LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => AUTRICI e OPINIONISTE. => Discussione aperta da: Admin - Ottobre 26, 2007, 06:40:08 pm



Titolo: Federica FANTOZZI. -
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2007, 06:40:08 pm
Massimo Brutti: «Quest’aula, teatro del bipolarismo di guerra»

Federica Fantozzi


Ai vecchi tempi sulle poltrone della sala Garibaldi, il cui immenso tavolo è ricoperto di quotidiani e riviste estere, sonnecchiavano i senatori più anziani e gli ex, in pensione, avevano la consuetudine di incontrarsi per due chiacchiere e un caffé. Diccì di lungo corso e antica data praticavano riti di partito e formule di governo nel mozzicone di corridoio quadrangolare che equivale al Transatlantico di Montecitorio. Erano i tempi in cui Palazzo Madama era il salotto della politica, un luogo «tranquillo e appartato» rispetto alla Camera, sede precipua dello scontro politico.

«Ormai è un ricordo del passato - sospira il senatore ulivista Massimo Brutti - Basta guardare la sala Garibaldi: è vuota». Effettivamente, per tutta la giornata di ieri, non un’anima si è affacciata o si è seduta attorno al tavolo dove si impolverano malinconici giornali di due giorni prima. «Se qualcuno osasse - sussulta Brutti - sarebbe tacciato di irresponsabilità. Uscire dall’aula è un problema». E si è vista proprio ieri l’ennesima bagarre della CdL contro Rita Montalcini, “colpevole” di essersi assentata per andare alla toilette.

Brutti, romano, docente universitario, è un veterano. Al giro di boa della quinta legislatura nella Camera alta. Dal ‘92: in 15 anni ha visto le sedute notturne e agostane, l’avvento degli uomini-sandwich come forma di protesta, i girotondi intorno al palazzone, fino all’insofferenza per i senatori a vita. «C’era un costume più disteso che si è interrotto con Tangentopoli. Il crollo della Prima Repubblica ha portato un irreversibile aumento di tensione». Secondo trauma nel ‘94, èra berlusconiana: «Colpiva il distintivo all’occhiello degli uomini di Forza Italia. Qui dove non si esibiva niente, era una cosa inusitata».

Comincia un’epoca nuova che si compirà nella scorsa legislatura. Prima, al massimo, c’era stato l’ostruzionismo su Maastricht da sinistra. Poi: «Le leggi ad personam hanno significato sedute notturne. Ricordo le notti in Commissione Giustizia perché il centrodestra aveva fretta di approvare la Cirami, che finì ai primi di agosto. Noi, per combatterla, facevamo i turni: il peggiore costringeva ad alzarsi dal letto alle tre di notte». In mezzo il quinquennio del centrosinistra, 1996-2001, migliore dell’attuale: «Anche se non avevamo una maggioranza particolarmente ampia e l’opposizione era dura, il clima restava più civile, meno pesante. Ora qualitativamente gli interventi sono scaduti. Mirano a prendere tempo, difficile che si impari qualcosa».

Palazzo Madama: la trincea, il fortino assediato, la linea maginot. I soprannomi si sprecano. Brutti sospira di nuovo. Parla al telefono dall’aula, mentre vota, mentre la seduta va avanti da ore: «Il problema sono i numeri. Creano l’ossessione della spallata con cui ci confrontiamo quotidianamente. I giorni centrali della settimana devi rinunciare a qualsiasi altro programma e sapere che potrai stare in aula anche 14 ore di fila».

Sapendo che ogni assenza è valutata, ogni malessere commentato, ogni errore foraggia retroscena. «Sì... scusi... Aspetti... Avevo votato rosso per sbaglio ma ho corretto in tempo». Dicevamo, appunto. «L’anno scorso avevo l’influenza. Per votare mi intabarravo in cappotto e sciarpa, una macchina veniva a prendermi, e per fortuna che abito vicino, zac, votavo e tornavo. Tutti i miei colleghi, se si ammalano, fanno così».

Giornate in aula: come ci si attrezza? «Lavoro, leggo cose leggere che richiedano poca concentrazione. Perché gli occhi devono essere ben aperti per evitare trappole». Stressante. «Molto. Arrivo a sera con il senso di un urlo continuo, di un rombo di fondo». È l’evoluzione del bipolarismo? «Ne è la caricatura, il deterioramento. È una condizione anormale del dibattito causata da questa legge elettorale e dalle continue notizie di compravendita di senatori. In parte Berlusconi le mette in giro apposta... Vedremo chi avrà il coraggio di confermarle».

Pubblicato il: 26.10.07
Modificato il: 26.10.07 alle ore 12.41  
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Titolo: Federica FANTOZZI. -
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2007, 05:10:38 pm
E Casini ringraziò Rutelli per i Dico spariti

Federica Fantozzi


Casini saluta le «sue eminenze».

Rutelli archivia i Dico: «Barra sulle priorità reali».

Ruini ascolta attento.


Nell'aula magna dell'università Lateranense si presenta il libro del rettore Rino Fisichella: "Nel mondo da credenti. Le ragioni dei cattolici nei dibattito politico italiano". La tesi: se i cattolici accettano di «ghettizzarsi» nella sfera privata, non pubblica e politica, si auto-marginalizzano. Ne discutono (con feeling) i "gemelli centristi" Rutelli e Casini.

Modera Lucia Annunziata, che rivendica la scoperta del «fascino mediatico» del monsignore, anche cappellano di Montecitorio.

In sala ambasciatori, «generali delle forze armate», studenti e parlamentari («le pecorelle»). I rutelliani Lusetti e la sottosegretaria Cristina De Luca. Animato crocchio di centrodestra in prima fila: i forzisti Nando Adornato, Angelo Sanza, Angelino Alfano, l'Udc Luisa Santolini, l'aennino Maurizio Gasparri. «Storace e la Santanché vi hanno ricompattato - Sanza si rivolge a Gasparri - Lo dico a te che sei il più berlusconiano dei finiani..». Lui annuisce. «Io sono per l'unità del centrodestra, chi non la vuole ci indebolisce». Si giudicano infondate le voci che Giovanardi starebbe per andarsene dall'Udc. Gasparri invita tutti domenica ad Assisi per il suo «Arcipelago», convegno di associazioni e fondazioni di destra. Un signore si gli avvicina: «Si ricorda la questione delle zucchine?» chiede, si spera in codice.

Sul palco Casini si accalora: «Qualcuno denuncia che la Chiesa interferisce, che mostra prepotenza nel partecipare al dibattito politico. Io ritengo l'inverso. Dobbiamo esserle grati per il ruolo di supplenza che svolge nella spaventosa assenza della politica». E: «Quando un prete per malinteso ecumenismo apre la canonica alle preghiere islamiche mi cadono le braccia. No ai luoghi polifunzionali di culto».

La Annunziata: «Mi pare che Casini ha recepito con entusiasmo il libro, ma era scontato. È più difficile per Rutelli». Ma il vicepremier «condivide», salvo parlare di «stimolo» anziché «supplenza». Annunziata insiste: «La scomparsa del ddl sui Dico è dialogo o fallimento?». Rutelli argomenta: «È nota la mia opinione sull'ordine delle priorità, prima una buona legge sulle famiglie, poi le convivenze. Bisogna tenere la barra sulle priorità reali del Paese». Casini si infila: «I Dico non esistono più perché non c'è una maggioranza, grazie anche a persone come Rutelli che con lungimiranza hanno liquidato il testo». L'interessato sfoglia gli appunti. Conclude: «Entrambi i poli dovrebbero far sentire i cattolici a casa propria, senza che debbano rinunciare a una virgola delle proprie convinzioni».

Battibecco Annunziata-Casini. Lei: «Al bar si parla dei leader della CdL che vanno al Family Day ma hanno certe situazioni...». Lui: «È una domanda stupida. Non era una piazza di santi, ma il relativismo etico è l'anticamera del nichilismo». Fisichella benedice la sala: «Posizioni partiticamente differenziate giungono a complementarità di visione perché si parla delle nostre cose».  

Pubblicato il: 13.11.07
Modificato il: 13.11.07 alle ore 10.05  
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Titolo: Federica Fantozzi - Veltroni lancia la conferenza operaia del Pd
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2007, 06:39:00 pm
Veltroni lancia la conferenza operaia del Pd

Federica Fantozzi


«Rompere il muro di silenzio attorno alle fabbriche e tornare a parlare con gli operai». Così Walter Veltroni annuncia per l’inizio del 2008 la conferenza operaia del Pd nel Nord Italia. E delinea le priorità del suo partito su lavoro e produttività: «La questione salariale va riaperta». Con detrazioni fiscali, incentivi mirati e controllo dei prezzi.

Salari al centro. Veltroni delinea la politica del Pd su lavoro e produttività: «La questione salariale va riaperta in modo concreto». E nei primi mesi del 2008 il Pd terrà una conferenza operaia nel Nord «per rompere il silenzio intorno alle fabbriche». Nel giorno in cui ha discusso di perdita del potere d’acquisto e responsabilità dei freni allo sviluppo italiano con Montezemolo all’assemblea degli industriali romani, il segretario del Pd offre la sua risposta alle inquietudini degli operai della Thyssen (e non solo) che temono di venire dimenticati dalla politica appena spenti i riflettori. Anche se, giura Veltroni, la conferenza è stata decisa «prima della tragedia di Torino».

Alle difficoltà «di tante famiglie ad arrivare alla fine del mese», al rischio che «l’ascensore sociale si fermi», Veltroni propone subito una ricetta in cinque punti che ruotano intorno alla riduzione della pressione fiscale, al controllo dei prezzi, agli incentivi all’aumento di produttività. «Si tratta di usare la leva fiscale per appesantire le buste paga e alleggerire il peso alle imprese» spiega. Lavorando su detrazioni fiscali e incentivi mirati. Con una premessa: «Le responsabilità dei prezzi fuori controllo sono del governo precedente che non ha saputo gestire il passaggio dalla lira all’euro».

Ad illustrare le proposte, sotto il soffitto a travi del loft di piazza Anastasia, ci sono la giovane responsabile Economia del partito Alessia Mosca, il responsabile Economia Giorgio Tonini, l’ex ministro del Lavoro Tiziano Treu. Si tratta di defiscalizzare i salari di produttività (come già prevede il protocollo Welfare), rendere effettiva la parità salariale tra uomini e donne, facilitare la contrattazione decentrata che è compito delle parti sociali, aumentare la meritocrazia nella pubblica amministrazione, recuperare il fiscal drag (ma Treu precisa che avverrà nell’ambito di un più generale riordino delle aliquote in un secondo momento).

Tutti temi da sviluppare nella conferenza operaia che si terrà all’inizio del 2008 a Torino o Milano. Evento a cui Veltroni mostra di tenere moltissimo: «Si tornerà a discutere della condizione umana di chi lavora in fabbrica, a parlare con gli operai. Finora c’è stato un grande silenzio che va rotto, la fabbrica è diventata un luogo chiuso agli sguardi della società e queste barriere vanno infrante». Primo comandamento: «Lavorare in sicurezza. Non servono nuove leggi, basta applicare quelle esistenti a partire dalla 626». E l’attenzione del governo deve concentrarsi sui controlli: «Mille morti è una cifra inaccettabile per l’Italia».

Più in generale, si staglia l’orizzonte riformista del Pd. Per dirla con Tonini, «riformismo è coniugare la questione sociale del rischio povertà con quella economica della minore competitività del Paese». La strada sarà: continuare con le liberalizzazioni, controllare prezzi e imposte locali, lottare contro l’evasione fiscale, favorire il rinnovo dei contratti con le parti sociali, combattere la precarietà.

Mosca insiste sulla necessità di tutelare «giovani e donne, le categorie più deboli colpite dal minore potere d’acquisto dei salari». I dati mostrano che l’Italia è fanalino di coda in Europa nella crescita dei salari. Peggio di noi, negli ultimi anni, solo il Portogallo.

Pubblicato il: 12.12.07
Modificato il: 12.12.07 alle ore 13.21   
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Titolo: Federica Fantozzi. Fini: dal governo troppi decreti...
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2008, 04:42:12 pm
Fini critico: dal governo troppi decreti. Più rispetto per il Parlamento

di Federica Fantozzi


«Non può esistere democrazia che non abbia rapporto equilibrato tra potere esecutivo e potere legislativo, vale a dire tra governo e Parlamento». Lo dice Gianfranco Fini, presidente della Camera nonché leader di uno dei principali partiti della maggioranza, An appena confluita nel PdL.

Nello stesso giorno il Parlamento rende noto il bilancio dei primi 8 mesi di attività: sono 44 le leggi approvate, di cui 24 di conversione di decreti legge e 13 di ratifiche di trattati. In tutti i casi si tratta di provvedimenti di iniziativa del governo. Per quanto riguarda la Camera dei Deputati: Montecitorio ha approvato 41 leggi di cui 22 di conversione di decreti legge. In generale ha varato 48 progetti di legge nessuno dei quali di iniziativa parlamentare. Non va meglio al Senato, dove una soltanto su 35 leggi approvate è di iniziativa parlamentare. Per il resto 24 sono di conversione di decreti legge e 9 di ratifica di trattati internazionali.

Non è la prima volta che la terza carica dello stato sottolinea l’eccessivo uso dei decreti legge da parte di Palazzo Chigi, suscitando già in passato l’irritazione di Berlusconi che sospetta dietro questo tentativo di smarcarsi ambizioni proiettate verso il Colle in concorrenza con le proprie.

Stavolta, durante le feste natalizie, Fini traccia un bilancio dei suoi primi mesi alla guida della Camera, augura un 2009 che smentisca le profezie più cupe sugli effetti della crisi e lancia un nuovo appello ai poli per un confronto serio sulle riforme nel quale il Parlamento resti centrale.

Agli allarmi di chi teme un Parlamento esautorato dei suoi poteri per l’eccessivo decisionismo del consiglio dei ministri, Fini risponde positivamente. Avverte che «non può esistere una democrazia che non abbia un rapporto equilibrato tra esecutivo e legislativo, cioè tra governo e Parlamento». Giusto insomma che «il governo sia in grado di governare e quindi gli siano garantiti tempi certi e corsie preferenziali per i suoi provvedimenti, ma bisogna far sì che accanto alle sue prerogative ci siano quelle del Parlamento che deve controllare, indirizzare ed essere centrale in ogni momento del dibattito».

Quindi, basta «dialogo» che «a volte non c’è peggior cosa di un dialogo tra sordi» e avanti con una «comune assunzione di responsabilità» e «volontà di prestare attenzione a ciò che dice l’altro». Non significa, chiarisce Fini, «essere d’accordo su tutto ma confrontarsi in modo serio e approfondito su alcuni grandi problemi che ha l’Italia come la crisi economica, le questioni che riguardano il futuro dei nostri figli come scuola e università, e il rapporto tra istituzioni come certo il potere giudiziario».

Infine, gli sforzi del Palazzo per venire incontro alle richieste di trasparenza e rigore provenienti dai cittadini: «È un dovere per il palazzo essere aperto e trasparente, una casa di vetro».
E la terzietà richiestagli non può tradursi nella rinuncia alle proprie opinioni: «Credo - spiega Fini - che si possa svolgere un ruolo necessariamente terzo e istituzionale senza rinunciarvi». A Berlusconi un messaggio chiaro per l’anno che sta per cominciare.


