Titolo: Sabino CASSESE Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2014, 03:16:40 pm Il lato debole dei partiti liquidi e le nuove classi dirigenti
Le minacce di scissione sono solo fasi passeggere o sono indicatori di nuova forma politica? Di Sabino Cassese Le tensioni interne ai partiti (minacce di scissioni, richiami alla disciplina interna, invocazione della libertà di coscienza, richieste di maggiore democrazia) sono solo fatti passeggeri o sono, invece, indicatori di una fase nuova della storia della «forma partito»? E quali effetti producono i cambiamenti in corso sull’assetto dei poteri pubblici? I nomi dei partiti erano prima scelti per caratterizzarsi e dividere (comunisti, socialisti, democristiani), ora sono sempre meno identificativi (chi si dichiara contrario alla democrazia e alla libertà?). I partiti stanno perdendo la loro base: gli iscritti si sono dimezzati in mezzo secolo, e continuano a diminuire, mentre la popolazione è aumentata; si allarga, quindi, la forbice tra iscritti e votanti. Anche questi ultimi diminuiscono: segno sia di sfiducia nei partiti, sia del fatto che il sistema politico italiano si è allineato alle altre democrazie mature. La capillare distribuzione dei partiti sul territorio non c’è più e l’organizzazione diviene fluida. La militanza volontaria scompare. Diventa determinante il ruolo del «leader». Il finanziamento mediante il tesseramento viene sostituito dal finanziamento con cene a pagamento e il microfinanziamento dal basso (crowdfunding). I partiti che ricorrono a primarie aperte a non iscritti abbattono le mura che dividono iscritti e simpatizzanti. La «liquefazione» dei partiti li trasforma in aggregazioni elettorali, attive al momento del voto. Lo stesso séguito elettorale si organizza volta per volta, con travasi di voti da un partito all’altro. Questo trasforma la lotta elettorale da guerra di posizione in guerra di movimento, aumenta l’importanza del «mercato politico», consente ai partiti di uscire dai loro fortini e di andare oltre il proprio elettorato tradizionale, ma correndo maggiori rischi. I partiti sono meno rigidi, meno chiusi. Minacciano meno la democrazia a causa del loro carattere autocratico ed oligarchico, come temeva Maurice Duverger nel 1951. Corrispondono sempre meno al modello costituzionale di una piramide che cresce dal basso (i cittadini si associano in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, secondo l’articolo 49 della Costituzione). Antonio Gramsci ha scritto, riferendosi a Machiavelli, che i partiti sono il «moderno Principe», in quanto organismi che guidano i processi politici e in cui si concreta una volontà collettiva. Il «moderno Principe» ha due funzioni, quella di formazione politica della società e quella di scelta della rappresentanza parlamentare. La destrutturazione in corso dei partiti politici li fa divenire più leggeri, più capaci di conquistare maggiore seguito elettorale, ma ne indebolisce l’azione educativa e la forza selettiva. Dove potrebbe svolgersi la prima, se non esiste più la «scuola» dei partiti, quella distribuita sul territorio, nelle sezioni e nei circoli, nei quali ferveva la vita collettiva del partito - organizzazione? Come possono essere selezionati gli eletti nel Parlamento e nei consigli regionali e comunali, se manca la macchina del reclutamento e della valutazione e si procede per nomina dall’alto? Questo indebolimento dei partiti come cinghia di trasmissione della domanda politica si riflette sullo Stato e sui poteri locali, dove le esigenze collettive arrivano sfocate e il personale elettivo è impreparato. Dunque, l’indebolimento della macchina del partito - organizzazione è forse un passo avanti per la democrazia, consente di rompere le fortificazioni erette intorno ad esso e di allargare la base elettorale, avviando la formazione di corpi politici a vocazione maggioritaria, che non debbono far ricorso a coalizioni. Ma produce anche un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente, al quale bisogna porre rimedio. 8 dicembre 2014 | 10:14 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/economia/14_dicembre_08/lato-debole-partiti-liquidi-nuove-classi-dirigenti-ea68f8c2-7eb9-11e4-bf8b-faa9d359f85b.shtml Titolo: Sabino Cassese. Punire i corrotti (ma più prevenzione) Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 11:31:31 pm Lo scandalo romano
Punire i corrotti (ma più prevenzione) Ottime le misure annunciate dal premier. Tuttavia la repressione non basta se non si semplificano le norme e non si interviene sul rapporto patologico tra politica e amministrazione pubblica Di Sabino Cassese Eccellenti le quattro misure annunciate dal presidente del Consiglio dei ministri (inasprimento delle pene, confisca dei beni, restituzione del maltolto, allungamento della prescrizione). Servono a sanzionare più duramente i colpevoli e a dissuadere futuri corruttori. Il presidente Renzi è, però, consapevole che vanno anche accompagnate da misure per prevenire la corruzione, per creare le condizioni istituzionali che la impediscano. Ha, infatti, detto che vuol «fare di tutto» per combattere il malaffare amministrativo, anche con altre norme e con l’educazione, senza fare sconti. E allora, in attesa del processo (che sia sollecito) e considerando l’accusa, val la pena di riflettere sulle condizioni istituzionali che hanno consentito la corruzione romana: che cosa non funziona nelle amministrazioni e ha reso possibile un così esteso e multipartitico sistema corruttivo, che ha coinvolto la gestione dei campi profughi, l’assistenza agli immigrati, l’agenzia per le case popolari, la manutenzione delle piste ciclabili, la manutenzione delle aree verdi, i servizi di igiene urbana, la raccolta differenziata, gli interventi per il maltempo, la gestione delle gare, molti uffici amministrativi? Guardando al di là della cronaca, quali lezioni possono trarsi dalle accuse, che servano a prevenire ulteriori fenomeni di cattiva amministrazione e di criminalità? Il decentramento porta con sé maggiore corruzione: questo risulta da tutti gli studi compiuti nel mondo sulla corruzione. In Italia abbiamo una eccessiva ramificazione, le frange periferiche di un sistema di poteri pubblici troppo estesi. Perché — ad esempio — la gestione dell’immigrazione, che è problema nazionale (anzi, europeo), è affidata ad enti locali? Poi, si è fatto troppo ricorso a privati, cooperative e società per azioni. Le amministrazioni locali non fanno, fanno fare ad altri. In queste periferie del potere, dotate di cospicue risorse, senza adeguati controlli, si annidano sprechi e corruzione. Sappiamo che le amministrazioni locali italiane si avvalgono di circa 8 mila società per azioni. Non sappiamo quante siano le cooperative su cui gli enti locali fanno affidamento. Il terzo fattore è quello dei sistemi derogatori, con cui si aggirano le regole sugli appalti. In particolare, a Roma, specialmente dal 2008, con la solita motivazione che le procedure sono arcaiche e farraginose («da sbloccare», nel linguaggio di uno degli indagati), si sono creati percorsi paralleli, meno garantiti e meno controllati. A questi si aggiunge un ulteriore incentivo alla corruzione: troppi posti amministrativi sono coperti da persone scelte senza concorso, non per il loro merito, ma per «meriti politici». Costoro non si sono guadagnati il posto con le loro forze, ma l’hanno avuto grazie ad appoggi di partito o di fazione. Quando chiamati, debbono «contraccambiare» il favore reso loro da quel sottobosco di vassalli che si nasconde sotto il manto della buona politica. C’è, infine, un legame perverso partiti-amministrazione, come si legge nelle parole di un altro indagato («la cooperativa campa di politica»). Organi rappresentativi, come il consiglio comunale, che dovrebbero essere di indirizzo e di controllo, invece fanno gestione. Abbiamo bisogno di istituzioni perché gli uomini non sono angeli, diceva uno dei «padri fondatori» americani. Nel mondo molle dell’amministrazione romana, con tanti corpi ibridi, né pubblici, né privati, ma che operano con risorse pubbliche, non vi sono regole, ma deroghe; non procedure, ma scorciatoie; non veri funzionari pubblici, ma uomini assoldati dalle fazioni. I diavoli, quindi, hanno avuto la meglio. 10 dicembre 2014 | 10:01 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_dicembre_10/punire-corrotti-ma-piu-prevenzione-9c9e4450-8042-11e4-bf7c-95a1b87351f5.shtml Titolo: Sabino Cassese. Compiti del presidente Quirinale, analisi di un ruolo Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2014, 11:45:10 am Compiti del presidente
Quirinale, analisi di un ruolo Di Sabino Cassese Il presidente del Consiglio dei ministri si è chiesto, qualche giorno fa, «cosa servirà all’Italia nei prossimi sette anni». Mi pare la domanda giusta. Non «chi» andrà al Quirinale, ma «che cosa» ci aspettiamo dal prossimo presidente. Per rispondere a questa domanda, proviamo a fare un bilancio dell’ultimo ventennio. In 22 anni, abbiamo avuto 3 presidenti della Repubblica, 15 governi, 7 elezioni politiche. Durante la presidenza Napolitano si sono succeduti 5 governi e 2 elezioni politiche. L’instabilità della politica (un governo nuovo ogni anno e mezzo, in media) ha richiesto ai presidenti dell’ultimo ventennio un impegno straordinario. Essi sono i gestori delle crisi, e il frequente succedersi di crisi ha accentuato il ruolo dei presidenti come perno intorno al quale gira l’intera politica italiana. La modificazione della formula elettorale in senso maggioritario avrebbe dovuto rendere meno rilevante la scelta presidenziale del capo del governo e, quindi, la gestione delle crisi. Si osservò, a suo tempo, che persino le consultazioni che precedono l’incarico di formare un governo sono un rituale inutile, se il popolo stesso ha scelto la maggioranza parlamentare e il suo «leader». Come è potuto accadere, dunque, che i presidenti della Repubblica degli ultimi vent’anni abbiano svolto un ruolo tanto importante nell’imprimere un indirizzo alla politica, siano divenuti - come osservato da uno dei nostri maggiori costituzionalisti - i titolari dell’indirizzo politico-costituzionale? La spiegazione di questo paradosso sta probabilmente nell’estinzione della Democrazia cristiana, il partito cardine, intorno al quale ruotava la vita politica italiana, che ne controllava gli sviluppi e condizionava la scelta dei governi. Finito il partito di maggioranza relativa, una parte di questa funzione si è scaricata sulle spalle dei presidenti. Questi dovevano veder diminuire il loro ruolo, col sistema maggioritario. Invece, se lo sono visto accresciuto. Potrebbero maturare, ora, tre condizioni in grado di modificare questo equilibrio. La formula elettorale maggioritaria, dopo gli scossoni dell’ultimo ventennio, si avvia a diventare - come quelle degli altri Paesi a democrazia matura - una scelta condivisa e longeva, destinata a durare. I governi potrebbero nascere e morire con i relativi Parlamenti, durando anch’essi 5 anni, come accade quasi sempre altrove, richiedendo a ogni presidente di gestire al massimo due volte le crisi. Nei partiti, le minoranze sembrano rendersi conto che il loro futuro non sta nelle scissioni, ma nel cercare di diventare maggioranze, accettando anche all’interno delle formazioni politiche la democrazia dell’alternanza. Se queste condizioni si realizzeranno, la figura presidenziale, appena abbozzata dalla Costituzione, è destinata a trasformarsi nuovamente. Al presidente della Repubblica sarà richiesto soltanto di giocare il ruolo di equilibratore e regolatore dei tre poteri dello Stato e si ritornerà al modello presidenziale einaudiano. 22 dicembre 2014 | 06:51 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_dicembre_22/quirinale-analisi-un-ruolo-15bb5922-899e-11e4-a99b-e824d44ec40b.shtml Titolo: Sabino CASSESE - La bussola del Colle La fiducia ragionevole di un Paese Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2015, 04:08:12 pm La bussola del Colle
