLPE - In questa vicenda tutti hanno le proprie colpe. Ma ne hanno di più i Paesi mediterranei, Italia inclusa, che si sono dati alla bella vita indebitandosi oltre il lecito. L'ora della verità è scoccata, ahimè, troppo tardi per i Paesi che sono riusciti ad accumulare un debito pubblico (Buoni del Tesoro) che supera abbondantemente il Pil, il Prodotto interno lordo. Come possono risalire la china nella quale sono colpevolmente precipitati? In Italia oramai la pressione fiscale è altissima, a livelli che soffocano la crescita. E l'evasione fiscale resta largamente impunita. IL CARO EURO - Dovremmo esportare di più. Ma qui l'ostacolo è, come ho già accennato, che la nostra moneta, l'euro, è sopravvalutata rispetto al dollaro. In passato (nel 1972) avevamo escogitato il «serpente monetario» europeo che consentiva fluttuazioni delle monete entro una fascia del 2.25 per cento. L'esperimento fu utile, ma venne sostituito nel 1979 dal sistema monetario europeo (Sme) che venne a sua volta sostituito, da ultimo, dalla Banca centrale europea di Francoforte. CRESCITA ZERO - Varrebbe la pena di risuscitare un nuovo «serpente» sotto il controllo, beninteso, di Francoforte? Non lo so. Ma varrebbe la pena di pensarci. Perché da 14 anni la crescita dell'Italia è vicina allo zero.Aggiungo che il nostro Paese è particolarmente a rischio anche per le ragioni che passo rapidamente a elencare. Primo, risultiamo, nelle graduatorie internazionali, tra i Paesi più corrotti al mondo. Tra l'altro siamo anche gli inventori della «onorata società», volgarmente mafia, e per essa un Paese forse più tassato dal pizzo che dallo Stato. Aggiungi una altissima inefficienza burocratico-amministrativa. A tal punto che i fornitori dello Stato vengono pagati con nove-dodici mesi di ritardo. Un vero scandalo. Tutto sommato, allora, non vedo proprio come gli investitori stranieri siano, in queste condizioni, tentati di investire in Italia. Giovanni Sartori 27 marzo 2013 | 7:35© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_27/governicchi-e-governacci-sartori_0aeb55c6-96a5-11e2-b7d6-c608a71e3eb8.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. La libertà degli eletti Inserito da: Admin - Aprile 17, 2013, 11:48:32 am IL DIVIETO DI VINCOLO DEL MANDATO
La libertà degli eletti Nel mio ultimo pezzo di febbraio il cui titolo doveva essere Le bugie elettorali dalle gambe lunghe scrivevo in esordio: «Che brutte elezioni». Era facile indovinarlo, ma non ho indovinato abbastanza. L'elezione è stata più che brutta, bruttissima; e il bello è che tra i suoi tre quasi-vincitori è stata quasi vinta da una organizzazione incostituzionale. Io non ho titolo per sottoporre la questione all'esame della Corte costituzionale. Ma l'Italia, mi raccontavano da bambino a scuola, è «la patria del diritto». Del diritto romano certo; ma del diritto costituzionale delle democrazie rappresentative (moderne) si direbbe proprio di no. E ancor meno ne sa, temo, la appena eletta presidente della Camera che ha esordito con questa puerile sparata retorica: «Noi abbiamo la più bella Costituzione del mondo». Temo di no. Ho sostenuto più volte che quel testo andava emendato sui poteri del governo, che sono insufficienti; che i nostri costituenti avevano dimenticato di richiedere ai partiti dei veri e propri statuti, e che non avevano previsto lo «stato di emergenza» o di necessità: un istituto che sarebbe davvero servito, per esempio, a legittimare e rafforzare il governo Monti senza dover ricorrere alla fragile finzione del «governo del presidente». Ma salvo ritocchi come questi, ho sempre avversato l'idea di scrivere una nuova Costituzione ricorrendo ad una Assemblea costituente di politici. Le buone Costituzioni sono sempre state stilate da giurisperiti, mentre le Costituzioni che sono un parto assembleare (vedi America Latina) sono state quasi tutte pessime (come non potevano non essere). Comunque, il primo punto da fermare è che il XX secolo ha anche prodotto Costituzioni intelligenti e innovative quali la attuale Costituzione della Germania federale, e la Costituzione semi-presidenziale (da non chiamare presidenziale, come è invalso nello sciatto giornalismo dei nostri giornali) della V Repubblica francese, la Costituzione stesa da Debré (e poi in parte modificata, ma senza danno, anzi). Ma veniamo al punto che davvero importa. Questo: che il divieto del mandato imperativo è stato formulato dai costituenti della Rivoluzione francese, e che da allora si ritrova in tutte le Costituzioni ottocentesche e in buona parte anche in quelle del Novecento. Perché? Semplicemente perché istituisce la rappresentanza politica (di diritto pubblico) dei moderni. Senza questo divieto si ricadrebbe nella rappresentanza medioevale, nella quale, appunto, i cosiddetti rappresentanti erano ambasciatori, emissari, portavoce che «portavano la parola» dei loro padroni e signori. Il loro mandato era imperativo perché dovevano solo riferire senza potere di trattare. Esattamente come pretendono oggi Grillo e il suo guru. Mi sembra chiaro che della ragion d'essere costituzionale (ineliminabile) del divieto del mandato imperativo (la cui formula è: «I rappresentanti rappresentano la nazione») Grillo-e-Guru non sanno nulla. Ma questo non li giustifica né li legittima. Fanno finta di praticare una nuova democrazia diretta (telematica). Ma la verità è che nel loro macchinario ha voce, e parla, solo la loro voce. Confesso che non riesco a capire come la nostra Corte costituzionale non abbia sinora veduto una così macroscopica violazione costituzionale. Giovanni Sartori 17 aprile 2013 | 9:47© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_17/la-liberta-degli-eletti-editoriale-sartori_62377084-a718-11e2-ae64-724b68a647ec.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. - NECESSARIO CHE UN GOVERNO CI SIA Inserito da: Admin - Maggio 01, 2013, 06:45:08 pm NECESSARIO CHE UN GOVERNO CI SIA
La larghezza e la fragilità Meno male che Napolitano c'è. Meno male che ci sono due Letta, tutti e due bravi (uno a destra e uno a sinistra). Meno male, infine, che Letta jr. è riuscito a mettere assieme una difficile coalizione tra Pd e Pdl (per molti come tra il diavolo e l'acquasanta). È questa una Grosse Koalition alla tedesca? Cosa sia questo animale nordico l'ha subito spiegato domenica, con sicura competenza, Sergio Romano. E, sì, credo anch'io che questa volta ci siamo, ci siamo arrivati. In passato ci siamo a lungo trastullati, invece, con il consociativismo, invocato per anni senza sapere, al solito, cosa fosse per il suo inventore e per i testi che ne trattavano. Oggi della democrazia consociativa non si parla più; ma va ricordata come il periodo nel quale il nostro indebitamento, il nostro debito pubblico, spiccò il volo verso i troppo alti e ingloriosi destini nei quali oggi stiamo affogando. Ma torniamo al punto: bene o male, una Grosse Koalition siamo riusciti a metterla assieme. Bene o male? Non voglio infierire. È già un miracolo, già lo dicevo, che ci sia. Resta però che i veti incrociati, antichi rancori e le vendette degli esclusi hanno generato un «governicchio» nel quale è entrato, più spesso che no, il meno qualificato per il posto a lui (lei) assegnato. Sono persino bravi, magari bravissimi, nel loro vero mestiere, ma assegnati a un mestiere che non è il loro. Salta all'occhio semplicemente leggendo i curricoli (alcuni anche molto modesti). Il nuovo governo Letta si è assegnato 18 mesi di tempo per il programma presentato alle Camere, programma che include, nel contesto generale delle «riforme costituzionali e istituzionali», anche l'abrogazione del Porcellum e una nuova legge elettorale. Sia subito chiaro: 18 mesi sono «stretti» per le riforme costituzionali, visto lo scontato ostruzionismo dei grillini; ma sono troppi e del tutto innecessari per la riforma elettorale. Le nostre leggi elettorali sono leggi ordinarie che possono essere abrogate in un giorno. Così come, volendo, una nuova legge elettorale può essere varata in una settimana. Tutto sta in quel «volendo». Proprio per questo sarebbe bene cominciare subito a tastare il terreno. Credo che sia noto, almeno ai miei lettori, che io mi batto da sempre (assieme a molti altri costituzionalisti, s'intende) per un sistema semi-presidenziale di tipo francese fondato sul doppio turno. In questo caso occorre anche una riforma costituzionale (per il semi-presidenzialismo) che richiede tempi lunghi. Ma nulla osta che intanto il ministro delle Riforme costituzionali, Quagliariello - che per fortuna è persona giusta al posto giusto - sostituisca lestamente il Porcellum con un sistema elettorale proporzionale a due turni con forte sbarramento, sul quale, volendo, si potrà poi innestare la Costituzione semi-presidenziale. Nel qual caso aggiungerò Quagliariello alla lista dei «meno male» che lì c'è lui. GIOVANNI SARTORI 1 maggio 2013 | 8:23© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_01/sartori-la-larghezza-e-la-fragilita_95a69c02-b225-11e2-876c-e00ef3e168b7.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. LA CONVENZIONE PER LE RIFORME Inserito da: Admin - Maggio 08, 2013, 05:36:57 pm LA CONVENZIONE PER LE RIFORME