30 dicembre 2008

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Titolo: Federica Fantozzi Yacht, donne e politica. Il mondo di «Cicci»
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2009, 05:59:28 pm
Yacht, donne e politica. Il mondo di «Cicci»

di Federica Fantozzi

Chi sono le ragazze sul Magnum di Berlusconi in procinto di trascorrere lo scorso Ferragosto a Villa Certosa? È caccia ai nomi delle foto pubblicate dall’"Espresso". "Dagospia" soffia sulle Papi-girls riprendendo l’articolo di Marco Lillo e Peter Gomez: «Due future stelline di reality, un’aspirante giornalista Mediaset, una giovane promessa PdL».

Quest’ultima, in camicetta bianca, somiglia molto alla neo-europarlamentare Licia Ronzulli. Lei, in partenza per Bruxelles, ha fretta: «Non ho tempo di rispondere alle sue domande». Ma dov’era a Ferragosto? «Arrivederci». Poi viene identificata Siria, concorrente saffica dell’ultimo Grande Fratello: «Non rilascio dichiarazioni - replica - Parli con Endemol». Smentisce invece di essere a bordo Susanna Petrone, da settembre conduttrice di “Guida al campionato” e in lizza per sostituire la Hunziker a Zelig.

È l’ultimo capitolo di una vicenda mediatica cominciata con il corso di politica "pret-à-porter" a via dell’Umiltà. E le studentesse - "starlet" di belle speranze, avvenenti dirigenti locali e fanciulle di ottima famiglia - falcidiate dall’ira coniugale. In un frullatore di gelosie incrociate, polpette avvelenate, registrazioni vere o presunte, rivelazioni clamorose e bocche cucite. Vedi la stanza di Arcore da cui “Papi Natale” attinge doni per le favorite, tra cui le chiavi di una mini nascoste in mazzi di rose. Anche se negli ultimi giorni qualcuna l’ha cambiata con un altro modello di auto perché da "status symbol" si va trasformando in carta d’identità. Certo, scrive Filippo Ceccarelli, «fra letterine, meteorine, gossipine, farfalline, gemelline, pare, anche montenegrine, e api regine, non ci si capisce più niente».

MI MANDA CICCI
«E come sta Cicci?» «Bene, magari è al governo». A "Tetris" era diventato un tormentone: se vogliamo una valletta - si erano detti gli autori del programma condotto da Luca Telese all’epoca su RaiSat Extra - deve essere una vera raccomandata. Detto fatto, avevano chiesto al direttore di rete che aveva chiesto al presidente di Raisat... e lei era sbucata fuori. Adriana Verdirosi: bella, bruna, spigliata, raccomandata da Cicci, entità misteriosa e mai svelata. Un ministro? «Chissà». È giovane? «Dentro sì». Sposato? «Non voglio saperlo». La sorpresa è arrivata quando hanno letto il suo nome tra le partecipanti al corso. «L’abbiamo invitata a fare campagna elettorale - rievoca Telese - Ha accettato. Poi, due giorni dopo, l’attacco di Veronica sul “ciarpame senza pudore” e non ha più risposto al telefono».

CUORI INFRANTI
Quelle che alle 16 erano in lista e alle 18 non più. Emanuela Romano, 28enne napoletana, alta e bruna, psicologa con master in marketing a Publitalia, impegnata nel comitato “Silvio ci manchi” è stata depennata nonostante il padre Cesare, artigiano di presepi, abbia minacciato di darsi fuoco sotto Palazzo Grazioli: «È tutto ricomposto - dice ora - Io sono un militante. Mi ero solo risentito per lo sgarbo». Come lei la 25enne Chiara Sgarbossa, ex miss Veneto ed ex meteorina di Emilio Fede, furibonda per l’inutilità delle pacche sulle spalle ricevute da La Russa al corso. E così racconta l’antefatto: «Avevo il contatto diretto con Marinella, la segretaria di Berlusconi. Una settimana dopo lui mi ha telefonato di persona, mi ha fatto tre domande. Sei laureata? Sì. Sai le lingue? Sì. Ci sono foto nude di te? No. Manda tutto a Marinella e vieni al corso».

CERCHI CONCENTRICI
Raccontano che nella piazza di Todi, avvistando da lontano due bionde che si sbracciavano il premier abbia gelato sindaco e consiglieri umbri: «Belle fighe circolano da queste parti». Imbarazzo: oltre che distanti, le signore erano anche "agées". È il bis del «posso palpare l’assessora» all’Aquila, il sequel di infiniti comizi e passeggiate. A Berlusconi piacciono le donne, come ad altri 50 milioni di italiani, dice chi lo difende. Si dibatte su: galanteria, voyerismo, satiriasi, priapismo indotto da pillole azzurrine o iniezioni.

Di certo, oltre a migliaia di fortunate che possono vantare complimenti, compresa la finlandese Tarja Halonen, esiste un più ristretto gruppo che frequenta Villa Certosa e Palazzo Grazioli. Dove il tavolo è sempre apparecchiato per 50. Ed esiste un cerchio ancora più riservato: quelle che vantano (o millantano) con il premier frequentazioni private, notti a palazzo, incontri ravvicinati. Come Evelina Manna, che in un’intercettazione lo rimprovera: «Non essere freddo con me».

L’ASSE PUGLIESE
E come Patrizia D’Addario, ex candidata alle Comunali di Bari ed escort d’alto bordo. Pugliese come Angela Sozio, la “rossa” delle sexy saune del GF riapparsa al congresso fondativo del PdL; come la neo-eurodeputata Angela Matera, e come Elvira Savino, la Tacco 12 di Montecitorio, coinquilina della somma reclutatrice Sabina Began.

La D’Addario però è una professionista, come le colleghe interrogate dai pm baresi: smistate da «Giampi», pagate migliaia di euro a notte. Non le uniche, forse, nel mucchio procace che ha trascorso Capodanni ed estati sarde rimborsate con diaria di 1500 euro più shopping libero. Un bel salto di qualità rispetto al borsello in cui uno degli assistenti di Berlusconi raccoglie, in ogni occasione pubblica, biglietti da visita e numeri di telefono delle fans adoranti.

19 giugno 2009
da unita.it


Titolo: Federica FANTOZZI. -
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2010, 11:42:17 am
Nelle mani degli inquisiti.

Le ombre su Governo e Pld

di Federica Fantozzi

Non è un «problema» per il governo, giura Matteoli. «De minimis...» glissa La Russa con un filo d’altezzosità. Nessuna tribolazione, assicura Berlusconi. Due ministri e un premier (troppo?) impegnati a sminare il già accidentato percorso della maggioranza derubricando il «caso Carfagna» a bega locale se non personale. Ovviamente sanno tutti che non è così. Per il Cavaliere il bel volto rabbuiato di Mara, il suo grido di dolore che «il partito è in mano agli affaristi», la tentazione di scendere in campo a Napoli non con gli amici-nemici futuristi ma (forse e peggio) con una lista civica, poneva un’alternativa del diavolo. Da un lato, il simbolo del berlusconismo del terzo secolo, la ministra sexy e competente che può sfatare la maledizione coniugal-politica delle veline uguale ciarpame.

Dall’altro, un sistema: il potente e ricchissimo Cosentino, le province e i comuni che controlla, il lucroso business di rifiuti e termovalorizzatori. Con crudezza: rischiare la titolare delle Pari Opportunità o quel manipolo di parlamentari fedeli al coordinatore campano che potrebbero costargli la sfiducia il 14 dicembre? Alla Spendibile (che non controlla divisioni) il premier ha preferito i Notabili e gli Intoccabili. In ogni caso, un gioco a perdere. Soldi e voti, affare e malaffare, cricche e inchieste. Ombre sgradevoli guizzano dietro governo e partito. Ecco perché, di fronte alle motivazioni della Corte d’Appello sulla condanna a Dell’Utri come «mediatore» tra la mafia e Berlusconi fino al 1992 consentendo ai boss di «agganciare» l’allora nascente «impero finanziario ed economico» del Biscione, il solito Matteoli sottolinea che «il caso non riguarda l’esecutivo perché il senatore non ne fa parte». Quasi a scacciare quel sospetto, rilanciato dai dipietristi, che alla fine Silvio sia stato «riacciuffato dal passato ed è l’inizio della fine».

Dell’Utri, Mangano lo stalliere-eroe, Cosa Nostra: storie vecchie, che riguardano Forza Italia che non c’è più, «trite e ritrite» si duole il bibliofilo siciliano, collezionista dei diari di Mussolini e animatore dei circoli del Buongoverno. Cosentino, la tesi dei pm che sia stato eletto dai voti dei clan camorristici, il presunto dossieraggio contro Caldoro, il passo indietro da sottosegretario: storie nuove, del PdL giovanissimo e già agonizzante. Dell’Utri e Cosentino: coinvolti (con Verdini) nell’inchiesta sulla P3 di Carboni, accusati di associazione a delinquere e violazione della legge che vieta le società segrete. Difeso a spada tratta da Berlusconi, il sottosegretario all’Economia dovette lasciare per il pressing di Fini, che aveva già archiviato la battaglia per la guida del partito e cominciava a intestarsi quella per la legalità.

Non a caso oggi il falco fliniano Granata commenta entrambe le vicende. A Carfagna dice: «Persona perbene, costretta dai vertici del PdL a vivere in ambienti discutibili nel contesto (campano) infrequentabile». A Berlusconi «imprenditore estorto», invece: «Non è un esempio di buone pratiche per gli italiani a cui chiediamo ogni giorno di non cedere e denunciare le pressioni estorsive delle mafie. Non è un esempio da seguire». Non a caso il ministro Maroni reagisce con «ferocia immotivata», parole di Saviano, al monologo televisivo in cui l’autore di Gomorra denuncia che la Lombardia è terreno di caccia per le organizzazioni criminali e «al Nord la ‘ndrangheta interloquisce con la Lega».

E se il titolare del Viminale depone le armi contro lo scrittore, Bossi non lo segue. Non a caso, quando i cosiddetti «cuffariani» di Sicilia minacciano apertamente di lasciare l’Udc in direzione PdL Casini lascia filtrare un commento sprezzante: «Mi libero di un peso. Tremavo all’idea di dover ricandidare alcuni impresentabili». Questione di immagine, non secondaria quando si teme l’avvicinarsi di una campagna elettorale: via i Totò Vasa Vasa, i Drago, i Mannino, via il partito siciliano che porta in dote guai vecchi e nuovi con la giustizia. Questione di immagine, appunto. E quella del PdL, tra bande d’affari e olezzo di munnezza e ombre tentacolari, al momento non splende.


21 novembre 2010
http://www.unita.it/news/italia/106096/nelle_mani_degli_inquisiti_le_ombre_su_governo_e_pld


Titolo: Federica Fantozzi. Paura nel Pdl: «Finiremo tutti sotto le macerie»
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2011, 04:09:42 pm
Paura nel Pdl: «Finiremo tutti sotto le macerie»

di Federica Fantozzi


La battuta migliore, onestamente, la fa Pionati: «In effetti i leghisti avrebbero avuto difficoltà a spiegarsi con la loro base: fare arrestare un Romano tanto tanto, ma un Milanese...». Un gioco di parole sul voto di oggi e quello della settimana prossima sul ministro dell’Agricoltura che fotografa la situazione con nitidezza. È l’unico sprazzo di allegria in una pallida giornata di terrore a Montecitorio. Il toto Milanese impera: palline bianche e nere e grigie, braccio sinistro o destro, dito (indice) alzato o abbassato. Uno, due, ics. Franchi tirarori segnalati ovunque. Lo sport più diffuso è dare la colpa al proprio miglior nemico: Casini dice che voterà contro l’arresto, il Pd sotto sotto ha più da perdere che da guadagnare, i maroniani si sono allineati, etc etc. Fino a sintesi lapidarie del tutto opposte: «Tutti dicono che si salverà, dunque è chiaro che vogliono fregarlo».

Pericolo macerie
Al di là della sorte dell’ex braccio destro di Tremonti, che sia salvato o sommerso dai colleghi, in Parlamento il dopo Berlusconi è già cominciato. «La situazione è drammatica - racconta un senatore pisaniano - Servirebbe una transizione guidata, una soluzione soft. Il problema è che nessuno è in grado di curarne la regia. Tra i maggiorenti del partito ci sono troppi personalismi. Letta e Confalonieri, invece, Silvio non li ascolta più. Attenti perché qui il vero rischio è l’anarchia». Timore esplicitato dalle colombe ma condiviso dai falchi. «E se il sistema crolla come il muro di Berlino? - si preoccupa un berluscones - Sarebbe una devastazione». Osvaldo Napoli dà voce agli umori pidiellini più cupi: da Bersani e Di Pietro soffia «il vento gelido dell’irresponsabilità», una «furia distruttrice nei confronti del premier che coincide con un sentimento di cupio dissolvi». Pionati, ex infaticabile traghettatore di Responsabili ai tempi del “mercato delle vacche”, avvisa: «Dopo la festa di piazza, restano le macerie e cadono sopra tutti». In fondo, è la tesi di Berlusconi: nessuno sarà così stupido da segare il ramo su cui è seduto e questo governo arriverà al 2013. Quanto sia convincente, si vedrà presto. Qualcuno, nel Pdl, pensa ad un progetto che manca del tempo necessario a compiersi: un’immunità di tipo europeo per il capo del governo votata a tambur battente attraverso la doppia lettura parlamentare prevista per le riforme costituzionali. Di certo riscuote poca fiducia il suggerimento di Sergio Romano sulle colonne del Corriere: l’idea che il Cavaliere annunci le elezioni nel 2012 e gestisca la sua successione sul modello spagnolo di Zapatero. Una road map di breve durata che potrebbe aiutare la credibilità italiana ma che resta lontanissima dal pensiero di Berlusconi. Il premier si sarebbe presentato all’incontro con la Lega con un bluff: sono pronto al passo indietro se me lo chiedete voi. Solo per sentirsi rassicurato: l’asse del Nord magari scricchiola ma regge. E nell’animo del Cavaliere albergano propositi bellicosi: un’offensiva sui temi della giustizia e dello sviluppo distribuendo i temi tra i due rami parlamentari. Un tam tam mediatico per spiegare l’operato dell’esecutivo. E una nuova campagna acquisti per rimpolpare la maggioranza ed evitare brutte pagine come le cinque sconfitte in aula sul (non proprio fondamentale) provvedimento sul verde cittadino.

Monetine dal popolo viola
Ieri sera, una lunga riunione a Palazzo Grazioli con Alfano, Cicchitto, Verdini, e gli altri vertici del Pdl. Il premier vuole resistere a oltranza. Intenzione che suscita terrore puro nella sua maggioranza. Dopo Pittelli, anche Soglia ha salutato il gruppo. Due indizi faranno una tendenza? Intanto di fronte a Montecitorio il Popolo Viola sta organizzando una manifestazione e «raccogliendo le monetine» di craxiana memoria. L’ultimo non tenerissimo giudizio arriva dal politologo americano Luttwak: Berlusconi «bollito, Alfano «un servitore», Veronica una «patriota inascoltata. «Adesso bisogna vedere se Silvio decide di finire la sua esperienza a Piazzale Loreto...» sussurra non un esponente dei no global bensì un deputato della maggioranza. Evocando una fine ben diversa dalla transizione guidata.