La fiducia ragionevole di un Paese di Sabino Cassese Sono tre le «chiavi di lettura» del discorso di fine d’anno del presidente della Repubblica, nascoste in tre parole più volte ripetute, che sono sia declinate in termini soggettivi, sia rivolte agli italiani: «unità», «fiducia», «doveri». L’unità nazionale ricorre tre volte, una per ricordare di averla rappresentata e di aver contribuito a rafforzarla; due volte per ricordarne alla nazione il «valore» e l’«imperativo». Napolitano ha anche aggiunto un ultimo richiamo all’unità, questa volta riferita ai popoli europei. Il richiamo alla fiducia ricorre quattro volte, due riferita a quella espressa dal popolo nei suoi confronti, due alla «ragionata fiducia in noi stessi», condizione per vincere la sfiducia nella politica e per la rinascita, nonostante le difficoltà economiche, la corruzione e gli «italiani indegni». La parola «dovere» ricorre tre volte, due riferite a se stesso (il dovere di non sottovalutare i segni della vecchiaia e i «nuovi doveri» del suo prossimo ruolo di senatore), una alla nazione, alla quale richiede «senso del dovere», accanto a senso di responsabilità, della legge, della Costituzione. Queste tre parole sono tra quelle di uso più frequente anche nella Costituzione, che adopera «unità» tre volte, in particolare per attribuire al presidente di rappresentarla. Adopera «fiducia» due volte, per richiedere che gli organi esecutivi la ottengano da quelli rappresentativi. Adopera la parola «doveri» otto volte, e in particolare in coppia con il suo opposto diritti. Anzi, all’articolo 2, dispone che la Repubblica richiede ai cittadini «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Un presidente della Repubblica, quindi, fedele alla Costituzione, ma che guarda anche al di là, alla piena conclusione del processo di riforma costituzionale, nonché all’Unione europea, e all’unità dei suoi popoli. Due lezioni si traggono da questo discorso di fine anno. La prima è quella di non seguire gli apocalittici, senza speranze, o gli utopisti, che coltivano smisurate speranze, ma di avere «ragionata fiducia» in «ragionevoli speranze». La seconda è quella di non accomodarsi nella sfiducia nella politica o nella inoperosità politica. Ne è un bell’esempio Napolitano stesso, che, a quasi novant’anni, guarda avanti ai «nuovi doveri» che l’attendono. Di quale gioventù non risultò migliore questa vecchiaia? 2 gennaio 2015 | 07:29 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_02/fiducia-ragionevole-un-paese-c54392a0-9246-11e4-aaf8-f7f9176948ef.shtml Titolo: Sabino CASSESE La scelta e la storia Il profilo del nuovo presidente Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2015, 07:03:25 am La scelta e la storia
Il profilo del nuovo presidente Di Sabino Cassese A chi è interessato alla scelta del prossimo capo dello Stato, consiglio, invece di partecipare alla lotteria dei nomi, di guardarsi indietro e vedere come sono stati scelti i presidenti italiani. Forse la storia può insegnare qualcosa. Se si esclude De Nicola, che è stato capo provvisorio dello Stato e solo in quella veste ha acquisito e conservato per qualche mese il titolo e le attribuzioni di presidente, e non si conta Einaudi, il primo vero presidente, eletto poco dopo l’entrata in vigore della Costituzione, nel 1948, gli altri nove presidenti sono stati scelti tra persone che o avevano guidato una assemblea parlamentare o avevano presieduto il governo. Per l’esattezza, cinque dei nove erano stati presidenti della Camera dei deputati (Gronchi, Leone, Pertini, Scalfaro e Napolitano), uno dell’Assemblea costituente (Saragat), uno del Senato (Cossiga), due del Consiglio dei ministri (Segni e Ciampi). Perché il Parlamento ha compiuto queste scelte, omogenee quanto ai criteri, pur nella grandissima diversità degli uomini (basti pensare alle differenti provenienze di presidenti come Pertini e Ciampi)? Non ritengo che esse siano state fatte per rispettare una sorta di cursus honorum, che abbia portato su un gradino superiore chi era stato su quello inferiore. E questo perché solo in tre casi (Gronchi, Cossiga e Scalfaro) i presidenti sono passati direttamente dalla carica «inferiore» a quella «superiore». N egli altri casi, sono state elette persone che avevano occupato il precedente ruolo in anni anche lontani (da due a diciassette). Dunque, la scelta ha premiato una esperienza e ha confermato il rapporto Parlamento-presidente-governo. Infatti, i presidenti di assemblea sono eletti dall’assemblea stessa tra i suoi componenti e il presidente del consiglio dei ministri - e con lui il governo - deve avere la fiducia del Parlamento. Dunque, l’elezione presidenziale ha sottolineato costantemente lo stretto rapporto che la Costituzione ha disegnato, al vertice, tra Parlamento, governo e presidente, dando la precedenza alla Camera più numerosa, quella dei deputati, tra i cui presidenti sono stati scelti ben cinque capi dello Stato. Insomma, nel passato, la scelta è caduta su chi era già stato messo alla prova nel circuito costituzionale di vertice nel quale è inserito il presidente della Repubblica. Quest’ultimo è «figlio» del Parlamento (l’articolo 83 della Costituzione dispone che egli «è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri», con la partecipazione dei delegati regionali) e «padre» del governo (l’articolo 92 della Costituzione dispone che «il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri»). Si ripeterà la storia? Potrebbe ripetersi in forme diverse, ma ispirate agli stessi principi? O si sceglierà una strada diversa? Basta attendere pochi giorni per avere una risposta a queste domande. Avverto, però, che l’attenzione dell’opinione pubblica dovrebbe essere rivolta non tanto a chi salirà al Quirinale, quanto alle modifiche costituzionali e alla legge elettorale, perché le istituzioni contano più degli uomini. Sono esse che conformano e condizionano la condotta delle forze politiche e delle persone, correggendone anche le inclinazioni negative. E quindi a ragione è stata data la priorità alle due scelte di valore costituzionale che ho indicato. Questo vuol dire avere quel «senso dello Stato» sul quale il presidente Napolitano ha dato, nei giorni scorsi, un’altra bella lezione. Rispettando la Costituzione, per la quale le dimissioni sono una decisione «solitaria», presa sotto la sola responsabilità del presidente. Ma preparando il passaggio, in modo che il Parlamento non fosse preso alla sprovvista. E conducendo la cerimonia degli addii con quel garbo e quell’eleganza che hanno contraddistinto tutta la sua vita politica. © RIPRODUZIONE RISERVATA 18 gennaio 2015 | 09:17 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_18/profilo-nuovo-presidente-634ebca8-9ee1-11e4-9ffe-303918e77b90.shtml Titolo: Sabino CASSESE Governo e poteri Il timore (inesistente) del tiranno Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2015, 07:51:59 am Governo e poteri
Il timore (inesistente) del tiranno Non credo che la democrazia sia in pericolo perché il presidente del Consiglio in carica non è parlamentare e perché il Parlamento è stato eletto con una legge successivamente dichiarata (parzialmente) illegittima costituzionalmente Di Sabino Cassese Esiste - come è stato dichiarato nei giorni scorsi - una deriva autoritaria in Italia? Non credo che la democrazia sia in pericolo perché il presidente del Consiglio in carica non è parlamentare e perché il Parlamento è stato eletto con una legge successivamente dichiarata (parzialmente) illegittima costituzionalmente. Infatti, la Costituzione non richiede che i ministri e il loro presidente siano parlamentari e Renzi non è il primo presidente che non sia stato eletto nelle file dei deputati o dei senatori. Poi, la Corte costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità di alcune norme della legge Calderoli, ha precisato che la sentenza «non tocca in alcun modo il Parlamento in carica», perché non ha «nessuna incidenza» su di esso. Se non è questo che può preoccupare, c’è qualcosa di più profondo che possa far temere una svolta autoritaria ed evocare il «timore del tiranno» che percorre tutta la storia dell’Italia repubblicana? Per rispondere a questa domanda, bisogna valutare almeno tre elementi: c’è qualcuno che insidia la democrazia, prepara, politicamente e culturalmente, un governo autoritario? C’è, al contrario, un diffuso patriottismo costituzionale, una dichiarata e ampia lealtà alla Costituzione? Infine, ci sono i contropoteri, gli anticorpi, che potrebbero far fronte a tentazioni autoritarie? Nei Paesi moderni come l’Italia non si può conquistare il potere con la Carboneria o con altri mezzi nascosti: occorre che qualcuno formuli un disegno politico, trovi un ideologo, faccia propaganda, cerchi di conquistare consensi intorno a un obiettivo che conduca a un potere autoritario. Tutto questo non si vede. Non vi sono centrali, azioni, cospirazioni, che segnalino la presenza di questo pericolo. Vedo, al contrario, anche presso quelli che ritengono modificabile la Costituzione, una fedeltà ai principi supremi costituzionali, una lealtà alle istituzioni e alle procedure da essa create, un desiderio di non mutare le linee portanti delle scelte del secondo dopoguerra, che fanno ben sperare nella lunga vita della parte essenziale della Costituzione. Certo, nel nostro Paese, fin dall’unificazione, vi sono state sacche di ribellismo. Come notava Piero Gobetti nel 1922, c’è «l’esplodere delle passioni, non l’organizzarsi delle iniziative». Prevale la «disgregazione operosa». Riusciamo a fare il patto del Nazareno (non scritto e appena rotto, dopo solo un anno), non «contratti di coalizione», di cui l’ultimo è lungo 185 pagine e scaricabile dal web, come quelli firmati dai cristianosociali e dai socialdemocratici che reggono il governo tedesco da dieci anni. Veniamo agli anticorpi. Anche questi non mancano. Il potere è ampiamente distribuito, all’interno dello Stato, sul territorio. Vi sono poteri indipendenti, spesso tanto autonomi da voler dettare l’agenda politica (come la magistratura), talora in ritirata, perché soggetti a erosione di funzioni da parte della politica (come le autorità indipendenti). Le polizie sono ben cinque. C’è l’Unione Europea, che - a dispetto di quelli che piangono per le cessioni di sovranità - ci garantisce con il «vincolo esterno» voluto da Alcide De Gasperi e da Guido Carli. Concludo: l’Italia è forse un Paese che vuole non farsi governare, diviso in fazioni, incapace di associarsi, coalizzarsi, trovare una armonia. Un Paese che ha avuto 63 governi dall’inizio della Repubblica, con 27 presidenti del Consiglio, contro i 23 governi e gli 8 cancellieri tedeschi. Ma la sua democrazia non corre pericoli. 12 febbraio 2015 | 09:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_12/timore-inesistente-tiranno-6d5bbf02-b282-11e4-9344-3454b8ac44ea.shtml Titolo: Sabino CASSESE Conflitti moderni, regole inadeguate ... Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2015, 04:36:11 pm Conflitti moderni, regole inadeguate Le armi spuntate dei vecchi Stati
Agli antichi conflitti si aggiungono nuovi conflitti, che cambiano il paradigma tradizionale, quello di una nazione armata in guerra contro un’altra nazione armata di Sabino Cassese Venti di guerra alle frontiere e nel cuore dell’Europa. Conflitti che oppongono Stati, al Nord; conflitti che nascono dall’assenza o dalla fragilità di Stati, al Sud. Soluzioni che mostrano l’incompletezza della cooperazione europea, da un lato; conflitti ai quali si cerca una soluzione nell’ambito di una cooperazione ancora più ampia, internazionale, dall’altro. Guerre guerreggiate da una parte; attacchi terroristici dall’altra. Agli antichi conflitti si aggiungono nuovi conflitti, che cambiano il paradigma tradizionale, quello di una nazione armata in guerra contro un’altra nazione armata (o di coalizioni di nazioni da una parte e dall’altra). Cambiano le scene dei conflitti, i protagonisti, i metodi e la natura stessa dei conflitti. La scena, in Libia e nei territori iracheni e siriani occupati dall’Isis, è quella di Stati falliti o fragili, dove si affrontano gruppi non statali, o per la conquista di un territorio, o per attaccare in altri territori. I protagonisti non sono più solo gli Stati. Entrano in ballo le Nazioni Unite, già impegnate in Africa e nel Medio Oriente in 16 operazioni di mantenimento della pace, con quasi 130 mila persone e un costo di circa 8 miliardi di dollari per anno; l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, già impegnata in molti Paesi dell’Europa centrale con quasi 3 mila persone e un costo di quasi 150 milioni di euro per anno; l’Unione Europea, protagonista debole, perché con poche competenze in campo militare; infine lo «Stato islamico», che è in realtà una forma non statale di potere pubblico, sviluppatosi nel territorio di altri Stati (Siria e Iraq), ma con una proiezione internazionale. Infine, cambia la natura del conflitto e diventa difficile distinguere tra insorti e nemici e tra operazioni belliche e operazioni di polizia, come ben sanno gli americani fin dal momento in cui il presidente Bush lanciò la war on terror, definita guerra, ma non rivolta ad uno Stato-nazione nemico, bensì ad una organizzazione di natura terroristica con legami globali. Se in molti casi queste non sono guerre come quelle di una volta, è naturale che le nazioni siano incerte nell’affrontarle e che si rivelino tutte le debolezze di uno spazio che è divenuto globale, senza che vi sia un ordine globale. Innanzitutto, nei territori non governati, deve essere sempre chiamato l’Onu a ricostituire unità statali stabili ed è accettabile questa forma di nation building dall’alto? I n secondo luogo, fino a quando è possibile che un gigante economico e politico come l’Ue continui ad essere un nano dal punto di vista militare, sotto il peso del lontano fallimento della Comunità europea di difesa (1950-1954), per cui, quando c’è rumore di armi, come nei giorni scorsi a Minsk, la parola passa agli Stati? In terzo luogo, come si coniuga il ripudio costituzionale della guerra (ricordo che l’art. 11 della Costituzione italiana dispone che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali») con la necessità di compiere operazioni belliche a tutela della sicurezza, dove il confine tra polizia e guerra e tra controversia internazionale e conflitto interno è molto incerto? Infine, come contrastare operazioni terroristiche o belliche compiute a mezzo di organizzazioni di dimensioni globali, quando gli Stati sono ancora prevalentemente ordinati su base nazionale? La risposta a queste domande è andata maturando, negli ultimi anni, nella comunità internazionale. O l’Onu, o sistemi di alleanze regionali (come da ultimo proposto da Henry Kissinger nel suo libro World Order) dovrebbero essere i garanti supremi delle formazioni statali deboli, controllandole e appoggiandole, in modo che le loro forze interne non deflagrino, portando disordine e terrore in altri territori. È tempo che l’Unione Europea diventi un potere pubblico altrettanto forte in campo militare quanto lo è nel campo economico e politico. Nell’agenda della comunità internazionale dovrebbe essere scritta in permanenza anche la competenza a svolgere azioni di polizia internazionale, una funzione in parte bellica, in parte diretta al mantenimento della sicurezza e dell’ordine. Infine, anche fuori dei confini nazionali c’è bisogno di maggiore unione. Se i problemi sono globali (e tali sono il terrorismo e le controversie sulle zone di influenza), le soluzioni non possono che essere anche esse globali. 19 febbraio 2015 | 07:25 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/esteri/15_febbraio_19/armi-spuntate-vecchi-stati-e4785130-b7fb-11e4-8ec8-87480054a31d.shtml Titolo: Sabino CASSESE Ue e diritti nazionali Il laccio della corte tedesca Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2015, 04:32:42 pm Ue e diritti nazionali