Attenti al trappolone Il primo maggio nel mio editoriale avevo deliberatamente ignorato la proposta dei «saggi» di creare un nuovo organo costituente battezzato Convenzione per le riforme addetto, appunto, a rivedere e rifare la nostra Costituzione. L'avevo ignorata perché mi interessava spiegare come ci potevamo facilmente liberare del Porcellum sostituendolo con uno dei due sistemi elettorali più accreditati e ben riusciti dell'Occidente: il sistema maggioritario a doppio turno della Francia, oppure il sistema tedesco. Ad entrambi si sarebbero poi dovute aggiungere strutture costituzionali che avrebbero richiesto più tempo; ma intanto il rischio di restare con il Porcellum sarebbe sparito. Perché i sistemi elettorali sono, in Italia, materia di legge ordinaria, e quindi disgiungibili da riforme costituzionali i cui tempi possono essere lunghi e soprattutto facilmente allungabili. Ma oramai questa malefatta - la convenzione per le riforme - è fatta. E mi incombe ora di spiegare perché sia da temere. In Italia non siamo alla prima prova. Si cominciò nel 1985 con la commissione Bozzi, che combinò poco o nulla. Venne poi, nel 1997, la Bicamerale presieduta da D'Alema che lavorò seriamente ma che alla fine Berlusconi fece affondare. Seguì poi la cosidetta Costituzione di Lorenzago, opera svelta di quattro gatti ma fortemente voluta e sostenuta da Bossi e Berlusconi. Per respingerla (come meritava) si dovette combattere un referendum che la bocciò nel giugno 2006. Quindi oggi siamo alla quarta prova di rilievo: e si pensa a una commissione di ben 75 membri (tanti quanti furono i costituenti del 1946-48) costituita da delegazioni di partito, più qualche esterno al Parlamento. Sia chiaro: anche se mi contenterei di una decina di ritocchi alla Costituzione vigente, io non sono contrario ad adottare, alla grande, il semipresidenzialismo francese fondato su elezioni a doppio turno, o il sistema federale tedesco. Anzi, mi batto per una di queste due formule da un decennio o anche due. Il punto è che le buone Costituzioni debbono essere stese da giuristi e costituzionalisti. La Costituzione di Weimar fu scritta da Preuss, quella della V Repubblica francese da Debré, e così via. Le assemblee di politici non sanno e nemmeno vogliono stendere una buona Costituzione che è tale per tutti. L'America Latina ha scritto e riscritto da un secolo a questa parte decine di Costituzioni che sono l'una peggio dell'altra. Sarebbe lo stesso oggi, in Italia. Infinitamente meglio, allora, adottare una Costituzione già collaudata e sicuramente funzionante. E vengo al trappolone. Berlusconi sostiene il governo Letta finché gli farà comodo, e cioè finché la sua popolarità anti Imu (e simili) non abbia raggiunto un livello di sicurezza a prova di bomba. Intanto la commissione per le riforme resterà impigliata nel dibattere le riforme costituzionali. E al momento giusto per lui, «Re Berlusconi» farà cadere il governo Letta, chiederà nuove elezioni che stravincerà da solo tornando a votare con il Porcellum . Il trappolone è perfetto. I suoi hanno già detto che si dovrà discutere la forma dello Stato prima o comunque insieme alla riforma elettorale. Così potranno tirare per le lunghe finché Berlusconi non sarà pronto a farsi rivotare con la legge truffa di Calderoli. Come dicevo, un trappolone perfetto. Un vecchio proverbio diceva che il mondo è fatto a scale, c'è chi scende e c'è chi sale. Nel mio scenario il nostro Cavaliere sale, continua a salire. Giovanni Sartori 8 maggio 2013 | 7:58© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_08/attenti-al-trappolone-sartori_128e4fb6-b79f-11e2-b9c5-70879a266c65.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. PIU' IDEE E PIu' LAVORO L’economia del Prozac Inserito da: Admin - Maggio 11, 2013, 05:40:06 pm PIU' IDEE E PIu' LAVORO
L’economia del Prozac Fino all’Ottocento l’economia era soprattutto agricola. C’erano anche l’artigianato (le botteghe) e i commerci; ma prima di tutto, tutti dovevano mangiare. Poi arrivò, all’inizio dell’Ottocento, la prima rivoluzione industriale con l’invenzione del telaio meccanico, e per esso delle fabbriche tessili. La seconda rivoluzione industriale fu quella della catena di montaggio delle automobili di Henry Ford, del quale si ricorda il detto: comprate l’automobile del colore che volete purché sia nero. Ma già negli anni Sessanta si profetizzò l’avvento della «società dei servizi» che può essere considerata anch’essa una rivoluzione industriale perché fondata sull’avvento dei computer. Difatti il paesaggio esibì sempre meno fabbriche e sempre più uffici. Il guaio della società dei servizi è che si è gonfiata oltremisura, e che è diventata parassitaria nella misura in cui assorbe la crescita della disoccupazione. Nel contempo abbiamo incautamente sposato una dottrina sprovveduta della globalizzazione, che avrebbe inevitabilmente spostato grosse fette delle merci prodotte in Occidente in Paesi a basso, molto più basso, costo di lavoro. Ma ecco la novità: è in arrivo una quarta rivoluzione industriale che sembra ancora più radicale di tutte quelle che l’hanno preceduta. Non ha ancora un nome ufficiale, ma io la chiamerò «rivoluzione digitale». In questo contesto un prodotto viene disegnato su un computer e poi stampato su una stampante 3D che a sua volta produce un conforme oggetto solido fondendo assieme successivi strati di materiali. Non chiedetemi di più. Sono troppo vecchio per capirlo, e poi a me interessa che fine farà, in questo radioso futuro, l’occupazione o meglio la disoccupazione. È vero che, in condizioni normali, l’economia «tira» di più se siamo ottimisti. Questo principio è stato consacrato negli Stati Uniti dalla formula della consumer confidence, la fiducia del consumatore, e del positive thinking, del pensare positivo. Ma la severissima recessione di gran parte dei Paesi benestanti oramai incrina questa fiducia nella fiducia. Un libro molto letto, oggi, nelle università americane, è Prozac Leadership di David Collinson: un titolo che dice tutto, e cioè che il crac è figlio di una cultura che «premiando l’ottimismo ha indebolito la capacità di pensare criticamente, ha anestetizzato la sensibilità al pericolo». Come si sa, il Prozac è la pillola della felicità; e dunque il testo di Collinson si potrebbe anche intitolare «l’economia del Prozac». E un indiano rincara la dose: «Se non vedi le cose negative del mondo che ti circonda vivi in un paradiso per idioti» (Jaggi Vasudev). Bankitalia ha testé peggiorato le stime sul Pil (Prodotto interno lordo) che nel 2013 scenderà dell’1% e altrettanto scenderà l’occupazione. Che in verità scenderà di più, perché le statistiche non contano gli scoraggiati, chi non fa nemmeno domanda di lavoro. E il livello della nostra disoccupazione giovanile è davvero intollerabile. Le imminenti elezioni non ci illumineranno su niente di tutto questo.Ma urge lo stesso occuparsene. Da noi vige ancora la corsa per fabbricare «tutti dottori». Ma il grosso dei dottori che produciamo e che andremo a produrre saranno inutili. O anche peggio, perché abbiamo troppe università scadenti, di paternità clientelare, che andrebbero chiuse. Alle nuove generazioni occorrono istituti tecnici e scuole di specializzazione collegati alla «economia verde», al ritorno alla terra, e anche alla piccola economia delle piccole cose. Altrimenti saremo sempre più disoccupati. Giovanni Sartori 23 gennaio 2013 | 17:46© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_23/economia-prozac_9d211208-6524-11e2-a9ef-b9089581fbcf.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Riforma elettorale, le due varianti che occorrono ... Inserito da: Admin - Giugno 03, 2013, 04:52:34 pm La lettera
Riforma elettorale, le due varianti che occorrono al sistema francese Caro direttore, confesso che sono restato un po' male per il fatto che nessuno dei quattro sottoscrittori della Lettera del 2 Giugno intitolata «Un movimento di cittadini per la scelta diretta» mi abbia chiesto di sottoscriverla. Lo faccio ora di mia solitaria iniziativa, visto che sono un po' il padre nobile della proposta in questione. Vedi il mio libro intitolato «Ingegneria costituzionale comparata» uscito in inglese nel lontano 1994 e poi in italiano nel 1995 (la cui quarta edizione è del 2000). Sono poi tornato sul tema innumerevoli volte con editoriali sul «Corriere». Quantomeno i miei valenti colleghi Panebianco e Augusto Barbera dovrebbero avermi letto. Ma forse pretendo troppo. E quindi colgo l'occasione per ricordare che avevo proposto e continuo a proporre due varianti rispetto al sistema francese. Primo, che al secondo turno passino i primi quattro partiti più votati (impelagarsi nella discussione di percentuali serve soltanto a impiombare il progetto) con un diritto di tribuna mettiamo del 10-15% dei seggi per i partiti minori dei quattro promossi al secondo turno. Ma non è qui che posso riesporre le mie proposte. Chi è interessato può facilmente ritrovarle nei tre libri di Laterza che raccolgono i miei scritti sul «Corriere». Qui, oggi, mi interessa solo sottoscrivere il testo che mi ha dimenticato. Giovanni Sartori 3 giugno 2013 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_03/varianti-sistema-francese-politica_87f8247a-cc17-11e2-baa8-7c6869fac9d2.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Terzomondismo in salsa italica Inserito da: Admin - Luglio 17, 2013, 04:02:43 pm IL DIBATTITO SU IMMIGRAZIONE E INTEGRAZIONE