22 settembre 2011
da - http://www.unita.it/italia/finiremo-tutti-sotto-le-macerie-1.334440


Titolo: Federica Fantozzi - L'ira di B.: «Di Tremonti non ne posso più»
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2011, 10:49:09 am
L'ira di B.: «Di Tremonti non ne posso più»

di Federica Fantozzi

Giulio parla male di me in Europa, dice che ho peggiorato la manovra. È intollerabile. Ora basta. Devo riprendere in mano l’economia...». L’ira gelida di Berlusconi sul ministro assente è l’ultimo paradosso della maggioranza: si salva Milanese sul filo del rasoio ma si torna a parlare delle dimissioni di Tremonti.

Finisce peggio una giornata cominciata male. Alle nove del mattino, con una pila di fogli e tabelle sbattuta sul tavolo e un sorrisetto tirato di del premier. «Vi annuncio che Tremonti stamattina non sarà con noi». È cominciato così, di buon’ora, il consiglio dei ministri che ieri ha preceduto il voto parlamentare su Milanese.

All’ordine del giorno l’approvazione della nota aggiornativa del Def, il documento di programmazione economico finanziaria, messa a punto da Via XX Settembre. Solo che a discuterne con i colleghi il ministro Tremonti non c’è: è in volo per gli Stati Uniti. Assenza giustificata, per carità, la riunione del Fmi, ma non meno dolorosa per i colleghi. I quali, anziché un interlocutore in carne e ossa, si ritrovano tomi e faldoni consegnati belli e pronti per la ratifica. Quel che c’è bene, quel che non c’è pace. E Berlusconi ha espresso tutta la sua irritazione: «È un accentratore, non può comportarsi così. Deve venire qui e spiegarci le sue scelte: la politica economica si fa a Palazzo Chigi e non nel suo ufficio». Via via che scorrono le pagine e le cifre, il malcontento per la «prepotenza» di Tremonti si fa palpabile. L’umore della riunione vira al nero.

Diversi ministri tra cui Romani, Bernini, Carfagna, fanno delle rimostranze. Letta tenta invano di mediare. Il veneto Galan, che in passato ha polemizzato con Tremonti accusandolo di aver «commissariato» il governo, torna a parlare dell’esigenza di «collegialità» in un momento così difficile. In ordine sparso tornano concetti come lo spacchettamento del Tesoro, la riorganizzazione delle deleghe, la redistribuzione degli incarichi. In realtà, ciascuno è consapevole dell’impasse. Sarebbe un sollievo liberarsi dell’ingombrante Superministro. Però non possono. Ragionano di un depotenziamento che non sono in grado di portare a termine.

Ma certo, il vaso è colmo. Non basta lo sfogo di Berlusconi riferito da uno dei partecipanti alla riunione: «Se la situazione economica mondiale non fosse quella che è, con i mercati in fibrillazione e gli occhi delle agenzie di rating puntati addosso, le chiederei io le dimissioni di Giulio...».

Nel pomeriggio al vertice il premier rincara la dose: «Tremonti parla male di me in Europa, dice che ho peggiorato i conti. È ora di ragionare di dimissioni. E di riprendere in mano l’economia». All’ordine del giorno: dismissioni dei beni pubblici e privatizzazioni. A mandarlo fuori dai gangheri però pare sia stato un controllo dei voli: il ministro avrebbe preso un volo di linea Usa delle 11,10. Con un volo di Stato, è la tesi del Cavaliere, avrebbe potuto conciliare tutto.

I veleni filtrano a Montecitorio. L’assenza suscita commenti al vetriolo. Martino la considera «inelegante. Santanché, fedelissima del premier, scandisce alle agenzie: «Noi ci abbiamo messo la faccia, lui no. È umanamente vergognoso». Crosetto, il sottosegretario che definì «da psichiatria» la sua manovra, usa toni molto forti: «Il giudizio sul ministro l'ho già espresso, ora aggiungo quello sull’ uomo: la sua assenza è un forte indicatore del valore». Poi chiede una cabina di regia: «Considerata la totale assenza di idee di Tremonti e la mancanza di dialogo con il paese reale, serve un tavolo immediato e permanente a Palazzo Chigi». Il partito dei nemici di Tremonti è tornato. L’assalto finale è cominciato. Come finirà?

23 settembre 2011
da - http://www.unita.it/italia/l-ira-di-berlusconi-basta-di-giulio-non-ne-posso-piu-1.334795


Titolo: Federica FANTOZZI. - Bossi, il ministro dal vaffa facile
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2011, 04:42:50 pm
Bossi, il ministro dal vaffa facile

Tutti appesi al suo dito medio

di Federica Fantozzi


Mercoledì 28 settembre, giornata complicata: attesa per il voto di sfiducia sul ministro Romano, tensione per il risiko delle nomine in Bankitalia, aspettativa per la situazione dei mercati finanziari, governo alle prese con decisioni importanti. Ore 14,53. Le agenzie battono un improvviso flash, indice di notizia importante: «Pensioni, Bossi alza il dito medio». Traduzione per gli stranieri: il ministro per il Federalismo nonché leader della Lega, secondo partito di maggioranza, esprime la sua contrarietà ad un intervento strutturale sulle pensioni che comporti tagli alle medesime. Gli italiani non hanno bisogno dei sottotitoli: al linguaggio gestuale dell’anziano capo padano sono abituati da tempo. Appesi a un dito medio. O a una pernacchia. Si attendono altri rumori molesti per diversificare il dissenso. Un accattivante modo di avvicinare la politica alla gente comune. Che mostra un’inquietante escalation.

Tre giorni prima, 25 settembre, durante un comizio a Somma Lombardo nel Varesotto, gli chiedono cosa ne pensi della proposta di legge elettorale di Alfano. Lui: «Non ne so niente, però la sinistra vuole cambiare sistema». E vai col dito medio, e pazienza se Alfano è il segretario del Pdl. 13 settembre, altra domanda sulle pensioni all’ingresso di Montecitorio, altro dito medio. 8 agosto, vertice a Gemonio con Tremonti, Calderoli e il Trota: foto di gruppo con dito alzato. Primi di aprile, ondata di immigrati a Lampedusa. La risposta istituzionale è un bel ditino.

Italia Futura, fondazione montezemoliana destinataria di una pernacchia personale, tiene un registro delle espressioni corporee dell’«amico (di Berlusconi) Umberto». Registra nell'autunno 2010: «20 pernacchie, 15 gesti dell'ombrello, 80 mosse del dito medio alzato, 90 grugniti di dileggio». 26 settembre 2010, tra le cucine della festa leghista di Alessandria: cade il governo? «Col cavolo». Ortaggio e dito medio. 11 settembre, Fini (insieme agli atlanti ufficiali) dice che la Padania non esiste? Dito medio. L’Economist sostiene che quel linguaggio la dice lunga sulle condizioni della politica italiana? Middle finger pure a loro. Bossi lo usa per salutare i fotografi alla cerimonia degli auguri padani a Villa Aurelia, per mostrare il suo gradimento all’inno di Mameli, per dribblare quegli «stronzi» di cronisti.

Il dito però ha i suoi vantaggi: il significato è chiaro, univoco, privo di ambiguità. Volete mettere quando invece articola che il governo arriverà fino al 2013 no, sì, di nuovo no, forse ma non ve lo dico, mia moglie lo sa ma non me l’ha detto, anzi me l’ha detto ma l’ho dimenticato, Tremonti ha una macchia di sugo sulla camicia, Calderoli ha la dentiera, la spigola è meglio della trota? Panico tra i giornalisti: trota minuscolo o maiuscolo? Panico nelle agenzie: dove serve il flash e dove no?

29 settembre 2011
da - http://www.unita.it/italia/governo-mercati-e-cronisti-br-appesi-al-dito-medio-di-bossi-1.336954


Titolo: Federica Fantozzi Chi vuole cosa e perché...
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2011, 12:17:47 pm
LO SCENARIO | Monti o elezioni?

Chi vuole cosa e perché...

di Federica Fantozzi


Governo del presidente o di unità nazionale? Snello esecutivo tecnico o ampio gabinetto con dentro politici e attuali ministri? Al voto subito o dopo che un governo “unitario” si è accollato la responsabilità di misure economiche lacrime e sangue? O meglio ancora la terza via: governo elettorale che vari le misure anticrisi e poi voto in primavera ed esecutivo politico pienamente legittimato ad attuarle? La situazione è confusa. Ecco chi vuole cosa. Con l’avvertenza che le posizioni in campo cambiano di ora in ora.

NAPOLITANO
Auspica la responsabilità di tutte le forze politiche per una «efficace e condivisa azione di governo». Il voto sarebbe una sciagura per lo spread: il Quirinale è dovuto intervenire per garantire ai mercati che le dimissioni di Berlusconi non sono una bufala e presto saranno «operative».

MONTI
L’uomo dei conti o il tecno-professore dei poteri forti? Ai posteri l’ardua sentenza. Se ce la fa a conquistare palazzo Chigi. A meno che arrivi un Dini a scipparglielo...

BERLUSCONI
Indeciso. Per indole vorrebbe votare (come molti dei suoi elettori). Se non altro per epurare i «traditori» dalle liste, suo chiodo fisso, e fare una bella campagna elettorale all’arma bianca. Ma i sondaggi lo sconsigliano. Confalonieri lo avverte che se il titolo Mediaset continua a scendere in pochi secoli ai figli non resterà più nulla. Poi deve capire se gli si spacca il Pdl e se Bossi lo abbandona. Preferirebbe un governo tecnico ma diversi suoi ministri premono per entrare a far parte dei “salvatori della patria”. In sintesi: cambierà idea ancora molte volte.

PDL
Spaccato a metà come una mela. I fedelissimi di Silvio, soprattutto se non hanno divisioni dietro, vogliono il voto: sanno che verranno premiati. È il caso di Rotondi, Brambilla, Gelmini, Romani. Quelli che invece hanno (o pensano di avere) un futuro puntano sul governissimo: Lupi, Scajola, Fitto, Frattini, Cicchitto Prestigiacomo. Anche Formigoni: il Cav lo vorrebbe ministro per regalare il Pirellone alla Lega. Lui, dopo aver scalpitato decenni per un posto di governo, stranamente adesso non vuole.

BRUNETTA E SACCONI
Vogliono il voto nel listino blindato. Con tutto quello che hanno combinato da ministri non esiste un Piano B.

ROTONDI
Il leader della neo-Dc è l’emblema della disperazione di questi giorni. Raccoglie firme contro il voto, va in trasferta ad Arcore, parla con tutti. Ha persino reso l’onore delle armi a Bocchino “vero vincitore”. Va capito.

FRATTINI
In pole per un ministero quota Arcore. Lui ci tiene molto, Silvio lo stima soprattutto per la fedeltà. Di questi tempi è già parecchio. Si è appena accorto, con notevole intuito, che al governo con lui si sono infiltrati dei fascisti.

SCHIFANI
Non pervenuto. Probabilmente ha una posizione chiara. Ma nessuno gliel’ha mai chiesta.

EX AN
Vogliono votare. Preoccupatissimi di non contare più: né politicamente né nelle liste. I più inferociti: Matteoli e l’eterea Giorgia Meloni. Fa eccezione Alemanno che, del resto, si smarcava pure prima. E La Russa che resterebbe volentieri su una poltrona ministeriale. Toglietegli tutto ma non le Maserati.

LEGA
Dice che vuole votare, ma un rigenerante periodo all’opposizione di un governo tecnico non dispiacerebbe. Bossi non ha rotto il cordone ombelicale con Berlusconi, Maroni non ha rotto quello con l’Umberto.

CASINI
Furbissimo. Vuole il governo del presidente senza entrarci. Se proprio deve, ci manderebbe Buttiglione (lo manda sempre il più lontano possibile). Con lo scippo reiterato di parlamentari chiave al Pdl - Bonciani, D’Ippolito, Carlucci - è il regista dell’Operazione Silvio A Casa. Guarda con occhio cupido al Quirinale. Ma sa che nulla è scontato.

RAO
Spin doctor del leader centrista, oculato dispensatore di tweet sulle diserzioni nel Pdl in tempo utile per i tg della sera. Nell’entusiasmo del momento è stato definito in Transatlantico “il nuovo Gianni Letta”.

PD
Si sacrifica. Politicamente gli converrebbe votare ma la situazione economica lo preclude. Vuole un governo snello, senza i ministri del Pdl (al massimo i sottosegretari). Se poi fa le riforme e dura solo fino a primavera, ancora meglio.

BERSANI
Si sacrifica pure lui. E chiede cravatte nuove. Non è impazzito: in codice vuol dire governo senza i ministri Pdl. Al momento il premier lo farà un tecnico: dovrebbe durare poco, ma c’è quel pregiudizio che i “poteri forti” quando si insediano tendono a mettersi comodi. Il voto adesso proprio non si può: e dire che gli avrebbe anche risolto il problema delle primarie.

RENZI
Vedi sopra. Senza primarie, gli toccherebbe saltare un giro. Quindi, si sacrifica un po’ meno.

DI PIETRO
Non intende sacrificarsi. Monti gli evoca tecnocrati, banche e finanza. Il Pd va in pressing: non si può mica ignorare la situazione. Per i Democrats entrare in un esecutivo impopolare con il principale competitor elettorale che spara contro a palle incatenate sarebbe un incubo.

VENDOLA
Vedi sopra. Però più malleabile, ci sta ragionando. Magari un governo a tempo.

I PEONES
Frastornati. Abbandonati al loro destino. Si muovono come un gregge tra capannelli e trattative private. Si ripropone la dicotomia: quelli rimasti fedeli a Berlusconi vogliono le urne, i «traditori» o semplicemente gli ignoti sperano almeno di completare la legislatura. Tra questi, ovviamente, il partito del vitalizio: parlamentari di prima nomina in attesa della pensione.

SCILIPOTI
La vera vittima. Giustamente si lamenta: ma come, un anno fa tutti criticavano il “governo Berlusconi-Scilipoti” e adesso i vari Antonione, Bonciani, Stagno d’Alcontres sono i nuovi eroi? Un capro espiatorio degno di Daniel Pennac

CARLUCCI
È la Scilipoti del 2011. Donna simbolo della (forse) nuova era tecnocratica. Bionda, vaporosa, spietata. Per Silvio neppure una parola di rimpianto o gratitudine. Frase chiave. “Ho fatto la storia della televisione”. Lei, non lui.
11 novembre 2011


Titolo: Federica Fantozzi Ecco perché hanno «imbavagliato» Berlusconi
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2011, 12:05:57 pm
Ecco perché hanno «imbavagliato» Berlusconi

di Federica Fantozzi

BERLU IMBAVAGLIATO

«Hanno imbavagliato il Cav». Giuliano Ferrara mette on line la sua disapprovazione per la «non classe dirigente» fatta di «berluscones in fuga da ogni residua responsabilità». È successo che, nella riunione del gruppo giovedì, Berlusconi ha annunciato ai deputati che avrebbe preso la parola in aula. Dopo aver tuonato che il governo Monti è una sospensione della democrazia, che l’hanno subìto obtorto collo, che erano pronti a staccargli la spina, che la campagna elettorale a loro insaputa era cominciata, che bisognava prepararsi al voto primaverile. Nella notte, forse, ha scritto il discorso per l’emiciclo di Montecitorio. Ma non lo ha mai letto. Lo ha passato, come faceva con i compiti a scuola. Ieri mattina l’ex premier era assente al discorso del suo successore (salvo riprendersi la scena con spettacolari strette di mano).