Il laccio della corte tedesca Di Sabino Cassese I governi nazionali negoziano in continuazione a Bruxelles. I parlamenti hanno proprie sedi di consultazione a livello europeo. Le burocrazie nazionali si incontrano periodicamente nei numerosi comitati dell’Unione. Le corti nazionali, specialmente quelle di vertice, sono, invece, organismi solitari. Sono guardiane delle costituzioni nazionali e non possono certamente concordare con altre corti le loro decisioni. Ma che cosa succede se si mettono a difendere il proprio backyard , il proprio orticello, come ha notato, criticando una recente ma isolata decisione della Corte costituzionale italiana, Antonio Baldassarre, che quella corte ha presieduto alcuni anni fa? E che cosa accade se una corte come quella costituzionale tedesca si distingue in questo ruolo di difensore dell’interesse nazionale (per esempio, di recente, nel caso dell’Omt, Outright Monetary Transactions, misure non convenzionali della Banca centrale europea)? Rispondere a questa domanda è importante, perché le corti costituzionali hanno sempre l’ultima parola, perché esse possono tirare la corda e creare spaccature all’interno dei sistemi giuridici nazionali, e perché, se esse vanno in direzioni opposte, finiscono per dare all’Unione Europea un vestito d’Arlecchino. Semplificando, il filo del discorso che da qualche anno la corte tedesca sta svolgendo è il seguente. Gli Stati nazionali sono i «signori dei trattati europei», come i condomini lo sono di un condominio. L’Unione ha solo i compiti a essa trasferiti dai suoi «padroni», gli Stati. Nello Stato tedesco, solo il Parlamento può conferire funzioni statali al livello sopranazionale, perché solo esso garantisce il rispetto della volontà popolare e dell’identità nazionale. Ogni passo avanti dell’Unione, ogni suo impegno, deve essere autorizzato dal Parlamento. Queste motivazioni, svolte con ricchezza di sottili ragionamenti giuridici, producono tre effetti. Annullano le forze endogene di sviluppo dell’Unione, negandone l’esistenza, oppure condizionano tale sviluppo. Mettono al guinzaglio tedesco (e degli altri Paesi che intendano seguire la stessa strada) tutti i passi avanti dell’Unione. Creano uno squilibrio tra Stati più filo-europei e Stati più guardinghi o addirittura restii a operare «cessioni di sovranità». Altri Paesi sono più filo-europei, e tra questi è l’Italia. Se si esclude la decisione criticata dall’ex presidente della Corte, le corti supreme italiane hanno assunto un atteggiamento più aperto rispetto al diritto europeo e al diritto internazionale. Non si chiedono quali limiti discendono dalla Costituzione nazionale per il diritto europeo, ma, al contrario, quali vincoli europei il diritto e le corti nazionali debbono rispettare. Neanche noi siamo immuni da difetti. Anche le corti italiane, più orientate ad aprire le porte del diritto nazionale a quello europeo, creano dei problemi. Infatti, il loro atteggiamento fa risaltare la debolezza degli adempimenti comunitari da parte dell’esecutivo. È noto che l’Italia è tanto pronta a dichiarare di volersi adeguare alle direttive e ai regolamenti comunitari, quanto lenta nell’applicarli. Ed è noto che il balletto dei governi rende la nostra presenza a Bruxelles sempre precaria (qualche giorno fa, uno dei più alti funzionari dello Stato italiano ha dichiarato che in cinque anni aveva accompagnato nella capitale europea cinque diversi ministri italiani, mentre quelli dei nostri partner sono rimasti gli stessi). L’atteggiamento tedesco, per la cura con cui è motivato, per la sua costanza, per il peso che quel Paese ha in Europa, pone, tuttavia, un interrogativo di fondo, che riguarda l’esistenza stessa dell’Unione e la sua essenza. Gli Stati nazionali non hanno conferito all’Unione soltanto compiti che questa deve ordinatamente svolgere come un mero esecutore. Hanno anche sottoscritto un patto con il quale, consentendo l’elezione diretta del Parlamento europeo, hanno permesso lo stabilirsi di un rapporto diretto tra questo e i cittadini di ciascuna nazione. Hanno creato, in altre parole, un motore, hanno stabilito una diversa legittimazione, un potere che può disporre regole eguali per tutti i Paesi. Se ognuno degli Stati europei interpreta in modi diversi i vincoli che derivano dai trattati, allunga o accorcia a suo piacimento il guinzaglio che lega l’Unione agli Stati, non si pongono in dubbio le premesse stesse su cui è fondato il «condominio» europeo? 25 febbraio 2015 | 08:22 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_febbraio_25/laccio-corte-tedesca-ad2bad1e-bcb8-11e4-ad0c-cca964a9a2a1.shtml Titolo: Sabino Cassese. Pensioni, le strade possibili della Corte costituzionale Inserito da: Admin - Maggio 14, 2015, 12:20:01 pm LA Sentenza
Pensioni, le strade possibili della Corte costituzionale Di Sabino Cassese La sentenza della Corte costituzionale sulla rivalutazione monetaria delle pensioni sta suscitando molte critiche. La difendono solo i sindacati (ma questi fanno il loro mestiere, essendo ormai associazioni di pensionati) e le parti politiche che sperano in una buccia di banana per il governo. Mi paiono fuori centro le critiche di sconfinamento della Corte, con conseguente svuotamento dei poteri del Parlamento. Il compito della Corte è, infatti, proprio quello di assicurare che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullandole quando non la rispettano. Gli autori di questa critica vorrebbero fare a meno del garante della Costituzione, facendo così un salto indietro di duecento anni nella storia del costituzionalismo. Più ragionevoli le critiche al modo in cui ha proceduto la Corte in questo caso. La decisione presa ha implicazioni molto gravi per il bilancio dello Stato. La Corte, in un passato abbastanza lontano, si era dotata di uffici che valutavano le conseguenze finanziarie delle sue decisioni. Riteneva, quindi, di dover svolgere il suo ruolo di tutore della Costituzione bilanciando la tutela dei diritti con quella dell’equilibrio finanziario, da cui anche discendono diritti. In passato, più volte ha atteso e rinviato, aiutando contemporaneamente Parlamenti e governi a definire e tutelare i diritti dei cittadini, ma senza provocare buchi nel bilancio. Solo due mesi fa, la Corte ha adottato una importante sentenza con effetti solo per il futuro, perché altrimenti «si determinerebbe una grave violazione dell’equilibrio di bilancio ai sensi dell’art. 81 della Costituzione». U n bilanciamento diritti- costi è necessario, in particolare, quando vi sono diritti a prestazioni che - come ha osservato Mario Monti - non sono più sostenibili (correndo, in più, il pericolo di una messa in mora da parte della Commissione europea). E quando - come in questo caso - i costi di una sentenza debbono necessariamente essere compensati dalla riduzione di altri diritti sociali; ad esempio, limitando le prestazioni in materia di istruzione o sanitaria. La Corte non era obbligata a scegliere tra due sole soluzioni. Aveva molte alternative. Avrebbe potuto ripetere il monito (la messa in mora che la Corte fa quando non vuole produrre gli effetti immediati e traumatici che derivano da un annullamento), già fatto in precedenza in materia di pensioni, come è accaduto negli ultimi anni in materia elettorale. Avrebbe potuto fare una sentenza chiamata, nel gergo, additiva di principio, cioè stabilendo il principio della rivalutazione anche per le pensioni di livello pari a tre volte la minima, ma lasciando a governo e a Parlamento il compito di scegliere come provvedere. Così ha fatto molte altre volte. Avrebbe potuto agganciarsi ad altre norme che stabiliscono soglie e scaglioni diversi, graduando gli effetti concreti della propria pronuncia. Anche questo tipo di decisioni manipolative ha molti precedenti. Avrebbe potuto, infine, non comportarsi come Giove pluvio, facendo trovare gli organi di spesa dinanzi al fatto compiuto (uno dei più acuti giudici costituzionali americani ha scritto un libro per dimostrare che la forza delle corti supreme sta nella loro capacità di collaborare con gli altri poteri dello Stato). 12 maggio 2015 | 08:21 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_12/pensioni-sentenza-corte-costituzionale-07de0a40-f869-11e4-ba21-895cc63d9dac.shtml Titolo: Sabino CASSESE Consulta e governo La valanga che andava evitata Inserito da: Admin - Maggio 25, 2015, 10:59:31 am Consulta e governo
La valanga che andava evitata Di Sabino Cassese Il governo ha dunque riconosciuto a 3 milioni e 700 mila pensionati (quelli che godono di trattamenti da tre a sei volte il minimo) una rivalutazione di ammontare diverso, a favore delle pensioni più basse (40, 20 e 10 per cento) per gli anni 2012 e 2013. Contemporaneamente, ha stabilito una indicizzazione delle pensioni del 20 per cento per il 2014-2015 e del 50 per cento dal 2016. Ha indicizzato così l’importo complessivo di tutti i trattamenti pensionistici di cui ciascuno gode, inclusivi degli eventuali assegni vitalizi. Ed ha fatto ciò con tempismo, senza aspettare momenti più propizi, e con atteggiamento di riguardo e cooperativo nei confronti della Corte costituzionale, nonostante che la sua sentenza non sia risultata gradita, giungendo anzi come un fulmine a ciel sereno. Si spera che questa soluzione metta a tacere le interpretazioni estremistiche, quelle di chi vorrebbe la «restituzione di tutto». La Corte, infatti, lamentava che non vi fosse «alcuna rivalutazione», con il «blocco integrale» della perequazione disposto nel 2011. Consentiva che le attese dei pensionati venissero bilanciate con le esigenze di contenimento della spesa. Dichiarava irragionevole il blocco, non dichiarava ragionevole la rivalutazione disposta nel 1998. La Corte non poteva dire di più, sancendo una sorta di intangibilità del modo di rivalutare le pensioni scelto nel 1998 e bloccato nel 2011 - come vorrebbero i sostenitori della tesi del «rimborso totale» - perché l’articolo 38 della Costituzione dispone che i lavoratori hanno diritto a vedersi assicurati mezzi «adeguati alle esigenze di vita», e giudice dell’adeguatezza è il Parlamento. Il Parlamento è tenuto solo a rispettare i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Si lamenterà che quella decisa dal governo non è una rivalutazione al cento per cento e che chi gode di pensioni superiori a sei volte il minimo non avrà rivalutazione. Ma la Costituzione dispone che siano assicurati «mezzi adeguati», non che questi vadano necessariamente dati con una piena rivalutazione. Ed è difficile sostenere che coloro che godono di pensioni superiori di sei volte il minimo non abbiano mezzi adeguati alle esigenze di vita. Questo intervento equitativo del governo chiude un triste capitolo della vicenda pensionistica. Mentre l’equilibrio finanziario è tanto precario e voci autorevolissime come quella di Maurizio Ferrera predicano da anni che il welfare italiano dà troppo agli anziani e troppo poco ai giovani (infatti, il decreto legge mira anche alla «salvaguardia della solidarietà intergenerazionale»), lo scivolone della Corte, dimentica per un momento delle sue proprie responsabilità di tutore dell’art. 81 della Costituzione, avrebbe potuto innescare una valanga rovinosa non solo per l’economia italiana, ma anche per gli stessi pensionati. 19 maggio 2015 | 09:13 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_maggio_19/valanga-che-andava-evitata-d8d75ea0-fde4-11e4-bed4-3ff992d01df9.shtml Titolo: Sabino CASSESE Stato e criminalità Questioni nazionali (non locali) Inserito da: Admin - Giugno 08, 2015, 05:40:28 pm Stato e criminalità
