Titolo: Gianni RIOTTA - Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2007, 06:28:01 pm Il mio Amico Aniello
Gianni Riotta Caro Direttore, ieri tu e Bruno Gravagnuolo mi avete dato un tuffo al cuore con il ricordo di Aniello Coppola. Sono dunque passati venti anni, e non due giorni come la mia memoria sembra suggerire, dal giorno di ottobre quando, dalla mia scrivania alla Stampa, ho sentito il centralinista dire, «il direttore da Torino». E dalla macchinetta venne la voce commossa di Gaetano Scardocchia: «È morto Aniello. Fai tu un pezzo». In quella stanza di via Barberini il sabato prima Aniello era venuto a prendermi. Entrambi reduci da anni a New York, un po’ esiliati a Roma, dopo una cena al ristorante cinese con Bimba De Maria. Avevamo deciso di mettere insieme un «Dizionario della politica italiana». Sul modello del Dizionario politico americano di Bill Safire: niente gergo, niente parrucche, la politica spiegata con voce chiara. Andai a incontrare i familiari e i colleghi costernati sul Lungotevere, poi scrissi il pezzo con apprensione, come se Aniello stesse a guardarmi sardonico per cogliermi in eccessi di retorica. Quando ne beccava uno in un editoriale, lampeggiava gli occhi dietro le lenti e sventolava il foglio con ironica furia «Ma ti rendi conto che ha scritto...?» recitando felice ed indignato la prosa melensa del trombone. Aniello Coppola demoliva con mezz’ora di chiacchiere un’intera biblioteca di pregiudizi sulla storia della guerra fredda. Era stato comunista, aveva fatto parte del Comitato centrale del Pci, ma la sua irrequietezza l’aveva spinto a parteggiare per gli ingraiani al terribile XI congresso del 1966. E degli ingraiani era amico, ammirava Rossanda, passava ore a parlare con Pintor sulla terrazza del Manifesto sotto la cupola di San Carlo al Corso, e «la persona che mi era più vicina» lo definì Valentino Parlato. Eppure alla passione per l’astrattezza degli ingraiani, Aniello contrapponeva un pragmatismo disincantato, di nascita partenopea ma forgiato negli anni tra New York e Washington. La sua battuta fulminante «Chi ha detto che è una fortuna? Chi ha detto che è una disgrazia?» che concludeva tante sere passate a discutere nella sua casa sulla Diciannovesima Strada, non era il cinismo del cronista. Era la consapevolezza, ben raccolta nella sua biografia di Aldo Moro allora pubblicata da Feltrinelli (a cura di Carlo Rossella), che la storia non procede per blocchi marmorei, è fluida, imprevedibile. Da ogni avvenimento, per quanto oscuro possa apparirci, possono venire bene, conoscenza, progresso. Vi ruberei troppo spazio per ricordare l’intera personalità di Aniello. L’eleganza, che quando la pioggia ci colse all’apertura della cassaforte dell’Andrea Doria salvata dagli abissi, lo spinse sereno a indossare la giacca fradicia senza camicia. La generosità, dall’aiuto a noi pivelli, all’elemosina che metteva in mano a ogni mendicante della corte dei miracoli nella New York di allora, «Sai - diceva come a schermirsi del gesto nobile - c’è chi dice che bisogna aspettare i grandi mutamenti sociali, ma intanto mandiamo questo poveretto a cena». Dalla passione per il Napoli, alla curiosità con cui cercava nella rivoluzione di Reagan spunti, riflessioni, ami per pescare nuove idee. Morto al crepuscolo della guerra fredda che aveva determinato l’intera sua vita, Coppola provava, con la sua conversazione, i suoi articoli e i suoi pensieri che nella storia non ci sono "viva ed abbasso", come ammonisce Vittorini in un suo racconto. Aveva capito che la storia della sinistra europea era a un bivio, consapevole che occorreva un nuovo pensiero, che del male del passato occorre liberarsi senza indugi. Non c’era in lui malinconia per gli idoli perduti, rancore, reducismo, arroganza nel sentirsi - con spocchia - il solo a curarsi del mondo e delle sue ingiustizie. Era, al contrario, persuaso che la giustizia sia semplice da riconoscere, meno affamati, ogni giorno. E che il progresso non sia perdere allegria, felicità, gioia di vivere. Me l’avete fatto rivedere elegante e sereno nella vostra foto (dietro fa capolino Pippo Maone): mi mancano la sua generosità, il garbo, l’allegria. Anié: non passo mai davanti a un mendicante senza onorare la tua lezione, il Napoli è pure in A, avevi ragione, «chi ha detto che è una disgrazia». g.riotta@rai.it Pubblicato il: 18.10.07 Modificato il: 18.10.07 alle ore 13.13 © l'Unità. Titolo: Gianni Riotta Occidente, non è ancora mezzanotte Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2008, 04:56:51 pm CONTRO I CATASTROFISMI
Occidente, non è ancora mezzanotte di Gianni Riotta L'apologo sta facendo il giro del mondo. Il vice primo ministro cinese Wang Qishan apre una riunione con dignitari americani e non resiste al sarcasmo «Mi pare che voi maestri abbiate parecchi problemi eh?». Come non dargli ragione? Le borse a rotoli, due guerre impopolari, il sogno americano nella polvere. L'idea di mercato e democrazia come guida verso sviluppo e tolleranza irrisa da Chávez e Chomsky, da Le Monde Diplomatique e dal regista Michael Moore. La crisi delle Borse porta pensatori apocalittici come Toni Negri a gongolare per la vittoria della «moltitudine» sull' «Imperium», e analisti raziocinanti come Barbara Spinelli e Sergio Romano all'amara constatazione: un'era è finita, la débâcle è morale, economica, geopolitica e culturale. Aveva ragione Paul Kennedy, «fine dell'impero americano», ha ragione Fareed Zakaria, «viviamo nel mondo postamericano ». Non hanno forse stabilito i saggi dell'Accademia del Nobel che non si possono premiare gli scrittori americani perché spacciatori di «chiacchiericcio e mass media»? Meglio laureare il Carneade Le Clézio e in bocca al lupo a chi di voi deciderà di dargli un'occhiata. Se il declino americano è assodato, quello dell'Occidente seguirà da presso, l'Europa non ha fatto in tempo a scendere dal Titanic Usa, affondato da avidità e consumismo, hedge fund, McDonald's, Bush e Internet. Perché Putin scivola verso l'autoritarismo? Per colpa degli americani che accerchiano Mosca, assicura lo spaesato Gorbaciov. Gli investimenti a pioggia seguiti alla caduta del Muro, il seggio nel G8, gli sforzi di cervelli come Jeffrey Sachs, perfino la stolta omertà sullo sterminio in Cecenia? Tutto dimenticato. Non c'è dubbio che queste sconsolate conclusioni abbiano elementi di giudizio. Se però, in tempi di buio pesto, accendiamo la fiammella del dubbio (Brecht ne predicava l'elogio) dobbiamo ricordare che spesso la Storia è capace di ribaltare i giudizi del presente, dai più ameni ai più dispeptici. E' vero: il presidente George Walker Bush gode oggi solo del 22% dei favori nei sondaggi, e quando ho detto al mio amico Charles Kupchan, ex consigliere di Clinton, di ritenerlo il peggiore del XX secolo, Charles mi ha obiettato «Perché non di sempre?». Ma, attenti, anche Harry Truman chiuse nel 1952 con 80 americani contro ogni 100 e oggi è ricordato come uno dei grandi presidenti. Certo la storia dovrà essere assai contorta per vendicare gli errori di Bush junior, ma già la copertina della rivista Foreign Policy, non certo covo di conservatori, annuncia «Il cow boy vi mancherà», ipotizzando che l'ottimo rapporto con Cina e India, la pressione sull'Iran e il nuovo Iraq saranno punti a favore di George W. Sarà così? Dubito, ma son certo che le previsioni di declino occidentale, il jingle geopolitico del 2008, sono infondate. Oswald Spengler coniò lo slogan nel 1918 con il best seller omonimo Il tramonto dell'Occidente e cinque anni prima Luigi Pirandello aveva deprecato nel suo capolavoro politico I vecchi e i giovani la fine della democrazia. Il mondo a venire, certo, non avrà più gli occidentali nel ruolo di unico leader, ma è un processo cominciato già dopo la Seconda guerra mondiale, quando Cina, India e Africa si sottraggono al dominio coloniale. Simone Weil trovò, trionfo del paradosso, che per gli asiatici la caduta di Parigi sotto Hitler fosse un buon giorno, finalmente potevano liberarsi dal giogo francese. Attenti ai paradossi, anche se vergati da raffinate autrici: la caduta di Parigi fu tragedia assoluta e se Hitler non fosse stato battuto non ci sarebbe stata «libertà» in Asia, ma schiavitù sotto la sferza giapponese. La Conferenza di Bandung già nel 1955 preconizzò, per l'entusiasmo del Che Guevara, una leadership «senza uomini bianchi». Non ne venne il Paradiso, ma dolori e massacri per i Paesi poveri. A liberare le masse indiane e cinesi dalla fame è il deprecato mercato: guardate alle cartine commerciali, nei distretti dove c'è accesso ai commerci la miseria è stata battuta, resiste in quelli che ne sono esclusi. Deng Xiao Ping è un eroe del XX secolo. È bene dunque che gli americani, come promettono di fare i senatori Obama e McCain, si liberino dall'arroganza che tanti danni ha fatto. È bene che l'Occidente rinunci agli egoismi che seminano sconfitte, vedi i sussidi all'agricoltura che affamano l'Africa. È l'ora di aprire il G8 a Cina, India, Brasile. È ridicolo che tra Fondo Monetario e Banca Mondiale il Lussemburgo conti quanto la Cina. Ma è ridicolo anche che l'Unione Europea non sappia darsi un seggio unico al Consiglio di Sicurezza Onu, né una Costituzione, né un piano comune davanti al crac. Sono i vizi dell'Occidente, Usa in primis Europa seconda, a trascinarci nel gorgo economico ed etico. Non saranno tuttavia la claustrofobia protezionista, o le dittature soft alla Putin, Pechino e Chávez, a riavviare la prosperità. Tolleranza, iniziativa, libertà individuale, democrazia, libero scambio sono le virtù che ci tireranno fuori dal caos. Chi riluttasse ad abbracciarle perché troppo «americane», «occidentali», troppo «fardello dell'uomo bianco» alla Kipling, rilegga il premio Nobel Amartya Sen: sono virtù antiche, diffuse e praticate anche nel «Terzo Mondo » da secoli. Non sono valori «americani », né «occidentali», sono patrimonio dell'umanità e se le spegniamo ci sono le tenebre. 13 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: Gianni RIOTTA. Europa ritrova il cuore di leone Inserito da: Admin - Maggio 09, 2010, 06:08:36 pm Europa ritrova il cuore di leone
di Gianni Riotta 9 Maggio 2010 Europa ritrova il cuore di leone. È difficile per le democrazie ricorrere a mezzi estremi e rapidi in una crisi. L'opinione pubblica rilutta davanti a medicine amare, preferisce placebo e acqua zuccherina. Se l'inerzia affliggerà l'Europa in questa lunga domenica di passione, 9 maggio san Beato, gli effetti saranno storici e tutti negativi. La Grecia resterà nella tempesta con la scialuppa in avaria del piano di aiuti Ue e Fmi. Gli altri paesi in apnea, Spagna in testa, vedranno allontanarsi il sollievo. I mercati, turbati per l'incapacità di Bruxelles, volteranno le spalle alla già gloriosa Unione, alla sua valuta così boriosa pochi mesi fa, gli speculatori sguazzeranno nel naufragio azzannando dove possono, come squali. Il presidente Obama teme un nuovo stop globale, forse la recessione. Che domani sia un giorno nefasto non è però scontato e le febbrili riunioni che si tengono mentre leggete, d'urgenza la Commissione Ue poi l'Ecofin, potrebbero, se non invertire, almeno correggere la deriva. È sulla Banca centrale europea che gli occhi si appunteranno. Il presidente Trichet ha certo sbagliato a negare di aver discusso con i suoi uomini di crisi greca – se ne discute in ogni tinello europeo e non alla Bce? – e certo l'ha fatto sperando di calmare malumori finanziari che ha invece aizzato. Domani potrebbe guidare un massiccio intervento e stendere "uno scudo assicurativo", magari comprando titoli di stato dei paesi alle corde, opzione non amata in Bce. La sfiducia nell'euro e nell'Unione europea non è conseguenza della crisi greca o della crisi finanziaria. Ne è, semmai, concausa nel vecchio continente. L'opinione pubblica smette di aderire al valore politico dell'Unione con il fallimento della Costituzione. L'allargamento all'Est frettoloso e mal spiegato, l'avversione alla Turchia regalata alla propaganda fondamentalista hanno fatto il resto. In coda lo snobismo antiamericano, rampante sotto Bush ma perpetuato anche con il democratico Obama, dopo la crisi di Wall Street. Obama crede tanto poco alla bandiera blu con stelle d'oro che si limita a chiamare la Merkel per discutere di Grecia, mica van Rompuy e neppure Barroso. Per la Casa Bianca siamo tutti tedeschi o comunque i tedeschi decidono per tutti noi: è questo il futuro che ci immaginavamo nell'Europa e nell'euro che tanti vantaggi hanno dato anche alla Germania (addio svalutazioni a go go per far concorrenza nell'export)? Quanti paroloni sui valori del mercato europeo, sul capitalismo dal volto umano, sulla solidarietà, sul codice renano, formiche laboriose gli europei, cicale dissipate gli americani e quanto in fretta s'è dissolta questa fola. Oggi Renania non è più codice di un mercato capace di evitare gli eccessi yankee, ma simbolo di una Germania che ha fatto attendere aiuti alla Grecia e all'euro per una provinciale elezione in qualche borgo tra Renania e Westfalia. La storia può attendere, le clientele democristiane no. La signora Merkel non è stata all'altezza del suo mentore, il cancelliere Kohl. È vero che la stampa popolare di Berlino ha usato i greci come i turchi al tempo della campagne xenofobe, ma un leader deve guidare, non seguire i sondaggi. Ora l'idea di un tedesco suo emissario alla Bce, al posto di Trichet, spaventa, non serve un don Abbondio, meglio l'indipendenza di Mario Draghi, che sa tenere aperto con il Financial Stability Board il dialogo atlantico delle regole. Nessun uomo di stato europeo ha brillato. Il premier spagnolo Zapatero – già idolo degli ingenui di casa nostra – vede quanto sia difficile guadagnare consensi davanti alla débâcle di Madrid: non basta più prendersela col catechismo cattolico, ora occorrono fermezza e strategia e non si vedono. Il presidente francese Sarkozy non riesce mai a mettere la sua sbalorditiva energia a frutto. La Grecia saltava? Lui si occupava di Cina. Adesso spalleggia il ministro Tremonti «quando la casa del vicino brucia non si può stare a guardare», defilandosi dal valzer con la Germania, ma quanto, troppo!, tempo perduto. La Gran Bretagna, fuori dall'euro, con il conservatore Cameron che in Europa si butta nel gruppo degli scettici scombiccherati, deve cercarsi ancora un premier, Londra e Bruxelles son più lontane che sotto la nube di cenere. Il ruolo italiano è stato svolto da Tremonti, che ha detto di no al collega tedesco Schauble, e poi ha chiesto e offerto aiuti. Dopo Trichet, Barroso e De Benedetti anche il fondatore di Repubblica Scalfari - con onestà intellettuale - ha voluto riconoscere al ministro il polso. Ora però il difficile mestiere del dire "no" non basterà più, l'Italia deve crescere, e deve saper crescere in questa crisi di sistema, valori e tradizioni. «Come» non sarà facile dirlo, certo egoismi, corruzione, polemiche non servono, servono progetti razionali, realistici e condivisi. Dal governo Berlusconi deve venire un tono nuovo, fin qui mai ascoltato, responsabile e consapevole del momento aspro: dialogare con l'opposizione, soprattutto se Bersani imporrà alle sue riluttanti fila rigore riformista. La campagna elettorale perpetua a chi serve in questo incendio? Che importano i testi del programma di Serena Dandini mentre l'Europa brucia e il sottosegretario Gianni Letta alza - per una volta - i toni parlando di «drammatica» giornata? Entriamo in questa domenica 9 maggio in un mondo nuovo e sconosciuto. Un mondo dove Wall Street riduce in polvere quasi mille punti e miliardi di dollari non per un "errore", un "dito grasso" che manda ordini assurdi di vendita: ma perché nessuno controlla davvero i computer in azione finanziaria e quando Securities and Exchange Commission e Commodity Future Trading Commission cercano di capire cosa è successo non ci riescono. Gli economisti, vedi il nostro Roberto Perotti ma anche Paul Krugman dal suo blog in esclusiva per il Sole, calcolano che sfuggire al default sarà, per Atene, difficilissimo. I leader politici e la Bce con quel che faranno – o non faranno – domani e lunedì devono a tutti i costi cambiare l'equazione. Ma quanto tempo, danaro, speranze, energie e credito perduti povera vecchia Europa, quando straparlavi di "orgoglio" nel respingere il Fondo monetario internazionale, quando ti baloccavi con il miraggio di un Fondo europeo, quando aspettavi i destini renani e la storia del futuro, il 9 di maggio, impetuosa ti si avventava addosso. Lo stallo dell'euro libererebbe ovunque lo spettro del populismo. Non è stagione per chi non ha coraggio. gianni.riotta@ilsole24ore.com twitter@riotta © RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Editrice/IlSole24Ore/2010/05/09/Economia%20e%20Lavoro/1_D_2.shtml Titolo: Gianni RIOTTA - Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2011, 11:39:24 am Marchionne è l'uomo dell'anno.
di Gianni Riotta Questo articolo è stato pubblicato il 31 dicembre 2010 alle ore 08:20. L'ultima modifica è del 31 dicembre 2010 alle ore 07:30. Il futuro busserà con forza alla porta dell'Italia in questo 2011. Sarà duro, di crisi, perché chi chiacchiera di riprese veloci o è travolto dalle feste o non sa cosa dice. I buoni numeri americani, l'eccellente performance 2010 dei paesi nuovi, la tenuta tedesca, non nascondono quello che gli economisti più saggi sanno: vivremo un «new normal», una normalità fatta di costumi, produzioni, ritmi e culture diverse. Ha ragione il nostro Alberto Alesina a richiamarci alla realtà, il mercato ha conosciuto scacchi e fallimenti tra la fine del XX e l'esordio del XXI secolo. Ma sta traendo centinaia di milioni di uomini dalla fame in America Latina, in Asia e presto in Africa, dopo averlo fatto con i nostri nonni e bisnonni in Europa e America. Non è la globalizzazione ad avere ridotto e messo a rischio il lavoro tradizionale nel nostro mondo, è la tecnologia che ha ridotto il numero di addetti per tanti mestieri, dalla fabbrica, ai servizi, alle burocrazie. Il nuovo lavoro si creerà dal sapere nuovo, dall'innovazione, da start-up capaci di disegnare il magico triangolo della ricchezza 2.0: laboratori di ricerca e università, aziende che cambiano ogni giorno, infrastrutture fisiche e immateriali di rete, intessute dall'amministrazione pubblica. Così il mondo si è messo in movimento, così il mondo si batterà nel 2011 per creare ricchezza e per contendersi quella esistente. Così il mondo va, dalla Cina che compra debito greco, mettendo un piede in Europa come ha fatto in Africa mentre tiene d'occhio il mercato dei minerali rari, agli Stati Uniti che il professore Kennedy conferma in declino ma che il giovane presidente Obama vuol tenere in corsa, al Brasile liberista dell'ex presidente Lula (che si tiene il pessimo Battisti in omaggio ai vecchi gauchisti), all'India incapace di controllare i conflitti etnici, di liberarsi della burocrazia, ma forte nel software e nell'uso intelligente del background orientale e britannico. Per l'Italia, ferma, ipnotizzata dal passato e dalle sue fruste contese, in scacco tra il dominatore della politica degli ultimi tre lustri, Silvio Berlusconi, incapace di riformare l'economia, e un'opposizione incapace di riformare se stessa, sarà un anno cruciale. Chi si illudesse di passarlo traccheggiando, con un governo in bilico, una politica biliosa, un giornalismo isterico, un sindacato nostalgico di un'industria che non esiste più, imprese incapaci di misurarsi con la globalità, l'opinione pubblica chiusa su se stessa, perderebbe 365 decisivi giorni. Quanto tempo sprechiamo a baloccarci col passato! La riforma Gelmini è elogiata dai suoi fan come «killer del 1968» e deprecata dai suoi critici come «killer del 1968». Sergio Marchionne riceve gli applausi di chi lo considera il «matador della concertazione burocratica seguita all'autunno caldo del 1969» e i fischi di chi lo detesta per la stessa, inane, ragione. La destra insulta la sinistra come «comunista», la sinistra replica dando alla destra dei «fascisti». Naturalmente le speranze, le utopie, le ideologie, le dittature, i fallimenti, i sogni e le sconfitte del Novecento nulla c'entrano. E troppi, dai fracassoni del Pdl ai duri della Fiom, incapaci di analizzare il presente usano il passato per demonizzare gli avversari. Nel 2011 dovrà essere l'intera classe dirigente italiana, nell'accademia e nella produzione, nella cultura e nella politica, di fede e laica, giovane e no, nella finanza, nell'amministrazione, al nord e al sud, a maturare e ad assumersi la responsabilità del futuro. Non sarà la batracomiomachia Pro e Contro Berlusconi a dirimere le difficoltà. Non sarà la sopravvivenza del governo, legato infine a un pugno di voti raccattati per caso o per necessità, non saranno le elezioni anticipate, per la seconda volta dal 2008, a salvarci dal dilemma. Illudersi che la «colpa» sia delle Caste e delle Cricche che tanto detestiamo serve a poco, se non a fare le fortune degli indignati cronici. È colpa di tutti noi, e segnatamente di chi occupa posti di responsabilità a qualunque titolo, se non riusciremo a rinnovarci, perduti in un labirinto da noi stessi costruito. Abbiamo scelto con i colleghi del Sole 24 Oreil Ceo della Fiat-Chrysler Sergio Marchionne come uomo dell'economia italiana 2010e non perché ne condividiamo ogni singola mossa, né perché non ne vediamo i singoli errori e ritardi, o le accelerazioni solitarie e gli strappi. Lo abbiamo scelto perché, senza indugi, ha posto la nostra classe dirigente davanti al dilemma della post modernità: o si compete con il mondo secondo le regole del mondo, o il mondo inesorabile ci lascia alle spalle. Spiace vedere il sindacato dividersi, spiace vedere una sigla storica come la Fiom attardarsi a parlare di «diritti» come se anche brasiliani, serbi, cinesi, africani non avessero «diritto» alla dignità. Il vero diritto al lavoro che la Costituzione tutela è creato da un'economia capace di competere oggi, non ai tempi dell'inchiesta di Engels sulla classe operaia di Manchester. Uomini di senno come Fassino, Chiamparino, il giuslavorista Ichino invitano il Pd ad accettare la sfida di Marchionne, senza sconti e senza censure. Tutto il futuro della segretaria Cgil Camusso è rinchiuso in questo bruciante esordio: o tiene insieme i suoi nella modernità, o finirà con i sindacalisti del Museo delle Cere del Passato, roboanti nei comizi, inutili a difendere il lavoro italiano. Bonanni ci sta provando, lasciarlo solo è assurdo. Noi del Sole abbiamo scritto prima di tutti che l'impatto profondo della crisi finanziaria sarà sulla società, con la crisi del ceto medio e dei suoi consumi studiata da Raghuram Rajan. E se i consumi si restringono sarà difficile riavviare le imprese. Ma l'idea, già così inutile negli anni Settanta, che ci sia un «caso italiano», una formula «nostrana» per salvare compagnie aeree, di automobili, riformare le università, innovare i mercati, oggi ci atterra.Solo guardando al futurosenza paura ritorneremo quel che eravamo e possiamo ancora essere: italiani padroni, non vittime, del nostro destino. È questo l'augurio affettuoso che facciamo alle lettrici (siete tante, una ogni tre dei nostri lettori: grazie!) e ai lettori. Di un 2011 in cui tutta l'Italia, come l'Angelo della Storia immaginato dal filosofo Walter Benjamin da un disegno di Paul Klee, pur con lo sguardo fisso al passato sappia volare al futuro. Benjamin diceva che dalle macerie del passato nasce il progresso e per questo c'è chi gli ha dato del pessimista, sbagliando, perché la verità è l'opposto. Non importa di quante macerie siano ingombri il nostro passato e presente. Da ogni frammento è possibile costruire il progresso nel futuro: e se non ne saremo capaci noi italiani, chi mai lo sarà? Buon anno 2011 dunque. gianni.riotta@ilsole24ore.com twitter@riotta ©RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-12-30/riapriamo-nostro-futuro-giorni-230957.shtml?uuid=AYYR5svC Titolo: Gianni RIOTTA - La pace che unisce, le guerre incivili che ci dividono Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2011, 05:07:16 pm La pace che unisce, le guerre incivili che ci dividono
di Gianni Riotta Questo articolo è stato pubblicato il 09 gennaio 2011 alle ore 14:30. L'ultima modifica è del 09 gennaio 2011 alle ore 14:55. 150 anni fa l'Italia celebrava la sua Unità, ma la giovane Repubblica degli Stati Uniti d'America soffriva la secessione del Sud dall'Unione e la guerra civile che avrebbe fatto strage fino al 1865. Le due grandi anime dell'Occidente democratico, gli Usa e l'Unione Europea, hanno entrambe un catastrofico conflitto nel Dna. L'Ue è nata dalle macerie della grande guerra civile europea, così la chiama lo storico Barraclough, che ha insanguinato il continente dal 1914 al 1989, passando per conflitti, rivoluzioni, colpi di stato e dittature. Ma anche gli Usa, come noi oggi li conosciamo, nascono dalla guerra civile, non meno che dalla dichiarazione di indipendenza del 1776 contro gli inglesi. Prima dello scontro tra Nord e Sud, per mantenere l'Unione e battere la schiavitù secondo gli «yankee» del Nord e per difendere il federalismo degli stati contro Washington e l'economia agricola secondo i «Johnny Rebel» del Sud, gli Usa erano una comunità, non una nazione. Il dollaro, il budget, la Federal Reserve, i dazi e le tariffe, le università, il sistema fiscale, il corredo ideologico dei partiti, l'esercito nazionale, la forza del governo federale, l'idea dei diritti universali, il carisma della Casa Bianca, la vocazione industriale, i rapporti tra Congresso, presidenza e vertici militari, tutto quel che associamo all'idea di America nasce dalla guerra civile. La cui dimensione, fisica, geografica, politica, culturale, religiosa, militare raramente (come argomentano per noi Massimo Teodori e Christian Rocca) gli europei hanno compreso. 620mila caduti e mezzo milione tra feriti e amputati significano che durante la guerra civile 1861-1865 caddero tanti americani quanti han perso la vita negli altri conflitti della nazione, dalla guerra di Indipendenza all'Iraq. La dimensione della carneficina è per noi inconcepibile. In otto anni di guerra in Iraq e in dieci in Afghanistan gli americani han perduto circa seimila uomini. Nella sola battaglia di Gettysburg, dal primo al 3 di luglio del 1863 ci furono oltre settemila morti, 27mila feriti e 10mila dispersi. Per gli europei, lettori de La Capanna dello Zio Tom e amanti al cinema di Via col Vento, è rimasta la guerra sulla schiavitù: che fu certo la miccia principale della battaglia, anche se, calcola lo storico Keegan, su 5 milioni di abitanti del Sud solo 48mila possedevano oltre 20 schiavi e la maggioranza non ne aveva affatto. Eppure difesero quella mostruosa barbarie, persuasi di battersi per l'autonomia dallo Zio Sam federale, come dopo di loro tantissimi americani han combattuto «Washington», a destra e sinistra, dal 1968 al Tea Party. Il generale Grant, che aveva guidato il Nord alla vittoria e fu poi eletto presidente, chiuse le sue memorie di guerra con speranza «Siamo alla vigilia di una nuova era di armonia tra Unionisti e Confederati» e sembrava avere ragione se già nel luglio del 1913, per ricordare il mezzo secolo da Gettysburg, gli ultimi reduci della suicida carica del colonello sudista Pickett, ripeterono, capelli e barbe canute, il loro gesto eroico sotto gli occhi ammirati dei reduci nordisti, ex nemici ora connazionali. Ricordare il passato per capire il presente è esercizio che gli americani faranno ora per un anno, a un secolo e mezzo dalla loro guerra civile. Lo stesso impegno toccherà a noi, e bene fa il presidente Napolitano a incoraggiarci a rivisitare le glorie e le tragedie del nostro passato non per rivincite e faide, ma per ripercorrere insieme il cammino più difficile. Le guerre civili, l'americana, l'europea e la nostra, sul campo dal 1943 al 1945 e ideologica dal 1945 a oggi, devono infine chiudersi e ritrovare l'armonia auspicata così in fretta dal generale Grant. Non è facile: il saggio presidente unionista Lincoln che tanto aveva fatto per evitare lo scontro, appresa la notizia della resa del generale sudista Lee ad Appomatox chiese alla banda di suonare il popolare inno Dixieland, caro ai ribelli, reclamandolo di nuovo come «americano». Non sapeva che l'odio l'avrebbe ucciso di lì a poco. Non è facile ma è obbligatorio se Usa, Europa e Italia vogliono vivere nel XXI secolo senza i veleni del XIX e XX, che ancora ieri sera tardi, mentre scrivevamo, hanno di nuovo fatto vittime, con la sparatoria in Arizona dove è anche rimasta ferita la deputata democratica moderata Giffords: e vedremo se si tratta di un matto isolato o di reclute del nuovo odio politico. Alla firma della pace dopo la guerra civile Usa, il generale Lee fu imbarazzato dal vedere tra glu ufficiali unionisti il colonnello Ely Parker, scuro di pelle, che scambiò per un nero. Appreso che Parker era un indiano della tribù dei Seneca, amico personale di Grant, sorrise imbarazzato «Bene, allora son contento di incontrare un vero americano». Con semplice dignità il colonnello Parker replicò «Siamo tutti americani adesso». Ecco uno slogan perfetto per questo difficile 2011 che il populismo vorrebbe lacerare di nuovo: replicare con calma davanti alle polemiche, agli insulti, alle ingiustizie, alle calunnie, alle offese gratuite dei gradassi faziosi: «Siamo tutti italiani, europei, americani adesso». Cogliere quel che ci unisce, e mettere fuori dal campo i seminatori nefasti di zizzanie. © RIPRODUZIONE RISERVATA DALLA PRIMA http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-01-09/pace-unisce-guerre-incivili-081015.shtml?uuid=AYm3QQyC Titolo: GIANNI RIOTTA. E Draghi farà il tedesco Inserito da: Admin - Settembre 10, 2011, 10:53:54 pm 10/9/2011
E Draghi farà il tedesco GIANNI RIOTTA E se ci ritrovassimo - magari solo per un po’ - con ben tre «italiani» al vertice della Bce? Con il presidente Draghi, che si insedia tra meno di due mesi, il banchiere Bini Smaghi, che potrebbe lasciare tra non molto, potrebbe arrivare Jörg Asmussen. Asmussen è viceministro e consigliere fidato della Merkel, Master in Economia alla Bocconi di Milano, nel 1991-1992. Quale sarà l’«Italian job» della nuova Banca Centrale Europea? A sentire il giudizio controcorrente di uno dei migliori economisti europei, i mercati hanno sbagliato a reagire male alle dimissioni di Jürgen Stark: «E’ invece una buona notizia. Stark è un ideologo, come e più di Axel Weber che si dimise in febbraio. Per Draghi meglio lavorare con Asmussen». Davanti a Mario Draghi la nuova crisi delinea un compito straordinario, che metterà alla prova la sua cultura economica, la capacità politica, la fibra personale e morale. Come leader Bce dovrà persuadere i tedeschi a sostenere i Paesi deboli, spiegando loro che non rischiano un «Cabaret» di inflazione e disoccupazione come ai tempi della Repubblica di Weimar. Ma che, al contrario, stabilità del continente, riduzione del rischio debito e fine delle svalutazioni furbette per vendere una lavatrice in più aiuteranno gli orfani del marco. Draghi deve però convincere i greci (ieri dati sull' orlo di quel default che economisti come Roberto Perotti considerano, da sempre, ineluttabile), con spagnoli, irlandesi, portoghesi e noi italiani a ridurre sul serio il debito e cancellare il deficit, a impegnarsi in riforme di struttura, stimolando burocrazie statali e imprenditori cauti, scommettendo sull'innovazione. Non sarà facile. Trichet ha strigliato i tedeschi dicendo che la Bce ha fatto un miglior lavoro della Bundesbank contro l’inflazione. Bene, se quel giudizio l’avesse dato Draghi - si prepari il governatore - ci sarebbe stato un diluvio, con i commentatori populisti di Berlino e Monaco a inveire contro «l’italiano». Ma quando, potete scommetterci, Draghi ammonirà le economie periferiche contro il rischio «default», pungolandole a crescita e sacrifici, allora sentirete i commentatori populisti di Roma e Milano inveire contro «il tedesco» che manda a picco il suo Paese per uno scrupolo contabile. Con la variante dei «Sempre bene informati» che in ogni acquisto Bce di titoli italiani vedranno «un chiaro aiuto a Berlusconi», in ogni stretta nel flusso dei titoli «la mano di Draghi al governo tecnico post Berlusconi». Compito ingrato. Eppure chi conosce il governatore, e non sono in tanti perché si tratta di uomo davvero riservato, assicura che è, per una volta, la personalità giusta. Freddo, non patirà le pressioni internazionali. Passionale, terrà duro su rigore e crescita, la sua ricetta per Europa e Italia. Draghi può essere un leader, mestiere perduto nell'Europa dei premier mediocri dove, non ce ne voglia nessuno, l’esperto di birre trappiste van Rompuy e Lady Ashcroft, presidente e ministro degli Esteri dell'Unione, non hanno saputo dire una parola da ricordare tra tempesta euro e rivolta in Nord Africa. Da leader Draghi ha una sua filosofia: il modello sociale europeo è diverso da quello anglosassone, ma il mercato finanziario globale giudica tutti con lo stesso metro; ogni scelta europea può scontentare questo o quel Paese membro ma alla fine l'Unione deve salvare i cittadini; la Germania è il motore economico del continente e non se ne possono alienare gli elettori, ma senza Europa anche Berlino si impoverisce. Quando si spengono le telecamere, che lo mettono a disagio, Draghi è un italiano che ride, scherza con i colleghi banchieri e i ministri, parla di calcio (la Roma soprattutto). Il criterio della sua nomina dovrebbe valere sempre nell’Ue, vince il miglior candidato «europeo» senza lottizzazione meschina fra nazioni, come nelle vecchie aziende parastatali. In una Bce dove i tedeschi fanno comparsate all’« italiana», perdono la calma, straparlano con i cronisti per poi dimettersi a catena, tocca a un italiano «fare il tedesco» e rassicurare. Draghi non ha interlocutori politici validi e dovrà mediare ogni giorno con governi petulanti: destino duro da uomo solo. Chi ha a cuore quel che resta del progetto europeo, qualunque lingua parli, non può che tifare per lui. Perché senza rigore l’Europa si incatena al debito, ma senza innovare l’economia più obsoleta, si fa patria di disoccupati. Se solo il bocconiano Asmussen desse una mano a convincere la Merkel... riotta.g@gmail.com Twitter.com/riotta da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9180 Titolo: Gianni RIOTTA - Ritorno alle antiche potenze Inserito da: Admin - Settembre 14, 2011, 08:59:58 am 14/9/2011
Ritorno alle antiche potenze GIANNI RIOTTA Quando la Cina riaprì i confini economici che Mao Tse Tung aveva bloccato per due generazioni Jack Welch, amministratore delegato della poderosa General Electric, mandò i suoi manager a Pechino con un monito: «Ragazzi, tornate e fatevi onore, siete il fiore del capitalismo, non avrete problemi con quei burocrati comunisti». Quando i manager, laureati alle top business school americane, portarono a Welch il risultato dei negoziati, l'uomo che la rivista Time ha nominato «migliore businessman del XX secolo» cambiò idea: «I cinesi avevano azzeccato tutto, royalties, strategie, controllo degli spin off, marketing internazionale: sbagliavo io, perché il comunismo è durato poco, qualche millennio di cultura diplomatica ed economica, da Confucio in avanti, pesa di più». Il mondo oggi ci sembra cambiare ogni giorno, ma invece ci rendiamo conto, finita la Guerra fredda, di quanto il peso della storia conti e ci influenzi. Come Welch, sbagliamo perché non sappiamo leggere insieme le carte del passato e del futuro. Per secoli, fino alla Rivoluzione industriale dell'Ottocento, il prodotto interno lordo della Cina e la sua capacità di innovazione tecnologica, dalla bussola alla polvere da sparo, ridicolizzavano l'Europa. Quando i nostri politici vanno a chiedere una mano a Pechino per risolvere in qualche modo la crisi finanziaria italiana, qualcuno parla di «futuro». I cinesi, che ricordano di Marco Polo cronista della ricchezza dell'impero asiatico, sentono di tornare alla normalità. Ieri il ministro delle Finanze brasiliano Guido Mantega ha annunciato che il 22 settembre i Paesi «emergenti» dei Brics, Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, proveranno a capire in che modo contribuire alla ripresa economica americana, che il Piano lavoro del presidente Obama non sembra per ora innescare, e come fermare la crisi del debito in Europa, così intrattabile. Se cercate fra gli scaffali di casa troverete forse ancora quel vecchio saggio del Nuovo Politecnico di Einaudi, «Una zona esplosiva, il Nordeste del Brasile», con la narrazione della povertà estrema dei contadini, la carestia, l'ignoranza. Oggi «Valor economico», il quotidiano economico brasiliano, si preoccupa perché «sarà difficile convincere gli investitori Brics a intervenire nelle economie europee a rischio». Magari un professore a Rio sta scrivendo il saggio «Una zona esplosiva, il Sud Est dell' Europa». Qualcuno parla di «mondo alla rovescia», forse è un mondo che torna alla normalità, nel 1945 gli Stati Uniti producevano da soli più della metà del Pil del pianeta Terra, non era certo sostenibile, né era sostenibile che l'Europa occidentale continuasse con un tenore di vita opulento, e ritmi di lavoro e innovazione non all'altezza della sfida di India e Cina. Se le navi militari americane tornano, invitate dal governo, nei porti vietnamiti dove combatterono fino al 1975, chi conosce la storia solo da «Apocalypse Now», capolavoro kolossal di Coppola, si stupisce, ma ricordatevi che Hanoi ha combattuto per due millenni contro Pechino, per pochi anni contro Washington. La Cina lancia il programma «Due Oceani», il Pacifico e l'Indiano, vara una flotta militare d'alto mare e lo studioso Kaplan già indica nell'Oceano Indiano all'imbocco del Golfo Persico l'area dove la competizione Usa-Cina da fredda potrebbe diventare calda. Unite nella sigla cara ai giornalisti dei Brics, India e Cina sono invece rivali acerrime per le risorse di Burma. Thant Hyintu, diplomatico delle Nazioni Unite, individua nel nuovo oleodotto da 1600 chilometri che raggiungerà lo Yunnan, in una ferrovia (non ditelo ai nostri No Tav così perduti nel loro sogno medievale) che da Rangoon passerà da Pechino e da lì a Parigi entro il 2016, la grande infrastruttura con cui cinesi e indiani cercheranno di prevalere nell'area. Noi restiamoben lontani. Cinque anni fa la Francia e la Germania puntarono i piedi contro il processo che avrebbe portato, in tempi medi, la Turchia dentro l'Unione Europea. Oggi molti turchi non ritengono più utile al Paese quell'adesione, e l'Europa rimpiange un tasso di crescita impetuoso e una forza militare che servirebbe alle esangui forze armate europee. La generazione occidentale dei baby boomers, i nati tra il 1946 e il 1964, è cresciuta con due certezze, che il dollaro avrebbe garantito l'economia mondiale come l'oro fino alla scelta del presidente Nixon nel 1971, e che l'Europa sarebbe stata ogni anno più integrata e ricca. Oggi i due cardini della nostra vita sono saltati, il dollaro insegue la benevolenza del mondo, soprattutto della Cina, e l'Europa stringe la cinta e rallenta l'unione. Chi se la caverà in questo mondo nuovissimo che vede tornare potenze e costumi antichi? Chi saprà perdere con energia le vecchie identità e certezze, vivendo nel futuro, non nelle pigrizie del passato. Noi italiani, il Paese di Marco Polo, dovremmo essere ben capaci, ricchi di storia ma da sempre poveri di risorse, di fare da protagonisti in questa èra. La nostra manifattura è originale e viva, le famiglie risparmiano, il mondo non ci fa paura. Invece una classe politica inetta, e una classe dirigente egoista, ci lasciano perdere l'occasioned'oro del XXI secolo. E il rango che perdiamo non tornerà presto. riotta.g@gmail.com twitter @riotta da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9197 Titolo: Gianni RIOTTA - Atlantico sempre più largo Inserito da: Admin - Settembre 18, 2011, 04:35:23 pm 18/9/2011
Atlantico sempre più largo GIANNI RIOTTA Oswald Spengler scrisse il best seller «Il tramonto dell’Occidente» nel 1917, ma l’Occidente che il filosofo tedesco dava per spacciato avrebbe vinto le guerre mondiali del Novecento, trionfato contro l’Urss, imposto il modello economico alla Cina e diffuso nel pianeta rock, jeans, computer, web, stili di vita. Chi, nella stagione dei 14 milioni di disoccupati americani e dell’euro indebitato, volesse vendicare il pessimismo di Spengler potrebbe partire dallo sconcertante spettacolo di Wroclaw, in Polonia, con il segretario delle Finanze americano Tim Geithner a spiegare ai ministri delle finanze dei Paesi euro come risolvere la crisi, per sentirsi dire a muso duro dalla collega austriaca Maria Fekter «quanto a fondamentali economici voi americani state messi peggio di noi, non capisco perché veniate a farci lezione…». Geithner ama dire di sé: «Sono un vecchio con la faccia, ahimè, da ragazzo» e davvero faceva tenerezza, piegato, rosso in volto, a illustrare l’equazione logica, agli europei, scolari ribelli davanti al supplente preparato ma imberbe. Non litigate con la Bce davanti al debito euro, ha implorato Geithner, i governi tutti devono collaborare. Dovete bloccare subito una «crisi catastrofica» dando più forza, più euro cioè, ai fondi per i Paesi in crisi. Il timido Geithner non era neppure uscito dalla sua lezione andata male e la macchina della propaganda s’era già messa in moto. In Europa per prendersela con gli americani, indebitati, impoveriti e illusi di avere ancora un impero e invece ormai aristocratici decaduti, come gli inglesi nel 1956 costretti a rinunciare al canale di Suez dal presidente Eisenhower. Londra aveva bisogno di 1800 milioni di dollari per sostenere la sterlina e Eisenhower disse al cancelliere dello Scacchiere MacMillan: «Ok, ma lasciate perdere Suez e l’Egitto». Due anni prima, Washington aveva negato a Parigi l’uso dei cento aeroplani che avrebbero salvato Dien Bien Phu, fortezza francese assediata in Vietnam dal generale Giap condannando l’impero francese in Indocina. MacMillan osservò allora: «Fra due secoli gli americani proveranno l’umiliazione che proviamo noi oggi». In America la macchina della propaganda sottolinea da destra lo smacco di Geithner, da sinistra invita il presidente Obama a non concedere neppure un dollaro a sostegno degli ingrati europei (la Casa Bianca lascerà il compito alla Federal Reserve). Insomma, chi sottovalutava la divisione Stati Uniti-Europa alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, prende atto adesso che l’Atlantico s’è allargato per sempre e le risposte che americani ed europei daranno a crisi economica, emergenza nel Mediterraneo e in Medio Oriente, futuro della Nato, ascesa cinese, saranno opposte. Il populismo rampante in Europa, dalla Scandinavia al Nord d’Italia, ha sempre toni antiamericani e detesta l’idea del mercato aperto degli Usa. Il populismo dei Tea Party in America odia l’Europa e ogni idea di Stato sociale in stile «Ue». Il danno è fatto, anche grazie a leader provinciali. Non aspettatevi polemiche aperte o rotture improvvise. È un matrimonio finito per mancanza di amore e divergenza di interessi. Dopo la vittoria in Libia il segretario generale Nato Anders Fogh Rasmussen si sgola sulla rivista Foreign Affairs, ultimo bastione atlantico, a spiegare che gli europei devono aumentare il budget per la difesa, tagliato dopo la caduta del Muro di Berlino del 20%. Allora l’Europa copriva un terzo delle spese Nato, oggi solo un quinto. Intanto la Cina ha triplicato la spesa militare e l’India, erede del pacifista Gandhi, rilancia del 59%. Anche Washington, indebitata, taglia il budget ingordo del Pentagono, e quello che una volta amici e nemici chiamavano «Occidente» perde forza di intervento, nelle emergenze economiche e nelle guerre. America ed Europa continueranno a negoziare e litigare davanti alla richiesta di Stato dei palestinesi all’Onu, a Israele, ai trattati sui commerci e il clima bloccati, e il «multilateralismo» si fermerà senza spinta comune. Cina, India, Russia, Brasile e Turchia saranno leste ad ottenere vantaggi di parte. L’identità occidentale è orgogliosa del proprio midollo di dissenso e critica, e negli atenei, fra gli intellettuali, nei siti web che hanno preso il posto dei caffè al Quartiere Latino di Parigi o al Greenwich Village di Manhattan, tra pamphlet del linguista Chomsky, documentari del regista Michael Moore e invettive del filosofo Slavoj Zizek, il divorzio Usa-Europa susciterà entusiasmi e fremiti di rivolta. Per i dissidenti ovunque nel mondo, a partire dalla Cina, per i conflitti che hanno bisogno di una mediazione franca, per i trattati internazionali in panne, sarà invece un’irrimediabile sconfitta. Presto Washington e Bruxelles dovranno fare i conti, in difesa di dollaro e euro, con Cina e India. E impareranno, non nei due secoli previsti da MacMillan ma in due lustri, quanto pesa la divisione occidentale. Spengler aveva torto, «occidente» non è solo un sistema di potere imperiale ed economico ma anche, soprattutto, valori, libertà, democrazia, benessere, giustizia, tolleranza. L’ultima volta che ho parlato con Gianni Agnelli, poco prima che morisse, nei giorni foschi della rottura Bush-Europa, l’Avvocato insistette: «Scrivete sull’unità Europa-Usa, se l’Atlantico si divide è un disastro economico, politico, diplomatico. Non vi stancate, battetevi». Se l’Avvocato fosse vivo oggi dovremmo, con malinconia, riconoscere di non avercela fatta nella battaglia che ci indicava. riotta.g@gmail.com twitter@riotta da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9212 Titolo: Gianni RIOTTA - In tv Strauss-Kahn è italiano, ma va in galera Inserito da: Admin - Settembre 24, 2011, 11:45:44 am 24/9/2011
In tv Strauss-Kahn è italiano, ma va in galera GIANNI RIOTTA Povera Italia, possiamo dirlo? La rete televisiva americana Nbc lancia la nuova stagione del serial Law and Order Special Victims Unit con un episodio che copia lo scandalo dell’estate, le accuse di stupro contro il direttore del Fondo monetario Dominique Strauss-Kahn. La sceneggiatura è ricalcata come una miniatura, la cameriera profuga in lacrime, le leader femministe schierate, il dignitario straniero arrestato dopo la fuga dall’hotel di lusso, a bordo del jet in prima classe. Poi le manette e la passerella davanti ai paparazzi, con tanto di umilianti flash, l’imputato difeso da avvocati di grido. Interpreta Strauss-Kahn, 62 anni, un bravissimo Franco Nero, 69 anni ma molto in forma: e qui, per nostra sfortuna, il copione cambia mano. Perché l’unica differenza che gli americani inseriscono con il caso Strauss Kahn è di nazionalità. I l dignitario straniero non è francese, ma italiano, il diplomatico Di Stasio, considerato «ormai pronto a sostituire Silvio Berlusconi come presidente del Consiglio a Roma». E quando gli agenti - che in odore di razzismo lo irridono in finto italiano «Kapischi?» - arrivano all’aeroporto, Nero-Di Stasio mormora cupo «È una trappola di Silvio Berlusconi, farà di tutto contro la mia elezione». Il resto della puntata scorre identico alle cronache dell’estate, i tabloid smascherano la vittima come bugiarda, vuole ricattare Strauss-Kahn-Di Stasio dopo l’incontro sessuale all’hotel, insomma quel che sapete del processo contro il capo del Fmi. Il colpo di scena è alla fine: Di Stasio, sicuro di sé, ascolta tronfio la decisione della giuria, ma, al contrario di Strauss-Kahn, è condannato. Il francese in odore di stupro e molestie sessuali la fa franca, l’italiano, sia pur antiberlusconiano, va in galera. Perché gli sceneggiatori abbiano dato addosso a un nostro connazionale le colpe di un francese, perché abbiano sceneggiato Law&Order in atmosfera bunga bunga e perché infine abbiano condannato Franco Nero non saprei: ma tutto, in questa storia, indica che la nostra reputazione comune, berlusconiani e anti-berlusconiani senza troppi distinguo, come gli spread sui Bot tedeschi, è in picchiata nel mondo. Paghiamo perfino le colpe altrui, ormai. riotta.g@gmail.com twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9236 Titolo: Gianni RIOTTA - Guerre, attentati e omicidi. Ma oggi il mondo è più pacifico Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2011, 11:36:31 am Cronache
02/10/2011 - CONFLITTI Guerre, attentati e omicidi Ma oggi il mondo è più pacifico Un tazebao per raccontare la pace: secondo la ricerca, sono la scuola e la comunicazione a renderci più disposti alla tolleranza Ricerca ad Harvard: mai nella storia dell’uomo è stato così raro subire violenze GIANNI RIOTTA Georghe Daniel Cimpoesu, il ragazzo romeno ucciso e mutilato a colpi di machete a Torino, non aveva certo mai sentito parlare di «Towton 25», eppure ne ha condiviso la sorte. Anche «Towton 25» è morto sotto i colpi feroci di un’arma da taglio, a circa 35 anni, nella battaglia di Towton, Inghilterra 1461. La differenza tra i due destini è che Georghe è oggi un’eccezione, «Towton 25» la norma del XV secolo. È lo studioso dell’università di Harvard Steven Pinker, in un seminario organizzato dalla rivista «Edge», a ribaltare la nostra persuasione di vivere in un mondo orrido e violento, dimostrando invece che mai, nella storia del genere umano, è stato così raro cadere in guerra, essere feriti o violentati, subire agguati, torture, deportazioni. Georghe anima siti Internet e telegiornali, il suo corpo con il sudario bianco sul marciapiede va sui giornali. Cogne, Perugia, Avetrana, ogni vittima è globale, in pace e in guerra. Da anni rivediamo le Torri Gemelle cadere e ricadere, con i loro tremila morti di cui conosciamo volto e nome, ma la sola battaglia di Antietam, Guerra civile Usa 1862, lasciò sul campo tra morti e feriti 26 mila americani, moltissimi gli ignoti. È per noi difficile ammettere di vivere nel tempo più pacifico dell’Homo Sapiens, a dirlo si rischia di passare da ingenui. Eppure lo psicologo Pinker ritiene sia in corso addirittura un’evoluzione della specie, siamo meno violenti e aggressivi, più portati ad ascolto e dialogo. Lo so, un’ora nel traffico, la coda allo sportello affollato, le cronache metropolitane, gli agguati a Kabul, nel Darfur o in Cecenia, ci rendono scettici. Ma riguardando senza pregiudizi i dati di «Edge», concludiamo che Pinker ha ragione e che non dobbiamo negare, ma consolidare il progresso. «Towton 25» torna alla luce con i lavori per costruire un grande magazzino. Le ruspe scoprono i cadaveri dei guerrieri caduti in quella cittadina inglese nel 1461. Il cadavere numero 25 conserva le fratture craniche, suturate, di tante precedenti battaglie, fino alle otto subite solo in quel 29 marzo. Grazie al computer gli studiosi analizzano la sequenza delle ferite (il cranio si rompe la prima volta seguendo certe linee di resistenza, poi, indebolito, cede con diversa dinamica), il coraggioso Towton 25 non cadde fino al fendente micidiale che gli squarciò la nuca. Allora i nemici gli furono addosso, massacrandolo. Un destino comune nel passato. Nell’America precolombiana, fino al 60% delle popolazioni moriva in guerra, uno su cinque dei nostri antenati preistorici era massacrato negli scontri di clan o in altre violenze. Nel 2005 la percentuale mondiale di morti violente non tocca lo 0,03%. Perfino gli orrori del XX secolo, due guerre mondiali, Olocausto, bombe atomiche sul Giappone, infinite guerre civili e coloniali, non raggiungono le tragedie del passato, con meno di 5 vittime su 100 viventi. L’Ottocento e il Settecento, secoli di positivismo e Lumi sono, in proporzione, assai più sanguinari. Lo «stato di natura» non è dunque l’idillio di bontà sognato dal filosofo Rousseau, semmai il mondo di «lupi» interpretato da Hobbes: un europeo di oggi ha 50 volte meno possibilità di subire violenza rispetto agli antenati medievali. Gli atti del seminario «Edge», disponibili al sito edge.org/conversation/mc2011-history-violence-pinker, confermano che dal genocidio, comune ai tempi dell'Antico Testamento come nelle campagne del generale romano Mario contro Cimbri e Teutoni, allo stupro di massa, alle rapine, la schiavitù, la detenzione senza controlli, ogni abuso contro persona e diritti è in calo. Nel suo prossimo libro, «The Great Big Book of Horrible Things», lo studioso Matthew White, che si definisce con humor nero «atrociologo», elenca i cento maggiori eventi tragici del passato. Solo la Seconda Guerra Mondiale rappresenta, tra i primi dieci, il nostro tempo. <TAB>La violenza cala con l’affermarsi di democrazia, istituzioni internazionali come l’Onu, e, ebbene sì, mercato: commerciamo dove un tempo si sgozzava e rapinava. Sono la legge, lo Stato, la società civile a farci meno barbari. Si fatica ad accettare questa verità storica, i romanzi di Orwell, «1984» e «La fattoria degli animali», le ballate di Fabrizio De André con i caustici ritratti di poliziotti, giudici e secondini, i film di Hollywood con James Dean e Marlon Brando ribelli e fuorilegge romantici contro l’ordine della metropoli, ci fanno deprecare il presente come violento e provare nostalgia di un passato bucolico e comunitario. La campagna delle lucciole di Pier Paolo Pasolini, le mistiche India e Cina perdute di Tiziano Terzani sono fiabe ammalianti, ma nella realtà erano lande di violenza e sopraffazione senza regole, in famiglia, al lavoro dei campi, nei villaggi, sotto le armi. <TAB>I movimenti per i diritti civili di minoranze razziali, etniche e religiose, femminismo e battaglie gay hanno ridotto gli abusi contro chi ha meno potere: siamo ben lontani da giustizia, eguaglianza e pace, ma abbiamo fatto progressi epici, e non comprenderlo ci rallenta verso nuove conquiste. <TAB>Pinker conclude che scuola, cultura e comunicazione ci rendono più disposti a dialogo e tolleranza che possono infine diventare tratti genetici della specie umana. Già Alberto Moravia, in un suo discorso al Parlamento europeo, vaticinava «la guerra diventerà un tabù», come antropofagia e incesto erano stati per i nostri antenati. Il quoziente intelligenza medio va salendo (lo so, si stenta a crederlo, ma fidatevi, è così), preferiamo il negoziato allo scontro brutale e qui Pinker cita Voltaire: «Se vi fanno credere alle assurdità, finirete per commettere atrocità». Georghe è stato abbattuto a colpi di arma da taglio a Torino come il «numero 25» di Towton. Consola che il sangue sparso vada rarefacendosi, ma proviamo pena per ogni morte violenta. Pinker e gli studiosi di «Edge» non fanno notizia perché contraddicono insieme il nostro cinismo e la nostra bontà, i migliori e i peggiori istinti di ciascuno. Eppure accettare il tanto cammino fatto ci porterà a maggiori, non minori progressi. da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/422923/ Titolo: Gianni RIOTTA - La Fortezza del passato che imprigiona l'Italia Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2011, 05:12:04 pm 19/10/2011
La Fortezza del passato che imprigiona l'Italia GIANNI RIOTTA Il 24 novembre del 1967, a Torino, Italo Calvino tenne una conferenza dal titolo «Cibernetica e fantasmi» che è ancora oggi testo cruciale sul nesso tra cultura e informatica. Sei anni prima il poeta Nanni Balestrini aveva elaborato su un terminale Ibm 7070, della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, «Tape Mark», la prima poesia elettronica creata per ascoltare «la voce del computer». L’Italia, ultimo Paese europeo a lasciare l’agricoltura per l’industria, era la prima a riflettere sul futuro della tecnologia, e senza paure: sia Calvino che Balestrini si dicevano persuasi che cultura e computer avrebbero convissuto felicemente, e del resto il personal computer era nato giusto a Ivrea, con lo scienziato italo-cinese della Columbia University Mario Tchou negli Anni 50. L’idillio si spezza presto, già nel 1978 i terroristi distruggono a mitragliate il centro informatico della Cassa di Risparmio di Calabria in odio al progresso e in meno di due generazioni il nostro Paese si chiude al futuro, ignorando o addirittura disprezzando, le idee nuove del mondo. Finiamo così preda di quel pensiero negativo di cui Mario Calabresi ha dato conto commentando gli scontri di sabato a Roma, né purtroppo la paura del futuro è ristretta alle culture estremiste: anche il miracolo economico del Nord-Est ha sottovalutato la tecnologia, spesso usando per i bilanci le vecchie calcolatrici. Ancora oggi le nostre piccole e medie imprese non sfruttano i social network per conquistare il mercato globale. Un terzo delle Pmi fa leva sul mondo per resistere alla crisi, due terzi ne hanno paura, nostalgici dell’economia protetta, come l’ex imprenditore e ora scrittore Nesi. Il governo Berlusconi, intriso della cultura old media della televisione, lesina gli 800 milioni per la banda larga e siamo ultimi in Europa per accesso a Internet, illudendoci di sostituire computer e tablet con due cellulari in tasca. Alla fine questa sarà la più feroce critica che la storia farà al ventennio di governo del centro-destra di Silvio Berlusconi, non avere ammodernato il Paese portandolo nel XXI secolo, come promesso alla coalizione elettorale vasta del 1994. C’è chi (e non sono pochi né poco influenti) si accontenta di mettere sul conto del governo il ritardo culturale del Paese e implicare che, una volta uscito di scena Berlusconi, entreremo nell’Olimpo futuro. Non sarà così ovviamente, perché con il premier non scompariranno i suoi elettori (ancora oggi tra Pdl e Lega la coalizione vanta nei sondaggi un terzo degli italiani), così come - e anche allora tanti si illusero - con la scomparsa di Dc, Psi, Pli, Psdi, ai tempi di Mani Pulite non si dileguarono consenso e culture di quell’area politica. Anche il centro-sinistra, e le sue migliori personalità lo sanno, ha urgente bisogno di un ricambio di idee e progetti, ancor prima che di leader. E’ quindi importante per la classe dirigente importare in Italia il dibattito delle democrazie sviluppate, per esorcizzare il male del passato con il bene del futuro. Radice del mutamento, alla base di ogni protesta contro la crisi, è la trasformazione in corso nell’economia. Il ‘900 ha visto la popolazione lasciare i campi e l’agricoltura per le città e l’industria, ora la manifattura non basta a creare piena occupazione. Il lavoro nasce dall’innesto tra produzione, servizi e sapere e sarebbe bene che intorno a questo nodo vertesse il dibattito in Confindustria per la successione a Emma Marcegaglia. Parlando al saggista Tom Friedman, il sindaco democratico di Chicago Rahm Emanuel lamenta che il nostro anno scolastico è ancora basato sui ritmi agricoli, semina e raccolto, e dal calendario deriva la struttura delle idee, nei budget i professori e i burocrati vengono prima degli studenti. Emanuel detta l’agenda politica futura, che prende idee dalla sinistra di Occupy Wall Street come dalla destra Tea Party: «Investire in educazione e infrastrutture per generare crescita, tagliare gli sprechi nella spesa pubblica, non aumentare le tasse». Oggi le aziende che creano lavoro, conclude il sindaco, non trovano nelle scuole diplomati con la giusta formazione. Perché la scuola legata al mondo agricolo-industriale ignora i nostri tempi. Bill Gates, il fondatore di Microsoft, ha dichiarato a un dibattito del Ted, seminario di ricerca sulle idee del futuro, che il dilemma energetico, petrolio, sviluppo, ambiente, ha come unica soluzione «un miracolo tecnologico». La rivoluzione industriale nacque da vapore e carbone, anche la rivoluzione postindustriale ha bisogno di una sua leva, «miracolo», dice Gates. John Seely Brown e John Hagel nel saggio «The power of pull» contestano i profeti del declino, Paesi sviluppati senza ceto medio, Paesi emergenti con masse di operai senza futuro. La prima stagione di mercato globale ha creato disagi, fomentando le rivolte ma «il flusso della conoscenza e del mercato che dapprima mette in difficoltà saperi, sicurezze e ricchezza del passato... dà ora accesso a software poco costosi, robots, automazione, mano d’opera e creatività ovunque. Certo per un posto di lavoro occorrono talento e più sapere, ma come le aziende anche gli individui possono accedere all’informazione, perfino seguire un corso all’università di Stanford da un villaggio africano». Commenta con scettica sagacia l’ex presidente Bill Clinton: «Oggi si creano lavoro e sviluppo con la rete, i network, la cooperazione. Ma i talk show e i demagoghi populisti di tv e web non faranno mai soldi parlando di progetti così semplici, devono far bollire il sangue per vincere le elezioni». Proprio così, l’odio che avvelena il basso impero di Berlusconi nasconde a tanti, non solo ai violenti di Roma, le ragioni del futuro, l’economia come network delle idee, la scuola insieme laboratorio e officina, un mondo di mega corporations e insieme di cittadini manager di se stessi. Calvino chiude la sua storica conferenza con una nota di ottimismo: cultura e computer ci libereranno perché «una possibilità di fuga esiste... dalla fortezza» del passato e degli errori. Fosse vivo oggi, lo scrittore si stupirebbe di quanto in fretta gli italiani sembrino rassegnarsi alla «fortezza del passato», chiusi alle idee nuove di cui eravamo stati pionieri, intenti solo a insultarci a vicenda. riotta.g@gmail.com twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9337 Titolo: Gianni RIOTTA - Un Paese che dimentica il futuro Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2011, 12:38:15 pm 29/10/2011