A Montecitorio ha preso la parola il più soporifero Alfano, per assicurare morbidamente fiducia, senso di responsabilità, appoggio al governo di tregua. retromarcia notturna Alla spiegazione ufficiale, quella per cui parlavano i segretari Bersani e Alfano (però Casini si è ben guardato dal delegare Cesa) non credono nemmeno i diretti interessati. Il “giallo” sta tutto nella spaccatura, ormai arrivata a livello di guardia, tra falchi e colombe nel Pdl. A convincere il Cavaliere al mesto passo indietro sono state necessarie la moral suasion di Letta, fuori dal tecno-governo ma gran pontiere omaggiato da Supermario, la diplomazia di Frattini e il pragmatismo di Scajola. Ma a farlo ragionare ci si è messo lo stesso Alfano: senza un punto di equilibrio la maionese impazzisce e «qui salta tutto». Contro i bellicosi auspici di Ferrara, di Giornale e Libero, di Daniela Santanchè che ancora ieri strigliava i malcapitati parlamentari: «Questi qui li avete voluti voi, era meglio votare».

Contro i non pochi “pretoriani”, da Landolfi a Deborah Bergamini, secondo cui il 45% degli elettori azzurri non apprezza il «governo dei nominati». «Guarda Silvio, non si è mai visto un presidente del consiglio che vota a favore di chi gli ha tolto la poltrona. E poi, per Angelino sarebbe una delegittimazione» hanno insistito. Alla fine, il neo «imprenditore del partito» si rassegna. Insistere sulla linea dura avrebbe strozzato “Angelino” nella culla e sottoposto il Pdl a fibrillazioni devastanti. Commenta infatti Scajola, il cui gruppo in aula si è distinto nell’applausometro a Monti: «Il gesto di Berlusconi è stato fondamentale. Anche per trattenere i più esagitati di noi». Anche il dc Rotondi, assente al voto con Martino, ha reso merito al “Cavaliere muto”: «Ho apprezzato il passo indietro. È servito a valorizzare Alfano ed è stato segnale di grande discontinuità. La mia assenza è stata una mediazione: il no sarebbe stato un pessimo esordio e uno sgarbo a Berlusconi e Alfano».

Così, l’inquilino di Palazzo Grazioli si è adeguato: noi staccare la spina? Mai sognato. Del resto, Monti ha chiesto con garbo di rinnovare almeno l’abusata metafora clinica. A Berlusconi è rimasta la campagna elettorale, per ora sospesa insieme alla democrazia: web-tv di partito, gazebo capillari, nuovi organismi interni. Sono già partiti per le case di milioni di italiani gli opuscoli che magnificano l’attività dell’ex governo. Tra pasdaran e colleghi dai più miti consigli la disparità di vedute è totale. Prossimo round la manifestazione: Berlusconi la considera un’opzione (anche se non ha ancora fatto ordine sui progetti), Alfano, Scajola, Letta e diversi altri no. La decisione finale si annuncia cruenta. Sullo sfondo, una partita delicata e di lungo termine.

L’Opa che il Pdl vorrebbe, se le condizioni lo consentiranno, lanciare sul neo premier e sulla sua squadra. Lo ha fatto capire Alfano in aula: «Fiducia verso Monti, che ha ricevuto pubbliche congratulazioni anche dai vertici di partito e gruppo Ppe a testimonianza della sua collocazione culturale nell’ambito delle grandi famiglie politiche europee». Lo ha ventilato Berlusconi tendendo le braccia a Casini, Fini, al Vaticano. Lo dicono in molti sottovoce: «Monti fa parte della nostra famiglia, non lo lasceremo alla sinistra senza combattere». È l’operazione Scajola verso il grande Partito dei Moderati. È il tentativo a cui lavorano, separatamente, Cicchitto e Gianni Letta. Mentre Casini, oggetto di molti desideri, guarda e aspetta.

19 novembre 2011

da - http://www.unita.it/italia/ecco-perche-hanno-imbavagliato-berlusconi-1.354179


Titolo: Federica Fantozzi - Ecco perché hanno «imbavagliato» Berlusconi
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2011, 04:59:59 pm
Ecco perché hanno «imbavagliato» Berlusconi

di Federica Fantozzi

BERLU IMBAVAGLIATO

«Hanno imbavagliato il Cav». Giuliano Ferrara mette on line la sua disapprovazione per la «non classe dirigente» fatta di «berluscones in fuga da ogni residua responsabilità». È successo che, nella riunione del gruppo giovedì, Berlusconi ha annunciato ai deputati che avrebbe preso la parola in aula. Dopo aver tuonato che il governo Monti è una sospensione della democrazia, che l’hanno subìto obtorto collo, che erano pronti a staccargli la spina, che la campagna elettorale a loro insaputa era cominciata, che bisognava prepararsi al voto primaverile. Nella notte, forse, ha scritto il discorso per l’emiciclo di Montecitorio. Ma non lo ha mai letto. Lo ha passato, come faceva con i compiti a scuola. Ieri mattina l’ex premier era assente al discorso del suo successore (salvo riprendersi la scena con spettacolari strette di mano).

A Montecitorio ha preso la parola il più soporifero Alfano, per assicurare morbidamente fiducia, senso di responsabilità, appoggio al governo di tregua. retromarcia notturna Alla spiegazione ufficiale, quella per cui parlavano i segretari Bersani e Alfano (però Casini si è ben guardato dal delegare Cesa) non credono nemmeno i diretti interessati. Il “giallo” sta tutto nella spaccatura, ormai arrivata a livello di guardia, tra falchi e colombe nel Pdl. A convincere il Cavaliere al mesto passo indietro sono state necessarie la moral suasion di Letta, fuori dal tecno-governo ma gran pontiere omaggiato da Supermario, la diplomazia di Frattini e il pragmatismo di Scajola. Ma a farlo ragionare ci si è messo lo stesso Alfano: senza un punto di equilibrio la maionese impazzisce e «qui salta tutto». Contro i bellicosi auspici di Ferrara, di Giornale e Libero, di Daniela Santanchè che ancora ieri strigliava i malcapitati parlamentari: «Questi qui li avete voluti voi, era meglio votare».

Contro i non pochi “pretoriani”, da Landolfi a Deborah Bergamini, secondo cui il 45% degli elettori azzurri non apprezza il «governo dei nominati». «Guarda Silvio, non si è mai visto un presidente del consiglio che vota a favore di chi gli ha tolto la poltrona. E poi, per Angelino sarebbe una delegittimazione» hanno insistito. Alla fine, il neo «imprenditore del partito» si rassegna. Insistere sulla linea dura avrebbe strozzato “Angelino” nella culla e sottoposto il Pdl a fibrillazioni devastanti. Commenta infatti Scajola, il cui gruppo in aula si è distinto nell’applausometro a Monti: «Il gesto di Berlusconi è stato fondamentale. Anche per trattenere i più esagitati di noi». Anche il dc Rotondi, assente al voto con Martino, ha reso merito al “Cavaliere muto”: «Ho apprezzato il passo indietro. È servito a valorizzare Alfano ed è stato segnale di grande discontinuità. La mia assenza è stata una mediazione: il no sarebbe stato un pessimo esordio e uno sgarbo a Berlusconi e Alfano».

Così, l’inquilino di Palazzo Grazioli si è adeguato: noi staccare la spina? Mai sognato. Del resto, Monti ha chiesto con garbo di rinnovare almeno l’abusata metafora clinica. A Berlusconi è rimasta la campagna elettorale, per ora sospesa insieme alla democrazia: web-tv di partito, gazebo capillari, nuovi organismi interni. Sono già partiti per le case di milioni di italiani gli opuscoli che magnificano l’attività dell’ex governo. Tra pasdaran e colleghi dai più miti consigli la disparità di vedute è totale. Prossimo round la manifestazione: Berlusconi la considera un’opzione (anche se non ha ancora fatto ordine sui progetti), Alfano, Scajola, Letta e diversi altri no. La decisione finale si annuncia cruenta. Sullo sfondo, una partita delicata e di lungo termine.

L’Opa che il Pdl vorrebbe, se le condizioni lo consentiranno, lanciare sul neo premier e sulla sua squadra. Lo ha fatto capire Alfano in aula: «Fiducia verso Monti, che ha ricevuto pubbliche congratulazioni anche dai vertici di partito e gruppo Ppe a testimonianza della sua collocazione culturale nell’ambito delle grandi famiglie politiche europee». Lo ha ventilato Berlusconi tendendo le braccia a Casini, Fini, al Vaticano. Lo dicono in molti sottovoce: «Monti fa parte della nostra famiglia, non lo lasceremo alla sinistra senza combattere». È l’operazione Scajola verso il grande Partito dei Moderati. È il tentativo a cui lavorano, separatamente, Cicchitto e Gianni Letta. Mentre Casini, oggetto di molti desideri, guarda e aspetta.

19 novembre 2011

da - http://www.unita.it/italia/ecco-perche-hanno-imbavagliato-berlusconi-1.354179


Titolo: Federica Fantozzi. Berlusconi, ecco il "piano B" dell'ex premier
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2011, 06:57:26 pm
Berlusconi, ecco il "piano B" dell'ex premier

Di Federica Fantozzi

14 dicembre 2011

Berlusconi non vuole lasciare Monti alla sinistra ma neppure voti a Bossi. Dunque, si muove su un doppio binario. Battaglia in Parlamento per gli emendamenti del cuore (liberalizzazioni delle parafarmacie, Ici e pensioni). Battaglia nelle piazze per non perdere quote di elettorato a favore della Lega. Già da gennaio: varata l’«amara medicina» della manovra, quando verrà meno quella che l’ex premier considera la “ragione sociale” del governo del Preside (come lo chiama Il Foglio).

Così il Pdl, mentre punta a intestarsi i ritocchi alle pensioni minime e le detrazioni all’imposizione sulla prima casa attendendo la fiducia sul maxi-emendamento (che probabilmente sarà posta già oggi), si prepara ad una campagna elettorale al grido di «l’Italia ci rimpiange» e «si stava meglio quando si stava peggio».

Il Cavaliere ha dato l’ordine di tendere la mano all’ex alleato padano. Gasparri e Quagliariello sono al lavoro per un emendamento comune sul federalismo che approda in Senato. L’obiettivo è mantenere un canale aperto con Bossi, con cui è convinto di poter sempre riattivare il feeling personale. Non a caso, ha derubricato a «tattica» la sortita del Senatùr che lo ha relegato «al governo con i comunisti» esplicitando, di nuovo, la fine dell’asse verde-azzurra. Mentre lo preoccupa di più l’atteggiamento aggressivo (anche sull’ipotesi di un’asta per le frequenze tv) di Maroni. L’eventualità di un Opa maroniana sul Carroccio segnerebbe davvero il destino dell’alleanza e, di conseguenza, la fine del Pdl.

Partito che ha già i suoi grattacapi. Tra i parlamentari il malumore è grandissimo. Vitalizi differiti, tagli degli stipendi, ma soprattutto il nuovo regolamento voluto da Alfano che vieta i doppi incarichi tra coordinatori locali e cariche amministrative o rappresentative (governatori, presidenti di provincia, sindaci o assessori di comuni con più di 15mila abitanti). Salvi per ora deputati e consiglieri regionali, ma fino alle prossime elezioni. Una discreta rivoluzione, se si pensa che oggi tutti i coordinatori regionali del Pdl siedono in Parlamento: dal lombardo Mantovani al campano Cosentino, dall’emiliano Berselli al piemontese Ghigo all’altoatesina Biancofiore. La fronda al nuovo segretario si annuncia inevitabile. Primo appuntamento ai congressi provinciali di fine gennaio.

Ma l’appuntamento vero è a primavera 2012. Quando andranno al voto 7 province e 28 comuni capoluogo. Poco meno di metà nel Nord Italia. Provinciali a Vicenza, Como, Belluno. Cambio di sindaco e giunta ad Alessandria, Asti, Cuneo, Monza, Verona, Gorizia, Parma, Piacenza, Lucca, Pistoia. A Verona non c’è partita: Flavio Tosi, secondo i pronostici, vincerebbe anche da solo. Altrove, insiste Berlusconi «senza di noi non si governa, e la Lega lo sa».