Terzomondismo in salsa italica Giovanni Sartori Quando cadde il Muro di Berlino tutto il mondo libero esultò. L'inconveniente fu che il marxismo-leninismo-stalinismo - in breve, il comunismo - rimase orfano, rimase senza ideologia. In Germania, nel 1959 a Bad Godesberg, la sinistra tedesca ripudiò quel passato e divenne una autentica socialdemocrazia con tanto di Mitbestimmung (cogestione) tra sindacati e padronato (altro che il sindacato di lotta e di conquista come a tutt'oggi la Fiom italiana). Tutto a giro anche nell'Occidente restano, è vero, schegge di comunisti duri e puri (come Vendola in Italia). Ma il fatto resta che il marxismo-leninismo è morto. Come sostituirlo? In Italia la trovata è stata il «terzomondismo», abbracciare la causa del Terzo mondo. A suo tempo Livia Turco (allora ministro) fu la «pasionaria» di questo terzomondismo dogmatico e pressoché fanatico. E purtroppo risulta che la Turco ha continuato a essere il consigliere occulto (e ascoltato) di tutti i nostri presidenti, da Ciampi in poi. Ho già avuto occasione di scrivere che il governo Letta è il più scombinato, in fatto di competenze e di incompetenze, della nostra storia. Nullità che diventano ministri, brave persone messe al posto sbagliato. Eppure Letta è del mestiere, conosce bene il mondo politico nel quale vive. Chi gli ha imposto, allora, una donna (nera, bianca o gialla non fa nessunissima differenza) specializzata in oculistica all'Università di Modena per il delicatissimo dicastero della «integrazione»? Beppe Severgnini sul Corriere di ieri ha stigmatizzato, e bene, le inaccettabili parole del senatore Calderoli, ma lei, Kyenge, si batte per un ius soli (la cittadinanza a tutti coloro che sono nati in Italia) mentre il suo ministero si dovrebbe occupare di «integrazione». E non sa, a quanto pare, che l'integrazione non ha niente a che fare con il luogo di nascita: è una fusione che avviene, o anche non avviene, tra un popolo e un altro. Io ho scritto un libro per spiegare quali siano i requisiti di questa integrazione etico-politica (che non è integrazione di tutto o in tutto). Capisco che un'oculista non deve leggere (semmai deve mettere i suoi pazienti in condizioni di leggere). Ma cosa c'entra l'immigrazione e l'eventuale integrazione con le competenze di un'oculista? Ovviamente niente. È chiaro che la nostra brava ministra non ha il dovere di leggermi. Per fortuna ho però molti affezionati lettori, uno dei quali (che è un noto accademico), mi scrive così: «Vivo a Torino nel cuore multietnico della città. A due traverse di distanza ci sono i locali dei neri (sub sahariani) e quelli dei magrebini rigorosamente distinti, più uno di romeni, che assolutamente non si mischiano. Alla faccia della integrazione». In Inghilterra, in Francia, e anche nelle democrazie nordiche vi sono figli di immigrati addirittura di seconda generazione (tutti debitamente promossi a «cittadini» da tempo) che non si sentono per niente francesi o inglesi. Anzi. Allora a chi deve la sua immeritata posizione la nostra brava Kyenge Kashetu? Tra i tanti misteriosi misteri della politica italiana questo sarebbe davvero da scoprire. Un'altra raccomandata a quanto pare anch'essa di ferro (da chi?) è la presidente della Camera Boldrini. In questo caso le credenziali sono davvero irrisorie. Molta sicumera, molto presenzialismo femminista ma scarsa correttezza e anche presenza nel mestiere che dovrebbe fare. La prossima volta il presidente Napolitano ha già fatto sapere che se il governo Letta cadesse l'incarico di presidente del Consiglio verrebbe di nuovo conferito a lui. Spero che in questa eventualità Letta sia messo in grado di scegliere un buon governo di persone giuste al posto giusto. L'Italia si trova in una situazione economica gravissima con una disoccupazione giovanile senza precedenti. Non si può permettere governi combinati (o meglio scombinati) da misteriose raccomandazioni di misteriosissimi poteri. Siamo forse arrivati alla P3? 17 luglio 2013 | 8:00 © RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_17/terzomondismo-salsa-italica_59ba1a3c-ee9a-11e2-b3f4-5da735a06505.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Previsioni del tempo Inserito da: Admin - Agosto 31, 2013, 05:27:31 pm LA TERRA, IL CLIMA, LA DEMOGRAFIA
Previsioni del tempo Come va l'Italia? Male, maluccio? Io direi molto maluccio. E come va il mondo, il pianeta Terra? Forse meglio. La buona notizia è che a detta dei climatologi il riscaldamento del nostro pianeta sembra che si sia fermato. Si intende, le previsioni sul clima non sono mai certe; sono, in verità, estrapolazioni ricavate da statistiche o da modelli matematici. Anche così, quali le possibili spiegazioni? Potrebbe essere che la crisi economica ha molto ridotto le emissioni di gas serra, pareggiando così il conto, e cioè pareggiando l'eccedenza di anidride carbonica che non veniva assorbita in precedenza dagli alberi e dal mare. Dall'altra parte c'è la controindicazione che i ghiacciai (Himalaya a parte) continuano a sciogliersi e soprattutto che il mitico «passaggio a Nord Ovest» (o inversamente «passaggio a Nord Est») tra la Groenlandia e il Polo Nord si è aperto, che è diventato transitabile quantomeno nella stagione estiva. Con tutto ciò resta fermo che gli esseri umani contribuiscono al cambiamento climatico anche se sussistono fluttuazioni climatiche naturali che entrano nella partita e che non sappiamo prevedere. Anche così le previsioni restano che a lungo periodo le temperature aumenteranno di almeno due gradi entro la fine del secolo. Dicevo che al momento sul clima ci sono buone notizie. Ma non esageriamo. Buone per gli anziani di oggi, non per i bambini di domani. Le notizie sono pessime invece sul fronte demografico. Cento anni fa eravamo meno di due miliardi. Oggi siamo più di sette miliardi; e mentre le previsioni erano che fino a poco tempo fa questa crescita si sarebbe arrestata a circa 9,6 miliardi di persone nel 2050, l'ultima previsione o meglio proiezione della Agenzia ad hoc delle Nazioni Unite è che nel 2100 saremo quasi 11 miliardi. Beninteso, è sicuro che a questi 11 miliardi non arriveremo mai, visto che saremo decimati dalla fame, dalla sete e probabilmente anche dalle guerre per procurarsi cibo ed acqua. Già, l'acqua. Il fiume Giallo, in Cina, non arriva più alla foce perché tutta la sua acqua viene prelevata dall'agricoltura. Il lago Aral fino al 1969 era il quarto lago del mondo; ed oggi non esiste più. Il lago Victoria, in Africa, è la foce del Nilo, il fiume più lungo del mondo. Il guaio è che è un lago poco profondo, al massimo 80 metri, e che si sta sempre più svuotando. Un serissimo guaio per il Sudan e ancor più per l'Egitto che ha già 83 milioni di abitanti. Tornando al disastro demografico, i Paesi che più contribuiranno a questo disastro saranno in prevalenza Paesi africani (Nigeria in testa); ma anche l'India sorpasserà la Cina (che ha attuato un controllo delle nascite) arrivando a un miliardo e 600 milioni di persone. Ma non voglio tediare il lettore con troppi numeri. Però qualcuno dovrebbe occuparsene e preoccuparsene. In Italia noi abbiamo testé creato un ministero dell'Integrazione retto dalla simpatica figura di Cécile Kyenge, che però di integrazione non sa niente. Il suo chiodo fisso è lo ius soli ; e la conseguenza di questa irresponsabile fissazione sarà una ingente crescita, prevalentemente africana, della popolazione italiana. Ma allora perché non creare per lei un nuovo ministero dell'Immigrazione? O meglio ancora dell'Immigrazione e dell'Occupazione? Essendo professionalmente una oculista la nostra ministra Kyenge dovrebbe allungare la vista sugli italiani che sono già tali e che non trovano lavoro. 15 agosto 2013 | 9:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA Giovanni Sartori da http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_15/previsioni-tempo_e7431c84-0563-11e3-95f7-ac31e2b74e2c.shtml Titolo: G. SARTORI. Gli eccessi che la terra non sopporta Una modernità fuori misura Inserito da: Admin - Novembre 23, 2013, 04:51:37 pm Gli eccessi che la terra non sopporta
Una modernità fuori misura La cosiddetta modernizzazione è tutta «fuori di misura», dismisura: è, come dicevano i greci, Hubrys. La Terra è un piccolo pianeta la cui circonferenza è di appena 40.000 km. Ma noi predichiamo un progresso senza limiti, una crescita senza limiti, uno sviluppo senza limiti e, ancor peggio, una popolazione senza limiti. È demenza? Sì. Perché è demenza ipotizzare una crescita infinita in un pianeta che ha dimensioni finite e per ciò stesso anche risorse finite. So bene che noi siamo attualmente assillati dalla disoccupazione e dal peso di colossali debiti dello Stato. Il che ci fa dimenticare, purtroppo, che anche il pianeta Terra è in crisi: stiamo inquinando l’atmosfera, stiamo avvelenando l’aria che respiriamo e, al contempo, stiamo destabilizzando il clima. Sono notizie di questi giorni il ciclone senza precedenti che ha colpito le Filippine, e ora il diluvio, la bomba d’acqua anch’essa senza precedenti che si è abbattuta sulla Sardegna e che ancora la minaccia. Forse troveremo il modo di uscire dalla crisi economica (della quale portano la massima colpa gli economisti), ma come fermare l’impazzimento del clima, il progressivo riscaldamento, la crescita dei livelli del mare, l’erosione dei ghiacciai (che alimentano i fiumi) e, infine, la nuova probabile dislocazione delle piogge con la conseguente dislocazione delle zone aride? Il rimedio vero sarebbe una drastica riduzione delle nascite (specialmente in Africa) che ci restituirebbe un pianeta vivibile. A questo effetto le maggiori