Questioni nazionali (non locali) Di Sabino Cassese L a questione romana, riesplosa nei giorni scorsi, è solo la spia di una malattia più grave: il vuoto politico amministrativo della gestione capitolina (quella in carica ormai da un biennio e quella precedente) e la debolezza delle classi dirigenti locali. I sintomi sono la città in stato di abbandono, l’incuria per ogni servizio essenziale (a partire dalla manutenzione delle strade, delle piazze, del verde pubblico), l’incapacità gestionale, l’assenza di rispetto per l’interesse collettivo, l’abuso delle risorse pubbliche, la carenza di guida e di controlli, cui conseguono disamore dei cittadini per Roma e scoraggiamento delle persone serie ed oneste che lavorano nelle amministrazioni locali. Ma non basta sciogliere questa amministrazione e tornare alle urne, perché la questione riguarda l’intera nazione. I segnali di corruzione che stanno emergendo mostrano la straordinaria galassia che sta alla base del malaffare (enti pubblici di vario genere, società, consorzi, fondazioni, municipi, cooperative, appaltatori di pubblici servizi), le reti sulle quali lo sfruttamento privato di risorse pubbliche corre (dominate dalla indistinzione tra amministrazione e politica locale, clan privati e funzionari pubblici), il coinvolgimento delle burocrazie nella corruzione. Questo accade per scarsa capacità di leadership politico-gestionale e assenza di una solida amministrazione capitolina: secondo molti osservatori, è una finzione giuridica che a Roma vi siano un Comune e un sindaco, tanto grande è l’incuria per gli interessi della collettività romana. O ra le indagini della Procura faranno il loro corso. Ma non ci si può illudere che esse possano risolvere il problema che sta alla base della questione, le cui cause risalgono alla pochezza delle amministrazioni, allo strapotere del consiglio comunale e alle sue troppe interferenze con la gestione amministrativa e con l’uso delle risorse finanziarie, ai grandi e piccoli abusi (questi ultimi peggiori dei primi, perché penetrano nella società, abituano anche i cittadini a corrompere il vigile urbano perché non multi le auto in sosta abusiva dinanzi a un negozio), a politici-affaristi, a burocrati scelti per l’appartenenza o la fedeltà politica e non per il loro merito, a mediatori e mestieranti, al sottobosco della cosiddetta politica locale, alla criminalità. Questo sistema corrotto richiede un’opera risanatrice più grande, richiede che lo Stato si accolli temporaneamente questo compito e ridia alla nazione una capitale non infetta. La questione romana è questione nazionale, come ha ben capito il partito di maggioranza quando ha nominato il suo presidente commissario straordinario della federazione di Roma. Ora si completi l’opera. La nazione dia un segno della sua presenza. Lo Stato assuma il compito temporaneo di ridare a Roma una amministrazione. Gli strumenti non mancano. Si può commissariare il Comune. Oppure approvare una legge speciale, temporanea, che dia un nuovo assetto a Roma, per la durata della cura. Nell’amministrazione dello Stato, nel ministero dell’Interno e in quello dell’Economia e della finanza, e persino nelle strutture capitoline, non mancano le persone adatte a liquidare superfetazioni amministrative, a ridare una struttura, a ridisegnare procedure, in modo che Roma diventi una capitale di cui l’Italia non si debba vergognare. Annamaria Cancellieri ha scritto nel suo libro di memorie che, nominata commissario del Comune di Bologna, si dedicò subito a due compiti: ascoltare gli amministrati, e curare l’amministrazione, girando persino nelle strade e segnalando le buche. I romani e i tanti italiani e stranieri che visitano Roma sanno che di questo c’è bisogno nella Capitale. 7 giugno 2015 | 08:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_07/questioni-nazionali-non-locali-3159cac4-0cde-11e5-8612-1eda5b996824.shtml Titolo: Sabino CASSESE Giustizia e bilanci Una corte che rispetta i vincoli Inserito da: Admin - Giugno 27, 2015, 11:02:05 am Giustizia e bilanci
Una corte che rispetta i vincoli Saggia sentenza della Corte costituzionale che ha valutato che la illegittimità del blocco dei contratti pubblici vale per il futuro e non per il passato Di Sabino Cassese Saggia sentenza della Corte costituzionale. Questa ha stabilito che bloccare troppo a lungo la contrattazione collettiva del pubblico impiego è illegittimo. Ma ha contemporaneamente deciso che questa è una illegittimità «sopravvenuta» e che la dichiarazione relativa decorre dalla pubblicazione della sentenza (che deve necessariamente avvenire entro il 10 luglio prossimo). Quindi, la illegittimità vale per il futuro e non per il passato. Due giudici, uno di Roma e uno di Ravenna, su richiesta di due diverse organizzazioni sindacali, avevano sollevato questione di costituzionalità delle norme che, a partire da quelle del governo Berlusconi, nel 2010, avevano bloccato stipendi e contrattazione del pubblico impiego, e poi avevano prorogato il blocco. I giudici avevano chiesto di far cadere sia l’arresto della contrattazione, sia il congelamento del trattamento economico, sostenendo anche che la perdita del potere di acquisto, insieme con il blocco delle assunzioni, produceva un duplice danno, dovendo i dipendenti lavorare di più con una retribuzione ridotta dall’inflazione. La Corte costituzionale si è limitata ad affermare che l’attuale «blocco della contrattazione collettiva» è illegittimo. E l’ha probabilmente deciso sulla base delle sue sentenze precedenti nelle quali aveva stabilito che il blocco può essere temporaneo, non duraturo o permanente. N on credo che il governo e il Parlamento siano stati presi in contropiede da questa sentenza. Il ministro della Funzione pubblica aveva già dichiarato di voler sbloccare la contrattazione collettiva a partire dal 2016. Quindi, ora la negoziazione ricomincia, come vuole la legge e come ha ribadito la Corte costituzionale nel 2012, entro i limiti generali di compatibilità con le linee di politica economica e finanziaria fissate dal legislatore, che richiedono un accurato calcolo degli oneri finanziari. Perché questa è una decisione equilibrata? Perché, innanzitutto, fa cessare una intrusione legislativa nell’area contrattuale, senza tuttavia necessariamente sconvolgere gli equilibri di finanza pubblica, in quanto la contrattazione deve svolgersi necessariamente dentro le disponibilità di bilancio: lo Stato non può dare più di quello di cui dispone. La Corte ha fissato un principio: la contrattazione non può essere bloccata indefinitamente, se il pubblico impiego è contrattualizzato. Essa ha riaperto la strada della negoziazione tra le parti. Spetta ora al governo e al Parlamento stabilire le risorse disponibili e avviare la negoziazione entro i limiti di tali risorse. Perché, in secondo luogo, non crea, con un’applicazione retroattiva, un buco che costituirebbe, come ha scritto la stessa Corte in una eccellente sentenza del febbraio scorso, «una grave violazione dell’equilibrio di bilancio». Il principio stabilito da quella sentenza trova ora una seconda attuazione con questa decisione: spetta alla Corte anche regolare gli effetti delle proprie decisioni, innanzitutto quelli temporali. In questo modo la Corte è anche più libera di esercitare il proprio ruolo, avendo disponibile una più ampia gamma di decisioni di illegittimità costituzionale. La Corte tedesca ha affermato da molti anni questo principio, che è poi stato codificato in una legge. Infine, questa sentenza è saggia perché mostra che la Corte è consapevole dei limiti degli effetti distributivi delle proprie decisioni. Se la Corte, con sentenze che hanno grande impatto sulla spesa pubblica, obbliga il Parlamento a riallocare grandi quantità di risorse, non solo produce squilibri di bilancio, ma priva di tutela altri titolari di diritti. Se obbliga il Parlamento a perequare le pensioni, toglie risorse che potrebbero andare ai giovani. Ecco uno dei grandi problemi dei sistemi politici contemporanei, fondati sulla contrapposizione dei poteri: le Corti hanno l’ultima parola, ma possono agire solo sotto la spinta di altri giudici, e sono tenute a «stare nel seminato»; non possono prendere esse stesse l’iniziativa e debbono rispondere solo alla domanda che è stata loro posta dai giudici rimettenti. Solo i governi e i Parlamenti - che non hanno l’ultima parola - possono attuare una vera giustizia distributiva, compensando, bilanciando, equilibrando. Un buon motivo perché le Corti costituzionali si frenino quando la loro azione si svolge in quel campo minato che è la finanza pubblica. 25 giugno 2015 | 09:14 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_giugno_25/corte-che-rispetta-vincoli-12b21354-1afa-11e5-8694-6806f55cfc9e.shtml Titolo: Sabino CASSESE Costituzione e poteri La riforma che non va cancellata Inserito da: Admin - Luglio 05, 2015, 10:07:31 am Costituzione e poteri
La riforma che non va cancellata Di Sabino Cassese Non bisogna far marcia indietro sulla proposta di riforma costituzionale. Questa prevede una forte riduzione del bicameralismo parlamentare e un modesto rafforzamento del governo. Il primo obiettivo è raggiunto svuotando di funzioni il Senato, riducendo il numero dei senatori e rendendone l’elezione indiretta. Il secondo obiettivo affidando solo alla Camera dei deputati il compito di dare la fiducia al governo e dando una corsia preferenziale alle proposte di legge del governo. Ambedue questi obiettivi erano tra le proposte di coloro che prepararono la Costituzione del 1948. Questi sapevano bene che da quando Tocqueville, in Francia, nel 1848, si batteva per il bicameralismo le cose erano cambiate. Ad esempio, Massimo Severo Giannini, capo di gabinetto di Nenni al Ministero per la costituente e testa pensante del partito socialista, nell’aprile 1946, propose al congresso fiorentino del partito un sistema monocamerale, notando che «in tutti i casi in cui la seconda camera non è stata rappresentativa di determinati gruppi o interessi politici, regolarmente essa ha fatto fallimento». «D’altra parte, la funzione moderatrice che alcuni attribuiscono alla seconda camera, nella maggioranza dei casi, risponde più ad una affermazione che a una realtà; anzi, molto spesso è una deformazione ottica». Oggi possiamo aggiungere che nel nostro sistema politico gli strumenti del pluralismo e gli istituti destinati a bilanciare i poteri, ad evitare l’eccessiva loro concentrazione in un solo organo, si sono moltiplicati. Molti poteri sono stati deferiti all’Unione Europea e alle Regioni, che agiscono da contropoteri, condizionano e frenano l’azione del complesso Parlamento-governo. Che bisogno c’è dunque, dello sdoppiamento dell’assemblea legislativa in due camere con eguali poteri? Non si finisce così per frammentare eccessivamente l’azione di governo, e qualche volta per rendere i governi impotenti? Anche il secondo obiettivo, quello di rafforzamento del governo, era tra le aspirazioni dei nostri costituenti. Piero Calamandrei osservò il 4 marzo 1947 all’Assemblea costituente: «Di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo, nel progetto della Costituzione non c’è quasi nulla». Come lui, anche Mortati e Perassi, democristiani e repubblicani, non volevano un sistema parlamentare puro con governi instabili. Sapevano che il fascismo non era stato il prodotto di esecutivi forti, ma della debolezza dei governi precari e transeunti del periodo liberale. Oggi di governi che abbiano una base meno fragile e maggiore durata, e che assicurino continuità alle politiche pubbliche c’è ancor più bisogno, se vogliamo partecipare a quel grande condominio che è l’Unione Europea, nel quale non ci possiamo permettere di mandare un ministro nuovo ogni anno, mentre le altre nazioni sono rappresentate dalla stessa persona almeno per la durata della legislatura, per cinque anni. I politici attardati che vorrebbero fare marcia indietro sulla riforma costituzionale aspirano a togliere forza al potere della maggioranza, con la conseguenza che nessuno governa, mentre dovrebbero invece dare voce e potere alla minoranza, perché questa possa tenere sotto controllo la maggioranza, per poter poi aspirare a diventare essa stessa maggioranza. Ripetono così lo storico errore di De Gasperi e di Togliatti, ciascuno timoroso della prevalenza dell’altro e quindi ambedue favorevoli a indebolire l’azione della maggioranza e del governo. Così venne creata una democrazia forte con maggioranze deboli, che finiscono per infiacchire la democrazia. Dopo sessanta anni, finita la Guerra fredda e la divisione del mondo in due parti, dopo che si sono sviluppate le istituzioni del pluralismo ed è scomparso lo Stato monolite, la coscienza democratica dei cittadini è divenuta più matura, il dibattito pubblico più aperto, i mezzi di comunicazione più rapidi, la gestione pubblica più trasparente, il potere più decentrato, non bisogna buttare sabbia nelle ruote della maggioranza, ma invece consolidare il ruolo delle minoranze, dando loro uno statuto legale riconosciuto, rafforzare il compito di controllo della seconda camera, moltiplicare gli strumenti conoscitivi delle stesse minoranze non rappresentate in Parlamento. 4 luglio 2015 | 08:49 © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_luglio_04/riforma-costituzionale-36e6d5d4-220c-11e5-a8a7-86b884c5fff2.shtml Titolo: Sabino CASSESE Come può cambiare lo Stato Una burocrazia del merito Inserito da: Admin - Agosto 16, 2015, 05:00:34 pm Come può cambiare lo Stato