Può darsi. Ma finge benissimo che non sia così. Mostra i muscoli. Vuole usare Tosi come grimaldello per una campagna “secessionista”. Punta a far credere agli elettori che la Padania sta per diventare realtà (Bossi ha anche garantito che batterà moneta, altro che l’euro «kaputt») e loro la governeranno in perfetta autosufficienza. Un bluff, forse, ma pericoloso per Berlusconi. L’alternativa all’«asse del Nord» è Pdl un aperto ai centristi, quel Partito dei Moderati che piace a Scajola e Pisanu ma non dispiace nemmeno ad Alfano e Frattini. L’unico problemuccio di questa prospettiva è la rigidità di Casini: per dare la sua adesione, vuole archiviare «definitivamente» il berlusconismo. Con tutti i suoi annessi e connessi.

da - http://www.unita.it/italia/berlusconi-lavora-al-piano-b-il-voto-1.362473


Titolo: Federica FANTOZZI. Le condizioni di Monti ai partiti
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2012, 09:54:52 pm


Le condizioni di Monti ai partiti

08 settembre 2012

Federica FANTOZZI

Il partito di Mario Monti nel futuro dell’Italia? «Non me l’ha mai chiesto nessuno. Non ho mai riflettuto su questo tema» glissa il Professore intervistato dalla «Gazzetta del Mezzogiorno>». Proprio mentre «<Corriere della Sera>» e «Sole 24 ore>» danno voce da Cernobbio al partito trasversale che, da Nouriel Roubini a Romano Prodi passando per economisti e analisti finanziari, vorrebbe un Monti-bis in carne e ossa (altro che “agenda” attuata da altri dopo l’esito delle urne, altro che “modello” da perseguire: conta l’originale, diffidare delle imitazioni), il premier da Bari declina cortesemente: «Ci sono stati simpatici e non ricevibili inviti a continuare…».
Ieri per Monti è stato il giorno del sollievo, dopo oltre due mesi di ambasce: «Abbiamo evitato il tracollo dell’Italia e forse dell’Europa». La missione europea del «più tedesco tra gli economisti italiani» ha registrato, dopo diversi stop and go, un netto successo. La vittoria di Mario Draghi sui “falchi” del rigore, lo sfaldamento dell’asse nordico, l’isolamento del presidente della Bundesbank, la speranza per la moneta comune, rappresentano insieme una conferma e un viatico per l’azione del suo governo nato fisiologicamente con una vocazione transanazionale. Insomma, l’ossigeno per l’euro allarga i polmoni anche all’esecutivo. E se il premier stoppa l’ultima rincorsa di rumors sul suo futuro politico, ne approfitta per blindare i provvedimenti già messi nel cassetto. E per definire, da una posizione di forza, il perimetro della politica che lui spera verrà dopo le elezioni: «Spero che la stagione delle clientele sia finita – ha ragionato – Che la nuova maggioranza sia in grado di tenere la barra dritta». E’ solo il primo dei paletti che il premier detta ai partiti. Le condizioni per una continuità nel solco di Supermario.
Così Monti ha bastonato anche la politica troppo invasiva in settori come Rai e sanità, togliendosi diversi sassolini dalle scarpe: «Noi sentiamo forte il rapporto con la politica ma anche con i cittadini». La lotta all’evasione fiscale? «È una guerra per la civiltà». Estesa ad altri corollari “che sarebbe riduttivo considerare fenomeni economici e finanziari perché minano la fiducia verso lo Stato». Si rassegnino i commercianti che non vogliono installare il bancomat, gli esercenti che non rilasciano scontrini, i proprietari di case fantasma o affittate in nero, i falsi nullatenenti. Quanto alla situazione di Viale Mazzini: «Non se ne poteva neanche parlare, noi senza cambiare la legge abbiamo modificato la governance con nomine di buona qualità. Di pluralismo ne servirebbe di più».
Il rigore? «È parso eccessivo ma era necessario». E gli obiettivi sono stati centrati grazie ai sacrifici degli italiani e al sostegno della strana maggioranza. Si lascia andare persino a una battuta: «Con il Salva Italia abbiamo evitato Eat-Italy». Cioè che la speculazione si mangiasse l’Italia. Ma sulla crescita c’è poco da ridere. Il premier ha chiaro che è il passo successivo: «È l’obiettivo centrale del governo ma non si realizza senza interventi radicali sulle infrastrutture che non sono stati fatti per decenni». Imprescindibile un «cambiamento di mentalità». Nel Mezzogiorno, area «strategica» la carenza di servizi primari ai cittadini e alle imprese «lede» il contratto sociale. Il premier sottolinea: «Su un certo assistenzialismo nefasto voglio essere chiaro: la crescita non nasce nel Mezzogiorno o in qualsiasi altro punto nel mondo con i soldi pubblici pompati in un tubo da cui esce una cosa che si chiama crescita».
Monti precisa che «la crescita è frutto di un’economia che funziona, poi può giovare di interventi pubblici ma bisogna abituarsi alla competitività che però richiede infrastrutture. Al Sud queste servono, dai trasporti alla banda larga al ciclo dei rifiuti, altrimenti è difficile pensare allo sviluppo». E il Professore vuole andare avanti anche sul ddl anticorruzione, che dal primo giorno a Palazzo Chigi ha fatto sapere di considerare uno dei maggiori ostacoli agli investimenti di capitali internazionali in Italia. Avanti tutta, dunque. Cronoprogramma alla mano: per evitare di finire ricordati come il governo degli annunci a cui non hanno fatto seguito i relativi decreti attuativi. Monti, insomma, assicura che il governo andrà fino in fondo. Se la cava con una battuta, invece, su una sua eventuale permanenza a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni: «Potrei prendere in considerazione la Puglia per le vacanze. Che arriveranno abbastanza presto».
E il suo partito? Quell’ipotesi su cui non ha ancora riflettuto? Forse solo un avvertimento ai partiti dell’attuale maggioranza tentati, nell’imminenza di una campagna elettorale che si annuncia cruenta, a dismettere tentazioni di tradimento dell’«agenda» impostata dal tecno-governo. Oppure, il segnale che ha deciso di ascoltare le pressioni internazionali degli Stati preoccupati per il “dopo”. Accontentando contemporaneamente una parte della politicia italiana.

da - http://l-ora-delle-trote.comunita.unita.it/2012/09/08/le-condizioni-di-monti-ai-partiti/


Titolo: Federica FANTOZZI. Marina la Cavaliera spaventa i big Pdl...
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2013, 05:10:26 pm
Marina la Cavaliera spaventa i big Pdl...

Di Federica Fantozzi
27 giugno 2013


Fininvest smentisce: «Indiscrezioni senza fondamento». Ma il Pdl è in fermento. A Palazzo Grazioli è in calendario un tourbillon di incontri nei prossimi giorni. C’è chi giura che, luglio o settembre, il ritorno a Forza Italia è deciso. E il personaggio chiave dell’operazione è lei: Marina, la «cavaliera», la primogenita di Silvio che lo ha sempre difeso senza tentennamenti né imbarazzi, l’erede dinastica e forse, in futuro, politica.

La bionda e combattiva imprenditrice, una delle donne più potenti del mondo secondo Forbes, agita il partito suscitando l’entusiasmo senza riserve delle amazzoni (Daniela Santanché già vede i Kennedy italiani) ma anche le cautele di chi, come Brunetta, teme le «dinastie» e boccia come «poco plausibile un’investitura a carattere ereditario». Tiepida e piuttosto involuta anche la fidanzata di Berlusconi, Francesca Pascale: «Sono orgogliosa di essere amica di Marina e se facesse un passo in politica non sarebbe un errore, ma non credo che il padre sia così d’accordo, considerato quello che è successo a lui da quando è sceso in campo».

È la tesi delle colombe: «Il padre le vuole troppo bene per lasciarla scendere nella fossa delle belve». Lei stessa, dunque, si è chiamata fuori ribadendo che non intende impegnarsi in politica. Può darsi che sia davvero così, ma è difficile prevedere l’evoluzione del Pdl se a fine anno le cose precipitassero, con un leader interdetto in via definitiva. Ma anche prima, se nel Pd scendesse in campo Renzi: Marina potrebbe giocarsela alla pari per età, appeal mediatico e grinta. Resta, al momento, una exit stategy e, in fondo, una carta della disperazione. Da tenere coperta. Anche perché troppo destabilizzante. Così Alfano annacqua e stoppa: «Un cognome che è una garanzia. Marina è una leader ma aziendale. Berlusconi è in campo e si batte come un leone. È lui il leader dei moderati».

Paradosso vuole che, sopravvissuto almeno per il momento il governo, la pesantissima sentenza del Ruby-gate abbia riversato effetti immediati sulla tenuta del partito. La road map verso Forza Italia sembra davvero tracciata. La riunione dei gruppi per l’approvazione del bilancio e del rendiconto (opportunamente tenuta senza il Cavaliere) ieri si è trasformata in uno sfogatoio. Con Galan che invocava il ritorno all’ormai mitico «spirito del ‘94» e Verdini che gli dava ragione. «Qui parliamo di tecnicalità - ha tuonato l’ex governatore veneto - Ma bisogna discutere di idee, identità, rilancio». E Stefania Prestigiacomo: «Il Pdl è superato, oggi comincia la ristrutturazione per tornare a Fi». Lo stesso Alfano conferma l’accelerazione: «È un progetto irreversibile».

Ma nei molti i malumori, anche lui finisce nel mirino per la gestione del partito “distratta” dagli impegni di governo. Non è un mistero che i falchi invochino un approccio più aggressivo. Biancofiore, pur ringraziando il segretario che ha proposto di affidarle le deleghe della ministra Idem dimissionaria, gli chiede di impegnarsi per la Santanché vicepresidente della Camera (che il Pd non vuole votare). E un gruppo di parlamentari medita anche di raccogliere firme per affiancargli un vice. Il Cavaliere, di fronte a questi sommovimenti, resta freddo. Intanto, non ha apprezzato la manifestazione al grido di «siamo tutte puttane» organizzata da Giuliano Ferrara in piazza Farnese. «Una cosa è portare in piazza migliaia di persone da tutta Italia - pare abbia commentato - Così non serve...».

Anzi, questo il pensiero del leader, è controproducente dal punto di vista dell’effetto mediatico. Ma anche sui propositi bellicosi dei falchi a Palazzo Grazioli regna molto scetticismo. Il che non significa che l’esecutivo mangerà il panettone, ma che la tregua estiva è ormai nei fatti: «Che alternative mi offrite? - domanda Berlusconi a tutti gli interlocutori - Sapete che cosa succede se mandiamo Letta a casa adesso?». La risposta è scontata ed evoca fantasmi ormai noti. Una maggioranza alternativa con i Cinque Stelle. Un ritorno all’odiato Mattarellum per le prossime elezioni. Napolitano che non scioglie le Camere o, peggio, si dimette. Il pessimismo che alberga nel Cavaliere, la delusione nei confronti dell’inquilino del Colle che «non ha fatto nulla», lo portano a ridare corpo al suo peggior timore: «E se eleggessero Prodi presidente della Repubblica?».

Già, perché Silvio scherzando si paragona a Mandela, «anche lui in fondo è stato in carcere...», e si consola: «Mi stanno facendo diventare martire». Ma sa bene che anche nel Pd, la ferita della «carica dei 101« non si è rimarginata. E pende come una spada di Damocle, a meno di riforme in senso presidenzialista, sulla futura convocazione dei grandi elettori.

da - http://www.unita.it/italia/marina-berlusconi-silvio-pdl-erede-forza-italia-figli-cavaliere-mediaset-politica-brunetta-santanche-1.508010


Titolo: Federica Fantozzi. Renzi, Letta, i sindacati e gli U2. Tutti i segreti del ...
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2013, 10:18:01 am
Renzi, Letta, i sindacati e gli U2...
Tutti i segreti del nuovo derby Pd


L'ANALISI | Da ieri in scena il primo duello post-ideologico della politica italiana tra rottamazione e patto generazionale. Ecco cosa hanno in comune (e cosa no) i due leader su sindacati, tagli alla politica, Europa e Usa, cultura pop e fuga dalle auto blu.


Di Federica Fantozzi
12 dicembre 2013

Da ieri è in scena il primo duello post-ideologico della politica italiana. Enrico letta, premier, versus Matteo Renzi, segretario del Pd e azionista di (schiacciante) maggioranza del suo governo.

Contendenti virtuali, prospettici, e qualcuno ha già riesumato la dizione di “acerrimi alleati”. Rottamazione contro stabilità, ha punzecchiato ieri il “Foglio”: «Attenzione, se il processo di rottamazione si interrompe adesso in nome della stabilità di governo, finiremo per preservare l'attuale stabilità, quella della morte». E' davvero così? In realtà, a ben guardare, i due “giovani” leader hanno molto in comune. A partire dall'immagine. Muscolare quella del sindaco, sobria e schiva quella del premier, ma fatta per entrambi di un'ostentata “normalità”. Letta vive a Testaccio, pranza in pizzeria, porta i figli al calcetto e difende a oltranza la privacy. Renzi è un ex scout, moglie insegnante precaria sgridata dal marito perché colta sulla corsia preferenziale, tre figli che soffrono la lontanza dal padre. Il primo è salito al Quirinale in monovolume con i seggiolini dei bambini, il secondo si sposta in treno e bicicletta. Tutti e due rifuggono l'auto blu come fosse la peste.

LEADER DEIDEOLOGIZZATI: GENERAZIONE TUAREG
«Da Berlinguer a Matteo, la sinistra sdogana il leader post ideologico – scrive Filippo Ceccarelli su Repubblica – Renzi è il primo capo compiutamente post-ideologico della storia politica italiana». Sei mesi fa la stampa scriveva cose molti simili sul neo presidente del Consiglio: finalmente un quarantenne, di quelli “deideologizzati” come i comuni “denuclearizzati” negli anni Settanta, un figlio del riflusso schiacciato dagli ingombranti padri sessantottini. Al potere sembrava fosse andato non un uomo ma una generazione: la “generazione Tuareg”, cresciuta attraverso il “deserto delle ideologie”. Ebbene, Letta ha 47 anni, Renzi 38. Tra di loro passa un decennio, come ha maliziosamente sottolineato il sindaco di Firenze per spiegare che lui ha tempo e non ha bisogno di far cadere il governo. Ma il mondo di appartenenza, l'universo di riferimento, gli obiettivi politici, non sono così distanti.

IL PD: ADDIO CULTURE POLITICHE DEL '900
Condividono un passaggio – più o meno breve – per la Democrazia Cristiana. E l'approdo finale.

Per Letta il Pd, di cui era vicesegretario, è un partito “meticcio” ma non una sintesi tra le due grandi culture del '900: il Pd come “momento rifondativo” di Ds e Margherita. Renzi, di fatto, va anche oltre: si tiene alla larga da bandiere e simboli di partito, si candida apertamente a intercettare il voto dei delusi di centrodestra (salvo sfilarsi con una battuta dagli abbracci mortali: “Manca l'endorsement di Jack lo Squartatore”). Letta vuole un partito aperto e dal basso, con le primarie a tutti i livelli, e un “modello Wikipedia” dove “ognuno delle centinaia di migliaia di partecipanti porta il suo contributo e le sue competenze”. Renzi, di nuovo per carattere e per necessità politica, è andato oltre, combattendo con durezza la battaglia sulle regole delle primarie contro Bersani, e facendo della sfida all'apparato la ragion d'essere della sua prima fase politica a livello nazionale. Al punto che i nemici interni gli rimproverano di voler smontare il Pd e farne un comitato elettorale intorno alla sua persona.

IL FANTASMA DELLA SCISSIONE E I RAPPORTI CON IL SINDACATO
Ed è sintomatico che tanto il premier quanto il neo segretario Dem siano inseguiti dal fantasma della scissione. La avrebbe fatta Renzi – giurava il tam tam un anno fa – se avesse perso alle primarie contro Bersani e le elezioni fossero andate in modo diverso. La farà Letta – sono rumors instancabili – se Renzi butta giù il governo, confluendo con Alfano in un partitone neocentrista, una sorta di Balena Bianca del terzo millennio. Mentre dall'archivio, spunta qualche similitudine persino nel rapporto con la Cgil. Renzi si propone, per la prima volta, come apertamente critico se non antagonista: “Il sindacato cambi con noi”. E per la prima volta la Camusso alle primarie è stata a casa, non ha votato, mentre lo Spi-Cgil, i pensionati, sceglieva Cuperlo. Eppure, prima di trovarsi a Palazzo Chigi con l'ex leader sindacale Epifani al Nazareno, Letta così diceva. “Il Pd dovrà parlare con tutti. E' la grande occasione per finire con il collateralismo. Nella prima Repubblica la Dc rappresentava la Cisl e un po' di Confindustria, il Pci la Cgil e un pezzettino di Uil. Adesso la logica della cinghia di trasmissione è finita, non c'è più. Siamo troppo legati ai corpi intermedi”. Significativo, no?

EUROPA, USA, IL MURO DI BERLINO
I due nuovi leader hanno molto in comune anche sul piano dei riferimenti storici e culturali (vagamente pop). Dell'immaginario, insomma. Per entrambi il punto di riferimento è la caduta del Muro di Berlino: la fine delle grandi ideologie, del “mondo come lo conoscevamo”, dei due blocchi contrapposti.