responsabilità sono della Chiesa cattolica (per l’Africa e anche parte dell’America Latina). Per ora papa Francesco si è limitato a carezzare molti bambini, stringere molte mani e a distribuire in piazza San Pietro la «Misericordina» che poi, aperta la scatolina, è un rosario. E la nostra televisione è inondata da appelli di soldi per salvare i bambini africani. A che pro? Le prospettive, restando le cose come sono, sono cicloni in autunno, piogge torrenziali in inverno, afa insopportabile d’estate. E d’estate non nevicherà più sui ghiacciai, il che implica che andranno a sparire. Di conseguenza i fiumi si prosciugheranno. Come dicevo di tutto questo non ci diamo pensiero perché prima di tutto bisogna mangiare. Vero. Ma è anche vero che ci sarà sempre meno da mangiare. Ripeto, l’unica cura ancora a nostra disposizione è di ridurre la popolazione e con essa ridurre l’emissione di gas serra e la conseguente concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera. I combustibili fossili(a cominciare dal carbone) vanno messi al bando, mentre noi continuiamo allegramente a incendiare i nostri boschi senza che mai un incendiario sia preso e condannato. Si può essere più incoscienti di così? Quasi dappertutto si continua e riprende la cementificazione, la speculazione edilizia che consente di costruire fabbricati in zone pericolose, a rischio di essere spazzati via da frane e piene subitanee. Le nostre amministrazioni locali hanno fame di soldi, ma sono soldi che vanno alla criminalità organizzata, alle mafie che signoreggiano oramai un po’ dappertutto. Come scriveva qualche giorno fa su queste colonne Gian Antonio Stella, i nostri governi «non hanno fatto che accumulare imposte ecologiche raccogliendo dal 1990 in qua 801 miliardi di euro. Sapete quanti siano stati spesi davvero in interventi di risanamento dell’ambiente? Meno di 7, lo 0,9%». Che vergogna. E anche che incoscienza. 23 novembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Giovanni Sartori Da - http://www.corriere.it/politica/13_novembre_23/editoriale-sartori-modernita-consumo-pianeta-907adcac-5405-11e3-b3cc-01de6c91b992.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. EUROPA, TASSE E DISOCCUPAZIONE Intrappolati in un girotondo Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2013, 11:41:44 pm EUROPA, TASSE E DISOCCUPAZIONE
Intrappolati in un girotondo Specialmente noi - anche se non soltanto noi - ci siamo intrappolati in un girotondo vizioso che era facile prevedere ma che non è stato previsto. Sorvoliamo sulle colpe. Il fatto è che abbiamo creato una Comunità europea indifesa e indifendibile nella sua economia produttiva e nei suoi livelli di occupazione. Eppure era ovvio che aprirsi alla globalizzazione in un mondo nel quale i salari dei Paesi poveri, i Paesi del cosiddetto Terzo mondo, erano 5, 10, a volte persino 20 volte, inferiori ai nostri salari, avrebbe costretto le nostre industrie, specie le grandi industrie, a dislocarsi dove il lavoro costava meno. Dunque la globalizzazione dell’economia produttiva comportava la disoccupazione europea. I Paesi più efficienti e meglio governati hanno sinora fronteggiato la situazione. Ma in parecchi membri dell’Unione Europea la globalizzazione ha gonfiato il debito pubblico a livelli non sostenibili e ha gonfiato a dismisura la burocrazia dello Stato o comunque a carico dello Stato. Oggi siamo costretti a dimagrire: per cominciare, via gli enti inutili, via le Province, via le burocrazie clientelari e gonfiate delle Regioni. La soppressione delle Province forse andrà in porto: ma con l’assicurazione che il loro personale verrà salvato e manterrà lo stipendio che aveva. E allora siamo sempre nel circolo vizioso di partenza. Il punto è che per uscire dalla crisi di disoccupazione che ci sta facendo affondare bisogna che il lavoro torni nell’Unione Europea. Come si fa? Si fa come hanno sempre fatto tutti gli altri Paesi avanzati, ivi inclusi gli Stati Uniti e il Regno Unito (che sta in Europa sì e no), e cioè proteggendosi quando occorre. Gli europeisti ritengono invece che la soluzione sia nel federalismo; ma, come non mi stanco di ripetere, un sistema federale richiede una lingua comune. L’unica eccezione a questa regola è la piccola Svizzera. Ma chi cita la Svizzera (che poi, salvo un’eccezione, è in sostanza bilingue) dovrebbe spiegare e adottare la formula di governo federale di quel Paese. Che è molto bizzarra e che non è certo esportabile. Al massimo l’Europa può puntare su una formula confederale con un potere centrale molto debole; ma questa soluzione non risolverebbe granché. La mia proposta invece è di una Unione Europea che sia al tempo stesso anche una unione doganale. Il che significa che una difesa doganale non può essere decretata da un singolo Stato, ma deve essere autorizzata, per esempio, dalla Banca centrale europea. Altrimenti il nostro Paese continuerà a tassare semplicemente per pagare poco e male le pensioni, e a sussidiare poco e male i disoccupati. Un pozzo senza fondo nel quale stiamo sprofondando sempre più (altro che ripresa!), visto che abbiamo anche stabilito che l’immigrazione clandestina non è reato, e che abbiamo una ministra dell’Integrazione che si batte per istituire lo ius soli , il diritto di chi riesce ad entrare in Italia di diventarne cittadino. A questo proposito si deve ricordare che la industrializzazione dell’Europa continentale fu favorita e protetta da una unione doganale (inizialmente lo Zollverein tedesco); in sostanza, dalla protezione delle industrie senza le quali un Paese non diventa industriale. Nel contesto dell’Unione Europea la protezione di ogni singolo Stato dovrebbe essere consentita, per esempio, dalla Banca centrale, che potrebbe anche permettere barriere interne che siano giustificate dalla difesa del lavoro e delle industrie chiave nei Paesi che le hanno perdute . L’alternativa è quella di cui stiamo soffrendo: tasse crescenti, e oramai suicide, per pagare una disoccupazione crescente. Che già ci scoppia tra le mani. Nel 2008 un importante politologo americano, Walter Laqueur, pubblicava un libro, Gli ultimi giorni dell’Europa , nel quale spiegava che «l’immigrazione incontrollata ha popolato l’Europa di persone che non hanno nessun desiderio di integrazione ma che pretendono i servizi sociali, l’assistenza medica sovvenzionata e anche i sussidi di disoccupazione che offrono i Paesi ospitanti». Questa immigrazione proviene al meglio da Paesi che sanno gestire piccoli negozi, piccoli traffici nei vari bazar, e cioè i mercati caratteristici del Medio Oriente dove si vendono chincaglierie di ogni genere ma che non hanno mai sviluppato una società industriale. In Europa i più bravi possono ricreare il negozio tipico dei bazar, ma i più possono solo offrire un lavoro sottocosto che li lascia emarginati in squallide periferie di miseria caratterizzate da disoccupazione e da risentimento contro i Paesi ospitanti. Il risultato non è dunque integrazione, ma semmai sfascio e aumento della delinquenza. L’Inghilterra e la Francia sono oggi i Paesi europei più invasi, per così dire, da questi «disintegrati», sempre più ribelli e violenti. L’Inghilterra per via del Commonwealth, la Francia per cercare di salvare (assurdamente) la sua colonizzazione. La Francia, oggi con un presidente socialista, si limita a fronteggiare le sommosse. L’Inghilterra che ha in materia le mani libere ora chiede, con Cameron, di controllare e limitare severamente l’immigrazione. E noi? Noi siamo, con lo scombinato governo Letta e la incombente pressione della «sinistra» di Renzi, i peggio messi di tutti. Qualche cifra. Il nostro debito pubblico supera il 130% del nostro Pil. È un debito pagato con buoni del Tesoro, e cioè dai risparmiatori e (troppo) dalle banche. La disoccupazione dei giovani tra 15 e 24 anni sorpassa il 40%. In questo caos il potere giudiziario straripa ogni dove ma - cito Severgnini su queste colonne - «l’Italia è maglia nera... anche per la durata del processo civile, 564 giorni per il primo grado contro una media europea di 240 giorni. Il tempo medio europeo per la conclusione di un procedimento di 3 gradi di giudizio è 788 giorni... in Italia è di quasi 8 anni». In questo bailamme crescono i votanti che vorrebbero uscire dall’Europa, il che ci consentirebbe di svalutare la nostra moneta. Temo che malmessi come siamo sarebbe un rischio altissimo. Io non lo raccomando. 03 dicembre 2013 © RIPRODUZIONE RISERVATA Giovanni Sartori Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_03/intrappolati-un-girotondo-1b1dc9f4-5be1-11e3-bc7d-68ebf7f6255f.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Tre proposte e molti dubbi Legge elettorale Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2014, 04:54:41 pm SISTEMI ELETTORALI E STABILITÀ