Una burocrazia del merito Di Sabino Cassese U n Parlamento bloccato su un particolare della riforma costituzionale (elezione diretta o indiretta di un Senato comunque ridotto e svuotato) ha dato al governo, dopo un iter non breve (circa un anno), ma neppure difficoltoso, con una larga maggioranza, una enorme apertura di credito per la riforma dello Stato. Si apre un grande cantiere, con circa quindici deleghe, che richiederà almeno cinque anni per essere portato a compimento. Riguarda l’assetto centrale dello Stato, la sua distribuzione sul territorio, gli enti periferici, i processi di decisione e le semplificazioni, la prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, le conferenze dei servizi, le forze di polizia, l’ordinamento sportivo, gli enti di ricerca, le società pubbliche, i servizi pubblici locali, i concorsi pubblici, il codice dell’amministrazione digitale. Ridefinisce i confini tra pubblico e privato. Mira a trasformare un’amministrazione corporativa, poco efficace, troppo legata ai politici di passaggio, in una struttura sensibile agli impulsi della politica e alle esigenze della collettività, ma non dipendente dai politici. Lo stato degli edifici scolastici, il tempo di una licenza, le condizioni delle nostre città, il costo dei servizi, l’adempimento degli obblighi tributari, la bontà del servizio sanitario, dipenderanno, nei prossimi anni, dal successo di questa riforma. Le chiavi di volta di questo ambizioso disegno sono le tre Commissioni autonome per le tre categorie della dirigenza unificata (Stato, Regioni ed enti locali) e il nuovo assetto della Scuola dell’amministrazione. Da queste dipende la possibilità di costruire una classe di amministratori pubblici scelti sulla base dei loro talenti, indipendenti e imparziali. L e tre Commissioni dovranno, da un lato, immettere i vincitori del corso-concorso nell’amministrazione, dall’altro tenere sotto controllo il conferimento degli incarichi ai dirigenti, da parte dei corpi politici. È un compito enorme, diretto sia a migliorare la dirigenza amministrativa selezionando i capaci e meritevoli, sia a far rispettare dalla politica i principi cardine dell’accesso aperto, della concorrenza e del merito, oltre che della definizione preventiva dei requisiti dei dirigenti. La scelta dei componenti delle tre Commissioni sarà un banco di prova per il governo. Dovranno essere nominate persone autonome, indipendenti e «terze», non politici o sindacalisti. Lì si misurerà la lungimiranza dell’esecutivo e la sua capacità di spogliarsi della veste di parte nell’interesse del Paese. La Scuola nazionale di amministrazione sarà la principale fornitrice dei nuovi dirigenti, il «vivaio degli alti funzionari». Anche qui si misurerà la capacità del governo di guardare lontano. C’è bisogno anche in Italia di quello che gli inglesi chiamano fast stream, un sistema accelerato che porti rapidamente al vertice degli uffici pubblici un manipolo di giovani capaci, scelti non per il loro credo politico ma per le abilità acquisite, l’esperienza, l’equilibrio, le capacità gestionali, le conoscenze linguistiche, una élite che non sia aristocrazia. Il governo è ora chiamato ad adempiere questi compiti difficili. Ma di ciò dovrebbe anche interessarsi chi si preoccupa della democrazia italiana, temendo che degeneri in autocrazia: una burocrazia indipendente e preparata, non scelta dai membri del corpo politico tra i propri fedeli, sarà capace di condizionare il politico di turno, ricordandogli i suoi limiti, e di mettere finalmente in sintonia lo Stato con la società, che lo vede oggi come un nemico, indolente, costoso e invadente. 14 agosto 2015 (modifica il 14 agosto 2015 | 08:50) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_agosto_14/burocrazia-merito-82e2e7d2-4243-11e5-ab47-312038e9e7e2.shtml Titolo: Sabino CASSESE - Riforme e ostacoli La giustizia che si deve ritrovare Inserito da: Admin - Agosto 24, 2015, 05:36:22 pm Riforme e ostacoli
La giustizia che si deve ritrovare Qualcosa si muove nella giustizia. Le riforme avviate nel giugno 2014, articolate in dodici punti, dopo una pubblica consultazione, stanno dando qualche magro frutto: calo dell’arretrato civile, tempi più brevi dei processi. Ma la china da risalire è erta. Il contesto è difficile. La qualità delle leggi pessima (ma nessuno se ne dà carico). Gli avvocati troppi (ma continuano ad aumentare). Il Consiglio superiore della magistratura dominato da gruppuscoli denominati correnti (ma non c’è accordo per uscirne). La Cassazione intasata da un numero abnorme di ricorsi (ma le proposte di soluzione troppo timide). I magistrati troppo leggeri nel limitare la libertà personale (la Scuola della magistratura non dovrebbe fare qualcosa per insegnare che la detenzione cautelare, senza processo, va usata in casi estremi?). Troppe le carriere politiche di magistrati in carica e troppe le loro esternazioni (mentre il Consiglio superiore della magistratura sta a guardare). Eccessiva la tendenza di procure e corti a dettare l’agenda della politica e a stabilire i criteri della politica industriale, quasi fossero la coscienza del Paese e il governo della politica economica (perché il Consiglio non fissa linee guida non vincolanti, come fa negli Stati Uniti il Dipartimento di giustizia, e perché la Scuola della magistratura non promuove il ricorso all’analisi economica del diritto?). Palese l’inadeguatezza - con l’eccezione di alcune importanti procure - del contrasto alla criminalità organizzata. La criminalità organizzata si è diffusa in vaste aree del territorio nazionale (non varrebbe la pena di fare una analisi sulla preparazione di chi dirige le investigazioni, comprese le forze di polizia?). Sproporzionato il posto che il sistema giudiziario è venuto ad occupare nella vita civile, se rapportato al suo fallimento come erogatore del fondamentale servizio della giustizia (qui occorrerebbe una analisi distaccata e imparziale, alla quale tutti possano partecipare, promossa dal Parlamento). Al fondo, la crisi della giustizia in Italia non sta tanto nell’enorme numero di cause non decise e nei tempi dei processi, ma nel fatto che tutto ciò ha prodotto una vera e propria fuga dalla giustizia, a causa della sfiducia nei suoi tempi. Non vengono da ultime, in questo quadro, le proposte, recentemente ribadite, relative ad intercettazioni, carcerazione preventiva e separazione delle carriere. Prima ancora della loro divulgazione, è l’uso a volte eccessivo delle intercettazioni (specialmente di quelle indirette) come mezzo di prova che andrebbe disciplinato, ricordando che, secondo la Costituzione, la segretezza delle comunicazioni è inviolabile. La carcerazione preventiva è stata talvolta usata come mezzo di pressione, per ottenere ammissioni di colpa, anche qui mostrando le debolezze investigative nella raccolta documentale di prove. Per quanto la sua importanza sia diminuita dopo la distinzione funzionale, la separazione delle carriere, ambedue con indipendenza garantita, è dettata molto semplicemente dal fatto che accusa e giudizio sono mestieri diversi, che richiedono preparazione e professionalità differenti. Il governo italiano ha finora avuto giudizi molto negativi dalla Corte di Strasburgo e apprezzamenti sia dai commissari europei per le iniziative intraprese nel campo della giustizia, sia dal Consiglio d’Europa per la produttività dei giudici. Ma il tempo passa e risultati più consistenti sono attesi, non solo dai cittadini, ma anche dall’Unione Europea e dal Consiglio d’Europa. Non dimentichiamo che uno dei punti della decisione dell’Eurosummit del luglio scorso relativa alla Grecia, presa con la collaborazione dell’Italia, ha riguardato l’accelerazione delle procedure giudiziarie e la riduzione dei costi della giustizia. Sabino Cassese © RIPRODUZIONE RISERVATA 24 agosto 2015 (modifica il 24 agosto 2015 | 07:15) Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_24/giustizia-che-si-deve-ritrovare-01468b9c-4a1e-11e5-bdc5-ee9c5a368093.shtml Titolo: Sabino CASSESE Nazioni e sviluppo L’inatteso ritorno dei confini Inserito da: Admin - Settembre 01, 2015, 04:59:03 pm Nazioni e sviluppo
L’inatteso ritorno dei confini Di Sabino Cassese Un miliardo e mezzo di persone viaggerà da una nazione all’altra nel 2016, secondo previsioni dell’Associazione delle compagnie di trasporto aereo (sono state più di un miliardo e cento milioni nel 2011), moltissime senza bisogno di visto dei Paesi d’entrata e alcune senza neppure bisogno di un passaporto del proprio Paese. Miliardi di persone godono di maggiore benessere grazie alla liberalizzazione mondiale del commercio (e tra poco anche ai partenariati transatlantico e transpacifico sul commercio e gli investimenti). Segni di difficoltà dell’economia cinese hanno prodotto immediati effetti sulle Borse di quasi tutto il mondo. Ben 232 milioni di persone vivono in Paesi diversi da quello di nascita. Su 500 milioni di abitanti dell’Unione Europea, 33 milioni sono quelli nati fuori dell’Unione. In Italia, gli immigrati sono 5 milioni (8% della popolazione) e contribuiscono - secondo una stima - a formare più dell’8% della ricchezza nazionale. Si poteva sperare che globalizzazione, apertura dei commerci, deterritorializzazione del potere portassero a una obsolescenza delle frontiere. Invece, ieri l’Austria ha rafforzato i controlli di polizia sui confini orientali. Nei giorni scorsi, l’Ungheria ha costruito un muro alla frontiera con la Serbia, seguendo il cattivo esempio della barriera tra Stati Uniti e Messico. Quel che è peggio, si fanno diventare elastiche le linee di demarcazione nazionali. I l Regno Unito ha incaricato forze di polizia francesi di presidiare la frontiera, su territorio francese, come il Canada, che, d’accordo con le autorità straniere, svolge pre-ispezioni in porti e aeroporti esteri nei quali si imbarcano passeggeri diretti in Canada. Stati Uniti e Australia sono andati oltre, arretrando (sulla carta) di cento miglia i limiti territoriali per facilitare l’espulsione rapida di immigrati, che vengono trattati, quindi, su suolo americano e australiano, come se fossero presi sulla frontiera, con decisioni non sottoposte a controllo giurisdizionale. Questa chiusura nelle proprie frontiere pone problemi enormi alla coscienza moderna. Ne voglio indicare solo tre. In primo luogo, la riscoperta delle barriere all’entrata non tiene conto che chi fugge si priva dell’appartenenza a una comunità, e, quindi, anche del «diritto ad avere diritti» che deriva da tale appartenenza. La chiusura delle frontiere lo precipita in un limbo giuridico (oltre a causarne spesso la morte). La chiusura, in secondo luogo, è disposta da Paesi che hanno fatto propria la tradizione, risalente al 1789, secondo la quale sono garantiti i diritti «dell’uomo e del cittadino» (prima dell’uomo che del cittadino) e sono tenuti a rispettare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). Dunque, da Paesi che sono obbligati a garantire non solo i diritti dei connazionali, ma anche quelli degli «altri». Da Paesi che si valgono dell’apertura delle frontiere quando fa comodo (per esportare merci, investire denaro, viaggiare), le chiudono quando si sentono minacciati dall’immigrazione di persone. Infine, questa chiusura nazionalistica ripropone l’interrogativo al quale cercò di dare una risposta nel 1882 il grande storico del cristianesimo Ernest Renan: che cosa è una nazione? Una nazione è tenuta insieme solo da una lingua comune, da tradizioni e costumi condivisi, oppure è fatta da una comunità di ideali più ampi, che si allargano anche a chi non vi è nato? Quella comunità che chiamiamo nazione è tenuta in vita solo da una comunione di interessi o anche da una comunanza di principi (tra cui quello di dare asilo a chi fugge da guerre e persecuzioni nella propria patria)? Nazione comporta appartenenza esclusiva oppure anche partecipazione a una collettività più vasta (come dovrebbero testimoniare le migliaia di organizzazioni internazionali esistenti)? 1 settembre 2015 (modifica il 1 settembre 2015 | 07:36) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_01/inatteso-ritorno-confini-d7de1428-5067-11e5-ad2e-795b691a3a45.shtml Titolo: Sabino CASSESE Le timide proposte del Csm Inserito da: Arlecchino - Ottobre 26, 2015, 11:54:03 am Le timide proposte del Csm