Un Paese che dimentica il futuro GIANNI RIOTTA L’Italia comincerà a vendere titoli di Stato anche su internet, con una campagna pubblicitaria ad hoc, a partire dalla primavera 2012. Il successo di analoghe iniziative di banche private (Mediobanca tra le altre) spinge online il ministero del Tesoro, impegnato l’anno venturo in un safari a caccia di 250 miliardi di euro, per sostenere il famelico debito dei 1900 miliardi. Sembrerebbe una notizia positiva, anche le nuove tecnologie mobilitate per salvare il Paese e l’euro, se non cadesse, nelle stesse ore, l’occhio sul Punto D, della «Lettera di intenti» che il governo ha inviato all’Unione europea promettendo riforme strutturali contro la crisi e per la crescita. Il Punto D si ammanta di un titolo cruciale «Sostegno all’imprenditorialità e all’innovazione», è lungo appena 16 righe, e non ha il tono un po’ da vecchio notaio del resto del documento, tra un antiquato «Resesi» e un burocratico «Efficientamento». Il «sostegno all’imprenditorialità» è replica dell’agenda proposta dal 2008, ma la vera sorpresa - negativa - è sull’«innovazione». Perché delle 16 righe non una, anzi neppure una parola, è spesa su progetti, proposte, impegni a favore dell’economia digitale. Andremo sul web cercando di piazzare qualche Bot, ma non abbiamo nulla da dire sul web per creare ricchezza, lavoro, start up, ricerca. Tv, giornali e internet ancora grondano commozione per il genio perduto di Steve Jobs, ma le lacrime italiane sono di coccodrillo digitale, perché non un euro, non un’idea, neppure una banale promessa elettorale, è spesa sulla Digital economy. E se ieri i mercati hanno confermato lo scetticismo sulle nostre riforme, mandando i Bot decennali al record negativo, anche i silenzi del Punto D hanno di certo contato. Il mercato sa che chi non innova muore. La Rete si è accorta per prima della mancanza di un progetto digitale e sul «Daily Wired» Marina Pennisi ha dato voce alle preoccupazioni di aziende e operatori. In un Paese che da un decennio non cresce, con la disoccupazione giovanile cronica, specie al Sud e tra le donne, con un bastione però formidabile di ricchezza privata alto 9.000 miliardi di euro, fra quadri informatici spesso di ottima qualità, davvero non era possibile far di meglio? Per comprendere il valore della nuova frontiera per lavoro e sapere, il lettore dia un’occhiata, anche frettolosa, al Rapporto McKinsey: «Già oggi, se misurati come settore indipendente, i consumi e le spese relative a internet sono superiori all’agricoltura o all’energia. Internet rappresenta il 3,4% del prodotto interno lordo dei Paesi G8, Brasile, Cina, India, Sud Corea e Svezia». L’economia internet eguaglia la potenza economica del Canada, ma cresce a un ritmo più veloce del Brasile. Il settore che l’Italia non considera nelle sue promesse all’Unione Europea è il solo che sia in crescita ovunque. Se il mercato globale riduce l’occupazione nel mondo occidentale, il web invece crea 2,6 posti di lavoro per ognuno che si è perduto, chiudendo il gap che semina rancore nell’opinione pubblica. Una ricerca mondiale su un campione di 4.800 piccole e medie imprese stima la crescita legata al web al 21% negli ultimi dieci anni, il doppio del decennio precedente e malgrado la crisi paralizzante del 2007. Le speranze che gli Stati Uniti nutrono di mantenere la leadership economica sono tutte legate all’innovazione, di cui detengono ancora il 30% del mercato e il 40% dei profitti, grazie a un buon equilibrio fra hardware, software e comunicazione e a un formidabile network di laboratori e aziende. Regno Unito e Svezia incalzano, soprattutto sulle telecomunicazioni, India e Cina crescono «nell’ecosistema internet a un tasso del 20% annuo». Inseguono Francia, Germania e Canada, più indietro Giappone, Russia, Brasile. E l’Italia? I rapporti a disposizione (Digital advisory group, Akamai) concordano sul 2% del Pil legato alle nuove tecnologie, 700.000 posti creati, 1,8% in più di quelli perduti. Per comprendere il potenziale di crescita della nuova economia su cui il governo tace, in Francia internet crea già 2,4 posti per ognuno perduto. Il nostro Paese, la seconda manifattura europea invidiata anche dal Financial Times, reticolo di piccole e medie imprese, non sembra realizzare che le tecnologie sono il solo passaggio al futuro, la sola salvezza per i piccoli nel mercato globale. McKinsey (2011) stima che i due miliardi di esseri umani che lavorano su internet producono effetti immediati e clamorosi sulle Pmi: le piccole aziende che innovano a partire da internet, e-commerce e software hanno un aumento della produttività del +10%. E in un confronto diretto fra Pmi dello stesso settore, quelle che scelgono di ideare e produrre con sistemi web 2.0 hanno una crescita doppia sui concorrenti legati a modelli tradizionali. Inutile ripetere la tiritera sui mancati investimenti per la banda larga, gli 800 milioni promessi e mai spesi, i 4.300.000 cittadini costretti a collegamenti lumaca, la rincorsa sulla fibra ottica, sul mobile, su Lte4g, su Wimax. Inutile fare l’elenco delle assenze, siamo indietro, non rafforziamo scuola, università, start up, Pmi e nessuno sembra scaldarsi più di tanto. Si deve augurare ogni fortuna al safari del Tesoro per vendere Bot online in primavera. Ma il silenzio sul punto D della «Lettera di intenti» è la resa insieme del governo e della classe dirigente tutta, paralizzati davanti alla rivoluzione digitale tra l’Arsenico delle polemiche politiche e i Vecchi Merletti di un modo di fare industria decrepito. Ogni riforma economica, ogni dibattito culturale, ogni manifesto di maggioranza o opposizione, dovrebbe partire dalla proposta di un nuovo Punto D: D come futuro, ricchezza, cultura Digitale. riotta.g@gmail.com Riotta su Twitter da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9377 Titolo: Gianni RIOTTA - Politici pavidi incapaci di riformare Inserito da: Admin - Novembre 05, 2011, 11:32:11 am 5/11/2011
Politici pavidi incapaci di riformare GIANNI RIOTTA La battuta, attribuita al premier del minuscolo Lussemburgo Jean-Claude Juncker, vale come motto per i leader di una generazione intera: «Sappiamo tutti benissimo cosa fare. Quel che non sappiamo è come farci rieleggere dopo averlo fatto!». E’ il dilemma del nostro tempo, opinione pubblica ed elettori scossi dalla crisi economica, riluttano davanti all’austerità e ai sacrifici proposti da politici senza credibilità. Il vero referendum è fra lo status quo caro a tanti elettori e le riforme economiche che pagheranno - così almeno assicurano gli esperti nel generale scetticismo - domani, ma intanto costano ansia al ceto medio. Nel passato i leader sapevano tenere insieme strategie economiche ed elettori riluttanti, la Democrazia cristiana fa digerire ai latifondisti la riforma agraria del 1946, il cancelliere Kohl scambia i marchi della Germania Est alla pari con quelli, assai più preziosi, della Germania Ovest, Roosevelt persuade, con le buone o le cattive, il grande business che la politica sociale del New Deal porterà gli Usa fuori dalla crisi del 1929. Costa risse, tumulti, proteste, ricorsi alla magistratura, cortei e intrighi, ma con un po’ di spesa, tanta retorica e negoziato, le riforme passavano senza paralizzare i governi. Ancora così con Reagan, la Thatcher, Aznar, mai rinnegati nei fatti dai successori Clinton, Blair, Zapatero. Oggi «le cose da fare» sono nitide: ridurre il debito pubblico, ma senza che l’austerità geli i germogli di crescita; prendere atto che lo standard di vita di padri e madri, pensioni, produttività, spesa sanitaria, va riformato secondo i ritmi globali; creare posti di lavoro nella tecnologia e nei servizi, grazie a scuola e ricerca per non lasciare i giovani a casa. Tentare questa strada è però letale per un governo. Il presidente Sarkozy ha vinto l’Eliseo promettendo una Francia dinamica, «all’americana». Un paio di scioperi ben piazzati lo ha persuaso a rapida marcia indietro e l’umore antimercato che spazza Parigi e Berlino promette bene per i socialisti, male per le riforme. La crisi finanziaria, la disoccupazione, gli eccessi vergognosi di finanzieri e speculatori hanno sdegnato l’opinione pubblica tutta, fino a sollevare rancore populista, negli Usa come in Europa, a destra e sinistra. Il grido rauco contro le classi dirigenti recita «questa è la vostra crisi, non tocca a noi pagare». Naturalmente non è così, negli Usa la maggioranza degli elettori detiene azioni di Wall Street e gli investimenti dei fondi pensione hanno mandato al sole della Florida milioni di anziani. In Grecia - il ministro Venizelos ha avuto la grinta di dirlo - pochi grandi magnati godono di scandalose condizioni fiscali e di monopolio, ma l’intera popolazione, soprattutto nel pubblico impiego, vive da decenni al di sopra della ricchezza nazionale. Anche i tecnocrati hanno le loro colpe. Quasi nessuno, in Europa o in America, ha avuto l’onestà intellettuale dell’economista Francesco Giavazzi nell’ammettere che scambiare per una «vittoria del mercato» la catastrofe indotta da Lehman Brothers è stata mancanza di visione storica. Ed è, magari, per far penitenza di questa hubris, dell’eccessiva fiducia nel vecchio mondo, che oggi troppi uomini di mercato, Soros, Krugman, Stieglitz, lo denunciano con toni febbrili che subito rimbalzano, eccitati, da noi. In realtà, la crisi del debito europeo e la disoccupazione al 10% che può bruciare la rielezione del presidente Obama non si risolvono senza una leadership che concili i due elementi irriducibili in apparenza, riforme e paure dell’opinione pubblica. Un piano economico di riforma che costi a breve, ma dia frutti a medio termine, una spesa pubblica che incoraggi la ripresa senza che nuove tasse brucino fiducia, senza sbalestrare i conti ma con l’occhio a chi resta indietro a fine mese. Tasse patrimoniali, Tobin Tax, fiscalità contro i super-ricchi, non risolvono la crisi di un centimetro, anzi la Tobin Tax del geniale economista premio Nobel allontanerà Londra dall’Europa. Ma fra quelle proposte occorre trovarne qualcuna di simbolica, per togliere forza al nichilismo rabbioso, del dire sempre no a qualunque riforma. Se chi governa può dichiarare in buona fede, «tutti stanno facendo il proprio dovere di cittadini nella crisi, anche chi più ha avuto in questi anni, l’1% denunciato dai ribelli a Wall Street», allora sarà forse possibile ragionare con meno caos. Sciogliere la contraddizione tra riforme necessarie e ostilità dell’opinione pubblica sarà centrale in Italia se davvero si passasse a una fase, breve o lunga che sia, di governi a più larga maggioranza o «tecnici» (anche se qui ha ragione Massimo D’Alema a obiettare «i governi sono sempre politici»). Provare a introdurre riforme dure, tagli nella pubblica amministrazione, tagli agli sprechi nella spesa sociale al Nord o a Sud, un diritto del lavoro razionale, susciterà, già prima di ogni riferimento ai diktat Bce, resistenze, proteste, accuse sul Web e nei talk show. Tommaso Padoa-Schioppa ebbe a dichiarare nell’ultima intervista: «Tremonti segue la politica mia e di Prodi». Era il tentativo, estremo e istituzionale, di dare valore di «interesse nazionale» al rigore fiscale. Padoa-Schioppa, tecnocrate padre dell’euro, aveva imparato la lezione amara dal vivo, con il suo piano di revisione della spesa boicottato dallo status quo, a destra e sinistra. Come nel 2008, però, anche nel 2011, a un rigore senza sviluppo, contabilità che dimentica la gente, seguirebbe la crisi del progetto riformista. Basta, in proposito, vedere certi nervosismi a sinistra contro le proposte del sindaco Renzi. Non ci sono alternative, o i politici diventano tutti kamikaze alla Zapatero e riformano per poi suicidarsi alle elezioni, o si trova equilibrio tra necessità tecniche e umore sociale, tra economia e democrazia. La classe dirigente tutta deve governare la crescita, i tecnici ascoltare e spiegarsi con umiltà (cominciando dai social network), l’opinione pubblica dovrà riconoscere che «Noi 99% siamo buoni, voi 1% cattivi» sarà slogan accattivante, ma alla lunga lascia i ricchi nei privilegi (magari dopo aver firmato un acceso pamphlet contro il «Merkato»...) e i poveri disperatamente poveri. Non abbiamo più molto tempo per questa scelta di comunità. riotta.g@gmail.com twitter@riotta da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9400 Titolo: Gianni RIOTTA - Ma l'Italia migliore può riprendere la corsa Inserito da: Admin - Novembre 20, 2011, 11:25:55 am 20/11/2011
Ma l'Italia migliore può riprendere la corsa GIANNI RIOTTA Le foto di vita quotidiana che La Stampa pubblica oggi in chiusura delle feste per i 150 anni del Paese, raccolte da Banca Intesa San Paolo, testimoniano, con l’obiettivo di artisti, che non siamo quella comunità isterica, arcigna, petulante che sembriamo su giornali, talk show, twitter e blog. Gli italiani, ciascuno con le sue convinzioni personali, politiche, religiose, non vivono in guerra civile e condividono voglia di crescere, cura per la famiglia, amore per l’onestà, disprezzo per la corruzione. Se il nuovo governo guidato da Mario Monti, con il ministro Passera allo sviluppo, la Fornero al Welfare e il tandem Ornaghi-Profumo a Cultura e Istruzione, saprà parlare al meglio che ogni italiano sente dentro di sé, non al peggio come troppi han fatto fin qui, c’è speranza di ripresa nazionale. Le immagini che vedete vengono dalle nostre antiche città, come pure dal paese che spera nel futuro europeo e globale. Senza viva, senza abbasso, insieme ragionando e lavorando, come auspica nel suo messaggio il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che per questo clima ha lavorato, con sagacia politica e istituzionale. ora? Ora la prima cosa da dire al nuovo governo è di guardarsi, con vera diffidenza, dalla malinconica melassa degli elogi. I sicofanti più lesti a trovare paragoni storici esaltati, a elogiare curricula, abbigliamenti, eloqui, saranno i primi, se scontentati, a tornare alla calunnia. Affermare da ministri «Noi non parliamo con i giornalisti» non indica rigore, ma imbarazzo. I sicari dei media vanno ignorati certo, ma ai colleghi professionali e perbene, che sono tanti, vanno assicurati dialogo e confronto in trasparente serietà, accettandone le critiche non volgari con rispetto. Non è solo il dettato costituzionale a sancirlo, è interesse stesso del governo, perché senza dibattito la democrazia langue. Se l’opinione pubblica italiana, la gente di queste foto per capirci, si illude che basti cambiare l’allenatore Italia, via Berlusconi dentro Monti, per vincere il campionato Euro 2012, finisce male. Bisognerebbe distribuire un grafico dell’Ocse, curato da Thomson Reuters Datastream, con l’andamento della crescita italiana dal 1960 a oggi, dall’anno in cui organizzammo a Roma le prime Olimpiadi in diretta tv al 2011 che ci vede bocciati in tecnologia. La nostra capacità di produrre ricchezza è un ottovolante mozzafiato: abbiamo toccato quota 10% a metà degli anni ‘60 e a metà dei ‘70, quando il Made in Italy era la Cina di oggi. Siamo precipitati a -4 nel 1976, a -2 a metà ‘90 fino al tragico -7 del 2009. Il 1981, quando Bearzot preparava la Nazionale mondiale, è l’ultimo anno in cui abbiamo lambito il 5% di crescita. Siamo fermi da un decennio e per recuperare la caduta 2009 servirà, a questi ritmi, un altro decennio. Immaginiamo lo scenario migliore: Mario Draghi riesce, secondo l’auspicio di Daniel Gros nell’intervista a Tonia Mastrobuoni, a trasformare l’European Financial Stability Facility in àncora di sicurezza, senza snaturare la Banca centrale e senza che i tedeschi accusino la Merkel di colpo di Stato. Monti completa la potatura della spesa sognata da Padoa Schioppa, razionalizza le pensioni, stana gli evasori fiscali, reintroduce una tassa immobiliare come in Europa e in America, lima i costi della politica (non ceda qui però alla demagogia corrente, presidente Monti, l’esempio va dato e gli eccessi crassi cancellati, ma non è lasciando due auto blu in garage che l’Italia riparte: illudere la gente porta poi a contraccolpi risentiti), e magari riforma il mercato del lavoro, con Bersani a mediare nel Partito democratico tra liberali di Ichino e socialisti di Fassina. Bene, se e quando questo lavoro erculeo andasse in porto, saremmo a zero se nel frattempo dal ministro Passera non venissero segnali confortanti sulla crescita. Non dico un 10% acuto come quando Mina debuttava alla Bussola, ma almeno come il gruppo di testa europeo. Perché razionalizzare il welfare e innovare l’economia non sarà a costo zero. Tanti cittadini si opporranno, perché non tutti saranno premiati dalla meritocrazia, non tutti promossi dalle riforme, e perché tanti, non solo i mandarini affaristi, vivono, pur a malincuore, di clientele, raccomandazioni, economia protetta, nera o corporativa. A chi lo accusa di favorire i poteri forti, Monti ricorda i duelli di Bruxelles con i titani dell’industria Gates e Welch. A chi lo accusa di non poter vincere lo status quo, Passera ricorda il lavoro fatto alle Poste. Vero, ma stavolta servirà di più. Servirà convincere gli italiani di buona volontà - e sono la maggioranza - che un patto di rigore e crescita equa è il solo modo perché la nostra generazione, i nati negli anni del boom 1946-1964, non sia la prima, nei 150 anni che festeggiamo, a lasciare in eredità, nella staffetta tra genitori e figli, un Paese peggiore, povero, cupo, isolato dal mondo. Il governo di Mario Monti ha cento giorni di luna di miele. Il partito dello status quo presto tornerà a farsi sentire (e, paradossalmente, il contributo di Gianni Letta e Giuliano Amato, esclusi in nome del «no» al passato, potrebbe essere rimpianto quando l’innovazione dovrà cercarsi i voti in questo Parlamento) e occorrerà rintuzzarlo. Se il «Partito del futuro», ciascuno nel suo ambito, politico, economico, tra i media, nella classe dirigente e nel Paese, comunicherà che cambiare per crescere è vitale, allora le forze populiste, trincerate nel rancore, saranno sconfitte. E la politica, Casini, Fini, Alfano, Bersani, la Lega di Maroni, Tremonti, Renzi e Vendola, potrà - se ne è capace - immaginare i partiti per la transizione alla III Repubblica italiana: Germania, Inghilterra, e anche Francia, provano che bipolarismo non significa spazio esclusivo per due formazioni politiche. Potremmo forse allora sperare che i nostri migliori 150 anni stiano cominciando adesso. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9457 Titolo: Gianni RIOTTA - L'occasione per sfuggire al grigiore Inserito da: Admin - Novembre 30, 2011, 06:10:33 pm 30/11/2011
L'occasione per sfuggire al grigiore GIANNI RIOTTA Ricorre nel 2012, in aprile, il centenario del Titanic, transatlantico considerato inaffondabile che colò invece a picco urtando un iceberg nell’oceano. Come cento anni fa, tante nostre certezze orgogliose, l’Europa e la sua moneta, l’America e la sua egemonia, la Cina e la sua rinascita, il Mercato e la sua ricchezza, l’Italia e il Made in Italy, rischiano di urtare iceberg vaganti, Populismo, Protezionismo, Xenofobia. L’iceberg più pericoloso resta la realtà, che dalla crisi del 2007 tanti leader, e con loro tanta parte dell’opinione pubblica, si illudono di eludere. Nel 2012 chi vincerà negli Usa le scialbe primarie dei repubblicani - il mormone Romney? il texano Perry? l’eterno Gingrich? - sfiderà il 6 novembre il presidente democratico Obama. I francesi sceglieranno il 6 maggio tra il conservatore Sarkozy e il socialista Hollande, e a Mosca Putin tornerà alla presidenza, mentre in ottobre il congresso del partito comunista cinese manderà alla presidenza Xi Jinping, al posto di Hu Jintao, con Li Keqiang a rilevare il premier Wen Jiabao. Un mondo di possibili uomini nuovi, in cui, malinconicamente, i problemi resteranno da risolvere con idee spuntate. E se il virus default arriva in Europa anche i mercati emergenti si ammaleranno. Gli europei, indotti alla lentezza dalla cancelliera Merkel, inseguiranno passo passo la crisi del debito, privi di strategia radicale. Sembra ora intravedersi il faticoso baratto tra patto di fiscalità e eurobond, ribattezzati dal presidente Barroso «titoli di stabilità» e dai «cervelli» economici tedeschi «redemption bond». I Paesi europei indebitati, tra cui l’Italia, rinunceranno a segmenti di sovranità, bilancio e politica economica verranno monitorati da Berlino (con Parigi a fingersi partner alla pari) e, in cambio, la Germania garantirà un futuro di liquidità. L’economia sposerà quella che la studiosa Nora Galli de’ Paratesi chiamava «Semantica dell’eufemismo», battezzare i titoli «euro», «stabili» o «redemption», permette di aggirare il veto della Corte costituzionale tedesca. Un eufemismo non scioglie però i ghiacci della crisi economica e i leader europei e americani hanno una scelta precisa nel 2012, o cambiar rotta verso le riforme, senza che i cittadini sdegnati fuggano nel populismo, o il naufragio della ripresa. Ce la faranno? A guardare alle speranze frustrate negli Stati Uniti dal carisma opaco di Obama, solo tre anni fa ritenuto leader storico, e in Europa dal progetto euro già così orgoglioso, c’è poco da sperare. I partiti sono polarizzati ovunque dalla petulanza faziosa, nutrita di talk show e anonime arringhe sui blog Internet. In campagna elettorale ci si scontra con rancore, ma una volta al potere la propaganda cede all’impotenza mesta. Un taglietto alla spesa qui purché nessun ceto sociale si risenta, una tassa modesta là purché Tea Party, Lega Nord, Veri Finlandesi non protestino troppo. E limiti all’emigrazione, totem sempre utile in recessione, il male di Gran Bretagna e Italia nei prossimi mesi. Più lo scontro tra le parti politiche si fa stentoreo, più il governo dell’economia reale si fa afono. Annota l’Annuario 2012 dell’Economist: «Viviamo una paralisi politica e una strisciante austerità. L’America non può risolvere le due crisi europee, debito sovrano e banche, ma pagherà un prezzo se l’Europa non guarisce da sola. Le esportazioni Usa soffriranno, le banche taglieranno i finanziamenti e si smarrirà, come già in Europa, la fiducia». Languiranno di conseguenza gli Stati Uniti, con quel 9% di disoccupazione a minacciare il ritorno di Obama alla Casa Bianca e i repubblicani «nemici del socialismo» (ebbene sì, in America) a potare ogni possibile investimento pubblico per la ripresa. Le previsioni atlantiche, insomma, ci lasciano intravedere ancora un anno di propaganda furiosa e meschine riforme, evoluzione lenta quando non involuzione. Paradossalmente, i guai in cui l’Italia s’è cacciata, crescita strangolata allo 0,2%, la recessione che l’Ocse ci addita, debito pubblico 120% del Pil, disoccupazione a due cifre tra i giovani, hanno costretto i partiti a varare il governo di Mario Monti. E, come confessa un veterano della nostra politica dell’ultimo quarto di secolo, «a denti stretti questo Parlamento voterà qualunque provvedimento del presidente Monti: non ha alternativa». Nel 2012 la crisi economica paralizzerà la politica tra Usa e Ue, e i partiti, per fingersi attivi, alzeranno invano il tono dello scontro. L’Italia dell’ansia di liquidità, l’Italia del debito, l’Italia dimenticata di tanti summit, può forse vivere una sua stagione di riforme, sacrifici, innovazione e sviluppo, chiamando per esempio imprese d’avanguardia e università migliori a creare insieme start up. Né Pdl, né Pd, né centristi possono tirarsi indietro davanti al taglia e cuci che Monti e il ministro Passera tenteranno. Fogli, talk show e siti chiassosi non verranno a più miti consigli, ma senza più potere di veto reale. E’ un’occasione, inaspettata, per sfuggire al grigiore delle società occidentali oggi. Il consenso e la responsabilità dureranno poco. Non basteranno a salvarci da soli, se Germania, Bce e Fondo monetario non agiscono all’unisono: ma almeno avremo fatto il nostro dovere. riotta.g@gmail.com twitter @riotta da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9499 Titolo: Gianni RIOTTA - Il duello per l'egemonia del futuro Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2011, 05:20:36 pm 8/12/2011
Il duello per l'egemonia del futuro GIANNI RIOTTA Un anno fa il saggista americano Robert Kaplan pubblicò un affascinante volume, «Monsoon», storia dell’Oceano Indiano da sempre mare di pace e commerci, come di guerra e battaglie. La Cina e la sua ambizione di varare una flotta d’alto mare, sono al centro di «Monsoon» e qualcuno storse il naso, ripensando ai falchi «neoconservatori» di George W. Bush. Ieri però, il presidente cinese Hu Jintao, giunto quasi alla fine del suo mandato, ammonisce la Marina cinese di «prepararsi alla guerra», o a «combattimenti militari», o «lotta militare», secondo altre traduzioni. E di nuovo gli analisti si interrogano: la rivalità Pechino-Washington resterà geopolitica ed economica, il debito americano, la produzione cinese, le rotte dei commerci, la supremazia Usa nell’innovazione tecnologica e lo sforzo immane dei cinesi di primeggiare ora anche nell’high tech? O precipiterà nello scontro militare? Il lettore non pensi a manovre da generale Stranamore, lo stato maggiore del Pentagono avvilito per i tagli che la crisi economica impone al budget bellico (da solo più ricco di tutti gli altri insieme), i generali dell’Armata del Popolo decisi a riportare il prestigio di Pechino dall’industria e le banche alle armi. Il documento strategico nucleare del presidente Premio Nobel per la pace, Barack Obama, la «Nuclear Posture Review 2010», sancisce che «gli Stati del Pacifico, vicini di Usa e Cina, sono preoccupati dall’attuale modernizzazione militare cinese, incluso il riarmo, in quantità e qualità, dell’arsenale nucleare». Per ora il ring immenso del Pacifico separa i due rivali, e le rispettive, sterminate, masse continentali rendono l’idea di un conflitto tradizionale poco probabile. La capacità nucleare cinese è stimata ancora tra un decimo e un centesimo di quella americana, arduo un match alla pari. Portaerei e bombardieri nucleari strategici mancano ai successori di Hu Jintao per immaginare una campagna adeguata: ma certo al presidente cinese non sarà sfuggito che le sue parole sono risuonate giusto nel giorno del settantesimo anniversario di Pearl Harbor, «il giorno che vivrà nell’infamia», come il presidente Roosevelt definì l’attacco del Giappone alla base militare Usa nelle Hawaii che trascinò, a malincuore, l’America nella Seconda guerra mondiale. I siti di destra americani possono suonare qualche tono militaresco, quelli di sinistra unire alla denuncia degli abusi cinesi contro i diritti civili la minaccia della flotta. La realtà resta più minacciosa e complessa. Ogni rotta degli oceani Indiano e Pacifico, da Taiwan che per tutta la Guerra fredda ha opposto Cina e Stati Uniti, alle Filippine, a Myanmar (Birmania), all’Indonesia, al Giappone, all’Australia, al Corno d’Africa e Golfo Persico, è uno slalom per l’egemonia tra le potenze del XXI secolo. I 2500 marines che Obama ha comandato in Australia non sono solo astuta mossa da «duro» nella campagna presidenziale 2012, sono un primo avanzare le bandierine nello scacchiere. Così come la visita della segretario di Stato Clinton alla Nobel dissidente birmana Aung San Suu Kyi è certo buona notizia per la causa dei diritti umani, ma al tempo stesso alza il prezzo della giunta militare nell’asta tra Pechino e Washington. L’Indonesia, Sri Lanka, il Vietnam giocano ruoli nuovi. Davanti alle frequenti manovre militari tra Vietnam ed esercito americano, un vecchio generale di Hanoi ha mormorato: «Di che cosa vi meravigliate? Dell’America siamo stati nemici per 50 anni. Della Cina siamo nemici da 2000». Le regole del passato non funzionano più, economia e attrito bellico coesisteranno. L’Australia commercia con la Cina, eppure ne teme l’influenza. La Cina detesta la presenza militare americana in Giappone, eppure è lieta che sia il budget di Washington a impedire il riarmo dell’antico nemico perché, storicamente, diffida della bandiera con il Sol Levante più che della Old Glory a stelle e strisce. E se capricciosi monsoni di pace e guerra, commerci e duelli navali tra vietnamiti e cinesi, soffiano sull’oceano, anche lungo la remota Via della Seta, il confronto militare Usa-Cina evoca fantasmi millenari. La strategia di Obama e della Clinton sogna Afghanistan, Pakistan, Iran e Iraq pacificati e dediti a traffici legali. Thomas Nides, del Council on Foreign Relations, calcola in 900 miliardi di euro le sole risorse minerarie dell’Afghanistan, se la guerra civile cessasse e cominciasse un’era di pace. E la Cina, da sempre alleata silenziosa del Pakistan, deve decidere ora se avviare una relazione di sviluppo pacifico, o puntare su un vicino con la bomba atomica, ma povero. Al centro il dilemma persiano dell’Iran, con la corsa al nucleare di guerra. Duemila anni fa, osserva lo studioso Walter Scheidel dell’università di Stanford, «metà del genere umano viveva sotto l’impero di Roma o sotto l’impero cinese degli Han». Eppure, a differenza di quanto immagina «The Lost Legion», un recente film di Hollywood, romani e cinesi girarono sempre alla larga, prosperando lontani per secoli. L’era globale non concede tanto spazio e Washington e Pechino devono convivere tra corsa economica e militare. L’America ha dalla sua innovazione tecnologica e crescita demografica, nel 2050 sarà più giovane della Cina. La Cina ha dalla sua una massa di popolazione unita nella crescita, un sistema politico centralizzato ma contro il declino demografico, deve arricchirsi prima di invecchiare. E’ la sfida del nostro tempo e quella del tempo dei nostri figli. E l’Europa? In ottobre l’istituto Carnegie Europe mi ha chiesto quale sarà il problema europeo del futuro: la mancanza di un esercito comune, come sognato da Winston Churchill, ho scritto http://carnegieeurope.eu/publications/?fa=45766 E mentre Cina e Stati Uniti corrono alle armi, magari sperando ancora di non usarle, è facile capire perché. riotta.g@gmail.com twitter@riotta da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9529 Titolo: Gianni RIOTTA - Hitchens, vita contro di un uomo libero Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2011, 11:30:55 am 17/12/2011
Hitchens, vita contro di un uomo libero GIANNI RIOTTA Essere d’accordo con Christopher Hitchens era bellissimo, vi sentivate illuminati dalla forza della sua passione. Essere in disaccordo con «Hitch» era, al contrario, una pessima sensazione, perché finivate abrasi dalla sua polemica, carta vetrata sulla coscienza. In mezzo non si riusciva a stare con lo scrittore, giornalista, attivista inglese naturalizzato americano, scomparso ieri a 62 anni per un cancro all’esofago. Il dibattito, spinto all’estremo, era la sua vita, dopo gli esordi «british», figlio di un ufficiale della Marina inglese che la mamma Yvonne Jean mantiene alle università di Cambridge e Oxford con tanti sacrifici: «In questo Paese comandano gli aristocratici, Christopher deve diventarlo». Al college Hitchens conosce un giovane borsista americano, Bill Clinton, è presente la sera in cui girano gli spinelli e Clinton, come dichiarerà nella campagna per la Casa Bianca 1992, «fuma marijuana ma senza aspirare»: «Preferiva abboffarsi di biscotti al cacao» ricordava maligno Hitchens. Che denuncia poi un collaboratore di Clinton, Sidney Blumenthal, come fonte della campagna di calunnie contro la stagista Monica Lewinsky, amante del Presidente, rompendo i ranghi democratici e beccandosi il soprannome di «Hitch the Snitch», Hitch lo spione. Non se ne vergogna e titola la sua autobiografia «Hitch 22», strizzando l’occhio al romanzo dell’assurdo di Heller «Comma 22». L’ex compagno di università diventato Presidente non è il solo obiettivo di Hitchens, che in una carriera cominciata nella sinistra trozkista, investe l’ex segretario di Stato Kissinger, «criminale di guerra», Madre Teresa di Calcutta, «fanatica amica del dittatore di Haiti Duvalier», Lady Diana, «fighetta», Ronald Reagan, «banalotto», la religione islamica e infine Dio stesso, nel pamphlet «Dio non è grande» che lo porta a scontrarsi nei talk show di mezzo mondo, perfino con suo fratello Peter. Quando si ammala di cancro, parecchi cattolici gli scrivono «pregheremo per te, ateo». Li ringrazia, ma senza commuoversi «Se mi converto sul letto di morte sarà un rottame spaventato a farlo. Io resto un Protestante-Ateo». Nato a sinistra, Hitchens condivide con il suo idolo George Orwell l’idea che uno scrittore deve seguire la verità anche rompendo il luogo comune dei progressisti. Scrive bene della premier conservatrice inglese Lady Thatcher, definendola «sexy», poi la critica per la sua posizione sullo Zimbabwe, in Africa, e ne viene sculacciato in pubblico, «Sì, la Thatcher mi disse piegati, più in basso ancora, intimò e poi mi diede un gran colpo sul sedere con un fascicolo arrotolato». Dal debutto con i giornali socialisti inglesi alla The New Statesman, fino alla collaborazione in America con il progressista The Nation, «Hitch» resta bastian contrario. Quando George W. Bush decide di invadere l’Iraq, Hitchens che da tempo denunciava il fondamentalismo islamico come «islamofascismo» appoggia l’operazione, disprezza il nichilismo dei leader europei alla Chirac e decide perfino, con lo stile un po’ da clown che non gli dispiaceva quando intuiva di avere ecceduto in polemica, di sottoporsi al «waterboarding», la tortura che simula l’annegamento, praticata dalla Cia e difesa dal vicepresidente Usa Cheney. «Fa più paura ma meno male della ceretta inguinale stile bikini cui mi sono sottoposto per un articolo su Vanity Fair» dichiarò sfrontato. Perché, come tutti i grandi giornalisti, sapeva che non esistono temi superficiali, esistono giornalisti superficiali. Uomo libero, sia nel torto che nella ragione, Hitchens finì odiato dai suoi ex compagni. Alexander Cockburn, vecchia firma della sinistra dura, lo definì «bugiardo, ipocrita, culone, tabagista, ubriacone, opportunista e cinico». E neanche i migliori amici, per esempio lo scrittore Salman Rushdie, che aveva difeso per primo dalla fatwa, la maledizione degli ayatollah iraniani, avrebbero potuto negare almeno due delle accuse del plumbeo Cockburn. Non ho mai visto Christopher senza sigaretta in bocca, né ho potuto chiacchierare con lui mezzora senza bere un bicchiere di vino o buttare giù un paio di «baby» whisky. In Arabia Saudita 1990, durante la prima guerra del Golfo, mentre provavamo a bordo di un autobus ad avvicinarci al fronte, tirò fuori una fiaschetta di metallo da tasca, come un cow boy dei film, e senza badare alla muttawa, la polizia islamica custode dell’ortodossia analcolica salafita, ne tracannò mezza. Poi la riempì da una bottiglia celata nel borsone portacomputer (scriveva allora ancora a macchina), mi obbligò a berne a mia volta, la colmò e svuotò in un fiato e, di getto scrisse un bellissimo elzeviro: «Alcol e tabacco mi danno lucidità». Il successo, la popolarità mondiale, gli applausi che ora venivano anche dalla destra ex avversaria non lo cambiarono. L’ultima volta che abbiam parlato, in piena rivolta araba, sorrise «Possiamo vantarci in pochi, non è così?, di avere creduto che anche gli arabi possano vivere in democrazia». Pensava che avere visto l’esecuzione di Saddam avesse ispirato alla lunga i ribelli contro i regimi, malgrado l’astio contro la guerra a Baghdad «ma so che non convincerò al Manifesto la Luciana Castellina». Nascondeva tra lavoro e party un dolore segreto. Sua mamma s’era suicidata ad Atene dopo una relazione extraconiugale, e l’aveva cercato invano al telefono fino all’ultimo: «Ho sempre pensato che se mi avesse parlato, anche solo avesse riascoltato la mia voce, non si sarebbe tolta vita», si rammaricava. Poco prima del funerale della mamma, apprende che lei era nata ebrea, al contrario del padre cristiano. Non gli aveva mai rivelato il segreto, fino alla fine. Lo scrittore Christopher Buckley definisce Hitchens «il più grande polemista contemporaneo in lingua inglese». Al contrario dell’ascetico Orwell era un bon vivant, a tavola e nella vita, un anglosassone caldo come un mediterraneo e con un senso unico per la famiglia. Su quel bus nel deserto saudita mi raccontò del padre Eric «Lo chiamavamo "Comandante", era sulla nave da guerra Jamaica, che nel 1943, alla battaglia di Capo Nord, affondò l’incrociatore tedesco Scharnhorst, 38.100 tonnellate di acciaio nazista a picco. In una giornata, amico mio, fece più lavoro di quanto io non sia riuscito a farne in tutta la mia vita da inviato speciale». E si addormentò, poggiando senza pudori la testa bionda sulla mia spalla. Un paio di sedili indietro, due agenti della muttawa lo fissavano sospettosi. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9557 Titolo: Gianni RIOTTA - Cambiano le frontiere del benessere Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2011, 10:46:14 pm 27/12/2011
Cambiano le frontiere del benessere GIANNI RIOTTA Il primo a segnalarlo, di buon mattino a Santo Stefano, è un tweet, messaggino online dell’economista venezuelano Moises Naim @moisesnaim: «Nel 2011 l’economia del Brasile ha superato quella inglese e il tasso di omicidi in Colombia è sceso del 26%». Solo in apparenza una bizzarria, perché l’ex ministro di Caracas segnala non solo il boom ormai impetuoso di Rio de Janeiro, +7% l’anno, ma un nuovo possibile partner nel club del benessere, la Colombia che sembrava ostaggio del narcotraffico e cresce invece del 4%. Il 2011 manda sui libri di storia - che si occuperanno di realtà, e non dei miraggi che incantano noi contemporanei - con il sorpasso Brasile-Regno Unito anche quello della Cina sul Giappone, staffetta asiatica incredibile solo qualche stagione fa. Noi italiani restiamo, ma attenti ormai le classifiche economiche cambiano più in fretta di quelle del football, all’ottavo posto. Abbiamo dietro la Russia (nona) e l’India (decima) e il Centre for Economics and Business Research, che ha annunciato ieri Rio avanti Londra, prevede abbiano già messo la freccia per superarci. A Capodanno 2020 la Cina sarà seconda dietro gli Stati Uniti, la Russia quarta (finalmente democratica sperano i tanti ragazzi in piazza a Mosca in queste ore), l’India sarà quinta e il Brasile sesto. Il vecchio mondo del XX secolo sarà rappresentato solo dagli Stati Uniti, almeno così auspica il presidente Obama, primi intorno alla fragile bandiera del dollaro e all’innovazione delle tecnologie, e dal Giappone, terzo. Negli Anni 60 il Nordeste del Brasile era considerata «una zona esplosiva» dallo studioso De Castro, il regista Glauber Rocha rappresentava nei suoi tragici film la povertà del «sertao» , nel film «Il Dio nero e il diavolo biondo» l’eroe mitico Antonio das Mortes guardava impotente i contadini consumati dalla siccità. Contemporaneamente l’Inghilterra dei Beatles lanciava cinque dischi ai primi cinque posti delle classifiche. Due culture, due economie, due mondi. E certo il Portogallo coloniale, che ha dato la propria lingua al Brasile, non avrebbe mai immaginato nei sogni dell’esploratore Cabral e di Re Giovanni III che nel 2011 l’emigrazione sarebbe andata da Est a Ovest nell’Atlantico. Mentre il Brasile prepara le infrastrutture per il campionato del mondo di calcio 2014 e per le Olimpiadi 2016, tecnici, laureati, operai portoghesi arrivano dal proprio Paese in crisi cercando il benessere perduto. I permessi di lavoro timbrati sui passaporti di Lisbona in Brasile sono triplicati quest’anno, e altri cittadini europei cercano di sfuggire alla crisi nel boom carioca: 51.000 nuovi emigrati, +33%. Lavorano nell’industria, nei progetti pubblici, nei laboratori tecnologici dove ancora il Brasile ha un gap di manodopera specializzata. Sono la nuova emigrazione colta, e, osserva Paulo Sérgio de Almeida del ministero del Lavoro «sono motore del nostro boom». E anche dall’onnipotente Germania si bussa in Brasile, le richieste di lavoro sono aumentate da Berlino dell’86% per i permessi trimestrali e del 31% per i permanenti, concessi raramente e preludio di un’emigrazione con tanto di famiglia al seguito al sole di Rio. Arrivano avvocati, calcola il Financial Times, e docenti universitari, attratti dagli alti stipendi e dall’energia di un Paese che cresce, non declina. Più di tutti arrivano statunitensi e cinesi ma ancora mancano ingegneri e impiegati di banca, elettricisti, donne delle pulizie. I campi petroliferi, oggi meglio sfruttati grazie alle tecnologie, sono a corto di tecnici specializzati. Quando guarda a questi dati, e alle malinconiche cronache economiche europee del 2011, il premio Nobel indiano Amartya Sen trae una doppia morale, preoccupato per l’eccesso di rigore senza misure sulla crescita nell’Unione Europea e per i possibili stop alla rincorsa, oggi senza freni, dei Paesi emergenti che Jim O’Neill di Goldman Sachs mai avrebbe immaginato, coniando nel 2011 la sigla Bric (Brasile, Russia, India, Cina) per i nuovi Paesi ricchi. Ora O’Neill punta l’attenzione ai «mercati in crescita», quelli che producono almeno l’1% del prodotto interno lordo del Pianeta Terra. Là arriva la ricchezza del 2012, là presto, come oggi in Brasile, si metteranno in coda cercando uno stipendio, orgogliosi americani, europei e cinesi. Parliamo di Indonesia (un quinto del bilancio investito in scuola e ricerca), Sud Corea, Turchia e il Messico di cui ci occupiamo solo per le stragi del narcotraffico. Forza lavoro specializzata e capitali di investimento sono già con le antenne tese verso le nuove frontiere del benessere, come identificate dagli economisti Robert Barro, Roopa Purushothaman e Dominic Wilson, dove non solo il Pil cresce, ma la democrazia si radica, la giustizia funziona in modo decente, la corruzione non dilaga, le famiglie sono coese, la tecnologia, Internet e telefonia mobile si diffondono. La realtà ha superato l’ottimismo, O’Neill ha sì previsto il boom dei Bric ma sottovalutandolo di ben tre quarti. Malgrado le preoccupazioni presenti, il Brasile non dovrebbe ripetere nel 2012 il boom 2011, raffreddino certi facili entusiasmi, non solo noi italiani e gli inglesi retrocederemo, presto il sorpasso toccherà a Francia e Germania. Dal boom brasiliano si possono trarre due opposte morali. Una, superficiale che mastica amaro sul «Declino dell’Occidente» già pronosticato dal filosofo Spengler. L’altra, più ambiziosa, sulle opportunità che il mondo nuovo apre a chi sappia faticare e sacrificarsi, vedi il Paese del Nordeste poverissimo oggi gigante economico. Se il «sertao» miserabile dei capolavori di Rocha attrae emigranti da Lisbona, Washington, Pechino e Bonn, perché dare per perdute Spagna, Portogallo, Grecia e Italia? Twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9588 Titolo: Gianni RIOTTA Addio a Lally Kamenetzki simbolo discreto della New York italiana Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2012, 11:41:45 am 16/1/2012
Addio a Lally Kamenetzki simbolo discreto della New York italiana GIANNI RIOTTA Nella comunità degli italiani a New York era un volto noto, «la sorella di Ugo Stille», somigliante come una gemella al fratello, storico corrispondente e poi direttore del «Corriere della Sera»: Lally Kamenetzki è scomparsa ora a 90 anni, e con lei svanisce un mondo di affetti, storie, ricordi. Da Mosca la famiglia Kamenetzki emigra a Riga, dove nasce la piccola Myra, subito soprannominata Lally. Le vicende politiche russe portano a una nuova emigrazione, a Roma, dove il fratello Misha si incontra con i giovani poi protagonisti dell’antifascismo, Giaime Pintor e Lucio Lombardo Radice, coniando con Pintor lo pseudonimo che diventerà sua firma, Ugo Stille, oggi ereditata dal figlio Alexander, docente alla Columbia University. E proprio i nipoti Stille, Alexander e la sorella Lucy, agente letterario, hanno ricordato sul «New York Times» di ieri la zia Lally, mai sposata e legatissima ai figli del fratello. Lally Kamenetzki, dopo i travagli dell’arrivo a New York l’imbarco periglioso su una delle ultime navi a lasciare l’Europa - comincia una nuova vita, senza nostalgia ma senza cancellare il passato. Lavora all’ufficio americano della casa farmaceutica Carlo Erba, poi insegna italiano nelle scuole e all’Hunter College, storica università pubblica dove generazioni di studenti con pochi soldi e molto cervello si preparano alla vita. Docenti seri e senza fisime, laureandi spesso già al lavoro e senza illusioni, in cattedra scrittori come Nathan Englander, Colum McCann ed Eva Hoffmann, artisti come Motherwell, politici come Donna Shalala, il giornalista Jim Aronson, tra i banchi i futuri Nobel per la Medicina Yalow e Elion, la leader femminista Bella Abzug, gli scrittori Evan Hunter e Grace Paley, i chitarristi della rock band Strokes, Fraiture e Valensi. A centinaia di loro, compreso il nipote Alexander, Lally Kamenetzki offre i rudimenti della nostra lingua, continuando da insegnante privata dopo la pensione e ogni avvenimento culturale legato all’Italia la vede in prima fila. La studiosa Jenny McPhee ricorda nel suo blog http://jennymcphee.com la notte in cui proiettarono alla Casa Italiana della Columbia University, bizzarro edificio in stile rinascimentale alle porte di Harlem, «Riso amaro», il celebre film con Silvana Mangano. Colpita dal nome di un’attrice americana nei titoli di coda, Doris Dowling, McPhee chiede a Lally, che le è seduta vicina, chi fosse. Lally Kamenetzki, con pazienza, le racconta la storia dell’arrivo della Dowling a Cinecittà nel dopoguerra, ma soprattutto della sorella, Constance Dowling, di cui si innamora perdutamente Cesare Pavese, dedicandole le ultime poesie di «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi», fino al suicidio disperato. «Quella sera - scrive McPhee - decisi di cominciare a lavorare al mio romanzo “A Man of No Moon”, protagonista uno scrittore italiano nel dopoguerra, conteso tra due sorelle. La scintilla discreta, in questa come in tante altre avventure di Manhattan, venne da Lally Kamenetzki, che però non chiese mai nulla per sé, restando nell’ombra e dedicando il tempo libero dal lavoro al bridge e al Festival di poesia italiana che, senza stancarsi, tenne in vita a lungo. Approfittava di ogni occasione per parlare nella lingua della sua infanzia e quando vide in casa di un amico una copia del Giornalino di Gianburrasca di Vamba, si commosse: «Lo leggevamo così tanto, che emozione, Giannino Stoppani!». Ricevuto in regalo il volume, lo conservò felice come reliquia del mondo sospeso tra Roma e New York che, con tanta fatica, aveva popolato di nuovi cittadini. da http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9656 Titolo: Gianni RIOTTA - Limiti al web il vicolo cieco della politica Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2012, 04:49:32 pm 19/1/2012
Limiti al web il vicolo cieco della politica GIANNI RIOTTA La giornata di ieri, 18 gennaio, passerà alla cronaca come il Giorno in cui i New Media hanno vinto il derby contro gli Old Media, il digitale ha superato nel torneo la vecchia pellicola, i blog redatti in garage azzittito le rockstar, i filmati traballanti di registi adolescenti sulla rete Youtube oscurato i kolossal alla Ben Hur. Era infatti la giornata di protesta contro due proposte di legge americane dal nome bizzarro, una alla Camera, detta Sopa Stop Online Piracy Act, l’altra al Senato, detta Pipa, Protect Intellectual Property Act, ma con lo stesso obiettivo: difendere il diritto di autore delle grandi compagnie che producono spettacolo, informazione, musica, film, dalla distribuzione gratuita su internet. Prima di venire alle opposte ragioni dello scontro, vediamone l’esito. Il web ha stravinto costringendo importanti politici, come il senatore della Florida Marco Rubio, cocco dei conservatori e in odore di Casa Bianca, a ritirare il sostegno dato alla legge anti pirateria. Il «no» a nuovi controlli sul copyright online schiera subito il presidente Obama, stavolta d’accordo con quello che dovrebbe essere a novembre il suo rivale repubblicano, l’ex governatore Mitt Romney. Chiunque vinca le elezioni d’autunno, considererà la lobby economica del web, il motore di ricerca Google, il social network Facebook, l’enciclopedia libera Wikipedia, il canale di video Youtube, più importante di classici giganti come le Camere di Commercio Usa, la Riia, associazione delle case discografiche Bmg, Emi, Sony, Universal, Warner, che concede i dischi d’oro dai Beatles a Beyonce, le case cinematografiche. O perfino di News Corporation, del magnate Rupert Murdoch, attivo su twitter @rupertmurdoch. Per fare passare, o bocciare, una legge di difesa del diritto d’autore le lobby rivali hanno investito decine di milioni di dollari, con il parlamentare Issa a guidare i contrari e il texano Smith i pro. A favore del web senza filtri contro la pirateria ha giocato l’efficace mobilitazione della rete. Wikipedia, l’enciclopedia scritta dal basso che ha oscurato ormai la Britannica e serve ai compiti a casa dei ragazzi in tutto il mondo, ha dipinto di nero la propria homepage, la prima pagina. Google ha listato a lutto il logo. La rivista Wired s’è presentata online con i testi spruzzati di nero, come nelle antiche lettere dei detenuti sottoposti a censura. A New York, dove si sta creando un polo tecnologico che vuole rivaleggiare come idee e produzione con Silicon Valley, i 20.000 tecnici del NY Tech Meetup hanno organizzato picchetti davanti agli uffici dei senatori Schumer e Gillibrand, persuasi che i limiti al web inducano disoccupazione. Reddit, Bing, Internet archives, tutte le piazze informatiche si sono riempite di proteste. In poche ore il futuro di Sopa e Pipa s’è offuscato. La tattica di comunicazione della lobby new media, «No alla pirateria!», «Internet senza censure», ha facilmente umiliato la tattica di comunicazione della lobby old media, «Difesa del diritto d’autore», «Non si tratta di libertà, ma di furto e contraffazione di idee e spettacolo». Difficile mobilitare chi va al cinema, compra gli ultimi cd o paga ancora le rate dell’Enciclopedia rilegata in 18 volumi, mentre listare a lutto l’homepage attiva una valanga di telefonate ai politici incerti. E il leader repubblicano Boehner riconosce: «Non c’è maggioranza parlamentare per la legge Sopa». Dietro gli slogan e le lobby, patinate o cyber che siano, qual è la sostanza della questione? I giganti della musica, dello spettacolo e dell’informazione chiedono protezione contro i siti che, specie dall’estero, sifonano i loro contenuti e li ridistribuiscono, in tutto o in parte, gratis. Rozzamente, volevano oscurare questi siti, trascurando però il pericolo di rappresaglia internazionale: se approvata, la legge filtro poteva, per esempio, bloccare il sito russo Kontakte, un supermaket dello spettacolo gratis, ma non impedire al Cremlino di censurare a sua volta Google o Amazon. I cinesi sono stati lesti a accusare Washington di censura, dopo anni in cui gli Stati Uniti hanno chiesto libertà sul web a Pechino. Propaganda, certo, ma la studiosa Rebecca MacKinnon osserva che il libero mercato delle idee e della comunicazione, se controllato per legge, potrebbe trasformarsi in una grottesca copia di Weibo, l’occhiuto sistema informatico cinese, che scruta o prova a scrutare - ogni post, messaggio, testo, video che i cittadini caricano su internet. La lobby dei media tradizionali ha perduto la partita del 18 gennaio perché ha combattuto una guerra già perduta, quando i giornali hanno diffuso gratis i propri testi a metà degli Anni Novanta, quando - prima degli iTunes e Jobs - la musica e i film si sono scaricati senza problemi, con siti come Rojadirecta che permettono di vedere tutte le partite di calcio senza pagare. Non è con una museruola goffa che il problema si affronta. Ma un problema esiste: il lavoro intellettuale, di un cronista, una rockstar, un regista, un attore, come si tutela? La quantità gratis può uccidere la qualità pay, tema che già nelle news è rovente. Google, eBay, Amazon, Facebook sono state perfette nell’ammantarsi di libertà ieri, ma sono aziende con bilanci e profitti. Assurdo imporre loro di controllare ogni riga, ogni immagine, ogni link dei milioni che ogni giorno il web genera. Impossibile pensare però che possano per sempre essere considerate non profit alla Wikipedia. E farà discutere, ancora ieri, una sentenza della Corte Suprema che riconosce il diritto d’autore, anche per temi musicali, libri o video che pure siano considerati «di pubblico dominio», una scelta, in un certo senso contraddittoria rispetto alla disfatta Sopa. Del resto lo studioso Shirky, guru del «web libero» twitta ieri «sarà ancora una lunga battaglia». La soluzione, molto probabilmente, non sta oggi nella lenta politica, ma ancora nella veloce tecnologia e rapida cultura. Tablet, iPad, Kindle, smartphones offrono nuove piattaforme di consumo e crescita per aziende, artisti e giornalisti che vivono di contenuti. E’ curioso, e in un certo senso confortante, che il primo autore a vendere solo online oltre un milione di e-book, i libri elettronici, senza casa editrice o agente letterario, prezzo fisso 0,99 centesimi di dollaro di cui 0,35 vanno allo scrittore, si chiami John Locke, proprio come il padre dell’illuminismo liberale. Twitter@riotta da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9662 Titolo: Gianni RIOTTA - L’economista indiano Rajan: capitalismo e imprenditoria sono... Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2012, 10:58:04 pm Economia
21/01/2012 - economia-nuovi equilibri "Ci aspettano anni di bassa crescita Dobbiamo riuscire ad adeguarci" L’economista indiano Rajan: capitalismo e imprenditoria sono da preservare Gianni Riotta Chicago Alla Booth School of Business, nel freddo di Chicago, il professore Raghuram Rajan, in camicia scozzese, sembra appena un fratello maggiore dei suoi studenti, i laureandi che andranno a breve a fare i manager nel mondo della più grande crisi dopo il 1929. Niente di quello che hanno imparato sui classici, Smith, Keynes, Schumpeter, Taylor, la «scuola austriaca», appare più in grado di rilanciare la crescita e creare quei posti di lavoro che emigrano verso Cina, Brasile, India dove, a Bhopal, Rajan è nato e cresciuto. Davanti al suo ufficio quello del collega italiano Luigi Zingales, che con Rajan ha scritto il saggio «Salvare il capitalismo dai capitalisti» da Einaudi: e lo stesso editore tradurrà, a marzo, «Faultlines», linee di frattura, il lavoro di Rajan che rivoluziona il giudizio sulla crisi. Consulente del premier indiano Singh, a lungo capo economista del Fondo Monetario, Rajan legge le nostre difficoltà non solo in economia, ma anche nella società e tra le famiglie: «Non bisogna guardare alla crisi partendo solo dagli ultimi anni. Il ceto medio si sta impoverendo. I governi provano a reagire, espandendo il credito - strategia che ha più rapido impatto rispetto a stimolare la crescita nel lungo periodo - e lo fanno proprio per far fronte alle preoccupazioni del ceto medio, ritrovandosi alla fine con la crisi delle banche. L’invecchiamento della popolazione comporta un costo che può essere sostenuto solo dall’incremento dell’efficienza. Questo non significa che possiamo permetterci già di ridurre l’intervento statale. No: la novità radicale cui la crisi ci obbliga è realizzare nuovi tipi di interventi governativi. Dobbiamo preparare studenti e lavoratori al mercato del lavoro futuro, non a quello passato. Al tempo stesso rendere il settore finanziario stabile. Uno sforzo ingente». Rajan è stato il primo teorico a vedere come l’espansione dello stato sociale dagli anni ‘50 ai ‘70, accompagnata dalla rivoluzione tecnologica e malgrado le riforme di Reagan e Thatcher, non abbia saputo insegnarci a crescere nel mondo globale. Illusi di restare «primi», abbiamo puntato sul debito, pubblico o privato, raccogliendo quelli che l’economista Cowen chiama «i frutti dei rami bassi», la crescita facile. «La crisi è una tragedia per la classe media, colpita sul lavoro e la pensione. Chi entra oggi nel mercato del lavoro sa che la possibilità di avere un futuro comporta la riduzione dei “privilegi” di una volta, soprattutto in paesi europei come Italia o Germania. Ora i governi devono puntare su un’adeguata formazione per le persone e la stabilità del settore finanziario. Il progresso tecnologico rende la formazione acquisita in passato non adeguata a competere sul mercato. Anche il mio lavoro di docente universitario, si deve confrontare con la possibilità che un bravo professore offra gratuitamente su internet le proprie lezioni. Come difendo il mio lavoro? Il valore aggiunto è la creatività, che però non è alla portata di tutti. Però tutti sono chiamati a cambiare per preservare il benessere. Non sarà facile». Oggi, a un convegno della Fondazione Italcementi ne parleranno due donne, Emma Marcegaglia e Susanna Camusso, che guidano rispettivamente l’associazione delle aziende e il più grande sindacato italiano: come creare e difendere l’occupazione? «Negli Stati Uniti l’80% dei posti di lavoro si concentra nei servizi, l'occupazione cala nel manifatturiero. Focalizziamoci sul terziario, professionalità di alto livello e servizi non specializzati. Non possiamo proteggere il mercato del lavoro mantenendolo immobile, il protezionismo si aggira. Ricordiamo i posti di lavoro perduti, ma non sappiamo indicare le professionalità nuove da sviluppare. Sono loro la crescita, là si crea una forza lavoro adeguata, tra sanità e formazione. Ci deve essere dialogo tra Università, imprese e istituzioni locali». L’opinione pubblica spesso finisce per prendersela con la «globalizzazione». L’astio per il mercato globale unisce destra e sinistra, Tea Party e Occupy Wall Street. «India e Cina sono due enormi paesi, ma spesso nell’occidente industrializzato, li si considera solo una minaccia: “Come possiamo competere con questa massa di lavoratori”? Si dimentica che ogni lavoratore che raggiunge un certo benessere è un consumatore, che aspira ad acquistare i prodotti fabbricati in occidente. Possiamo guadagnare tutti, il mercato si è evoluto. L’Occidente guardava a India e Cina come a un riflesso di sé: ora deve invece produrre tenendo conto del mercato reale dei paesi emergenti, e non di un’immagine falsa. Il mercato reale in Asia e America Latina è un’enorme classe media, che magari guadagna diecimila euro l’anno quando si trova in una condizione di benessere. Cosa produrre per raggiungerla? I prodotti che hanno successo là, non sono gli stessi che funzionano tra noi. Le aziende dei paesi industrializzati devono rinnovarsi per i mercati nuovi, capirne le necessità». Forse l’esperienza di Rajan, nato in una città indiana sinonimo di sofferenza, Bhopal, e attivo nella frenetica metropoli della Borsa “futures”, Chicago, lo persuade che la crisi non sarà Apocalisse. Abbiamo perso privilegi, ma ne verremo fuori: «Questo è il momento più critico nella storia del capitalismo. Se rivolgiamo lo sguardo al passato, iniziamo a dire “no, questo non funzionerà”, “abbiamo paura degli emergenti”, “addio al futuro”. Se i governi soccombono al populismo, rischiano protezionismo e conflitti. Abbiamo già vissuto questa reazione negli anni Trenta, ma dopo crisi e guerra abbiamo avuto lo stato sociale, possibile perché, dopo le devastazioni, vi era la previsione di lunga crescita. Sperando di non arrivare a nuove guerre, dobbiamo rimodellarci per anni di crescita contenuta. Spero che la fiducia prevarrà, che le riforme saranno accettate senza troppa rabbia contro il sistema. Non perché il sistema funzioni perfettamente, dobbiamo ridefinire l’intervento pubblico, formare la forza lavoro, stabilizzare la finanza. Ma il capitalismo, l’imprenditoria libera, sono da preservare». da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/439160/ Titolo: Gianni RIOTTA - La neve, un caso d'autocoscienza nazionale Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2012, 11:19:07 pm 7/2/2012