Tre proposte e molti dubbi Legge elettorale Il nostro Gian Burrasca, pardon, volevo dire il nostro vivacissimo Matteo Renzi, al momento minaccia burrasca sulla legge elettorale. Ha ragione. Una cinquantina di anni fa scrivevo che il sistema elettorale è lo strumento più manipolabile, e allo stesso titolo più decisivo, di tutto l’armamentario politico delle democrazie. L’originalità del nostro Renzi è di proporre ben tre sistemi elettorali (l’uomo è generoso) che hanno un solo inconveniente: di essere tutti e tre sbagliati. Ma Renzi ha la parlantina facile, troppo facile per dargli il tempo di leggere e di informarsi. Però si è scelto un guru, Roberto D’Alimonte, che è guru perché vuole essere primo e anche solo, tra tutti i politologi italiani. Beninteso, lui è il più bravo. Sarà, ma forse non sarà. E veniamo alla sostanza. Il primo sistema proposto da Renzi è il sistema spagnolo: piccole circoscrizioni che eleggono 5-6 rappresentanti il che implica di fatto un’alta soglia di sbarramento. I nostri specialisti propongono, in aggiunta, un premio di maggioranza che gli spagnoli non hanno e che insospettisce perché il troppo è troppo. Comunque è vero che il sistema spagnolo ha prodotto, fino a poco fa, un sistema bipartitico. Ma è così perché la contrapposizione a due c’era già: era una eredità della guerra civile che contrappose sanguinosamente una sinistra crudelmente dominata dai comunisti, a una destra franchista anch’essa macchiata di molto sangue, e si intende, anti-comunista. Dunque alla morte del generale Franco una struttura bipartitica era fortemente radicata nella memoria storica della Spagna. Il che equivale a dire che non fu un prodotto del sistema elettorale. Pertanto non è vero che il sistema spagnolo importato in Italia produrrebbe un sistema bipartitico. Se il Grillismo reggerà, i partiti dominanti risulterebbero tre e così saremmo in uno stallo. La seconda proposta sarebbe un ritorno al Mattarellum, cioè ad un sistema proporzionale puro, corretto però da un premio di maggioranza. Ma oramai abbiamo raggiunto un livello di frammentazione partitica che forse potrebbe non fare scattare nessun premio. Resta la terza proposta che distingue il professor D’Alimonte da quasi tutti i cultori della materia e che il nostro inventore chiama «doppio turno di collegio». La denominazione fa confusione e confonde anche me. Comunque il punto che deve essere fermo e chiaro è che il doppio turno funziona a dovere solo se non consente coalizioni, solo se al primo turno ogni partito si deve presentare da solo. Detto per inciso questo è anche l’unico sistema che consente preferenze genuine degli elettori e che allo stesso tempo assicura in ogni caso gover- nabilità. Di questo ho già scritto in un libro e varie volte sulle colonne del Corriere . Non mi posso sempre ripetere. Ma vedi per tutti l’articolo Tanto semplice che non si farà del 20 ottobre 2012. Ma se Renzi mi leggesse (solo su questo punto, per carità) forse eviterebbe gli errori che sta per fare o far fare. Un buon sistema elettorale non è un sistema approvato da tutti. Questa è pura demagogia. È un buon sistema quello che riduce i piccoli partiti e che ovviamente i piccoli partiti avversano fino all’effusione del sangue. Come, per esempio, il doppio turno possibilmente collegato ad un semipresidenzialismo come da tempo praticato con successo in Francia. Ancora un punto. Tutti ripetono che la legge elettorale non basta. Sì e no. Può bastare a produrre governabilità, certo non basta a produrre buoni governi che governino bene. Come è ovvio. © RIPRODUZIONE RISERVATA 18 gennaio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Giovanni Sartori DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_18/tre-proposte-molti-dubbi-5a592922-800a-11e3-be9a-e1e430257234.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI Riforma elettorale pregi e difetti Io lo chiamerei bastardellum Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2014, 11:49:55 pm Riforma elettorale, pregi e difetti
Io lo chiamerei bastardellum Siccome sono io che ho inventato a suo tempo le etichette Mattarellum e poi Porcellum , oramai mi è venuto il vizio e così provo ancora. Italicum proprio non mi va. Sa di treno. Al momento proporrei Bastardellum . Ma si intende che si può trovare di meglio. Il punto che devo continuare a sottolineare è che la riforma elettorale è materia di legge ordinaria, mentre la riforma dello Stato è materia di legge costituzionale. E i tempi tra le due cose sono molto diversi, anche di due anni. Però se non vogliamo incappare in errori del passato le due cose devono essere armonizzate (nelle nostre teste) sin dall’inizio. Più volte si è suggerito come sistema elettorale il sistema spagnolo di piccoli collegi (5-6 eletti), il che comporta di fatto una alta soglia di sbarramento e così l’eliminazione della frammentazione partitica (noi siamo arrivati sino a 30 e passa), che ovviamente ostacolano la governabilità. Si capisce che i partitini protestano a squarciagola: era comodo (vedi Mastella) diventare ministro della Giustizia essendo in tutto in tre. Ma la salute della politica esige che spariscano, e quando non ci sono più il dramma finisce. In Inghilterra nessuno piange se i partiti sono due o tre. Fin qui ripeto cose risapute. La nostra novità (gemiti dei partitini a parte) è la proposta del doppio turno di coalizione, che a mio avviso non ha senso anche se D’Alimonte la presenta come proposta «realistica» che mette assieme capra e cavoli, Renzi e Berlusconi. A parte il fatto che a me sembra scorretto, scorrettissimo, trasformare con un premio una minoranza in una maggioranza (il che avviene anche nei sistemi maggioritari, ma perché questa è la natura del maggioritario, non un regalo che Renzi e Berlusconi fanno a se stessi). E la domanda è: il doppio turno di coalizione con ballottaggio cosa ci sta a fare in questo contesto? È una ulteriore elezione per fare o ottenere che cosa? Il premio di maggioranza attribuito a una coalizione di minoranza (addirittura del 35%) è secondo me molto discutibile. C’è poi l’annosa questione delle preferenze. Le avevamo, e poi Pannella (con Segni) le fece abolire con due trionfali referendum. Era giusto, perché al Sud le preferenze erano molto alte e per ciò stesso ingrandite e manipolate dalla mafia. Aggiungi che il Pci di allora se ne serviva (quando erano tre) per controllare i voti dei suoi votanti infidi; mentre le preferenze al Nord erano relativamente poche e venivano facilmente pilotate dalle fazioni ben organizzate dei partiti di allora. Il bello è che per qualche decennio nessuno protestò dichiarando che senza preferenze gli eletti non erano scelti dagli elettori ma dai partiti. Poi, d’un tratto, venne in mente alle nuove generazioni di politici e giornalisti che così gli eletti non erano veramente eletti dal demos votante ma «nominati» dai partiti. Stranezze della storia. 26 gennaio 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Giovanni Sartori DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_gennaio_26/io-chiamerei-bastardellum-254ef5e0-8659-11e3-a3e0-a62aec411b64.shtml Titolo: GIOVANNI SARTORI. Sartori: "Renzi è un peso piuma malato di velocismo" Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2014, 07:21:15 pm Sartori: "Renzi è un peso piuma malato di velocismo"
Un estratto dalla prima puntata di Fischia il vento. Gad Lerner in viaggio tra crisi e uomo forte. Iniziando dal nuovo "Capo giovane", Matteo Renzi. E da un 'grande vecchio' della scienza della politica che non ha parole tenere: "Renzi è un peso piuma malato di velocismo. Si sgonfierà rapidamente nel fare". "Renzi vende velocità che non può rispettare. Sono cose che incantano il pubblico: un mese faccio questo, un mese faccio quello. Fa ridere, io ho molti dubbi. L’uomo è molto contento di se stesso e questo gli dà forza, ma si sgonfierà rapidamente nel fare. Mi dispiace, perché abbiamo bisogno di uno bravo". Sono alcune battute estratte dal colloquio tra il politologo Giovanni Sartori e Gad Lerner, nella prima puntata di Fischia il vento Lerner: Renzi è portatore di decisionismo? Sartori: "Io lo chiamo velocismo, è malato di velocismo. La vicenda di Matteo Renzi mi pare una gonfiatura senza fine. Il giovane è un peso piuma. Parla molto e parla bene, è svelto, è sveglio, è intelligente. Si muove con velocità, ma dietro manca quello che i latini chiamavano gravitas". Sartori: "Renzi è un peso piuma malato di velocismo" Lerner: Nonostante la repentina conquista della segreteria pd e del governo? “Anche Obama è stato straordinario nel vincere le elezioni. Dopo no. È il ciclo di gente che sa vincere un’elezione, sa entusiasmare l’elettorato, ma poi sul resto perde". Sartori: "Renzi è un peso piuma malato di velocismo" Fischia il vento è un nuovo progetto televisivo che unisce web e televisione tradizionale e vede coinvolti Gad Lerner, al suo rientro in tv, un canale televisivo importante come laeffe del Gruppo Feltrinelli e Repubblica.it. E' un viaggio alla scoperta dell'Italia che cambia, sia attraverso incontri con le persone comuni, protagoniste di storie emblematiche, che con con interviste ai protagonisti della scena politica, economica e culturale. La produzione è affidata a Pulsemedia. Le inchieste on the road sui grandi temi di attualità italiana realizzate da Lerner e dal suo staff di giovani videomaker vivono sia nella trasmissione televisiva del mercoledì sera (dieci appuntamenti per la prima stagione alle 21.30) che sul più importante sito di informazione italiano dove si può rivedere la puntata, partecipare alle discussioni online, fruire di contenuti speciali, per un programma che, di fatto, non finisce mai. © Riproduzione riservata 26 febbraio 2014 Da - http://www.repubblica.it/fischiailvento/2014/02/26/news/sartori_renzi_un_peso_piuma_malato_di_velocismo-79658409/?ref=HREC1-5 Titolo: GIOVANNI SARTORI. Renzi il fanciullino, Craxi e Berlusconi: l'Italia e il ... Inserito da: Admin - Marzo 06, 2014, 12:03:37 pm Renzi il fanciullino, Craxi e Berlusconi: l'Italia e il Capo che non c'è.