Di Sabino Cassese Il Consiglio superiore della magistratura ha fatto sette proposte sui rapporti tra giudici e politica al ministro della Giustizia, perché questi promuova un disegno di legge sulla materia. Sono proposte dirette ad allineare il trattamento dei magistrati che entrano nella politica locale a quello dei giudici impegnati a livello politico nazionale e a regolare, per gli uni e gli altri, i casi di prolungato impegno fuori dell’ordine giudiziario. Oggi, infatti, un magistrato può fare il presidente di una Regione o il sindaco esercitando contemporaneamente la funzione giurisdizionale, sia pure in altra circoscrizione, oppure può svolgere a lungo attività politica e al termine ritornare nei ranghi. Si tratta di proposte giuste, ma timidissime e corporative. Partono da una diagnosi parziale, quella di «gruppi politici, in crisi di autorevolezza, [che] cercano magistrati noti al pubblico per le indagini svolte o incarichi di prestigio ricoperti per candidarli ad assemblee elettive e affidargli incarichi di governo». Non tengono conto che c’è anche l’opposto, una politicizzazione endogena, costituita da giudici e procuratori che corrono verso la politica, con una esondazione pervasiva tale da far scrivere che da uno Stato di diritto si ritorna a uno Stato di giustizia. Basti dire che i parlamentari-magistrati sono triplicati negli ultimi venti anni. Tre gli interrogativi che la proposta suscita. Poteva, in primo luogo, il Consiglio della magistratura fare esso stesso di più, lungo la linea delle sue due circolari del 2009 e del 2014, con la sua attività «paranormativa», per arginare un fenomeno che mina l’indipendenza dell’ordine giudiziario? Proprio ieri l’Associazione nazionale magistrati, nel suo congresso barese, ha ribadito la tesi del «governo autonomo della magistratura»: perché l’organo di governo non ha invitato o non invita i magistrati a garantire la propria distanza dalle carriere politiche amministrative? Secondo: perché il Consiglio non si preoccupa anche delle cariche non elettive? L’imparzialità del giudice non è minata anche dalla nomina governativa a posizioni di vertice dell’amministrazione o di enti e autorità pubbliche? Terzo interrogativo: basta dire che un magistrato che si dedica ad attività politiche o politico amministrative deve farlo fuori della circoscrizione in cui ha svolto la sua precedente funzione e deve mettersi fuori ruolo, salvo ritornare, poi, nei ranghi giudiziari? Non è comunque minata la sua immagine di persona indipendente e imparziale, per aver manifestato pubblicamente una appartenenza politica, per essere andato nelle piazze a nome di un partito, per aver goduto della fiducia di un governo, nazionale o locale? Quale assicurazione di indipendenza e di imparzialità potrà dare, dopo aver svolto l’attività politica per un partito, a chi dovrà essere sottoposto alle sue indagini o al suo giudizio? Si dirà che la Costituzione dispone che tutti possono accedere alle cariche elettive e agli uffici pubblici e che hanno diritto di conservare il posto di lavoro. Ma la Corte costituzionale nel 2009 ha ben precisato che ai magistrati è riconosciuta una posizione particolare, alla quale corrispondono speciali doveri. E la Costituzione garantisce il «posto di lavoro» al termine dell’esperienza politica, non la stessa funzione. Dunque, i magistrati che si impegnino in attività estranee, presentandosi alle elezioni, svolgendo attività politica, accettando cariche amministrative per nomina governativa, dovrebbero non solo essere collocati fuori ruolo, ma, al termine, passare nei ranghi dell’Avvocatura dello Stato, come anche il Consiglio della magistratura propone per un numero molto limitato di casi. Solo così si stabilisce quella distanza tra giustizia e politica che assicura al cittadino sottoposto a indagine o a giudizio di aver davanti una persona «al di sopra di ogni sospetto di parzialità». Se il Consiglio superiore della magistratura, che dovrebbe essere il palladio della indipendenza e della imparzialità dell’ordine giudiziario, non si dà carico di questo compito, dovrebbero assumerselo governo e Parlamento, ai quali tocca ora fare il prossimo passo. 24 ottobre 2015 (modifica il 24 ottobre 2015 | 07:21) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_24/timide-proposte-csm-998dbdee-7a0c-11e5-9874-7180d07bb3bf.shtml Titolo: Sabino CASSESE Istituzioni e fratture, le nostre regole perdute Inserito da: Arlecchino - Ottobre 31, 2015, 12:17:33 pm L’EDITORIALE
Istituzioni e fratture, le nostre regole perdute Di Sabino Cassese Che brutto spettacolo! Un sindaco rivelatosi inadatto a svolgere la sua funzione, che prima si dimette, poi ritira le dimissioni. Funzionari della Agenzia delle Entrate che si rivoltano contro la Costituzione e la Corte costituzionale, sostenendo che è legittimo essere promossi senza concorso. Giudici amministrativi che esprimono opinioni su materie sottoposte al loro giudizio e critici che pretendono decisioni che i giudici non possono prendere, perché richiedono una legge. Una Procura che inizia una indagine sul vertice della Banca d’Italia, per poi dichiarare che la questione è tutta da verificare e da valutare. Il presidente dell’Autorità anticorruzione, chiamato a svolgere compiti onerosi e importanti, che dà pagelle alle città. Parlamentari che preannunciano bordate di emendamenti a documenti finanziari che dovrebbero essere o accettati o respinti. Sembra che tutti abbiano deciso di mettersi a giocare con le istituzioni, chi facendo appello al popolo, chi debordando dal suo compito, chi dimenticando le regole, chi cercando dalle corti quel che solo il Parlamento può dare, chi dando voce agli interessi più disparati, a danno dell’equilibrio di bilancio. È una specie di «rompete le righe», dal quale saggiamente il governo si è tenuto fuori, ma che richiede una riflessione sullo stato delle nostre istituzioni e sul modo nel quale esse vengono usate da chi le gestisce, mettendole - come è stato giustamente rilevato - sotto «stress». Questi sono casi che i sociologi chiamano di anomia, ovvero di assenza di norme o di disprezzo delle norme, siano esse leggi, siano esse regole di correttezza. E l’anomia danneggia la collettività. Mentre il sindaco di Roma dà e poi ritira le dimissioni, preoccupandosi solo del proprio ruolo, chi si interessa della città? I funzionari dell’Agenzia delle Entrate promossi senza concorso protestano e cercano sanatorie impossibili, ma chi si interessa di fare regolari concorsi per coprire quei posti? Poco opportunamente un magistrato del Consiglio di Stato ha manifestato opinioni su una questione che doveva decidere, mentre dall’altra parte si voleva la trascrizione in Italia dei legami familiari stabiliti fuori d’Italia. Così si perde di vista il vero problema, già indicato da anni dalla Corte costituzionale: bisogna dare riconoscimento a questi legami, e deve farlo il Parlamento. Era proprio necessario che la procura di Spoleto rendesse pubblica la notizia della indagine sulla Banca d’Italia prima di verificare e valutare la consistenza delle accuse, specialmente se si considera che si tratta di corruzione, abuso d’ufficio e truffa e che si procede nei confronti di una istituzione che regge le sorti del sistema bancario? Ha considerato la Procura la ferita che viene così inferta alla fiducia che deve circondare il credito e chi lo controlla? Il presidente Cantone ha un compito molto pesante: quel che importa è che continui a svolgerlo, senza distrazioni. La Costituzione vuole che i documenti finanziari, che necessariamente richiedono il rispetto di un equilibrio tra entrate e spese, siano elaborati e presentati dal governo al Parlamento: se questo si mette a riscriverli, con migliaia di emendamenti, dove va a finire l’equilibrio di bilancio? Abbiamo dimenticato tutti lo splendido finale di uno dei capolavori di Federico Fellini, Prova d’orchestra (1979), quello nel quale il direttore ricorda agli orchestrali, con accento tedesco, «ognuno deve dedicare attenzione al suo strumento. Le note salvano noi. La musica salva voi. Aggrappatevi alle note, seguite le note. Noi siamo musicisti, voi siete musicisti. E siamo qui per provare». 30 ottobre 2015 (modifica il 30 ottobre 2015 | 09:34) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_30/istituzioni-fratture-nostre-regole-perdute-8c3da2d2-7ed3-11e5-882e-dcc202b27802.shtml Titolo: Sabino CASSESE Gli Stati e l’ordine mondiale Inserito da: Arlecchino - Dicembre 02, 2015, 07:46:05 pm Gli Stati e l’ordine mondiale
Di Sabino Cassese Il presidente francese ha risposto agli attacchi del terrorismo globale con una triplice strategia. Ha mandato i bombardieri a colpire le centrali terroristiche: questa è la classica risposta dello Stato che vede minacciata la propria sovranità e l’ordine interno. Si è poi rivolto all’Unione Europea, invocando l’applicazione dell’articolo 42, comma 7 del trattato sull’Unione Europea, e quindi chiedendo l’aiuto e l’assistenza dell’Europa: questa è una dichiarazione di debolezza dello Stato, che richiede la solidarietà di altri Stati della regione. Infine, ha promosso l’approvazione di una risoluzione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che ha autorizzato «tutte le misure necessarie», anche se non ha richiamato il capitolo 7 della Carta dell’Onu: questo passo è diretto a ottenere la «copertura» della comunità internazionale alla sua risposta esterna all’aggressione interna. In questa triplice mossa si rivelano tutte le caratteristiche, le forze e le debolezze della globalizzazione. Innanzitutto, risalta chiaramente che problemi globali, come quello del terrorismo internazionale, non possono essere risolti con soluzioni domestiche, nazionali. Bisogna, insomma, che vi siano polizie globali incaricate di mantenere un ordine che riguarda singole nazioni, ma che è minacciato da reti estese di terroristi. Poi, si evidenzia la duplice natura della globalizzazione: se gli Stati non possono far a meno dell’intervento di organismi sovrastatali, questi ultimi da soli non bastano, perché debbono necessariamente valersi di forze statali, nelle cui mani rimangono eserciti e polizie. G li Stati fanno parte di «condominî» sempre più ampi, senza dei quali non possono svolgere alcune attività, ma «condòmini» rimangono gli Stati. Questi ultimi debbono sottomettersi alle regole «condominiali», anche se i titoli di proprietà rimangono nelle loro mani. Ora, però, comincia la parte più difficile. Nessuno dei membri della comunità internazionale è disposto da solo ad affrontare la sfida, che è sia militare, sia di polizia, sul terreno. Ognuna delle potenze che detengono la forza delle armi ha bisogno della collaborazione delle altre potenze. E questo pone un problema tradizionale, di intesa tra Stati, quell’intesa che il presidente francese va cercando in questi giorni. Ma c’è un problema più vasto, che riguarda tutta la comunità internazionale, tutto lo spazio globale: vi sono nel mondo territori non governati, Stati falliti (Libia, Yemen, in parte Siria e Iraq), che sono altrettanti focolai di disordine e origine di forze terroristiche. Le organizzazioni internazionali sono interessate a restaurare poteri statali in queste aree, che altrimenti diventano fattori di destabilizzazione di dimensioni mondiali e impongono costi altissimi alle popolazioni dei Paesi sviluppati. Gli Stati Uniti, il Paese che ha finora svolto (in parte) il ruolo di poliziotto mondiale, collaborando a questo compito, sembra aver sposato la tesi esposta da Henry Kissinger nel suo ultimo libro: questo compito di ordine deve essere affrontato a livello «regionale», nelle grandi aree del mondo (l’Europa, l’America del Sud, quella del Nord, il Sud-Est asiatico), dagli organismi sovranazionali della regione, ad esempio, l’Unione Europea. Si riaffaccia qui un problema che si pone fin dalla Seconda guerra mondiale: come forze estranee, con la legittimazione della comunità internazionale, possano, con il potere delle armi, nello stesso tempo, creare Stati, dare ad essi legittimazione, assicurarvi il rispetto di essenziali regole democratiche e del diritto. E tutto questo imponendosi a comunità locali dilaniate da divisioni tribali, etniche, di clan, e quindi tradendo il tradizionale principio secondo cui sono i popoli che si danno organizzazioni statali, scegliendone i principi e le regole costituzionali. 25 novembre 2015 (modifica il 25 novembre 2015 | 07:59) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_25/gli-stati-l-ordine-mondiale-b249be6c-933b-11e5-a439-66ba94eb775e.shtml Titolo: Sabino CASSESE Democrazia a rischio? Catastrofi annunciate (e non vere) Inserito da: Arlecchino - Dicembre 09, 2015, 07:24:34 pm Democrazia a rischio?