La neve, un caso d'autocoscienza nazionale GIANNI RIOTTA L’ondata di freddo che ha colpito l’Europa, conferma di variazioni climatiche che andrebbero studiate con serietà, si lascia dietro centinaia di morti. In Ucraina sono oltre 130, per ipotermia o congelamento. In Polonia le vittime sono, mentre scriviamo, 53 e il premier Tusk ha tolto il bando contro l’ammissione degli ubriachi nei dormitori pubblici, dopo che otto vagabondi sono morti in una sola notte. L’agenzia Reuters calcola in 10.000 i civili intrappolati da un metro di neve in Bosnia, alcuni hanno passato 24 ore all’addiaccio. In Serbia sono 70.000. In Ungheria tre morti per congelamento, sei in Lituania. A Londra, scrive il New York Times, i fiocchi hanno raggiunto solo i 20 centimetri, con 800 voli cancellati all’aeroporto di Heathrow, che tredici mesi fa si paralizzò per una nevicata. La mitica metropolitana di Londra funziona a metà. Molte autostrade e svincoli impraticabili, la Metropolitan Police ha chiesto ai cittadini di restare a casa nel week-end. In Francia 5 morti, tra cui un dodicenne. Secondo l’agenzia Bloomberg, Edf, il maggiore generatore di energia d’Europa, è a rischio per sovraccarico di domanda. Edf smentisce L’ intero continente condivide le sventure del nostro CentroNord, assiderati, trasporti in tilt, scuole chiuse, strade congestionate, disagi. Solo in Italia, però, la neve diventa autocoscienza nazionale, con l’opinione pubblica a inveire contro «la politica», i leader a litigare fra loro in uno spettacolo che, soprattutto nella capitale Roma, ha punte di petulanza comiche e indecorose, cercando «colpevoli» qui e là. Riletto il bollettino di guerra meteorologico europeo, con l’eccezione di Roma e di parte del Lazio, l’Italia ha sofferto come tutto il continente. Vale dunque la pena capire perché questo sia ormai, dal naufragio della Concordia, al maltempo, alle sconfitte della Nazionale di calcio, Dna nazionale. Gli studiosi del costume italiano potrebbero dire che solo da noi esiste il proverbio «Piove, governo ladro», che gli inglesi sono fieri del loro «stiff upper lip», tenere duro nelle difficoltà, i tedeschi del «Beruf», fare il proprio dovere al lavoro e oltre, i francesi dell’identità comune della «République». Ciascuno di questi luoghi comuni ha verità e falsità, per individuarle basta un libro di storia o una rivista d’attualità, ma se la nostra Repubblica invece si batte il petto, litigando sprofondata nel malumore, le ragioni devono essere più profonde, importanti. Certo, la storia della nostra politica, recente e no, indebolisce l’«interesse nazionale comune». I treni vanno modernizzati, le autostrade e gli aeroporti portati a livello del XXI secolo e le città dotate di piani antineve razionali? Sì, ma non servono polemiche, meglio visioni «bipartisan», progetti condivisi, collaborazione politica, società civile, imprese. Invece risse. Pensate alla grande occasione Expo 2015, pensate alle possibili Olimpiadi in Italia. Nel 1960 a Roma e nel 2006 a Torino le organizzammo alla grande, ma in spirito unitario: ora invano quello spirito si cerca da Nord a Sud, dall’Expo ai cerchi olimpici. Vent’anni di crociate pro e contro Berlusconi rendono spinoso ogni ragionamento equilibrato sulle infrastrutture, essere pro o contro il Ponte sullo Stretto, la Tav, il raddoppio di certe autostrade, l’hub a Malpensa o Fiumicino, non è confronto oggettivo di costi e benefici, fattibilità, è ordalia, scontro di fedi, guerra fredda di opinioni malmostose e poco informate. La neve potrebbe essere occasione per calcolare, senza rancori, cosa non ha funzionato, dove si può rimediare, quali snodi aprire nella burocrazia, come rendere Roma meno soggetta alla paralisi (New York muta, con un semplice rostro attaccato al parafango, ogni camion in spazzaneve: idea replicabile?). Invece il sindaco della Capitale pensa al proprio futuro, il governo deve difendere la Protezione civile e quell’organo importante paga il prezzo per anni di spettacolarizzazione e show eccessivi. Infine, ed è questo il discorso più difficile da fare e ascoltare ma più necessario, nessun piano, nessun sindaco, nessuna Protezione civile, nessun governo o piano delle infrastrutture ci metterà per sempre, e tutti, al sicuro. Non tutte le calamità sono prevedibili, non tutti gli eventi naturali sono, come scrivono i polemisti storpiando il povero García Márquez, «annunciati». Potremo attrezzarci alla grande, e in perfetto spirito unitario, potremo riportare il nostro come si dice con parola frusta - «territorio» all’armonia che sogniamo avesse un tempo e non ha invece mai avuto, pure subiremo la furia della Natura. I nostri antenati, nel terremoto di Messina o nel Polesine, avevano altro da fare che non litigare. E come loro, anche oggi tanti si sono comportati con stoicismo, e ironia, sotto la neve. A ben guardare, specie sui new media, la nevicata ha imbiancato due Italie. Non «Politica» contro «Società civile», nel duello facilone al crepuscolo della II Repubblica. No, un’Italia viziata dal benessere, poco pronta a farsi carico di un disagio benché minimo, non solo il «ceto politico», ma tutti coloro che si fanno «gli affari propri», detestano le tasse per poi indignarsi se il garage è bloccato dalla neve. Ceto di privilegiati, indispettiti e insofferenti, vicini ai media, ai luoghi del potere, dove subito arrivano le telecamere. Solo ieri la tv è arrivata invece a Campagnano di Roma, dove come a Sutri e in altri centri dell’Alto Lazio, le comunità rurali soffrono bloccate. Là niente isteria: lavoro, contare su se stessi, Italia «d’altri tempi» nel 2012. E così è andata anche, dal Piemonte alla Lombardia, al Nord. Mentre sull’Europa nevicava, la tempesta del debito non dava requie dalla Grecia sull’orlo del default, a Spagna e Portogallo. Ma vari osservatori internazionali incalliti, cinici, speculatori, non gente che ci voglia bene, cominciano a abbassare la scommessa del rischio sull’Italia: perfino Walter Russell Mead, il più duro degli storici americani, mi dice «E’ incredibile, ce la fate anche stavolta». Spero abbia ragione. Se ce la «faremo» sarà perché le élites del governo di Mario Monti hanno saputo comunicare con l’Italia migliore, borghese e popolare, urbana e rurale, che tiene anche sotto la neve. Sempre, nella nostra storia, quando élites e gente comune lavorano insieme ce la siamo cavati. E se la sfanghiamo col debito, figuriamoci con i fiocchi di neve. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9747 Titolo: Gianni RIOTTA - Le vite degli altri e gli eccessi dei new Google Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2012, 10:33:53 am 19/2/2012
Le vite degli altri e gli eccessi dei new Google GIANNI RIOTTA Il Minatore di Dati non scende sottoterra, scopre le sue pepite d’oro nei motori di ricerca Internet, non ha l’elmetto con la lampadina ma computer e software sofisticati, non rischia di esplodere con il grisou ma su una legge a tutela della privacy online. Il presidente Obama affida le speranze di rielezione al Capo Minatore Dati Democratico Rayid Ghani; Google e Facebook contano di sbancare il mercato con i loro Giacimenti di Dati; aziende, grandi e piccole, vogliono cavarsela nel 2012 di recessione grazie ad abili Minatori di Dati. Tra i dati scavano intelligence e terroristi, pirati informatici e sociologi, predicatori e commessi viaggiatori del web. Tutti a caccia del prezioso metallo virtuale che sono le nostre professioni, la nostra vita, le foto, gli affetti, i consumi, le mail personali e di lavoro. Chi meglio connetterà via «data mining», lo scavo dei dati, la massa di materiale che ogni giorno immettiamo online diventerà leader politico o monopolista del web. La partita per accedere, controllare, lanciare sul mercato, svendere oppure proteggere e custodire i nostri dati - oggi nei singoli computer, domani nei megadepositi collettivi chiamati «clouds», nuvole - sarà decisiva per definire natura e qualità di mercato, società, democrazie. Quando vi collegate con il possente motore di ricerca Google è possibile notiate, in basso sul vostro schermo, una riga color grigio perla con tocco di rosso che vi avvisa di «Nuove norme sulla privacy e termini di servizio». Si vede appena, chi di voi ha cliccato sulle burocratiche informazioni che scatteranno dal 1 marzo alzi la mano. Eppure fareste bene a leggere, perché le «nuove norme» specificano che i vostri dati resteranno «per sempre» nel sistema, saranno condivisi da tutti i servizi del motore di ricerca, anche da quelli che mai voi avete usato o magari neppure conoscete, la posta Gmail, i video di YouTube, le mappe di Earth, il nuovissimo sistema operativo Android, Voice, Chrome, Wallet. Se pensate che la novità e i Minatori di Dati non vi riguardino ascoltate Richard Falkenrath, numero due dell’Antiterrorismo americano dopo l’11 settembre e oggi studioso al Council on Foreign Relations: Falkenrath auspica, negli Usa e in Europa, leggi di difesa della privacy online perché, «pur se renderà meno facile l’antiterrorismo», il «diritto all’oblio» è indispensabile a individui e democrazie contro i dati custoditi e negoziati online per sempre. Falkenrath cita il caso della scuola dei suoi figli dove - come in tante medie e licei Usa - in cambio di email gratuite, e-books e altri sussidi didattici del programma Apps for Education, Google ottiene accesso ai dati degli studenti «in Aeternum», per sempre. Il guru antiterrorismo Falkenrath scopre, con amarezza, che le tecniche da Minatore di Dati da lui usate inseguendo al Qaeda sono impiegate per analizzare i gusti dei suoi figli e far affluire loro, via computer, le pubblicità più gradite, abbigliamenti, elettronica, sport. La posta Gmail - che ha trasmesso questo articolo a La Stampa - può connettersi con Picasa, software gratuito per le fotografie. Picasa riconosce i volti delle foto che i ragazzi mettono online, risale al luogo e alla data in cui sono state scattate, scheda chi c’era e quando. Strumenti utili alla polizia, ma anche al marketing per seguire i teen ager dalla discoteca, al centro commerciale, allo shopping online, confrontando i loro dati con quelli degli amici. Google è già andata sotto accusa per avere infranto le - pur esigue - leggi sulla privacy. Due anni fa raccolse dati WiFi senza permesso per il programma Street View, e di recente un ricercatore dell’Università di Stanford ha scoperto che l’azienda permetteva accessi illegali alle agenzie turistiche per spiare i clienti sul browser Apple Safari. Neutralizzati i «cookies» di Safari, semafori d’ingresso informatici, i Minatori di Dati entrano a casa vostra, in segreto. Ora l’Unione europea vorrebbe leggi più efficaci, ma lo sbarco in Borsa di Facebook che mira a 75 miliardi di euro in valore, il boom di Google, la guerra sotterranea contro Twitter, si basano sull’accessibilità delle Miniere di Dati alle vostre vite, idee, opinioni, gusti e consumi. Se è facile ottenerli, studiarli, venderli e scambiarli, il valore delle aziende sale. Se Congresso Usa e Unione Europea difendono la privacy, scende. Non pensate solo a blue jeans o alla settimana bianca. Il professor Ghani fa per la campagna di Obama lo stesso lavoro, scava «Metadati» - segnatevi questa parola perché deciderà del vostro futuro - analizza cioè dove sono gli elettori, di che cosa si interessano, frulla le opinioni su aborto, economia, Wall Street, lavoro, conduce mini sondaggi e, se le mail che analizza, le foto che osserva da Facebook, i tweet che raccoglie, lo segnalano, suggerisce al presidente slogan, idee, progetti adatti all’umore americano del giorno. La battaglia sulla privacy online durerà a lungo, con due bizzarrie. La privacy che, a parole, ci sta a cuore, la «autovioliamo» noi stessi ogni giorno, con il «post» di foto e storie che crediamo «riservate» e che finiscono ai Minatori di Dati, commerciali e politici. E davanti a regole contro l’arbitrio dei Minatori, Google, Facebook, Youtube, Amazon, Twitter, si muteranno in Robin Hood della «libertà sul web», i gonzi abboccheranno, i furbi scaveranno con vanghe informatiche quei Dati preziosissimi che nulla sono se non le nostre vite. twitter @riotta da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9790 Titolo: Gianni RIOTTA - Leader-centauri per governare il mondo globale Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2012, 11:29:13 am 23/2/2012
Leader-centauri per governare il mondo globale GIANNI RIOTTA La Carnival corporation, nota in Italia per il naufragio Concordia, è celebre invece negli Usa del dibattito fiscale perché, con 11,3 miliardi di dollari in profitti (8,70 miliardi di euro) paga in tasse un'aliquota da sogno per ciascuno di noi, l'1,1%. E badate, senza nessun sospetto di evasione fiscale, solo usando con abilità il codice fiscale americano gruviera. Mentre Washington impone, per legge, una severa aliquota del 35% alle corporations, spesso più alta di quelle in uso in Europa, in realtà i «loopholes», le scappatoie del sistema permettono, legalmente, alla General Electric di pagare il 14,3%, alla Boeing di cavarsela col 4,5 e a Yahoo di saldare il conto con lo Zio Sam con un virtuale 7%. Delle compagnie di Standard & Poor's 39 pagano meno del 10%, 112 meno del 20%. C’è chi lavora sulle norme per i profitti ottenuti all'estero, chi sui macchinari acquisiti, i progetti, le ricerche. Le lobbies lavorano ai fianchi il Congresso per ottenere nuovi «loopholes», gli uffici fiscali impiegano legioni di avvocati e commercialisti, il risultato è un mercato distorto, proventi che restano artificialmente lontani dai confini nazionali, aerei comprati non perché servano ma perché innescano riduzioni fiscali, ricerche farmaceutiche che non porteranno mai a un nuovo farmaco, solo a sgravi. Che il sistema vada riformato lo chiedono da anni politici liberal e conservatori, economisti, le aziende migliori, persuasi che la droga fiscale alteri l'innovazione. Il presidente Obama ha parlato di «sistema peggiore del mondo», invocando novità nel Discorso sullo Stato dell' Unione. E' perciò importante la riforma del codice fiscale per le aziende che l'amministrazione Obama ha presentato ieri, con il ministro Geithner, per ridurre la marziale ed elusa aliquota del 35% a un più ragionevole 28%, eliminando però parecchi - non tutti - «loopholes», e permettendo meno slalom fiscale alle aziende. Da una generazione il sistema fiscale, per i cittadini e le corporations, non conosce seri aggiornamenti ed è dunque importante che la Casa Bianca affronti infine il tema. Non aspettatevi però che, in un anno di elezioni presidenziali, con il ministro Geithner che lascerà l'incarico nel 2012 e in un clima pessimo tra repubblicani e democratici, la riforma vada in porto, almeno nel testo diffuso ieri. Lo sa il presidente Obama, lo sanno i rivali repubblicani Romney, Santorum, Gingrich e Paul - che si sono affrettati però a promettere i loro totem di riforma fiscale con Romney a parlare di 28% ma per i cittadini -, lo sa il Congresso e lo sanno aziende e lavoratori. L'importanza dell'annuncio di ieri consiste invece nel ridefinire il terreno e i temi su cui si disputerà la grande stagione elettorale 2012-2013, presidenziali Usa e Francia, politiche in Italia e Germania: fisco, imprese, nuovo lavoro, uguaglianza sociale, austerità, sviluppo, tecnologia, rapporti tra i ceti sociali reali del XXI secolo. Non più il «capitalista» con sigaro e cilindro come nelle caricature espressioniste di Grosz contro l'operaio muscoloso che spezza le catene delle vecchie tessere socialiste, con in mezzo il borghese, caro al regista Frank Capra e irriso dalla beat generation. No, le due grandi classi della «società clessidra», con il ceto medio che perde forza al centro e, in alto coloro che possiedono gli «skills», le tecniche del nuovo sapere tecnologico, in basso coloro che non li conoscono ancora, rischiando lavoro, futuro, identità sociale. I movimenti che hanno polarizzato l'America, più evento mediatico che sommovimento politico, Occupy Wall Street e Tea Party, in apparenza rivali a «sinistra» e «destra», sono in realtà espressione dello stesso scontento contro un'economia che non riesce a dare ai «blue collars», gli operai, come a piccole e medie imprese, le garanzie di sviluppo che il sistema pre-globalizzazione e informatica garantiva. Il codice fiscale di Obama - che auspica anche nuove norme per i cittadini, come già anticipa Romney con il suo 28%, ma sa di non averne ora la forza - è manifesto elettorale, segnale contro le lobbies, ma senza scoraggiare le corporations che, nella globalizzazione, decidono dove fare, e tenere, i profitti. Obama deve dare perfino uno spruzzo di protezionismo, più di propaganda che reale, senza però spaventare i mercati. Le stesse regole determineranno il duello tra il socialista Hollande e il presidente Sarkozy in Francia. Hollande può oggi parlare di «nuovo negoziato» con l'Europa sullo sviluppo, ma sa bene che non potrà mettere a rischio la credibilità finanziaria di Parigi, già un po' spiumata. Se promette di assumere 60.000 nuovi insegnanti, di rilanciare le 35 ore di lavoro o ritardare i pensionamenti, poco importa: se gli insegnanti non saranno preparati ai nuovi saperi, se i lavoratori non aumenteranno la produttività e il Paese non lavorerà di più e meglio, il suo sogno si infrangerà contro la realtà, come il Mitterrand utopista del primo mandato lasciò presto il posto al Mitterrand pragmatico della maturità. Sarkozy dal podio chiama a un micidiale referendum sulle «regole europee» rischiando un bis del quasi no francese a Maastricht (+1% a favore) e del no alla Costituzione. Scommette per incassare, contro la destra dei Le Pen, un po' di populismo antieuropeo. E' in questo - vedete? - identico al Romney repubblicano che a La Stampa dichiara stentoreo: neanche un centesimo per voi europei! L’Italia si è affidata ai tecnici di Mario Monti, ma alle urne dovrà trovare radice alla stessa equazione, meno spesa senza tasse folli, austerità e rigore senza perpetuare la recessione, sviluppo senza sussidi ai settori obsoleti dell'economia, lotta ai populismi di destra e sinistra. Nello stesso perimetro e con le stesse regole va al voto federale tedesco la Cancelliera Merkel: difendere le esportazioni e il benessere del suo Paese, senza mandare in bancarotta gli europei debitori e innovando un'economia teutonica blindata sulla carta, ma sui progetti XXI secolo, disegno di software per esempio, meno Valchiria. E’ stato il filosofo Francis Fukuyama a definire il paradosso del centauro che sarà protagonista della politica di questa generazione: il Populista Tecnocratico. Un leader capace di parlare alle elites di Davos, Bocconi, Harvard, Aspen e Ambrosetti, incoraggiare mercati e ceti produttivi, senza alienarsi però chi si sente tagliato fuori dal mondo globale, dandogli anzi chance vera di maturazione. Clinton e Reagan, Mitterrand e Kohl, avrebbero saputo recitare la parte, un cocktail due terzi Progetto ed Economia e un terzo Slogan e Immagine. Vedremo nella lunga elezione Usa-Ue 2012-2013 chi ci riuscirà. Ma solo in chiave di «Populismo tecnocratico» comprenderete il piano fiscale di Barack Obama che, nella forma odierna, mai entrerà in vigore. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9805 Titolo: Gianni RIOTTA - L'intervista a Miuccia Prada: "Cerco il bello per essere felice" Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2012, 06:18:17 pm Economia
26/02/2012 - L'intervista a Miuccia Prada: "Cerco il bello per essere felice" L'icona della moda made in Italy: "Sto tornando all’arte, non solo contemporanea. Voglio lavorare sui classici, qualcuno si stupirà" GIANNI RIOTTA Milano La tentazione di mettere a confronto due protagoniste della moda come Elsa Schiapparelli (1890-1873) e Miuccia Prada era forte, ma l’impresa era anche difficile: il Metropolitan Museum di New York ha sfidato se stesso e il risultato è una mostra che resterà aperta dal 10 maggio al 19 agosto prossimi. «E’ un onore», dice Miuccia Prada in un’intervista a La Stampa in edicola (ACQUISTA UNA COPIA QUI). La regina delle stiliste racconta il processo creativo: «Non penso mai che i nostri vestiti verranno indossati nella realtà, disegnando non penso al corpo fisico. Mi illudo della sua bellezza, dello stile, un po’ come la città ideale, raziocinante, che sognavano nel Rinascimento Brunelleschi e gli altri, ogni edificio parte di un’armonia. Al corpo penso sempre fuori dalla moda, penso al nostro corpo sofferente, martoriato, in pena». Nel lungo colloquio con Gianni Riotta Miuccia Prada, seconda donna più potente del mondo per la rivista Time, tra i venti magnati della moda e tra le 300 persone più ricche al mondo nelle classifiche di Fortune parla di arte, new economy, tecnologia e miti. Infine, una battuta sulla politica e sul governo Monti. da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/444053/ Titolo: Gianni RIOTTA - Giornalisti: le "due campane" non bastano più Inserito da: Admin - Marzo 01, 2012, 10:56:39 am 1/3/2012
Giornalisti: le "due campane" non bastano più GIANNI RIOTTA «Hai sentito anche l’altra campana? Hai le due versioni?»: il saggio monito che il caporedattore d’un tempo dava al cronista in erba è ancora valido nel giornalismo di web e twitter? Per essere equilibrati bastano i due punti di vista opposti, Tav-No Tav, Berlusconi-antiBerlusconi, Assad-ribelli in Siria o è arcaico esercizio da Ponzio Pilato? Se lo chiede National Public Radio, Npr, autorevole network di 900 radio pubbliche americane lanciate negli Anni 60 dal presidente Johnson, quanto di meglio i media Usa abbiano in anni rauchi di populismo. Nel suo nuovo manuale http://ethics.npr.org/ Npr spinge i reporter a non accontentarsi più dei «fatti», delle «dichiarazioni», ma a riconoscere che la verità è molto complessa, costituita da voci, versioni e culture opposte, che il «Lui dice...» «Lei ribatte...» non sa illustrare. La svolta di Npr, bastione dell’anglosassone «fairness», equanimità, viene dalla frustrazione per un mondo in cui ormai poco «accade» senza filtri e, soprattutto in politica, ogni «notizia» è curata da «spin doctors», manager dell’immagine che costruiscono realtà posticce a vantaggio dei leader. Il manuale Npr è accolto con entusiasmo da Jay Rosen, filosofo della New York University e padre del movimento Citizen Journalism, corrente che scommette su Internet per un «giornalismo dei cittadini», più ricco, innervato e vicino alla realtà, grazie a blog e social network, di giornali e tv. Nel suo blog Press Think (sottotitolo alla Marx, Fantasma democratico nella macchina dei media) Rosen elogia Npr, ricordando il caso di un articolo del «New York Times» sul salvataggio di Wall Street dopo la crisi, in cui l’ex presidente della finanziaria Aig, Maurice Greenberg, attaccava la Casa Bianca, «intervento fallito per 170 miliardi di dollari», per essere poi bilanciato da dichiarazioni opposte. Rosen critica la tecnica delle «due campane», perché - a suo avviso - se non si ricordano per intero le responsabilità di Wall Street nella crisi non si può fingere poi che ognuno dica la sua, come a un club. Meglio sbilanciarsi, dare contro Greenberg, prendere parte senza falsi equilibri: è la tecnica in uso su Internet, con i blog a dare la propria versione singola e il lettore a orientarsi come può. Se la parzialità, rivendicata nei blog come già nella stampa schierata, viene ora adottata anche dai media equanimi, come cambia l’informazione? Il dibattito di Npr raggiunge il «New York Times» e non senza frizioni. Il 12 gennaio, Arthur Brisbane, «public editor» vale a dire il giornalista che difende diritti e punti di vista dei lettori anche contro direttore ed editore, pubblica un commento controverso: «Il “N. Y. Times” deve essere il vigilante della verità?» http://publiceditor.blogs.nytimes.com/2012. I cronisti devono riportare le dichiarazioni di politici, finanzieri, militari obiettivamente, o commentarle già negli articoli, non aspettando gli editoriali? Il Nobel per l’economia Krugman, columnist del giornale, non ha dubbi e il 23 dicembre invita i redattori a ribellarsi contro «la politica della post-verità» http://www.nytimes.com/2011/12/23/opinion/krugman-the-post-truth-campaign.html?_r=1. Giusto i temi che «La Stampa» ha affrontato con la filosofa D’Agostini nell’eccellente saggio su «Lady Gaga e Vattimo» http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/444035/ Davvero National Public Radio, che forma l’agenda politica di Washington, e il «New York Times», con milioni di lettori online, possono adottare l’unilateralità del blog di un cittadino giornalista nel suo tinello? La discussione aperta da Brisbane preoccupa la direttrice Jill Abramson che scrive direttamente al «public editor», in uno scambio di raro candore: E’ ovvio, sintetizza Abramson, che un cronista debba sempre controllare i «fatti» e le dichiarazioni delle fonti, ma senza relativizzare tutto. In difesa del giornalismo classico Abramson si appassiona: «Naturalmente certi fatti saranno, con legittimità, disputati, e molte affermazioni, soprattutto nell’arena politica, aperte al dibattito. Dobbiamo però essere attenti che anche il controllo dei fatti sia equanime e imparziale, senza scivolare mai nel tendenzioso. Tante voci che strillano chiedendo "Fatti" vogliono in realtà solo ascoltare la propria versione dei fatti». Chi ha ragione? Il lettore non si aspetti una risposta univoca, e non certo per adesione alla moda del momento! Realtà importanti come citizen journalism e web hanno cambiato per sempre l’informazione. I cronisti verranno sempre più incalzati da versioni e analisi online 24 ore su 24: è un bene per informazione e democrazia. Ma la Abramson ha ragione quando, schiettamente, osserva che spesso sul web la rivendicazione dei «fatti» maschera solo l’opinione di chi scrive. E, come obiettava il vecchio senatore Moynihan, Primo Emendamento alla Costituzione Usa e nostro articolo 21 garantiscono libertà di pensiero, non, purtroppo, di fatti. Il futuro chiama tutti a maturare. I bloggers non potranno più accontentarsi della propria individuale «verità» e dovranno confrontarsi con chi la pensa diversamente. I giornalisti devono accettare che i vecchi strumenti non bastano più e difendere a testa alta nei new media equanimità, completezza, professione. Perché la questione è ben più antica del duello New Media contro Old Media. Tacito nelle «Storie» (100 dopo Cristo) ammonisce i cronisti contro l’adulazione per il potere, ma anche contro il rancore avverso al potere, più pericoloso del servilismo perché ha - agli occhi del lettore - «falsa sembianza di libertà». E Fred Friendly, padre della tv americana che sfida la caccia alle streghe di McCarthy e finisce nel film «Good night and good luck» interpretato da George Clooney, ammoniva noi studentelli di giornalismo alla Columbia University: «Gentlemen, il nostro lavoro non è convincere la gente a pensarla come noi. Al contrario, è aprire le menti presentando tutti i fatti: così da rendere per la gente la fatica del prendere una decisione tanto intensa che l’unica via di fuga sarà mettersi a pensare». da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9831 Titolo: Gianni RIOTTA - Il conflitto evitabile Inserito da: Admin - Marzo 05, 2012, 04:06:35 pm 5/3/2012
Il conflitto evitabile Per Pechino e Washington "la guerra è una scelta" GIANNI RIOTTA E' scontato che il prossimo conflitto del nostro pianeta veda Stati Uniti e Cina affrontarsi in guerra per l’egemonia? Lo sostengono a Pechino i falchi, persuasi da 3000 anni di timori di accerchiamento del Regno di Mezzo. Se i marines arrivano in Australia, ci sono manovre militari congiunte tra Vietnam e gli antichi nemici yankee e la US Navy pattuglia l’Oceano Indiano, non si vuole così isolare la Cina? Meglio annunciare un aumento alle spese militari dell’11,2%, per un totale di 85 miliardi di euro (e restano fuori le milizie paramilitari). Altrettanto sostengono i falchi di Washington, per una volta però volando assieme alle colombe: studiosi come Kaplan vedono la guerra avvicinarsi con i monsoni dal Pacifico allo Stretto di Hormuz, a sinistra si crede che l’espansionismo cinese e la mancanza di diritti civili, vedi Tibet, finiranno in un conflitto. Insomma per interessi economici, geopolitica, cultura e valori, è «inevitabile» la guerra Usa-Cina? Per scongiurare la catastrofe della III guerra mondiale, la prima del XXI secolo, interviene il decano della diplomazia Henry Kissinger, con il saggio «The future of U.S. Chinese relations», che qui anticipiamo dal prossimo numero della rivista Foreign Affairs, e che già sta facendo discutere Casa Bianca e Dipartimento di Stato. Con toni insolitamente appassionati per un cultore della gelida Realpolitik come l’ex segretario di Stato, capace negli Anni 70 di aprire alla Cina, favorire il golpe in Cile, bombardare la Cambogia, chiudere la guerra in Vietnam, scontrarsi con il premier italiano Moro, Kissinger scrive che la guerra può scoppiare, «ma sarà una scelta, non una necessità». Dopo aver criticato gli oltranzisti di Pechino e Washington, Kissinger compie il passo più astuto del buon stratega, cerca di capire quali sono le paure dei contendenti che possano scatenare mosse azzardate. La paura cinese, scrive, è essere accerchiati nei confini nazionali, senza accesso alle vie dei commerci e della comunicazione globale: ogni volta che la fobia scatta, Pechino va in guerra, Corea 1950, India 1962, Urss 1969, Vietnam 1979. La speculare angoscia americana è perdere accesso e influenza sull’Oceano Pacifico, e Kissinger, profugo europeo da bambino, ricorda che solo questo fattore trascina gli Usa in guerra nel 1941. La preoccupazione di Kissinger è che le due capitali stiano leggendo male le rispettive culture. Se uno studioso come Aaron Friedberg scrive che è indispensabile una «Cina democratica» per restare in pace con gli Stati Uniti e che, di conseguenza, Washington deve sostenere i dissidenti contro il Partito comunista, è possibile che Pechino interpreti la mossa come un’aggressione politica. Reagiscono allora gli strateghi aggressivi alla Long Tao dell’Università Zhejiang, persuaso che la Cina, duellante oggi più debole, non può che colpire per prima, magari in conflitti locali ma che dissuadano l’America dalla guerra globale. E già Long Tao ha invitato Pechino a colpire nel Mar Cinese Meridionale. Con freddezza che impressiona, Kissinger, l’uomo che col presidente Nixon ha riportato la Cina nel mondo e isolato l’Urss ai tempi della Guerra Fredda, ammonisce i rivali: non fatevi illusioni, lo scontro sarebbe nucleare, feroce e vi indebolirebbe entrambi per sempre. Devastando città ed economia e paralizzando anche, per la prima volta nella storia dell’umanità grazie alla cyber guerra, Internet e le comunicazioni, satelliti tv, Gps inclusi. «Le stesse culture» cinesi ed americane, conclude Kissinger, porterebbero i duellanti a non darsi tregua fino in fondo, lasciandosi alle spalle macerie e vittime. Né è possibile una strategia di «contenimento» della Cina, come quella che George Kennan disegnò per la Russia, perché l’Urss non costituì mai pericolo economico per gli Usa, solo militare, al contrario della Cina superpotenza industriale e finanziaria. L’alternativa alle armi è l’idea di una «Comunità del Pacifico», con Pechino e Washington a convivere intorno ad organizzazioni tipo Trans-Pacific Partnership, zona di libero scambio economico cui il presidente Obama vuole associare la Cina. Se i due ultimi giganti si legano reciprocamente - sul modello di Usa e Europa - possono risolvere i conflitti negoziando, magari con maratone diplomatiche estenuanti. Washington, Londra, Parigi, Berlino e Roma possono dividersi e riunirsi, ma senza spargere mai sangue. Presto la dissennata politica cinese di un solo bambino a famiglia vedrà, conclude Kissinger, «quattro nonni competere per l’attenzione di un solo figlio o nipote», la Cina dovrà dividere la ricchezza acquisita su una popolazione tre volte maggiore degli Usa e ormai in media più vecchia. Con l’ascesa al potere di Xi Jinping, nato nel 1953, la Cina, dal vertice ai villaggi, sarà governata da una generazione di leader che non ha conosciuto guerra civile, povertà, violenza: sarà possibile coinvolgerla nella pace, pur di non provocarla a dimostrare di essere patriottica come padri e nonni della Lunga Marcia. È la scommessa più grave del nostro tempo. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9847 Titolo: Gianni RIOTTA - Lucio Dalla, la privacy senza maschere Inserito da: Admin - Marzo 09, 2012, 11:42:42 am 6/3/2012
Lucio Dalla, la privacy senza maschere GIANNI RIOTTA E si farà l’amore, ognuno come gli va...»: il verso della più bella canzone di Lucio Dalla, «L’Anno che verrà», esprime alla perfezione filosofia ed etica dell’artista: liberale, tollerante, discreto. Delle scelte personali, familiari, di preferenza sessuale, Dalla non ha mai voluto parlare in pubblico, neppure quando il clima culturale italiano, ormai assai meno conservatore dei giorni del suo debutto, avrebbe accettato senza problemi una netta dichiarazione di stili di vita. Pur consapevole dell’affetto del pubblico e della maturazione dell’opinione pubblica, mai Dalla ha deciso di affrontare il tema e solo le persone a lui più vicine, la famiglia, gli amici cari, sanno perché, se per privacy di star abituata da sempre al palcoscenico, pudore di sentimenti da italiano nato il 4 marzo 1943 o discrezione di cattolico ai nostri difficili tempi, tra precetti di fede e tumulto di vita. In uno dei suoi testi vintage, il poco ascoltato retro del 45 giri di Sanremo 1967 «Lucio dove vai?» si chiede «Lucio chi sei tu? Un vestito diverso non ti cambierà... Lucio chi sei tu? Perché hai coperto col berretto rosso il grigio che c’è in te? E non sai più perché lo fai. Ridi, ridi. Lucio come stai? Le tue bugie ora le pagherai. Lucio come stai? Cosa salvi dei momenti colorati che tu chiami vita?...». Un poeta sa dire la verità, anche senza virgolette no? Chiusa la cerimonia nella cattedrale della sua città, invece, Dalla è stato trascinato in un dibattito postumo sull’outing, la decisione degli omosessuali di vivere a viso aperto la loro vita. C’è chi lo ha criticato per non averlo fatto, chi ha obiettato al doppio standard - tanti davano per inteso che Dalla fosse gay, ma senza dichiararlo -, chi ha accusato i cattolici di ipocrisia per la messa, chi ha preferito prendersela tout court con il nostro Paese, sempre pronto a far finta di nulla e tirare a campare. Coinvolti nella rissa i familiari, ignari e ancora in lutto. Mi sono chiesto che cosa Dalla avrebbe detto del can can: credo nulla, credo avrebbe, ancora una volta, glissato. Le sue idee di amore, sentimenti, famiglia, erotismo, rapporti stabili o casuali, sensualità, affetti, passioni, flirt, matrimonio, fedeltà, innamoramento, desiderio, le abbiamo chiarissime dalle sue canzoni. Come Lucio la pensasse davvero sulle questioni cruciali di cuore, anima e corpo lo apprendete, amandole, dalle sue parole e note. Il «dibattito» cacofonico e greve, non aggiunge nulla. Dalla ha fatto una scelta di assoluto riserbo, ma senza nascondersi o mascherarsi, niente false «fidanzate», «girlfriend» o «mogli» per lui come per altri artisti. Ho avuto modo di osservare su Twitter che sarebbe stato opportuno rispettarne il riserbo, non per ipocrisia, tartufesca prudenza o sessuofobia becera. Perché è giusto che ciascuno scelga la propria identità, pubblica, privata, di affetti e valori, e che tutte abbiano pari dignità nella nostra comunità finalmente capace di «fare l’amore ognuno come gli va». Discriminazioni contro qualunque identità sono odiose e vanno contrastate. Ma anche la scelta di tenere per sé e i propri cari l’intimità più importante va tutelata, per le star e per gli sconosciuti. Non è «vergogna» o negazione di sé, è rispetto, vera tolleranza. Nessuno ha il diritto di imporre agli altri un codice, qualunque questo codice sia, e schierare i morti a dispetto della loro volontà da vivi non è anticonformista, è un po’ maramaldo ed è bene che non diventi norma di un Paese civile. Lucio Dalla lo sapeva già, cantando in «Disperato erotico stomp». «Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale...». da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9848 Titolo: Gianni RIOTTA - Evitiamo lo scontro tra opposte demagogie Inserito da: Admin - Marzo 10, 2012, 03:49:11 pm 10/3/2012 - QUI ITALIA
Evitiamo lo scontro tra opposte demagogie GIANNI RIOTTA L’arciere Arjuna, eroe del capolavoro epico indiano Mahabharata, non vuole andare in guerra. Combattente valoroso, sa che uccidere innocenti, anche se nemici quel giorno, ferirà per sempre chi sopravvive. Sul campo di battaglia a Kurukshetra, Arjuna interroga sulla «guerra giusta» il dio Krishna, non vuol spargere sangue fraterno – come sarà invece costretto a fare con il fratello-rivale Karna - e, per la prima volta nella storia dell’etica umana, si tormenta, come poi generazioni di combattenti: che diritto ho di ammazzare? Chiunque cade è mio fratello! Il dio Krishna gli risponde con parole e morale possenti: devi fare il tuo dovere, il destino degli uomini è nelle mie mani, non nelle tue. Quel capolavoro, madre dell’epica nella madre delle lingue, il sanscrito, è patrimonio indiano comune all’umanità: e nel groviglio che sta diventando il caso dei pescatori uccisi e dei militari detenuti non saprei trovare guida migliore. Il primo errore da evitare è infatti lo scontro «culturale», NOI-LORO. I demagoghi ci provano, nazionalisti che vogliono dimostrare come l’India sia ormai «potenza», sciovinisti che chiedono a Roma di reagire ancora da «potenza». E alle famiglie dei lavoratori morti e dei militari detenuti non basta a consolarsi la saggezza amara di Arjuna. Occorre risolvere la vicenda presto, al netto degli errori commessi da Roma e Nuova Delhi per precipitazione, senza lasciare la regia ai populisti. L’India ha un passato così formidabile, rinverdito dalla saggezza di Gandhi, da non dover «provare» nulla sulla pelle di due soldati che, come Krishna intima ad Arjuna, hanno fatto il loro dovere, spargendo tragicamente, come Arjuna, sangue fraterno, non già di nemici. Né l’Italia deve, per falsa coscienza «post coloniale», abbandonare i suoi graduati. Due nazioni amiche, due culture antiche, possono agir bene e con reciproca soddisfazione. Chiunque provi a vincere la mano forzando, avrà effimero successo, ma alla lunga pagherà un prezzo feroce. Economico, diplomatico e, varrà pure qualcosa se italiani e indiani tanto siamo fieri del nostro passato, etico. L’Italia ha commesso quello che molti considerano un errore grave, lasciar scendere Latorre e Girone con gli zaini affardellati, dalle sicure acque internazionali e dalla protezione della bandiera tricolore verso l’incertezza del carcere. L’India, con la maestà di più popolosa democrazia della storia, non deve approfittare del passo falso trattenendo i soldati. Sarebbe errore speculare: perché chiunque abbia consigliato, o peggio ordinato, a Latorre e Girone di sbarcare, l’ha fatto fidandosi di lealtà e amicizia indiana. Dimenticarlo renderà a lungo difficili le relazioni tra i due Paesi. L’animosità politica, in India e in Italia, impedisce agli uomini saggi di far valere, speriamo solo per ora, il punto cruciale. Il maresciallo Latorre e il sergente Girone non sono turisti fermati per un borseggio. Servivano in quello che è, per l’Europa e per l’India, il dovere vitale di tenere le vie d’acqua dell’Oceano Indiano libere dai pirati. Sono protetti dalla Convenzione di Montego Bay del 1982 e dal diritto internazionale. Il governo e i giudici indiani prendano atto dello scopo della missione, nel corso della quale, come ogni soldato da Arjuna a noi, si può certo errare: tenere sicuro il mare, non per l’Italia o un armatore, ma per l’interesse internazionale. Ad Hormuz e in Somalia unità americane hanno soccorso navi iraniane contro i pirati, amici per un giorno nella legge universale del mare. Altrimenti al lutto per gli uccisi si unirà l’ingiustizia subita dai nostri soldati. L’India si accorgerebbe presto dell’ingenuità commessa. La guerra alla pirateria passerebbe in mano a contractors privati, che hanno dimostrato in Iraq quanto poco considerino la vita dei civili, i pirati pullulerebbero, con danno per il boom economico indiano. New Delhi scoprirebbe, con sorpresa, come la ferita immeritata inflitta agli italiani allarmerebbe Washington, gelosa di un antico alleato e impegnata nel pattugliare gli oceani. Perfino l’Europa dell’ignava Lady Ashton interverrà infine, ansiosa che altri soldati passino per le forche caudine. Tantissimi precedenti diplomatici tra Paesi amici indicano la strada maestra della conciliazione, con soddisfazione reciproca. Risarcimento alle famiglie, che senza lenire il dolore indica rispetto e cordoglio solidali. Estradizione per Latorre e Girone e giudizio in Italia, con piena tutela e partecipazione civile per le vittime e il diritto indiano. Il tempo stringe per una soluzione negoziale. Le opposte incertezze e forzature non sono ancora irrimediabili, presto lo saranno. Chiunque provasse a «vincere» perderà: meglio affidarsi alla saggezza immortale di Arjuna e Krishna. twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9866 Titolo: Gianni RIOTTA - Quel litro di benzina misura il malumore Inserito da: Admin - Marzo 14, 2012, 07:19:24 pm 14/3/2012
Quel litro di benzina misura il malumore GIANNI RIOTTA Oggi la benzina è rincarata. È l’estate del quarantasei. Un litro vale un chilo d’insalata...» canta Paolo Conte nella sua vecchia ballata dedicata alla Topolino amaranto. E da allora il prezzo della benzina è per gli italiani l’indicatore economico primo. Rozzo, simbolico, casalingo, quel che volete, ma prima che tutti ci avvezzassimo allo spread BundBtp, quando Standard&Poor’s erano meno familiari dei grandi magazzini Standa, ora Billa, e quando nulla sapevamo del trading online, bene, che un litro di super valesse un chilo di insalata, o giù di lì, lo sapevano tutti. Non siamo i soli a ragionare così, per generazioni di americani il biglietto, prima ancora il gettone, della metropolitana di New York doveva avere lo stesso costo della fetta di pizza e il «New York Times» calcolava il costo della vita comparando subway e Napoletana. Ancora oggi, del resto, il raffinato settimanale d’affari «The Economist» pubblica un indice McDonald’s stimando le metropoli più esose con un borsino che confronta il prezzo locale del Big Mac. Non c’è dunque da stupirsi se, appena lenite le ansie per la crisi europea del debito, dalla Grecia all’Italia, la gente si fissi sulla benzina come totem delle paure. Una scuola di economisti Usa già definisce i nostri giorni «era dell’ansietà» e se uno studio di Banca Intesa-Sanpaolo conferma che la famiglia media italiana spende ormai al mese 470 euro per benzina e carburanti contro 467 euro per il cibo, la realtà è chiara. I consumi alimentari sono tornati al livello del 1980, quando la Nazionale di Enzo Bearzot si apprestava a diventare invincibile e Urss, Dc, Psi e Pci sembravano eterni. La benzina rincarata frena gli altri consumi, e sul bidone di petrolio greggio Brent la nostra fobia del futuro si appalesa come sul lettino psicoanalitico del dottor Freud. A un seminario di «The Ruling Companies», lunedì, l’amministatore delegato Eni Paolo Scaroni ha calcolato che sui 125 dollari del prezzo del greggio oggi, la paura di una guerra con l’Iran pesa per ben 20 dollari. Se Obama, Israele e gli ayatollah si rappacificassero oggi stesso il greggio scenderebbe di botto a 100 dollari. L’irrazionalità dei mercati globali pesa in casa nostra con la paranoia sul riscaldamento, il pieno per la gita fuori porta, il motorino dei figli: benzina che rincara e noi a scegliere, come Paolo Conte, tra super senza piombo e insalata. Il presidente americano Barack Obama ha colto questo clima teso, perché nel paese che era abituato a pagare un dollaro per un gallone, quattro litri, di benzina vedere oggi al distributore prezzi «europei» rischia di essere un handicap verso la Casa Bianca. Se Obama lancia un caso internazionale contro la Cina sulle Terre Rare, preziosi minerali indispensabili allo sviluppo, lo fa solo per dire agli operai e al ceto medio furioso per la benzina: vedete? Alzo la voce con Pechino! Tutti noi, quando i numerini girano come un flipper al distributore, dobbiamo ricordarci del mondo che, come nel Quarantasei, ci impone i suoi prezzi. Nella stessa conferenza Scaroni ricordava che, al netto dei profitti Eni e delle imposte, il prezzo del gas e i suoi rincari vengono decisi in poche, e lontane, capitali. Ma il governo dei tecnici di Mario Monti, che ha evitato la crisi peggiore con le scelte d’inverno, non deve sottovalutare il cattivo umore popolare sulla benzina di chi non legge il «Wall Street Journal» e non ha mai aperto Forbes. Il rigore senza consenso costante può innescare populismo e le scelte migliori possono essere male interpretate da chi deve arrivare a fine mese. Raghuram Rajan, il grande economista, ci indica nel suo saggio appena tradotto da Einaudi come il ceto medio stenti molto dopo la crisi 2008, pressato dalla nuova economia del lavoro sempre precario. Allora occhio alla benzina e occhio alla paura e al malumore che si possono diffondere. Non bacchettiamo mai nessuno, spieghiamo ogni scelta, proviamo a non bloccare neppure i consumi più elementari. Non è solo un gran bene per la nostra economia, è un gran bene per la nostra politica, società e democrazia, oggi come nel Quarantasei. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9881 Titolo: Gianni RIOTTA - La successione che inquieta la Cina Inserito da: Admin - Marzo 16, 2012, 04:48:16 pm 16/3/2012 - NUOVE TRAME, ANTICHE PAURE
La successione che inquieta la Cina GIANNI RIOTTA Una sola volta dal 1949, quando il partito comunista di Mao Ze Dong prese il potere in Cina, i cambi di leadership a Pechino si sono svolti senza trame sanguinose, colpi di Stato tentati e repressi, faide atroci tra fazioni. Nel 2002, durante la grande riforma economica che dal 1981 ha trasformato 630 milioni di cinesi poveri in operai e ceto medio, Jiang Zemin riesce a passare le consegne all’attuale presidente, Hu Jintao. Tutte le altre sfide, con i titani Mao, Zhou en Lai, Lin Biao, Lu Shaoqi, Hua Guofeng, Zhao Ziyang, intenti a manovrare masse sterminate in intrighi rinascimentali, hanno visto il grande paese perdersi in violenze e tensioni. Che l’anarchia possa ripetersi era lo spettro più temuto da Deng Xiaoping, come testimonia la monumentale biografia che gli ha dedicato Ezra Vogel: lavorava perché la Cina non si disgregasse come l’Urss, o cadesse preda di una tragica versione delle antiche rivolte dei Signori della Guerra, caos assoluto e senza pace che i film del regista Zhang Yimou cercano di esorcizzare. La repressione a piazza Tien An Men e la fine politica di Zhao Ziyang si spiegano anche così. E’ ancora oggi la paura del Partito comunista cinese, e il rinnovo previsto per l’autunno con le dimissioni di Hu e l’insediamento di Xi Jinpin, deve appassionarci, almeno quanto l’elezione alla Casa Bianca: perché può avere conseguenze assai maggiori dello scontro Obama-Romney sulla politica ed economia del nostro mondo. Per questo la saga di Bo Xilai, l’eccentrico capo del partito a Chongqing, allarma Pechino. La vita di Bo è la vita della Cina comunista. Suo padre Bo Yibo, uno degli «otto immortali della Rivoluzione», finì vittima delle purghe durante la Rivoluzione Culturale, proprio mentre Bo Xilai era attivo in una delle più feroci squadre di Guardie Rosse «Liangdong», Azione Unita sciolta per terrorismo. Padre e figlio si scambiano poi i ruoli, il primo riabilitato, il secondo ai lavori forzati: la moglie di Bo Yibo muore in circostanze misteriose. Ma quando la Cina di Deng riparte, l’ambizioso Bo Xilai, che perfino in campo di lavoro non ha smesso di studiare l’inglese, sente il profumo del potere. Figlio di un padre della patria, il solo laureato in giornalismo in un partito di tecnocrati, impara a usare la televisione, veste con cravatte da senatore americano, sceglie campagne populiste, con retate anti prostituzione, racket, gioco d’azzardo, corruzione. Sindaco di Dalian, rompe il tabù che impedisce di glorificare i leader in attività, riempiendo la città di foto di Jiang Zemin. Sembra una campagna elettorale, esistono anche nel Pc cinese, verso il Politburo, i toni di Bo rispolverano la Rivoluzione Culturale, non perché ci creda più, ma perché, come Putin a Mosca, sa che nel Partito tanti hanno nostalgia del passato e delle sue mitologie. Rispolvera perfino certe coreografie maoiste, mentre già Internet, nei siti di base, denuncia gli eccessi di suo figlio, Bo Guagua, che ha studiato ad Harvard e Oxford. Al mondo Bo si affaccia con «la guerra dei reggiseni», che combatte col solito tono arrogante contro il commissario europeo Peter Mandelson, duellando su dazi e produzione industriale, spesso sbattendo la porta e lasciando in finti furori la sala delle trattative. In una tragedia che potrebbe dare sceneggiature a Zhang Yimou, la fine di Bo comincia quando Wang Lijun, il capo della polizia che ha nominato a Chongqing suo partner nelle repressioni, si rifugia a un consolato americano, portando con sé documenti delle malefatte di Bo e dicendo di temere per la sua vita. Wang non riceve asilo politico, ma la carriera di Bo è stroncata. Il premier uscente Wen Jiabao ha messo in guardia la Cina, e il mondo, contro una transizione violenta a Pechino nel 2012-2013, attaccando direttamente Bo, che sui siti Internet viene paragonato alla vecchia Banda dei Quattro guidata dall’ultima moglie di Mao e processata nel 1981. Bo aveva già i militanti che gli gridavano in pubblico «Ti amiamo Bo», slogan che alla Cina ricorda tempi durissimi. E’ il dilemma che il partito comunista pone oggi a tutti noi. Le opinioni pubbliche democratiche non possono che sostenere i diritti dei dissidenti come l’artista perseguitato Ai Wei Wei, le ragioni degli operai migranti, la causa paziente del popolo tibetano, l’apertura del Web in Cina. Ma il freddo realismo dell’ex segretario di stato americano Henry Kissinger ci richiama anche al problema della stabilità, perché se la Cina sfuggisse di mano al governo, precipitando in una lotta sorda di Signori della Guerra del XXI secolo, il contraccolpo sugli equilibri diplomatici, politici e economici del pianeta sarà lacerante. Non solo si fermerebbe ogni germoglio di ripresa dopo la grande crisi del 2007, ma si accenderebbero fuochi di guerra alla frontiera nucleare con India e Pakistan, sulle rotte del Pacifico e dell’Oceano Indiano, mandando in fermento l’Asia, dal Vietnam all’Indonesia, e riportando in prima linea l’Australia, il Giappone e Stati Uniti. La sciarada di Bo Xilai ci richiama alla dura realtà: possiamo seguire con speranza le evoluzioni verso un sistema aperto del più grande Paese al mondo, ma auspicando che la sua sterminata comunità e la sua leadership sappiano sfuggire all’antica dannazione dell’anarchia. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9890 Titolo: Gianni RIOTTA - L'agenda global del premier Monti Inserito da: Admin - Marzo 27, 2012, 07:21:46 pm 27/3/2012 - CON OBAMA IN COREA
L'agenda global del premier Monti GIANNI RIOTTA Nella zona cosiddetta «smilitarizzata», 256 chilometri di lunghezza per 4 di profondità tra le due Coree, una delle frontiere che dal 1953 è in realtà tra le più armate del pianeta, vivono come in un parco naturale specie selvatiche ormai scomparse altrove, fenicotteri, gru rosa, leopardi rarissimi in Asia, orsi. Transito commerciale ed edilizia sono vietati, la foresta e gli animali prosperano tra sensori termici, radar, cellule spia, un mondo ibernato da mezzo secolo. È l’orizzonte che ha guardato, con i potenti binocoli dell’avamposto Ouellette, il più avanzato a Nord di Camp Bonifas, il presidente Barack Obama, nella sua visita in Corea del Sud per il vertice sulla Sicurezza nucleare di Seul, cui partecipa anche il presidente del Consiglio Mario Monti. È come se due mondi si incontrassero, tra filo spinato, torrette e mitragliatrici. Quello della Guerra Fredda, con la Corea del Nord guidata dall’incerto Jim Jong-un, nipote del fondatore della dinastia comunista Kim Ilsung, che finge di negoziare sul nucleare con l’Occidente chiedendo aiuti alimentari agli Usa, mentre, schermandosi dietro la Cina, progetta di lanciare un missile Unha-3 dalla base di Dongchang-ri nel centenario della nascita di nonno Kim. E quello dell’opulenta Corea del Sud, passata in solo due generazioni dal feudalesimo affamato della guerra civile a democrazia, stabilità, benessere. È la Corea del Sud a capeggiare la lista dei «next 11», i prossimi undici Paesi che raggiungeranno Cina, India, Brasile e Russia nella prosperità, secondo l’economista O’Neill di Goldman Sachs: Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia, Vietnam. Il mercato e lo sviluppo non sono molto di moda, dopo la crisi finanziaria del 2007, ma chi alle mode preferisce la dura maestra Realtà non ha che da guardare alle due Coree, una fissa nel Medio Evo nucleare, l’altra protagonista del XXI secolo, per comprendere in che direzione soffi il vento della Storia. Nelle missioni del presidente Obama e del premier Monti, fra tratti comuni e dossier diversi, questo è il fulcro. Durante la Guerra Fredda i leader cercavano legittimità, trattati e affari, con visite di Stato a Washington e Mosca. Ora è nei Paesi nuovi che si insegue forza diplomatica e qualche buon affare. Monti ha incontrato il premier kazako Karim Masimov (era previsto anche un vertice col presidente Nursultan Nazarbayev): il nostro Paese è, con l’Eni, impegnato nello sviluppo di un gigantesco giacimento offshore a Kashagan, 4500 chilometri quadrati, Nord del Mar Caspio. Anche Obama, tra il summit con il presidente cinese uscente Hu Jintao sui rischi nucleari in Iran e Corea, pensa alla stabilità e all’economia. Ha proposto al premier turco Recep Tayyip Erdogan di mandare ai ribelli siriani medicine e mezzi di comunicazione elettronica, cercherà di avere dal premier pakistano Yousef Raza Gilani assicurazioni contro il mercato nero di materiale nucleare, spesso rifornito da Islamabad. La sua missione è però agire da statista internazionale in un anno elettorale, mentre i rivali repubblicani Romney e Santorum si impegolano in petulanti comizi di provincia. Anche Monti, dal summit di Seul ai vertici con Cina e Giappone, ha la sua agenda domestica. Gli arrivano i dispacci con le dichiarazioni su riforma del lavoro e articolo 18, e ha dovuto rigettare la cinica battuta di Giulio Andreotti, «tirare a campare meglio che tirare le cuoia». Le trasferte di Obama e Monti dovrebbero parlare con forza alle opinioni pubbliche dei due Paesi. Ricordare loro di un mondo in cui «globale» e «locale» contribuiscono a indicare, come latitudine e longitudine, gli stessi punti, perché non c’è soluzione «internazionale» che non debba misurarsi poi con i talk show di Washington e Roma, né proposta «domestica» che non sia vagliata sul web nei tinelli di Pechino e Mosca. Tutti i protagonisti del dibattito sull’articolo 18, spesso condotto al di là dei torti e delle ragioni con un occhio alle prossime elezioni amministrative e politiche, o alle rendite di posizione di imprenditori e sindacati, dovrebbero inserire i giudizi di parte nella cornice planetaria di Seul. Dove la tensione con l’Iran fa lievitare il prezzo del greggio di 20 dollari, un attacco a Teheran fermerebbe la ripresa mondiale, il debito greco può impedire a Obama il ritorno alla Casa Bianca, un fisico nucleare corrotto in Pakistan armare di atomica i terroristi, le tensioni del partito comunista cinese allungare la recessione al 2013. Un solo mondo, una sola economia, tutti insieme sicuri, tutti insieme in pericolo, niente oasi, niente zone franche per animali liberi come nella Dmz tra le due Coree. Mentre Mario Monti è in Asia, non stiamo decidendo a Roma le regole del mercato del lavoro «italiano», come se potessimo prescindere dai mercati di Wall Street, dal giudizio Bce di Francoforte, dal modo di produzione asiatico e occidentale, dal commercio cinese e indiano, dalla crescita coreana e indonesiana. Ormai le stesse regole valgono per tutti. Magari Monti, guardando alla Seul ricca oggi e così povera solo qualche lustro fa, penserà al nostro Sud, che con le stesse chances potrebbe saltare in una generazione dall’arretratezza all’high tech. Perché non stiamo parlando di «noi», del «nostro» mercato del lavoro. Stiamo decidendo quanto lavoro sarà assegnato all’Italia nel mansionario del mondo globale. Perché siamo sì una Repubblica fondata sul lavoro, ma solo una delle tante repubbliche a contendersi lavoro nel mondo. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9930 Titolo: Gianni RIOTTA - Spike Lee nella gabbia di Twitter Inserito da: Admin - Marzo 30, 2012, 05:56:30 pm 30/3/2012 - IL CASO