Ma anche l'Unione Europea, da indirizzare in senso sociale ma giammai abolire, dall'euro all'Erasmus che Letta ha citato nel discorso di insediamento alle Camere e Renzi in quello da neo segreario Pd. Nel pantheon di entrambi c'è Mandela: Letta nel difendere gli anni '80 ricorda che, se in Italia c'erano Craxi e le tv del Biscione, all'estero segnarono la fine dell'apartheid. Il sindaco di Firenze al leader sudafricano ha dedicato il Palasport, come ha rivendicato con orgoglio nel discorso dopo le primarie: “Mica l'abbiamo intitolato a una macchina o un'azienda”. E poi gli Stati Uniti. Basta con i rapporto conflittuali, di amore e odio che hanno segnato la generazione precedente. Letta lo rivendica durante la guerra di Bush all'Iraq. “Abbiamo amato gli Usa da subito e questo ci rende liberi di criticarli”. Renzi coltiva da tempo un rapporto con Obama, e quest'estate, per l'unica lunga e rilassante vacanza con la famiglia ha scelto proprio l'America.
E ancora gli U2 che entrambi ascoltano (“In the name of love” colonna sonora all'Obihall). Il telefilm Happy Days: Letta lo guardava prima di cena, insieme a “Furia” e “Zorro”. Il sindaco fiorentino si è presentato con giubbotto di pelle nera alla Fonzie guadagnandosi il nomignolo di “Renzie”.

DUE STILI DI ROTTAMAZIONE
La politica in senso stretto, infine. Entrambi hanno una corrente, come è doveroso che sia per non fare la fine di Prodi o Tremonti. “I renziani sono sciolti da oggi” ha annunciato il neo- segretario Pd, ma sarà difficile, dato che sono già saltati (quasi) tutti sul carro del vincitore. I lettiani esistono da tempo, lavorano sottotraccia, si muovono tra l'Arel e il think net Vedrò. E' nata anche una sottocorrente di congiunzione: i franceschiniani di Areadem.

Per tutti e due Berlusconi non è fondamentale ma superato. Renzi ha fatto furore come Rottamatore di una generazione: Bindi, Finocchiaro, Fioroni, Marini, tutti sono finiti nei suoi strali. A partire da D'Alema, che è fuori dal Parlamento e lo sarà anche (pare) da quello Europeo. Va detto però che il Lider Maximo non è entrato nel governo, seppure il suo nome fosse circolato come ministro degli Esteri. Letta ha toni soft e stile democristiano ortodosso, ma alla base del suo governo c'è un'operazione di “rottamazione cortese”. Un patto generazionale con Alfano, il suo dioscuro azzurro, che ha di fatto lasciato a casa i 50-60enni anche nel centrodestra. Facce nuove, ricambio generazionale, molte donne e profilo non troppo schierato. A maggio Letta rivendicava il profilo innovativo della sua squadra. Ci sono Lorenzin e De Girolamo. A casa Brunetta, Schifani, Nitto Palma. Ci sono Orlando e Franceschini, ma gli altri big restano in panchina. Adesso Renzi schiera la sua segreteria: “L'età media è 35 anni e le donne sono in maggioranza”.

SIMBOLISMI
Il premier ha messo Cecile Kyenge, congolese invisa alla Lega, al nuovo ministero dell'Integrazione. Il leader Dem chiama Marianna Madia, incinta e con un figlio piccolo, a occuparsi di Lavoro.
Entrambi puntano sui tagli dei costi della politica: la prima mossa di Letta è tagliare la doppia indennità ai ministri che sono parlamentari (nelle sue tasche, dice, entrano 80mila euro in meno). Renzi ha già istituito una task force con l'obiettivo di ridurre di un miliardo i costi della politica. Sull'addio al Senato e la riduzione dei parlamentari marciano in perfetta sintonia. Anche sulla moralità pubblica da ritrovare. “Etica” è la parola chiave di Letta, “onore” quella di Renzi. Il primo ha silurato Josefa Idem, rea di un pasticcio sull'Imu tutto sommato veniale ma incompatibile con il new deal di una politica alla disperata ricerca di credibilità. Il secondo ha scatenato l'offensiva sulle telefonate del ministro Cancellieri a Ligresti, approfittando del fatto che quella casella non era sacrificabile per Letta a causa dei delicati equilibri di governo.

Il derby, insomma, è aperto.




Titolo: Federica Fantozzi D’Alema e Cuperlo, stoccate su partito, Imu e riforme
Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2015, 06:01:48 pm
Federica Fantozzi   
@federicafan
· 13 settembre 2015

D’Alema e Cuperlo, stoccate su partito, Imu e riforme
Dibattito alla Festa dell’Unità di Firenze. L’ex premier: “Il Pd è abbandonato, sta deperendo”.
L’ex presidente Dem: “Restare? Non un destino ma una scelta quotidiana”

Massimo D’Alema e Gianni Cuperlo sono appena saliti sul palco della Festa dell’Unità di Firenze che Bianca Berlinguer rompe il ghiaccio: «Staino mi ha mandato un sms dicendomi che per moderare questo dibattito devo avere alle spalle studi di psicanalisi sui rapporti padre figlio. Ho risposto: sono la persona più adatta». Ma loro due hanno un rapporto padre figlio, chiede la direttrice del Tg3? Non per Cuperlo (ribattezzato «Gary Cooperlo» da un fan): «C’è un rapporto di stima e, se non si offende, amicizia. Ma opinioni a volte diverse. Con Staino c’è stato un confronto aspro, ma va bene. Caricaturale l’idea di una sinistra interna che sabota. L’importante è come ci si rispetta in un partito». Massimo D’Alema aggiunge: «C’era un errore, l’immagine di Cuperlo eterodiretto che prima di decidere telefona a me o Bersani è offensiva e sbagliata. Lo conosco, è spigoloso, fa di testa sua. Io gli consiglio più tolleranza…». Poi l’affondo: «Ci stiamo dimenticando molti valori della sinistra, ma torneremo al compagno Pjatakov che se il partito dice che il bianco e nero lui concorda. Prima avevamo lui, ora abbiamo Lotti». Anche sulle riforme, piena sinergia. «Nessuno vuole azzerare il percorso – osserva Cuperlo – vogliamo tagliare il traguardo e farlo bene». Ricucire, però, per D’Alema spetta a Renzi: «Tocca lui trovare una soluzione nel partito attraverso una discussione vera». Invece il Pd «con premier e segretario stessa persona è abbandonato a se stesso e sta deperendo». Molti applausi dall’affollata platea, ma una voce dal fondo: «40%» (cifra che ricorda a distanza anche Dario Parrini, dicendo «non sta affatto deperendo, sta cambiando l’Italia»). L’ex premier puntualizza: «Io non sono maggioranza né minoranza, sono un cittadino. Ma sulle tasse c’è stato un annuncio del premier, nemmeno di Padoan, scopriamo le cose dai giornali e poi ci si dice che è una decisione della maggioranza? Non possiamo far finta di avere un partito con maggioranza e minoranza, perché non-c ’è-più», scandisce. E Cuperlo: «La disciplina di partito passa attraverso la costruzione del consenso. L’obbedienza si impone». L’ex presidente Dem rievoca la riunione in cui, quando era in carica, criticò l’Italicum: «Un minuto dopo sono state chieste le mie dimissioni via agenzia. Renzi al microfono mi diede del nominato. Il giorno dopo mi sono dimesso. Non era polemica, ma rivendicare rispetto». Berlinguer scherza sul feeling: «Devo fare io la controparte».

L’opinione di Cuperlo è netta anche sul passato, sull’antiberlusconismo che il premier al Meeting di Rimini ha paragonato al berlusconismo: «Non sono nostalgico, rispetto il passato. Non si può azzerare il cronometro». Prima di Renzi nel Pd non si discuteva? «Si capiva che non dirigi il partito con la bacchetta magica ma con l’ascolto delle sue componenti». Se la parola chiave della serata è «rispetto», il tema sono le tasse. Su cui l’opposizione alla linea renziana di abolizione dell’Imu è totale in nome del principio di progressività, dell’equità e della priorità a impresa e lavoro. D’Alema: «Non si può risolvere un problema dopo 7 anni dicendo: ha ragione Berlusconi. Non è giusto. Io pago una tassa significativa sulla casa e, con 9 milioni di poveri la priorità non può essere toglierla a me». Boato del pubblico. Ma l’ex ministro degli Esteri non ha finito: «Nessun ragazzo di buon senso dovrebbe permettersi di polemizzare con Padoa Schioppa (il ministro, oggi scomparso, disse che «pagare le tasse è bello», ndr) perché è stato un grande italiano e pagando le imposte si fa il proprio dovere». Cuperlo dice se voterà l’addio all’Imu nella Legge di Stabilità ma avvisa: «Non perdiamo un pezzo di identità per conquistare il consenso di qualcun altro, dirò la mia e voterò secondo coscienza». Altra stoccata: «Il premier di evasione non ha parlato, lo considero un lapsus, ma discutiamo». Del Pd attuale, insomma, si salva poco. Su Enrico Rossi, potenziale sfidante di Renzi al futuro congresso, D’Alema non si pronuncia «per non danneggiarlo», ma annota malizioso: «Ai tempi della vituperata ditta come governatore prese un milione di voti, adesso 600mila… C’è un crollo della partecipazione nelle regioni rosse. Non è che il Pd si sta affrancando dai postcomunisti, sono loro che si affrancano dal Pd. Le aspettative suscitate da Renzi in parte sono andate deluse». Il resto dell’analisi è altrettanto impietoso: «Illusorio sfondare al centro, imbarchiamo ceto politico e i voti vanno alla Lega, se arriva Verdini e vanno via gli elettori…». Ce n’è persino per Tony Blair, che Renzi apprezza: «Ho capito che Corbyn avrebbe vinto quando ho sentito il discorso di Blair. In Gran Bretagna gli elettori provano avversione per lui, noi lo abbiamo scelto come modello…».

Sulle riforme, D’Alema spara a zero: «In pratica agli elettori diciamo: state a casa, non venite a votare. Con la grande riforma chi vince per un pugno di voti, anche Grillo, prende tutto. Nessuna democrazia al mondo funziona così». Cuperlo condivide i timori di D’Alema, dice che «restare in questo partito non è un destino, è una scelta che devo rinnovare ogni giorno», e avverte: «Bisogna garantire un equilibrio complessivo dei poteri o la democrazia viene meno. Un grande partito non si impicca all’art. 2, deve avere una visione d’insieme». E strappa l’ovazione del pubblico con: «Se si fa a meno di un pezzo di Pd per altri voti, saremmo di fronte al venir meno delle ragioni fondative di questo progetto. Se il Pd cambiasse radicalmente natura, profilo, offerta di sinistra, potrebbe non essere più la casa per me e tanti di noi. Quando vedo uscire Cofferati e altri, una domanda me la pongo». E D’Alema: «Non vivo nella condizione umanamente difficile in cui vivono Cuperlo e Speranza. Non ho né l’età né desiderio di fondare partiti. Ma sia che decidano di dare battaglia nel Pd sia che in un momento che nessuno si augura possano pensare di ricostruire altrove una sinistra italiana io darò una mano».

Da - http://www.unita.tv/focus/dalema-e-cuperlo-stoccate-su-partito-imu-e-riforme/


Titolo: Federica Fantozzi Niente ballottaggio, collegi e premio di maggioranza.
Inserito da: Arlecchino - Novembre 08, 2016, 10:58:44 pm
Legge elettorale: intesa vicina, ma i bersaniani insistono sul No al referendum
Referendum   
Niente ballottaggio, collegi e premio di maggioranza.
Cuperlo ha chiesto il voto di una direzione prima del 4 dicembre

Federica Fantozzi   @federicafan
· 5 novembre 2016

La trattativa è ambiziosa e quasi fuori tempo massimo, ma i pontieri non demordono e l’accordo sembra infine vicino. Ieri secondo round di incontri, colloqui, telefonate all’interno della commissione Dem che dovrebbe (più realisticamente, potrebbe) raggiungere la quadra su come modificare la legge elettorale. «Clima positivo» per uno dei protagonisti, e a fine giornata si attende il via libera di Matteo Renzi su un’intesa che coinvolga buona parte dell’opposizione interna. Elemento clou: la tempistica.

L’obiettivo è concordare un percorso e il paletto minimo, da parte della minoranza, è approvare attraverso una nuova direzione che sia convocata prima del referendum costituzionale la bozza di documento elaborata dai cinque “saggi”. Sono tre i punti chiave, gli stessi elencati da Matteo Renzi nell’ultima direzione del partito: addio al ballottaggio, premio di maggioranza alla coalizione anziché alla lista, abbandono dei capilista bloccati a favore dei collegi uninominali o delle preferenze.

Un programma ampio, di cui la bozza di documento a cui stanno lavorando i cinque commissari – i capigruppo parlamentari Luigi Zanda ed Ettore Rosato, il presidente Pd Matteo Orfini, il vicesegretario Lorenzo Guerini e Gianni Cuperlo, in qualità di ambasciatore delle minoranze – rappresenta solo il primo passo. Ancora in queste ore Cuperlo sta sottoponendo la bozza alla sinistra interna, a partire da Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza. Per cercare di concordare una strada condivisa, che conduca al rientro delle divergenze sul referendum. Inevitabilmente in più tappe: nel caso in cui arrivasse l’adesione di tutte le componenti, il documento andrebbe poi votato in una prossima direzione e, a quel punto, trasmesso ai gruppi parlamentari.

Soltanto raggiunta quella fase il testo potrebbe essere incardinato in commissione Affari Costituzionali, come chiedono dall’inizio i bersaniani, e cominciare l’iter per tra sformarsi in legge. Partita complicata per tanti motivi. Prima di tutto, come si diceva, i tempi. Manca un mese al referendum e la macchina politica –tanto del Sì quanto del No – è già lanciata. La minoranza, allora, quali «impegni concreti» richiederebbe per cambiare opinione?

È già chiaro che non si accontenterebbe della bozza preceduta dall’avallo a monte del segretario, come base di discussione, già liquidata come semplice «contributo culturale» privo di valenza politica. Quanti di loro accetterebbero il “lodo Cuperlo”? Da ieri mattina, l’ex presidente Pd insiste affinché il cammino sia almeno avviato con una direzione prima del 4 dicembre, a cui segua rapidamente il deposito della proposta di legge. Più altre limature, come un riferimento più stringente alla forma di elezione diretta dei senatori in concomitanza con la scelta dei consigli regionali. Argomenti che i renziani stanno valutando «positivamente».

Nella maggioranza Dem si lavora per chiudere –se ci saranno le condizioni – già oggi o comunque in concomitanza con la Leopolda, e poter annunciare l’intesa dal palco della kermesse simbolo del renzismo. L’altro punto da capire è quanti nelle minoranze si sentirebbero vincolati da un’eventuale accordo. Ieri pomeriggio il senatore Federico Fornaro ha già bocciato la bozza: «Nonostante la generosità di Cuperlo, la commissione Pd ha prodotto un documento fantasma, tanto generico quanto inefficace. Così non si va da nessuna parte, anzi si rafforzano i dubbi, le riserve e le evidenti criticità».