Incontro con Giovanni Sartori La versione integrale dell'intervista di Gad Lerner al politologo per la prima puntata di Fischia il vento "Un uomo solo al comando". "Matteo? Un grande improvvisatore interessato solo a vincere le elezioni" "Parla molto e bene, è svelto e intelligente, si muove con velocità. L'omino è un peso piuma malato di velocismo, manca di quella che i latini definivano gravitas". "Come Obama è uno che sa vincere le elezioni, sa entusiasmare l'elettorato ma poi sul resto si perde". "Non è nemmeno paragonabile al Berlusconi di 20 anni fa, Matteo Renzi è simpatico per questa sua velocità e l'eloquio popolano. Ma Berlusconi è imbattibile, soprattutto in televisione. Berlusconi è un grande calcolatore, Renzi è un grande improvvisatore". Iniziando dal primo ministro più giovane della storia d'Italia, un ritratto del nostro Paese attraverso i suoi leader "Renzi ha fatto un grande regalo a Berlusconi con una legge elettorale orribile ma molto conveniente per il Cavaliere. In un modo o nell'altro Berlusconi vince. Un altro segno della poca gravitas: si presenta con un ventaglio di tre sistemi elettorali. Ne devi avere uno da suggerire che trovi giusto. Ne deve scegliere uno lui, non dare agli altri la possibilità di scegliere". "Il miglior sistema elettorale? E' quello francese a doppio turno, con alcuni ritocchi. Ma non si fa perché non conviene a Berlusconi, convinto che il secondo turno lo danneggi. Anche se, tra l'altro non è vero". "Tutto l'occidente ormai cerca un leader che abbia capacità di leadership altrimenti la democrazia si sfascia. Craxi fu un personaggio di peso che creò la socialdemocrazia in Italia. Non fece in tempo, perché il suo partito era già corrotto. Berlusconi faceva solo il suo interesse. Di certo non è di peso Renzi" © Riproduzione riservata 28 febbraio 2014 Da - http://www.repubblica.it/fischiailvento/2014/02/28/news/renzi_il_fanciullino_craxi_e_berlusconi_l_italia_e_il_capo_che_non_c_incontro_con_giovanni_sartori-79858147/ Titolo: GIOVANNI SARTORI. La Terra verde sotto assedio Inserito da: Admin - Maggio 16, 2014, 06:28:17 pm L’ENORME AUMENTO DELLA POPOLAZIONE
La Terra verde sotto assedio Nulla vieta che papa Francesco contraddica la tesi dei suoi predecessori sui temi della contraccezione Di Giovanni Sartori Leggo che papa Francesco sta preparando una enciclica «verde», vale a dire una enciclica che condanna la crescente scomparsa delle zone vergini della Terra, sempre più erose dalla cementificazione dell’uomo. Una cementificazione prodotta dal crescente e insensato aumento della popolazione. Siamo già più di sette miliardi e, se le proiezioni di poco fa indicavano un tetto massimo di nove miliardi, oggi se ne prospettano persino dieci. Dove li mettiamo? Per ora affollano città sempre più smisurate e squallide periferie rese pericolose da immigrati affamati senza lavoro e senza mestiere. Tokyo potrebbe arrivare (nella ultima proiezione dell’Economist) a 39 milioni di abitanti, Delhi a 30 milioni, San Paolo e Città del Messico a più di 20 milioni, e così via. Ma la popolazione che cresce di più e più rapidamente è in Africa con punte di nascite fino a 40 figli, una follia che potrebbe e dovrebbe essere contrastata. Senonché nel 1968 papa Paolo VI con l’enciclica Humanae Vitae ha condannato l’uso dei contraccettivi. Nessun’altra religione e nemmeno i cristiani protestanti hanno recepito questo messaggio. Ma la Chiesa di Roma, con l’appoggio dei Paesi sudamericani e dei potentissimi cattolici americani, ha bloccato perfino la politica della contraccezione sia alle Nazioni Unite sia e soprattutto in Africa (dove gran parte delle missioni sono cattoliche). La storia della enciclica Humanae Vitae è nota ed è stata minutamente raccontata. Il Papa costituì una commissione di teologi che concluse i suoi lavori dichiarando che la dottrina cattolica non forniva nessun sostegno alla tesi di Humanae Vitae. Ma Paolo VI non si lasciò convincere. Per la fede l’uomo è tale e diverso da tutti gli altri esseri viventi perché dotato di anima. E San Tommaso, il massimo pensatore della Chiesa, nella sua Summa Teologica distingue tre forme e fasi dell’anima. La prima è «l’anima vegetativa», la seconda è «l’anima animale», e solo la terza è «l’anima razionale» che caratterizza gli esseri umani, e che arriva tardi, soltanto quando il nascituro è formato o anche già nato. Dunque il Tomismo vieterebbe l’aborto di una anima razionale, ma certo non vieta i contraccettivi. Dunque spero ardentemente che l’enciclica «verde» di papa Francesco lasci cadere la Humanae Vitae. Il Papa argentino ha scelto di essere francescano ma è anche stato educato dai gesuiti, un ordine che assieme ai domenicani costituisce l’ordine colto della Chiesa. L’enciclica che sta elaborando papa Francesco non può ignorare che un formicaio umano ucciderebbe anche il verde della Terra, la natura «vera». Gli esperti ci dicono che ci restano 10 anni prima della catastrofe climatica che sarebbe anche la catastrofe umana delle donne e degli uomini che la stanno vivendo. Papa Francesco, si obbietterà, non può ignorare e tanto meno contraddire la tesi dei suoi recenti predecessori. Invece nulla lo vieta. La dottrina della infallibilità papale è del 1876, e riflette la caduta del potere temporale della Chiesa. In ogni caso questa infallibilità vale soltanto per i pronunciamenti solenni ex cathedra, su materie di fede e di morale. E quindi papa Francesco è liberissimo di asserire - come ha già fatto, visto che cito proprio lui, da una omelia del 19 marzo 2013 - che «la vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani ma una dimensione che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero Creato, la bellezza del Creato». Sante parole. 16 maggio 2014 | 08:10 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_16/terra-verde-sotto-assedio-a3380528-dcb7-11e3-a199-c0de7a3de7c1.shtml Titolo: Morto Giovanni SARTORI. Politologo fuori dagli schemi Inserito da: Arlecchino - Aprile 05, 2017, 05:07:23 pm ERA NATO a Firenze NEL 1924
Morto Giovanni Sartori Politologo fuori dagli schemi Tutti gli editoriali sul Corriere Autore di libri sulla democrazia tradotti nel mondo, era anche un polemista caustico Dalle colonne del «Corriere della Sera» lanciò i termini «Mattarellum» e «Porcellum» Di ANTONIO CARIOTI Fra i numerosi talenti del politologo Giovanni Sartori, scomparso poco prima di compiere 93 anni, spiccava la capacità di coniugare eccellenza scientifica ed efficacia comunicativa. Aveva insegnato nelle più prestigiose università americane e i suoi libri erano tradotti in tutto il mondo: a lui si deve tra l’altro la più convincente descrizione teorica del sistema politico italiano. Ma era anche un editorialista e un polemista estroso e brillante come pochi, sorretto in questo anche da un sulfureo spiritaccio toscano: aveva inventato i termini Mattarellum e Porcellum, entrati nell’uso comune per designare le leggi elettorali succedutesi in Italia dopo la svolta d’inizio anni Novanta, e per il fenomeno del berlusconismo aveva coniato la definizione forse un po’ calcata, ma indubbiamente suggestiva, di «sultanato». Impartiva ai leader di partito e di governo severe lezioni di politologia e diritto costituzionale, ma amava trattare in modo brioso e tagliente, nei suoi libri e sulle colonne del «Corriere», anche altri temi: multiculturalismo, equilibri ambientali, statuto dell’embrione. Nato a Firenze il 13 maggio 1924, raccontava di aver letto i maggiori classici della filosofia moderna durante la guerra, nel periodo in cui si era nascosto per sfuggire alla chiamata di leva della repubblica fascista di Salò. Il suo primo incarico universitario, nel 1950, fu appunto in campo filosofico: sei anni dopo cominciò a insegnare Scienza della politica, materia appena inserita nello statuto dell’ateneo fiorentino. Era stato anche preside della facoltà di Scienze politiche Cesare Alfieri, nella sua città, dal 1969 al 1971, negli anni caldi della contestazione studentesca. E nel 1971 aveva fondato la «Rivista italiana di scienza politica», della quale rimase direttore per oltre vent’anni. Dal 1976 aveva cominciato a insegnare negli Stati Uniti, prima a Stanford e poi alla Columbia University di New York, della quale era professore emerito. Conosciuto e apprezzato a livello internazionale, nel 2005 era stato insignito del premio spagnolo Principe delle Asturie per le Scienze sociali. In particolare sono considerati di straordinaria importanza i suoi lavori sui regimi democratici, a partire dal classico Democrazia e definizioni (il Mulino, 1957), e sui sistemi di partito, come il fondamentale Parties and Party Systems (Cambridge University Press, 1976). Aveva poi applicato i suoi criteri di analisi alla situazione del nostro Paese in una serie di saggi, raccolti nel volume Teoria dei partiti e caso italiano (SugarCo, 1982). Riteneva fuorviante dipingere l’antagonismo tra Dc e Pci come un «bipartitismo imperfetto» (cioè senza alternanza), secondo la formula adottata da Giorgio Galli. A suo avviso l’Italia era invece un esempio di «pluralismo polarizzato»: molti partiti, alcuni dei quali antisistema, con un enorme divario ideologico dall’estrema destra all’estrema sinistra e robuste spinte centrifughe. Uno scenario tutt’altro che rassicurante, simile a quelli della