Spike Lee nella gabbia di Twitter La Rete e il rischio di giocare sempre al volo GIANNI RIOTTA Il regista afro-americano Spike Lee denuncia via Twitter l’indirizzo del presunto killer di un ragazzo nero in Florida, e per qualche ora diventa l’eroe protagonista di una coraggiosa campagna antirazzista. Ma l’indirizzo svelato dall’autore dei film «Malcolm X» e «La 25ª ora» non corrisponde a quello di George Zimmerman, il bianco di 28 anni, accusato di avere ucciso il 26 febbraio a Sanford, Florida, il diciassettenne Trayvon Martin. E’ casa di due pacifici pensionati, Elaine e David McClain, la cui sola colpa è avere un figlio di 41 anni che usa il cognome «Zimmerman», omonimo dello Zimmerman sotto inchiesta, a piede libero, per omicidio: il nome è abbastanza comune negli Usa, Bob Dylan si chiama in realtà Robert Zimmerman. Il caso di Trayvon Martin spacca l’America, il presidente Obama dice «Se avessi avuto un figlio maschio sarebbe stato come lui». Zimmerman, studente di legge e volontario nelle ronde di quartiere contro i ladri, dice di essersi difeso sparando perché Trayvon l’aveva aggredito indossando un «hoodie», la felpa col cappuccio. L’indumento diventa simbolo di protesta, indossato da deputati, sportivi, studenti. Nessuno s’è appassionato alla causa come Spike Lee. Su Twitter, un social network che permette di scambiare brevi messaggi con la propria comunità, @spikelee ha preso a insultare i bianchi razzisti, e a rilanciarne i messaggi. Un po’ come nella segreteria telefonica lasciata in onda a Radio Radicale negli Anni 80, è venuto fuori il ritratto di un Paese dove razzismo, violenza e luoghi comuni allignano negli anni di Obama, primo presidente afroamericano. Ma l’errore grottesco del regista, la leggerezza con cui ha esposto due anziani a possibili proteste e rappresaglie, la fuga dei McClain in un motel per non correre pericoli, «sono cardiopatico, vivo di ansia» confessa alla tv Cnn David McClain - riapre la riflessione: come devono usarsi i social network, Facebook, YouTube, Twitter, Pinterest, nelle proteste politiche e di diritti civili? In un mondo dove il giornalismo professionale, la mediazione politica dei partiti, perfino l’organizzazione fluida dei movimenti con un leader, lascia il campo al «tutto e subito» della comunicazione via web, come tutelare la privacy dei cittadini, evitando che buon senso e raziocinio finiscano preda di populismo e meschine rivalse? Di tutti i media nuovi Twitter -140 caratteri di messaggio che potete mandare alla vostra comunità, mentreseguiteitweetdiintellettuali, politici, artisti o amici personali - è quello che meglio si presta a campagnediinformazioneomobilitazione. Permette di far pensare, informare, imparare, ma non ha filtri. Nel passato Spike Lee avrebbe chiamato il suo addetto stampa, «Ho un’idea, diffondiamo l’indirizzo di Zimmerman...», o si sarebbe rivolto a un giornalista «Facciamo un’intervista...» e il reporter, se serio, avrebbe telefonato in Florida per verificare. Nei new media, formidabili, rapidissimi, c o i n v o l ge n t i , ma privi di freno, Spike Lee ha rilanciato le offese dei razzisti per giorni, ha chiesto giustizia per Trayvon, ma alla fine è stato travolto dalla rabbia e, in nome del diritto, ha inflitto una grave ingiustizia a due innocenti. Fa parte della sua personalità, il suo cinema è punteggiato di populismo rauco, quando tifava a New York al Pier 23 per la squadra di calcio del figlio, finiva sempre a insulti all’arbitro, a volte agli stessi bambini se sbagliavano un gol. Stavolta ha combinato un guaio vero, violando perfino le regole di Twitter che proibiscono la diffusione di dati personali, indirizzo incluso, senza autorizzazione degli interessati. S’è scusato, ma non basterà. Finirà, c’è da scommetterci, con un confronto legale e un risarcimento, palese o sotto banco, siamo in America e un avvocato si nasconde dietro ogni torta di mele. Ma la mancanza grave di Spike Lee deve far meditare: senso comune, responsabilità, equilibrio, contano online come nei vecchi giornali. Equanto più chi informa è importante, noto, influente, tanto più è tenuto a aprire occhi, mentee cuore. Su Twitter si gioca sempre al volo, sempre. Ci sono falsi profili (Fornero, Napolitano, Celentano), false notizie (morte Castro, Mandela, liberazione Urru), false reazioni. Jack Dorsey, fondatore di Twitter come @jack, scambia un falso Cormac McCarthy per il vero autore di «La strada» o «Non è un paese per vecchi». Come Spike Lee, in altri tempi, Dorsey avrebbe controllato l’identità dell’artista, sulla sua creatura si è sentito spericolato, ha twittato «Do il benvenuto a un maestro della letteratura», senza accorgersi che i tweet del presunto McCarthy «Niente di meglio che svegliarsi all’alba e scrivere grande romanzo americano, con fiume e barche» erano una satira. Disavventure analoghe anche in Italia, dovute a fretta, entusiasmo, ingenuità, rabbia. Il nostro futuro sono i social network, personale, pubblico, politico. Il futuro del giornalismo, ancora più che nei siti internet tradizionali, è nella grande conversazione sociale in corso 24 ore al giorno sul pianeta. Dove ogni storia è storia di tutti, e tutti si sentono cronisti e commentatori. Ma i valori classici, serietà, equilibrio, autorevolezza, equanimità,controllodellefonti,nonmutano, anzi sono ancor più necessari nel mondo nuovo. Twitter è uno specchio, ci dice solo chi siamo davvero. Seguito da 254.526 persone (alle 20,43 italiane di ieri) @spikelee segue appena due persone, moglie e figlio, oltre alla propria casa di produzione cinematografica. Come dire: io non ascolto nessuno, voi ascoltate me. Un’arroganza che al cinema, old media, può dare anche qualche brillante risultato. Nell’universo new media porta al disastro. Lezione di umiltà, da non dimenticare. Sempre in attesa che il ragazzo Trayvon Martin abbia giustizia, ma nell’auspicio che i new media corroborino la giustizia, non ricorrano alla giustizia sommaria di un linciaggio online. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9941 Titolo: Gianni RIOTTA - Dimmi che guerra fai e ti dirò chi sei Inserito da: Admin - Aprile 15, 2012, 10:49:44 pm Cultura
15/04/2012 - Dimmi che guerra fai e ti dirò chi sei Dall’antica Roma all’America d’oggi, il nesso indissolubile tra l’arte militare di un popolo e la sua cultura GIANNI RIOTTA Nei seminari di storia militare si chiede talvolta agli studenti «Perché Giulio Cesare non perdeva mai le staffe?» e, dopo le risposte timide, la risposta spiazzante è «Perché le staffe doppie da cavallo, come le usiamo oggi, non arrivarono in Europa, dall’Asia via forse la Cina, che nel Medioevo. I romani non le conoscevano». Il gioco nasconde lezioni di tattica, strategia e cultura, senza staffe la lancia pesante, da cavaliere di Re Artù, non poteva usarsi, solo un giavellotto più leggero. E l’arco riuscivano a tenderlo solo i nomadi delle steppe nati a cavallo, gli altri dovevano reggersi almeno con una mano. Da un minuscolo dettaglio tecnico derivano conseguenze cruciali, ma da noi la storia militare non si studia né si approfondisce. Il pacifismo nobile che la seconda guerra mondiale ha radicato ci fa tralasciare il legame guerra-civiltà. Ogni popolo combatte secondo la sua tradizione, gli Stati Uniti del XXI secolo sono divisi tra la tradizionale «American way of war» dell’ex generale Powell, esercito potente che schiaccia il nemico, e la Rma, Revolution in military affairs, che vuole commandos leggeri e ultratecnologici per colpire, con un network d’attacco come a Kabul 2001, gli avversari. Non sono due diverse teorie militari, sono due opposte culture di società e democrazia, massa e uniformità, contro singoli e diversità. Per questo mi auguro che il libro dello storico Gastone Breccia I figli di Marte (Mondadori) venga letto da chi vuol capire perché Roma dominò combattendo il mondo conosciuto fino alla frontiera con la Cina, e da chi aspira a capire perché son pericolosi Afghanistan, Iran e Nord Corea, o perché la Cina vara una flotta d’alto mare. Interpretare Roma senza partire dall’esercito è però impossibile, «alle origini di Roma c’è il seme di Marte». Greci e Tebani avevano inventato la falange, i Romani le danno, secondo lo storico Keegan, «articolazioni». Non più un monolite, ma davanti i velites a scompigliare l’avversario, in mezzo hastati eprincipes a reggere l’urto, pronti, in difficoltà, a ricompattarsi dietro i legionari veterani, triari , che con scudi ed esperienza garantivano le prime due schiere. Ai lati la cavalleria. È la formazione militare che trionfa in Asia, Africa, Inghilterra, ma la si comprende solo esaminando la società romana. Il combattente professionista, la lealtà dei centurioni, il generale ambizioso che studia i nemici, le popolazioni colonizzate che, attraverso le armi, diventano cittadini e accettano la cultura. Nelle guerre antiche, ricorda Breccia, la battaglia era cozzare di scudi tra falangi e furioso mulinare di spade, il corto gladio a Roma, dopo la nuvola di frecce e giavellotti. Quando la mischia cieca mandava in fuga uno dei due schieramenti, allora si moriva, o restava feriti, in massa. Socrate, alla battaglia di Delio del 424 a.C., si salva nella rotta ateniese perché, anziché gettare le armi e isolarsi, le tiene e scappa con un pugno di compagni: i Beoti si accaniscono contro i singoli. La forza di Roma militare è la coesione della legione, in pace e in guerra, in vittoria e in sconfitta. Breccia ricostruisce la battaglia antica, le formazioni, il lancio di sassi con le fionde, frecce, aste, la cavalleria leggera e la pesante, «i catafratti» in armatura, e l’epilogo, il cozzare dei due fronti a falange. Quando Roma trionfa, nelle Gallie con Cesare, o è travolta, a Canne da Annibale, la legione resta unita. A Canne i legionari sono accerchiati dalla maestria di Annibale - la studiano ancora all’accademia di West Point - che schiera al centro i deboli mercenari delle Baleari e ai lati i veterani cartaginesi. Così quando il fronte arretra, e da convesso si fa concavo, crea una sacca che la cavalleria punica sigilla a morte. I soldati romani, per evitare l’umiliazione del colpo di grazia, si strozzano ingoiando zolle di terra. Che cosa spingeva, si chiedono gli studiosi Delbruck e Keegan, i Romani alla guerra ogni primavera? Certo la brama di conquista, la gloria, l’onore, ma soprattutto la cultura. «I Romani - scrive Breccia - furono realmente una razza guerriera non solo per come seppero comportarsi sul campo, ma per il modo di concepire il ruolo e il destino dello Stato e dei singoli cittadini in funzione del successo militare…». A Canne cadono in poche ore, secondo Polibio, 70 mila romani, 50 mila secondo Livio. I cittadini dell’Urbe non arrivavano ancora a 500.000, è come se oggi cadessero in battaglia 9 milioni di italiani. Eppure «… dopo Canne il Senato proibì qualsiasi pubblica manifestazione di dolore, e negò i fondi per riscattare i prigionieri catturati da Annibale». Con analoga ferocia, Stalin considerò nemici i 5 milioni di soldati russi catturati dai nazisti, e li perseguitò una volta tornati a casa. Fuori dallo Stato, nessuna salvezza. Una teoria unificata della guerra romana mancò fino a Flavio Vegezio Renato e al suo Epitoma rei militaris (tradotto da Rizzoli), fantastica enciclopedia militare di un gentiluomo a noi sconosciuto, ma che forse mai combatté e che fra il 379 e il 395 d.C., dopo la sconfitta di Adrianopoli quando ormai la gloria di Roma declinava, provò, su ordine pare di Teodosio il Grande, a conservare la filosofia dei «figli di Marte». È una lettura meravigliosa, che Breccia coniuga per il nostro tempo. Quando descrive le difficoltà dei Romani, agricoltori, a combattere contro i popoli nomadi (analogamente agli Ateniesi contro i Persiani) il dilemma è nitido: per Roma «vincere» significava occupare il territorio nemico piantando le sacre insegne delle legioni, per i nomadi lo spazio perduto non ha valore e si torna a contestarlo in armi. Guerra è cultura: Hitler non capisce che Churchill non si arrenderà nel maggio 1940 anche se Lord Halifax gli spiega che «così conviene all’Impero»; Johnson non capisce che i vietnamiti non si arrenderanno anche se il segretario McNamara, statistiche alla mano, gli spiega che ad Hanoi «conviene» la pace. Roma non comprende che gli Ebrei si faranno massacrare senza dir sì all’imperatore. La guerra asimmetrica si vince solo pensando, contro i Parti o Osama bin Laden. Da storico assennato, Breccia non fa la morale alla sete di sangue dei Romani, ricordando le stragi dei nostri tempi «civili». Annota che già Plinio il Vecchio aveva deprecato «l’oltraggio al genere umano» dei massacri di Cesare in Gallia e conclude che, con Costantino, perfino il pacifismo «assoluto» del Vangelo venne arruolato sotto i labari di Roma. Una storia che sembra remota ed è invece da homepage dei siti web. twitter @riotta da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/450174/ Titolo: Gianni RIOTTA - Così l'America guarda al voto francese Inserito da: Admin - Aprile 19, 2012, 11:51:32 pm 19/4/2012 - USA-EUROPA
Così l'America guarda al voto francese GIANNI RIOTTA Il giudizio del presidente del Council on Foreign Relations Richard Haas sul candidato presidenziale socialista francese François Hollande, in un’intervista a Stampa , era di ruvida franchezza. Per Haass, diplomatico che ha disegnato a lungo la politica estera Usa e oggi dirige il forum più antico di relazioni internazionali, se Hollande, favorito contro Sarkozy, arrivasse all’Eliseo le Borse crollerebbero, con fughe di capitali dalla Francia e conseguenze nefaste sul debito europeo. Altrettanto duro lo sfidante repubblicano del presidente Barack Obama, Mitt Romney, in un’altra intervista a questo giornale: «Non un cent all’Europa!». Quando il Grand Old Party vuole insultare la Casa Bianca democratica, l’accusa di volere «un’America europea», troppa spesa pubblica, debito eccessivo, debolezza militare, scarsa influenza globale. Fatta la tara sulla retorica elettorale, che aria tira tra i due alleati della Guerra Fredda, Stati Uniti ed Europa nell’anno elettorale di Francia e Usa e alla vigilia del voto tedesco e italiano? Il Carnegie Endowment for Peace vara lunedì un nuovo sito Web di dibattito, preoccupato che sulle rotte del dialogo Atlantico - come ai tempi del Titanic - incrocino iceberg di pregiudizi, ignoranza, interessi meschini. A leggere i «numeri zero» di Carnegie Europe, dall’economia alla difesa i guai non mancheranno. La prima difficoltà nasce dal giudizio opposto che l’amministrazione Obama trae dall’impasse europea. Il presidente pensa, e lo ha detto anche al premier italiano Mario Monti, che un’Europa troppo a lungo in recessione fermerà la ripresa di Wall Street e i riverberi - pur flebili - su occupazione e mercato delle case. Se la frenata arrivasse dopo l’estate e le Convenzioni dei partiti, quando l’opinione pubblica decide infine per chi votare, Romney avrebbe una chance di vittoria. Il Dipartimento di Stato della Hillary Clinton, nei colloqui con osservatori internazionali, lascia trapelare quindi cauta simpatia per Hollande, come per i «tecnici» italiani e, domani, l’Spd socialdemocratica tedesca, visto il «rigorismo» della Cancelliera Angela Merkel. Nessuna tenerezza «yankee» per le nostalgie socialiste alla «primo Mitterrand» di un Hollande che teme il crescente consenso dell’ex trotzkista Melenchon, né per l’Spd: Washington non dimentica la foga del Cancelliere Schroeder ai tempi dell’Iraq, né apprezza che abbia fatto il lobbista d’affari con il petro-business del Cremlino. Per il «voto della Casa Bianca» decisiva è l’economia. Poiché le sinistre hanno un atteggiamento meno «austero», progettano stimoli alla ripresa, infrastrutture, rilancio dei consumi, gli «amerikani» dicono «yes». Il Tarp di Obama, il supporto all’industria automobilistica, gli incentivi alla ripresa che il premio Nobel dell’economia Paul Krugman difende come un leone dalle colonne del New York Times - persuaso che chiudere troppo presto il sostegno a finanza ed aziende per paura di un’inflazione di cui non vede segnali riaprirebbe la crisi - profumano a Washington d’Europa. Il piano fiscale dei repubblicani, su cui Romney ha in realtà non pochi dubbi ma che non denuncia per non mettere a rischio il già incerto consenso della destra populista e di quel che resta del Tea Party, abbassare le tasse e bisturi sulla spesa, ha invece in Bruxelles l’arcinemico: «L’America non sarà europea». Questa dialettica costringe il presidente Sarkozy al più frenetico dei girotondi politici. Eletto all’Eliseo dicendo di volere una «Francia americana», high tech, mercato del lavoro duttile, start up, meno burocrazia, Sarkozy cambia idea al primo dei tradizionali grandi scioperi di Parigi e rinuncia a modernizzare il paese. Ai blocchi di partenza del 2012 si presenta deciso a usare più il carisma di Angela Merkel che l’algido fascino della moglie Carla Bruni: stavolta vuole una «Francia tedesca». I suoi collaboratori lo aggiornano però sulla riluttanza degli elettori a cambiare modello economico: a destra con la Le Pen e a sinistra con Hollande e Melenchon, adorano lo status quo. Sarkozy cancella l’invito alla Merkel a comizi comuni e - in moto perpetuo - propone alla Bce di Mario Draghi di mutare compiti e filosofia e stimolare la crescita, come - d’intesa con Obama - ha fatto la Federal Reserve di Ben Bernanke. Gli americani dicono che le campagne elettorali creano «strani compagni di letto» ma, a ben guardare, l’intesa dei democratici e la diffidenza dei repubblicani verso l’Europa datano già dalla guerra in Iraq. Allora i senatori dell’opposizione al presidente Bush, tra cui Obama, la pensavano come l’opinione pubblica europea, dal conservatore Chirac al socialista Schroeder. I repubblicani andarono d’accordo solo con il popolare Aznar in Spagna, il laburista Blair a Londra e il premier Berlusconi da noi, tutti controcorrente rispetto agli umori locali. Il falco columnist Kagan annotava sarcastico «L’Europa? 51˚ Stato democratico». Haass conclude con saggezza che, vinca Obama o Romney, la politica estera Usa non muterà. L’Europa resterà partner, sia pure meno caloroso di un tempo, Romney sarà rispettoso e cooperativo. A dividere a fondo Europa ed America, sull’Atlantico e nei due continenti, è invece l’eterna campagna dei due veri grandi partiti del nostro tempo «Stato» e «Mercato», nei loro infiniti sottogruppi, fazioni, culture. Il poker elettorale Parigi, Washington, Berlino, Roma cala ora in Francia la prima carta e vedremo, in soli 12 mesi, chi vincerà il piatto più pingue. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10011 Titolo: Gianni RIOTTA - Il web cambierà la parola? Inserito da: Admin - Maggio 06, 2012, 04:52:38 pm News, ttl
05/05/2012 - Il web cambierà la parola? Ma chi ci salva dal rumore on line La sfida non è contrastare la rete bensì navigarla con raziocinio: l'e-book non ucciderà Lao Tzu Cultura e informazione non si possono semplicemente trasferire dalla carta al digitale: bisogna inventare un nuovo valore aggiunto Gianni Riotta Nel 1962 il quotidiano americano Seattle Times chiese ai lettori che futuro avrebbero avuto i libri nel XXI secolo, cioè ai nostri giorni. Con Kennedy alla Casa Bianca, i Beatles al primo 45 giri «Love me do» e Amintore Fanfani al quarto governo, il nostro presente era futuro remoto e la signora Ross disse «I libri saranno venduti ovunque, anche dal benzinaio» e fece centro. Il signor Clark azzardò «Leggeremo microfilm per mancanza di spazio, guardando i libri su visori speciali in casa, con immagini e suoni: l'economia andrà bene, il lavoro diminuirà e riempiremo il tempo libero con i romanzi in movimento…» più bravo su high tech che finanza. Leroy Soper intravide internet via televisione «Gli studiosi collegheranno le tv e studieranno archivi a Londra e Roma senza muoversi». Non mancano gli errori blu: «La corsa allo spazio dominerà i libri del XXI secolo», ma a rileggere il Seattle Times, impaginato nel vecchio piombo tipografico, colpisce la fantasia dei lettori 1962. Nessuna acrimonia per la fine della carta, nessuna Apocalisse culturale, grandi attese. Cosa direbbero gli amici di allora guardando un iPad, un e-book, un Kindle, un Nook, un tablet, scaricando il Pdf di una remota biblioteca via Google Books, acquistando un paperback islandese via Amazon? I loro più arditi sogni superati da una magica rivoluzione tecnologica, così radicale da mutare non solo l'industria del sapere, l'editoria, ma anche scuola, società, mass media, scrittura e narrativa. A intuire la svolta fu per primo Italo Calvino, nella conferenza «Cibernetica e fantasmi», pronunciata a Torino nel 1967: le macchine trasmetteranno cultura, sostenne Calvino, e scriveranno romanzi. La letteratura cibernetica sarà «la letteratura» più vera, perché, prodotta da una macchina, renderà finalmente protagonista il lettore non l'autore. In rete oggi, accade proprio questo. Nella ricerca per due corsi su cultura e politica digitali tenuti quest'anno, uno a Princeton University, l'altro alla Luiss «Guido Carli» di Roma, non ho trovato testo più visionario del Calvino 1967: cui potete abbinare la poesia «Tape Mark» fatta «scrivere» al computer (un bonario «cervello elettronico» per le buste paga della Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde) nel 1962 da Nanni Balestrini. A chi obiettava che i versi del computer non fossero poi un gran che, Balestrini rispose genialmente che non aveva cercato di ottenere con il suo algoritmo (integrale su gammm.org/index.php/2006/09/03/tape-mark-i-algoritmo-nanni-balestrini-1962/) la voce di un poeta umano, ma «la voce della macchina». La rivoluzione digitale ci deve far riflettere sulla cultura, prima che sulla tecnologia. Siamo invece affascinati dal «retina display, che permetterebbe ai prodotti Apple di offrire la massima perfezione d'immagine percepibile dal nostro occhio (la rivista Wired non è persuasa) e non vediamo che la novità profonda tocca i contenuti, non le tecniche. È come se i contemporanei di Gutenberg avessero passato il tempo ad ammirare il suo torchio a caratteri mobili, invece di capire che solo la traduzione della Bibbia in Volgare apre la modernità. Senza Bibbia in tedesco, francese, inglese, italiano, fermi al latino, niente rivoluzione. Noi, prima generazione digitale, stentiamo a creare nuovi contenuti e, dai siti dei quotidiani agli e-books, travasiamo testi tradizionali in formato elettronico, restando frustrati se il pubblico anticipa il futuro con la libera fantasia dei lettori Seattle Times 1962. Quando sul social media Pinterest nascono «board», lavagne elettroniche che sono affreschi di memoria e immagini. Quando Twitter, nato per messaggini tra amici, collega i link di qualità giornalistica del pianeta, facendovi seguire in diretta la battaglia di Kabul, tweet dopo tweet. Qualcuno obietta che un libro di carta non ha paragoni. E come dargli torto, se io stesso mi trascino dietro decine di migliaia di copie, rischiando senza donazioni a Caritas, don Mazzi e biblioteche popolari di finire travolto in casa come i fratelli Collyer del romanzo di Doctorow? Ma quando Iliade ed Odissea non vennero più cantate ma trasmesse con le scritture inventata dapprima a Micene, non pochi si saranno lagnati della perdita di calore ai banchetti. E quando la pergamena contese il campo al papiro - i rotoli del Mar Morto usano entrambi i supporti, dopo una crisi delle esportazioni da Alessandria - la vecchia guardia avrà mugugnato, nell'equivalente a Qumran di un elzeviro di Terza Pagina, «La civiltà è perduta!». Ogni cambio di trasmissione culturale ci priva di qualcosa, le miniature in oro zecchino che gli amanuensi apponevano in cima alla loro pagine bibliche, la tradizione orale dei menestrelli per i cicli medievali, il fogliettone con il romanzo popolare dell'Ottocento. Triste ed inevitabile. Il web non cancellerà l'informazione seria, gli e-book non oscureranno Lao Tzu, Dante e Shakespeare. Una ricerca Pew Center prova che i lettori su Kindle, Nook e iPad leggono anche molti più libri di carta della media, pewresearch.org/pubs/2236/ebook-reading-print-books-tablets-ereaders . Il mestiere di giornali e case editrici deve però cambiare: dando valore aggiunto di qualità a quotidiani e libri, ci salveremo dal rumore di fondo del web, comunque vada la battaglia tra Amazon, Microsoft, Barnes&Noble, Apple e Stati Uniti sul prezzo degli e-book. Nella più bella e meno letta delle Lezioni americane, «Molteplicità», Calvino conclude che il romanzo e la conoscenza sono «una rete», anticipando di dieci anni il web. La sfida non è contrastare la rete, ma navigarla con raziocinio. Dite che Wikipedia ha inventato l'autore collettivo? Macché, già Bibbia, Odissea, Mahabharata, fiabe e ciclo di Re Artù avevano un autore collettivo. Il digitale ci riporta alle radici del sapere, non le sradica: Calvino lo capì per primo e a questo Salone sarebbe felice per le sue profezie avverate. Quanto ai predicatori di sventura digitale non ascoltateli troppo: nel 1894 il Times di Londra previde che entro il 1950 la città sarebbe stata sepolta da tre metri di sterco di cavallo. Non calcolava l'auto, perché chi guarda al futuro come un nuovo presente sbaglia. Sempre ;). (fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 5 maggio) da - http://www3.lastampa.it/libri/sezioni/news/articolo/lstp/452870/ Titolo: Gianni RIOTTA - È il momento dei veri leader Inserito da: Admin - Maggio 08, 2012, 09:34:03 am 8/5/2012
È il momento dei veri leader GIANNI RIOTTA Alzi la mano chi sapeva che sulla bandiera del partito di destra greca Alba Dorata, 7% alle elezioni, c’è una svastica stilizzata, chi immaginava che la sinistra radicale di Syriza avrebbe conquistato 50 seggi ad Atene relegando i socialisti al terzo posto. O vi sorprende adesso che il neo presidente francese Hollande faccia sapere di avere lavorato da ragazzo, in America, nel covo dell’americanismo bieco, un ristorante McDonald’s? Tre partiti lacerano Europa e Stati Uniti in questa frenetica stagione elettorale 2012-2013, partita in Spagna, passata da Grecia e Francia, a novembre a Washington e l’anno venturo in Germania e Italia: Rigore, Crescita, Populismo. Il partito di chi pensa che i bilanci in equilibrio risolvano la crisi economica, quello avverso di chi punta sullo sviluppo pur a costo di qualche debito, e il terzo schieramento, indignato, restio alle riforme. Chiamateli Syriza o Cinque Stelle, Tea Party, Occupy Wall Street, Le Pen o Mélenchon i ribelli hanno paura del futuro e nostalgia di un passato in cui welfare e crescita in Occidente erano garantiti, l’emigrazione controllata. La loro foga irriducibile mette in difficoltà il duopolio «Rigore contro Crescita» nella maratona elettorale. La bocciatura sonora di Sarkozy a Parigi, la difficoltà della cancelliera Merkel nel voto locale in Schleswig-Holstein, la sconfitta del premier conservatore inglese Cameron in 32 elezioni amministrative, l’incapacità del repubblicano Romney a staccare il pur non fortissimo presidente Obama nei sondaggi, allarmano i Rigoristi. Anche i paladini della Crescita e della spesa, dalla sconfitta dei socialisti in Spagna, all'umiliazione greca del Pasók, alla fatica dei democratici per restare alla Casa Bianca, scontentano l’opinione pubblica malmostosa. Per questo Hollande - che ieri ha parlato per la prima volta al telefono con la Merkel di un incontro sereno da tenere subito dopo il 15 maggio - non nasconde più di avere fatto saltare hamburger sulla piastra in America. Deve rassicurare i mercati e ieri è sembrato riuscirci. Sa che ora gli slogan elettorali sul patto fiscale europeo da ridiscutere, le promesse su assunzioni nella scuola, salari minimi, baby pensioni e pareggio bilancio nel 2017 dopo 40 anni di deficit, non basteranno a governare. Mitterrand fece il socialista idealista per due anni, prima di piegarsi alla realtà. Hollande non avrà due mesi. Già ieri studiosi come Jeffrey Sachs e Dominique Moisi lo chiamavano a un mix raziocinante di Rigore e Crescita, una via che non abbia la tetragona ostinazione della Cdu tedesca, né si illuda di lastricare di spesa pubblica la ripresa (ne scrive bene su Foreign Affairs Raghuram Rajan). La storia ha messo il turbo. Aziende che non esistevano pochi mesi fa come Instagram valgono sul mercato più del centenario New York Times , un miliardo di dollari contro 970 milioni. La guerra fredda, aperta nel 1946 e finita nel 1989, ci impose lo stesso schema per decenni, Usa contro Urss, democrazia e società aperta contro comunismo centralista. Guerre, scontri di idee e culture, passioni, non mutavano il duello plumbeo. Il nostro tempo ha un passo diverso. Una dozzina di anni fa gli Usa vivevano il boom New Economy, l’Europa sognava il sorpasso dell’euro sul dollaro, Cina e India facevano magliette e giocattoli di plastica. La crisi 2007 porta negli Usa l’angoscia del declino, in Europa l’ansia da default. Oasi invidiate Cina e India, con Russia e Brasile giudicate il futuro, crescita e antiche culture. Peccato che oggi lo scandalo del populista Bo Xilai e le disavventure dell'avvocato dissidente cieco Chen Guangcheng grippino quello che doveva essere l’efficiente passaggio di poteri dal presidente Hu Jintao al successore Xi Jinping. Solo una volta dalla Rivoluzione di Mao la guardia è cambiata a Pechino senza violenze, appunto con Hu. L’India dei miracoli economici vede la crescita languire al 6%, quota miraggio per noi, ma insufficiente per tirare fuori dalla povertà centinaia di milioni di indiani. Tensioni militari, natalità in eccesso o insufficiente, politiche totalitarie o burocratiche, confermano che «i nuovi paesi» non saranno presto leader del nuovo mondo. Nulla è dunque come appare. I mercati che avrebbero già dovuto condannare Hollande sono guardinghi. Semaforo verde per un programma che privilegi l’acceleratore della spesa sul freno del rigore? No, e se il neo presidente si illudesse sulla tregua in Borsa sarà, brutalmente, corretto. Gli Usa del declino creano poco lavoro, meno di quanto Obama desideri, ma almeno non si fermano da mesi. L’Europa non decide ancora che strada prendere, i tedeschi non riconoscono il bene fatto dall’euro alla loro formidabile economia, i paesi mediterranei riluttano davanti a riforme, amare ed indispensabili: è sfida finale anche per il governo Monti. Jean-Marc Ayrault, che Hollande vorrebbe primo ministro, ha detto che l’intesa con la Merkel «si farà su un compromesso in cui tutti faranno passi indietro». Cruciale la mediazione del presidente Bce Mario Draghi tra Parigi e Berlino. Tocca ai leader, a veri leader, ritrovare equilibrio fra Rigore e Sviluppo. Devono però parlare ai cittadini con calore e onestà, ai cuori non agli algoritmi. Nei paesi sviluppati, come in quelli in via di sviluppo, leader illuminati devono guidare le opinioni pubbliche a conti seri e alla New Economy. Prezzo del fallimento è l’ascesa indignata dei populisti alla Grillo o Syriza che, davanti alla realtà, svaporerà presto lasciando nuovo disincanto. Più aspro sarà sradicare gli estremismi alla Alba Dorata in Grecia a alla Orban in Ungheria, una volta che rimetteranno le radici velenose dell’odio. Perché le riforme servono all’economia, ma anche alla democrazia. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10075 Titolo: Gianni RIOTTA - Obama e i gay, idealismo e calcolo politico Inserito da: Admin - Maggio 11, 2012, 12:31:46 pm 11/5/2012
Obama e i gay, idealismo e calcolo politico GIANNI RIOTTA Il sì ai matrimoni omosessuali è il primo atto storico di Barack Obama. In piena campagna elettorale per la Casa Bianca 2012, schiera il Partito democratico in quello che è oggi, con l’aborto, il più urticante scisma culturale tra progressisti e conservatori, 50% a favore, 48% contro. Il Presidente ha detto: «È per me importante affermare che le coppie omosessuali debbano potersi anche sposare», subito schermando la sua decisione dietro Marines gay al fronte; funzionari del suo staff «monogami e fedeli, con bambini» clandestini perché non eterosessuali; le figlie Malia e Sasha con compagne di scuola figlie di gay. Obama ha cambiato parere da quando, in campagna per il Senato 2004, disse: «Per la mia fede religiosa credo che il matrimonio sia sacramento che lega un uomo a una donna». Nel saggio «L’audacia della speranza», 2006, farà un passo in avanti, nel suo stile cerebrale: «Non è impossibile che la mia scelta di non voler sostenere i matrimoni gay sia fuori rotta». Infine il sì netto. Ci sono nella svolta di Obama una dose di idealismo e una di calcolo politico, come sempre per ogni presidente in carica. Nella corsa che lo opporrà al repubblicano Mitt Romney a novembre, Obama ha un deficit grave, aver fatto poco per il sogno di un’America più saggia e giusta. L’economia, con la peggiore crisi dal 1929, gli ha impedito le riforme, perfino la sanitaria è a rischio davanti alla Corte Suprema. Il mondo arabo ha gestito da sé le sue rivoluzioni, la pace in Medio Oriente non è più vicina che sotto G.W. Bush, in Iraq e Afghanistan si gestiscono ritirate strategiche e, come diceva Churchill, le ritirate non vincono la guerra. Il sofferto consenso ai matrimoni gay sventola per la base liberal, i giovani che l’hanno sostenuto con passione, la bandiera dei diritti. Al tempo stesso però Obama delega ai singoli Stati di votare, o no, una legge sui matrimoni non etero. Nella storia americana il dilemma se un diritto debba essere affermato da Washington, a livello federale, o dagli Stati, è drammatico. La guerra civile 1861-1865, che ha fatto più morti di tutti gli altri conflitti Usa, s’è accesa proprio per lo scontro fra Stati sulla schiavitù: Lincoln era disposto a lasciarla in vigore nei vecchi Stati del Sud, ma la polemica sulla sorte degli schiavi fuggiti al Nord, e l’introduzione dell’odioso sistema nei nuovi Stati dell’Unione, risultarono impossibili da mediare. Solo a metà guerra, con il Proclama di Emancipazione, Lincoln fa del tema diritto civile universale. Il calcolo politico di Obama è dunque sottile e non privo di rischi. Sa che i militanti democratici si galvanizzeranno, la comunità gay è ricca dei suoi più generosi finanziatori. Radicalizzando il voto, caricatura i repubblicani da parrucconi estremisti, capaci nelle primarie dell’Indiana di bocciare l’esperto senatore Lugar per eleggere il conservatore Mourdock, legato ai populisti Tea Party. Obama sa però anche che gli elettori afro e latinoamericani, suoi sostenitori di prima linea, sono spesso ostili alle nozze gay, anatema per cattolici ed evangelici nelle comunità rurali. Gli esperti di «metadata», che analizzano le conversazioni sui social network, Facebook, Google, twitter, siti e microblog, confermano al Presidente che il voto 2012 si decide sull’economia (ieri dati così così su import/export e occupazione). Quindi meglio «parlare alla Storia» su un tema non cruciale per la Casa Bianca. Il vicepresidente Biden, cattolico, s’è detto favorevole alle nozze gay pochi giorni fa, gli analisti di «metadata» hanno setacciato le reazioni Web e, forte del loro scudo digitale, Obama è sceso in campo. Se ora Romney, pressato dai conservatori, lancerà un emendamento costituzionale contro le coppie gay, la campagna devierà dai temi della crisi e del lavoro: sollievo per Obama. Un referendum in tal senso è passato martedì in North Carolina ed altri simili sono in vigore in 30 Stati. Una mezza dozzina di Stati, fra cui New York, permettono nozze gay, altri voteranno il referendum a novembre. Ad Obama la critica ultras del New York Times , che ogni domenica pubblica la popolare rubrica di cronaca mondana dei matrimoni gay bene di Manhattan: il foglio progressista lo pungola per non avere proclamato come «diritto universale» il matrimonio tra coniugi dello stesso sesso, sotto l’egida del 14˚ emendamento alla Costituzione «uguale protezione dei cittadini». A suo tempo l’emendamento fu impugnato quando nel Sud bianchi e afroamericani non potevano sposarsi. Obama, politico fine, non lo usa per non esacerbare il clima. Questo è il quadro politico e a novembre vedremo se Obama ha ben interpretato l’umore americano dai «metadata» Web. Resta però nei libri di storia che, nel maggio 2012, un Presidente degli Stati Uniti d’America ha proclamato il diritto alle nozze tra cittadini omosessuali. Per molti americani è vittoria politica, per tantissimi altri fine di un personale tormento, una privata ingiustizia. Cultura, fedi religiose, politica, economia, scuola, famiglia, Welfare, le forze armate, l’intera società americana muoverà adesso sulla strada aperta da Obama. Comunque la si pensi in Europa, com’è affascinante il carisma di una Repubblica che, da due secoli e mezzo, insegue, tra cadute e conquiste, l’uguaglianza e la felicità dei diritti universali, davanti a Dio e alla legge. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10087 Titolo: Gianni RIOTTA - Una strada per evitare la tragedia Inserito da: Admin - Maggio 29, 2012, 11:04:15 am 28/5/2012
Una strada per evitare la tragedia GIANNI RIOTTA Il diplomatico veterano Brian Urquhart, a lungo sottosegretario alle Nazioni Unite, ripeteva che troppo spesso l’opinione pubblica guarda alla politica internazionale cercando «Una Buona soluzione da opporre alla Cattiva. Purtroppo sul campo i diplomatici lavorano tra una Cattiva soluzione e una Pessima, cercando di scampare alla Tragica». La saggezza amara di Urquhart è d’attualità in Siria, davanti alla strage di bambini a Hula, nei pressi di Homs. Il piano di pace rabberciato dall’ex segretario generale Onu Kofi Annan, se mai ha avuto qualche credibilità, è in pezzi. Le speranze che il regime alawita di Bashar al Assad non bari nel negoziato si sono confermate per quel che sempre sono state, ingenuità o maliziose furbizie. I ribelli non riescono a rasserenare i settori della popolazione siriana a loro ostili, compresi i cristiani. Il mondo sta a guardare i filmati rudimentali che la rete diffonde, il papà con il figlio inerte in braccio, violenza contro l’innocenza. Le agenzie registrano dichiarazioni dei potenti, a Washington, Londra e Parigi, roboanti e senza effetto. Jihad Makdissi, un portavoce del regime di Damasco, getta la responsabilità sull’opposizione, per confondere, come facevano gli sgherri di Milosevic ai tempi dei bombardamenti di Sarajevo. L’impotenza domina. Il Cremlino del neo, ed eterno, presidente Putin blocca con abilità ogni tentativo di pacificazione, pur di non perdere un fedele cliente russo nel Mediterraneo, una base per la flotta e i servizi segreti in Medio Oriente, un ricco mercato di armi. I morti bambini svelano lo scarso peso strategico dell’onnipotente web, quando sferragliano i carri armati. Tocca quindi al presidente Barack Obama, come ai suoi predecessori, Bush padre nella prima Guerra nel Golfo e Clinton nella Guerra nei Balcani, provare a costruire una coalizione e una soluzione: sapendo che si tratta di scegliere la Cattiva sulla Pessima, mentre la Tragica incombe. Obama è in aspra campagna presidenziale, i sondaggi lo danno poco avanti Mitt Romney, con troppi indecisi, e già il rivale repubblicano lo incalza, accusandolo di inerzia. Fosse alla Casa Bianca, Romney avrebbe il duro teorema di Urquhart sul tavolo, dall’opposizione può far chiasso. Obama gioca allora la carta Yemen, dove il presidente Ali Abdullah Saleh ha accettato di passare la mano al vicepresidente Abdu Rabbu Masour Hadi, dopo mesi di violente repressioni. Malgrado Hadi abbia affrontato un primo turno elettorale, l’opposizione sa che infine passerà la mano. Si punta quindi a riprodurre in Siria questo processo, con l’addio di Assad, una parte del regime che rimane in sella a garantire la popolazione ostile ai ribelli, partecipi del passaggio graduale di poteri. Strada ardua. Obama ne ha parlato all’enigmatico alter ego di Putin, Medvedev, che non s’è detto contrario - secondo fonti della Casa Bianca -, ma potrebbe trattarsi dell’ennesimo prender tempo del Cremlino a favore di Assad. L’Onu ha sbagliato a atteggiarsi a super partes tra dittatura e ribelli, la Lega Araba conferma la storica ambiguità, in Siria il Tragico prende il sopravvento sul Cattivo. Kofi Annan, non brillante segretario generale Onu dai controversi business, ha permesso ad Assad di ostinarsi nella trattativa, chiazzata da aggressioni e stragi. I caduti di Hula sono 90, i bambini 32, la guerra semina 10.000 morti. Ora si temono rappresaglie dei ribelli sunniti sui vicini villaggi alawiti, nella faida ancestrale che li oppone. Il governo Assad nega le colpe dell’esercito, malgrado le munizioni e le schegge di artiglieria ritrovate sul campo lo inchiodino: le atrocità peggiori vengono delegate, per confondere gli osservatori internazionali, ai miliziani shabiha, truppe irregolari e feroci. Annan torna oggi a Damasco, ma i leader dell’opposizione sono ormai disperati sul suo «piano». Da Parigi il ministro degli Esteri socialista, Laurent Fabius, alza il tono, la Francia sembra decisa a dar man forte a Obama in giorni difficili. Lo stop alla guerra civile nell’ex Jugoslavia, che aveva diviso l’impotente Unione Europea, diede al giovane presidente Clinton occasione di rinnovare l’egemonia americana, con un intervento cui infine presero parte gli europei, con un ruolo strategico per l’Italia. Barack Obama è allo stesso, difficile, passo. Sarebbe nobile che i repubblicani si ricordassero che, nelle emergenze della Guerra Fredda, la politica estera era «National interest», interesse comune della nazione. Nell’epoca del web populista, di Occupy Wall Street, Tea Party e talk show arrabbiati in tv, non c’è da sperare in questi sentimenti da statisti austeri, come Harriman o Acheson. L’Europa di Merkel, Cameron e Hollande - ipnotizzata dalla crisi euro - potrebbe tornare partner forte di una Washington che il Pacifico distrae da Atlantico e Mediterraneo. Il governo di Mario Monti, che al G8 ha condotto con autorevolezza la discussione sull’economia, può mediare con altrettanta sagacia. Le chiacchiere stanno a zero quando i bambini muoiono. Dibattiti sul declino americano, egemonia cinese, Brics e piani di pace strampalati, vanno bene per tesi di laurea o litigi su twitter, ma non fermano il sangue. La Storia assegna a Barack Obama, oggi, il compito di scongiurare la Tragedia, fugare la soluzione Pessima e dare ai siriani una soluzione «Cattiva» che non sia solo una maschera come il piano Onu. Gli elettori americani lo giudicheranno anche su questo, con equanimità. Bruxelles e Roma conteranno, se agiscono con lungimiranza. Nei Balcani l’operazione è riuscita, chiamatela ora «Soluzione Yemen», o se preferite «Yemenskii Variant» come fanno i russi al Cremlino. Basta che Assad, figlio dell’uomo che sterminò 40.000 siriani a Hama, lasci Damasco, che l’antico popolo di Siria si avvii verso una pacifica transizione, imponendo anche ai ribelli di non indulgere in faide contro i loro avversari. Un’esile, cattiva, strada ma l’alternativa è cambiare canale, rassegnati, quando al telegiornale appariranno i filmati web con i bambini fatti a pezzi dalle bombe alawite. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10155 Titolo: Gianni RIOTTA - Il realismo di un verdetto dignitoso Inserito da: Admin - Giugno 04, 2012, 09:37:53 am 3/6/2012
Il realismo di un verdetto dignitoso GIANNI RIOTTA Quando si tratta di diritti umani e democrazia noi occidentali abbiamo due bilance, una pesa America ed Europa, l’altra il resto del mondo. Che Italia e Germania abbiano conosciuto la dittatura, gli Stati Uniti ordito il golpe in Cile, la Francia sia passata dalla vergogna di Petain e la Gran Bretagna dal golpe in Iran 1953 e dalla follia di Suez 1956 - solo per citare qualche desolante esempio - viene giustificato come frutto da dimenticare delle asperità della storia. Ci nascondiamo dietro la filosofia di Hegel, «ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale». Ma la razionalità di Hegel si ferma ai confini del nostro mondo, e giudichiamo gli altri dall’alto in basso, incapaci di vedere la realtà. La primavera araba del 2011 è stata prima celebrata senza riflessione, poi condannata come showdown islamista. I maestri del realismo a ogni costo, dopo non avere mai pronunciato una parola di condanna per i regimi arabi, si sono sorpresi- possibile? - che dalle confuse giornate di rivolta non uscisse una compassata democrazia elvetica, un forbito dialogo, «After you Sir...», da Hyde Park Corner a Londra. La condanna all’ergastolo comminata ieri dal tribunale egiziano all’ex presidente Hosni Mubarak, che per tre decenni ha oppresso il suo Paese ricevendo miliardi di dollari in cambio della repressione dei Fratelli Musulmani e una linea cosiddetta «filo-occidentale», è ricevuta con lo stesso sussiego. In fondo il Paese è ancora retto dai militari, in fondo i giudici sono gli stessi del vecchio regime, in fondo i Fratelli Musulmani sono fondamentalisti... In fondo... In fondo, purtroppo, la storia non fa salti, mai, riguardate il Manuale di scuola se lo avete ancora in casa. In piazza, al Cairo, c’è chi lamenta che per la morte di 848 dimostranti e il ferimento di molte migliaia nei 18 giorni di rivolta, Mubarak meritasse la pena di morte e i suoi figli, Gamal e Alaa, non certo l’assoluzione. Comprensibile in chi ancora piange fratelli e compagni di lotta e per anni ha conosciuto carcere e torture, meno in noi europei e americani «razionali». Il giudice Ahmed Refaat s’è trovato di fronte al paradosso di ogni processo per i diritti umani dopo la caduta di un regime, dal processo di Norimberga del 1945 ai gerarchi nazisti, al giudizio contro l’ex leader serbo Milosevic all’Aia nel 2002: che tante azioni violente sottoposte a inchiesta fossero però «legali» sotto le leggi precedenti. La giurisprudenza di Norimberga e la Corte penale internazionale dell’Aia sono giusto frutto di un’evoluzione del diritto e dell’opinione pubblica, persuasi che certi reati contro l’umanità siano sempre punibili, pur se commessi sotto il codice locale. Refaat ha agito con prudenza, condannando Mubarak e il suo ex ministro dell’Interno Habib el-Adli, «per non avere protetto il popolo egiziano» dalle violenze della polizia e degli sgherri. Sapeva che la corruzione, e perfino l’istigazione alla violenza, erano «lecite» sotto il regime, e allora s’è appellato a un cavillo, dividendo il Paese e le organizzazioni dei diritti umani, lo apprezza Amnesty International, lo critica Human Rights Watch. Gli italiani giustiziarono sommariamente Mussolini. I criminali nazisti furono giudicati da magistrati Alleati. Saddam Hussein impiccato da un boia maldestro, Gheddafi finito all’imbocco di una fogna, entrambi immortalati per sempre su YouTube. Con tutte le sue contraddizioni, con tutte le faticose traversate che la democrazia deve ancora percorrere nel mondo arabo, l’ergastolo comminato a Mubarak - che adesso potrà appellarsi - appare esito più dignitoso. La primavera araba non è un miracolo perfetto del bene, ma la fine dei decrepiti regimi resta un bene e un miracolo. Si può pretendere di fermare il mondo quando contraddice i nostri interessi nelle note a piè di pagina di un saggio di Realpolitik ma nella realtà è ingenuo e pericoloso. Perché Hegel aveva ragione, «ciò che è reale è razionale», ma ovunque, anche in un tribunale del Cairo, circondato da Fratelli Musulmani, dissidenti democratici e nostalgici clienti di Mubarak Twitter@riotta da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10181 Titolo: Gianni RIOTTA - Una crisi da trattare con umiltà Inserito da: Admin - Giugno 18, 2012, 05:02:57 pm 18/6/2012
Una crisi da trattare con umiltà GIANNI RIOTTA La crisi economica condiziona le nostre vite, senza confini. Il match di ieri in Grecia, che è andato a vantaggio dei conservatori di Nuova democrazia di Samaras con la sconfitta della sinistra Syriza del vulcanico ex comunista Tsipras, è stato atteso con ansia ad Atene come alla Casa Bianca, Cremlino, Pechino. La crisi ci ha reso cittadini di una sola megalopoli, Terra. Forse giusto la Seconda guerra mondiale ha avuto un tale impatto e, come per la guerra che inizia in Germania e Inghilterra nel 1939, in Italia e Grecia nel ‘40, per Russia e America nel ‘41 ma in Cina e Giappone già nel 1931, anche la crisi non ha data condivisa d’inizio. Parte dallo scoppio della bolla immobiliare in America, metà 2006, o nel 2007 con la crisi di liquidità delle banche? O il giorno nero è la bancarotta Lehman Brothers 2008? O la scoperta dei falsi in bilancio greci coperti anche da speculatori tedeschi? Ho posto la domanda su twitter @riotta c’è chi anticipa alla bolla web, chi alle liberalizzazioni del presidente Clinton. Né c’è consenso sui «colpevoli», chi accusa Wall Street rapace, chi gli Stati che impediscono libertà ai mercati, chi le oligarchie corrotte. Chi gli elettori greci, spagnoli, italiani indifferenti al debito e golosi di pensioni. Ci manca la comune sceneggiatura del film «La Grande Crisi», ci sono eroi e cattivi, o è uno spaghetti western come «Django», l’ultima pellicola di Quentin Tarantino, solo cattivi? È facile, in attesa del voto greco e alla vigilia delle elezioni Usa 2012 e Germania-Italia 2013, deprecare l’attendismo di Merkel, la condotta gregaria degli altri leader europei, gli algidi calcoli di Obama, il nazionalismo di Putin, la burocrazia cinese, lo scialo dei socialisti del Pasok, gli slogan di Tsipras «Oggi comincia una nuova era!». Ma immaginatevi al loro posto, decisi a far «la cosa giusta» contro la crisi. Riunite i consiglieri, convocate i migliori cervelli economici, studiate Wolf, Naim, Krugman e Emmott: e poi cosa decidete? Sentirete solo opinioni colte, tagliare spesa e liquidità rischia di farci riprecipitare in recessione come F.D. Roosevelt quando, scampato il 1929, chiude troppo presto i rubinetti di Washington e deve attendere la guerra perché l’America ritorni a crescere. Oppure vi suggeriranno di tagliare spese, tasse e regole sul mercato: è la scommessa del repubblicano Romney contro Obama, meno Welfare e conferma delle agevolazioni fiscali di G.W. Bush. Hollande aggiorna la socialdemocrazia, nuovi posti di lavoro pubblici. Attenti, ribattono l’economista Rajan e il demografo Goldstone, non ci sono più abbastanza lavoratori per reggere pensionati e Welfare. In America, ogni giorno, vanno in pensione 40.000 figli del baby boom 1946-1964 e, con i populisti all’attacco, Tea Party, Le Pen, Alba Dorata non sarà certo l’emigrazione a sostenere la previdenza. Anche a sinistra Beppe Grillo fiuta l’aria con sagacia e si oppone alla cittadinanza per gli stranieri. E allora? Sul Journal of Economic Literature Andrew Lo, studioso del Mit, online http://bit.ly/ IZc6NQ raccoglie tutte le ipotesi, i saggi, i libri, le teorie finora elaborate sulla crisi, calcola torti e ragioni cercando vie d’uscita al labirinto in cui ci dibattiamo. Non ne trova: perfino la Commissione d’inchiesta americana bipartisan, Financial Crisis Inquiry Commission, con poteri giudiziari, 18 mesi di studio, 700 esperti, 19 giorni di dibattito pubblico, si divide davanti al Rapporto finale e i dieci commissari partoriscono tre, opposte, conclusioni. Il professor Lo cita la mancanza di trasparenza che induce la crisi, le ingenuità e avidità che travolgono grandi della finanza e piccoli risparmiatori, si chiede perché Europa continentale, Asia e America Latina, siano rimaste subalterne almodello, dominante, dell’«anglosfera » a cui, pur deprecandolo, finiscono per dare ascolto in Borsa. Perché, se la crisi era «prevedibilissima»come insiste Nouriel Roubini, nessuno l’ha anticipata? Lo speculatore Paulson scommette contro la bolla immobiliare Usa 2007 e intasca $ 4 miliardi (€3,1 miliardi): ma perché lui solo, pur disponendo delle stesse informazioni di tutti noi? Nel saggio «The big short» Michael Lewis (l’analista che ha ispirato il film «Moneyball») calcola che solo una ventina di operatori abbiano agito come Paulson, gli altri hanno seguito, conformisti, il mercato: perché? Applicate il rasoio del professor Lo al referendumEuro- Dracma in Grecia, con elettori confusi dal bisogno, dagli slogan, dal risentimento: i conservatori di Nuova Democrazia hanno scommesso che il sì all’euro non farà scoppiare tensioni sociali nel paese impoverito e che l’economia ripartirà infine; la sinistra del vulcanico Tsipras ha giocato sul no alla Merkel e il ritorno alla spesa, persuasa che alla Grecia non servano riforme e basti la - pur indispensabile - lotta alla corruzione. Chi ha ragione? Esperti e politici sono confusi dall’opacità della crisi, né più né meno di tutti noi ed è quindi comprensibile la divisione in Grecia. Gli strumenti teorici del Novecento, lord Keynes o Hayek, non misura più la globalità, il mercato elettronico non dà requie, ubiquo, insonne. I nuovi media e le Borse trattano e mischiano 24 ore al giorno idee e cifre, umori politici e di investitori, in quello che nel Medio Evo si chiamava «palaver», frenetica lingua franca universale che spaventa, illude, amareggia e nella cui sintassi verità e menzognasi confondono. Ci vorrebbe dunque, rara merce, una dose robusta di umiltà. Troppi studiosi scadono invece in toni da propaganda, che il Web rilancia e radicalizza, ma purtroppo «La propaganda comincia dove finisce il dialogo» come ammoniva il saggio Ennio Flaiano. Troppi politici, terrorizzati dal caos, si irrigidiscono, accusano gli «Altri», i Paesi indebitati per la Merkel, l’Europa per Obama, la Merkel per Hollande, l’Ue o gli armatori per i greci. Gli elettori, in Europa e in America, dimenticano l’entusiasmo con cui hanno approvato politiche di spesa, tasse basse o evasione fiscale, privilegi, modello economico e sociale non più sostenibile. Gli imprenditori soffrono di amnesia sulle passate stagioni di poca innovazione e mercati protetti, i sindacati sulle tutele a occupati e pensionati a scapito di giovani, donne e disoccupati. Nella Babele delle teorie, con la polemica a mascherare la carenza di analisi raziocinanti, la corruzione diventa così il Grande Alibi, unita da noi alla polemica, sacrosanta, sui «Costi della politica». Innovare, riformare, puntare su spesa e Welfare, mercato e competizione, senza rigidità, varare riforme di struttura, tutto cede all’urlio anti-corruzione. Purtroppo, se con la bacchetta di Harry Potter azzerassimo all’istante corruzione e costi della politica i guai della crisi, globale, europea e italiana, ci resterebbero addosso, intatti. Lotta quindi alla corruzione e bisturi sì sulla spesa politica. Ma la classe dirigente italiana e gli elettori, in vista delle elezioni 2013 che si annunciano storiche ancor più delle greche di ieri, riflettano: voteremo accontentandoci dell’acre soddisfazione di «Mandar tutti a casa!», o ragioneremo sull’intrattabile crisi del XXI secolo, cercando insieme, ciascuno con le proprie idee, di impedire che la nostra casa comune, la Repubblica, crolli impoverita, ridotta, allora sì davvero, a terra di conquista per corrotti, populisti e populisti corrotti? da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10237 Titolo: Gianni RIOTTA - La rivincita dei Pigs Inserito da: Admin - Giugno 25, 2012, 10:23:12 am 25/6/2012
La rivincita dei Pigs GIANNI RIOTTA Nella crisi economica che tutti ci affligge dal 2007 le sigle si sprecano. Brics, che suona come mattoni in inglese, indica i Paesi che crescono, i nuovi ricchi, Brasile, Russia, India, Cina. Next 11, indica quelli che li inseguono, dalla Corea ai Paesi africani. Efsf una delle tante diavolerie escogitate, con mediocri risultati finora, per salvare l’euro. La peggiore delle sigle, la più sleale e negativa, resta però Pigs, che indica i Paesi del debito nell’Europa meridionale, Portogallo, Italia (solo per un breve periodo sostituita dall’Irlanda), Grecia e Spagna, ma che di nuovo, nell’inglese dialetto di Wall Street, della City e della finanza tutta, significa Porci. A indicare disprezzo non per un modello economico, un bilancio in rosso, una classe dirigente insufficiente: no, Pigs condanna un popolo intero. Adesso però nel calcio alle semifinali dell’Europeo, che è il campionato più competitivo del pianeta football, sono arrivate subito due Pigs, il Portogallo e la Spagna: la Grecia ha messo paura alla Germania, ha sognato per 5 minuti che le semifinali fossero tutte del debito, da una parte la penisola iberica, dall’altra i due vecchi Paesi del mondo classico, l’Italia di Roma e la Grecia di Atene. A mettersi in mezzo la Germania, che piazzandosi di traverso ha voluto ribadire che tocca a lei, ex regina del marco, la chiave di volta contro il debito. Esultando in tribuna di ritorno dal quadrangolare di Roma con Monti, Rajoy e Hollande la signora Merkel, in una giacchetta verde antipatia come i titoli dei giornali populisti alla «Bild», ha segnalato al mondo che Berlino si opporrà anche nel calcio alle cicale. Dimentica del verso di Garcia Lorca, «cigarra dichosa tu…», cicala beata te… Toccava ieri all’Italia e all’Inghilterra concludere la metafora economica di un Europeo che ne offre una ad ogni match. Chi avrebbe affrontato l’arcigna Germania, dentro e fuori campo? L’Inghilterra della City, guidata dal raffinato coach Roy Hodgson che sembra più a suo agio con bombetta e «Financial Times» sotto braccio che in panchina? O l’Italia di campioni vecchi e incerottati, di ragazzi un po’ bislacchi, Buffon e Pirlo, Cassano e Balotelli? Il calcio non vuole rinunciare alle sue metafore, in piena crisi. E per tutti i 120 minuti di partita, la classica Italia-Inghilterra, due modelli di gioco e di cultura hanno duellato. Ma a difendersi con un catenaccio affannoso, qualcosa che avrebbe reso fiero il Padova di Rocco e fatto sognare il cronista veterano Gianni Brera, erano gli inglesi, palla lunga e 9 uomini in area. Formiche. L’Italia attaccava con fantasia e forza, creava occasioni su occasioni, coglieva due pali, strameritava il credito, ma non lo trovava, come una Pmi, una Piccola e media impresa del football cui la Banca della Fortuna nega un finanziamento pur meritato. Si andava così ai calci di rigore, i catenacciari della City contro gli attaccanti di un Paese con Pil e debito a inseguirsi. Da settimane i titolisti giocano su rigore del campo e rigore in economia, ma ogni loro metafora è finita sui piedi di Diamanti, giocatore senza la fama di Rooney o di Buffon, una qualche aura da playboy e sprecone, una carriera quasi buttata al vento, insomma una cicala tra le cicale. Dagli spalti i tifosi inglesi cantavano «God save the Queen», ma Diamanti deve essersi ricordato di essere ormai un cittadino del Paese governato dal rigore del professor Monti e ha segnato. Siamo noi, la I dei Pigs la terza semifinalista e tocca a noi contrastare l’onnipotente Valchiria del campo, dello spread, dell’export, dei no ripetuti a ogni summit. Lo spread ci condanna anche all’Europeo, i tedeschi sono pronti a imporre la bilancia di pagamento dei loro gol, il credito di esportazione delle loro azioni, la perfezione della loro tecnologia umana. Ma ieri sera il calcio, metafora sempre perfetta della vita nella sua imprevedibilità, ci ha fatto vedere di cosa sono capaci gli italiani, un italiano «medio» come Diamanti, quando hanno le spalle al muro. Forza Azzurri: e ricordatevi che, fuor di metafora, e guardando ai numeri così cari ai tedeschi, la Germania non ha mai battuto l’Italia in una partita con dei punti in palio. Teniamo dalla nostra parte quello spread magico e poi riprendiamoci la Coppa che ci manca dal 1968. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10262 Titolo: Gianni RIOTTA - Così i giudici riscoprono lo spirito Usa Inserito da: Admin - Giugno 29, 2012, 11:36:22 pm 29/6/2012
Così i giudici riscoprono lo spirito Usa GIANNI RIOTTA Era così assodato che la Corte Suprema americana avrebbe bocciato, in tutto o in parte, l’Affordable Care Act, riforma sanitaria inseguita da decenni e arrivata infine grazie alla sola scelta temeraria del presidente Obama, che la Cnn, mitica rete tv, e Fox sentito che i giudici s’erano divisi 5 a 4 s’è precipitata su twitter: «No alla riforma». In automatico partivano le dichiarazioni, felici i repubblicani, corrucciati i democratici. Subito twitter correggeva Cnn: 5 a 4 sì, ma in favore della riforma di Obama. Ai quattro giudici liberal della Corte, Breyer, Sotomayor, Ginsburg, Kagan s’è unito – a sorpresa - il capo della Corte, John Roberts, nominato dal presidente George W. Bush, di solito solidale con i magistrati conservatori, Thomas, Scalia, Alito e il centrista Kennedy. La riforma, che la Corte ha limato solo su un punto minore, diventa così campo di battaglia per le elezioni di novembre, il candidato repubblicano Romney ha già scandito “La bocceranno gli elettori” e in pochi minuti gli oppositori hanno raccolto mezzo milione di dollari online. La mobilitazione repubblicana, rilevante, non cancellerà la vittoria di Obama, che cocciutamente ha voluto la riforma. Crede a un’America in cui tutti siano protetti dall’assicurazione medica e, malgrado sappia che nei sondaggi la maggioranza dei cittadini resta contraria (individualisti gli americani preferiscono “scommettere” da soli su mutua o salute), per una volta rinuncia alla cerebrale prudenza e si impone al riluttante Congresso. Alla Corte i legali della Casa Bianca invocano la libertà di commercio, la multa da pagare per chi non si assicura è normale sanzione amministrativa. Il Chief Justice Roberts non avrebbe votato la riforma su questa base, fedele alla sua filosofia di limitare l’azione dello stato federale in economia. Ha invece, con una sentenza che farà discutere per anni nelle Law Schools, scritto che l’obbligo di mutua sanitaria è una tassa, sì, ma che il Congresso ha pieno diritto costituzionale di imporre tasse e sanzioni ulteriori per chi non le paga. Fuori dall’austero edificio dove siedono, a vita, i 9 giudici della Corte Suprema, i militanti democratici hanno festeggiato, i rivali repubblicani giurato vendetta. Per la destra, dai Tea Party ai circoli intellettuali, è bruciante sconfitta. Da anni contano sulla Corte Suprema, a maggioranza conservatrice, per rintuzzare le leggi dei liberal. Il giudice Thomas, il polemico Scalia impongono una lettura “letterale” della Costituzione che osteggia l’introduzione di nuovi diritti nella società civile Usa. Vedere ora il giudice Roberts, con il centrista Kennedy schierato a destra, dar ragione a Obama, li infuria: sul profilo Wikipedia, l’enciclopedia web, Roberts viene da ieri definito “Codardo”. Obama vince e quando nei dibattiti Romney gli rimprovererà di non avere fatto granché in 4 anni citerà l’esecuzione di Osama e la riforma, con l’imprimatur della Corte. Certo, il presidente ha sempre negato che la riforma sia una tassa occulta e Roberts invece così l’ha definita: poco importa, vincere “fuori casa” in una Corte dove dominano i conservatori gli concede prestigio e autorevolezza. E le azioni dell’industria sanitaria ieri sono salite a Wall Street, non scese. La storica sentenza di ieri avrà due altre conseguenze. Dopo anni di polarizzazione destra-sinistra, con sentenze sempre più militanti, i giudici hanno agito secondo lo spirito antico della Costituzione, che li vuole super partes, dimentichi della nomina presidenziale e pronti a dire sì o no secondo legge. Proprio nell’ultima sentenza prima del via libera alla riforma sanitaria, il giudice Scalia – uno dei cervelli più acuti della Corte - aveva irritato intervenendo sulla legge contro l’emigrazione dell’Arizona con toni da talk show, non da Supreme Court. Gli Stati Uniti hanno urgenza di ritrovare il dialogo perduto nel populismo estremista, da Tea Party a Occupy Wall Street. Il Congresso deve liberarsi dalla paranoia di considerare ogni intesa e compromesso un “tradimento”. Era l’intenzione di Obama “togliamoci i colori di guerra dal volto – diceva -, non siamo gladiatori nell’arena”, ma non è riuscito, l’opinione pubblica è più iraconda e divisa. La Corte Suprema, nobile idea dei Padri Fondatori per equilibrare i poteri di Casa Bianca, Congresso e magistratura, ha agito ieri secondo lo spirito americano di pragmatismo, buon senso, diritto. In Europa, proprio nelle ore in cui si discute a Bruxelles il futuro dell’euro, l’eco del 5 a 4 incoraggerà chi difende welfare e stato sociale nei giorni difficilissimi di crisi economica: se anche a Washington tessono la rete di protezione, perché disfarla da noi? Il giudice tradizionalista Roberts è da oggi amico tra i nemici, nemico tra gli amici. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10276 Titolo: Gianni RIOTTA - Alle sartine cinesi il primo oro olimpico Inserito da: Admin - Luglio 14, 2012, 03:56:02 pm 14/7/2012