Catastrofi annunciate (e non vere) Di Sabino Cassese Si moltiplicano le voci di allarme sullo stato della nostra democrazia. L’astensionismo rende debole la rappresentanza. I cittadini sono privati del potere di scegliere i loro rappresentanti. Il governo fagocita il Parlamento. La dirigenza politica è inadeguata sul piano istituzionale e nello spazio internazionale. Vi sono un uomo solo al comando, presidenzialismo strisciante, pericoli di autoritarismo. Le riforme avviate vanno nella direzione sbagliata e ci conducono fuori della democrazia parlamentare e del disegno costituzionale. I poteri si spostano dallo Stato alle oligarchie finanziarie e industriali internazionali. Sono corrette queste diagnosi catastrofiche? C’è qualcosa di vero in questi segnali di pericolo? Gli indicatori dello stato di salute della nostra democrazia non confermano queste interpretazioni allarmistiche. Se si sommano tutti i rappresentanti popolari periodicamente eletti in tutte le sedi di decisione (Comuni, Regioni, Stato, Unione Europea) si può dire che poche nazioni danno tanta voce alle scelte popolari quanto l’Italia. Se, poi, si calcolano regolamenti comunali, leggi regionali e nazionali, direttive e regolamenti europei, si nota che gli organi rappresentativi sono in buona salute, attivi, pronti a fare e disfare leggi e norme (qualche volta, anzi, troppo attivi). Se si considera il ruolo svolto dai contropoteri, si registra una loro complessiva crescente indipendenza, maggiore in alcuni casi, come quello delle corti, minore in altri, quale quello delle autorità amministrative di regolazione. Se si misurano i poteri esercitati dal capo del governo, si nota che essi sono di dimensioni paragonabili con quelli del cancelliere tedesco, o del primo ministro inglese, o di altri capi di esecutivo, e ciò per una ragione semplice: chiamati a collaborare quotidianamente nelle sedi più disparate, dall’Onu all’Unione Europea, dall’Organizzazione mondiale del commercio al G20, i capi del governo debbono necessariamente avere poteri comparabili. Se si considerano le riforme dei «rami alti», quella costituzionale e quella elettorale, si nota che andiamo in una direzione comune a tante altre democrazie, con due Camere a diversa investitura e una formula elettorale che premia la più forte minoranza. Questo non vuol dire che vada tutto bene. Ma lamentare catastrofi oscura alcuni mali del nostro sistema politico, dei quali dovremmo invece preoccuparci. Il primo riguarda la debolezza del capitale sociale. La società italiana non ha mai avuto un buon tessuto e, se ha dato prova di capacità di mobilitazione nelle emergenze, non ha mostrato buone capacità aggregative nella vita di ogni giorno. Ora i corpi intermedi languiscono. Le fondazioni, che si sperava dessero voce alla società civile, sono nelle mani di ristrette oligarchie che si autoperpetuano. I partiti, ridotti in organizzazioni di seguiti elettorali, si sfaldano in Parlamento. I sindacati sono chiusi nel loro particulare. Le élite - quelle poche che abbiamo - si comportano da caste. Il secondo riguarda le forme della dialettica politica. Qui le opposizioni non cercano una voce per sé, un riconoscimento formale, un proprio «statuto», in vista di diventare maggioranza, ma tentano solo di buttare sabbia nelle ruote di chi governa. La politica (alleanze, schermaglie, rinvii, tattiche di ogni tipo) oscura sempre le politiche, cioè gli indirizzi, di governo e di opposizione, rendendo incomprensibili all’elettorato le linee di azione delle varie forze. Infine, la macchina dello Stato da troppo tempo è senza una guida. Quindi, i migliori suoi servitori sono disorientati, mentre i peggiori traggono profitto dall’assenza di orientamenti per consolidare posizioni di potere, corporative, o semplicemente benefici e rendite di posizione. Gli utenti, i cittadini, subiscono e si lamentano, pagando la tassa occulta che deriva dalla cattiva gestione dei servizi. Sono questi i veri problemi, che gli annunciatori di catastrofi finiscono per oscurare. La loro soluzione non è facile, non dipende dal governo, è legata alla storia, al modo in cui si è formata la società italiana, al ruolo svolto dalla classe dirigente, al non sanato divario tra Nord e Sud, alla insufficiente cultura organizzativa diffusa, allo stile e ai costumi della politica. Questo non vuol dire che non possano essere affrontati e risolti. Vuol dire che richiedono un’opera di ingegneria sociale lunga e complessa, non pianti, sgomenti e allarmi. 9 dicembre 2015 (modifica il 9 dicembre 2015 | 07:45) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_09/catastrofi-annunciate-non-vere-27442e8a-9e38-11e5-a090-5b8c3aeb1ca0.shtml Titolo: Sabino CASSESE Il paradosso delle regole (inesistenti) per i magistrati Inserito da: Arlecchino - Dicembre 23, 2015, 06:14:27 pm Il paradosso delle regole (inesistenti) per i magistrati
Di Sabino Cassese Prima un magistrato siciliano e uno napoletano, ora, per condotta ben diversa e persino autorizzata dal Consiglio superiore della magistratura (incarico non retribuito all’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio dei ministri), uno aretino: nell’attesa di rapidi chiarimenti da parte degli inquirenti e del Consiglio superiore della magistratura, questi segni di crisi di alcune parti del sistema giudiziario, complessivamente sano, indicano che c’è un vuoto di regole di condotta. Un vuoto che potrebbe essere riempito da un forte spirito di corpo, da un’etica condivisa dalla maggioranza; o che potrebbe essere colmato da una coraggiosa reazione del Consiglio superiore della magistratura; oppure un vuoto al quale dovrà porre rimedio il legislatore. C’è carenza di regole morali e giuridiche e, dove presenti, sono elementari o rudimentali. E non basta siglare protocolli di intesa con Cantone, invocando l’Autorità nazionale anticorruzione da mettere per ogni dove. Bisogna rendersi conto che più il sistema giudiziario si sposta verso il centro del potere e il cuore dello Stato, più diventa inaccettabile che i magistrati siano tanto legati ai luoghi dove si esercita il potere, sia la sanità, o l’amministrazione, o la politica, o gli uffici legislativi. Questo è un paradosso di cui il corpo dei magistrati dovrebbe rendersi conto: più essi parlano al popolo e all’opinione pubblica in nome della giustizia, più forte diventa il bisogno che la loro legittimazione discenda dalla loro indipendenza e imparzialità. Un altro paradosso è questo. Grazie a leggi che hanno affidato la loro attuazione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e all’Autorità nazionale anticorruzione, il personale politico e il personale amministrativo è ora stretto da norme talora eccessivamente severe in materia di incandidabilità, conflitti di interesse, incompatibilità, incarichi esterni, altre regole di condotta miranti ad assicurare l’imparzialità dello Stato. I magistrati, quelli ai quali spetta il potere ultimo, quelli che possono decidere della dignità e della libertà delle persone, quelli che possono mettere alla gogna e talora tenere alla gogna per anni indagati, sono invece immuni da queste norme di condotta. Conosco l’obiezione: anche i magistrati vivono in una società, hanno famiglia, fanno parte di gruppi, associazioni, comitati di volontari, sono depositari di saperi specialistici, non possono recidere tutti i legami con il mondo circostante. Ma a speciali poteri debbono corrispondere doveri particolari di astenersi, di isolarsi, di evitare rapporti. La Corte costituzionale l’ha detto a chiare lettere, sia in termini generali, sia quando si è trattato di salvaguardare stipendi e pensioni dei magistrati dai tagli disposti dal Parlamento. Per la loro posizione, i magistrati non debbono essere costretti a negoziare con il governo il loro trattamento economico. Ma proprio perché non debbono essere costretti ad agire come gruppo di pressione a difesa del loro trattamento economico, essi debbono astenersi da rapporti che possano stabilire legami, o dare il segno esterno di legami in conflitto con la loro funzione imparziale e indipendente. Per questi motivi sono urgenti interventi moralizzatori, non quelli sanzionatori, ma quelli preventivi, che fissino regole chiare sulla partecipazione, in generale, dei magistrati alla vita pubblica, sui conflitti di interesse, sulle incompatibilità, sugli obblighi di astenersi, sulle incandidabilità, sugli incarichi esterni. In una parola, c’è bisogno anche e soprattutto per i magistrati di quelle «regole dell’onestà» che essi fanno valere ogni giorno nei confronti di tanti cittadini. 21 dicembre 2015 (modifica il 21 dicembre 2015 | 09:07) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_21/paradosso-regole-inesistenti-magistrati-11d3021a-a7a7-11e5-927a-42330030613b.shtml Titolo: Sabino CASSESE I burocrati e il passo che manca Inserito da: Arlecchino - Gennaio 25, 2016, 11:40:36 pm I burocrati e il passo che manca
Di Sabino Cassese «Un buon passo avanti», l’ha definito il presidente del Consiglio dei ministri. Dei primi dieci testi di riforma amministrativa conosciamo i titoli e la direzione di marcia, che è quella giusta, nel segno della semplificazione. Qualche anno fa, venne calcolato in una decina di giorni per anno il tempo sottratto in media a ciascun italiano maggiorenne dai contatti con la burocrazia. Se un governo riuscisse a restituire anche la metà di questo tempo agli italiani (e a eliminare le rendite parassitarie dei mediatori che servono ad agevolare questi rapporti), compirebbe una fondamentale opera di giustizia risarcitoria. Ma semplificare non è facile, perché gli stessi governi che si propongono questo obiettivo, spesso per giusti motivi (ad esempio, aumentare la trasparenza e ridurre la corruzione), introducono nuove complicazioni. Questo primo pezzo della riforma viene annunciato con un misto di aggressività (licenziamento dei «furbetti») e di timore (per gli esuberi che produce). Poiché in un’amministrazione ben funzionante c’è poco spazio per «furbetti» (e per corrotti), non si vede perché non fare il primo passo migliorando il modo in cui funziona la macchina dello Stato. La spiegazione va forse cercata in una certa ambivalenza della riforma amministrativa, che spinge il presidente del Consiglio dei ministri a usare il tema dell’anti-burocrazia, senza tuttavia andare fino in fondo. Renzi sa che i vizi del pubblico impiego sono censurati anche in Quo vado? ma con occhio divertito e tutto sommato benevolo, e che il pubblico dipendente è diviso tra la difesa dei suoi piccoli privilegi e la sofferenza per un sistema complessivamente poco funzionante, di cui quei piccoli privilegi fanno parte. Il «piatto forte» della riforma deve ancora venire. È la nuova disciplina della dirigenza (per ora ci si è limitati ai dirigenti sanitari, con una soluzione di compromesso), per la quale si deve uscire dal vicolo cieco del sistema di patronato politico imboccato alla fine del secolo scorso, aprendo nuovi canali di promozione a «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi» (è uno dei sogni costituzionali rimasti inattuati). E deve ancora venire il coinvolgimento della pubblica amministrazione nell’opera di riforma. Come osservò qualche tempo fa un acuto osservatore francese, noi italiani mettiamo troppa enfasi sul testo: fatta la legge, pensiamo che sia fatta la riforma. Perché i buoni intenti legislativi e governativi divengano realtà, occorre una cabina di regia, la preparazione della burocrazia al cambiamento, un accurato monitoraggio dell’attuazione e dei risultati, la segnalazione dei punti da correggere. Le riforme amministrative non si compiono da un giorno all’altro, con una sola decisione. Finora, il governo ha dato prova di attivismo, ma non è riuscito a far passare nelle istituzioni il «soffio repubblicano» (Léon Blum adoperò questa espressione al termine della sua esperienza di governo). Tra azione di governo e azione amministrativa vi è ancora scollamento, continue difficoltà, scarso dialogo. Questi si faranno sentire in particolare nella traduzione in realtà del disegno riformatore, che deve ancora affrontare il difficile percorso parlamentare di esame dei decreti delegati approvati dal governo. 