A sua volta, Miguel Gotor ha divulgato il proprio «manifesto del No»: «Ho deciso di votare contro la riforma dei gattopardi». Bersani, che da giorni è in giro per l’Italia, ha confermato la presenza a tre iniziative per il No in Sicilia: a Ragusa, Siracusa e Palermo lunedì 7 novembre. Già l’altroieri l’ex segretario si era detto «non ottimista» sull’esito della trattativa. E ieri sera Roberto Speranza, partecipando a un evento a Foggia a cui ha partecipato anche il presidente della Puglia Michele Emiliano (tra i governatori contrari alla riforma), ha detto: «Riforma costituzionale e legge elettorale sono due pezzi della stessa riforma.

E’ sempre più chiaro, giorno dopo giorno, che l’unico modo per cambiare veramente la legge elettorale è votare No al referendum di dicembre». Ha commentato Orfini: «Siamo impegnati per cercare di evitare una spaccatura del Pd, ma molti la cercano e sembra non attendano altro». L’impressione è che, per alcuni, il tempo delle possibili intese sia già scaduto

Da - http://www.unita.tv/focus/legge-elettorale-intesa-vicina-ma-i-bersaniani-insistono-sul-no-al-referendum/


Titolo: Federica Fantozzi. Calise: “Renzi non è solo. 13 milioni di voti vi sembrano ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 08, 2016, 06:59:31 pm
Interviste
Federica Fantozzi   
@federicafan
· 6 dicembre 2016

Calise: “Renzi non è solo. 13 milioni di voti vi sembrano pochi?”
Referendum   
   

Il politologo: “Il premier non può fare miracoli, ma adesso intorno a lui si è coagulato un segmento forte di società”

Mauro Calise, politologo, insegna Scienze Politiche all’università Federico II di Napoli. Editorialista del Matti – no, è autore di saggi assai calati nella realtà come l’ultimo «La democrazia del leader» (Laterza 2016) o il precedente «Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader» (2013).

Professore, si aspettava il risultato del referendum?

«Ho l’abitudine di fidarmi più dei sondaggisti che del mio naso. E quindi: no, non me lo aspettavo. Non in questi termini. Le previsioni indicavano uno scarto inferiore. Il dato che ha cambiato le carte in tavola è stata l’affluenza che anziché fermarsi al 54% ha raggiunto proporzioni da elezioni politiche».

L’analisi più diffusa è che Renzi ha personalizzato la battaglia, trasformandola in una guerra civile e dunque perdendola. È davvero così oppure, dopo il mandato bis di Napolitano, era un sentiero obbligato?

«Renzi non aveva molte alternative, ma ha fatto quella scelta sulla base di un ragionamento strategico che alla fine non ha funzionato. Questo: in un sistema ormai tripolare, con tre partiti praticamente alla pari, ha cercato una forzatura bipolarizzante come prospettiva di lungo periodo».

Cioè, ha scommesso sull’Italicum?

«Il premier era convinto che l’ondata favorevole delle Europee non avrebbe retto. Del resto, lo si è visto: nonostante le conquiste, tutto ciò che ha fatto il governo, la sua popolarità stava scemando. E non per colpa del referendum ma perché sono tempi durissimi in Europa e nel mondo per chi governa. Soprattutto se è di sinistra: Clinton è stata spazzata via da Trump, Hollande nemmeno si ricandida, la Spd appare come comparsa nel governo di Angela Merkel, i socialisti spagnoli sono ridotti a ruota di scorta del governo conservatore».

Insomma, il premier aveva le sue ragioni per comportarsi come ha fatto?

«Renzi rappresentava e in prospettiva rappresenta ancora un’eccezione a quello che non è il declino ma il tracollo della sinistra. Con questo sfondo, ha cercato di massimizzare la sua posizione lungo due binari. Il primo: la legge elettorale, che spacca in due l’elettorato. Il secondo: le grandi riforme».

Due anni di lavoro spazzati via in una notte.

«Insomma. Marco Travaglio sostiene che si sia messo nella scia di Napolitano, Ezio Mauro si chiede chi glielo ha fatto fare… Io credo che lui si sia reso conto che in un contesto tripolare non sarebbe durato e abbia agito. Non è un ragazzotto sventato: è un politico con idee molto precise. Ha pensato che, senza questo risultato, non lo avrebbero battuto in campo aperto ma comunque rosolato a fuoco lento».

D’accordo, però alla fine ha perso. In che modo può rappresentare ancora una prospettiva per la sinistra?

«Oggi la sconfitta appare molto sonante, anche perché un po’ inattesa. Ma guardiamo i numeri: 13 milioni di voti. Due in più delle Europee. Più di Veltroni, che nel 2009 ne prese 12 milioni. Un bottino elettorale molto rispettabile perché costruito in campo aperto, non in un’occasione distratta. Numeri che eguagliano il Berlusconi dei tempi migliori e che il centrosinistra non si è sognato, tantomeno Bersani. Tutti voti intorno a Renzi e a una radicale proposta di rinnovamento del Paese».

Quindi, quella di Bersani era una non-vittoria e questa di Renzi è una non- sconfitta?

«È una sconfitta, ma va analizzata bene. Davvero Renzi è solo, non ha una classe dirigente intorno, non esiste renzismo nei corpi intermedi, associazioni, intellettuali, professori? La mia impressione è che proprio per la lunghezza e durezza dello scontro, adesso intorno a lui c’è una fetta rappresentativa della società. Se segmentiamo la piramide dei votanti e accettiamo l’assunto che il No sia andato forte nelle classi disagiate e nei ceti bassi, è probabile che intorno al Sì si sia raccolta u n’ossatura dirigenziale, organizzativa, propulsiva. Insomma, quella di Renzi non è più una leadership solitaria. Ha coinvolto segmenti attivi e influenti».

Perché, allora, ha perso?
«Perché era uno contro tutti. Aveva contro i partiti di opposizione e un pezzo del suo partito. Sono numeri da elezioni politiche. Chiedergli pure un miracolo in questa Europa forse è un po’ eccessivo. Se 13 milioni vi sembrano pochi…».

Sembra che il premier abbia la tentazione di lasciare anche la segreteria del Pd. Ipotesi che i suoi gli chiedono di accantonare. Lei gli consiglierebbe di prendersi un sabbatico dalla politica?
«No, nel modo più assoluto. Un passo indietro dal governo, invece, conviene a lui, all’esecutivo e al capo dello Stato».

In che senso conviene al governo?
«Non ci sarà lo stesso premier, ma nel prossimo esecutivo ci saranno molti elementi di continuità con l’attuale. È anche questione di rispetto della comunità internazionale. Renzi ha perso ma non è rimasto a mani vuote. Se ne va con un patrimonio di consenso negli elettori e nel Pd. Non vedo elementi che lo spingano a ritirarsi dalla politica. Mi auguro che non influiscano componenti caratteriali o psicologiche: sarebbe una vera delusione».

Si riparte dal congresso del Pd?
«Intanto, si riparte dal governo, che va fatto in tempi rapidi ed è la tappa più importante. Poi lasciamo decantare i numeri, guardiamoli con attenzione. Non si deve lasciare l’iniziativa a una coalizione eterogenea e antipolitica. Calma e gesso».

Da - http://www.unita.tv/interviste/calise-renzi-non-e-solo-13-milioni-di-voti-vi-sembrano-pochi/


Titolo: Federica Fantozzi. Fassino: “Da Matteo un vero sforzo unitario.
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 24, 2016, 08:50:21 pm
   
Interviste
Federica Fantozzi - @federicafan
· 22 dicembre 2016

Fassino: “Da Matteo un vero sforzo unitario. Ora riconnettere partito e società”

La carica innovatrice dell’azione di governo non sempre ha trovato il consenso sperato. Serve più dialogo, ma senza rallentare sulle riforme

Piero Fassino, le è piaciuto l’intervento di Matteo Renzi all’assemblea nazionale del Pd?
«Sì, direi che l’assemblea ha corrisposto alle aspettative della nostra gente, degli elettori e dell’opinione pubblica. Ho apprezzato il tono della relazione del segretario che ha tenuto insieme la rivendicazione giustamente orgogliosa dei suoi mille giorni di governo con una riflessione critica, netta e severa, sui limiti dell’azione di partito e governo che si sono riflessi nel voto referendario. Non ha nascosto la sconfitta e ha prospettato un “cambio di passo” nella vita del Pd e nel modo di costruire un rapporto con la società italiana per recuperare il consenso venuto meno».

La «fase zen» esisterà davvero o soltanto sui giornali?
«Un cambio di passo è necessario. È importante aver concentrato l’attenzione sui giovani e sul Mezzogiorno, sui tanti problemi che lo affliggono e che spiegano perché lì si è concentrato il No al referendum come manifestazione di un forte malessere sociale e politico. Più in generale, dobbiamo avere consapevolezza che il riformismo dall’alto rischia di non trovare consenso: bisogna riallacciare un rapporto di ascolto, interlocuzione e costruzione politica e programmatica con la società».

Cosa non ha funzionato?
«I mille giorni sono stati percorsi con slancio, a passo di corsa. Sono state messe in campo molte riforme: la scuola, il Jobs Act, le Unioni civili…».

Riforme che non puzzano, come ha sottolineato Renzi?
«Intanto riforme vere, sapendo che non esistono riforme perfette, e anche queste contengono limiti e contraddizioni. Ma hanno aperto un processo di modernizzazione che l’Italia aspettava da decenni. Penso alla legge sul Dopo Di Noi, di altissimo valore morale e sociale, come ai molti Patti sottoscritti con Regioni e grandi città per rilanciare gli investimenti pubblici».

Però?
«Questa forte carica innovatrice non sempre ha trovato il consenso sperato. Penso alla scuola, una buona riforma, che però ha creato disagio nel mondo degli insegnanti. La politica deve costruire i suoi contenuti insieme ai destinatari: cittadini, famiglie, imprese. Questa nuova fase non deve però rallentare la determinazione su innovazione e riforme, altrimenti sarebbe un passo indietro, bensì colmare la lacuna di un insufficiente rapporto tra riforme e Paese».

Alla fine Renzi si è dimesso da premier, ha rinunciato al congresso anticipato, non ha avviato rese dei conti. Perché la minoranza non ha votato la sua relazione?

«Renzi si è mosso esattamente come deve fare un leader, nel modo giusto. Orgoglioso delle sue scelte, determinato, ma senza chiudersi al confronto con chi la pensa diversamente e con tutte le anime che compongono il Pd. Il dovere di un segretario è aprirsi e riconoscere le differenze per fare sintesi. Le diversità sono ricchezza, non rischio. Domenica in Renzi ho visto uno spirito unitario chiaro e forte».

La minoranza, a quanto pare, non lo ha visto.
«Registro che intanto in assemblea non c’è stata contrapposizione. Non si è riprodotta la frattura della campagna referendaria. Gli interventi di Guglielmo Epifani e di altri esponenti della minoranza si sono collocati dentro la relazione del segretario e non fuori né contro. Questo è un primo passo positivo a cui spero ne seguano altri. Anche perché il nostro popolo chiede coesione e unità, a cui tutte le anime del partito hanno il dovere di corrispondere».

Insomma, bisogna guardare il bicchiere mezzo pieno?
«La credibilità di un partito dipende anche dalla sua coesione e solidarietà. Spero che l’assemblea sia l’avvio di un percorso di ricomposizione del modo di stare nel Pd attraverso regole condivise. Credo che nessuno voglia più vedere le contrapposizioni aspre conosciute in campagna elettorale e mi auguro che tutti davvero le considerino definitivamente archiviate».

L’altra gamba di questo percorso è rappresentata dal governo. Nasce in condizioni troppo avverse o può durare?
«Un governo è un governo, che è sempre nella pienezza dei poteri. Non esistono governi di serie A o B. Gentiloni ha davanti a sé sfide non riconducibili all’ordinaria amministrazione: Mps e la ricostruzione del sistema creditizio, la legge di Stabilità e il rilancio di investimenti e crescita, la ridefinizione delle politiche europee, l’immigrazione, la drammatica sfida del terrorismo. Sono sfide non minori di quelle del governo Renzi».

In questo quadro, l’orizzonte del voto in primavera è realistico? «È evidente che questa legislatura è nata, dopo l’appello di Napolitano, per fare le riforme. L’esito del referendum ci dice che si sono arenate e che questa finalità è venuta meno. Dunque è corretto restituire la parola ai cittadini. Ed è evidente che avere una legge elettorale adeguata è una urgente priorità a cui da subito deve dedicarsi il Parlamento».

Un accordo sul Mattarellum si troverà?
«Il Mattarellum è un sistema concepito in un contesto bipolare e non tripolare come adesso, quindi occorre renderlo “compatibile”. Ma averlo proposto è giusto e lancia un messaggio preciso: non rinunciare al duplice obiettivo di tenere insieme rappresentatività e governabilità. Non rassegniamoci fatalisticamente al ritorno al vecchio proporzionale puro ante ’94 che non darebbe stabilità agli esecutivi. Partendo dal Mattarellum si può trovare un’intesa sulle integrazioni necessarie senza perdere l’ispirazione maggioritaria originaria».

Ovviamente dipenderà dalla legge elettorale, ma sono ipotizzabili le primarie prima del voto?
«I meccanismi di selezione dei candidati dovranno essere coerenti con la legge elettorale che si adotterà. Di certo dovrà esserci il pieno coinvolgimento dei cittadini e la individuazione dei candidati non potrà avvenire sulla base di sole decisioni delle segreterie di partito».

Da - http://www.unita.tv/interviste/fassino-da-matteo-un-vero-sforzo-unitario-ora-riconnettere-partito-e-societa/


Titolo: Federica FANTOZZI. - Scalfarotto: “Norme di civiltà, con il bicameralismo ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 28, 2016, 11:35:58 pm
Interviste

Federica Fantozzi - @federicafan
· 27 dicembre 2016

Scalfarotto: “Norme di civiltà, con il bicameralismo sono a rischio”

Il sottosegretario alle Riforme e poi allo Sviluppo Economico con il governo Renzi: “Io sono pessimista, si impantaneranno, sull’omofobia non ci sono i numeri”

Ivan Scalfarotto, ex manager oggi politico a tempo pieno, in prima linea per i diritti Lgbt, è stato sottosegretario alle Riforme con il governo Renzi e poi allo Sviluppo Economico.

Ius soli, tortura, processo penale, cognome materno, omofobia. Leggi importanti su cui questo spicchio di legislatura deve imporre uno sprint se non vuole che finiscano nel nulla…

«La cosa particolare di queste leggi è che nel sistema disegnato dalla riforma costituzionale sarebbero state sicuramente varate. Invece sono un’eredità del bicameralismo paritario che ci terremo. Sono leggi “scomode”, di visione, di modernizzazione vera del Paese. Incidono sulle interazioni sociali, sulla vita e quotidianità delle persone».