Alle sartine cinesi il primo oro olimpico GIANNI RIOTTA Quale momento più patriottico di un atleta che vince per il proprio Paese la medaglia d’oro ai Giochi Olimpici, la bandiera alta sul pennone, lacrime sul podio, le note solenni dell’inno nazionale. E negli Stati Uniti, che si accingono a Londra a contestare alla Cina il primato di ori perduto a Pechino nel 2008 51 a 36, telecamere in primo piano, audience rapita e un contratto di pubblicità per le scatole di cereali da breakfast. L’idillio sembra però spezzarsi in una querelle estiva che, dalle Olimpiadi, rischia di contagiare la campagna elettorale tra il presidente Obama e lo sfidante repubblicano Romney. Un servizio della rete televisiva Abc rivela che le uniformi della poderosa squadra americana, disegnate dallo stilista Ralph Lauren, sono Made in China, 100%. Apriti cielo della retorica: fosse evento olimpico la propaganda populista, da ieri a Washington ogni record sarebbe spezzato. Il leader democratico del Senato Harry Reid dichiara «Dovrebbero bruciare quelle uniformi in una pira. Meglio andare in giro con un solo disegno addosso, ma che dica almeno Made in Usa». Lo Speaker della Camera, il repubblicano Boenher, ringhia: «Al Comitato olimpico Usa non capiscono niente». La sua rivale democratica, signora Pelosi, raddoppia: «I nostri atleti faticano tanto, sono così belli, dovrebbero solo vestire Made in America!». Il festival delle panzane arruola Bernie Sanders, l’unico senatore socialista americano, per cui la scelta delle uniformi mette a rischio milioni di posti di lavoro, mentre il senatore Sherrod Brown accusa la Cina di trucchi commerciali e presenta una legge perché nel 2014 gli sportivi vestano Made in Usa. Le povere uniformi di Ralph Lauren, pantaloni bianchi larghi alla Grande Gatsby per gli uomini, gonna a pieghe immacolata da tennista Wimbledon inizio secolo per le donne, per tutti blazer blu da Commodoro e un buffo basco alla francese, erano già state distrutte dalle recensioni di moda. «Sono doganieri o atleti?» ironizza l’esperto Robert Verdi. Severo il blog Fashionista: «La moda snellisce le donne un po’ pesanti, le uniformi trasformano atlete in formissima in pesanti matrone». E i dispettosi francesi della tv France 24 twitter @france24 stuzzicano: l’America indossa il basco caro a noi parigini. Non mancano infine i veterani di Milltown, località del New Jersey, offesi perché la bandiera a stelle e strisce sulle giacche blu è più piccina del logo Ralph Lauren: «I nostri giureranno con la mano sul cuore per una ditta che produce in Cina, non sulla bandiera Old Glory». Ci sarebbe da ridere, come ai tempi della guerra in Iraq quando sul menù del ristorante del Congresso le patatine fritte, «french fries», vennero ribattezzate «liberty fries». Ma la pagliacciata nasconde un malessere profondo tra Usa e Cina, legato alle difficoltà economiche di Washington dopo la crisi e alla frenata nella crescita, ora a 7,6, di Pechino. Gli Usa devono creare lavoro (Obama rischia su questo la rielezione), la Cina deve correre per eliminare la povertà rurale (è il nodo del congresso del Partito comunista in autunno). Mitt Romney giura che, se eletto, dichiarerà la Cina «manipolatrice di valuta», obbligandola ad apprezzare lo yuan, cosa che Pechino ha già fatto. Lo diceva anche Obama da candidato, come G. W. Bush e Clinton, salvo non fare nulla dalla Casa Bianca contro un Paese che vende sì agli americani merci per un surplus di $ 273 miliardi l’anno (€ 225 miliardi) ma resta partner essenziale e detiene la più pingue fetta di debito Usa nel mondo. Le uniformi del Team Usa sono prodotte in Cina perché, se realizzate in America, non costerebbero i 1500 dollari del prezzo di etichetta (€ 1240) ma molto di più, e il Comitato olimpico campa di sponsor privati. Se non vi piacciono i pantaloni a sbuffo, le gonne a pieghe e il blazer doppio petto, fate il calcolo sull’iPad. Prodotto dell’intelligenza di Silicon Valley, realizzato in Cina da operai che guadagnano meno di 30 euro al giorno ($ 36), un iPad 3 costa 299 dollari, un iPad 4 $ 499. La rivista Atlantic ha studiato quanto costerebbero gli iPad se prodotti interamente negli Usa, da operai che guadagnano $ 35 l’ora (ci vogliono circa 9 ore per completare un iPad), e aggiungendo i costi del lavoro, delle assicurazioni e dell’indotto, per esempio l’estrazione dei minerali in uno Stato Usa, l’elegante tablet Made in Usa costerebbe tre volte il suo prezzo Made in China. Il tessile ha diversi parametri, ma anche i discussi abiti del Team Usa si pagherebbero circa il doppio. Politica e sport, si sa, non si dovrebbero mai mischiare e sempre si mischiano. Per i Giochi Olimpici di Londra 2012 la querelle Ralph Lauren è solo un inizio, ma finirà in nulla, dopo la Cerimonia di chiusura e la notte elettorale di novembre. Cina e Usa restano partner, nel bene e nel male, il giorno dello show down, che ci sarà, non è vicino. La morale nascosta della favola, di cui i deputati Usa dovrebbero essere fieri, è che Ralph Lauren, lo stilista che ha fatto di tutti gli americani raffinati Wasp, bianchi protestanti anglosassoni vestiti come studenti privilegiati delle nobili università Ivy League, è nato nel Bronx povero, da una famiglia ebrea, si chiamava Ralph Lipschitz, e s’è reinventato da solo in maestro di stile aristocratico. E’ questa la forza segreta di Team Usa, intrecciare culture lontane. Se la canzone simbolo del Natale, White Christmas, è stata scritta dal musicista ebreo Izrail’ Moiseevic Bejlin, più noto col nome d’arte di Irving Berlin, perché mai non si potrà ascoltare l’inno Star spangled banner dopo un oro olimpico con l’abito cucito da una brava sarta cinese? Che c’è mai di più «americano»? Ma non sperate di spiegarlo a un demagogo in pieno doping da campagna elettorale. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10332 Titolo: Gianni RIOTTA - Siria, Obama non interverrà Inserito da: Admin - Luglio 20, 2012, 10:22:44 am 20/7/2012
Siria, Obama non interverrà GIANNI RIOTTA La grande fabbrica di eufemismi che si chiama Nazioni Unite si ostina a chiamare la guerra civile in Siria «conflitto armato non internazionale» quando invece perfino la Croce Rossa, da 72 ore, parla senza complimenti di «civil war». Aben guardare, dentro lo scontro a Damasco le guerre son ben più d’una, ciascuna colma di pericoli, e così intrecciate da rendere la soluzione inevitabile, l’uscita di scena del regime alawita guidato dal capoclan Bashar al-Assad difficile e sanguinosa. Il primo, e più crudo, conflitto oppone quel che resta del governo di Damasco alle composite forze ribelli della Libera Armata Siriana. Il lettore non consideri, giudicando gli eventi, che la Siria sia in mano a una classica dittatura, il paragone più calzante è quello di un clan mafioso, una famiglia criminale sul modello del Padrino. L’attentato che ha colpito il cuore del sistema, uccidendo il cognato di Assad, Assef Shawkat, il generale sunnita Turkmani, il ministro cristiano Rajha, ferendo il generale e ministro Shaar impressiona per la vicinanza dei gerarchi al potere: Damasco parla di un kamikaze, i ribelli di una bomba detonata a distanza, poco cambia. Come l’attentato degli ufficiali Junker guidati da von Stauffenberg contro Hitler nel 1944, solo grazie ai disertori, in testa il generale Manaf Tlass, si poteva arrivare nelle stanze segrete. Al regime - calcola il Council on Foreign Relations - restano due divisioni in ordine di combattimento, un’aviazione ancora capace di rendere un eventuale raid della Nato a rischio, un arsenale di armi chimiche in grado di duplicare la strage dei curdi, 5000 morti e 10.000 intossicati dai gas di Saddam ad Halabja, Iraq, 1988. Per questo il veto, che la storia deprecherà, imposto al Consiglio di Sicurezza Onu da Russia e Cina alla richiesta inglese di sanzioni contro la Siria è ipocrita. Il ministro russo Lavrov lascia capire che Mosca e Pechino temano un intervento Nato, o occidentale, come in Afghanistan e Libia. Ma Putin e Hu Jintao sanno benissimo che né il presidente Obama, né gli europei studiano un attacco. Nei sondaggi e nell’esame dei «metadata», la pubblica conversazione sui social media, la maggioranza di europei e americani resta ostile a un raid umanitario. Obama ha solo un esile vantaggio sullo sfidante repubblicano Mitt Romney, è appeso agli umori di una mezza dozzina di Stati incerti, e si gioca tutto sull’economia, migliore di quella europea ma comunque anemica. Non è aria di diversioni belliche internazionali, né micro come Reagan a Grenada 1983, né macro come G. W. Bush a Baghdad 2003, entrambi anni di vigilia elettorale. Tanto più che ieri il petrolio greggio Brent è salito di $2,14 a $107 al barile, record da 7 settimane, per le violenze in Siria e gli scontri verbali tra Teheran e Washington, brutta notizia nella crisi. Teheran parla di bloccare lo Stretto di Hormuz con i suoi motoscafi veloci, la Marina Usa si dice tranquilla di difendere la cruciale via d’acqua, il mercato imbizzarrisce. Questo è il secondo conflitto, geopolitico, parte di una complessa partita che americani, russi e cinesi giocano dalla frontiera con l’India, alla Birmania, all’Oceano Indiano (dove i cinesi vogliono varare una flotta d’alto mare), all’Iran. Putin ha in Siria l’ultimo avamposto nel Mediterraneo e non vuol perderlo. La Nato non interviene perché i ribelli non rappresentano un fronte nazionale unito, aperto a tutti i siriani non alawiti (alawita è la minoranza che regge il governo e nella roccaforte alawita di Latakia potrebbe fuggire Assad, mentre la moglie Asma riparerebbe a Mosca). Molti cristiani, come in Iraq sotto Saddam Hussein, temono l’insorgenza fondamentalista islamica e preferiscono il fragile compromesso imposto da Assad padre. Le armi affluiscono da Golfo e Turchia col contagocce perché si teme che poi servano ai ribelli, caduto Assad, per una pulizia etnica atroce. Così arsenali diffusi restano gli Ied, bombe fatte in casa (la formula micidiale si trova sul web), realizzate con fertilizzanti e prodotti chimici dell’industria, innescati da telecomandi, telefonini e perfino sospensioni di automobili. Il terzo conflitto oppone l’Arabia Saudita e i suoi vassalli all’Iran sciita, temuto non solo per l’aggressivo programma nucleare ma per i secoli di «eresia» che Teheran rappresenta agli occhi dei salafiti e dei sunniti, musulmani tradizionalisti. Le difficoltà di Hamas a Gaza e di Hezbollah in Libano sono legate a questa dimensione dello scontro, e anche su questa occidentali, russi e cinesi intervengono dall’ombra. La strage di turisti israeliani in Bulgaria, che il governo di Gerusalemme ha subito messo in conto all’Iran, è un tentativo di allargare il fronte e prendere tempo, coinvolgendo in blitz e raid Israele. Il piano in 6 punti dell’inane ex segretario Onu Kofi Annan non ha mai avuto una seria chance di successo, le sanzioni vengono bocciate dal veto russo-cinese e la parola, brutale, resta alle armi. Human Rights Watch e le altre organizzazioni internazionali ripetono che la popolazione civile, dai sobborghi di Damasco alla frontiera, paga il prezzo dell’impasse, ma ormai la guerra civile, «conflitto armato non internazionale» nel galateo Onu, è la protagonista e finirà solo con vinti e vincitori sul campo. Scade oggi il mandato ai 300 osservatori Onu che, a parte rischiare nobilmente la vita, poco hanno da fare e il generale casco blu norvegese Mood ammette: «Non c’è pace in Siria». Guardate dunque a Damasco, ai sobborghi di Qaboun, Tadamon, Yarmouk, Mezze, Kafr Sousseh, imparate a memoria questi nomi perché là, non al Palazzo di Vetro Onu di New York, alla Casa Bianca o al Cremlino, si gioca il destino della Siria. I bloggers che sfuggono alla censura parlano sul web di cecchini, rastrellamenti casa per casa, bombardamenti dell’artiglieria. Interi quartieri alawiti si sono blindati, c’è chi sogna un’assurda ultima resistenza nella roccaforte di Latakia, una secessione magari. Usa ed Europa, placcati da russi e cinesi, possono isolare ancora Assad bloccando viaggi e comunicazioni, e preparare una lista di criminali di guerra - si calcolano in oltre 15.000 le vittime della repressione per forzare altre diserzioni. Quando la battaglia per Damasco finirà e Assad cadrà, in esilio o giustiziato come Gheddafi, comincerà un lavoro diplomatico e di aiuti economici complesso, per evitare, o ridurre al minimo, rivalse e vendette etniche e settarie. Persa la mano Putin tratterà. Ma prima deve finire la guerra: e nel frattempo ogni conclusione è precoce, guardate che fine hanno fatto le previsioni rosee sulla Primavera araba e le cupe geremiadi di inevitabile trionfo islamico. Senza inferni e paradisi annunciati, la Storia si fa strada in Libia, Egitto e Tunisia e altrettanto accadrà in Siria, quando - speriamo al più presto - le armi taceranno. Fino ad allora conta solo quella che lo scrittore Vasilij Grossman chiamava «la dura verità della guerra». da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10351 Titolo: Gianni RIOTTA - Tutte schiappe alle Olimpiadi dei tweet Inserito da: Admin - Agosto 01, 2012, 07:44:32 pm 1/8/2012
Tutte schiappe alle Olimpiadi dei tweet GIANNI RIOTTA Avevamo scritto che quelle di Londra sarebbero state le Olimpiadi delle Donne e dei Social Media ma non avremmo mai immaginato una nuotatrice più veloce degli uomini come la cinese Ye Shiwen, né che Pechino la difendesse dalle accuse di doping online, mobilitando il canale ufficiale dei blog Weibo. E chi poteva pensare ad atleti squalificati per messaggi su Twitter, giornalisti scacciati per un tweet ostile al gigante tv americano Nbc, e poi frettolosamente reintegrati, tifosi arrestati per critiche via web a un campione? Andy Miah, docente di New Media all’Università del West Scotland, parla già di «Ingenuità: gli atleti non sono preparati ad usare Facebook e Twitter non più tra amici, ma davanti al mondo intero». La Papachristou, triplista greca cacciata dal Villaggio Olimpico per un tweet razzista a luglio, usava i new media da pochi giorni, ignara della differenza tra casa propria, Internet, il mondo. Stessa sorte al giocatore del Palermo Morganella, nazionale svizzero, squalificato per razzismo online contro i coreani. Per due nuotatori australiani, D’Arcy e Monk, una foto su Facebook in posa con pistole autentiche come i gangster è bastata a far scattare la squalifica della Federazione: finite le gare a casa, e per due mesi nessun accesso online. E’ la condanna più dura per i ragazzi del Villaggio, la censura di Internet, spento il computer, bloccato Facebook, niente smartphone. Scambiano il web per una festicciola tra amici, e si perdono in diretta globale. I new media sono esplosi, nella società e nello sport, nei quattro anni dai Giochi di Pechino a quelli di Londra. Allora i tweet, messaggini di 140 lettere con cui ci si tiene in contatto con amici per i teenager, con i fans per i campioni, furono solo 300.000 al giorno, oggi sono 400 milioni. Twitter aveva 6 milioni di iscritti, oggi ne ha 150 milioni. Facebook nel 2008 era usata da 100 milioni di persone, ora sta per diventare la «nazione» più popolosa al mondo, 900 milioni di cyber-cittadini. Il Consulente del Cio von Hoffman calcola che tra computer e telefoni un miliardo di persone seguiranno i Giochi on line. È stata perfino creata una truffa elettronica ad hoc che distribuisce finti premi per una Lotteria Olimpica. Le Olimpiadi di Londra si erano aperte al web, nominando perfino – reazione tipica della burocrazia a 5 cerchi - un Direttore Social Media, Alex Huot, e stilando - poteva mancare? - un «Codice d’onore» per gli atleti, obbligati a non twittare giudizi sulle gare, gli sponsor (ovvio), gli avversari, nulla di «volgare» o «disonorante». Ma i concetti di estetica, gusto ed onore di un teenager, atleta o tifoso che sia, non coincidono, per esempio, con lo stile del Principe Filippo, ex presidente Federazione Equestre, che in Borsalino di paglia e cravatta regimental a 91 anni ha seguito la nipote Zara medaglia d’argento nell’ippica. Le prime Olimpiadi online attraggono squalifiche, titoli sui giornali e lo studioso William Ward annota sgomento «La regola non scritta “Omertà su quel che succede al Villaggio Olimpico” finisce con le foto su Twitter e Facebook». Il grande giornalista Gianni Brera favoleggiava degli amori del discobolo Consolini a Londra 1948, o del flirt tra gli sprinter Berruti e Wilma Rudolph a Roma 1960: oggi avremmo le prove online, senza pudore per i poveri innamorati. Le stelle del basket Usa lanciano le foto dei compagni, mezzo addormentati con una coperta e la mascherina sugli occhi, su un altro social media, Instagram. Al Villaggio si entra dopo lunghe perquisizioni ai posti di blocco della Stazione di Stratford, oppure senza controllo alcuno dall’ubiqua Stazione Internet. La licenza e la libertà globali non tradiscono solo gli sportivi. Un tifoso, depresso perché il tuffatore inglese Daley non ha vinto l’oro, lo insulta su Twitter «Hai deluso tuo padre», ignaro pare che papà Daley è morto per un cancro al cervello un anno fa. Il tuffatore si lagna dell’aggressione informatica, e la polizia, identificato l’utente nascosto dietro la sigla anonima @Rileyy_69, addirittura lo arresta. Zoe Smith, campionessa inglese di sollevamento pesi, finisce vittima dei «trolls», perdigiorno senza nome che si divertono a insultare online a casaccio. Dopo la gara li manda a quel Paese, denunciandoli in diretta tv. Anche i giornalisti sono travolti nel pugilato senza esclusioni di colpi della Rete. Guy Adams, corrispondente da Los Angeles del quotidiano inglese «The Independent», irritato perché la rete tv Usa Nbc non manda in diretta i Giochi Olimpici, ma in differita, a sera, in cerca di pubblicità, definisce su Twitter il presidente Nbc Olympics Gary Zenkel, «un cretino da licenziare». Zenkel si sarà rivolto ai dirigenti di Twitter che scacciano Adams. Salvo poi davanti alle proteste riammetterlo in tarda serata. Nbc sta bilanciando bene i due media, il nuovo web e la vecchia tv, distribuendo i filmati online a 11,4 milioni di persone, e poi rimandandoli in tv in prima serata. Ascolti ottimi, 36 milioni, più di Atlanta ’96 e Pechino ’06. La differita costa critiche online? Zenkel spera che la lezione inflitta ad Adams moderi gli umori. Perfino il musicista Philip Sheppard, che ha arrangiato la musica degli inni nazionali per le premiazioni nello storico studio Beatles di Abbey Road, s’è visto minacciare di morte su siti, non sempre innocenti, in Colombia: «L’inno colombiano è stato definito il peggiore di tutti!». La verità è che nessuno al Villaggio Olimpico, sportivi, burocrati, media, tifosi, era pronto al corto ritmo frenetico Internet & Cinque Cerchi. I telecronisti del ciclismo, abituati ad avere in bassa frequenza i risultati parziali delle corse, hanno visto lo spazio occupato dai tweet e chiesto al Cio censura preventiva, negata stavolta. La portiere del calcio Usa Solo rimbecca una telecronista, dubbiosa sulla difesa a stelle e strisce: «Stai zitta, il calcio è cambiato dai tuoi tempi!». La Cina occupa il suo web nazionale, detto Weibo, per difendere la nuotatrice Ye Shiwen dalle accuse di doping, «Usa imperialisti! Noi non insultiamo Phelps!». I troll anonimi, abituati a calunniare senza rischi, meditano per la prima volta sulla chance di finire in cella. Ai Giochi di Rio 2016 saremo tutti abili nell’uso della Rete, come Frangilli nel tiro con l’arco. Per ora, tanti mancano il bersaglio e si infilzano a vicenda. Forse il Comitato Olimpico dovrebbe arricchire l’inutile «Codice d’onore web» con la prima legge del cibernetico Melvin Kranzberg: «La tecnologia non è buona, non è cattiva e non è neppure neutrale». Come una freccia, la tecnologia può infilzare il generoso Robin Hood o il perfido Sceriffo di Nottingham, ma non è mai innocua. Meglio ricordarsene, ai Giochi, in politica, al lavoro, in amore, nella vita. twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10394 Titolo: Gianni RIOTTA - Lo specchio del mondo Inserito da: Admin - Agosto 12, 2012, 04:21:08 pm 12/8/2012
Lo specchio del mondo GIANNI RIOTTA I missili antiterrorismo sui tetti son rimasti in allerta ma senza sparare, la folla non ha paralizzato i treni della metropolitana Tube. i soldati son riusciti a sostituire le guardie private rimaste a casa. Spot e sponsor non hanno prevalso sul sudore degli atleti. Londra, con la gotica stazione di St. Pancras, i pub dove si continua a mangiare malissimo, il British Museum svuotato dagli appelli eccessivi del sindaco Johnson «La città sarà invasa!», i negozi di Tottenham e Brixton riverniciati dopo la rivolta dell’agosto 2011, ha fatto da sfondo magnifico, come già nel 1908 e nel 1948. Le Olimpiadi 2012 finiranno stasera e vedremo se gli organizzatori ci daranno uno show affascinante come al debutto, il 27 luglio, la Elisabetta II Bond Girl e gli «Oscuri mulini satanici» del capitalismo celebrati con il Servizio sanitario nazionale inglese. Tutti noi, chi ammira Usain Bolt e la sua esultanza arrogante da Achille, «Sono leggenda vivente», e chi invece preferisce la modestia del keniano David Rudisha che, senza enfasi come Ettore, segna il tempo record negli 800 metri, abbiamo visto la nostra epoca riflessa nei Giochi di Londra. Atleti cacciati per un tweet di troppo su Internet, atlete ammesse col velo islamico da Paesi debuttanti con la squadra femminile. Le prime medaglie della boxe donne. Un atleta amputato in finale della staffetta 4x400. Dal Sud Africa all’Italia tante squadre multietniche. Un profugo somalo, fuggito alla guerra civile di Mogadiscio, vince l’oro per la Gran Bretagna adottiva. Il nostro confuso, violento, indebitato, tecnologico, globale e ambizioso XXI Secolo protagonista in ogni gara. Abbiamo visto allo specchio dei Giochi bene e male contemporanei, ogni nazione tessera del caleidoscopio presente. L’Italia ha brillato con le vittorie, dall’arco alla scherma, la solita buona, antica, solida Italia di chi lavora e ha talento. E ha sprecato prestigio col doping di Schwazer, la solita cattiva, antica, deprecabile Italia di chi intriga per mancanza di talento. Gli esperti di sport tireranno i bilanci del campo, flop Pellegrini e nuoto, talk show in piscina, le rapide d’oro di Molmenti che porterà il tricolore d’Italia stanotte allo Stadio Olimpico, l’atletica senza lampi, la boxe tenace del ring sudista di Marcianise. Il nostro medagliere resta nel G 10 dello sport, un po’ come l’economia, 1900 miliardi di debito pubblico, 9000 di ricchezza privata. Siamo poveri e siamo ricchi nei budget come tra i Cinque Cerchi, restiamo in alto, mentre si affermano nuovi Paesi: senza fondi, pratica sportiva nelle scuole, programmi seri, collaborazione pubblico-privati, perderemo rango. La Gran Bretagna ha vinto, tra gli altri ori che la tengono al terzo posto dietro Usa e Cina potenze globali, il titolo cui teneva moltissimo: l’identità britannica è più precisa nella coscienza del mondo. La Cina è il nuovo impero che conta su un Secolo Asiatico. L’America tiene duro, con il laboratorio spaziale Curiosity lanciato su Marte e con il Dream Team Marziano del basket. Dietro avanzano i nuovi soggetti, l’Egitto sul podio nella scherma come il Venezuela, la Corea del Sud, l’isoletta caraibica di Grenada che, in rapporto vittorie-popolazione, è al primo posto nei Giochi, la Giamaica che celebra mezzo secolo di indipendenza con Bolt&Blake. Le cronache finanziarie si occupano di dollari, euro e yuan? Bene, la sterlina di Sua Maestà Britannica fa sapere al mondo che le sue glorie non sono finite nel XIX secolo. Una generazione ricordava l’Inghilterra della bombetta, la V e il sigaro di Churchill, il tè alle 5, l’Impero. Un’altra s’è divisa tra Beatles e Rolling Stones, i capelloni, ha applaudito l’economia della Thatcher o il laburismo di Tony Benn. I più giovani hanno suonato i Clash e sognato, o detestato, la nuova sinistra di Blair. I Giochi tatuano la nuova identità inglese nella coscienza del mondo informatico. Il Big Ben risuona, la democrazia di Westminster legifera, la regalità di Buckingham Palace esulta, la New Great Britain, «Team GB» nel gergo dei tifosi, multietnica, elettronica, né americana e neppure europea, non più imperiale ma capace di reclutare atleti ovunque nel mondo, madre della lingua che fa da dialetto comune al Villaggio Olimpico, si presenta al mondo. Siamo antichi, ci siamo aggiornati, ma siamo sempre noi, con più colori, più voci, una storia lunga, dolorosa e magnifica, dicono i padroni di casa. Tanto rimane da migliorare nelle Olimpiadi. Politici, sponsor, polemisti, fanno ancora troppo chiasso, l’accesso ai biglietti deve essere meno kafkiano, il doping va sconfitto e la pena degli atleti delle dittature, siriani e nord coreani per esempio, speriamo sia meno acuta fra quattro anni. Ma i Giochi restano la grande festa di paese del nostro mondo, la sagra dei nostri pregi e difetti, struscio planetario dove tutti ci incontriamo, tifiamo per la nostra Contrada come nel Palio del Pianeta Terra, invidiamo i successi e la forza degli altri. Tornati a casa impariamo le tecniche che non conoscevamo, e le miglioriamo. Si chiama progresso. Alla tv tanti bambini hanno visto Bolt fare lo smargiasso, la Idem competere a poco meno di 50 anni, Mitchell degli Stati Uniti finire la sua frazione di staffetta 4x400 con la gamba rotta «Un male cane, ma non potevo tradire i compagni». Si sono ispirati, non a comprare bibite o panini, a competere, allenarsi, faticare, darci dentro, essere leali. Un pugno di loro andrà sui podi del futuro. Tutti gli altri ricorderanno la lezione di Londra nel tran tran in ufficio, al lavoro, la vita normale. Lasciate che cinici e snob ridano di questa tradizione. Per chi ha a cuore il mondo, lo sport, la comunità, i sentimenti semplici, commozione, passione, impegno, fratellanza, agonismo, lealtà, per tutti noi cioè, appuntamento a Rio de Janeiro 2016 (e forza Azzurri!). Gianni Riotta Twitter@riotta da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10424 Titolo: Gianni RIOTTA - Se la trasparenza diventa oscurità Inserito da: Admin - Agosto 17, 2012, 06:44:35 pm 17/8/2012
Se la trasparenza diventa oscurità GIANNI RIOTTA Wikileaks, una brutta storia che diventa pessima. Julian Assange, fondatore dell’organizzazione devota nelle intenzioni alla massima trasparenza, si rifugia nell’ambasciata di un Paese accusato di reprimere la libertà di stampa, l’Ecuador, pur di scampare alle accuse di stupro che pendono sul suo capo in Svezia. La Gran Bretagna, a pochi giorni dalle Olimpiadi di Londra che hanno ricordato al mondo le virtù dell’antica democrazia di Westminster, minaccia di violare l’immunità diplomatica della sede di Quito e catturare Assange, attirandosi accuse di «imperialismo» in America Latina. Brutta storia che diventerà peggiore: partita sotto le bandiere della informazione libera e per tutti, finita tra avvocati astuti, feluche interessate, canali tv pagati da oligarchi. Assange, per non farsi processare a Stoccolma in un processo per stupro, insiste sul «caso politico» contro di lui, teme l’estradizione prima in Svezia e poi negli Stati Uniti, stavolta per il caso Wikileaks, i documenti riservati diffusi dalla sua organizzazione. Con il genio di public relations che lo anima, fonde la battaglia di un tempo con il processo per violenza sessuale, il caso di Stoccolma e quello di Washington e si nasconde nell’ambasciata dell’Ecuador. All’obiezione, perché mai non accetti il giudizio sulle accuse che gli vengono mosse per stupro, separando poi il caso sui dossier rivelati, ribatte «è persecuzione globale». A fargli incontrare l’aiuto dell’Ecuador è un’intervista al presidente Rafael Correa, sulla rubrica che Assange tiene su «Russia Today», canale tv finanziato dal governo russo di Putin, non esattamente paladino della libertà di stampa. Ma Assange si ritiene «la libertà di stampa», emancipato dalle responsabilità che affibbia ad altri. Dopo un negoziato privo di quella trasparenza che Wikileaks rivendicava, s’è nascosto in una stanza dell’ambasciata dell’Ecuador, dove, secondo sua mamma Christine «soffre di raffreddore e mancanza di sole, al punto che un amico gli ha regalato una lampada abbronzante». Pur di non andare alla sbarra a Stoccolma, Assange sceglie Correa, accusato nel rapporto 2012 di Freedom House di «reprimere la stampa nel suo Paese». Chi non è d’accordo con Correa non parla, radio o tv che sia. Ultima stazione radio chiusa Radio Net, il 6 giugno nella città di Ambadio, la quinta emittente censurata dal regime in due settimane. Le critiche al governo fanno scattare la chiusura della tv Morona Santiago, di una radio a Sucumbios, di un canale tv e radio della provincia amazzonica di Napo. La repressione è così diffusa che la Commissione diritti umani e la Commissione per la libertà di stampa dell’Organizzazione stati americani condannano l’Ecuador: per rappresaglia Correa impone ai ministri di non concedere più interviste a media indipendenti. Che Julian Assange, che tanti in rete continuano a ritenere Robin Hood che ruba notizie ai ricchi per darle ai poveri, abbia amici del genere suscita l’amarezza del ministro svedese Carl Bildt, da sempre impegnato sui diritti: in un tweet Bildt lamenta la furbizia con cui i militanti di Wikileaks mescolano il caso dei dossier diffusi a quello delle accuse di stupro. Sotto l’egida di Correa e con il plauso di Putin e del Venezuela di Chavez. Londra insiste di essere «obbligata a estradare Assange per il trattato diplomatico» che la lega alla Svezia e che l’estradizione negli Usa per Wikileaks nulla ha a che fare col processo per stupro. Ma minacciare l’invasione della sede diplomatica è gaffe grottesca per il governo conservatore di Cameron. Ammesso che fosse una buona idea, e non lo era, il raid non andava allora annunciato: fare i bulli flettendo i muscoli, pur avendo ragione, non è mai serio. Tanto più che la legge britannica permette a Downing Street di arrestare Assange, non appena lascerà la «stanza senza sole, il materassino ad aria e i pasti dai ristoranti vicini» nell’ambasciata ecuadoregna. Replicare all’astuzia di Assange protetto dai nuovi amici repressori della libertà di stampa, col tono sanguigno da John Bull al pub dopo una birra di troppo, fa riciclare alla stampa di regime in vari Paesi latino americani slogan frusti sul «colonialismo britannico», tra Bolivar e Guevara. Raffreddato o no che sia, Assange manipola di nuovo la situazione a suo vantaggio. La vicenda nata evocando libertà di stampa, giornalismo responsabile, trasparenza del web, democrazia digitale, scade a pochade di teatro e show business di Internet, mentre Wikileaks perde adepti informatici, delusi dalla performance egocentrica dell’ex leader. Che poi nessuno, sui giornali o sui siti, citi mai, o si appassioni ai diritti delle vittime che accusano Julian Assange di violenza carnale, testimonia quanto l’appello all’assoluta trasparenza possa capovolgersi nell’assoluta oscurità, sua nemesi. Rovesciamento ideale tra Utopie del Bene e Pratiche del Male che dal XX secolo sembra contagiare il XXI. Twitter@riotta da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10432 Titolo: Gianni RIOTTA - Il lembo del mantello Inserito da: Admin - Settembre 02, 2012, 11:16:24 am 1/9/2012
Il lembo del mantello In uno degli ultimi colloqui, il cardinale raccontava di frequentare Internet “Qui ritrovo anche i grandi del passato: è un mezzo per trovare la Parola” GIANNI RIOTTA Davanti al cardinal Martini anche il più scettico dei laici riceveva l’impatto del carisma, la figura, alta, snella, ieratica, gli occhi severi, le mani strette nella concentrazione: perfino quando la malattia le serrò in spasmo, restarono bellissime. Non c’era in Martini vezzo populista, si presentava come Principe della Chiesa, successore di Sant’Ambrogio e San Carlo, ma la regalità sacra non allontanava l’interlocutore, gli imponeva di guardare in alto. Non richiedeva attenzione per vanità, pur giustificata da fama, sapere, successo anche oltre la Chiesa cattolica. C’era severità, il rigore delle giornate di studio, protratte fino alla stagione passata in Terra Santa dopo gli anni a Milano, al ritiro nella casa di riposo a Gallarate, con la malattia a minare la salute, non la volontà di proseguire il dialogo con i fedeli attraverso il Corriere della Sera. La severità cresceva davanti al rango di chi aveva davanti, non faceva sconti al potere, quando un libro di Papa Ratzinger non gli sembrò di standard teologici adeguati lo disse. Con gli umili, i bambini, si ammorbidiva, ma a tutti Martini segnalava con la postura morale e fisica, la strada da percorrere verso quella che riteneva «la salvezza». Nella vulgata dei media il biblista Martini era «progressista», da opporre al «conservatore» Giovanni Paolo II, al «politico» cardinal Ruini, all’«ex progressista della rivista Communio» Ratzinger. Non credo che mai nessuno abbia osato di persona proporre a Martini queste caricature, di cui era, dolorosamente, cosciente pur ignorandole, come ignorava il ronzio pettegolo dei salotti meneghini, che lo riduceva a «teologo» incurante dei doveri «pastorali». I suoi doveri culminarono invece il 31 luglio 1991, 500 anni dopo la nascita di Sant’Ignazio da Loyola, fondatore dei Gesuiti cui Martini apparteneva dal 1952, nella Lettera pastorale «Il lembo del Mantello» che divenne, con la Cattedra dei non credenti per il dialogo tra uomini di fede e no, simbolo degli anni del cardinale nella metropoli lombarda, 1979-2002: «Fa’, o Signore,/ che le antenne e i campanili/ sappiano dialogare tra loro./ Aiuta la tua Chiesa/ a essere il popolo del dialogo,/ capace di dire e di praticare/ la comunicazione al suo interno e con tutti./ Fa’ che sappiamo educarci ed educare/ a un uso libero e liberante/ dei media, per riconoscere e valorizzare/ profeticamente in essi il lembo del mantello/ del Figlio tuo, fatto uomo per noi….». Lo infastidiva l’etichetta di «progressista», si esaltava nell’esegesi della Bibbia, fu il solo studioso cattolico a lavorare al New Greek Testament, altro che «progresso». Ne «Il lembo del Mantello» Martini ricorda che «notizia» non è merce, è comunità, deve renderci fratelli, non nemici. Proponendo il dialogo «ai campanili e alle antenne» il cardinale non uguaglia Chiesa e media. Chiede ai media di non disprezzare la persona umana, non renderla «merce». Di dare fiducia, non seminare cinismo, ascoltare le ragioni degli altri. Per la Chiesa cattolica il paradigma di Martini è più formidabile: non rinchiudersi in un rancoroso «no» al mondo moderno, neppure accettarlo per paura si allontani o blandirlo, barattando col potere «spazi propri». Era persuaso che la verità del Campanile, la Bibbia, fosse più profonda di quella dell’Antenna. Ma con forza ricordava a chi lavora per il Campanile: la vostra Verità è sacra, ma voi siete fallibili come i dirimpettai dell’Antenna. Il Campanile non garantisce salvezza, l’Antenna non garantisce modernità. Ho avvicinato il cardinal Martini nel 1993, dopo le bombe a Milano, per la trasmissione «Milano,Italia». In diretta tv, sulle parole del cardinale si impone lo sguardo, chiaro, senza soggezione e narcisismo. Non offriva conforto sentimentale, chiedeva impegno, consapevolezza. Nel 2010, la Diocesi mi chiese ancora di incontrare Martini per ragionare di Internet e social media. Martini viveva in un ex seminario dei Gesuiti frequentato da ragazzo: ora, ridotte le vocazioni e aumentati i sacerdoti anziani, è casa di riposo. La nostra conversazione tv fu l’ultima che Martini registrò: «Su Internet incontro i grandi del passato e i dimenticati». Per Martini le ore del mattino erano le più dure, prima che i farmaci sciogliessero le membra contratte dal Parkinson. Quando il cardinale apparve, appena più curvo, la luce cobalto degli occhi era indomita, come il messaggio: che su Internet ci sia tutto deve incoraggiarci e non scoraggiarci, impegnandoci a separare vero da falso. Usare il web, mi disse, è come entrare «…in una biblioteca grande, dove ci vuole un criterio di scelta. Non posso andare in biblioteca e prendere i libri così a caso. Devo sapere cosa voglio, qual è la via che debbo seguire, quali sono le persone che posso ascoltare…». Gli chiesi se anche Google faccia ora parte de «Il Lembo del mantello» e rispose «Sì, certamente, perché il progetto di Dio è un progetto comunicativo, cioè ampliare la comunione tra gli uomini, e anche il progetto eterno di Dio sarà una grande comunione di tutti con tutti, quindi certamente questi media s’inseriscono in questo progetto». Dell’enciclopedia online Wikipedia parlò con tenerezza: «Io uso spesso Wikipedia perché mi aggiorno cercando di usare il computer, per cui vedo piuttosto il lato positivo. Si capisce che si può usare male di questo fatto e quindi creare una democrazia che non sia uguaglianza di tutti ma sia attitudine negativa verso alcuni; però gli usi sbagliati, sempre possibili, non tolgono importanza agli usi buoni». E all’ansia della morte del libro replicò di non far confusione tra mezzo e contenuto, i supporti mutano, le Verità no: «Sono preoccupato per le derive culturali, perché il libro rimane fondamentale, molto prezioso, quindi bisogna prenderlo in mano. Non sono tanto preoccupato per il fatto che la Parola (con la maiuscola) passi anche attraverso i vari media. Quindi, come dice Platone, la parola è soprattutto parlata, è detta, ma questo non toglie che i libri abbiano grande valore». Poi si alzò per ritirarsi e mentre lo ringraziavo concluse «Speriamo di rivederci». Poi si congedò dalla troupe. Non fece segni palesi di benedizione, ma la sua grazia riempì la stanza e noi. twitter @riotta da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10481 Titolo: Gianni RIOTTA - Bill Clinton e il discorso perfetto Inserito da: Admin - Settembre 09, 2012, 10:18:14 am 7/9/2012
Bill Clinton e il discorso perfetto GIANNI RIOTTA Ieri notte alla Convenzione democratica di Charlotte era in programma il discorso del presidente Barack Obama, puntato sul lavoro e ceto medio. Ma se la rivista Forbes annota «Un discorso che sarà riletto per generazioni» non intende elogiare in anticipo Obama. L’entusiasmo del periodico liberista va al presidente Bill Clinton, che ha parlato mercoledì. Repubblicani e democratici, analisti e militanti, giornalisti e studiosi sono concordi, è stato un «perfect speech», il discorso perfetto. E in un paese alla vigilia di elezioni come l’Italia, tanti avranno interesse a studiare, dissezionare, capire come Clinton abbia unito il partito, emozionato gli elettori e attaccato gli avversari, senza petulanza, odio, polemica. Il «discorso perfetto» nasce dal carisma naturale di Clinton, la semplicità da ragazzo del Sud, con la voce roca, i capelli imbiancati, il sorriso sempre malizioso. «The natural», politico naturale, lo chiamavano ai tempi della Casa Bianca, 1993-2000, ma il talento è solo parte del successo di Clinton alla Convenzione. Il commentatore della rete tv conservatrice Fox, Brit Hume, ammette «Se fossi colpevole di qualche guaio vorrei Clinton come avvocato…» e il manager repubblicano Castellanos esagera «Non c’era bisogno neppure che Obama parlasse stanotte. Clinton ha vinto le elezioni per lui». A Clinton è riuscita a perfezione la magia di Ronald Reagan, parlare in ogni tinello agli americani, sedersi con loro sul divano di casa, farli sentire a proprio agio, come se il Presidente fosse il vicino con cui parlare del semiasse dell’auto malandato, le tasse, il mutuo. Quel che a Barack Obama non riuscirà mai, non per i suoi difetti, ma per i suoi pregi, cultura, freddezza, gusto per le analisi cerebrali, imbattibile in una discussione tra studiosi, goffo al bar. Alla Convenzione repubblicana del 1992, quando la destra radicale cominciò la marcia di conquista del partito contro i moderati alla Bush padre, Ronald Reagan ammonì «Appellatevi sempre a quanto c’è di buono negli americani, non a quel che c’è di negativo». Reagan coccolava la retorica di destra, dall’aborto ai tagli sulla spesa pubblica, senza che il partito si allontanasse dal centro. Il «discorso perfetto» di Clinton - e qui vorrei che ascoltassero i leader italiani, soprattutto i giovani, conservatori, centristi o progressisti che siano - elogia a sorpresa gli avversari del passato, Eisenhower, Reagan, Bush padre e perfino il detestatissimo dalla base democratica George W. Bush. Dice «io non ho mai imparato a odiarli, come la destra repubblicana odia oggi il Presidente». Non è signorile gesto di eleganza, è tocco da politico fine. Dice a chiunque voti per i repubblicani, va bene, non sei un gangster guerrafondaio che ruba ai poveri, sei americano come noi, lavoreremo insieme, ma ora, fidati, meglio rieleggere Obama, per secchione e primo della classe che sia, anziché azzardare con Romney, ostaggio dei radicali come Ryan, pronti a tagliare le medicine ai bambini poveri. Quando tocca alla propaganda, nessuno commuove come Clinton, non ha fatto vedere grafici con deficit e tagli alla sanità, ha solo evocato piccini malati, come in un romanzo dell’Ottocento di Dickens. Da anni Obama auspica una politica americana che non si divida nello scontro di tribù ostili, ma dopo quattro anni di sua amministrazione l’America è più divisa che mai. Clinton, contro cui la destra scatenò un safari feroce, prima con l’indagine kafkiana del Whitewater, poi con la battaglia sullo scandalo Lewinsky, unifica l’audience senza rancore. Gode del consenso del 69% degli americani, repubblicani nostalgici inclusi come tanti democratici adoravano Reagan. Il «discorso perfetto» di Clinton riconosce le difficoltà di Obama, ma ricorda come i guai economici della crisi lo precedessero e come Bush abbia dilatato il debito pubblico. Secondo l’analista John Baldoni, Clinton fa il miracolo parlando agli elettori non come «massa», come «individui», «persone». Con il ritmo di espressioni gergali, «heck… now… lemme tell you…», da predicatore battista sul pulpito o da blues di Ray Charles in concerto, Clinton concede ironia, sensualità, fede al discorso, riscalda l’atmosfera che Clint Eastwood aveva invece raffreddato parlando alla sedia vuota della Convenzione repubblicana. Come Reagan, Clinton sa che il cuore dell’America può in certe stagioni finire ostaggio della paranoia, cosi ammoniva lo studioso Hofstadter, ma per natura resta conciliante, collaborativo, pragmatico. Clinton nega che progetto, leadership e slogan repubblicani siano migliori di quelli di Obama, pur con le sue lentezze e snobismi e si appella al buonsenso. Sarebbe davvero importante che i leader italiani ne analizzassero tono, tecnica, sentimenti e profonda conoscenza politica dei fatti. A una condizione però, cruciale. Perché un discorso risulti «perfetto» a chi lo ascolta, occorre che l’oratore creda davvero, non solo per tv o internet, a quel che dice. I valori dell’America media, la famiglia, la compassione, l’innovazione e la solidarietà sono la vita di Clinton, da figlio di un’infermiera ragazza madre, a Presidente. La capacità di ascoltare le ragioni degli avversari, provando a confutarle, persuaso dei propri argomenti e valori, senza odio, petulanza, rancore, ostilità, broncio, sussiego e presunzione. Imparare a scrivere un «discorso perfetto» è alla fine solo una tecnica, basta montare e smontare lo «speech» di William Jefferson Clinton, detto Bill, a Charlotte. Condividerne davvero la filosofia politica democratica è difficile, occorre una vita intera. Chi ci riuscirà in Italia? E in America basterà ad Obama l’assist «perfetto» di Clinton? Risposte a novembre e in primavera. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10499 Titolo: Gianni RIOTTA - Addio Al Qaeda la nuova paura è la grande crisi Inserito da: Admin - Settembre 12, 2012, 03:50:15 pm 12/9/2012 - DOPO L'11 SETTEMBRE
Addio Al Qaeda la nuova paura è la grande crisi GIANNI RIOTTA Ieri, undicesimo anniversario dell’attacco del terrorismo fondamentalista contro gli Stati Uniti, il «New York Times» non aveva titoli in prima pagina sul massacro al World Trade Center e al Pentagono. Non è dimenticanza o indifferenza. La vita nelle famiglie e la storia nel Paese vanno avanti, fra la lentezza delle singole giornate e la velocità tumultuosa dei lustri. Oggi la vita degli americani, la storia della loro nazione e la campagna elettorale che porterà fra 60 giorni alla Casa Bianca il democratico Barack Obama o il repubblicano Mitt Romney, non sono ipnotizzate da al Qaeda, network del terrore dall’Asia, all’Africa, all’Europa. Incute più paura una diversa ricorrenza di settembre, il 15, che quest’anno cade per la quarta volta: è la data del fallimento per la storica finanziaria Lehman Brothers, da molti considerato giorno d’inizio della più grande crisi economica mondiale dopo il crollo di Borsa 1929. Il terrorismo non è finito, gli americani lo sanno. Al Qaeda torna a radicarsi in Iraq grazie al ritiro degli americani, attende il «tutti a casa» 2014 per tornare nelle vallate dell’Afghanistan, traffica con i servizi segreti dell’Isi in Pakistan, dove il suo fondatore Osama bin Laden veniva protetto ed è stato giustiziato. Colpita nella gerarchia e nella rete invisibile di cellule clandestine, al Qaeda è sulla difensiva in Somalia, attaccata da occidentali e africani, ma si infiltra fra i pirati all’imbocco dell’Oceano Indiano e i Tuareg a Timbuctù occupata. Lo studioso Graham Allison ammonisce sul mercato di materiale nucleare che Qaeda batte, preoccupato che un attacco con radiazioni di una «bomba sporca» stravolga la nostra democrazia. Ma Homo Sapiens ha un genoma straordinario e remoto, che gli indica sempre il pericolo più prossimo come più reale e lo persuade, nel bene o nel male, a lasciare attendere il diavolo del futuro fin quando si presenterà. In America, Europa e Italia, l’ansia da 11 settembre 2001 è meno acuta di quella da 15 settembre 2008. Debito, disoccupazione, prezzo delle case, risparmi, sanità, pensioni a rischio, contrazione del tempo libero e del benessere, animano i nostri incubi, più della caverna con il mitra Kalashnikov dei terroristi salafiti. Raghuram Rajan, professore dell’università di Chicago e ora consigliere economico principale del governo indiano, in un colloquio sull’ultimo numero della rivista Arcvision, spiega perché non si placa lo stress da crisi: abbiamo compreso, infine, che non viviamo quella che negli anni del boom i giornali chiamavano «congiuntura», ciclo effimero di recessione. E’ piuttosto un «new normal», una nuova realtà, i sussidi su cui contavamo per tenere su aziende e agricolture improduttive, la burocrazia che si poteva sempre dilatare per assumere raccomandati poco qualificati, la spesa pubblica che nutriva città e regioni, la svalutazione che piazzava i nostri elettrodomestici all’estero e le dogane che imponevano in Italia prodotti scadenti ma di monopolio, sono finiti, per sempre. Auto, servizi, cure mediche, scuola, assicurazioni e pensioni, beni di lusso e confezioni del supermercato, ogni momento del nostro lavoro, dall’arte, alla scienza, al cibo, vivrà di regole e standard mondiali. O siamo capaci di dargli la stessa qualità top che il mercato richiede, e di produrlo nei tempi e ai prezzi che il mondo pagherà, o semplicemente quel bene non sarà più prodotto in Italia (o Francia, India, Messico) e i lavoratori che se ne occupavano resteranno a mani vuote. Dieci anni fa spesso mi chiedevano: «Ci sarà un nuovo 11 settembre?». Certo che ci sarà, rispondevo, combattiamo la Prima Guerra Globale e sarà lunga, tormentata, incerta. Le stragi di Madrid e Londra, i massacri dimenticati di Baghdad e Kabul, confermano. Oggi mi chiedono invece «Quando finirà la crisi?». Cosa vuol dire «Fine della crisi»? rispondo. Che tutto torna come prima, americani a spendere e spandere su carte di credito personali e bilancio federale di Washington, europei con lunghe vacanze, vecchi prodotti, baby pensioni, scarsa competitività e produttività, cinesi con salari minimi e niente democrazia, indiani con laboratori informatici brillanti e campagne medievali? No, non torneremo più a quell’epoca. La crisi finirà. Gli americani hanno stoppato l’emorragia del 15 settembre 2008 - «pensai a un certo punto, mio Dio, la nostra economia è finita» ricorda l’allora Segretario al Tesoro Paulson -, e se dopo le elezioni avranno il buon senso in Congresso di trovare un accordo su debito, tasse, fisco e bilancio, non perderanno neppure la tripla A, garanzia finanziaria. Gli europei hanno evitato finora la rottura dell’euro, domenica al Forum Ambrosetti di Cernobbio, con il presidente Napolitano e il premier Monti, si riconosceva che appena un anno fa tantissimi davano per certo che la nostra valuta sarebbe andata a picco, e che sarebbero tornate dracma, peseta e lira. Se l’11 settembre 2001, mentre il World Trade Center si inceneriva, avessimo visto il mondo di oggi avremmo detto certo «Magari!», davanti alle minacce presenti di guerra e attentati. E se il 15 settembre 2008 ci avessero fatto intravedere la - pur precaria - scena attuale avremmo sospirato «Magari!», alla fine Lehman è rimasta una sola, il meltdown, la crisi delle banche, non c’è stata. Siamo feriti, fragili, anemici, ma vivi. La Prima Guerra Globale durerà ancora a lungo e verranno giorni difficili in cui ci sorprenderemo di esserci dimenticati così presto dell’11 settembre e delle sue vittime. La Nuova Normalità durerà ancora più a lungo, nelle case, al lavoro, in politica. Rimettere in fretta la nostra economia al passo col mondo reale ci permetterà di evitare che il «New Normal» sia troppo amaro. E magari al prossimo 15 settembre faremo qualche calcolo del dare e dell’avere meno negativo. Ma nessuno ci farà sconti, solo il lavoro è valuta pregiata. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10517 Titolo: Gianni RIOTTA - Big Data, caccia al cuore dell'America Inserito da: Admin - Settembre 23, 2012, 04:56:32 pm 23/9/2012 - LA SFIDA OBAMA-ROMNEY
Big Data, caccia al cuore dell'America GIANNI RIOTTA Il mondo è ancora incerto sulla corsa 2012 alla Casa Bianca - prevarrà Barack Obama o Mitt Romney? - ma il vero vincitore c’è già, si chiama Big Data. Venga eletto infatti il presidente democratico, o si affermi lo sfidante repubblicano, il successo sarà legato alla nuova tecnica di analisi e ricerca di umori ed opinioni degli elettori, che i tecnici chiamano in gergo Big Data. Big Data vi permette di identificare gli incerti, di sapere chi e perché va a votare per un certo candidato, su che tema i pensionati afro-americani dissentono da Obama e perché invece i veterani della Marina ispanici concordano con una certa proposta di Romney. Se la televisione, con i suoi dibattiti e gli spot, fa conoscere i politici all’opinione pubblica, se i giornali stimolano il dibattito anche online con i loro commenti, è solo Big Data a consegnare ai partiti l’anima del paese a meno di 50 giorni dal voto, con il candore di una confessione. Big Data è l’analisi della conversazione sociale che si tiene ad ogni momento nella nostra era, davanti a un sito web, con l’apertura di una pagina Facebook, mandando una mail a un’amica, registrando il proprio parere su Twitter, seguendo certe notizie su Google News. Ognuno di noi passa al cellulare o al computer una parte della vita, di lavoro e personale, online e l’enorme massa di testi, immagini, dichiarazioni, pollici versi su Facebook e click su Google monta la fotografia istantanea del nostro mondo, in diretta, senza segreti. Il candidato che prima, e meglio, leggerà il cuore d’America nel gigantesco mazzo di tarocchi che si chiama internet, arriverà alla Casa Bianca. La campagna elettorale 2012 non si corre neppure negli Stati già schierati, Obama vincerà a New York e in California, Romney in Texas. Ma anche nella decina di Stati incerti, Florida, Ohio, Colorado, Wisconsin, North Carolina, la battaglia non è globale. «Se vinciamo nella contea di Palm Spring, vinciamo la Florida e se vinciamo la Florida vinciamo la Casa Bianca» è il mantra che Obama ripete al capo del suo pacchetto di mischia, Jim Messina ed è davvero così, meno di un milione di elettori decidono. In grandi sotterranei ventilati e con computer capaci di operazioni considerate «artificial intelligence» entrano allora in campo i tecnici di Big Data, a Chicago col quartier generale, a Denver, a Miami. Se un elettore compra armi, versa fondi ai repubblicani e segue siti antiabortisti, la campagna di Obama non investe su di lui un click. Ma se dalla sua pagina Facebook, dalle mail che apre tra quelle ricevute dalla Casa Bianca, tra le pagine che segue su Google appare invece che, pur conservatore, è preoccupato dai tagli alla spesa pubblica che Romney e il suo vice Ryan possono promuovere, ecco allora che riceverà messaggi diretti a lui: per rassicurarlo che, con Obama, pensione, mutua e scuola non sono a rischio. I due partiti conoscono nome, cognome, mail, gusti e indirizzo mail e di casa di ciascun incerto, uno per uno. Big Data è la fine della democrazia di massa, della comunicazione di massa, e, quando applicato non alla politica ma al marketing, del consumo di massa. Big Data è la fine della società che eleggeva presidenti come Roosevelt o Nixon, un messaggio per tutti, diffuso dai mass media. Big Data è la comunicazione «personal» in una società dove contano gli individui, ciascuno diverso dagli altri, Libertà, Fraternità, Diversità. Big Data sa quel che tantissimi leader e analisti stentano a capire in Italia, che ci sono elettori «di destra» su tasse e bilancio e «di sinistra» su matrimoni e adozioni gay, che ci sono elettrici «progressiste» sulla spesa da aumentare nella scuola, ma «conservatrici» sulla spesa da aumentare nella difesa. «L’uomo a una dimensione» deprecato dal filosofo Herbert Marcuse non esiste più, ciascuno di noi ha molte dimensioni e Big Data tutte le coglie e ripropone ai candidati. Qualcuno teme, sbagliando, il Grande Fratello, come se Big Data fosse il dittatore onnipresente dello scrittore Orwell. Non è così, Big Data non spia, raccoglie informazioni che ciascun elettore ha già, spontaneamente, messo in rete, senza forzare. Abbiamo reso pubblica la nostra privacy e la politica lo sa. Che democrazia sarà quella di Big Data? Un mondo in cui il vicepresidente Biden si dice favorevole, da cattolico, alle nozze gay, per due settimane gli uomini di Jim Messina studiano le reazioni degli elettori su Big Data e infine Obama si dichiara a favore. Rispetto ai sondaggi tradizionali e ai focus group, Big Data ha spontaneità, freschezza, non è test da campione sociologico, è la nostra vita in diretta. Oggi sappiamo che tra chi ha il telefono tradizionale a casa (anziani, residenti in zone rurali) Obama e Romney sono pressoché alla pari, ma tra chi usa solo il cellulare (giovani, precari, minoranze urbane) il presidente è in vantaggio. Durante i dibattiti tra i candidati, i due staff saranno impegnati sugli algoritmi, i filtri del web, giusti per comprendere come sta reagendo l’America, rimodellando il messaggio non sui vecchi «blocchi sociali» ma su una caleidoscopio di singoli uomini e donne. La democrazia del XXI secolo si chiamerà Big Data (in Italia un laboratorio d’avanguardia è già al lavoro all’Imt di Lucca): e chi dei leader italiani in corsa nel 2013 prima lo capirà, più lontano andrà. Perché se chi vince Palm Spring vince la Casa Bianca, chi vince Big Data vince tutte le elezioni. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10556 Titolo: Gianni RIOTTA - Una risposta per l’Italia sotto esame Inserito da: Admin - Settembre 30, 2012, 02:08:59 am Editoriali