23 gennaio 2016 (modifica il 23 gennaio 2016 | 07:39) © RIPRODUZIONE RISERVATA Titolo: CASSESE: «Il paradosso di riportare l’autostrada al costruttore» Inserito da: Arlecchino - Agosto 25, 2018, 05:23:49 pm L’INTERVISTA
Cassese: «Il paradosso di riportare l’autostrada al costruttore» Di Carmine Fotina @CFotina 21 agosto 2018 Un’eventuale procedura di nazionalizzazione ha vincoli costituzionali precisi e presenta rischi di natura economica. Il professore Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, delinea i contorni del caso Autostrade. L’ipotesi di nazionalizzazione lanciata dal ministro Toninelli riapre il tema del rapporto tra pubblico e privato. È giusto invertire la rotta rispetto alle scelte degli ultimi decenni in alcuni settori strategici? È possibile farlo entro i confini del dettato costituzionale? Il termine nazionalizzazione è espressione generica per indicare una pluralità di misure, in particolare una espropriazione, una riserva originaria e una assunzione singolare dell’impresa, atti regolati dall’articolo 43 della Costituzione. Questo articolo richiede che tali misure siano adottate in settori specifici, mediante legge e con indennizzo. Ma sul tema specifico dei servizi autostradali? Nel caso dei servizi autostradali, bisogna considerare che si tratta di attività sottoposta a concessione. E va ricordato che il tratto Genova-Savona fu costruito proprio a cura dell’Anas (che allora aveva diversa natura giuridica rispetto ad oggi) e da questa collaudato. Dopo il collaudo, passò nella gestione di Autostrade (allora società privata in partecipazione pubblica, dell’Iri). L’Anas, ora società per azioni, potrebbe essere considerata come affidataria dell’attività sottoposta alla procedura di “nazionalizzazione”. In tal caso, vi sarebbe il paradosso che l’autostrada ritorna nelle mani di chi l’ha costruita. Sui collegamenti tra concessione di opere pubbliche e partecipazioni statali è comunque tempo di un ripensamento generale? Non dimentichiamo che la costruzione dell’Autostrada del Sole, fatta dalla società Autostrade, viene considerata uno dei grandi successi della imprenditoria italiana, in particolare di Cova; 755 chilometri di autostrade costruite in meno di otto anni, su un territorio orograficamente difficilissimo. Su questa grande impresa Francesco Pinto ha scritto un romanzo (La strada dritta), edito da Mondadori, nel 2011. E non dimentichiamo, invece, in quali condizioni è stata ed è la Salerno Reggio Calabria, che è in gestione diretta dello Stato. Le ipotesi di un ritorno dello Stato attraverso partecipazioni dirette, da Alitalia al caso Autostrade, sopperiscono a un’assenza del mercato o sono un freno al mercato? A questa domanda non bisogna rispondere essendo prigionieri di pregiudizi. Ben venga lo Stato. Ma prima bisogna metterlo in grado di funzionare. Il ministero dei Lavori pubblici – ora delle Infrastrutture e dei trasporti– ha prima visto la fuga dei tecnici (lo storico Guido Melis ha documentato questo fenomeno), poi ha avuto il colpo finale con l’istituzione delle regioni, nel 1970, quando si dissolse il Genio Civile, che tanto bene aveva fatto nel passato. Uno Stato senza tecnici, come può gestire autostrade? Quindi, prima una cura di vent’anni, per riportare nello Stato capacità, per premiare dipendenti maltrattati dallo “spoils system”, per incentivare i migliori. Secondo problema: le risorse finanziarie. Lo Stato si vale di privati anche perché questi possono convogliare risorse finanziarie, oltre a correre i rischi d’impresa, come è evidente per chiunque legga la delibera Cipe 39/2007 sul regime autostradale. In prospettiva, secondo lei come potranno essere fugati i dubbi giuridici che con questi ultimi giorni si stanno addensando sulla gestione delle infrastrutture? Non vedo dubbi giuridici. Nella collana dei saggi di diritto amministrativo che dirigo, l’anno scorso ho pubblicato un volume curato da un gruppo di esperti del settore, diretto da Lorenzo Saltari e da Alessandro Tonetti, intitolato “Il regime giuridico delle autostrade in Italia”, in Europa e nelle principali esperienze straniere (Giuffrè). Da esso emerge che in Italia abbiamo un quadro giuridico del regime delle infrastrutture in concessione che è conforme a quelli degli altri Paesi, in alcuni punti migliore. Tenga presente anche lo sforzo fatto dalla presidenza del consiglio dei ministri, sotto la responsabilità di Fabio Gobbo e ad opera del Nars, in ausilio al Cipe, nel rideterminare i rapporti finanziari con i concessionari. I punti deboli sono purtroppo nel Ministero, che è stato privato di tante energie e competenze e dove pochi valorosi funzionari fanno del loro meglio, e nell’Anas, che ha dovuto subire tanti cambiamenti di natura giuridica negli ultimi anni. © Riproduzione riservata Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-08-20/cassese-il-paradosso-riportare-l-autostrada--costruttore-221911.shtml?uuid=AETtH1cF&cmpid=nl_morning24 Titolo: Sabino CASSESE "Paese reale" e "Paese legale", i cittadini e il diritto di... Inserito da: Arlecchino - Settembre 27, 2018, 12:48:02 pm Corriere della Sera, 10 marzo 2016
"Paese reale" e "Paese legale", i cittadini e il diritto di contare Di Sabino Cassese Accanto all'aumento di offerta di democrazia, all'apertura dei partiti e alla crescita sociale, si registra anche un aumento della domanda di democrazia. I votanti diminuiscono, i partiti si svuotano, i sindacati divengono afoni. Ha ragione Ferruccio de Bortoli (Corriere della Sera, 5 marzo 2016) nel rilevare che si apre un fossato tra cittadini e istituzioni. Il divario tra "Paese reale" e "Paese legale" - come si diceva nell'Ottocento - è un problema che si riaffaccia periodicamente, ma in termini nuovi, in tutte le democrazie. Una volta era questione di ampiezza del suffragio. Conquistato il suffragio universale, è divenuto problema di canali di comunicazione tra società e Stato, prima tenuti aperti da partiti e sindacati (di lavoratori e di datori di lavoro). Questi hanno sempre meno iscritti, sono meno vitali, meno diffusi sul territorio. Non assicurano, quindi, quella trasmissione di domande sociali alle istituzioni che costituisce il loro compito principale. Contemporaneamente, nelle istituzioni, c'è dovunque la necessità di un accentramento dei poteri, imposto dalla globalizzazione: basti pensare ai diversi vertici europei e mondiali, ai quali non possono certo partecipare gli interi governi e che richiedono la presenza dei soli capi degli esecutivi. Questo malessere, se non crisi, della democrazia, emerge in un momento nel quale, paradossalmente, l'offerta di istituzioni democratiche aumenta, gli stessi partiti si aprono, il "capitale sociale" cresce. Basti pensare alla diffusione mondiale di organismi intermedi, tra Comune e Stato, chiamati Regioni, territori, comunità, per dare un'altra voce ai cittadini. Basti pensare alla introduzione di elezioni primarie, sull'esempio americano, per aumentare il tasso di democraticità degli stessi partiti (che, da strumento della democrazia, divengono essi stessi obiettivi della democrazia) e all'aumento del "capitale sociale", costituito da quelle reti di cooperazione che arricchiscono il tessuto comunitario e danno occasione ai cittadini di "svolgere la propria personalità", come dice la Costituzione. L'apparente contraddizione si spiega in un solo modo: accanto all'aumento di offerta di democrazia, all'apertura dei partiti e alla crescita sociale, si registra anche un aumento della domanda di democrazia. Dopo un ciclo secolare o semisecolare - a seconda degli Stati - di vita del suffragio universale, i cittadini si sentono padroni e questo fa emergere la debolezza originaria della democrazia moderna: essa è in realtà una oligarchia corretta da periodiche elezioni delle persone alle quali è affidato il potere (democrazia delegata o indiretta). Di qui la ricerca di rimedi, surrogati o alternative. I referendum, che si prestano però ad appelli al popolo di tipo gollista. La democrazia detta deliberativa, cioè la consultazione dei cittadini sulle politiche pubbliche, che però non può esercitarsi su tutte le decisioni e non può condurre a una integrale socializzazione del potere (un sogno inseguito da varie correnti del socialismo nell'Ottocento e all'inizio del Novecento). Il ricorso alla rete, con tutte le arbitrarietà alle quali si presta. In Italia il malessere dei cittadini è più accentuato perché non funzionano male solo i rami alti, ma anche quelli bassi delle istituzioni, scuole, ospedali, università, trasporti, strade, giustizia. Ne sono un segno i periodici sondaggi sulla fiducia dei cittadini, che mettono in alto forze dell'ordine, chiesa, autorità indipendenti e molto in basso amministrazioni pubbliche, servizi a rete, corti. Giustamente Maria Elena Boschi (Corriere della Sera del 6 marzo 2016) punta su "un Paese più semplice e più giusto", perché il malfunzionamento dei rami bassi produce diseguaglianze tra chi non può fare a meno di servizi pubblici e chi ha i mezzi per evitare di ricorrere a essi. Da - http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/qpaese-realeq-e-qpaese-legaleq-i-cittadini-e-il-diritto-di-contare |