Germania di Weimar, della Spagna alla vigilia della guerra civile, della Quarta Repubblica francese. E se l’attenuarsi delle tensioni ideologiche ha scongiurato le prospettive peggiori, non c’è dubbio che l’incapacità del Paese di trovare un assetto stabile conferma la sussistenza dei problemi di fondo rilevati dal politologo fiorentino. Se si passa dall’elaborazione teorica al giudizio sulle vicende concrete, un tratto peculiare di Sartori era la sua estraneità agli schemi usuali. Era un moderato anticomunista («quando c’erano i comunisti», precisava), ma fermissimo nel denunciare il conflitto d’interessi che rendeva anomala la figura del politico imprenditore Silvio Berlusconi. Nel contempo, in rude polemica con la sinistra, criticava ogni sottovalutazione del problema costituito dall’immigrazione di massa: lontanissimo dalla retorica dell’accoglienza, temeva il multiculturalismo come motore di una deleteria «balcanizzazione» delle società occidentali. E non cessava di porre in rilievo la vocazione teocratica dell’Islam, fino trovarsi in sintonia con Oriana Fallaci. Laico ai limiti dell’anticlericalismo, Sartori fustigava energicamente la Chiesa cattolica per la sua posizione sul controllo delle nascite. Lo allarmava la condizione generale del pianeta, soprattutto per via della sovrappopolazione e della penuria d’acqua: anche qui era agli antipodi della destra indifferente ai rischi del mutamento climatico o addirittura propensa a negarli. Peraltro i suoi bersagli appartenevano a tutto lo spettro politico: indicava un sistema elettorale uninominale a doppio turno come la soluzione migliore per riassestare la nostra vita pubblica, ma doveva constatare con amarezza che i suoi suggerimenti restavano inascoltati. Più in generale Sartori avvertiva evidenti segnali di una regressione culturale, che imputava in gran parte al prevalere della comunicazione visiva su quella scritta. Nel saggio Homo videns (Laterza, 1997) aveva lanciato l’allarme per l’avvento di un nuovo tipo umano, incapace di astrazione concettuale perché abituato a nutrire la propria mente soltanto di immagini. Era forse il più grave dei pericoli che scorgeva all’orizzonte, elencati con una vena profondamente pessimista nel libro La corsa verso il nulla (Mondadori, 2015). Si può ritenere che esagerasse, ma certo le sue apprensioni non erano prive di fondamento. Conviene tenerle presenti. 4 aprile 2017 (modifica il 4 aprile 2017 | 17:05) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cultura/17_aprile_04/morto-giovanni-sartori-politologo-fuori-schemi-c501d986-1940-11e7-abec-63a8e356a8af.shtml Titolo: Sartori: il maestro del tempo perduto Inserito da: Arlecchino - Aprile 07, 2017, 12:50:42 pm Sartori: il maestro del tempo perduto
Per coloro che si occupano di politica, di studio e ricerca, il politologo appena scomparso è stato "il" Maestro. Perché ha fatto e continuerà a fare discutere 05 aprile 2017 Quando se ne va un Maestro ti senti, inevitabilmente, un po' sperduto. E per coloro che si occupano di Politica, per ragioni scientifiche, di studio e di ricerca, Giovanni Sartori è stato "il" Maestro. Per quanto discusso. Tanto più per questo. Perché ha fatto - e continuerà a fare - discutere. Non solo gli studiosi e i ricercatori di Scienza Politica, della Politica come Scienza, che egli ha contribuito, in modo determinante, a "fondare". Ma anche per gli attori politici e per i cittadini. Perché la voce di Sartori ha superato i confini della Scienza. È giunta, forte, fino agli ambienti nei quali si discute e si decide - di politica. Ma anche ai cittadini. Con cadenza regolare e quotidiana. Giovanni Sartori è intervenuto sui media, in primo luogo sul Corriere della Sera, dove scriveva con regolarità, per commentare e, spesso, sanzionare i diversi progetti di riforma del sistema istituzionale. Anzitutto e soprattutto: elettorale. Coniando formule suggestive, entrate nel linguaggio corrente. Dal Mattarellum al Porcellum. Mentre dell'Italicum si limitò a dire che era un "pasticcio" con un nome ridicolo che gli ricordava "un treno". La sua attenzione critica, peraltro, non ha sortito gli effetti sperati. E di ciò si rammaricava. Anche se è difficile verificare - e, ancor più, misurare - il contributo degli intellettuali in modo immediato e diretto. Sartori, tuttavia, ha orientato la sua attenzione in diverse direzioni - della politica e della società. Perché la sua interpretazione dello scienziato politico era, sicuramente, "attiva". Da "attore politico". Di certo non delimitata e delimitabile agli ambienti scientifici. Così, dopo la "discesa in campo" di Silvio Berlusconi, Sartori dedicò un saggio alla "ascesa sociale" dell'Homo videns, il soggetto che aveva occupato il centro dello spazio occupato, prima, dall’Homo sapiens. Allo stesso tempo, non perse occasione per stigmatizzare il deficit di "anticorpi della democrazia" che affliggeva gli italiani. Retroterra e causa "culturale" dell'affermazione del Cavaliere. Una formula suggestiva, oltre che acuminata, che, a mia volta, non esitai a riprendere e a riproporre. Personalmente, ho dialogato con Sartori in diverse occasioni. Ne ho affrontato i testi e la lezione, anche in modo critico. Come nel saggio "Gramsci, Manzoni e mia suocera" (edito dal Mulino nel 2012). Dove ho sviluppato e tematizzato il mio approccio ibrido allo studio dei rapporti fra politica e società. D'altronde, la mia stessa biografia scientifica mi ha spinto a frequentare terreni disciplinari diversi. Senza stabilire gerarchie fra i piani. Come ha fatto Sartori. Secondo il quale, la scienza politica riconduce la politica "a un'attività di governo e, in sostanza, alla sfera dello Stato". Laddove la sociologia politica "parte, dunque dalla società ed esamina come essa eserciti influenza sullo Stato". Io, invece, attribuisco pari attenzione e interesse alla sfera delle relazioni sociali e al "senso comune". Che vincolano le scelte e gli orientamenti delle istituzioni e degli attori politici. Tanto più oggi, al tempo della comunicazione mediale, della Tv e del digitale. Che hanno allargato lo spazio della politica alla vita quotidiana delle persone. Rendendo difficile tracciare confini netti fra i luoghi e i centri della decisione e dell'azione politica. Ho avuto la possibilità - e il privilegio - di discutere di questa e di altre questioni con Sartori. In sedi pubbliche e sui media. Infine, soprattutto, a "casa mia". In altri termini: all'Università di Urbino. Dove, nell'ottobre 2005, su mia proposta, gli venne conferita la Laurea ad Honorem. Dopo un seminario, dedicato alla sua figura e ai suoi studi, al quale parteciparono Gianfranco Pasquino, Mauro Calise e Angelo Panebianco. Insieme a un politico "capace di leggere e scrivere" - secondo la definizione di Sartori - come Massimo D'Alema. Un'occasione importante. Per me, oltre che per Urbino. E io ne conservo e conserverò gelosamente la memoria. Come conservo e conserverò gelosamente la memoria di Giovanni Sartori. Un Maestro, per chi studia la politica. Uno dei pochi rimasti. Mentre il tempo della Politica sembra ormai perduto. © Riproduzione riservata 05 aprile 2017 Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2017/04/05/news/sartori_maestro_tempo_perduto-162286547/?ref=RHPPBT-BH-I0-C4-P2-S1.4-T1 Titolo: Giovanni Sartori Se il partito nasce vecchio Prodi e la strada in salita ... Inserito da: Arlecchino - Aprile 07, 2017, 01:06:38 pm Se il partito nasce vecchio
Prodi e la strada in salita per il Pd di Giovanni Sartori Nascerà davvero il Partito Democratico? Intendi: nascerà vitale o nascerà morto? Sarà un successo o sarà un fiasco? Margherita e Ds riusciranno davvero a fondersi, oppure la loro sarà soltanto una somma di due partiti che restano litigiosi ed eterogenei? E quale sarà «il valore aggiunto» del nuovo pargolo? Di regola la somma (unificazione) di due o più partiti non produce valore aggiunto: la somma dei voti ricevuti dal partito unificato è inferiore alla somma dei voti ricevuti dai partiti separati. Nel nostro caso, perché mai un marxista dovrebbe gradire di trovarsi diluito in sempre meno marxismo; oppure perché mai un cattolico dovrebbe gradire di essere soverchiato da laici? Sia come sia, dobbiamo capire a quali condizioni un nuovo movimento o partito riesce a sfondare. La prima condizione è che la nascita del Pd comporti una drastica semplificazione del sistema partitico, e così l'eliminazione del pulviscolo dei partitucci, dei «nanetti». E da quando i partiti esistono il loro numero viene ridotto dai sistemi elettorali, non dalla nascita di un nuovo partito che se li mangia. Prodi si è messo in testa, invece, di risolvere il problema con un partito «mangia-partiti», con un partito-pitone. Ma, se così, a me sembra un controsenso che il progetto aggreghi soltanto due su circa dodici partiti. E' vero che la Margherita e i Ds mettono assieme circa la metà dei voti dello schieramento; ma i restanti nanetti mantengono lo stesso il loro potere di interdizione e di ricatto. Il che lascia il problema come è. Tanto più che nell'accorparsi i Ds si sono scissi perdendo il loro Correntone. La seconda condizione è che il nuovo partito sia percepito come davvero nuovo, come portatore di aria fresca e di energie giovani. Invece il Pd sta nascendo senza slancio, già logorato dai tempi