28/09/2012 Una risposta per l’Italia sotto esame Gianni Riotta Per comprendere le parole pronunciate ieri a New York dal premier Mario Monti al Council on Foreign Relations - «Un proseguimento della premiership? Se ci dovessero essere circostanze speciali, che io mi auguro non ci siano, e mi verrà chiesto, prenderò la proposta in considerazione… ma non prevedo che una seconda occasione sarà necessaria» (così la traduzione dall’inglese dell’Ansa) - occorre ricordare in che sede si trovava il presidente del Consiglio, a chi parlava e quale codici e linguaggi sono in uso nelle antiche stanze della Pratt House. Il Council, considerato il più influente think tank, istituto di ricerca, sulla politica estera, è stato fondato nel 1921, dopo che il presidente Wilson aveva chiesto a 150 esperti di aiutarlo nel primo dopoguerra. Da allora il Cfr ha mediato tra Casa Bianca e mondo nei momenti cruciali, con il celebre articolo firmato «Mister X» da George Kennan, che sulla rivista del Council, «Foreign Affairs», disegnò per mezzo secolo la politica di «contenere» l’Urss, con i discorsi dati nella palazzina della 58th strada da Clinton e Bush, con i seminari offerti al presidente Eisenhower di cui si diceva «quel che sa di economia l’ha imparato al Council». Tra quelle biblioteche in ciliegio ci si è divisi su Vietnam e Iraq, si è preparata l’apertura alla Cina di Kissinger e Nixon, si discutono le strategie del XXI secolo. Forse, per capire che significa parlare al Council, vale anche un piccolo aneddoto personale di qualche tempo fa, quando un leader italiano incontrò i soci per un meeting riservato. I giornalisti vennero allontanati e quando mi videro al mio posto, i collaboratori dell’oratore, con garbo mi chiesero di seguirli. Risposi, con un filo di imbarazzo: «Mi spiace, sono membro del Council, posso restare, ma sono tenuto ad osservare la regola dell’off the record», delle riunioni aperte si può parlare, delle riservate no, senza confondere cronache e seminari. Lo staff restò diffidente, ma così funziona il Council. Parlando ai top businessmen, finanzieri, avvocati, intellettuali e diplomatici d’America, Mario Monti non ha usato, né poteva, il garbo prudente che deve invocare ad ogni istante della sua avventura politica, circondato da una coalizione che più si avvicinano le elezioni più si fa ombrosa, da siti pettegoli, cronache interessate, analisi «politiche» dove il vero e l’evidente vengono scartati come foglie marce, sfornando «retroscena» senza autorevolezza e credibilità. E’ successo qualcosa di insolito nell’Italia esausta da vent’anni di corto circuito politica-informazione, dove, solo Paese occidentale, le dichiarazioni vengono sempre strappate in un nugolo di telecamere e spintoni, ritriturate in virgolettati che poco hanno a che fare con l’originale, per poi esser smentite dall’interessato «frainteso». Davanti ai soci del Council on Foreign Relations, Monti ha detto la verità: se fosse necessario, e lui non crede adesso che lo sia, sarebbe disponibile a una nuova stagione di riforme condivise a Palazzo Chigi, non però candidandosi, visto che è già senatore e sarebbe buffo stare in una lista. Chi ascoltava Monti a New York non voleva sapere se «la foto di Vasto» prevarrà su «ABC», se il «Grande Centro» apre a Renzi o Bersani, se Berlusconi si presenta con la Lega o no, se Grillo litiga con Favia o con Pizzarotti. Erano in platea rappresentanti di fondi che investono miliardi di dollari, devono sapere se fidarsi o no dell’Italia dove quei soldi significherebbero lavoro per operai e giovani che non ce l’hanno o rischiano di perderlo. L’America ha esaminato Monti per capire che fine farà l’Italia. Il test al premier - poteva passarlo con A o non passarlo con F, i buoni e cattivi voti Usa - promuoveva o bocciava insieme a lui tutti noi. Al rito del caffè (di solito imbevibile) il commento poteva essere generico «Mister Monti è un gentleman ma troppo caos in Italia, investiamo altrove». Monti ha rassicurato invece che il Paese ce la farà, che ritiene i «tecnici» non indispensabili, che la politica può essere sana, ma che se ci fosse bisogno, per scongiurare l’instabilità, lui c’è. Niente di più, niente di meno. La gazzarra che s’è aperta, Viva e Abbasso senza costrutto, conferma l’ansia di troppi in Parlamento. Quale governo avremo nell’aprile del 2013 lo decideranno i cittadini alle urne, liberamente, siamo un Paese democratico (magari speriamo in una legge elettorale non orrenda). Monti non si ricandida da sé, non per astuzia appresa a Roma, il presidente ha dimostrato già davanti all’onnipotente Bill Gates ai tempi dell’antitrust d’Europa di non essere ingenuo. Sa che il valore del suo lavoro è nella cultura del rigore, in riforme non imposte dall’alto, ma condivise da una maggioranza di italiani, soprattutto da quelli in sofferenza nella crisi. L’ha detto, prima che al Council, al Forum Ambrosetti di Cernobbio: risanare l’economia dimenticando i cittadini, come in un laboratorio per esperimenti, scatena solo reazioni populiste. Non cercate dunque «retroscena» e «interpretazioni autentiche» nei commenti al discorso di Mario Monti al Council on Foreign Relations. Per quel che ho sentito nelle prime reazioni, gli americani lo hanno preso «at face value», in contanti, niente alchimie. E a chiunque sarà il successore di Monti a Palazzo Chigi, se non ci sarà alla fine Monti II, possiamo dare il suggerimento di parlare al mondo sempre così, «at face value», diretti, e l’augurio di essere ascoltato con il rispetto offerto ieri a «Mr. Monti». Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2012/09/28/cultura/opinioni/editoriali/una-risposta-per-l-italia-sotto-esame-GHumpMQRMsZV6E4VFvYMmL/index.html Titolo: Gianni RIOTTA - Hobsbawm, secolo breve vita lunga Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2012, 11:28:41 am Editoriali
02/10/2012 - personaggio Hobsbawm, secolo breve vita lunga Gianni Riotta Marxista fino all’ultimo, militante del Partito comunista inglese anche dopo le dimissioni di massa degli altri intellettuali per protesta contro le invasioni sovietiche a Budapest 1956 e Praga 1968, anti-israeliano radicale e persuaso che «l’Impero Americano» fosse più nefasto dell’«Impero Britannico», lo storico inglese Eric Hobsbawm, scomparso ieri a 95 anni, avrebbe potuto essere una delle tante figure di scontenti della sinistra internazionale. Invece era ospite nei talk-show tv d’America ed Europa, i suoi libri best seller popolari nelle classifiche e studiati anche a Cambridge, dove Hobsbawm era stato studente modello ma non aveva potuto insegnare, «surgelato dalla caccia alle streghe anticomunista soft d’Inghilterra», ricordava. Aveva passato la vita alla Birkbeck University of London, maestro di tre generazioni. I saggi sulle «Rivoluzioni borghesi 1789-1849» (Il Saggiatore), la trilogia «I ribelli», «I banditi», «I rivoluzionari» (Einaudi), un crescendo dialettico di «coscienza» marxista nella rivolta, sono apprezzati dall’accademia e divorati dai lettori, perché Hobsbawm analizza con anglosassone chiarezza e conclude con nettezza politica. I volumi «Il secolo breve» e «Anni interessanti, autobiografia di uno storico» (Rizzoli) fanno di Hobsbawm una celebrità: per lui il Novecento è «breve», rinchiuso tra il 1914 che accende la I Guerra mondiale e il 1989, con il crollo del Muro di Berlino e la fine del comunismo. La fortuna dello slogan accompagna la notorietà dello storico, che appare in pubblico come nonno dolce e saggio, pronto a coccolare i nuovi movimenti di Occupy Wall Street e a vedere, finalmente, nella crisi finanziaria del 2008 l’agonia del capitalismo che, da Karl Marx in poi, la sinistra comunista attende invano. Dei riformisti, dei socialisti, dei comunisti «occidentali» Hobsbawm non ha stima. Può incontrarli a un premio o a un convegno, ma il radicale laburista Tony Benn è per lui un nemico, e i socialisti alla Blair, i democratici alla Clinton, perfino la Terza Via tentata dalla sinistra italiana al tempo del primo Ulivo sono detestati come «Thatcher in pantaloni». Nato ad Alessandria d’Egitto da genitori ebrei, cresciuto in Germania mentre Hitler prende il potere, orfano e riparato in Inghilterra da uno zio, Hobsbawm porta nella concezione politica e storica le cicatrici del tempo di ferro che ha vissuto. Per Israele ha parole aspre: «Non ho obblighi emotivi per un piccolo Stato-nazione militarista, culturalmente deludente, politicamente aggressivo che mi chiede solo solidarietà razziale». C’è in questo paragrafo tutto Hobsbawm, scrittura efficace e militante, oblò ideologico fisso. Storici conservatori e progressisti, Niall Ferguson e Francis Wheen, lo accusano di non avere analizzato i crimini politici di Stalin, e di non avere abbandonato il Pc neppure dopo il Rapporto Kruschev al XX Congresso del Pcus. Nella prosa brillantissima di Hobsbawm le invasioni di Ungheria e Cecoslovacchia diventano dettagli minori, il patto Ribbentropp-Molotov tra Hitler e Stalin è ridotto a «episodio temporaneo del 1939-1941». Da queste critiche lo storico, che doveva il cognome a un errore anagrafico, si difendeva con ambigua eleganza e a chi gli chiedeva perché non avesse lasciato il partito dopo le denunce sui gulag replicava sorridendo: «I partiti comunisti non sono per romantici. Sono per il lavoro e l’organizzazione… Il segreto del partito leninista non è sognare la resistenza sulle barricate e nemmeno la teoria marxista. Si può condensare… nella “disciplina di partito”. Il fascino del partito è agire quando nessuno altro lo fa…». Non è una novità, già Brecht elogiava «i cento occhi del Partito», Robert Jordan l’eroe del romanzo «Per chi suona la campana» di Hemingway si sente spesso rimproverare dai comunisti come «romantico» e la stessa accusa farà il professore comunista Corradi al giovane liberal Johnny in apertura de «Il partigiano Johnny» di Fenoglio. Antifascista per generazione, Hobsbawm può essere «romantico» nell’amore per il jazz, cui dedica «La storia sociale del jazz», nei capelli lunghi, nel fascino da scrittore: ma la reticenza sullo stalinismo pesa anche sulle sue pagine più seducenti. Il nazismo, la Depressione del 1929, la miseria del Terzo mondo, giustificano per lui gli orrori di Mosca. Ristretto in questa camicia di forza ideologica, Hobsbawm può dunque vedere nel Novecento solo «il secolo breve» della guerra civile Capitalismo-Comunismo, senza riconoscerne la profondità infinita, da millennio, primo secolo nella storia in cui l’umanità abbandona il lavoro nei campi, le donne si liberano dalle case, le colonie dagli imperi, l’informazione è universale, dai mass ai personal media, la genetica del Dna dischiude il futuro della specie. C’è nel diario dal gulag della scrittrice russa Evgenia Ginzburg (Dalai) il racconto di una notte in cella, con una compagna comunista italiana, deportata senza più nome, che urla ma nessuno la ascolta, nessuno capisce la lingua in cui lamenta, come milioni di comunisti arrestati, la fede tradita nel partito e nell’Urss. Eric Hobsbawm avrebbe avuto pietà umana di lei, ma, da storico, nessun problema morale, o «romantico», a inquadrare quella donna, quel dolore, quelle grida in italiano senza ascolto nelle ferree necessità della Storia. da - http://lastampa.it/2012/10/02/cultura/opinioni/editoriali/hobsbawm-secolo-breve-vita-lunga-oEVanke31muahjtz116TEL/index.html Titolo: Gianni RIOTTA - L’Italia 2.0 deve investire sul suo futuro Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2012, 03:46:23 pm Editoriali
04/10/2012 L’Italia 2.0 deve investire sul suo futuro Gianni Riotta L’Italia 2.0 s’è desta. Oltre la metà dei cittadini usa e frequenta il web, i giovani vivono online giorno e notte. La migrazione dei cittadini – chi vive nelle metropoli accede a Internet più di chi risiede in zone rurali - non lascia il deserto nei media tradizionali. Malgrado i lamenti da bar sulla noia tv, il 99% degli italiani, tutti cioè, guardano la televisione, mentre tantissimi, 83,9%, ascoltano la radio. La tv addirittura guadagna audience, lo 0,9%, nel 2011. Per i giornali la strategia è nitida, dalla carta al web. Il pubblico ha desiderio di informazione, notizie, approfondimenti, commenti, ma gli under 25 preferiscono seguire gli eventi sul web. Lì vanno cercati come individui, lettori e consumatori da testate e pubblicitari. I dati di una nuova ricerca del Censis timbrano il passaporto digitale del nostro Paese confortando chi ha scommesso sul lavoro digitale. Non esiste un «popolo del web» alternativo a un popolo di «giornali e tv», è l’Italia intera, anziani e ragazzi, occupati e no, ceto medio e lavoratori, destra e sinistra, laici e cattolici, che siede al computer o, sempre più spesso, segue i link via smartphone. La percentuale maggiore del 62,1% di italiani online è giovane, benestante, residente al Nord e nelle città. Ma la «cittadinanza digitale», dieci anni fa appena del 27,8% meno di un italiano su tre, cresce in ogni gruppo sociale e geografico. Presto l’Italia online coinciderà con l’Italia tv: 100%. Il «popolo del web» siamo noi. Buone notizie dunque, ma perché l’Italia arrivi ai livelli di integrazione digitale totale – come Hong Kong, Singapore, Corea del Sud - rimangono vari passi da compiere. Il digital divide, la mancanza di accesso alla rete o un cattivo accesso per carenza di banda, è male tecnico, economico e sociale. Ma se le aziende, Confindustria, la scuola, i laboratori di ricerca, le start up, il sindacato vogliono davvero «fare squadra» sul web per il lavoro e lo sviluppo economico, occorre impegnarsi sulla «qualità dell’accesso». Non solo migliorando il wi-fi, permettendo collegamenti gratuiti e «sociali» in aree ampie del territorio, ma razionalizzando domanda e offerta: insegnando, per esempio, agli studenti come si studia online; a chi lavora come usare la rete da università aperta per l’aggiornamento; a chi lancia innovazione e start up come trovare «mentor», partner maturi e mercati, a prima vista, irraggiungibili. Che nessuno degli italiani, per sesso, età, residenza o ceto voglia più restar fuori dal web è positivo: ma l’Agenda Digitale che il premier Monti, con i ministri Passera e Profumo intendono lanciare è il solo network sostenibile dell’innovazione. Le grandi società di comunicazione e informatica, storiche e nuove, Telecom, Wind, Fastweb, 3, Vodafone, i grandi marchi della generazione computer, Microsoft, Apple, Google, Amazon, Facebook, devono riconoscere nell’Italia 2.0 non solo clienti per i loro prodotti, com’è naturale, ma occasione di crescita comune. Il capitale umano e civile che il web fa lievitare è ricchezza parallela per le aziende e le comunità. Lungi dal cannibalizzarsi a vicenda infatti, gli old e i new media coesistono. Tv, giornali, libri si integrano a web, siti, blogs, radio e tv online, Youtube, Twitter. A questo «crocevia mediatico» l’informazione di qualità può ritrovare pubblico e mercato pubblicitario, in un «business model» sostenibile fino al 2020. I dati Censis confermano le ricerche internazionali Pew e lo slogan di Hal Varian, il capo economista di Google: il futuro dei giornali è «Innovare, Innovare, Innovare». Ogni innovazione ha però una zona d’ombra. Il Censis segnala nella corsa al digitale italiano la possibilità che i cittadini frequentino solo siti, blog, giornali che offrono punti di vista a loro graditi. Pericolo noto, già i motori di ricerca ci indirizzano a contenuti omogenei ai nostri gusti e opinioni, grazie ad algoritmi, filtri di analisi che ci ripropongono i consumi, o le letture, già fatte. Esiste il pericolo del «solipsismo della rete»? Sì, ma senza esagerare: già nell’Ottocento i cittadini si informavano con le testate politicamente affini, e nel Novecento gli studi di Lazarsfeld hanno dimostrato come, pur da informazioni conformiste, i lettori sappiano trarre spunti critici. A Mosca, ai tempi dell’Urss, si «interpretava» la Pravda in cerca di notizie vere. Non dobbiamo mai attribuire al web le nostre colpe: la polarizzazione politica, in Europa e in America, precede, non segue Internet. In meno di tre anni la rivista The Atlantic s’è chiesta se il web ci renda «stupidi», «ignoranti», «solitari». Ora, riprendendo un commento del Wall Street Journal e ricerche della Columbia e Pittsburgh University, The Atlantic si interroga perfino se il web ci renda «maleducati, aggressivi e volgari». Fatica inutile, non rompete lo specchio se non vi piace il volto che vedete riflesso. Il Censis conferma: il web siamo noi. Internet non è macchina del Bene, né fucina del Male, è l’immagine reale del nostro tempo. Che l’Italia ci sia, tra opportunità e rischi, è indispensabile. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2012/10/04/cultura/opinioni/editoriali/l-italia-deve-investire-sul-suo-futuro-vK8VUavRL3zDgqMDeJHkBP/index.html Titolo: Gianni RIOTTA - Voti e petrolio, la scommessa del Venezuela Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2012, 11:15:09 am Editoriali
08/10/2012 Voti e petrolio, la scommessa del Venezuela Gianni Riotta Le elezioni presidenziali di ieri in Venezuela non sono l’ennesimo derby latino-americano tra un candidato di sinistra terzo-mondista, paladino dell’economia centralizzata, e un candidato liberista che punta invece su libero mercato e sviluppo. La sfida tra il caudillo Hugo Chavez, reduce da 14 anni di malgoverno a Caracas e il quarantenne Henrique Capriles è qualcosa di più e più radicale. E’ il referendum tra un regime autoritario e populista, che fa dei giacimenti di petrolio leva di corruzione in Venezuela e nel mondo, e il ritorno alla normalità democratica, una crescita sul modello brasiliano del presidente Lula, dove anche le classi povere possano beneficiare del boom energetico. Chavez ha, come sempre, negato par condicio televisiva al rivale, controllando l’informazione, mentre le sue milizie armate intimidivano l’opposizione, ricorrendo perfino a trucchi meschini, come sbarrare il consolato di Miami per evitare che i 20.000 venezuelani là residenti potessero votare. Ma questa volta la macchina di mazzette, raccomandazioni e paura ha funzionato peggio che in passato. A sorpresa Capriles, giovane, dinamico, ha parlato con successo nei comizi in città, quartieri e villaggi rurali, la base di Chavez, ha usato i new media (con un milione e mezzo di followers su twitter) e i vecchi volantini, per diffondere un messaggio di pacificazione. Senza replicare a provocazioni e insulti «chavisti», Capriles ha colto la diffusa voglia di «normalità», chiudere con la retorica violenta del regime, anti americana, roboante, minacciosa, e usare la ricchezza del petrolio a vantaggio dei cittadini. I sondaggi sono divisi, chi dà avanti il 58enne Chavez, a lungo malato di cancro, chi il dinamico Capriles, con il 15% di indecisi e l’ombra dei brogli sui 17 milioni di elettori (dovrebbero votare all’80%). Una vittoria dell’opposizione non eliminerebbe subito la tensione. La costituzione «chavista» assegna 90 giorni di «transizione» tra risultati del voto e nuovo governo: Hugo Chavez ha annunciato che le milizie, squadre armate e pagate dal regime, «vigileranno». Molti di loro perderebbero lavoro e privilegi con la fine del «chavismo» e meditano colpi di mano. Con una popolazione di 29 milioni di cittadini, circolano in Venezuela 17 milioni di armi da fuoco illegali. E la paura ha radici profonde, nel 2004 tantissimi venezuelani firmarono una petizione contro Chavez, i loro nomi vennero pubblicizzati e gli impiegati statali furono licenziati per rappresaglia. Fra loro nessuno dice ora in ufficio di votare Capriles, tutti mentono davanti a spie e caporioni. Chavez ha impoverito il Paese, che ha riserve naturali straordinarie, saccheggiando il settore energetico. Da anni le compagnie controllate dallo stato non innovano, cacciano manager e tecnici competenti sostituendoli con funzionari raccomandati dalla gerarchia. Negli stabilimenti manutenzione e controlli scadono pericolosamente, è di pochi giorni fa un ultimo incendio alla gigantesca Petròleos de Venezuela, che s’è tentato invano di controllare per mancanza di mezzi funzionanti. La compagnia, che potrebbe dominare il mercato portando il Venezuela sul podio dei Paesi esportatori, è lottizzata fra sostenitori, amici e parenti del clan Chavez, umiliata a macchina da soldi per corruzione e camarille. Da sola Petròleos de Venezuela ha versato ai «chavisti» in dieci anni 50 miliardi di euro, destinati a «programmi sociali», progetti inutili, come le «cattedrali nel deserto» italiane degli Anni Cinquanta, spesa pubblica che non crea sviluppo e occupazione. Se però Chavez decide che il pilota di Formula 1 Maldonado – che nelle prove disputate fin qui non sembra un nuovo Schumacher - deve gareggiare con sponsor Petròleos, ecco che il Venezuela non è più «povero» e trova i fondi necessari. Inutile dirlo, Maldonado è considerato vicino alla figlia del presidente. In questo clima asfittico, nessuno prevedeva che Henrique Capriles potesse costringere Chavez a una «vera» elezione. I suoi sostenitori hanno parlato ai sostenitori del regime, i più poveri, i più indottrinati e indifferenti, fin nelle sperdute campagne, perché la delusione pesa e l’esempio del Brasile fa sognare. A ogni ritorsione s’è risposto con fantasia, mobilitazione. Bloccati dalla chiusura del consolato di Miami gli elettori in Florida non si sono persi d’animo, hanno noleggiato auto, bus, affollato gli aerei e sono andati a votare alla più vicina sede diplomatica aperta, New Orleans. Ex sindaco ed ex governatore, Capriles propone con modestia «Soluzioni concrete ai problemi concreti»: nel Venezuela di oggi, e con il petrolio nel motore, potrebbe essere la ricetta perché ai Paesi del turbo-sviluppo Bric, Brasile, Russia, India e Cina si aggiunga ora, finalmente, anche una V. E la lenta ripresa del dopo crisi 2008 trovi a Caracas un alleato, dopo anni di sabotaggio chavista. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2012/10/08/cultura/opinioni/editoriali/voti-e-petrolio-la-scommessa-del-venezue-uZlGkPHR387K7yTwXaebYO/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Vince la politica Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2012, 05:34:36 pm Editoriali
18/10/2012 Vince la politica Gianni Riotta Come era sbagliato concludere che Obama fosse ormai battuto nella corsa per la Casa Bianca dopo il dibattito fallito a Denver, sarebbe ora precoce ritenere che abbia già vinto solo grazie al più vivace dibattito contro lo sfidante repubblicano Romney a New York. La campagna elettorale è sempre stata, e resta, aperta e i dibattiti non ne alterano le dinamiche profonde: il candidato democratico Obama in testa negli stati indecisi, soprattutto lo strategico Ohio, il rivale ex governatore del Massachusetts ad inseguire da vicino, per esempio in Pennsylvania. Un’elezione presidenziale americana, maratona che dura anni, costa oltre due miliardi di dollari (1,6 miliardi di euro), coinvolge milioni di persone, non si decide in un solo faccia a faccia. Crederlo è vezzo dei media, ma a studiare le prime analisi dei Big Data, la galassia di reazioni degli elettori raccolte da social network e blog sul web, la realtà è diversa. Il presidente Obama non è il candidato invincibile idealizzato dalla propaganda. Ha perduto in modo umiliante le elezioni parlamentari di Midterm 2010, con il Paese scontento per la crisi economica e una controversa riforma sanitaria. E, al contrario di Bill Clinton sconfitto dai radicali di Newt Gingrich nel 1994, non ha poi confortato i moderati, blindando la rielezione. Con la disoccupazione all’8% un Presidente non torna alla Casa Bianca. Se Obama è ancora in corsa può esser grato a tre diversi fattori: 1) Il carisma personale e la tenacia gli hanno permesso martedì notte di rialzare la testa davanti alla base democratica; 2) La naturale riluttanza degli elettori a bocciare un Presidente al secondo mandato, solo Carter e G.H.W. Bush son caduti nel dopoguerra e Bush padre ce l’avrebbe forse fatta senza il 19% del candidato indipendente Perot; 3) La manovra economica dei 40 miliardi di dollari del banchiere centrale Bernanke, «soldi gettati dall’elicottero contro la crisi» dicono gli economisti: magari non funziona benissimo ma dà la sensazione che Washington aiuterà le industrie più con Obama che con un’amministrazione repubblicana. Mitt Romney ha goduto nel primo dibattito dello scarto tra propaganda e realtà nocivo al Presidente. E’ un goffo Mormone, candidato della destra Tea Party, pronto a schiavizzare il 47% dei cittadini o il businessman la cui gestione del fondo Bain è stata definita dall’idolo democratico Bill Clinton «stellare», centrista che per vincere alle primarie ha sposato i luoghi comuni conservatori e che ora fa marcia indietro, su aborto, donne, pressione fiscale? Nel primo il dibattito Romney «centrista» ha smentito le caricature finendo in vantaggio. Martedì, la nuova immagine è stata ridefinita dalle dure critiche di Obama che lo ha rimesso sulla difensiva, sull’emigrazione con gli ispanici, su contraccezione, mutua, quote rosa con le donne e il ceto medio. La democrazia americana esce rinvigorita dai dibattiti. Gli elettori avranno a novembre scelte chiare, due uomini diversi per personalità - era evidente, e salutare in un confronto politico, l’avversione fisica di Obama e Romney quando si avvicinavano l’un all’altro - per filosofia politica, ricetta economica, convinzioni profonde. Solo la politica estera li unisce, malgrado le chiacchiere Romney non romperà con la Cina e l’asse sul Pacifico non muterà, vedrete al dibattito finale. E’ vero, i troppi soldi che i fondi Pac investono nella campagna, dopo la recente sentenza della Corte Suprema, inquinano parte del gioco, ma alla fine ogni cittadino potrà scegliere a ragion veduta. Speriamo possa essere così, presto, anche da noi, dibattiti, primarie, trasparenza (magari con meno sprechi). Riletti i dati, Obama e Romney restano dov’erano, in lieve vantaggio il Presidente, con la chance di vincere in volata il repubblicano. E’ il referendum per gli americani a farsi più nitido. Con Obama lo status quo, tanto danaro della Federal Reserve, la speranza che l’anemica ripresina finalmente smuova gli Usa dalla crisi 2008. Con Romney il salto in un’economia «Più mercato, meno stato», ma «soft» senza eccessi, con i vantaggi dell’innovazione contrapposti agli svantaggi della fine di ogni stimolo «keynesiano». Nessuno ripeta il cliché «Inutile votare tanto non cambia nulla». Come nelle elezioni tedesche e italiane del 2013 i risultati, stavolta, contano moltissimo. L’83% degli americani ha seguito il dibattito in tv, «old media» sempre vivo, il 4% solo online, ma un americano su 5 ha commentato sui social network, Facebook, Twitter, i blog mentre guardava il duello in tv. Tra gli elettori sotto i 39 anni, uno su tre ha usato il tandem tv-web, tribuna politica in diretta globale. Analizzando i Big Data, gli staff di Obama e Romney conoscono ormai nome, cognome, gusti, opinioni, letture, consumi degli elettori incerti e li raggiungono con messaggi ad hoc, costruiti per loro. Attenzione però: se gli incerti hanno l’impressione di essere «target», bersaglio di messaggi politici confezionati su misura individuale, si ribellano e reagiscono fino a cambiare idea. Nell’era della democrazia digitale la politica legge il destino elettorale nel palmo della mano dei cittadini, via Big Data, ma se eccede in invadenza la mano si fa pugno. Infine una parola sulla moderatrice, Candy Crowley, giornalista che non scambia l’informazione per lotta libera nel fango, senza vezzi da pin up, capace di mettere in riga sui fatti Obama e Romney, da Bengasi a donne e lavoro. Non contano le «gaffes» dei candidati, conta che abbia fatto parlare di politica davanti a milioni di americani, che ora decideranno in libertà. Un rito che qualche snob disprezza come «Ideologia» ma il cui vero nome è «Democrazia». Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2012/10/18/cultura/opinioni/editoriali/vince-la-politica-RC3fHrk0hZz7hbWXaxr5RK/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - L’economia cancella il mondo Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2012, 03:56:48 pm Editoriali
24/10/2012 - il dibattito obama-romney L’economia cancella il mondo Gianni Riotta È assai probabile che - a meno di catastrofi - la corsa alla Casa Bianca 2012 tra i democratici guidati da un ridimensionato presidente Barack Obama e i repubblicani del redivivo Mitt Romney sia ormai decisa. Dopo mesi di spot tv, polemiche sui blog e twitter, mega dibattiti tv, gli elettori sanno in cuor loro chi votare il primo martedì di novembre. Gli indecisi, non più legione, difficilmente seguiranno un solo candidato. Il risultato potrebbe essere uno storico fotofinish. I sondaggi raccolti ieri, confermano il pareggio, 47 a 47%, con l’eccezione di Gallup che dà a Romney un vantaggio congruo, 6%. Obama sembra tenere l’esile +4% in Ohio che potrebbe ridargli la vittoria. Il faccia a faccia tv di lunedì notte ha solo confermato impressioni e previsioni sulle amministrazioni Obama II o Romney I. L’errore del Presidente, forse mal consigliato da uno staff troppo militante, è stato caricaturare, a suon di spot che alla fine costeranno un miliardo di dollari (780 milioni di euro), Romney come un miliardario che licenzia e esporta capitali. Nei dibattiti Romney è apparso invece quel che è, l’ex governatore repubblicano del progressista Stato del Massachusetts, centrista riluttante in un Grand Old Party, repubblicano ostaggio della destra Tea Party, e il pubblico ha reagito con simpatia, anche chi non lo voterà. I democratici, bruciata parte del tesoro elettorale, hanno dovuto ricominciare da zero puntando infine su tasse e lavoro. Non è stata la performance di Romney a capovolgere l’ottimismo eccessivo dei media liberal: è stata la realtà, dura maestra in America. Se Romney non è in testa in modo netto, malgrado la disoccupazione ancora troppo alta, ceto medio e piccole imprese in sofferenza, ripresa anemica e impopolare riforma sanitaria Obamacare, è perché non ha saputo fugare la paura sociale contro gli interessi economici vicini ai repubblicani. Tanti elettori si chiedono: se mi trovassi nelle condizioni degli operai dell’auto a Detroit, sull’orlo del fallimento, chi mi darà una mano, Obama o Romney? Tante donne si interrogano sui sussidi alla scuola, l’aborto, perfino la piccola tv pubblica Pbs a rischio chiusura. I veterani di guerra pensano a sanità e pensioni. Gli studenti ai Community College locali, i soli in cui possano laurearsi con pochi soldi. Simpatizzano magari con il «meno tasse, meno spesa, bilanci in ordine» del sanguigno candidato vicepresidente Paul Ryan, ma temono che quella filosofia li danneggi. Infatti, scelto come uomo del futuro, Ryan è rimasto in naftalina per l’intera campagna: farà guadagnare voti nel futuro, rischiava di farli perdere nell’amletico 2012. Così il dibattito che il New York Times ha definito di «politica globale», lunedì, non ha neppure nominato l’India, discusso della crisi dell’euro o evocato l’Europa, ragionato sulla frizione Giappone-Cina, analizzato la nuova Africa, citato lo storico congresso del Partito comunista cinese. I temi del futuro, clima, ambiente, demografie, migrazioni, acqua, cibo, epidemie, metropoli e campagne tutti ignorati. Conta l’economia e l’America, paese globale, sa che la «sua» economia interna dipende dal mondo, commerci e guerra valutaria con la Cina, rischi sul prezzo del greggio in caso di raid contro l’Iran atomico, l’antico «cortile di casa» in America Latina ora diventato partner in affari. Obama e Romney hanno due programmi di politica estera identici perché sono pragmatici, non ideologici, e riflettono nelle proposte gli interessi nazionali Usa nel Pacifico, Medio Oriente, su tariffe ed energia. Poi Obama mette un pizzico di diritti umani, Romney una spruzzata di «America First!» e tutti d’accordo. Se la Casa Bianca andasse all’opposizione niente novità al Dipartimento di Stato. Ieri l’agenzia Nuova Cina ha finto di protestare per i toni anti Pechino del dibattito, ma con diplomazia astuta ha riconosciuto l’ampia retromarcia di Romney che - dopo troppi attacchi alla valutazione della moneta cinese - ha incensato il contributo cinese a stabilità, pace e sviluppo, con un’enfasi che avrà irritato i Tea Party. Hollande, Merkel, Cameron, il premier Monti rifletteranno sul silenzio completo a proposito di Unione Europea, non un richiamo agli alleati, non un cenno alla nostra crisi o a soluzioni unitarie per Iran, Medio Oriente, gap finanziario. Certo, meglio delle primarie, quando «europeo» era un insulto, ma c’è a Washington un’aria di scarsa rilevanza dell’Ue, vuoi per interlocutori di limitato carisma internazionale da van Rompuy a Lady Ashton, vuoi perché i guai di Grecia e Spagna ci stanno troppo alienando dal mondo. Chiunque giuri in Campidoglio a Washington, nel gennaio 2013, Bruxelles dovrà recuperare in fretta prestigio e peso. Il resto sono aneddoti minori, la felice battuta di Obama sulla difesa che ha meno navi che nel 1917, ma anche meno cavalli e baionette, l’intelligente finta «a sinistra» di Romney, minimizzando la morte di Osama bin Laden, «non possiamo mica ucciderli tutti». Contano molto in tv e sui giornali, moltissimo nell’officina di idee del web, nulla sul voto. L’America sembra fortunata in questo 2012, con due candidati seri, perbene, di carattere, ottimisti. Rappresentano entrambi, da moderati, le filosofie politiche centrali degli Usa oggi: un cauto riformismo economico, con il sostegno dello Stato ai poveri ed enfasi sui diritti sociali in Obama; un cauto liberismo antitasse ed enfasi su diritti individuali ed aziende in Romney. Entrambi però sono circondati da zelanti ideologi, ultraprogressisti o veteroconservatori, che rendono ostici al Congresso i compromessi legislativi, isolando impotente la Casa Bianca. Barack Obama e Mitt Romney, con il tono civile della campagna, hanno se non sradicato almeno scoraggiato la rancorosa «guerra culturale» che squassa da 20 anni il paese. E’ un bene, e sarebbe un gran bene, se dopo il 6 novembre i loro partiti ne seguissero l’esempio, firmando un compromesso fiscale, un piano di rientro dal debito, ormai urgentissimo per l’ultima superpotenza e non bloccando alla Corte Suprema i candidati indipendenti. Bene altrettanto grande sarebbe se, dopo aver seguito la prova della democrazia americana i leader, vecchi e nuovi, d’Italia condividessero l’urgenza di toni sobri, faccia a faccia razionali in tv, interessi nazionali condivisi senza imbarazzi. E’ il solo vaccino contro i bacilli populisti e la grande maggioranza dei cittadini, al netto degli inguaribili facinorosi, in America e da noi, lo sa. Twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/2012/10/24/cultura/opinioni/editoriali/l-economia-cancella-il-mondo-fwFzrp0Kih7shHlLZy83eM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - I miraggi e gli alibi sono svaniti Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2012, 05:29:36 pm Editoriali
27/10/2012 I miraggi e gli alibi sono svaniti Gianni Riotta Un’intera generazione di italiani, nata dopo il 1975, avrà per la prima volta alle elezioni politiche di primavera una scheda priva di referendum pro o contro Silvio Berlusconi. La condanna a quattro anni di reclusione, ridotti a uno per indulto con cinque di interdizione dai pubblici uffici, comminata ieri nel processo per frode fiscale, segue di poche ore la rinuncia dell’ex premier a ricandidarsi a Palazzo Chigi e chiude, per sempre, una stagione della Repubblica lunga 18 anni. Così giudica l’opinione pubblica mondiale, aprendo con la notizia i siti web internazionali, dal Financial Times, a Le Monde, al New York Times, e affollando di dirette radio e tv, da Bbc a Cnn. Accade nella storia che l’avventura di un leader arrivi al finale di partita, in un esito che, ai contemporanei appare repentino ma nel futuro trova logica ineluttabile. Dall’autunno del 1993 quando raccoglie il progetto del professor Giuliano Urbani fondando Forza Italia, Berlusconi s’è battuto in cinque elezioni politiche, vincitore tre volte, due superato da Romano Prodi. Grazie alle divisioni degli avversari, grazie a un intuito forte per il senso comune e anche - ma non solo - grazie alle tv, Berlusconi ha creato una forza politica capace di intercettare a lungo gli umori del Paese. E’ stata infine la crisi economica a piegarlo nell’autunno del 2011, mandando al governo i tecnici di Mario Monti. Non sono stati scandali, processi, campagne e denunce, la sterminata biblioteca di tomi critici, i cortei, è stata la paura del crack incombente sulla finanza pubblica, le banche e aziende, le famiglie, i lavoratori, a condannare Berlusconi. La sfiducia dei partner europei, in primo luogo la Cancelliera tedesca Angela Merkel, accende il semaforo rosso contro «Silvio». A lungo, i più sfrenati consiglieri del fondatore di Mediaset hanno azzittito i moderati, aizzandolo a ignorare l’ira crescente dell’Unione Europea e irridere il dialogo con l’opposizione. Errori di arroganza, mancanza di cultura politica moderna, ormai irrimediabili e da alcuni ripetuti come un’ossessione. Il «mondo» andava ascoltato, interrogato, condiviso non disprezzato. Di tutto ciò Berlusconi, a malincuore, ha preso atto e la scelta di non ricandidarsi e indire primarie nel centrodestra lo conferma. A partire dall’importante voto in Sicilia, che testerà per la prima volta le 5 Stelle di Beppe Grillo, alla corsa Bersani-Renzi nel Pd, alla ricostruzione del centro tra Casini, Fini e nuove forze, interne ed esterne al gabinetto Monti, una terza stagione della Repubblica si va delineando, impossibile tornare indietro. Le cronache politiche, da qua a primavera, registreranno infiniti ghirigori tattici di chi, per salvare un’oncia di potere, cincischierà sul recente passato. Potete ignorarli o seguirli con curiosità, non muteranno però la fase appena conclusa. Giornali, tv e web severi di ieri, l’attesa del processo sul caso Ruby, testimoniano che nessun Paese ormai decide di sé isolato in un acquario, la Cina pesa tra Obama e Romney, la crisi dell’euro ha pesato sulla volata Hollande-Sarkozy, il giudizio internazionale condizionerà anche il prossimo governo italiano, sia Monti II, centrosinistra, centrodestra o qualunque altra formula oggi inedita. Davanti a questa realtà chiunque aspiri alla guida del Paese, la sinistra favorita nei sondaggi, la destra che si accinge per la prima volta alle primarie, il centro in cerca d’autore e anche Grillo cui la denuncia più non basterà, deve chiudere a sua volta con l’era Berlusconi. Illudersi di fare campagna elettorale, vincere e governare continuando a battersi in nome di, o contro, un Berlusconi la cui armatura, come quella del Sire Kagemusha del film giapponese, è ormai vuota, vuol dire imbrogliare se stessi e gli italiani. Silvio Berlusconi ha gravi responsabilità politiche e personali, la più importante non avere riformato Paese e mercato come promesso, in tempi in cui sarebbe stato meno doloroso. Scaricargli però addosso tutte le lentezze, ipocrisie, opportunismi, l’anchilosi sociale ed economica di una nazione che non cresce da anni è ok per la propaganda, non nella realtà. La crisi economica non passerà in primavera, è, come dicono i migliori economisti da Rogoff a Rajan, «nuova normalità», dove anche gli italiani dovranno riapprendere a lavorare, studiare, consumare, esportare, competere, investire con più saggezza e visione che nell’ultima parte del XX secolo. Ai sostenitori Berlusconi ha dato il miraggio, ai nemici l’alibi, che il passaggio faticoso al mondo globale potesse venire eluso in Italia, ogni giorno, per vent’anni. Adesso, dopo la condanna per frode fiscale e la reazione internazionale, il campo è sgombro, Berlusconi si affida ai libri di storia, che lo giudicheranno con serenità. L’armatura non gli serve più, lustrarla ancora o ancora scalciarla, è inutile. Le riforme che ci attendono sono chiare, il leader eletto dovrà costruire loro intorno consenso, senza traumi sociali, forzature dall’alto, con vero ottimismo. Alibi e miraggi sono, infine, svaniti e non poteva che essere così. Twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/2012/10/27/cultura/opinioni/editoriali/i-miraggi-e-gli-alibi-sono-svaniti-Cmtcbzlr3NcyXgjDkzIm2J/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Il Cavaliere fa il Grillo nella Villa a sei stelle Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2012, 10:39:26 am Politica
28/10/2012 - REPORTAGE Il Cavaliere fa il Grillo nella Villa a sei stelle L’ex premier Silvio Berlusconi con un appunto in mano si lancia nell’attacco della magistratura e dello spettro di quella che ieri ha chiamato «una repubblica giudiziaria» Antitedesco, forse antieuropeo: con queste armi adesso tenta di rimontare Gianni Riotta Lesmo L’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi apre la campagna elettorale 2013 confermando di non voler ricandidarsi primo ministro, annunciando primarie nel Pdl – «aperte a tutti tranne che a me» -, attaccando fisco «poliziesco», magistratura «di sinistra». E pur attento a non nominare il suo successore, Mario Monti avverte che «il governo dei tecnici porta a recessione», perché vassallo «della Germania egemone di Angela Merkel»: d’ora in avanti – conclude - il voto del centro destra non sarà più scontato. A Villa Gernetto, sede dell’Università liberale dove Berlusconi s’è riservato un appartamento al piano nobile disegnato dall’architetto Simone Cantoni nel 1815, i giornalisti affluiscono da un cancello alto sulla valle del Lambro, 35 ettari di bosco, giardino all’italiana, prati, con la foschia che occulta i bassorilievi funerari di Antonio Canova e le statue del Fabris. Vetturette da golf trasportano i notabili per i viali, l’ex ministro Gelmini chiede passaggio a un cronista. Dal cancello centrale, mostrando la carta d’identità, passano invece, con l’abito della domenica, elettori, militanti, famigli. Occupano le file della sala stampa, broccati in rosso e giallo, una riproduzione della Scuola di Atene di Raffaello, si alzano quando il loro leader entra in aula, applaudono ritmici e danno alla conferenza stampa un tono deferente che sul web irrita, «i giornalisti applaudono?». In prima fila il portavoce Paolo Bonaiuti apre e chiude le mani dettando a Berlusconi i tempi del discorso, accanto a lui sorridente Francesca Pascale, giovane consigliera Pdl a Napoli, poi l’ex ministro Romani in pullover, Daniela Santanchè, Vittoria Brambilla, più indietro Tiziana Maiolo. L’avvocato Ghedini siede in disparte, sotto le telecamere, con un foglio di appunti vergato a mano la cui prima riga recita «1) Corte Costituzionale…», le critiche alla sentenza di condanna a Berlusconi per frode fiscale. La sala ricolma di sostenitori, l’immenso parco umido e silenzioso, danno all’intervento di Berlusconi malinconia, i giornalisti restano ai margini, quelli che lo detestano, quelli che simpatizzano o lavorano nel suo impero, i semplici cronisti stanchi di guerra. A twitter che lo prende in giro con l’hashtag, il tormentone, #ancoratu, Berlusconi non dà soddisfazione. E’ furente, sfoga frustrazione cocente. Ai siti web che, con eccessiva fretta annunciavano il “ritorno in campo”, infligge delusione: non si ricandida, elezioni primarie per il centro destra, niente «marcia indietro». Nel silenzio rotto solo da un cellulare che ronza nel microfono, il fondatore di Forza Italia elenca a lungo i suoi “successi”, poi attacca la Germania di Angela Merkel. Per vendicarsi «con il passivo presidente francese Sarkozy» dei «veti» posti dall’Italia alle «politiche economiche restrittive», Merkel ha ordinato «alle banche tedesche di vendere titoli italiani», portando così alla crisi economica e al «governo dei tecnici». Sono i toni del populismo europeo, in Grecia e Spagna usati da sinistra e destra radicale, non dai conservatori di Samaras o dai popolari di Rajoy. Berlusconi, compagno di strada dei Popolari a Bruxelles, non intende invece più regalare ad altri, a Grillo per primo, l’antipatia per la pressione fiscale di Monti, i tagli alla spesa, il rigore di Merkel: annuncia no all’Imu, meno tasse, per proteggere i bilanci basterà ridurre «gli sprechi». Con il «governo dei tecnici» Berlusconi è aspro, lo votiamo, scandisce mentre i suoi notabili annuiscono con entusiasmo proporzionale alla posizione nel Pdl, poco Bonaiuti, tantissimo la Santanché, solo per evitare la reazione dei mercati, ma lo «peseremo» d’ora in avanti con attenzione. Berlusconi ripete «governo dei tecnici», non nomina Monti, «avverte» senza strappi con il premier. Chiama Casini e Montezemolo tra i moderati di centro, ma addossa a «Casini, Fini e Follini» i fallimenti passati. Fisco, Equitalia e Guardia di Finanza, abbinati alla «magistratura di sinistra» e al Quirinale, il cui inquilino «negli operosi week end» boccia le leggi di riforma della destra, saranno i nemici in tv, «Torno a parlare, chiedo di essere invitato». Davanti a sondaggi che danno a Grillo le percentuali del Pdl, 17%, con gli elettori siciliani incerti tra Musumeci a centro destra, Crocetta a centro sinistra e Grillo, Berlusconi ricorda che se si tratta di alzare i toni contro tasse, Europa, rigore, tecnici, bilanci, lui non resterà indietro. I dirigenti Pdl che non vogliono rompere con Monti, dal segretario Alfano che dovrebbe spuntarla alle primarie, all’ex ministro Frattini, gli uomini di Beppe Pisanu, faticheranno su questo spartito. Nessuno di loro è a villa Gernetto, come nessuno degli ex An, da La Russa a Gasparri, siede nelle poltroncine rosse da cinema di una volta. Alla fine i notabili presenti lo stringono affettuosi, l’ex premier ringrazia per «l’inaspettata presenza». Occupando la fascia populista, Berlusconi affronta corpo a corpo Beppe Grillo e lascia il centro e la sinistra davanti a una prateria di consensi e a un dilemma, affollarsi contro riforme, rigore e sviluppo o proporre agli elettori responsabilità? Quanto a Monti, Berlusconi non l’ha investito in prima persona, vuol mantenere almeno un buon livello diplomatico. Tocca adesso al presidente del Consiglio decidere se navigare sotto costa o chiamare la maggioranza a una verifica, senza farsi logorare. Vedremo. Ieri a Villa Gernetto era autunno, ma il conto alla rovescia verso primavera correva rapido tra gli alberi scuri. twitter @riotta da - http://lastampa.it/2012/10/28/italia/politica/il-cavaliere-fa-il-grillo-nella-villa-a-sei-stelle-AnqHDPvpIB51kn4uXGt5HK/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Ma con Barack c’è solo mezza America Inserito da: Admin - Novembre 03, 2012, 12:09:36 pm Editoriali
03/11/2012 Ma con Barack c’è solo mezza America Gianni Riotta Alla vigilia del voto di martedì 6 novembre, la sfida per la Casa Bianca tra Barack Obama e Mitt Romney è dove è rimasta per l’intera campagna elettorale, poco avanti il Presidente democratico, soprattutto negli Stati cruciali, vedi Ohio, un’incollatura dietro l’ex governatore repubblicano. Sarebbe però un errore concludere dunque che «nulla è cambiato». Barack Obama, eletto da una nuova generazione nel 2008, campione carismatico, laureato in fretta col Nobel per la Pace, elogiato in libri e opere d’arte, anche vincendo uscirà dalla gara ridimensionato, «normale Presidente» a rischio bocciatura come Carter ’80 e Bush padre ’92. Ha sì controllato la crisi e lanciato la riforma sanitaria, ma senza ispirare unità o forzare alle intese i repubblicani al Congresso. Romney ha cancellato l’immagine di estremista preda dei Tea Party che la poderosa macchina democratica voleva affibbiargli. Governatore del progressista Massachusetts ha approvato una riforma sanitaria copia di quella di Obama, anatema a destra, e in politica estera offre solo una versione «effervescente» delle idee del Presidente. E’ forse il suo piano fiscale, meno tasse, meno spesa pubblica ma più spesa militare, a lasciare perplessi gli elettori moderati, specie se non abbienti, donne, emigranti. L’eclisse di Obama, da profeta a politico incapace di riscaldare il cuore dell’americano medio, Joe Six Pack, preoccupato dal salario medio di 50.000 dollari l’anno che scende per i nuovi assunti a 30.000, e la rimonta di Romney da capitalista duro dei licenziamenti a centrista, non sembrano però ribaltare ancora la scena. I sondaggi di Nat Silver, il sito realclearpolitics, assegnano 7 possibilità su 10 ai democratici. Il paradosso si spiega analizzando i dati sulla disoccupazione, diffusi ieri, 171.000 nuovi posti, tasso che scende a 7,9%, un modesto 0,1 sotto la cifra di 8% che, per tradizione, elimina i Presidenti. L’economista James Marple, in una sintesi che dovrebbe far riflettere in Europa, dice «Lasciate perdere i profeti di sventura. L’economia Usa dimostra un’incredibile grinta davanti a guai seri. Malgrado restino dubbi acuti sul destino dell’abisso fiscale e con l’economia globale in panne, l’America genera lavoro a ritmi rispettabili». Se martedì anche Obama si unirà ai 171.000 e terrà il posto di lavoro, si dovrà a questi numeri e a niente altro. Il carisma fu sigla 2008, il tasso di disoccupazione a 7,9, lo stimolo economico della Federal Reserve di Bernanke e il piano di salvataggio dell’auto, le sigle 2012. Guardate lo Stato dell’Ohio, che da mezzo secolo vota il Presidente vincente. Tutto quello che so dell’America, tutta la tradizionale analisi politica di maestri come David Broder a Bill Schneider, lascerebbero ipotizzare un Presidente in difficoltà tra i riottosi elettori di uno degli ultimi laboratori di manifattura Made in Usa. Invece Obama in testa, Romney arrancante: perché? Perché, come il Michigan vive di General Motors, Ford e Chrysler, l’Ohio vive di indotto auto. Il piano di Obama significa disoccupazione «solo» al 7% e difesa di 150.000 posti «auto motive». Nel 1990 gli operai erano in Ohio 1.100.000, oggi sono rimasti in 657.000. Molti ascoltano volentieri gli appelli di Romney e del suo candidato vicepresidente Paul Ryan a ridurre tasse e spesa, lanciando start up, li condividono magari. Ma quando guardano a mutuo, salario che non cresce, figli da mandare al college, pensano che il grigio status quo di Obama e Bernanke – per ora - sia rassicurante. Giudizi da metalmeccanico dell’Ohio al coffee shop, condivisi però dal premio Nobel per l’economia del Mit Peter Diamond e dalla firma del «Financial Times» Martin Wolf con lo slogan geniale «Negli Stati Uniti la disoccupazione è una “crisi”, il debito pubblico un “problema””. Obama ha parlato, sia pur con tono accademico, di “emergenza lavoro”; Romney, non estremista e rassicurante in tv, s’è però concentrato sul “problema debito”, senza chiarire come tagli alle tasse, modesti tagli alla spesa sociale e robusto incremento alla spesa militare possano risolverlo. Secondo l’antico proverbio di buon senso yankee “First things first”, un guaio alla volta, gli elettori, soprattutto indipendenti e moderati, pensano oggi alla “crisi lavoro”, domani al “problema debito”». La campagna, costata la fantastica cifra di sei miliardi di dollari (4,6 miliardi di euro), è in queste ultime ore affidata agli esperti di statistiche e Big Data, che – la cosa forse divertirà i lettori - applicano alla politica i metodi di calcolo informatico creati per il baseball, come nel film «L’arte di vincere». Nate Silver, blogger dell’austero «New York Times», s’è fatto le ossa sui risultati delle partite al «Baseball Prospectus». Potete accecarvi per ore su curve e diagrammi, il risultato, nazionale o stato per stato, cambia poco, Obama ha qualcosa in più di 3 chance su 4 di vincere, l’ultima va a Romney. I politologi scettici, Brooks, Scarborough, Podhoretz, ridono: «Se vince Romney, quelli alla Nat Silver tornano al baseball». Sciocchezze, «probabilità» non è «certezza», ma voi non prendereste mai un aereo che ha una chance su 4 di cadere, mentre vi precipitereste a comprare biglietti di una lotteria con una chance su 4 di vincere. Queste dunque le probabilità estreme. Le certezze, per Obama o per Romney, sono i guai a venire: lavoro da creare; innovazione e produttività, migliori che in Europa, ma da sostenere; il «problema» debito pubblico che si farà «crisi» se non affrontato; un buco nella domanda interna, che malgrado consumatori «cicala», resta vertiginoso; la disuguaglianza sociale che non mobilita intorno a Occupy Wall Street, ma vede giovani e ceto medio perdere potere d’acquisto e status sociale; Washington politica polarizzata e incapace di negoziare accordi tra Casa Bianca e Congresso. Alla fine il piano Obama-Bernanke sembra più realista e meno ideologico dell’appello al mercato di Romney: pesa sull’elettorato la consapevolezza che nessun repubblicano vota per un aumento delle tasse dal 1990, una generazione intera. Ma, come ha scritto il vecchio Richard Cohen sul «Washington Post», «chiunque si fosse illuso di riconoscere in Obama il nuovo Bob Kennedy ha fatto in tempo a ricredersi». Il paragone è ingiusto per il giovane Presidente, l’America è ormai divisa, mancano luoghi di vita sociale comuni, come erano una volta scuole, esercito di leva, campi da gioco, quartieri popolari. Cittadini dell’economia digitale e Cittadini della vecchia economia non si incontrano neppure più, se non per strada. Obama aveva fatto sperare non in un abbraccio, ma almeno, nel dialogo fra le Due Americhe. Ha fallito. Sarà forse rieletto, ma da una sola metà, la democratica. Quest’anno non si sogna, si contano dollari, lavoro, «bills», bollette da saldare ogni fine di mese. Twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/2012/11/03/cultura/opinioni/editoriali/ma-con-barack-c-e-solo-mezza-america-zlH7dv0pGju8AAqEITLXOL/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Barack o Mitt: chiunque vinca camminerà sull’abisso fiscale Inserito da: Admin - Novembre 07, 2012, 04:12:23 pm Presidenziali USA 2012
06/11/2012 Barack o Mitt: chiunque vinca camminerà sull’abisso fiscale Il nuovo Presidente si troverà di fronte ai mille miliardi del deficit pubblico Gianni riotta New York Sarebbe molto diversa l’America del presidente numero 45, Mitt Romney, da quella del presidente rieletto, il 44, Barack Obama? Si direbbe di sì a leggere la dichiarazione, che tradisce troppa adrenalina di fine campagna, del candidato vicepresidente repubblicano Paul Ryan «quella di Obama è strada pericolosa, aumenta il peso dello stato, restringe libertà e diritti civili, compromette i nostri valori giudeo-cristiani di paese grande e unico». Ryan non è felice, Romney l’ha lasciato in panchina con il suo piano per la riduzione di tasse, spesa e debito. Sa che il voto nazionale dà ancora alla pari i repubblicani, sa che Obama sembra in vantaggio negli stati chiave – vedi Ohio – e medita la statistica maledetta che lo fa tremare: dal 1900 dei 28 candidati vicepresidenti sconfitti solo nove tornarono poi in corsa per la Casa Bianca ma uno solo eletto davvero, Franklin Delano Roosevelt. Ryan esagera, non è in gioco la radice occidentale, ebraica e cristiana d’America. Ed esagera anche l’ex presidente Bill Clinton, che dimentica di avere definito Romney «ottimo manager», e arringa all’ultimo comizio. «I repubblicani vogliono cancellare ogni progresso!». Guai e opportunità d’America resteranno simili, giuri a gennaio il «44» Barack o il «45» Romney. L’economia migliora, pur troppo piano, un rapporto di Wall Street sintetizza: «Comunque vadano le elezioni l’economia crescerà nei prossimi quattro anni. I consumatori tornano a comprare dopo avere ridotto il debito personale ai minimi dal 2003. I prezzi delle case risalgono dopo il meno 30 per cento dal record 2006. Le banche concedono prestiti dopo avere puntellato il capitale per oltre 300 miliardi dal 2009. Il boom dello “shale gas” continua». Tutto bene dunque? No, il deficit di un trilione di dollari è considerato dagli esperti del Council on Foreign Relations, «insostenibile», bisognerà ridurlo, ma come, visto che Casa Bianca e Congresso non sanno mai né contrarre le spese, né aumentare le tasse e neppure discutere insieme? La campagna di Obama s’è giocata sul lavoro, crearlo, e spendere con la Federal Reserve, la Banca Centrale di Bernanke, perché tecnologie e Cina non lo dissolvano. La campagna di Romney su meno tasse, meno spesa (tranne per la Difesa), lotta al deficit. Wall Street ha appoggiato i repubblicani, sedotta dalla sirena di tagli alle tasse e spaventata da più pressione fiscale su profitti e investimenti. Obama non è riuscito a farsi apprezzare, né dai grandi finanzieri di Wall Street né dai proprietari di negozietti «pop and mum», giudicato da tutti anti-business. E contro di lui, sostenuto dalle minoranze e non dai bianchi riaffiora sinistro il razzismo. Guardate le grazie concesse ai condannati dalla Casa Bianca: Reagan ne concedeva una ogni 3 suppliche, Clinton una ogni 9, G.W. Bush una ogni 33, Obama è il più arcigno di tutti, solo una grazia ogni 50 suppliche. Vuol rivelarsi duro, ma non basta purtroppo. Studi di Market Watch e della Barclays, un po’ scolastici, prevedono che chi possiede azioni tifi Romney, chi titoli di stato Obama ma la tenuta di Wall Street e bond Usa dipende invece da fattori globali che la Casa Bianca non gestisce. È sì possibile una ripresa della Borsa se i repubblicani vinceranno, soprattutto per titoli finanziari, assicurativi, cui Romney ha promesso la fine di controlli severi, forse della stessa riforma Dodd-Frank la più tosta dagli anni Trenta: ma potrebbe rivelarsi effimera, poi la realtà detterà i numeri. A cominciare da Capodanno 2013 quando scatterà il cosiddetto «abisso fiscale», tagliola legale che potrebbe innescare riduzioni di spesa per 600 miliardi di dollari e alzare le tasse, per contribuenti e aziende, per effetto del Budget Control Act 2011. Si rischia, secondo la Federal Reserve e il Congressional Budget Office, «una nuova recessione». Partiranno anche le tasse per la riforma sanitaria di Obama, mentre tagli automatici colpiranno un migliaia di programmi di spesa, da Medicare al Pentagono. Investitori guidati da Black Rock e da importanti fondi pensioni hanno comprato pagine intere di pubblicità ieri ammonendo sul rischio «abisso fiscale». Come sempre, scoppiati i palloncini rossi e blu della campagna, la festa si spegne. Obama dovrebbe finalmente aprire a business e mercato, ma l’appoggio dei tantissimi sindacati, cruciali in Ohio con la ridda di sigle AFL-CIO, AFSCME, NATCA, TWU, AFT, UFCW, IUPAT, andrà ripagato. E Romney scoprirà come faticosa sia la strada per bocciare la riforma sanitaria di Obama, specialmente se il Senato resterà democratico. E poi Siria, Afghanistan all’ultimo anno di guerra, Cina che elegge i nuovi leader in questo storico novembre, Europa stanca di debito e desiderosa di leadership. A guida democratica o a guida repubblicana l’America, per fortuna, resterà l’America. Chissà se Obama e Romney, nei migliaia di chilometri macinati in Ohio, hanno mai avuto modo di passare a Youngstown, tra Pittsburgh e Cleveland, dove l’Istituto Namii brevetta «printer a 3 dimensioni» capaci di «stampare» oggetti a partire da un semplice disegno al computer. Sarà la nuova rivoluzione industriale, non più prodotti di massa, ma oggetti singoli, ad hoc per un solo cliente come nell’antico artigianato, pezzi unici riprodotti per voi, anche a casa vostra, su vostro desiderio. La capacità di «stampare futuro» nell’antico paese è la speranza d’America, guidino i repubblicani o i democratici, come già tante volte in oltre due secoli di democrazia. Twitter @riotta DA - http://lastampa.it/2012/11/06/esteri/speciali/presidenziali-usa-2012/barack-o-mitt-chiunque-vinca-camminera-sull-abisso-fiscale-szKmV7x3WCnqgNBypIa2ON/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - America, un Paese che insegue l’Unità Inserito da: Admin - Novembre 07, 2012, 04:15:33 pm Editoriali