Ovvero sono leggi di civiltà.
«E serve una vera leadership per approvarle. Noi abbiamo sofferto nelle ultime legislature perché alla Camera si riusciva a trasformare le intenzioni in fatti concreti, mentre al Senato la maggioranza era molto più debole. Almeno dal governo Prodi del 2006 che era appeso a un solo voto. Così Palazzo Madama è diventato il luogo dei compromessi, il porto delle nebbie».

Il governo di Prodi ha rappresentato anche il primo tentativo serio per portare a casa una legge sulle unioni civili. Ci fu lo scontro tra il premier “cattolico adulto” e il cardinal Ruini. Si tentò con i Dico e i Pacs. Oggi le Unioni Civili sono legge. Un miracolo?

«Sì. Un’eccezione. Intanto, sono state approvate prima dal Senato. Una volta riuscito quell’obiettivo, alla Camera sono passate facilmente. Montecitorio fa grandi salti in avanti, purtroppo Palazzo Madama spesso non segue. E poi le Unioni Civili sono state approvate con la fiducia. Grazie alla caparbietà di Renzi, al grandissimo lavoro di Zanda e Cirinnà, e a condizioni politiche favorevoli. Un mix di circostanze che al momento non vedo replicabile».

Lei è pessimista sul cammino delle leggi ancora in cantiere?
«Sì, si impantaneranno tutte. Non ci sono i numeri. Nei due anni ai Rapporti con il Parlamento con il ministro Boschi ho imparato una grande lezione: non si possono fare le leggi se non ci sono i voti. Adesso ci sono i voti sull’omofobia? No».

La vittoria del Sì al referendum avrebbe cambiato le cose in maniera radicale?
«Certo, ecco perché ho sostenuto in modo appassionato il referendum. Finalmente avremmo avuto un sistema in cui queste leggi sarebbero diventate la normalità e non un braccio di ferro. In prima lettura, passò un emendamento alla legge Boschi che manteneva il bicameralismo paritario su famiglia e salute e noi ci opponemmo con forza».

Qual era la ratio?
«Era una proposta della Lega, a scrutinio segreto, che poi modificammo alla Camera. La ratio era che volevano rendere il Senato non Camera delle autonomie bensì di garanzia. Ma finora è stato piuttosto una ragnatela che ha bloccato moltissimi provvedimenti».

Neppure una delle leggi in fieri vedrà la luce?
«Forse la riforma della procedura penale ce la farà. Forse una legge passerà. Ma se si considerano il tempo a disposizione e gli assetti politici, credo che sarà molto difficile. Peccato. Per modernizzare l’Italia servirebbe davvero un procedimento legislativo più snello».

Secondo lei, la legislatura dovrebbe arrivare fino alla fine per varare queste leggi oppure le dà per perse comunque?
«Io sostengo che sia meglio votare il prima possibile, tanto queste leggi non si faranno comuque. Il referendum ci ha detto cosa non vogliono gli italiani, non cosa vogliono. A quale progetto politico vogliono affidarsi? La lettura prevalente è che abbiano bocciato il governo Renzi, io credo che questa lettura debba essere vagliata dal voto».

Anche lei crede che di riforme costituzionali non si riparlerà per decenni?
«Sì, oggi non sono proponibili. Eliminare il bicameralismo o il Cnel? Ma se gli italiani hanno detto che li vogliono».

Da - http://www.unita.tv/interviste/scalfarotto-norme-di-civilta-con-il-bicameralismo-sono-a-rischio/


Titolo: Federica FANTOZZI. - Recalcati: “Renzi resta il figlio giusto, osteggiato...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 04, 2017, 05:40:16 pm
Interviste
Federica Fantozzi - @federicafan
 4 febbraio 2017

Recalcati: “Renzi resta il figlio giusto, osteggiato dai padri padroni”
“La scissione? Narcisismo di élite, minoranze che non vogliono tramontare”


Professor Massimo Recalcati, il Pd è passato dal trionfo alle Europee del 2014 all’addio di Renzi a Palazzo Chigi dopo la sconfitta referendaria di dicembre. Quanto c’è di politico e quanto di psicologico in questo comportamento?

«La sinistra ha più facilità alla lotta che al governo. È qualcosa che appartiene senza dubbio alla sua storia, al suo Dna, alla sua identità. La sinistra non viene al mondo per amministrare ciò che esiste ma per negarlo e progettare un volto nuovo del mondo. La critica minoritaria gli appartiene più dell’attitudine a gestire una vittoria. La critica ostinata caratterizza la pubertà e il velleitarismo adolescenziale. Nel porre al Pci il problema della responsabilità del governo, Berlinguer intendeva far fare alla sinistra italiana un passaggio evolutivo che era sinora mancato».

Gli eventi attuali significano che la sinistra non è mai cresciuta?
«È un tema che ritroviamo in Renzi: la critica ostinata che rigetta l’accordo e la mediazione è diventata una caricatura solo ideologica dell’inclinazione alla lotta. Anche Berlinguer, come ha mostrato in modo toccante Veltroni, si è incagliato sulle sabbie che separano il massimalismo dal riformismo. C’è qualcosa che viene avvertito come contro -natura nella sinistra al governo ».

Un esito ineluttabile?
«Il problema è come tenere insieme il sogno e la prova di realtà, la lotta e le responsabilità di governo. Renzi ha provato a non dissociare questi due elementi solo apparentemente contraddittori. In questo senso lo considero un passaggio essenziale nella storia della sinistra italiana».

In questa chiave, come legge le divisioni interne e le ultime minacce di scissione?
«Ho citato in un articolo recente le dimissioni di Enzo Bianchi dalla carica di Priore del Monastero di Bose. Nietzsche affermava che la saggezza più grande dell’uomo è quella di saper tramontare al momento giusto. È quello che ha fatto Bianchi: un passo indietro, lasciare che i figli assumano le loro responsabilità, sostenere chi viene dopo di noi con lealtà anche se una differenza profonda ci separa, abbandonare il proprio posto di guida per consentire l’ingresso di energie nuove. Le pare che stia accadendo questo?».

Renzi si è dimesso da palazzo Chigi. Cosa arriverà dopo, allora?
«Il dramma della politica italiana, non solo della sinistra, è il fallimento dell’eredità. Renzi ha provato a correggere questo sintomo consentendo a una nuova generazione di farsi avanti. I figli anziché ereditare il testimone dai padri sono osteggiati dai padri. Accade anche a destra con Berlusconi e Grillo. I figli non allineati coi loro padri-padroni vengono sistematicamente espulsi. Ogni scissione, quando sono in gioco diverse generazioni, viene al posto di un lutto mancato: si invoca lo spettro della scissione invece di saper tramontare».

Cosa è oggi la sinistra?
«Per me sinistra significa priorità della giustizia sociale, difesa del valore del lavoro, visione trasformatrice della realtà, concezione solidaristica della vita, capacità di cambiamento, apertura all’incontro, concezione non immobile dell’identità, capacità di contaminazione, curiosità, spirito critico, disponibilità a parlare la lingua dell’Altro, rinuncia a concezioni totalitaristiche della storia e della vita, difesa dei più deboli, rifiuto del mito del successo individuale».

Roba da far tremare le vene ai polsi. A quale destino va incontro?
«Il destino della sinistra consiste oggi nella difesa dell’Europa. Il che significa anche recupero della centralità del suo rapporto con i giovani per sottrarli all’ipnosi reazionaria e allo stordimento diffuso generato dal sistema dei consumi».

C’è spazio per un partito di sinistra fuori dal Pd?

«Ogni tentativo di creare una sinistra a sinistra del più grande partito di sinistra si è sempre rivelato un fallimento. Non solo nel senso del ridimensionamento elettorale, ma della litigiosità infinita dei fratelli che, dopo aver lasciato la casa del padre, restano senza radici, senza luogo, senza storia. Narcisismo insopportabile delle élite minoritarie. Riduzione della politica a testimonianza di una coerenza purista staccata dalla realtà. Bertinotti in nome di questa coerenza fece cadere il miglior governo del Dopoguerra».

A proposito, l’Ulivo oggi è una suggestione, una forma di auto-rassicurazione o una prospettiva?
«Tra la mediazione, l’integrazione e la scissione io scelgo sempre la mediazione e l’integrazione. L’Ulivo per me esiste già ed è il Pd».


Renzi ha sbagliato tutto o è diventato il capro espiatorio di un’Italia che non funziona da trent’anni?
«Renzi è stato un vento vitale in un campo di morti. Ha radunato speranze di cambiamento che hanno attraversato non solo il Pd ma l’intero Paese. È l’unico senso che ho attribuito alla fantomatica e stramba idea del Partito della Nazione che non è mai esistito. Ha messo in moto energie, progetti riformisti, ha ridato alla politica dignità senza lasciare il campo all’antipolitica di Grillo. È dovuto partire col piede sbagliato – la rottamazione – perché si è confrontato con un muro che non aveva intenzione di consentire il giusto avvicendamento generazionale. Ha commesso errori che gli sono costati cari».

Il più grave?
«Tra tutti la riforma della scuola. Era partito benissimo ridando centralità a una questione emarginata dai governi di destra. Poi ha fatto tutto troppo in fretta. Ma Renzi resta il vero nemico di tutte le forze conservatrici e populiste perché incarna autenticamente questa speranza».

Lei riesce a immaginarsi un nuovo Renzi diverso dal passato? Capace di unire e non di rottamare?
«L’ex premier resta la sola possibilità per arginare l’ondata reazionaria che attraversa il nostro tempo. Sono certo che abbia fatto tesoro delle sconfitte. Ascoltare di più senza perdere la sua forza. Recuperare il rapporto con i giovani. Continuare a testimoniare la necessità del rinnovamento dando più spazio alle radici. Liberarsi dall’abito dell’uomo di potere che media e avversari vogliono cucirgli addosso. La sua determinazione, il coraggio, il ritmo del suo passo lo rendono ancora ai miei occhi il figlio giusto. Deve però scegliere meglio chi ascoltare: la vera lealtà non esclude la critica».

Da - http://www.unita.tv/interviste/recalcati-renzi-resta-il-figlio-giusto-osteggiato-dai-padri-padroni/


Titolo: F. FANTOZZI. - Chiti: “Confronto sui temi e poi conta, se Renzi vince sarà ...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 11, 2017, 12:03:02 pm
Interviste
Federica Fantozzi - @federicafan
· 10 febbraio 2017

Chiti: “Confronto sui temi e poi conta, se Renzi vince sarà leader di tutti”
Il senatore che ha promosso il documento dei 41 pro Gentiloni: «Non è tardi per evitare la scissione che sarebbe un fallimento generale»


Senatore Vannino Chiti, come nasce l’appello, firmato da 41 suoi colleghi, che chiede a Renzi di evitare la corsa al voto, sostenere Gentiloni fino al 2018 e fare il congresso?
«Con due obiettivi. Il primo è sostenere il governo che deve affrontare questioni urgenti come lavoro, sviluppo, Siria, scuola, banche, Europa. Già su immigrazione e scuola i cittadini avvertono che qualcosa si sta muovendo nella direzione giusta. Del resto, ci sono appuntamenti importanti come l’anniversario dei Trattati a Roma, la presidenza del G7: vogliamo affrontarli con un esecutivo in carica o in campagna elettorale?».

E il secondo obiettivo?
«Un partito unito senza divisioni né lacerazioni. Bisogna rimetterlo in piedi dopo le sconfitte amministrative e referendaria. Si può fare».

Il secondo obiettivo è più ambizioso del primo.
«No. Nel nostro appello non abbiamo cercato un tot di nomi. Chi si è reso disponibile viene da aree politiche diverse che hanno votato in modo dissimile sulla riforma costituzionale. Io a favore, Tocci e Corsini contro. L’intento era mostrare che l’unità del partito è possibile».

Tra i firmatari mancano i renziani, che non è poco…
«Non è vero. Ci sono quelli che hanno votato per Renzi al congresso come Areadem e Giovani turchi. E quelli, come me, che l’hanno sostenuto con lealtà. Senza trappole».

Qual è il rischio peggiore per il Pd?
«Attenti a non far tramontare nei cittadini la voglia di riforme. Guai alla rassegnazione. Non adagiamoci in una legge elettorale che riconsegni l’Italia al proporzionale e alla Prima Repubblica».

È certo che il congresso sarà salvifico?
«Lo si può fare in due modi. Una convocazione immediata con scontro sulle persone che sposta solo in avanti la rottura. Io vorrei evitarlo, ma vedo che si risponde: volete il congresso? Eccovelo. Ma militanti ed elettori vogliono discutere di politica, fare analisi e valutazioni, prima di scegliere le persone».

È questo il congresso, inevitabilmente più lungo, che vorrebbe?
«Lo dico esplicitamente: Renzi resti segretario e promuova, nei prossimi mesi, un confronto sulle scelte del Pd e su eventuali modifiche allo statuto. Per esempio, se candidato premier e segretario devono coincidere?»

Secondo lei, non devono?
«A prescindere da cosa piaccia a me, bisogna capire se servono due momenti distinti. Attraverso un appuntamento coinvolgente. L’alternativa, Renzi che si dimette e si va subito alla conta, non mi convince».

Quindi, voto alla scadenza della legislatura?
«Io dico di sì. Congresso da giugno a ottobre. Altrimenti parte a marzo, ma come scontro sulle persone. E lo facciamo da troppi anni, ormai».

Non è tardi per evitare la scissione?
«No, ma bisogna che tutti lo vogliano».

Tutti chi?
«Maggioranza e minoranza. Di questi tempi non c’è da dividersi bensì da unirsi in una sinistra plurale. La scissione sarebbe un fallimento generale e porterebbe a una sconfitta disastrosa. Vedo passi avanti in senso positivo, ma bisogna confrontarsi su populismi, Brexit, Trump, economia. Io ne parlo solo alle presentazioni di libri e per commentare le encicliche del Papa…».

Se Renzi vi dà retta e poi vince il congresso, sarà accettato come leader o si ricomincerà da capo?
«Con questo percorso, chiunque vinca sarà accettato. Lui o un altro».

Legge elettorale. Con il premio alla coalizione, un minuto dopo salta il Pd?
«La mia prima ipotesi è il modello tedesco adattato all’Italia: 50% dei seggi con collegi uninominali, 50% con il proporzionale, sbarramento al 4-5% e collegi sub-regionali. I partiti si presentano come tali e nel caso si coalizzano dopo. Altrimenti l’ipotesi del tavolo Guerini-Cuperlo con ripartizione proporzionale e selezione dei candidati nei collegi e premio di governabilità limitato».

No alla linea Delrio-Franceschini?
«In questo secondo caso il premio di governabilità può andare alla lista o alla coalizione. Ma è piccolo. Ragioniamo però su un tema posto da D’Alema: le coalizioni a sinistra le vedo male mentre possono rimettere in gioco la destra. Aggiungo che si proponesse per il Senato l’Italicum modificato dalla Consulta, con metà dei capilista bloccati, io non lo voterei. Meglio usare i mesi che restano per una riforma utile: il Parlamento elegga il premier in seduta comune e si introduca la sfiducia costruttiva come in Germania e Spagna. Ne sarebbero rafforzati governo e Camere».

Da - http://www.unita.tv/interviste/chiti-confronto-sui-temi-e-poi-conta-se-renzi-vince-sara-leader-di-tutti/