troppo lenti della sua gestazione e soprattutto dalle complicazioni nelle quali riesce sempre a impastoiarsi. Se fosse un architetto, Prodi costruirebbe tortuosissime pagode; e certo ha il genio della complessità superflua. Per le elezioni del 2006 escogitò una pletorica officina di teste d'uovo che gli regalò un programma di quasi trecento pagine, che gli fece quasi perdere le elezioni e che quotidianamente lo impaccia nel governare. E per il nuovo partito la tabella di marcia prevede un Comitato dei 45 per le regole dell'assemblea costituente; poi, il 14 ottobre, l'elezione dei delegati alla suddetta assemblea costituente, alla quale compete la redazione dello statuto del Partito Democratico; per poi finalmente arrivare, quando sarà, alla prova delle elezioni politiche. Nell'interim i 45 già dissentono su come e quando eleggere il loro leader e il loro segretario. Il tutto appesantito da un ulteriore, e sospetto, ricorso alla primarie. Dico «sospetto» perché per Prodi è ovvio che le primarie devono confermare e scegliere lui. Tantovero che, al momento, non le vuole perché i sondaggi danno per vincente Veltroni. Con tanti saluti al partito che «nasce dal basso». A Prodi piace far sembrare che sia il suo popolo a creare il suo Pd. Ma in verità non è così. E a questo modo molte, troppe energie vengono sprecate nel costruire una finzione populista. Allora, il Pd nascerà vitale o morto? La previsione è difficile. Ma il fatto è che le elezioni amministrative hanno confermato la regola che le unioni perdono voti. Dove Ds e Margherita si sono uniti, hanno perso mediamente 10 punti percentuali (vedi Genova, La Spezia, Ancona). Questo è solo un campanello di allarme. Certo è, però, che la strada del Pd è piu che mai in salita. 16 giugno 2007 da corriere.it «Ultima modifica: Maggio 31, 2012, 04:33:19 da Admin » Da - http://forum.laudellulivo.org/index.php/topic,117.0.html Titolo: Giovanni SARTORI GLI INTERVENTI MILITARI DI OBAMA Il Presidente guerriero Inserito da: Arlecchino - Giugno 12, 2018, 06:23:49 pm GLI INTERVENTI MILITARI DI OBAMA
Il Presidente guerriero Nel suo primo messaggio sullo stato dell'Unione i l presidente Obama ha lasciato la politica estera in sordina ma ha ribadito, a proposito dell'Afghanistan, il progetto che sappiamo: nuove truppe oggi ma inizio del loro ritiro a metà del 2011. Capisco che questa logica distorta (se annunzi che te ne vai perdi più che mai) sia imposta dall’impopolarità della guerra, di qualsiasi guerra. La guerra è di per sé orribile. L'Occidente (salvo eccezioni balcaniche) lo ha capito e ne è profondamente convinto. Ma non è sempre evitabile. E dobbiamo tutti cominciare a capire che la guerra che resta inevitabile sarà diversissima da tutte le guerre che sono state combattute dall'inizio dei tempi. Le vecchie guerre venivano combattute da eserciti identificabili per conquiste territoriali e anche per bottino, per saccheggio. È solo da pochi secoli che il bottino è venuto meno, ed è solo dopo le due ultime guerre mondiali che la conquista territoriale ha perduto senso. Ciò premesso, qual è il senso, oggi, della classica distinzione tra guerra giusta e guerra ingiusta? Mi dispiace per i «ciecopacisti» — i pacifisti accecati dalla loro ossessione — ma un Paese che si difende dall'attacco di un altro Paese combatte una guerra giusta. Però la nozione di guerra giusta non include soltanto la guerra difensiva. Per esempio una guerra che si propone di abbattere un tiranno e di instaurare la democrazia è una guerra giusta? Questa è sempre stata l'ideologia missionaria degli Stati Uniti invocata da ultimo dal presidente Bush jr per giustificare, in mancanza di meglio, l'assalto all'Iraq. Ma è una dottrina che non ci possiamo più permettere; senza contare che in moltissimi casi è destinata a fallire. Nel caso dell'Iraq il successo è stato di abbattere un tiranno sanguinario e pericoloso per tutti; ma il «successo democratico» di quella guerra è molto dubbio. E in Afghanistan? Anche lì guerra giusta per imporre democrazia? Per carità, scordiamocene. Lì si tratta di pura e semplice guerra necessaria resa obbligatoria ai fini della salvezza di tutto l'Occidente. Per decenni abbiamo temuto l'annientamento nucleare. Ma il pericolo delle armi atomiche è fronteggiabile. E comunque il pericolo maggiore è diventato quello delle armi chimiche e batteriologiche «tascabili». Qui la cattiva notizia è che mezzo chilo di tossina botulinica potrebbe uccidere un miliardo di persone. E l'Afghanistan conquistato (riconquistato) dai talebani, e al servizio di Al Qaeda, pone questo problema. Pertanto scappare non è una soluzione. Ma è anche vero che la guerra come viene combattuta oggi in Afghanistan, la guerra di occupazione e controllo del territorio contro un nemico invisibile, non può essere vinta. Il problema è nuovo e impone soluzioni nuove. L'alternativa, propongo, è di abbandonare il territorio e di creare una zona militare fortificata (senza popolazione civile al suo interno) in grado di controllare e di distruggere dall'alto, con i droni militari americani, qualsiasi installazione sospetta di produzione di armi chimiche e batteriologiche. Questa «fortezza» dovrebbe essere collocata al confine con il Pakistan. E il punto è, in generale, che la tecnologia per difenderci dalla nuova tecnologia del terrorismo esiste. I generali, si dice, sono preparati a combattere la guerra del passato. Occorrono generali che si preparino alle guerre necessarie del futuro. Giovanni Sartori 29 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA Da - https://www.corriere.it/editoriali/10_gennaio_29/obama-il-presidente-guerriero-giovanni-sartori-editoriale_8aa54cda-0c9d-11df-a99f-00144f02aabe.shtml Titolo: Giovanni Sartori GLI INTERVENTI MILITARI DI OBAMA Inserito da: Arlecchino - Agosto 14, 2018, 11:13:04 am GLI INTERVENTI MILITARI DI OBAMA
Il Presidente guerriero Nel suo primo messaggio sullo stato dell'Unione i l presidente Obama ha lasciato la politica estera in sordina ma ha ribadito, a proposito dell'Afghanistan, il progetto che sappiamo: nuove truppe oggi ma inizio del loro ritiro a metà del 2011. Capisco che questa logica distorta (se annunzi che te ne vai perdi più che mai) sia imposta dall’impopolarità della guerra, di qualsiasi guerra. La guerra è di per sé orribile. L'Occidente (salvo eccezioni balcaniche) lo ha capito e ne è profondamente convinto. Ma non è sempre evitabile. E dobbiamo tutti cominciare a capire che la guerra che resta inevitabile sarà diversissima da tutte le guerre che sono state combattute dall'inizio dei tempi. Le vecchie guerre venivano combattute da eserciti identificabili per conquiste territoriali e anche per bottino, per saccheggio. È solo da pochi secoli che il bottino è venuto meno, ed è solo dopo le due ultime guerre mondiali che la conquista territoriale ha perduto senso. Ciò premesso, qual è il senso, oggi, della classica distinzione tra guerra giusta e guerra ingiusta? Mi dispiace per i «ciecopacisti» — i pacifisti accecati dalla loro ossessione — ma un Paese che si difende dall'attacco di un altro Paese combatte una guerra giusta. Però la nozione di guerra giusta non include soltanto la guerra difensiva. Per esempio una guerra che si propone di abbattere un tiranno e di instaurare la democrazia è una guerra giusta? Questa è sempre stata l'ideologia missionaria degli Stati Uniti invocata da ultimo dal presidente Bush jr per giustificare, in mancanza di meglio, l'assalto all'Iraq. Ma è una dottrina che non ci possiamo più permettere; senza contare che in moltissimi casi è destinata a fallire. Nel caso dell'Iraq il successo è stato di abbattere un tiranno sanguinario e pericoloso per tutti; ma il «successo democratico» di quella guerra è molto dubbio. E in Afghanistan? Anche lì guerra giusta per imporre democrazia? Per carità, scordiamocene. Lì si tratta di pura e semplice guerra necessaria resa obbligatoria ai fini della salvezza di tutto l'Occidente. Per decenni abbiamo temuto l'annientamento nucleare. Ma il pericolo delle armi atomiche è fronteggiabile. E comunque il pericolo maggiore è diventato quello delle armi chimiche e batteriologiche «tascabili». Qui la cattiva notizia è che mezzo chilo di tossina botulinica potrebbe uccidere un miliardo di persone. E l'Afghanistan conquistato (riconquistato) dai talebani, e al servizio di Al Qaeda, pone questo problema. Pertanto scappare non è una soluzione. Ma è anche vero che la guerra come viene combattuta oggi in Afghanistan, la guerra di occupazione e controllo del territorio contro un nemico invisibile, non può essere vinta. Il problema è nuovo e impone soluzioni nuove. L'alternativa, propongo, è di abbandonare il territorio e di creare una zona militare fortificata (senza popolazione civile al suo interno) in grado di controllare e di distruggere dall'alto, con i droni militari americani, qualsiasi installazione sospetta di produzione di armi chimiche e batteriologiche. Questa «fortezza» dovrebbe essere collocata al confine con il Pakistan. E il punto è, in generale, che la tecnologia per difenderci dalla nuova tecnologia del terrorismo esiste. I generali, si dice, sono preparati a combattere la guerra del passato. Occorrono generali che si preparino alle guerre necessarie del futuro. Giovanni Sartori 29 gennaio 2010 © RIPRODUZIONE RISERVATA |