07/11/2012 America, un Paese che insegue l’Unità Dopo un anno di risse la Casa Bianca dovrà cercare di riconciliare un paese diviso Gianni Riotta L’America è divisa e chiunque abbia diritto da gennaio al titolo di Presidente dopo le elezioni costate 6 miliardi di dollari e seguite in diretta tv e web nel mondo non saprà unirla. La divisione tra il presidente uscente Barack Obama, democratico, e l’ex governatore del Massachusetts e uomo d’affari repubblicano Mitt Romney, è presentata spesso come una novità, seguita alla «guerra culturale» tra conservatori a progressisti. Il paese è «polarizzato», si dice, da radio talk show revanscisti alla Rush Limbaugh, reti di destra alla Fox News e di sinistra alla Msnbc, blog vicini ai movimenti anticapitalistici Occupy Wall Street e cortei pro business Tea Party, perfino il liberal New York Times si radicalizza come il liberista Wall Street Journal. La tensione è tanta che migliaia di avvocati, convocati da repubblicani e democratici, hanno fatto la notte in bianco in cerca di eventuali brogli e per presentare subito ricorsi. Alla fine della campagna tante le voci di rimpianto per un Paese unito, con interessi nazionali condivisi, culture diffuse, senza la frattura che il nuovo Presidente dovrà affrontare. Ma è così? Davvero nel passato gli Stati Uniti d’America erano meno polarizzati? No. Nel XIX secolo gli Usa non apparivano certo Paese unito, sanguinosa Guerra Civile tra Nord e Sud a parte. Jules Verne, autore del popolare romanzo «Il giro del mondo in 80 giorni», quando fa finalmente approdare in America l’eccentrico gentleman inglese Phileas Fogg, lo lancia subito in una terribile rissa elettorale tra i militanti di due candidati, Kamerfield e Mandyboy, così scatenata che il protagonista viene aggredito e chiede perplesso a che carica i due concorrano: «Giudice di pace!» si sente ribattere. L’America divisa del dopo voto vagheggia la sua immaginaria, e inesistente, unità, ma già per i nostri antenati era nazione pronta a fare a cazzotti per eleggere un giudice di pace, figuratevi un Presidente. Lo Stato dell’Ohio, che dal 1960 vota come l’America, è celebre per detenere le chiavi della Casa Bianca, 11.536.504 abitanti, poco meno di sei milioni di elettori, una contea, Hamilton County nel primo Distretto, che premia G. W. Bush con appena il 51%, poi Obama col 55%, fulcro della leva politica. Ma se riguardate la storia antica dell’Ohio trovate una sorpresa dietro la tradizione operaia, la terza manifattura d’America erede di Standard Oil dei Rockefeller, dei fratelli Wright pionieri dell’aviazione, della Procter&Gamble. La sorpresa è la divisione ancestrale dell’Ohio, raccontata da Michael Barone nel suo formidabile classico «The Almanac of American Politics». In origine lo Stato, disegnato a tavolino dopo la Rivoluzione, venne colonizzato a Nord da fieri yankee venuti dal Nord Est, soprattutto dal Connecticut, e a Sud da eredi delle famiglie della Virginia. Yankee col pallino dell’industria contro «Butternut», sudisti legati ai campi, mai andati d’accordo, divisi anche durante la Guerra Civile. La «guerra culturale» delle due Americhe non è dunque fenomeno dei talk show in tv o dei blog arrabbiati sul web. Populismo, paranoia, tolleranza, riforme, avventura, individualismo e comunità si sono sempre affrontati con foga. Il New Deal del presidente Roosevelt fu contrastato passo passo dalla Corte Suprema conservatrice, gli intellettuali cari al democratico Stevenson detestavano Eisenhower, l’ultima visita di Kennedy a Dallas fu preceduta da minacce di morte dei razzisti, nel 1968 e 1972 le Convenzioni furono bolge politiche, Nixon odiava ed era odiato dai suoi avversari, Reagan - che pure come Clinton sapeva unire - era irriso nei campus nobili delle università Ivy League, contro Clinton i repubblicani lanciarono una violenta campagna culminata nelle richieste di impeachment. La mezza America che ha amato George W. Bush ha odiato Obama, e viceversa. Barack Hussein Obama ha dichiarato di volere riunire il Paese nei suoi bei libri, ma alla fine la politica ha prevalso e ha dovuto mobilitare solo la base, sperando nei 270 voti elettorali del Collegio che assegna, arcaico, la vittoria al Presidente americano. Romney ha scommesso sulla destra per ottenere la nomination in primavera, poi pian piano ha recuperato l’aplomb centrista, sperando nel paradosso di unire estremisti e moderati, tradizionale coalizione repubblicana cara a Bush padre e così fuori moda oggi. La divisione profonda che il nuovo Presidente dovrà affrontare non è colpa dei media, vecchi o nuovi che siano. Scaturisce da interessi diversi, culture opposte, desideri inconciliabili. I repubblicani che mandano i figli a scuola privata, si curano con assicurazioni sanitarie private, vivono in «gated community» dove si entra solo mostrando i documenti e pagano la propria pensione autonoma, trovano ingiusto pagare le tasse, perché non hanno più dallo Stato servizi sociali comuni. I democratici che vivono di questi servizi, dalla scuola alla sanità alla pensione, temono ogni taglio alla spesa. L’esercito professionale è raro ponte tra le due comunità, i repubblicani presenti con le famiglie tradizionali del Sud, i democratici con i figli delle minoranze povere e urbane. Le due coalizioni che si sono scontrate ieri non potrebbero essere più diverse, con Romney maschi bianchi sia ricchi che lavoratori, il ceto medio, Wall Street, l’America rurale, le piccole e medie imprese; con Obama le metropoli delle due coste, i tecnocrati del digitale, le minoranze dagli afroamericani agli ispanici, gli intellettuali e Hollywood, gli operai salvati dal piano auto, i sindacati di scuola e fabbrica. In mezzo le comunità incerte, cattolici, asiatici, anziani e pensionati, professionisti. Se i dati dell’ultima ora si confermano, i democratici dovrebbero tenere il Senato e i repubblicani la Camera: ma, ammonisce la Banca Centrale, davanti all’emergenza lavoro, al dilemma di deficit e debito pubblico e al «fiscal cliff», i tagli automatici alla spesa per 600 miliardi di dollari che scatteranno a Capodanno 2013, la fragile ripresa economica potrebbe essere a rischio. Chiunque sieda a gennaio alla Casa Bianca dovrà allora riaprire il Rapporto sulla politica fiscale redatto dalla Commissione indipendente Simpson-Bowles che Obama ha elogiato e poi, sbagliando, dimenticato sul tavolo. Ancora oggi la capacità di innovazione tecnologica e sociale d’America non ha pari nel mondo ma un equilibrio fiscale, sociale, di comunità resta indispensabile: vedi le emergenze clima da Katrina a Sandy. Anche oggi le Americhe restano due, ciascuna con i suoi torti e ragioni, ma il Presidente deve essere interprete tra clan, non limitarsi a guardare la scazzottata tra i militanti di Kamerfield e Mandyboy, come lo scettico Fogg nel Giro del Mondo. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2012/11/07/cultura/opinioni/editoriali/washington-presidente-cercasi-per-rimettere-insieme-l-america-bw69BN7Y0z76tKCDPAq6qN/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - I segreti del team di Obama Inserito da: Admin - Novembre 08, 2012, 11:22:00 pm Esteri
08/11/2012 - I segreti del team di Obama Come un mago del baseball ha scoperto la nuova America Al maxi centro congressi di Chicago esplode la gioia del nocciolo duro dei sostenitori di Obama che hanno lavorato per la sua vittoria Il blogger sondaggista del New York Times ha ispirato gli strateghi democratici Gianni Riotta New York Alle sei del mattino, dal buio seminterrato che ospita la redazione del canale tv Fox News, azzimato in un cappotto nuovo, esce sul marciapiede di fronte al leggendario teatro Radio City Music Hall Dick Morris, consigliere repubblicano, guru di Clinton, ora commentatore della rete conservatrice. E’ pensieroso, Morris, ha ripetuto tutta notte ai microfoni «Gli elettori han capito bene, il presidente Obama non ha messaggio, né idee e neppure una spiegazione di quel che ha fatto per quattro anni. Romney vincerà le elezioni con 325 voti elettorali, Obama 213». Sui teleschermi della buia newsroom, rossi e blu come bandiere, lampeggiano i veri risultati: 303 Obama, 206 Romney, i 29 punti della Florida, inutili, in attesa. A chi gli chiede ragione della sconfitta imprevista, Morris risponde con il sorriso di chi le ha viste tutte, «things change», le cose cambiano, e non sa forse che è il titolo di una deliziosa commedia di David Mamet sul corto circuito Potere&Caso. Come Morris, era certa del trionfo di Mitt Romney tutta la vecchia e intelligente guardia repubblicana. In diretta su Fox Karl Rove, l’uomo che portò per due volte alla vittoria G.W. Bush, ha imprecato sull’Ohio ad Obama, come tifoso al rigore negato. Alla Cnn, Peggy Noonan, soave scrittrice dei discorsi migliori di Reagan, «it’s morning in America», si fa giorno America, se la prende un po’ con Romney un po’ col destino. George Will, analista raziocinante dei conservatori, dava il successo a Romney 321 a 217. Che cosa è successo? E perché sul blog del New York Times, giornale liberal accusato di non avere il polso del paese, il blogger Nate Silver azzecca la previsione in 50 Stati su 50, dopo il già ottimo 49 a 50 del 2008? Per capire perché, dobbiamo tornare a primavera, quando - come conferma una ricostruzione del Wall Street Journal - il consigliere di Barack Obama, Jim Messina, si presenta al presidente e, facendo scattare dal computer una visualizzazione dati (attenti al linguaggio!, non una banale videografica, una visualizzazione dati, realtà che si fa immagini da guardare, Big Data), gli propone una strategia rivoluzionaria. Anziché attendere, come da tradizione, le Convenzioni per poi attaccare il rivale repubblicano, Messina persuade Obama a investire subito ogni risorsa in spot tv che accusino Romney di avere distrutto, alla testa della finanziaria Bain, posti di lavoro. L’idea di indicare Romney come un moderato travestito da estremista per ottenere i voti di destra è invece scartata, grazie all’ex presidente Clinton: «magari la gente crede sia davvero moderato no?». Mentre Romney non ha soldi per replicare agli attacchi democratici (la legge gli vieta di usare durante le primarie i fondi accantonati per il voto generale) Obama, a rischio di restare con le casse vuote a settembre, ne definisce la figura davanti agli elettori. Benché Romney vinca poi il primo dibattito tv, faccia una buona campagna e sia votato dalla stragrande maggioranza degli elettori bianchi, il blitz di Messina riesce. Tanti elettori vedranno Romney come disegnato da Obama e «il fiuto» degli esperti repubblicani si asciugherà, come il naso di un cane da caccia incimurrito. Perché Obama e Messina scommettono la Casa Bianca su un azzardo? Per capirlo dobbiamo lasciare Washington e volare a Chicago, dove, in un edificio anonimo, sorge il centro Big Data del presidente. Qui ragazzini computeristi «nerd» e server giganti che ronzano operosi vagliano i dati di milioni di americani, gusti privati, opinioni politiche, idee, opinioni, pregiudizi ed elaborano il messaggio politico a partire dalla loro realtà. Contea per contea, Stato per Stato, i sondaggisti costruiscono poi modelli per vincere, sommando le varie comunità e valutando le scelte di voto. Perfino i 700.000 volontari del 2008 sono intervistati e schedati, uno a uno, per capire cosa funziona e cosa no: Big Data. Lo stesso lavoro che Jim Messina fa a Washington e i ragazzi dello scantinato a Chicago, occupa a New York le giornate dell’eccentrico matematico Nate Silver, 34 anni, figlio di un politologo e una militante comunista, statistico che s’è fatto le ossa al blog sportivo Baseball Prospectus e ora interpreta sondaggi e Big Data per il New York Times, sul blog www.fivethirtyeight. Irriso dagli analisti tradizionali, «dopo le elezioni sarai disoccupato!», Silver assicura che guardare al voto nazionale è ormai inutile, tanto il Paese è diviso, serve piuttosto fare somme locali dei campioni di comunità. E calcola secchione: la «new coalition» di Obama è composta da giovani, minoranze, laureati, soprattutto donne, dottori di ricerca, città; Romney prevarrà tra gli operai bianchi (tranne che in Ohio grazie al piano auto), tra chi guadagna oltre 50 o 100 mila dollari l’anno, nella comunità finanziaria, tra i laureati maschi, nelle campagne e nei sobborghi. Silver stima, e Messina e i Big Data di Chicago si mobilitano di conseguenza. Dove la «new coalition» non è abbastanza numerosa, Obama parla ai sindacati, dall’Iowa al Wisconsin. Nell’anticipare la vittoria di Obama, Silver identifica la vera ragione dell’azzardo vincente di Messina. Il presidente è debole, la Camera resta ai repubblicani, i 600 miliardi di tagli di spesa dell’«abisso fiscale» scattano come ghigliottina a Capodanno, mettendo a rischio la ripresa economica. I democratici guadagnano però nella nuova America, votati da 9 afroamericani, 7 ispanici e 6,6 asiatici su 10. Messina conosce, via Chicago, i dati di Silver e scommette che più immigrati andranno al voto, esattamente il 28%. Così è martedì, troppi nuovi cittadini alle urne contro i repubblicani. Negli Stati dove la coalizione multietnica non basta, Virginia, Colorado, Nevada, Florida, Obama fa leva sulla paura di perdere il lavoro, e somma all’80% delle minoranze il 40% dei bianchi: pochi ma bastano, Big Data non mente. Il National Journal calcola i dati della fragilità del fronte Obama, primo presidente da Andrew Jackson, 1829-1837, a rivincere con una minor percentuale di voto popolare. Nel 2008 i bianchi diedero al repubblicano McCain +12% su Obama, martedì +20% a Romney. Meno bianchi in media han votato il vittorioso Obama dello sconfitto 2004 Kerry. I Big Data di Messina riportano Obama alla Casa Bianca, ma governare nella sfiducia del ceto medio sarà difficile. La riforma sanitaria, ad esempio, piace a 3/5 degli ispanici, 3/4 degli afroamericani ma 3/5 dei bianchi vogliono cancellarla subito. Romney avrebbe dovuto ascoltare meno gli arguti intellettuali conservatori e - come faceva ai tempi di Bain - masticar numeri. Non basta ai repubblicani vincere un record, 3/5 del voto bianco, per avere la Casa Bianca. Nessun candidato Gop dal 1988 supera il 50,8% del voto popolare, una vasca di consensi che si vuota. Nel 2004, quando i Big Data debuttavano, per tutto il martedì elettorale i sondaggi indicavano Kerry vincente. Vinse Bush, perché l’alacre Rove mobilitò a sorpresa la base cristiano-fondamentalista, che era fuori dal campione. In otto anni il campione e l’informatica si sono raffinati, i Silver son cresciuti, il colpo gobbo di Rove è ormai impossibile. O i repubblicani imparano a riconoscere dai numeri la nuova l’America, parlando alle minoranze etniche senza durezze, alle donne senza confondere aborto e contraccezione, o finiranno nell’angolo come i democratici dal 1968 al 1992. Nell’alba grigia della sconfitta Morris non perde il sorriso ma medita: ai repubblicani servono nuovi numeri, nuove idee, nuovi leader. Come ad Obama serve nuova capacità di dialogare col Congresso diviso, se non vuol finire presidente vincente e dimezzato. Tutti guardano con reverenza alla nuova macchina della verità, i Big Data, capaci di svelare il Dna politico del Paese a chiunque abbia l’umiltà e l’intelligenza di studiarli. In America oggi, in Italia domani. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2012/11/08/esteri/come-un-mago-del-baseball-ha-scoperto-la-nuova-america-dfXwbWGaKFhxP2iwtpjgYP/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Obama in viaggio nel futuro Inserito da: Admin - Novembre 18, 2012, 03:13:22 pm Editoriali
18/11/2012 Obama in viaggio nel futuro Gianni Riotta Un rapporto dell’Ocse calcola che da qui al 2060 la Cina produrrà il 28% del Prodotto interno lordo del pianeta Terra contro il 17 di oggi, gli Stati Uniti scenderanno dal 23 del 2012 al 16%, l’India dal 7 salirà al 18%. Per avere un’idea del mondo che il presidente Barack Obama incrocerà nel viaggio verso il Sud Est asiatico, India e Cina hanno oggi insieme un’economia che pesa meno della metà degli orgogliosi paesi industriali G7. Nel 2060, l’era dei nostri figli e nipoti, l’economia di Pechino e Nuova Delhi varrà più di una volta e mezzo del G7. Bastano questi numeri (rapporto Ocse completo http://goo.gl/NyoMQ ) per comprendere come ad Oriente sorga davvero l’alba del XXI secolo. Del primo mandato di Obama gli storici ricorderanno la «svolta verso il Pacifico» come la scelta strategica centrale. La vocazione di Washington in Asia, antica come la flotta del commodoro Perry che nel 1854 con la Convenzione di Kanagawa aprì il Giappone alla modernità, è destino della prossima generazione. La forza cinese, con la nuova leadership del partito determinata a pesare anche militarmente come deciso dal presidente uscente Hu Jintao, spaventa i vicini. Il Vietnam guarda agli Usa, già acerrimi nemici, per protezione. I marines sono di stanza in Australia. Il Giappone coordina manovre navali e aeree col Pentagono. In ogni capitale asiatica si fanno le formazioni, dopo il congresso del Pc cinese: dei candidati al Politburo i riformisti Li Yuanchao e Wang Yang restano in panchina, mentre i conservatori Zhang Dejiang e Liu Yunshan sono convocati. Gli altri cinque, da Xi Jinping, futuro presidente, a Li Keqiang, Zhang Gaoli, Yu Zhengsheng e Wang Qishan hanno poco nel curriculum che li indichi come i «Gorbaciov» della trasparenza cinese. E’ il tipo di missione che il Presidente appena rieletto predilige, dove rischi e opportunità vengono dal futuro, non dal passato. Il mondo delle sue origini e infanzia, Africa e America, Hawaii e Indonesia, è quello in cui si sente a proprio agio per visione e cultura. Mentre è in imbarazzo, o distratto, davanti alle ancestrali faide del Medio Oriente, Israele, Egitto, Palestina, Siria. Una regione, ai suoi occhi, anchilosata in una perenne vendetta, mentre il futuro avanza dalla Cambogia alla Thailandia. Anche in Asia, però, il Presidente si imbatterà in insidie e pericoli. Per anni gli studenti americani hanno firmato petizioni a sostegno della premio Nobel per la pace birmana Aung San Suu Kyi, costretta agli arresti da una giunta militare sostenuta da Pechino. Quando il paese ha avviato caute riforme, liberando la signora Suu Kyi, sono riemerse però antiche fratture: nello Stato del Rakhine forze di sicurezza ed estremisti buddhisti hanno riacceso un clima di violenza, vittime i musulmani. Un rapporto del Council on Foreign Relations denuncia come alle organizzazioni internazionali, Medici senza Frontiere per esempio, sia stato impedito di soccorrere migliaia di rifugiati. La guerra civile incendia anche lo Stato di Kachin, imbarazzando il presidente Thein Sein. La Nobel per la Pace finora non è intervenuta contro le violenze, ma dovrà presto esporsi per evitare imbarazzanti omertà. Né Obama troverà pace in Thailandia, dove il re è ammalato e Yngluck Shinawatra e suo fratello Thaksin non riescono a fermare la corruzione, né a isolare le proteste del movimento Pitak Siam. Insomma il maggior alleato di Obama in Asia sembra la paura della Cina e il sogno di sviluppo economico. Perché, se India e Cina vantano tassi formidabili di crescita negli ultimi 20 anni, centinaia di milioni di loro cittadini stentano ancora a trovare uno standard di vita decente. Nel 2060 Pechino e Nuova Delhi saranno officina del mondo, ma il reddito pro capite in Cina resterà appena il 59% di quello americano e in India un assai modesto 27%. Nella valigetta diplomatica di Obama è ancora l’innovazione il bene più prezioso, quello che fa degli Stati Uniti i leader del presente e del futuro. Un paese irriverente, dove l’anticonformismo è incoraggiato non emarginato come in Asia, dove rompere le regole della produzione e della cultura può ricevere premio, non castigo. Dove ci sono istituzioni come il Media Lab all’Mit dove solo idee «strane» sono accolte e sperimentate, stile che gli ingegneri del Politburo a Pechino non solo non amano, ma temono. Per questo Obama va in Asia con entusiasmo e un po’ di magone. Felice di una rielezione mai scontata, concentrato sul futuro che gli è caro e in cui crede di poter pesare al contrario che in Europa e Medio Oriente, preoccupato per l’affaire Petraeus. Con la sua sub cultura di pettegolezzi e volgarità, dame scalatrici sociali, vestite alla moda e scolpite dalla chirurgia plastica come cloni della modella Kim Kardashian, e ufficiali di mezza età, depresse Madame Bovary con le stellette e la divisa. Con l’Fbi cui basta nulla per aprire la mail del capo della Cia, e repubblicani e democratici al Congresso pronti a reciproche calunnie sull’esito infelice del raid al consolato Usa a Bengasi. Lo stesso paese che sa di poter essere il più ricco tra mezzo secolo, cui gli ex nemici guardano con speranza, che vanta leadership tecnologica senza rivali, si perde in intrighi non da bassa corte degli Annali di Tacito, ma da serie televisiva americana dei Borgia, sesso, corruzione, potere e banchetti lascivi. Felice di essere leader del mondo, Barack Obama parte a testa alta, ma passerà ore sui dispacci della pochade Petraeus: perché tanti scandali americani cominciano da sciocchezze e poi bruciano nel loro falò i giganti di Washington. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2012/11/18/cultura/opinioni/editoriali/obama-in-viaggio-nel-futuro-44hSxYQ6Mf85zm0KFpkocI/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Ciechi e sordi a Bruxelles Inserito da: Admin - Novembre 24, 2012, 05:38:57 pm Editoriali
24/11/2012 Ciechi e sordi a Bruxelles Gianni Riotta Sarebbe bello convincere il Museo di Capodimonte, a Napoli, a prestare per qualche tempo la tela di Bruegel, «La parabola dei ciechi», 1568, a una galleria di Bruxelles, così che i leader europei possano ammirarne la tragica dinamica, gli sfortunati in fila a reggersi a vicenda, tutti prossimi a precipitare in un crepaccio secondo i versetti del Vangelo di Matteo (XV, 14) «Se un cieco guida un altro cieco, ambedue cadranno nella fossa». Dopo l’esito infelice del summit europeo sul bilancio dell’Unione, la confederazione dei paesi del Nord guidati dalla cancelliera Merkel con Olanda, Finlandia e Londra in panchina, potrà sostenere che il cieco capofila siano i paesi latini, Spagna, Francia e Italia. Il presidente francese Hollande potrebbe - davanti ai poveri ciechi fiamminghi che insieme vagolano senza direzione - accusare invece i «rigoristi» di non saper trovare la strada giusta: alla fine poco importa. Quel che davvero conta è che l’Europa, con la disoccupazione giovanile crescente e una generazione intera ormai «senza-lavoro», con l’innovazione che langue, la crisi del debito contenuta dalla Bce di Draghi ma latente e le sfide del mondo ribollente, dalla nuova Cina al vecchio Medio Oriente, rinvia le scelte, tira a campare, guadagna tempo. Ha ragione il presidente del Consiglio italiano Mario Monti, che ha tenuto duro contro la rigidità fiscale tedesca spacciata per «rigore» ma in realtà solo blandizie agli elettori teutonici, a dire «Non aver raggiunto un accordo non pregiudica nulla… Il risultato non c’è stato, non è la prima volta e non sarà l’ultima. È successo altre volte che l’accordo sul bilancio settennale non sia stato chiuso al primo tentativo, non bisogna stupirsi» perché «Si tratta di un lavoro fondamentale, di grande complessità e dovremmo essere in grado di colmare le distanze esistenti». Non è una catastrofe, il bilancio dei sette anni si raggiungerà, Nord e Sud troveranno l’intesa. Noi speriamo prevalgano le ragioni di Monti e Hollande, e se qualcuno sospetta che in questo auspicio ci sia campanilismo da Europa meridionale, farebbe bene a rileggere l’editoriale del New York Times, foglio poco «latino» si direbbe: «Da almeno un anno la cancelliera tedesca Merkel spinge in modo distruttivo i partner a una politica che prolunga la recessione, perché i tetti rigidi ai deficit negano ai paesi quella flessibilità fiscale che, in certe fasi, è necessaria a rilanciare la crescita». Semplice teorema di politica economica che il giornale liberal di New York, il socialista Hollande e il liberale Monti possono condividere, perché corroborato dalla realtà. L’accordo verrà, certo: ma il giudizio deprimente sul naufragio a Bruxelles è nello scarto tra leader europei ed emergenza dell’Unione, hic et nunc. Le piazze si incendiano a Madrid, Roma ed Atene, l’opinione populista sobbolle nei siti e nei talk show da Helsinki a Palermo, le menti migliori dell’ultima generazione ponderano se emigrare e lo Stato Maggiore dice compunto, Buon Natale cittadini, ci rivediamo a Carnevale. Gli estremisti accumulano rancore, i populisti cinismo, e come obiettare? La distanza tra le due fazioni era di 30 miliardi di euro, forte ma davvero impossibile da superare? Il bonario van Rompuy non si emoziona «Non c’è da drammatizzare», ed è vero se pensate che il problema sia il bilancio dei 7 anni. E’ sbagliatissimo se i problemi sono, come sono, i disoccupati, i cinquantenni rimandati a casa, il debito, la crescita disomogenea e flebile. C’è una flemma da circolo aristocratico incurante della piazza, un distacco da Bella Epoque che stucca. A riguardare le bozze di bilancio che van Rompuy computava con la pazienza del buon ragioniere, cascano le braccia. L’agricoltura, che già oggi assorbe le voci più esorbitanti del bilancio, avrebbe ricevuto 7,7 miliardi di euro in più (con effetti negativi per i contadini dei paesi poveri) e modesti effetti sull’occupazione. Il piano infrastrutture e broadband per internet perdeva 5,5 miliardi di euro, investiamo sul passato anziché sul futuro che moltiplica il lavoro. Hollande e Monti hanno difeso gli 11 miliardi di euro per le zone da promuovere, ma erano già caduti gli otto miliardi per ricerca e piccole e medie imprese, motore di crescita in Europa. Tanto per mandare un messaggio all’Africa, nostra vicina di Mediterraneo, al Medio Oriente, e ai paesi in via di sviluppo sono stati depennati i 5,5 miliardi di aiuti internazionali. L’Europa, fresca di premio Nobel per la pace, dice al mondo: Non ho spicci, ripassa in primavera. Infine, non c’è bisogno di essere Beppe Grillo, un ragazzo del 5 stelle o un’assatanata antikasta per deprecare che nel testo di van Rompuy non un centesimo fosse tagliato da stipendi e prebende dei funzionari, malgrado il gran parlare che si fa delle cantine colme di pregiato euro-vino. L’amarezza del fallimento del vertice non sta solo nei suoi esiti, un accordo si troverà. Sta nelle premesse, è come se alla maggioranza dei leader sfuggissero l’emergenza, l’urgenza, la drammaticità del tempo. Che richiede sì rigore fiscale e però anche investimenti, che impone di preservare la qualità della vita europea ma senza tagliar fuori i giovani. Nessuno chiede a un summit panacee impossibili: ma si poteva dimostrare a milioni di cittadini che le loro ansie sono, almeno, ascoltate. La sordità totale di Bruxelles, invece, spaventa, sdegna, alimenta rancori. twitter @riotta da - http://lastampa.it/2012/11/24/cultura/opinioni/editoriali/ciechi-e-sordi-a-bruxelles-wO18gNUySFFAVHH1sot1OO/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Le paure di chi ci guarda da fuori Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2012, 10:01:44 pm Editoriali
09/12/2012 Le paure di chi ci guarda da fuori Gianni Riotta Come vedranno fuori d’Italia, nel mondo delle cancellerie, dei mercati e degli «influencer» - i leader dell’opinione sul web -, la fine del governo Monti e le nostre prossime elezioni? A prima vista non ci sarà grande differenza con il 2008. Allora l’ex premier Berlusconi rappresentava il centrodestra alleato alla Lega Nord di Bossi, contro Veltroni, leader del Partito democratico, il centrista Casini e la sinistra di Bertinotti a chiudere il quadro. Dopo un lustro di rivolgimenti, la fine del terzo governo Pdl-Lega, la stagione dei tecnici di Monti, le primarie Pd, sarà l’attuale segretario del Pd, Bersani, a candidarsi per il centrosinistra, la destra, per la sesta volta in 18 anni, verrà rappresentata da Berlusconi, Casini prova a rimotivare il centro, mentre la sinistra radicale cerca di rientrare in Parlamento con Vendola. Nella realtà la fine brusca di Monti, invano esorcizzata dal presidente Napolitano, muta il quadro a fondo. E chi l’ha favorita, rischia di passare da apprendista stregone. Ora si rischia infatti che unico elemento di novità appaia il Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo, che dopo il successo alle regionali in Sicilia è accreditato, nei sondaggi, di un pacchetto tra 100 e 120 deputati, tutti fedelissimi dell’ex showman. Le reazioni internazionali alle notizie di ieri sera mostravano già, pure a Borse chiuse, qualche nervosismo. The Atlantic, la rivista americana, legge nella parabola di Monti e nel mancato rinnovamento del centrodestra la stanchezza italiana, che rischia di far perder interlocutori a Casa Bianca e Unione Europea, nella difficile crisi economica e del debito europeo. Il giudizio personale su Bersani non è ostile, «un pragmatico» scrive il Financial Times, le perplessità riguardano l’ala sinistra di partito, sindacato e coalizione: riuscirà il segretario, se eletto, a continuare le riforme o i radicali lo trascineranno nelle sabbie mobili come fecero con Prodi nel 1998 e nel 2008? In Italia, e sarà così anche nella fase conclusiva del governo Monti, il giudizio del mondo suscita due diverse, ed ugualmente errate, reazioni. Gli «Esterofili» trasformano ogni paragrafo del primo corrispondente di passaggio a Roma in Tavole del Giudizio di condanna apocalittica del nostro Paese, ignorandone successi, cultura, economia, manifattura e ricchezza. Gli «Esterofobi» dimenticano che il mondo conta, lo spread conta molto, le agenzie di rating saranno pure antipatiche come professoresse arcigne, ma come loro bocciano, e il giudizio dei leader alleati infine regala, o nega, opportunità. Se l’Italia è giudicata bene nel mondo arrivano fondi ed investimenti, altrimenti no, e non si perde un titolo simpatico sull’Economist, si perde lavoro per gli italiani. Oltre il provincialismo comune a Esterofili ed Esterofobi, è bene quindi che il «caso Italia 2013», non più garantito dalla credibilità super partes di Mario Monti, sia percepito all’estero con precisione, nella sua forza e nei suoi limiti, con i 1900 miliardi di euro di debito e i 9000 di ricchezza privata, con il 35% dei ragazzi senza lavoro e la seconda manifattura d’Europa, sesta del mondo. Perché, al di là di quel che appare, il voto 2013 è radicalmente diverso dal 2008, un copione teatrale inedito, malgrado i troppi attori veterani. Berlusconi 2008 raccolse la vittoria dopo il suicidio degli avversari. Berlusconi 2013 è reduce dal suicidio del suo governo, e si arrocca con la Lega di Maroni, contando su un 20% dei voti, che – come indicano gli studi elettorali del professor D’Alimonte - può innescare un’impasse al Senato, grazie a Lombardia, Veneto, Piemonte e Sicilia. Sa di non poter vincere, vuol pareggiare e poi trattare. Anche Bersani conduce una partita diversa da Veltroni cinque anni or sono. Allora il segretario Pd, conscio di non poter prevalere, ottenne un lusinghiero risultato e propose al centrodestra il «dialogo» che i falchi Pdl rifiutarono, pentendosene nei giorni dell’avvento di Monti. Ora il segretario del Pd è accreditato da sondaggi che gli schiudono chance di vittoria, dopo la brillante campagna di primarie con Matteo Renzi. Il suo problema – davanti al mondo - è provare che, dopo vent’anni di travagli, la sinistra italiana è finalmente capace di vincere e governare per una legislatura senza psicodrammi, completando le riforme. Non si chiede a Bersani di guidare un Monti bis mascherato, ma di restare il liberalizzatore del 2006. Anche Casini ha una parte diversa da recitare. Dopo la scommessa di autonomia dal Pdl, deve mettere insieme tecnocrati e politici, in grado di dare al Pd un interlocutore serio al centro. Non è poco. Non si tratta, se davvero Monti uscirà di scena, di insistere con slogan del Monti bis, si tratta di imporre al Paese la filosofia riformista che, nei giorni migliori, ha animato il governo Monti. Nessuno, nei centri di studio e potere che contano, dal Council on Foreign Relations al Carnegie Endowment, dalla Casa Biancaall’Eliseo e Downing Street, chiede a Bersani e al Pd – in caso di vittoria - di adottare gli editoriali del Wall Street Journal come linea, né di indossare gli abiti di Monti. Si chiede di non ricadere nell’instabilità e restare partner credibili per Obama e Hollande, sulla linea della crescita a bilanciare i conservatori della cancelliera Merkel. Questo ruolo prezioso il professor Monti ha saputo svolgere, e questo ruolo i suoi eredi riformisti devono continuare a interpretare. Che l’Italia debba tornare a svilupparsi, che una generazione non debba schiattare di austerità, è chiaro agli alleati: senza però follie fiscali e innovando il Paese. Quando Bersani ha detto, nel faccia a faccia con Renzi, di non volere raccontare favole e che governare è anche «sorprendere», è sembrato davvero un «pragmatico». Per vincere le «primarie mondo» deve vaccinare con questa virtù partito e coalizione. Il centrodestra deve meditare sul suo isolamento: né i rigoristi alla Merkel, né i keynesiani alla Hollande-Obama contano sul Pdl come alleato. La diplomazia muta al mutar del vento, ma per ora il vento va così e non basterà un discorso per riaverlo nelle vele, come quando George W. Bush invitava Berlusconi a parlare al Congresso Usa, raro privilegio per leader amici. Anche Beppe Grillo ha la sua partita internazionale e, finora, l’ha giocata abilmente. Il suo consigliere Gianroberto Casaleggio ha incontrato Michael Slaby, Capo dell’innovazione e dei Big Data alla Casa Bianca, durante la sua missione ufficiale in Italia. Non un endorsement, ma almeno una cortesia per un movimento screziato di antiamericanismo, per esempio sull’Iran. I media internazionali, web o classici, adorano già Grillo, a partire dal primo, raggiante, ritratto del New Yorker. Piace il 5 Stelle nemico della corruzione, se ne leggono con distratta disinvoltura i programmi, il risultato è bonaria simpatia. L’Italia ha bisogno del mondo, alleati e investimenti. Ma il mondo ha bisogno dell’Italia, partner di stabilità nella faticosa uscita dalla crisi finanziaria 2008. Per questo la nostra scelta 2013 sarà seguita con attenzione in tante capitali, per questo dovremo farla con saggezza, lungimiranza e raziocinio. Ci sarà tempo per un giudizio storico preciso su Monti e i suoi tecnici. Avrebbero certo potuto essere più calorosi nei giorni delle emergenze del terremoto in Emilia e del naufragio della Concordia, Avrebbero a volte dovuto spiegare le riforme e le tasse con meno algoritmi e sussiego, con più visione e compassione. Ma se possiamo guardare alla primavera con preoccupazione e non angoscia si deve alla saggezza di Napolitano e all’aplomb di Monti e dei suoi. Nessuno può dimenticarlo se non vogliamo che il mondo veda nel 2013 italiano un grottesco festival di demagogia. Twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/2012/12/09/cultura/opinioni/editoriali/le-paure-di-chi-ci-guarda-da-fuori-D4cyyHRXinRVi5tG4x82LM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Sarà l’anno dei Big Data Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2012, 06:47:37 pm Cronache
24/12/2012 Sarà l’anno dei Big Data Dal secolo delle masse al secolo delle persone Gianni Riotta Sarà l’anno dei Big Data, i grandi dati, la mole immensa di informazioni, transazioni, acquisti, registri, che ciascuno di noi semina ogni giorno online. Parlando con gli amici su Facebook, seguendo la campagna elettorale su Twitter, facendo la spesa, a casa, in ufficio, lasciamo un segnale di noi, un dato. Ecco i Big Data, che hanno permesso al presidente Obama di rivincere la Casa Bianca, che danno a una compagnia aerea informazioni sui propri clienti, che informano del valore reale di un calciatore, di un parroco, di un prodotto. Immaginate la sterminata biblioteca di dati che il web custodisce mentre leggete queste righe: bene, nelle prossime 11 ore sarà raddoppiata, Internet si moltiplica per 14 ogni settimana. Chi controllerà i dati, come proteggere la privacy se ciascuno di noi li immette volontariamente nei social network? Sono preoccupazioni concrete, ma gli ecologisti, gli epidemiologi, i microbiologi analizzandoli possono salvare specie animali a rischio, curare malattie, vaccinare bambini. I dati e la teoria delle reti, come studiata da Albert-Làszlò Barabàsi, connettono politica, cultura, società a noi stessi, un uomo, una donna. Il secolo delle masse, il XX, lascia il posto al secolo delle persone, il XXI. Siamo tutti in reti globali, ma ciascuno ne è un nodo singolo, indipendente, orgoglioso. Per la Chiesa, i partiti, la scuola, le aziende tutto cambia: un giornale, una tv, un sito non si rivolgono più al «pubblico», ma studiando Big Data possono rivolgersi a ogni individuo, un singolo. I pessimisti pensano al Grande Fratello. Gli ottimisti delegano loro la democrazia digitale. Nella realtà saranno la vostra vita, e prima ne sarete padroni meglio sarà. da - http://lastampa.it/2012/12/24/italia/cronache/sara-l-anno-dei-big-data-dal-secolo-delle-masse-al-secolo-delle-persone-WCf2ty5kqJDcr9jkOvdIcK/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - L’abisso Usa che spaventa il mondo Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2012, 11:53:46 pm Editoriali
28/12/2012 L’abisso Usa che spaventa il mondo Gianni Riotta In America è il numero 13, non il 17, che porta sfortuna e spesso lo si cancella in ascensori, hotel aerei. Nessuno però sfuggirà, tra Capodanno e 4 gennaio 2013, alla iettatura che i giornali chiamano «fiscal cliff», abisso fiscale. O il presidente Obama e i repubblicani della Camera, guidati dallo Speaker John Boehner, trovano un accordo o scattano 600 miliardi di dollari (€ 460 miliardi) in tasse e tagli alla spesa automatici, inclusi 50 miliardi di dollari alla Difesa. Senza intesa, l’Ufficio del Bilancio stima una caduta del 4% nel prodotto interno Usa, il Paese che scivola in recessione, sei mesi con caduta libera fino a -2,9 nella crescita e solo da giugno a dicembre 2013 un lentissimo ritorno a un gracile +1,9%. Tutti gli americani, ricchi e poveri, pagheranno più tasse, tre milioni di disoccupati, da qui a marzo, perderanno i 290 dollari di sussidio settimanale, 25 milioni di lavoratori a basso salario non riceveranno più vari sussidi, da sanità a scuola. Otto milioni di bambini rischiano la povertà. Numeri che basterebbero a forzare democratici e repubblicani al tavolo della trattativa, se l’ideologia non irrigidisse tutti. I repubblicani non votano un aumento delle tasse al Congresso dal 1992, e quando lo Speaker Boehner ha proposto una timida apertura a più imposizione fiscale per i super ricchi, la base s’è rivoltata, minacciando la sua poltrona. Quanto basta perché un politico di oggi perda subito animo. I mercati e Wall Street hanno scommesso dapprima sull’accordo, giocando al poker delle previsioni, ora hanno paura e vanno in negativo. Obama ritorna in anticipo dalle vacanze alle Hawaii per aggiungere dramma alla situazione e mettere pressione ai rivali. Non bluffa: se il Paese si ribalta nell’«abisso fiscale» darà colpa ai repubblicani, per costringerli di più nell’angolo dopo la sconfitta di novembre. Anche la sua base ringhia, il «New York Times» lo considera troppo disposto a fare cessioni. Gli ultimi saggi moderati del partito che fu di Nixon e Reagan, senatori centristi, chiedono ai repubblicani di trattare, lo stesso Boenher vorrebbe, ma il giuramento «Mai Tasse» che lega troppi deputati ai radicali del movimento Tea Party, può rendere il 2013 anno sfortunato. La trattativa andrà avanti, tra accordi sottili e rotture, metà corte assurda di Bisanzio, metà sfida di pistoleri da Far West, e vedremo come si evolverà. Il lettore può già però trarne insegnamenti utili, perché se lo Zio Sam cade, sia un abisso o solo una botola fiscale, anche l’Unione Europea e l’Italia si faranno male. L’America in recessione, il caos a Washington, la rissa politica permanente dell’ultima potenza, non gioveranno nei prossimi 12 mesi, con il Giappone che prova nuovi equilibri politici, la leadership debuttante in Cina, Italia e Germania alla vigilia di difficili elezioni. La lezione americana, comunque finisca, indica elementi di nuova, ruvida, politica che anche da noi presto si imporrà. Il no alle tasse dei repubblicani, radicato da una generazione, non è politico ed economico, è culturale. Indica la fine di un senso civico di comunità, non si vogliono pagare imposte perché tanti ceti si rivolgono a scuola, sanità e pensioni private, vivono in «gated community», quartieri residenziali chiusi, e trovano assurda l’idea di provvedere ai concittadini meno fortunati. La politica, il governo, le burocrazie federali, hanno dissipato, tra sprechi, corruzione e inefficienze, la loro credibilità davanti a milioni di cittadini. Egoismo, certo, ma anche sfiducia consumata nello Stato fiscale, il welfare, la spesa. Mezzo secolo fa i democratici di Kennedy e Johnson dichiararono guerra alla povertà, investirono miliardi per debellarla, ma oggi le minoranze più prospere sono quelle che hanno scommesso su se stesse, sul lavoro, il business, l’etica del lavoro, non sui sussidi pubblici: gli asiatici. Per tornare alla solidarietà diffusa il presidente Obama dovrebbe dimostrare che tasse e spesa, sostenute dalla pattuglia di economisti guidati dal Nobel Krugman, sono ancora indispensabili a soli 5 anni dalla crisi del 2008, che chiudere il sostegno, passare a un rigore «tedesco» nella grande America, rischia di duplicare lo stop che colpì lo stesso leggendario presidente Roosevelt quando pensò troppo presto di essere uscito dal disastro del 1929 e dovette aspettare la Seconda Guerra Mondiale per rilanciare il Paese. Errore che, fin qui, la Banca centrale di Ben Bernanke ha saputo evitare. L’America non ha più la leva militare, la grande scuola pubblica s’è sfasciata nelle metropoli, i college statali come il City di New York, popolati una volta da grandi scienziati, stentano a chiudere i bilanci. La riforma sanitaria di Obama è detestata da metà del Paese. È vero che la classe dirigente oggi è mediocre, è vero che il Presidente non ha dimostrato grandi doti negoziali, ma se si gioca alla roulette americana, non russa stavolta, sull’orlo dell’abisso, è perché manca un tessuto comune, solidale. Da qui a gennaio, con una possibile, drammatica, coda fino a primavera, il duello fiscale continuerà, poi gli Stati Uniti troveranno un accordo, vedremo quanto fragile e provvisorio. Ma, come dicevano gli antichi favolisti latini, De te fabula narratur, la favola dell’abisso fiscale parla di noi, italiani, europei. Le divisioni politiche, sia pur radicali, sono la forza della democrazia, l’alternanza di proposte liberiste e keynesiane, accompagna feconda le diverse stagioni economiche. Quel che rischia di fermare tutti è il contrapporsi di sprechi, corruzioni, egoismo, guerra di tribù sociali. Non è il 13 a rendere sfortunato il 2013, è lo smarrimento del senso e della ragione di cittadinanza comune. I Tea Party originali, nel Settecento, chiedevano «No taxation without representation», niente tasse senza diritti politici pieni, perché erano fieri dei diritti e della politica che li rappresentava ed erano disposti a pagarne il prezzo fiscale. Perduta la fiducia nella politica, il prezzo del biglietto fiscale sembrerà sempre troppo esoso, in America e da noi. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2012/12/28/cultura/opinioni/editoriali/l-abisso-usa-che-spaventa-il-mondo-4k4cLmbdTGRSaLH8JAO5sM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - In cerca di una nuova normalità Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2013, 05:38:10 pm Editoriali
31/12/2012 In cerca di una nuova normalità Gianni Riotta E se il 2013…? E se il 2013 non fosse «l’ultimo anno della crisi», e nemmeno «l’anno della ripresa», ma almeno «L’Anno Con Qualche +», il primo dal 2008 in cui cominciamo ad aggiungere il segno positivo davanti a qualche dato, in economia, lavoro, sviluppo? E se nel 2013, come già in Asia e in America Latina, tornasse uno sprazzo d’azzurro tra le nuvole plumbee della recessione d’Europa? E se il 2013, qui i lettori e le lettrici guardando i prezzi del Cenone di San Silvestro arricciano il naso increduli, qualche segno «+» scattasse anche da noi, in Italia, o magari un «meno» davanti a voci come «disoccupazione giovanile», «lavoratori di mezza età senza posto», «aziende chiuse», «lavori pubblici fermi», «start up digitali che non decollano», «restrizioni burocratiche all’innovazione»? Non gettate via infastiditi la vecchia, cara Stampa, lettori, non è il classico pezzo di Capodanno intriso di ottimismo, che già domani svapora, coppa di spumante dimenticata dopo la festa. E per convincervi che «se il 2013…» può essere, a costo di fatica e idee, portafortuna efficace, vi riporto a un anno fa, 31 dicembre 2011. Solo dodici mesi or sono la Grecia era spacciata, la Spagna a un passo dalla catastrofe, l’Italia a due passi. Nelle birrerie tedesche non si vedeva l’ora che l’euro fallisse, discutendo se fosse meglio tornare al marco o a un euro di serie A per il nord Europa e uno di serie B per i Paesi del Sud. Davanti alla Tempesta Default il naufragio d’Europa era certo: come nel film La Vita di Pi, la questione non era «se», ma «quando» la Tigre della crisi avrebbe sbranato il pivello Pi della nostra economia, alla deriva nell’Oceano Debito. Non è andata così. La Grecia è in Europa, malmessa ma c’è. L’euro è vivo, grazie alla frase storica di Mario Draghi, un italiano alla Bce: «Faremo tutto il necessario per salvarlo». L’austero The Economist ricorda che -secondo Citigroup- la Grecia ha ancora 60% di possibilità di lasciare la divisa comune, ma un anno fa era al 90%. L’arcigna agenzia S&P ha aumentato da poco (avete letto bene: «aumentato!») il rating della Grecia fino a un imprevedibile B-. Grazie al lavoro di Mario Monti, alla sagacia del presidente Napolitano, alla maggioranza dei partiti tutti che, pur tra turbolenze, hanno sostenuto il governo e soprattutto grazie agli italiani che hanno accettato i sacrifici, consapevoli che milioni di evasori irresponsabili se la ridono, il nostro paese lascia il 2012 non risanato, non riformato, senza segni «+», ma capace almeno di porsi la domanda «E se il 2013 fosse l’inizio della fine dei tempi cupi?». Cina e India cresceranno nel 2013, meno del previsto ma cresceranno, con i cinesi a rodare il nuovo governo e gli indiani con un problema «italiano», tagliare la burocrazia, liberalizzare o fermarsi. L’America, se il presidente Obama non sprofonda nell’«abisso fiscale», potrebbe crescere del 2%, Tokyo e Londra dell’1%, l’Europa solo di un modesto «0, E Se…?». Ma davanti a questi numeri anemici, brindando a mezzanotte, ricordate le profezie nefaste del 2011. E alzate il bicchiere anche ai pessimisti, che lasciandoci intravedere il disastro vicino ci hanno spronato ad evitarlo. Curioso 2013: chi potrà mai negare che, senza stimolare ancora l’economia occidentale, rischiamo di lasciare un’intera generazione senza lavoro, famiglia, speranze? Ma chi può non vedere che senza rigore, con bilanci formato chewing gum, si spaventano i mercati e creano velenose bolle speculative? Chi governerà a Berlino e a Roma, le arene delle due grandi elezioni europee 2013, dovrà essere un virtuoso, ogni giorno leggere insieme le pagine sulla crescita di Lord Keynes, alternandole ai classici liberisti. Stato e Mercato son parole che profumano di XIX secolo: l’economia digitale le assorbe insieme, ha bisogno di scuole e infrastrutture, libere idee, liberi scambi. Sfida affascinante e paradossale: l’America, patria del capitalismo, sceglie Obama che difende la spesa pubblica, la Germania del «capitalismo sociale» deve innovare e aprirsi o si fermerà a sua volta. Da noi «E se il 2013…?» significa che, dopo una campagna elettorale in cui il favorito Bersani, il debuttante Monti, il redivivo Berlusconi, gli outsider Grillo e Ingroia se le daranno di santa ragione come inevitabile, dovremo avere un governo capace di riforme, crescita, rigore, trasparenza, onestà e lotta alla corruzione e alle mafie. Di creare lavoro, scegliere chi merita, ridare alla politica forza, rispetto, autorevolezza. Chi sa di poter vincere dovrà contenere i colpi della campagna, per non compromettere i negoziati e le intese dopo il voto. Difficile, ma possibile «Se nel 2013…». Ciascuno di noi, nella sua famiglia e comunità, può sperare che il 2013 sia ricordato non come l’anno in cui i problemi sono finiti, ma come la ripartenza, in modo che nei cenoni futuri si possa dire lieti «…In fondo da quel 2013 in poi…». Non fidatevi quindi di astrologi, calendari e oroscopi, ricordate che i disastri annunciati nel 2011 li abbiamo evitati lavorando sodo, innovando con fantasia e coraggio, anche noi italiani. Con questa speranza, auguri 2013! Twitter @riotta http://lastampa.it/2012/12/31/cultura/opinioni/editoriali/in-cerca-di-una-nuova-normalita-N1zuzerahlZZI6F2TSXBMI/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Hiroshima, l’ombra velenosa del fungo atomico Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2013, 07:43:25 pm Editoriali
10/01/2013 Hiroshima, l’ombra velenosa del fungo atomico Gianni Riotta Il fungo atomico spaccato a metà non l’avevamo visto, le foto di Hiroshima cui siamo abituati noi figli della Guerra Fredda sono quelle riprese dall’alto, dall’aviazione americana. Ora un’istantanea trovata negli archivi della Scuola Elementare Honkawa, ad Hiroshima, mostra l’attacco dal suolo. In primo piano sembra già di scorgere la devastazione, il fungo che ha scandito con la sua brutalità gli anni della sfida Usa-Urss si è diviso in due tronconi velenosi, il «cappello» vola in alto a seminare fall-out radioattivo sul Giappone, il «gambo» precipita a terra a finire i superstiti all’esplosione. È il 6 agosto del 1945. La guerra in Europa è finita in primavera, ma il Giappone non capitola. Lo stato maggiore è persuaso che, in caso di resa, gli americani destituiranno l’imperatore Hirohito e introdurranno la repubblica, temono la rivoluzione comunista e, nel caos che regna mascherato da ferrea disciplina, sperano assurdamente nella mediazione del leader russo Stalin contro gli Alleati. Il nuovo presidente Truman, il leggendario F.D. Roosevelt è scomparso in aprile, legge i dati delle perdite durante gli attacchi alle isole del Pacifico, verso il Giappone. Iwo Jima, difesa dallo stoico generale Tadamichi Kuribayashi, è uno scoglio rispetto alle grandi isole giapponesi, eppure è costata agli americani 6.821 morti e 19.217 feriti, al Sol Levante 21.844 morti. Come racconta Kumiko Kakehashi nel saggio «Così triste cadere in battaglia» (Einaudi) e ricorda Clint Eastwood nel film «Lettere da Iwo Jima», Kuribayashi, un ufficiale elegante che aveva studiato a lungo in America e sapeva che la guerra era perduta, «troppo forte la potenza industriale Usa», disobbedisce agli ordini di caricare con valanghe umane suicide le spiagge dopo l’invasione, fortifica le grotte interne e rende un calvario l’occupazione. Se riprodotta in Giappone, la sua tattica terribile avrebbe prodotto secondo i calcoli americani un milione di morti Usa, 500.000 inglesi e 10 milioni tra i giapponesi. Secondo lo stato maggiore di Tokyo i morti sarebbero stati tre milioni tra gli Alleati, venti tra i giapponesi. Il fungo spezzato che vediamo nella tremula immagine riapparsa 68 anni dopo si lascia dietro – secondo le stime dello storico Antony Beevor nel suo recente saggio «The second world war» - centomila morti, con altre migliaia spenti nei mesi a seguire dalle radiazioni. Quarantotto ore dopo Stalin attacca il Giappone, puntando a conquiste territoriali. Gli Alleati hanno già chiesto, con il documento di Potsdam, la resa, ma i militari sono divisi tra intrighi e codice samurai di resistenza, impotenti ma arroganti. Il 9 agosto Truman ordina un secondo bombardamento, stavolta sulla città di Nagasaki: muoiono in 35.000. L’imperatore Hirohito, amante della poesia classica giapponese, dice basta e vuol comunicare, nell’arcaica lingua di Corte che alla radio nessuno comprenderà, come un bollettino letto in latino, la resa. Prima che ci riesca, il 15 agosto, il generale Hatanaka Kenji guida il Secondo Reggimento della Guardia a distruggere il testo registrato. Il colpo di stato fallisce per la reazione del Ciambellano Koichi Kido, Kenji fa harakiri, il suicidio rituale. Sessant’anni sono molti nella vita degli uomini, pochi per la storia, nulla per l’etica. Quando guardiamo la foto della scuola elementare Honkawa, pensiamo alla sorte del fotografo che la scattò, sentimenti di orrore e solidarietà ci assalgono per le altre vittime. Il fungo spezzato pesa sulla vita dei baby boomers, i nati tra il 1946 e il 1966, Beatles, jeans, ’68, personal computer. Nel 1958 il poeta beat Gregory Corso scrive un poema le cui righe stesse formano il fungo nucleare «Bomba», «Tu Bomba, giocattolo dell’universo…». Scienziati occidentali - come il nostro Pontecorvo - fuggono a Mosca con l’alibi dell’«equilibrio atomico», i padri del fungo si dividono tra falchi alla Teller, colombe alla Oppenheimer, scienziati neutrali come Fermi. Alle Nazioni Unite Washington e Mosca spendono decenni in difficili accordi che impediscano nuove foto come quella ritrovata ieri. In una passeggiata nei boschi intorno a Ginevra i diplomatici Paul Nitze e Yuli Kvitsinsky si accordano, nel 1982, su un piano per ridurre le testate atomiche fino a zero. Reagan e Gorbaciov non accettano il patto radicale della «passeggiata nel bosco», ma la tensione nucleare decresce. «Tutto il mondo pensa che siamo andati vicini alla guerra atomica nei giorni della crisi di Cuba, nel 1962 - mi disse una volta il diplomatico americano McGeorge Bundy - in verità fu nel 1955, durante la crisi dimenticata per gli isolotti sperduti di Quemoy e Matsu, fuori Taiwan, che fummo davvero sull’orlo della nuova Hiroshima». Il comando della Marina suggerisce apertamente alla Casa Bianca di bombardare con testate nucleari la Cina, il presidente Eisenhower si oppone: aveva comandato la guerra in Europa, sapeva che il mondo sarebbe finito. Dalla guerra mondiale i Paesi sconfitti, Germania, Italia, Giappone, escono con costituzioni e psicologie pacifiste. Davanti ai morti di Hiroshima e Nagasaki ci impietosiamo, ma dimentichiamo il verso terribile del generale Kuribayashi, «Come è triste cadere in battaglia», che rigetta l’etica militaresca del «dulce et decorum est pro patria mori». Senza i due atroci funghi, i morti non si sarebbero contati in decine di migliaia ma in milioni. E il Giappone, ridotto a un deserto, sarebbe finito colonia per tutto il XX secolo. Riguardiamo dunque il fungo spezzato di Hiroshima. E lodiamo le generazioni che, tribolando, hanno impedito che un terzo venisse deflagrato in ostilità. Ma, guardando questa storica foto, non rivolgiamo lo sguardo solo al passato, album polveroso. Guardiamo alla frontiera atomica India-Pakistan, guardiamo all’Iran che prova a comprare l’uranio dai siti di Assad in Siria, per innescare la corsa atomica in Medio Oriente, con Israele. Mentre parliamo di crisi fiscale euro e dollaro, il fungo del XX secolo lancia la sua ombra velenosa sul XXI. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/01/10/cultura/opinioni/editoriali/l-ombra-velenosa-del-fungo-atomico-MknTkgrY0uZSfmQsT7Ky1K/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Quanto pesa il piccolo schermo Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2013, 11:48:22 pm Editoriali
18/01/2013 Quanto pesa il piccolo schermo Gianni Riotta Quanto peserà la televisione nella campagna elettorale 2013? Sarà decisiva per i risultati o prevarranno i new media, web, blog, twitter, Facebook, YouTube? La domanda corre dopo il ritorno di Silvio Berlusconi sugli schermi e la rimonta sul Pd di Pierluigi Bersani che i sondaggi stimano tra il 2 e il 3%. E tornano le fruste risposte che circolano dal 1993. Chi crede e chi teme che la tv aiuti Berlusconi, chi spera e chi depreca che i talk show corrida diano una mano alla sinistra, chi invece, ultimi in ordine di tempo, irride la tv come obsoleta e giura che a decidere sul filo di lana sarà internet. Per trovare la soluzione, occorre sgombrare un quarto di secolo di equivoci. Per cominciare non è vero che Berlusconi abbia dominato per anni «perché ha le televisioni». Questa analisi rozza, muove da una corretta premessa, che cioè il conflitto di interessi tv aiuti la destra. E’ vero, e va regolato l’equilibrio proprietario dei network per impedire che un giocatore solo sia politico e imprenditore della comunicazione. Ma chi guarda agli esiti elettorali dal 1994 con serenità, sa che Berlusconi ha sempre vinto partendo dall’opposizione, nel 1994, nel 2001 e nel 2008, e ha sempre perduto dopo avere nominato i vertici della tv pubblica, al massimo del consenso tv quindi, 1996 e 2006. Se la tv fosse dirimente, un esito del genere sarebbe impossibile. La verità è che l’analisi del centro destra, da Forza Italia al Pdl, come semplice «partito di plastica», che tanti danni ha fatto a sinistra, è smentita dalla realtà. Berlusconi e i suoi alleati hanno oggi intorno al 25% dei consensi. L’Spd tedesca, storico partito che risale fino al remoto Programma di Gotha criticato da Karl Marx, non va per ora oltre al 29 per la sfida contro la Merkel. La destra scommette per una sorpresa al Senato sull’area forte del paese, Piemonte, Lombardia, Veneto, come sul Sud, Campania e Sicilia, grazie a un radicamento sociale, a ceti, dinamici o parassitari, con cui la sinistra non sa bene dialogare. Certo che la tv conta: ma in quanto amplifica i messaggi concreti e li fa arrivare a chi, altrimenti, non li ascolterebbe. Ma senza un leader, un messaggio politico, una coalizione sociale, tutta la tv del mondo non basta. La Lega di Bossi si radicò senza tv. Romano Prodi, considerato da tutti gli «esperti» un candidato senza alcun appeal mediatico, sbaragliò per due volte Berlusconi, mago delle tv, perché il suo messaggio pacato persuase la sua coalizione. Vale anche in tv la micidiale «Prima Legge» coniata dalla studioso Melvin Kranzberg «la tecnologia non è buona, né cattiva e neppure neutrale». Non è la tv a decidere, arbitro assoluto, l’esito di un’elezione, ma il suo intervento influenza i risultati. Obama ha messo a rischio la vittoria su Romney col primo dibattito flop, ma poi ha comunque prevalso. Beppe Grillo, che rivendica il primato politico digitale, e guida un ottimo blog e un discreto account twitter, deve però il successo in Sicilia non alla rete, ma alla vecchia tv: sono gli show da artista del video a renderlo popolare anche in aree della popolazione non avvezze ai computer. In una stagione di polarizzazione delle coscienze, è quasi impossibile che un cittadino di destra voti a sinistra e viceversa. La tv e il web mobilitano la base e richiamano dall’astensione i simpatizzanti delusi. Lo studio dei Big Data conta i propri consensi e quelli dell’avversario per accertarsi di avere un voto in più. Bersani e Pd hanno galvanizzato la base democratica con una perfetta stagione di primarie con Matteo Renzi, consolidando gli elettori tradizionali, fidelizzandone di nuovi. Ora Berlusconi parla ai suoi, evoca la loro cultura e le loro idee: sa di averli irritati, ma sa che non sono diventati di sinistra. Non è «la tv» a farlo rimontare, sono i loro interessi e valori che si risvegliano a voto vicino. E’ giusto che tv private e pubbliche offrano eguale spazio ai candidati, ma non sarà un minuto in più o uno in meno a decidere delle elezioni. Sarà l’uso raziocinante che i leader faranno del mezzo tv, e i riformisti di Monti e Bersani, privi di tv private, dovranno lavorare a una riforma tv di equilibrio e professionalità. Il populismo tv, ormai rodato da vent’anni, premia i candidati con messaggio diretto, «di pancia», Berlusconi e Grillo. Qui, e sarà l’effetto sorpresa, entra in gioco il web. I dati del Censis e di McKinsey confermano che la maggioranza degli italiani è online e la rete muta la televisione. Da mezzo unidirezionale, il leader parla i cittadini ascoltano magari commentando tra moglie e marito sul sofà, la tv diventa assemblea. Durante il confronto Bersani-Renzi, durante lo show che ha dato a Berlusconi voti e a Santoro audience (simbiosi Paguro Bernardo Attinia perfetta) giornalisti e cittadini hanno commentato online la tv, creando quella che lo studioso Weinberger chiama «camera intelligente», dibattito dove i ragionamenti vanno via via raffinandosi. La convergenza «old e new media», tv e web, è il teatro di battaglia 2013. Infine ci sarebbero i faccia a faccia. Berlusconi li chiede quando è in svantaggio e nega quando è in vantaggio. La sinistra può essere tentata di rendergli la pariglia. Vanno invece imposti, se non per legge almeno per consuetudine come in America. Leader, messaggi, coalizioni di interessi e valori sociali in contrasto davanti alla tv, con il paese che si confronta online preparandosi al voto: così funziona la democrazia del XXI secolo e prima ne accettiamo il codice più in fretta rinnoveremo la classe politica e metteremo alla prova la nostra cittadinanza. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/01/18/cultura/opinioni/editoriali/quanto-pesa-il-piccolo-schermo-387djS2lxJpyOHfURhBCuI/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Fisco e sfida alla Cina: dall’utopia alla realtà Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2013, 09:06:11 am Editoriali
22/01/2013 Fisco e sfida alla Cina: dall’utopia alla realtà Gianni Riotta Gli studenti che quatto anni fa, mischiati in piazza a un milione e mezzo di americani, festeggiarono il primo giuramento di Barack Obama alla Casa Bianca, sono andati ieri al lavoro, almeno quelli fortunati abbastanza da avercene uno. Gli altri sono andati a cercarsi un lavoro, come ogni lunedì. Il brusco passaggio dall’utopia alla realtà è la cifra del secondo mandato di Obama. Nel 2009 il presidente guidava l’America appena caduta nella crisi finanziaria peggiore dal 1929 e aveva davanti le due guerre seguite all’11 settembre 2001, Afghanistan e Iraq. La sua amministrazione doveva suturare le ferite del passato, anabolizzare di dollari e spesa pubblica l’economia, concertando la ritirata strategica da Kabul e Baghdad. La caduta libera nell’abisso della crisi è stata stoppata, mentre le due sfortunate campagne vanno verso l’ammainabandiera senza vittoria: la I Guerra Globale contro il terrorismo fondamentalista islamico si sposta nel deserto del Mali, guidata ora dagli ex «pacifisti» di Parigi. Oggi i dossier sul tavolo di Obama riguardano crisi fiscale americana, rapporti con la Cina, controllo delle armi da guerra sul mercato americano e riforma dell’emigrazione, che nelle speranze del Presidente dovrebbe fare il paio con la controversa riforma sanitaria del primo mandato. Di tutte le scelte che attendono Obama II al giudizio della storia, il ritorno a un equilibrio fiscale a Washington è la più importante. Il Presidente non è riuscito in alcun modo ad aprire un dialogo tra i partiti, e la politica americana è così incancrenita che l’ex senatore repubblicano Hagel, nominato da Obama segretario alla Difesa, incontra la feroce opposizione dei suoi ex compagni, che lo considerano un traditore anti Israele. Senza un accordo, i 16.000 miliardi di dollari di debito sfasceranno la società, la politica, l’economia americana, disperdendo l’influenza Usa nel mondo. Non si può più - Obama lo sa, ma non ha fatto nulla, perfino stracciando le proposte di una commissione bipartisan convocata sul tema - spendere come se le tasse Usa fossero altissime e tassare come se la spesa Usa fosse ridottissima. Alta spesa e basse tasse sono, da G. W. Bush soprattutto, somma rovinosa. Con un numero record di americani che vanno in pensione, figli del boom del dopoguerra, le tre voci di spesa, difesa, sanità e pensioni, vanno tagliate. Gli economisti più intelligenti, come Rogoff, propongono di «tagliare la spesa attraverso l’innovazione», riformando cioè esercito, ospedali, sussidi agli anziani e scuole con le tecnologie, per fornire servizi a spesa ridotta. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo agli elettori. La seconda voce di intervento riguarda la Cina. Pronta al sorpasso economico sugli Usa, previsto per il 2017-2018, la Cina teme che la crisi demografica, troppe poche nascite e troppe poche bambine, la indebolisca a partire dal 2030. Dieci anni cruciali per l’egemonia sul Pacifico, e per questo Pechino vara la flotta d’alto mare, la prima portaerei e litiga con il Giappone sulle isolette Senkaku. Il nuovo leader, Xi Jinping, deve scegliere se dialogare con Obama, scivolare verso la guerra fredda o combattere in armi. Vietnam, India, Filippine, Malesia, Birmania, Australia, chiedono agli Usa protezione contro l’offensiva cinese e il Giappone del nuovo premier Shinzo Abe vuol cancellare la costituzione antimilitarista di Tokyo, redatta paradossalmente dal generale americano MacArthur, aumentare la spesa per l’esercito e far riscrivere i libri di storia per le scuole in modo che ritraggano il Sol Levante come vittima, non aggressore nella Seconda guerra mondiale. Panne fiscale in America e sfida strategica con la Cina basterebbero a colmare il secondo mandato di ogni Presidente. Obama ha davanti, inoltre, il vecchio Medio Oriente, dove nulla fa prevedere progressi tra Israele e i palestinesi, il nuovo volto del mondo arabo dopo la Primavera, il ricatto dell’Iran sulla corsa alle armi nucleari, un Putin indebolito dal calo del prezzo del petrolio ma deciso a non mollare il potere, il rapporto da rivitalizzare con l’Europa ormai talmente ripiegata sulla crisi dell’euro da non essere più partner interessante per Washington da anni. A questo già turbolento menu, Obama vuole aggiungere il divieto alle armi automatiche, dopo la strage nella scuola di Newtown e dopo che le sue lacrime in diretta lo hanno impegnato davanti al Paese a fare qualcosa. Infine - in debito di gratitudine per gli elettori etnici, ispanici ed asiatici, che gli hanno riconsegnato la Casa Bianca preferendolo al repubblicano Romney - Obama lavora a una riforma dell’emigrazione, con amnistia per i clandestini (intorno a 15 milioni) che da anni vivono negli Usa, e riaprendo visti e permessi di soggiorno e lavoro a studenti e tecnici qualificati, mentre ai braccianti, oggi spesso intimiditi, potrebbe offrire ingressi legati ai lavori agricoli, avviando poi l’accesso alla cittadinanza. I due politici repubblicani che sognano la Casa Bianca, Marco Rubio e Paul Ryan, hanno visto come la diserzione degli elettori ispanici abbia sconfitto Mitt Romney, computano la crescita del voto etnico in chiave Casa Bianca 2016 e 2020, e sono pronti a collaborare, per non lasciare ai democratici il vanto della riforma emigrazione. Questi gli ostacoli che la cronaca mette davanti al secondo mandato del presidente Barack Hussein Obama. Le emergenze, le tragedie e le opportunità che la Storia, come sempre, saprà creargli nessuno le conosce: e come sempre sarà proprio la sua reazione alle mosse della Storia che ci dirà che Presidente davvero sia l’amletico Obama. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/01/22/cultura/opinioni/editoriali/fisco-e-sfida-alla-cina-dall-utopia-alla-realta-0U7X3bLDMSFXBJH1dhT37I/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Messaggio agli irriducibili di destra Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2013, 11:48:44 pm Editoriali
28/01/2013 Messaggio agli irriducibili di destra Gianni Riotta Le dichiarazioni del leader Pdl Silvio Berlusconi su fascismo e dittatura, rese ieri nel giorno dedicato alle vittime dell’Olocausto, non sono una gaffe, ma un’indicazione di voto diretta ai settori irriducibili della destra italiana. Strati sociali e culturali, radicati nelle periferie e tra i più giovani, che trovano nel disagio e nel tam tam del web, idee, mobilitazione, propaganda. Il sociologo Renato Mannheimer indica nei sondaggi che il 6% degli elettori ex Lega guarda ora ai neofascisti mentre il 21% degli elettori Pdl è ancora incerto, con il 10% tentato dal Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo stesso ha aperto, qualche giorno fa, ai neofascisti del gruppo Casa Pound, perché legge gli stessi dati e decide che, in una corsa drammatica, non c’è da fare troppo i gentlemen. Sulla sostanza del giudizio di Berlusconi, ha detto bene – con sofferenza - il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna: «Le dichiarazioni appaiono non solo superficiali e inopportune. Ma là dove lasciano intendere che l’Italia abbia deciso di perseguitare e sterminare i propri ebrei per compiacere un alleato potente, destituite di senso morale e di fondamento storico… Le persecuzioni e le leggi razziste antiebraiche italiane hanno avuto origine ben prima della guerra e furono attuate in tutta autonomia sotto la piena responsabilità dal regime fascista, in seguito alleato e complice volenteroso e consapevole della Germania nazista fino a condurre l’Italia alla catastrofe. Furono azioni coerenti nel quadro di un progetto complessivo di oppressione e distruzione di ogni libertà e di ogni dignità umana». Il giudizio storico sui venti anni di dittatura è ormai assodato, incluso il consenso di cui a lungo Mussolini godette e che proprio le leggi razziali del ’38 e la guerra del ’40 gli fecero, in poco tempo, disperdere. Gli studi degli storici De Felice e Pavone, i libri di Primo Levi e Beppe Fenoglio lo raccontano per sempre. Il Paese distrutto, la diaspora degli intellettuali da Fermi alla Levi Montalcini, l’economia spezzata, le vittime: 313.000 militari, 130.000 civili, un milione di prigionieri tra cui 600.000 ufficiali e soldati nei lager nazisti, migliaia di ebrei deportati, pochissimi sopravvissuti allo sterminio, su una popolazione che allora era appena di 44 milioni. Non c’è ancora oggi famiglia che non pianga un lutto, una perdita. La cancelliera Angela Merkel e papa Benedetto XVI, due tedeschi, hanno ricordato con parole misurate, e di responsabilità, gli stessi eventi, ed è grave e triste che un pugno di voti basti a cancellare tanta tragica storia. La campagna elettorale sta cancellando ogni decenza, ogni comune interesse nazionale, nascondendo con superficiale vacuità i problemi che ci attendono dal 25 febbraio in poi tra slogan, demagogia, populismo. Un dirigente di Rifondazione Comunista partecipa al funerale del capo brigatista Gallinari, membro del commando della strage di via Fani e dell’assassinio di Aldo Moro, trasformato in grottesca manifestazione politica. Di Grillo e Casa Pound s’è, purtroppo, detto. Su tutt’altro versante, le malversazioni del caso Monte dei Paschi di Siena vengono strumentalizzate, dagli opposti schieramenti e al loro interno tra fazioni rivali, non per trovare finalmente equilibrio tra ragioni dello Stato e interessi del mercato, ma per regolare conti e occupare posizioni. Una furiosa rissa da saloon cominciata già prima dello scioglimento delle Camere, con la campagna politica, tanto faziosa quanto immotivata, contro il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il risveglio, dopo il voto, sarà brusco. Non una delle ragioni che hanno portato alla crisi del gabinetto Berlusconi nel 2011 è venuta meno. La disoccupazione giovanile, la difficoltà dei lavoratori e dei ceti medi, un sistema fiscale, una scuola e una giustizia obsoleti, imprese e burocrazie paralizzate, una classe dirigente e intellettuale avvitata su se stessa, poco coraggiosa. A leggere i piani proposti da Cgil e Confindustria, fra spunti interessanti, si nota però quanto poco scommettano sull’innovazione, sulle tecnologie, le nuove produzioni di servizi e manifattura, il digitale, cioè la ricchezza del lavoro oggi. Sindacato e imprese chiedono al nuovo governo investimenti, motivandone diversamente l’utilizzo, ma entrambi ipnotizzati dallo status quo, sordi all’irrinviabile riforma del Paese. In questo clima, il governo che nascerà, se i sondaggi saranno confermati guidato dal centrosinistra di Pierluigi Bersani, avrà il suo da fare per reggere il timone. Guardate alla Francia, dove il presidente Hollande non ha potuto varare una sola delle misure socialiste promesse in campagna elettorale. La crisi che morde Parigi gli ha impedito perfino di tenere testa alla cocciuta austerità della Merkel, fronteggiata da Mario Draghi alla Bce e, per quel che ha potuto, da Mario Monti. Per recuperare consensi Hollande vara l’operazione militare in Mali: necessaria sì, ma gestita alla G. W. Bush, unilateralmente, ammiccando alla destra degli ultimi poujadisti francesi. La crisi economica, dall’Ungheria alla Grecia, dalla Finlandia agli stessi Stati Uniti, lascia nella disperazione chi perde lavoro e benessere, seminando risentimento razziale, cinismo, basi ideali per destra estremista e sinistra populista. Governare sarà difficile. Berlusconi, ieri, ha sbagliato e si è allontanato ancora una volta dal centro conservatore europeo. Presto potrebbe pentirsi di aver evocato questi fantasmi, per nulla docili, sempre pronti al caos. I saggi, gli uomini e le donne di buona volontà in tutti gli schieramenti, dovrebbero ricordarsi che dopo la legittima battaglia per il consenso elettorale di febbraio, verranno una aspra primavera e un autunno caldo, in cui il paese insieme dovrà guardare oltre la crisi. È bene non scherzare con il fuoco perenne dell’odio che, come insegna la storia del Novecento, si appicca con facilità e si spegne solo dopo immani dolori e sacrifici. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/01/28/cultura/opinioni/editoriali/messaggio-agli-irriducibili-di-destra-vMvkEzjwY45Xzb8s14dhuI/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Kissinger: “Fu il primo uomo globale, l’ultimo del Rinascimento” Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2013, 05:32:06 pm Società
20/01/2013 Kissinger: “Fu il primo uomo globale, l’ultimo del Rinascimento” L’Avvocato a Torino con l’amico Henry Kissinger focus L’Avvocato dieci anni dopo “Mi manca moltissimo, er 20 anni ci siamo parlati ogni due giorni” Gianni Riotta «Di cosa si occuperebbe oggi il mio amico Gianni Agnelli?». L’ex segretario di Stato americano e premio Nobel per la Pace Henry Kissinger sorride un attimo, poi detta la risposta senza dubbi: «Di Torino, Italia, Fiat, Europa, America, di arte e Juventus, della sua famiglia e degli amici, come sempre. Ma ci chiederebbe di Internet, del mondo digitale, e sa perché? Perché Gianni è stato uno dei primi uomini globali nel ’900, intuiva che viviamo in una rete - politica, industria, nazioni e individui. Il web stimolerebbe la sua onnivora curiosità». Il primo lavoro che affida in azienda al nipote John Elkann è guidare la transizione digitale del gruppo, Fiat, Juve, Ferrari, La Stampa. Impresa tosta, mettere online i metalmeccanici: «Considerava i nipoti suoi inviati nel futuro, ma li guidava alla Storia. Una volta mi invita a Torino: “Se non capisci Torino e la Fiat, non capirai l’Italia”. C’era una mostra su Cavour che fa la guerra in Crimea per ridare all’Italia peso in Europa. Mi porta a visitare lo scranno di Cavour in Parlamento, e con sé ha John. Lezione per due». A noi cronisti, l’Avvocato ordinava: imparate da Kissinger la storia profonda, oltre i titoli del giornale. «Per gli uomini della nostra generazione, storia e biografia personale si intrecciano. Aveva conosciuto i leader del tempo, la sua filosofia era chiara, democrazia, società aperte, sviluppo. Dell’America ammirava energia e innovazione. Dell’Europa storia, arte, radici. Voleva che l’Italia condividesse questi ideali. Poteva vivere ovunque, ma restò a Torino: “Mio nonno - mi diceva - mandava i suoi ingegneri a studiare con Ford in America, poi in dialetto ordinava “Alla fine tornate, intesi?”». L’uomo pubblico è già affidato ai libri di storia: come ricorda l’uomo? «Ci siamo parlati ogni due giorni per vent’anni. Nessuno mi è stato più vicino, sul lavoro o fuori. Quando ero in Europa andavo a salutarlo, lui non passava da New York senza vedermi. Si parla del suo fascino, lo charme: Gianni sembrava parlare solo a te, con calore. Anche la sua noia è leggendaria, ma raramente toccava chi non voleva adularlo, la riservava a eventi pubblici pomposi cui, per ruolo, partecipava. Detestava chiacchierare, ma se reggevate la maratona intellettuale che era discutere con lui, non aveva rivali». È stato icona dello stile, orologio sul polsino, colletto button-down sbottonato: «Amava essere divertente. Cominciava a parlare di Cina e mercato, mi chiedeva di un nuovo ministro americano, raccontava del calcio e mi portava a vedere la mostra di un artista sperimentale. A San Pietro, a Roma, insistette per mostrarmi il modello originale della basilica cattolica, per indicare dove Michelangelo aveva trasformato in capolavoro il progetto del Bramante. Una volta mi costrinse a fare il bagno in una sorgente di acqua sulfurea, usata dagli imperatori romani: si divertì un mondo, io sinceramente assai meno. Sapendo della mia passione per il calcio, mi portò al vecchio stadio Comunale a vedere un Juve-Napoli con Maradona, 4 a 3 mi pare. Guai a tifare contro i bianconeri, lo sapevano anche gli avventori della trattoria di New York dove seguiva la squadra in tv! Primo uomo del gusto globale, era l’ultimo del Rinascimento». Dieci anni fa disse che Agnelli aveva «leggerezza e profondità insieme»: in che modo? «Una volta ascoltavamo Mozart e gli dissi: “Sei come queste sinfonie, leggere, allegre, piene di vita in apparenza, ma dentro colme di malinconia e di dolore”». Avete parlato di questa malinconia e del dolore? «Gianni non parlava di sé. La vita lo aveva privilegiato, aveva pudore a dirsi infelice. Quando mia madre fu trovata senza sensi, in casa, mi disse: “Non idealizzarla. Se si riprenderà sarà ancora lei”. Accadde così e gli fui grato del consiglio franco. Quando morì suo figlio Edoardo, toccò a me scrivergli una lunga lettera, sapevo non avrebbe gradito gli parlassi di persona. Un anno dopo, senza accennare neppure alle mie parole, mi fece capire di averle gradite e meditate». L’Italia fu sorpresa dalle lunghe code di torinesi in coda per l’estremo omaggio. Chi era per gli italiani l’Avvocato? «Sapevano, come tanti di voi, che credeva nell’industria, nel lavoro, la Fiat, Torino. Tutte le chiacchiere su Agnelli re d’Italia, ultimo sabaudo, non ne colgono l’essenza. Capiva che senza grande industria il vostro Paese non avrebbe avuto peso in Europa. Per Torino aveva affetto e ironia: A Palazzo Grassi, mentre un oratore citava “la cultura di Venezia e il potere di Torino”, mi bisbigliò: “Per fortuna non parla della cultura di Torino e del potere di Venezia”, ma era il suo gusto per la battuta. Realizzando la Pinacoteca al Lingotto indicò dove voleva restasse la sua eredità. Era già ammalato, ma in sedia a rotelle, perfettamente vestito, ricevette il Presidente Ciampi. Ero il solo amico, quella volta, tra i familiari. Al centenario della Fiat, dopo la parata delle autorità, ascoltò con orgoglio il discorso del capo dei sindacati sul ruolo della Fiat nell’occupazione in Italia. Era stato, come me, militare, e aveva mantenuto un’aria da ufficiale di cavalleria. Gli chiesi come mai non avesse ceduto la Fiat, quando sarebbe stato un affare: “È un esercito nazionale, non posso trasformarla in legione straniera”, rispose severo». Sono passati dieci anni, dottor Kissinger. Come è cambiato il ricordo del suo amico? «Penso spesso a Gianni. Sono felice di averlo incontrato. Dietro il formidabile ruolo pubblico di leader, si nascondeva l’anima di un uomo solo, che accettava la solitudine della dinastia, del comando. Spero di averlo fatto sentire qualche volta meno solo. Capisco ora perché corteggiasse così il pericolo, in guerra, in mare, sugli sci. Volare con lui - lei ricorderà, perché qualche volta è stato con noi e io l’avvisavo: “Mangi prima, ché sugli aeroplani di Agnelli non si serve cibo!” - era mozzafiato, faceva atterrare il pilota anche nelle peggiori condizioni. Mi disse: “Da ragazzo rischiavo la vita per gioco, e ce l’avevo tutta davanti. Adesso la assaporo ogni giorno”. Con la sua famiglia Gianni è stato leale, con gli amici che aveva scelto magnifico, riservato, senza effusioni. Quando faceva chemioterapia a New York, andavo a trovarlo ogni giorno. Era preoccupato per la crisi dell’Iraq, la polemica Usa-Europa, lui atlantista storico». Nell’ultima telefonata prima di morire mi disse: America e Europa vivono il momento peggiore tra loro dal ’45, intervisti Kissinger, chiami a nome mio. «Classico Gianni! Non si lagnava del suo male. La moglie Marella, quando aveva quasi perduto la vista, mi telefonò: “Gianni sta meglio, guarda pure la partita”. Ascoltava l’audio, fingendo per rassicurarla. Chiesi allora a uno dei medici: Mister Agnelli soffre? “I dolori di questo male sono atroci, doctor Kissinger”, rispose». Come lo ricorderà la Storia? «Leader attento alle relazioni internazionali e al lavoro nel suo Paese. Equilibrato in un tempo di nazioni e fazioni. Patriota italiano, grande europeo, amico dell’America. Per qualcuno sono contraddizioni, per me definiscono il mio amico Gianni. I miss him, mi manca». Twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/2013/01/20/societa/kissinger-fu-il-primo-uomo-globale-l-ultimo-del-rinascimento-zx7DjrAzf1U7dNnbPCQJeI/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - La Francia svende il futuro Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2013, 05:27:25 pm Editoriali
03/02/2013 La Francia svende il futuro Gianni Riotta La leggenda vuole che gli indiani della tribù Lenape abbiano venduto l’isola di Manhattan e New York agli olandesi per un pugno di perline. La storia registra piuttosto, in un documento di Pieter Janszoon Schagen del 1626, che la somma pagata sia stata 60 fiorini. Al prezzo di oggi non i 24 dollari in chincaglieria del mito, ma 770 euro: chiaro, comunque, chi fece l’affare. Il cattivo business del 1626 torna in mente oggi esaminando l’accordo - storico - firmato al Palazzo dell’Eliseo a Parigi tra il presidente francese François Hollande e il presidente di Google Eric Schmidt. Hollande è il capo tribù dei Lenape, Schmidt la versione odierna del leader olandese Peter Minuit. La visione politica e culturale di Hollande su informazione e tecnologia è ferma al XVIII secolo, quando gli Illuministi dominavano Parigi. Schimdt comprende la strategia delle notizie e del dibattito nel XXI secolo. Impressiona quanto obsoleto sia l’orizzonte del leader francese e quanto ricco di audacia quello dell’imprenditore americano. Da tempo gli editori di giornali francesi, come i loro colleghi tedeschi e italiani, si lagnano del motore di ricerca Google che, a loro dire, si impadronisce di contenuti di proprietà delle aziende editrici e li rilancia sul proprio aggregatore di notizie, senza pagare. Le difese proposte contro l’algoritmo con cui Google archivia gli articoli sono state, fin qui, arcaiche. In ottobre Hollande minaccia Google con una tassa da pagare ogni volta che il motore di ricerca pesca un articolo dai media francesi. La risposta di Schmidt è duplice, appello di maniera alla libertà online, e la rappresaglia di cancellare tutti i siti web francesi da Google se la gabella fosse stata imposta a viva forza. I termini della disputa sono chiari: editori e giornalisti difendono il loro diritto proprietario sui contenuti, Google manovra nel mercato aperto online. Il tema del copyright ha già costretto il mondo della musica alla metamorfosi, finché con i video di youTube e i micropagamenti via iTunes si è trovato un precario equilibrio. Gli artisti lamentano meno incassi, meno creatività, costretti ai concerti per recuperare introiti perduti con i dischi. Il pubblico ribatte che l’accesso alla musica è più semplice ed economico. L’accordo tra Hollande, che rinuncia alla voce grossa, e Schmidt, riconosce a Google il diritto di non pagare tassa alcuna e non concede neppure un euro agli editori. Google si limiterà a pagare 60 milioni di euro (l’equivalente dei 60 fiorini del 1626…) a un «fondo per finanziare l’innovazione digitale nei giornali», promettendo inoltre di favorire l’aumento delle risorse pubblicitarie a disposizione online. E’ una sconfitta culturale per i francesi, una débâcle strategica come a Waterloo, quando si leva il grido «La Guarde recule». La stampa francese, erede di Voltaire, D’Alembert, Aron, Camus, Hubert Beuve-Méry delega a un colosso americano nato nel 1997, 17 anni dopo la morte del filosofo Sartre, l’innovazione digitale. Riconosce cioè che la sua sola risorsa superstite sono i contenuti negli archivi e la capacità di riprodurli, cioè il passato e un labile presente, ma svende il futuro del giornalismo, la sterminata e fertilissima prateria online. E come se una nazione ricca di petrolio avesse concesso per sempre a qualcun altro l’uso dei suoi oleodotti. Google - va dato atto a Eric Schmidt e al suo capo economista Hal Varian - stravince la partita del domani, assicurandosi che ogni sviluppo digitale nell’informazione a Parigi sarà marcato dal brand. Temo che né il presidente Hollande – reduce da un tour della «vittoria» in Mali che a qualcuno ricorda la frettolosa bandiera «Missione compiuta» di G.W. Bush per l’Iraq 2003 - né gli editori francesi ricordino il monito saggio lanciato da Varian sulla rivista The Atlantic nel 2010: «Come salvare l’informazione? Innovare, innovare, innovare» http://goo.gl/cAXzG. Ora tocca agli editori tedeschi, con la cancelliera Merkel che, in campagna elettorale, fa la dura, poi cederà, quindi agli italiani, che non sembrano dimostrare maggiore fede dei colleghi transalpini nel giornalismo digitale. Il commissario europeo Almunia, che «indaga» su Google ormai dal 2010, ha da venerdì sul tavolo una proposta di compromesso firmata Schimdt: la accetterà. E’ pura illusione, per gli editori, i giornalisti, i governi, l’Europa, le organizzazioni internazionali, pretendere di «pilotare» la formidabile rivoluzione in corso. Amazon, Google, Apple, youTube, Wikipedia, Facebook, Twitter, giganti spesso in guerra tra loro, sono la realtà. Occorre battersi perché l’accesso ai contenuti resti libero, perché il giornalismo di eccellenza non si estingua, perché i monopoli non dilaghino, perché nelle scuole e nelle start up digitali lo Stato promuova idee e ricerche. Ma finché Hal Varian, Eric Schimdt e Google conoscono il segreto del sapere digitale, «Innovare!», e politici e media europei si ostinano a credere come Hollande nel totem rassicurante «Conservare!», sappiamo già chi plasmerà l’informazione del XXI secolo e chi farà invece da modello, elegante e sfarzoso magari, al Museo delle Cere dei Media. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/02/03/cultura/opinioni/editoriali/la-francia-svende-il-futuro-HegWs6WuZtMkxMXoSmYXMK/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Così le promesse dei politici accendono il dibattito in Rete Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2013, 04:32:10 pm politica
10/02/2013 Così le promesse dei politici accendono il dibattito in Rete Dall’analisi di Twitter si possono ricavare informazioni molto utili per la campagna elettorale FLUSSI, GRAFICI, MAPPE L’analisi Tycho-Lastampa Berlusconi infiamma Twitter dopo la proposta di voler restituire i soldi dell’Imu Gianni Riotta Riuscirà Pierluigi Bersani a far prevalere il Partito Democratico nella volata elettorale di febbraio? Quanti consensi ha recuperato Silvio Berlusconi? Il debutto politico di Mario Monti avrà successo finale? Quale Italia rappresenta Beppe Grillo che, negli ultimi sondaggi, sfiora con le sue 5 Stelle il 20%? La Stampa avvia da oggi un’analisi della conversazione sociale sul web per rispondere a queste domande. Indagini Censis e McKinsey hanno dimostrato che una maggioranza di italiani è ormai online e, guardando la tv, che resta fonte centrale con i giornali di notizie politiche, commenta poi la situazione sul web. Studiando dunque i blog, Facebook e twitter ascolteremo il polso di elezioni che si annunciano storiche, con la tecnica usata negli Stati Uniti dal presidente Obama per vincere la Casa Bianca 2012. Non considerare più l’elettorato come una «massa» omogenea, ma come una comunità di singoli cittadini capaci di reagire online personalmente e che devono essere raggiunti, uno per uno, con un messaggio individuale. L’analisi sarà condotta da Tycho Big Data, un progetto incubato presso l’istituto di ricerca dell’Imt a Lucca. Tycho «estrae» i dati del dialogo sociale dal web, con algoritmi, e ne analizza il significato politico. In questa prima puntata partiamo da Twitter, il popolare sito di blog telegrafici (140 battute) che in Italia è piazza politica dove commentare, con passione, ragione e ironia, la politica. Elaborando i tweet politici abbiamo realizzato varie mappe che rappresentano «dove», e perché, in Italia si sta discutendo dei leader politici in corsa. La prima, per esempio, illustra «dove» si discute di Silvio Berlusconi. L’ex premier, considerato spacciato un anno fa, dopo il ko del governo Monti, si conferma invece noto a tutti gli elettori e, con l’eccezione della Val d’Aosta e della Puglia di Vendola (quando una regione parla poco di un politico il colore resta bianco), è citato ovunque, soprattutto al Nord e nella Lombardia che sarà cruciale per la maggioranza al Senato. Non è che sempre si parli «bene» del capo Pdl, ma la sua vivacità online, mezzo finora estraneo al magnate tv, prova che Berlusconi non ha ancora rivali nel centrodestra. Guardate la visualizzazioni dati con l’impennata dei tweet dopo la sua proposta di restituire i soldi dell’Imu. Criticata da più parti, l’idea occupa di slancio il dibattito politico, assegnando punti alla rimonta del Pdl. Lo studioso D’Alimonte calcola che Berlusconi ne abbia rimontati 7, anche se considera difficile che ne rimonti altri 7 in 15 giorni. Diverso significato ha, per Tycho Big Data, la mappa della presenza twitter del senatore Monti, che ha lanciato l’account @senatoremonti. L’intensità dei tweet nel Lazio testimonia quanto «politica» resti, per ora, l’alleanza Monti-Casini-Fini e quanto sia da radicare nel paese. È Roma, network dei blog politici, dei telegiornali, dei quotidiani, dei siti politici che tempestano la rete con commenti sul premier, Transatlantico online, il punto di forza. La presenza scende in Veneto, nel Nord Est, nelle regioni del centrosinistra, Toscana, Umbria, Marche, aree dove l’agenda Monti deve trovare consensi. Se il governo andrà all’intesa Bersani-Monti, i tweet delle regioni dove il Pd è forte indicano al senatore a vita che il rapporto di fiducia con la base degli alleati è precario e va rinforzato. Fin quando non è scattata la par condicio tv, il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, ha prediletto un profilo basso in tv, con meno di un terzo del tempo occupato sugli schermi da Berlusconi e Monti. È la strategia di non «personalizzare» il voto. Bersani critica i «partiti-leader» e chiede consensi al Pd e ai suoi alleati, non al singolo candidato. Il web ne fotografa la tattica, con le regioni rosse che twittano fortemente sul segretario ma una presenza rarefatta al Sud. Là il Pd scommette sul voto organizzato, sindacato e partito, non sul voto d’opinione e Bersani è meno citato. Bersani è ancora il favorito nei sondaggi, ma dopo le elezioni deve decidere se continuare con il fioretto anche da Palazzo Chigi o attaccare. Massimo D’Alema, nella chat Stampa online, ha giudicato «troppo ottimista» la campagna Pd delle prime settimane e Tycho riscontra prudenza, senza eccessi. Per il rush finale la grinta diventa indispensabile: per intenderci serve al Pd una mappa con impennata tweet su una proposta di Bersani. Re politico del web è, da tempo, Beppe Grillo, attivissimo su twitter come @beppe_grillo (lo seguono in 869948, contro i 255447 di @pbersani e i 218452 di @senatoremonti, Berlusconi non ha account ufficiale). Grillo è presente ovunque e con molte citazioni. Roma ne discute con vivacità, presagendo lo sbarco di un centinaio di parlamentari grillini 5 Stelle. Molto citato in Emilia, lodi e critiche per le performances del sindaco Pizzarotti a Parma e discussioni con il Pd. Tycho indica l’omogeneità del dato nazionale di Grillo, che entra nel dibattito in tutte le regioni,Sicilia (dove 5 Stelle è primo partito) e Sardegna incluse. Gli under 30, secondo Renato Mannheimer, hanno in Grillo il leader prediletto: twitter conferma. Infine la visualizzazione dati con le citazioni comuni dei leader (in gergo scientifico co-concorrenze). Lo studioso Ilvo Diamanti ipotizza «la fine del bipolarismo italiano» e Tycho ne identifica con precisione il giudizio: Bersani-Berlusconi-Monti sono i più citati, segue Grillo. Si discute accoppiando Bersani-Berlusconi, Bersani-Monti, Monti-Berlusconi (il legame è più largo nel grafico quante più numerose sono le citazioni), con il presidente Napolitano citato in mediazione e Grillo outsider. Fate attenzione alla rete di Matteo Renzi, (twitta da @matteorenzi forte di ben 361049 followers) nominato sempre per il in dialogo con Bersani: sta crescendo. È solo il primo fotofinish del voto 2013, ma l’analisi politica ormai passerà dai Big Data.Conclude Fabio Pammolli, docente di economia a Imt Lucca e Boston University, tra i fondatori di Tycho Big Data: «La novità è studiare i trend di analisi e le connessioni rilevanti, oltre i numeri dei sondaggi tradizionali. Tycho cattura le opinioni degli individui come presentate sulla rete, nei blog, nei social media, le confronta e quantifica e avanza una prima interpretazione. Non è la sola, certamente, ma esaminando le relazioni tra i vari leader l’analisi muta e si fa più precisa. Siamo al debutto di un nuovo modo di interpretare la politica e la sua critica». Twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/2013/02/10/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/l-algoritmo-che-svela-XxtQiOQ16Baa3I3ikpbIpJ/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Itanglish: così parlò il Partigiano Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2013, 09:22:39 pm Editoriali
17/02/2013 Itanglish: così parlò il Partigiano Gianni Riotta Insegnando cultura italiana all’estero si ha talvolta l’impressione che per tanti studenti la nostra sia una lingua morta, classica, ma spenta come il greco di Omero e il latino di Orazio. Che l’italiano sia invece vivo, in trasformazione continua e mai, come in questo XXI secolo, letto, parlato, studiato e innovato, si dimentica, schiacciati dalla grandezza di Dante, Machiavelli, Manzoni. A volte ho ricordato la citazione del De Mauro, meno del 2% dei cittadini parlava italiano al momento dell’Unità, 150 anni or sono, e una letteratura viva, scritta nella lingua della gente, nasce solo nel Novecento. E per interessare i ragazzi a Princeton ho citato Pavese, che scrive in inglese le sue ultime poesie, tenere e struggenti, Vittorini, a cui Hemingway dedica di pugno una prefazione all’edizione Usa di Conversazione in Sicilia, ma soprattutto Beppe Fenoglio. Il partigiano Johnny non è solo un capolavoro come romanzo politico - il dibattito tra Johnny e il professore comunista Corradi sulla moralità in guerra e nella battaglia ideologica resta imperdibile -, cambia anche completamente la struttura dell’italiano scritto, parlato e pensato. Johnny agisce secondo una volontà morale, da individuo e tra i partigiani, comunisti e autonomi, perché pensa in una lingua che non ha più la retorica fascista e monarchica. La sintassi frenetica del Partigiano Johnny, il ritmo senza uguali nella nostra narrativa, deriva dall’ibrido di italiano e inglese che Fenoglio, scrittore sperimentale, riesce a ottenere. Ma, ecco il punto, l’effetto magnifico non nasce dall’alambicco dell’avanguardia astratta, come capiterà nel Gruppo 63. È la sperimentazione di idee nuove, il coraggio morale sincero, l’azione politica democratica che, temprata dal talento narrativo di Fenoglio, plasmano la nuova lingua. Rileggete l’incontro di Johnny con i due prigionieri alleati che non vogliono più combattere, «il motore della guerra s’è rotto dentro di noi», e pelano invece patate: «Johnny parlò abruptly. - A bit unwarlike, isn’t, to be peeling potatoes? - Si voltarono lenti, guardarono in su, senza la minima sorpresa di sentir la loro lingua, in un attimo ripresero il ritmo della pelatura. Quello d’aspetto più anziano ed imposing che disse di chiamarsi Burgess, domandò semplicemente se anche Johnny era partigiano. - Yes. What army service, then? - Artirl’ry. - Where were you caught? - Marsah Matruh, 1942. - By Graziani’s troops? - Rommel’s – precisò Burgess rather martellatamente. - Where was the camp you ran out of on the armistice day? - Near Vercelli - disse Burgess, prodigiosamente riuscendo a saltare tutte le vocali del nome. - Near the rice-marshes - disse l’altro, con una voce bizzarramente immature… Si chiamava Grisenthwaite, Johnny dovette farselo ripetere ed infine ripiegare sulla sillabazione. Grisenthwaite sillabò docilmente il suo cognome, e poi: - Have you got any spare razor blade for me? - Sorry, I haven’t. The chief here tells me you’re unwilling to fight. May I know why? - Naturalmente rispose Burgess. - We have enough of fighting, me boy, ’cause we have been through too much fighting, big big fighting in the sands. Mself I’ll never put my finger on a trigger what-soever. So will my pal here Grisenthwaite. The fighting engine’s broken inside us. Furthermore...». In che lingua scrive qui Fenoglio? Un lettore italiano che non sappia, e bene, l’inglese è tagliato fuori. È Itanglish, come a New York scrivono poesie in Nuyorican, inglese e spagnolo di Portorico: la lingua futura, vaticinata dal grande romanziere del secolo scorso. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/02/17/cultura/opinioni/editoriali/itanglish-cosi-parlo-il-partigiano-mwzfdDpYxmZyfKLn3G6TeN/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Le parole e le priorità che decideranno la volata Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2013, 12:12:22 pm Elezioni Politiche 2013
18/02/2013 - - 6 giorni al voto Le parole e le priorità che decideranno la volata Di chi si parla su twitter? Dove? E di cosa? Ecco le risposte Gianni Riotta Il Partito democratico guidato da Pier Luigi Bersani resta, secondo gli umori e i giudizi del web in Italia, favorito per la vittoria elettorale, domenica ventura. Ma l’esame dei Big Data sulla rete di twitter conferma che Silvio Berlusconi ha consolidato la propria base tradizionale. La rete non scommette sulla sua completa rimonta, ma -con gioia o rammarico - riconosce che sarà attore anche nella prossima legislatura. Quanto a Beppe Grillo, gli ultimi sondaggi prima dello stop gli assegnano il voto di un italiano su cinque e la diffusa presenza online, in parallelo al successo di piazza dello Tsunami Tour, corroborano l’ipotesi che il nuovo Parlamento avrà almeno un centinaio di Grillini. Il Pd ha affrontato di petto, in queste ultime ore, gli avversarsi 5 Stelle, vedremo se l’offensiva finale darà frutti. Resta «diesel» la campagna online del senatore Monti, senza picchi forti di presenza e senza declinare. Vedremo se il quarto posto nelle citazioni che la rete riserva al primo ministro saranno, o no, previsione esatta del risultato elettorale. Agli alleati di Monti, gli ex presidenti della Camera Casini e Fini, la rete assegna un ruolo non centrale, ma ricco di citazioni. Molti su twitter collegano a sorpresa le proposte di Fini a quelle di Oscar Giannino, candidato che i sondaggi non favoriscono ma che online suscita interesse. L’analisi dei dati che la Stampa presenta oggi – elaborata da Tycho, un progetto Imt Lucca in collaborazione con Linkalab – ascolta la conversazione sociale degli italiani su twitter-microblog di 140 caratteri – e la traduce in mappe politiche che indicano i possibili scenari del 24 febbraio giudicando, in bene o in male, le strategie dei leader. E’ sempre forte la presenza di Berlusconi su twitter, marcata dalla proposta di restituire l’Imu. Esperto di tv, anche per il controllo dei tre network Mediaset, Berlusconi ha creato una testa di ponte online, grazie al lavoro di Antonio Palmieri e di account non ufficiali, ma efficaci come @berlusconi2013. Guardate la curva nel giorno storico delle dimissioni annunciate di papa Benedetto XVI: Berlusconi «fa surf» sull’onda dei commenti, magari – come spiega il professor Caldarelli nella nota metodologica – venendo criticato, o fatto bersaglio di satira, ma occupando il centro della scena. La campagna di Bersani ha invece scommesso che, senza errori clamorosi, il vantaggio di partenza del Pd sul Pdl si sarebbe forse eroso, ma lasciando il partito in vantaggio alla Camera e, al Senato, con un pacchetto di voti in grado comunque di governare in alleanza di centro-sinistra con Monti, Casini e Fini. La rete incoraggia questa settimana la scelta di Bersani, più di quanto non sembrava fare 7 giorni fa. Allora la presenza del leader Pd al Sud risultava inferiore a quella di Berlusconi e Grillo, oggi – online potete cliccare su regioni e province e ottenere la forza online dei leader nella vostra città – Bersani cresce in Sicilia, Campania, Basilicata e Calabria. Vari dirigenti e analisti vicini al Pd hanno impegnato gli account twitter, Filippo Sensi vicedirettore del quotidiano Europa con @nomfup e Tommaso Giuntella con @3OOspartani per attivare l’attenzione della rete, spesso con ironia, polemizzando con i popolari tweet @beppe_grillo. I risultati sembrano buoni al Sud, Bersani mantiene le posizioni in Piemonte, Liguria e Lombardia, più indietro Friuli, Veneto, Trentino. Le mappe indicano come Berlusconi macini bene nell’opinione politica, guardate la forte presenza a Roma, sede di giornali, tv e blog, sempre a Nord e in crescita in Puglia e Val d’Aosta dove era in difficoltà. Monti conferma la performance della settimana passata, molto citato a Roma e Milano, sedi del dibattito politico-economico, meglio, ma non bene al Sud. Grillo è sulla rete leader nazionale, capace di parlare ad ogni piazza digitale: l’esame città per città conferma che la crociata online del consigliere 5 Stelle Casaleggio funziona. Record di citazioni a Roma e Parma, dove è sindaco il grillino Pizzarotti. Potete controllare sulle mappe online Tycho-La Stampa come si batte l’ex attore nella vostra città. Questa settimana Tycho propone una novità sulla quale gli spin doctors, che consigliano i leader negli ultimi giorni di campagna, si romperanno parecchio la testa. Indichiamo per ogni candidato premier gli hashtag, le raccolte di commenti su twitter collezionate dal simbolo #. È possibile cosí individuare in che contesto vengano citati Monti, Berlusconi, Bersani o Grillo, e intuire, con una certa approssimazione, perché. La prima indicazione riguarda il nesso tv-internet, che fa del televisore piazzato in tinello uno strumento interattivo come il più sofisticato tablet. Ieri, quando Grillo ha annunciato su twitter di avere cancellato l’intervista a Sky la rete è esplosa in commenti, spesso negativi su 5 Stelle. Gli hashtag che concernono Berlusconi e Bersani citano sempre #agorarai e #tgla7 perché il conduttore di Agora e direttore di Rai 3 Vianello, come il direttore di La 7 Mentana, usano twitter per lanciare i propri programmi. Nel 2013 non esistono old e new media: l’arena mediatica è una. Altre correlazioni segnalano #Finmeccanica, vicenda spesso legata a Berlusconi e al leader della Lega Nord Maroni, #Fisco che resta chiave per il Pdl, mentre su Bersani militanti e avversari litigano a proposito di #Ilva #tangenti e #Grecia. Il caso Monte dei Paschi non dilaga online, ma cliccando sulle mappe di Siena vedrete un alto volume di dibattito. Grillo domina con l’hashtag #Tsunamitour il suo grido di guerra, e con un sonoro #piazzapulita. Quanto a Monti si considerino i temi #scuola #Lega #Sel #Obama e #Grecia: tradotto, come si schiererà dopo il voto, e quanto peso ha il suo aplomb internazionale nella campagna? Esaminate, sul sito www.lastampa.it, le relazioni online fra i leader. Vedrete che il bipolarismo ventennale Prodi-Berlusconi è diventato un poker Bersani, Berlusconi, Grillo, Monti, dove i candidati Pd e Pdl occupano il centro della scena e il fondatore del 5 Stelle sembra, fin qui, prevalere sul premier, i 4 Moschettieri della rete Italia 2013. Ma se con pazienza cliccherete sui vari incroci (più largo è il link tra due leader, più numerose le citazioni di coppia) scoprirete tanti affascinanti luoghi politici della nuova politica: i simpatizzanti di Giannino dialogano con gli elettori del Fli di Fini; il sindaco di Firenze Matteo Renzi, che ha condotto una campagna in sordina, resta collegato con forza a Bersani e spesso opposto come rivale futuro a Berlusconi. Infine Torino e il Piemonte: l’esame dei dati in Regione conferma un sabaudo «esageruma nen», esaminate la vostra città in diretta, ma la capitale Torino assegna, disincantata, attenzione «bassa» a tutti i leader. Twitter @riotta @tychobigdata da - http://lastampa.it/2013/02/18/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/le-parole-e-le-priorita-che-decideranno-la-volata-5Tws6xFhW4V85ZLyV9CQ6K/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Le parole di fiducia che ci servono Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2013, 11:21:57 pm Editoriali
20/02/2013 Le parole di fiducia che ci servono Gianni Riotta Siamo tutti molto critici sui leader del nostro tempo. Obama ha deluso, la Merkel non è Adenauer, Hollande e Cameron la pallida copia di Mitterrand e Lady Thatcher. Quando poi guardiamo in casa, che nostalgia di De Gasperi, Moro, La Malfa, Berlinguer, Malagodi davanti alle delusioni presenti. L’incapacità della scorsa legislatura di riformare la legge elettorale e contrastare la corruzione ha invigorito il Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo sarà forte nel prossimo Parlamento e, passato l’entusiasmo del «tutti a casa!», proverà a stoppare ogni provvedimento come va già facendo in Sicilia. Di questo doloroso stato di cose possiamo, volendo, accusare «la classe politica», dimenticando però che in democrazia siamo noi ad eleggerla. E fingendo di dimenticare che, a non dimostrarsi all’altezza, è l’intera classe dirigente, imprenditori, sindacati, uomini di cultura, media, accademia, manager, finanza. Non c’è categoria che non annaspi davanti al futuro, tra scandali, clientele, omissioni, difesa di privilegi e status quo. Può sorgere allora il dubbio che i leader «deboli» della nostra generazione siano invece frutto di un Paese che ha perduto valore condiviso di comunità. Nel cuore della Guerra Fredda, lo scrittore Guareschi riusciva con facilità a far intendere il prete Dc Don Camillo e il sindaco comunista Peppone, sulla Patria, la Prima Guerra mondiale, il Presepe, il Calcio, i valori rurali della Bassa contro «i signorini della città». Chiunque vinca le elezioni domenica stenterà invece a trovare il tono giusto per comunicare con gli italiani: e la stessa difficoltà logora Cameron, con Londra che vuole lasciare l’Europa e la Scozia che vuole lasciare Londra, Rajoy, sotto il 10% nei sondaggi e con la Catalogna pronta alla secessione, Hollande di cui i francesi sono delusi come delusi, subito, furono di Sarkozy. In Italia e in Europa una popolazione, sempre meno giovane, guarda al passato, gli anni del boom economico, della liberazione sessuale, della pace, con nostalgia personale e politica. Alle urne impugna la propria amarezza mentre i giovani, morsi da crisi e disoccupazione, non hanno né i mezzi per innovare come i coetanei d’America, né l’entusiasmo per creare un movimento politico. Ma l’amarezza non paga in politica o nella vita. Guardate alle elezioni per la Casa Bianca dal Novecento in avanti, sempre il candidato con il messaggio più ottimista prevale sul rivale cupo. A torto o a ragione, vogliamo sentire dai nostri leader parole di fiducia. Si cita spesso il «Sangue, sudore, fatica e lacrime» di Churchill come esempio di leader capace di esporre le difficoltà al Paese: ma sbagliando, perché Churchill era in quel 1940 super ottimista col messaggio di resistenza, mentre i colleghi pessimisti, Chamberlain e Halifax, volevano arrendersi subito a Hitler. C’è dunque un «comune discorso positivo» che il prossimo governo possa avviare dentro e fuori dal Parlamento oltre «lacrime e sangue»? Se i sondaggi saranno confermati il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, dovrebbe avere una maggioranza alla Camera, con circa il 35% dei suffragi, contando al Senato sull’appoggio del premier Monti con Casini e Fini. Berlusconi, a venti anni dall’esordio in politica, ha ancora un blocco sociale intorno al 25% con la Lega Nord, a riprova che il suo non è stato movimento di «plastica». Quanto a Grillo, il boom 5 Stelle è monito contro chi troppo a lungo ha nascosto la corruzione, ma le tossine populiste e l’intolleranza rischiano di deludere gli elettori e creare ostruzionismo. Il dialogo potrebbe nascere allora sulle riforme. In campagna elettorale nessuno ha parlato di riforme come un bene, il Paese è nervoso, troppi temono che tecnologia, ricerca, nuovo sapere digitale siano giochi snob proibiti ai senza lavoro. E’ un mito falso che farà danni terribili. Per mantenere lo sviluppo del Nord e crearlo al Sud, perché una generazione non resti disoccupata a vita, la sola strada è innovare. Pensate ai tagli della spesa pubblica necessari contro il debito: se inflitti cancellando investimenti eliminano lavoro e spaventano. Se la spesa si riduce con maggiore efficienza di pubblica amministrazione, scuola, aziende, burocrazia ecco una riforma efficace e indolore, su cui da tempo lavora l’economista Rogoff. Bersani sa che una manovra fino a 13 miliardi di euro incombe sul 2013. Sa che indebitarsi non è strada percorribile, ma sa anche che il «New York Times» liberale e l’austero commentatore del «Financial Times» Martin Wolf definiscono «perversa» la filosofia dell’Unione Europea di tagliare spesa e fare un totem del bilancio, nel mezzo di una recessione con milioni di disoccupati. Le riforme vere, non quelle dei petulanti che in nome della purezza liberista spaventano la gente, sono nel XXI secolo ormai al di là della lite Stato-Mercato. Lo Stato facilita scuola ricerca e start up e sostiene i lavoratori che non hanno il sapere necessario nel presente, il Mercato promuove innovazione e diffonde tecniche, per esempio printer 3D e produzione digitale, utili in un Paese di piccole imprese. In due generazioni, grazie alla tecnologia, in Sud Corea si è passati dalla fame al benessere: perché non in Sicilia, in partenza assai meno arretrata? Parlare agli italiani, frustrati da vent’anni di polemica e governi deboli, di riforme per crescere, non per tagliare teste, darà al prossimo premier una chance di ascolto. La usi: e chiunque sarà all’opposizione dia una mano, perfino Grillo se non vorrà passare alla storia come il nuovo Guglielmo Giannini. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/02/20/cultura/opinioni/editoriali/le-parole-di-fiducia-che-ci-servono-q65hVABsYXJdYFNGMn5dtM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Italia e Usa, perché serve il compromesso Inserito da: Admin - Marzo 03, 2013, 05:21:33 pm Editoriali
03/03/2013 Italia e Usa, perché serve il compromesso Gianni Riotta La politica del dopoguerra, dal 1945 in poi, in America come in Europa, tra i conservatori e i repubblicani, come tra i socialisti e democratici, ha fondato il governo sullo sviluppo, la spesa pubblica. Ogni generazione doveva avere uno standard di vita migliore della precedente e più servizi sociali, senza che le tasse pesassero oltre modo. Quando la recessione stringeva la corda, i leader trovavano un’intesa, quasi sempre appesantendo il debito futuro e si andava avanti. Come l’economista Nobel Paul Krugman previde nel 1989 e come gli studiosi Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff confermano per il futuro prossimo, questa leva s’è bloccata e non tornerà. Il welfare va ricalibrato su una popolazione in cui gli anziani e i bisognosi crescono, il debito incalza e le tasse non possono salire senza ondate di populismo alle urne. Lo si potrebbe fare con la tecnologia, ma servirebbe un progetto Stato-Imprese-Università che la politica non ha la forza di disegnare e gli imprenditori non hanno la visione di rivendicare. L’austerità fine a se stessa, stringere la cinghia fino a trasformarla in cappio, non persuade più i cittadini. Illudersi di dribblare la crisi spendendo come se fossimo ai tempi beati di American Graffiti e della Dolce Vita però farebbe si che il film dell’orrore prevalga subito su dramma e commedia. Populisti, comizianti da talk show, comici delle gag politiche avranno dunque un anno d’oro negli Usa e in Italia e budget in rialzo. Al resto di noi, a chi non ha un lavoro, a chi vede languire la propria azienda, chi sente la sudata pensione diluirsi, chi non ha i soldi per portare la figlia dal dentista, servirebbero, a Washington e a Roma, un governo e un parlamento dove i leader rivali studiassero accordi e compromessi (nobile parola, viene da «promessa condivisa», non insulto volgare) per il bene comune. E servirebbe che, una volta siglato l’accordo, sui giornali, in tv, nel tumulto del web, le voci di ragione e tolleranza, con passione, coraggio e senso dell’humor, isolassero il rancore rancido di chi ingrassa distillando odio, intolleranza, sarcasmo. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/03/03/cultura/opinioni/editoriali/italia-e-usa-perche-serve-il-compromesso-KOqsTCqVGZarYm6cUe9dOJ/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Venezuela, la finta democrazia Inserito da: Admin - Marzo 07, 2013, 05:24:24 pm Editoriali
07/03/2013 Venezuela, la finta democrazia Gianni Riotta La folla che ha accompagnato il feretro di Hugo Chavez, i militanti che hanno subito aggredito gli studenti democratici «siete contenti ora che è morto?», gli intellettuali che piangono l’ultima icona nemica degli «yanquis» americani, riconoscono nello scomparso presidente del Venezuela un «combattente contro la povertà». E senz’altro, nella carriera che lo ha portato da recluta dell’esercito a condannato a due anni di carcere per un golpe fallito, a leader del Paese e bandiera populista nel mondo, l’attenzione ai derelitti delle periferie è fulcro della popolarità di Chavez. Rilanciata dalla sua fantastica retorica da comizio, la capacità di attizzare il risentimento popolare contro Usa, ricchi, dissidenti con insulti fantasiosi, «apátrida», senza terra, bastarda, «escuálido», squallido, «pitiyanqui», americano formato tascabile. Indirizzando nei quartieri popolari un po’ dei profitti del petrolio di cui il Paese è ricchissimo, Chavez ottiene il consenso di tantissimi, maturato poi in ammirazione formidabile, alla Peron in Argentina: un leader, spesa pubblica sfrenata, folla adorante. Se l’opposizione democratica, rappresentata alle ultime elezioni dal governatore di Miranda Henrique Capriles, tornasse al potere non potrà dimenticare i quartieri popolari chavisti: altrimenti un Paese spaccato a metà, finirà per scontrarsi con se stesso. Davanti al Venezuela del Comandante Chavez tante star, il regista Oliver Stone, l’attore Sean Penn, il linguista Noam Chomsky, hanno visto solo il macho che tiene duro contro George W. Bush, sconfiggendo un golpe dopo averne progettato uno, l’amico di Gheddafi in Libia, Castro a Cuba, Ahmadinejad in Iran. Un populista che leggeva da giovane i romanzi di Gárcia Márquez e sognava di essere un liberatore come Simon Bolivar. Per tanti, nelle casupole del Venezuela e nelle università europee e americane, questo era Chavez. Basco da parà, camicia rossa, due o tre ore di sonno al giorno, comizi perenni, carisma emozionante. C’è però «l’altro» Hugo Chavez, censurato dalle cronache commosse. Il Chavez che impone a tutte le tv i propri, infiniti, discorsi. Il Chavez che licenzia 19.000 lavoratori del Petróleos der Venezuela perché hanno osato scioperare senza permesso. Il Chavez che impone un suo «lodo» per togliere autonomia alla Corte Costituzionale e cambia le regole elettorali pur di conservare la maggioranza di deputati all’Assemblea Nazionale. L’imponente spesa pubblica, una sorta di Cassa del Mezzogiorno lubrificata dal petrolio, gli fa vincere le elezioni e oggi lo fa rimpiangere a tanti cittadini. Ma spaventa e costringe all’emigrazione i migliori professionisti del ceto medio, dottori, ingegneri, docenti universitari e fa crollare investimenti e fiducia, tra nazionalizzazioni sfrenate e corruzione. Appalti, progetti locali, finanziamenti ad aziende, niente in Venezuela si muove se la macchina politica chavista non riceve le sue mazzette. La corruzione è rampante, e chi non fa parte dei clan deve andarsene. Giornalisti, intellettuali, politici, imprenditori, studenti dissidenti hanno vita dura. Malgrado l’immensa ricchezza del petrolio il Venezuela è in panne economica. Moises Naim, ex ministro a Caracas e direttore di Foreign Policy, osserva che il Venezuela ha «uno dei deficit fiscali maggiori al mondo, alto tasso di inflazione, valuta in pessimo stato nei cambi, un debito che cresce come nessun altro, crollo della produttività, inclusa industria petrolifera. Cadono gli investimenti, sale la corruzione. Un leader arrivato al potere con la promessa di eliminare gli oligarchi e scandali, è circondato da quelli che in Venezuela si chiamano boliburgueses, casta di dirigenti chavisti, familiari, clienti che hanno ammassato enormi patrimoni in affari loschi col governo». Davanti a queste critiche la risposta è spesso «Chavez è stato eletto, no?». E’ una prospettiva – non importa se presa in buona fede o con malizia - che non vede quello che sarà il lascito più duraturo di Chavez, anche quando, speriamo al più presto, il Paese ritroverà equilibrio politico, sociale ed economico. Un regime dove di «democratico» c’è solo il rituale plebiscito elettorale, spento poi nel conformismo autoritario ogni dibattito, dissenso, dialogo. Un neopopulismo rilanciato nelle piazze, in tv e nei social media dove il leader salta mediazioni e controlli, ignora o umilia la stampa locale, flirtando con i media internazionali. Un modello ibrido, dove si vota per il capo ma poi lo si lascia lavorare in silenzio, dove per i poveri non si creano scuole, sanità, istruzione, lavoro, promozione sociale, ma li si droga di sussidi che ne alleviano le pene, legandoli però al boss locale del partito. Un modello che funziona in Iran, in Russia e che ha funzionato, grazie al petrolio e alla personalità di Hugo Chavez, a Caracas. Una malattia diffusa della democrazia del XXI secolo di cui speriamo il Venezuela guarisca, ma a ben guardare a cui nessun Paese è immune e che la crisi economica, il malcontento e la disoccupazione possono presto rendere, ovunque, epidemia perniciosa. Gianni Riotta Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/03/07/cultura/opinioni/editoriali/venezuela-la-finta-democrazia-YJvHWfqFEFd9PDEqu6w0YL/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Lo tsunami delle urne “I giornali sotto accusa” Inserito da: Admin - Marzo 09, 2013, 11:38:33 pm Elezioni Politiche 2013
09/03/2013 Lo tsunami delle urne “I giornali sotto accusa” Social network contro gli organi di informazione: incapaci di raccontare la realtà delle persone Ma è andata davvero così? Gianni Riotta New York Se chiedete nella redazione di un giornale, o al bar della piazza di paese, «Da dove vengono i guai della stampa?» la risposta tuonerà «da internet». Come tanti luoghi comuni, però, anche questo va in pezzi confrontato con la Maestra Realtà. Sapete infatti qual è l’anno record delle tirature dei giornali negli Stati Uniti? Il 1974, ben venti anni prima del web. In Italia, ancora a metà degli anni ’80 cioè venti anni prima del boom web di casa nostra, i giornali aumentavano di pagine e influenza. Non dal web nasce la rivoluzione nell’informazione. Il mutamento è la fine della società di massa del XX secolo, impiegati, imprenditori, studenti, casalinghe, operai, contadini, soldati, destra, sinistra, cattolici, ceti o gruppi di opinione omogenei tra loro, che potevano leggere lo stesso editoriale, la stessa inchiesta, con soddisfazione condivisa. Quando, dopo 1968, Concilio Vaticano II, declino della catena di montaggio, femminismo, scuola dell’obbligo, va in pensione «l’uomo a una dimensione» deprecato dal filosofo Marcuse, ogni cittadino si scopre con gusti, idee, curiosità, bisogni, interessi variegati, diversi. Per quasi vent’anni non c’è ancora un mezzo che soddisfi questo caleidoscopio di opinioni poi arriva il web. La stessa analisi fotografa il ruolo dei giornali durante le elezioni italiane 2013. Molti osservatori, in buona fede o con malizia, assimilano l’informazione alla decadente Casta, incapace di anticipare l’umore dispeptico del paese. Se dai siti dei giornali populisti, o dal popolare blog di Beppe Grillo, si denunciano i giornalisti come «venduti», «maiali», più raffinati suggeritori insinuano che non ci sia più bisogno di un professionismo dell’informazione, basterà accedere al grande e fantastico del web per redigere, in proprio, la prima pagina del MarioRossiTimes o della GazzettaCarlottaBianchi. È davvero cosí? Fino a un certo punto. La stampa italiana ha coperto il voto 2013 secondo antiche tradizioni e filosofie, molto schierata in alcuni settori, obiettiva in altri, con la novità dei siti online. È vero che i sondaggi hanno dato una dimensione minore al boom di Grillo, ma è sempre difficile calcolare il voto di una formazione debuttante e fuori dal campione. Sugli altri partiti son stati precisi. Chi si ostina a vedere una trincea irta di filo spinato tra old media e new media, giornali, tv e web non coglie la realtà integrata del nostro mondo. Grillo ha reinvestito online la vecchia popolarità degli show tv. Twitter rende Agora, Porta a Porta, Ballarò, Sky, interattive come un sito, si guarda e commenta. Un metodo di lavoro che La Stampa ha impiegato sui Big Data con il progetto Tycho-Imt. È la riedizione del classico lavoro del cronista, suola di scarpe e parlare casa per casa con la gente, moltiplicato dalla potenza dei dati che si possono raccogliere in massa sul web con algoritmi, reti da pesca di opinioni e idee. Il silenzio sui candidati minori, la mancanza di scintilla nel centro di Monti, il veleggiare senza impeto di Bersani, la spallata di Berlusconi dopo il no all’Imu, sono stati tutti colti con precisione. I dati Tycho-La Stampa hanno colto lo tsunami di Grillo, ma al tempo stesso anticipato il suo dilemma strategico futuro: il 25% è consenso con la piattaforma online del 5 Stelle o invece sprezzante no agli altri partiti? La seconda risposta sembra corroborata dall’alta frequenza con cui Grillo è citato dalla sua, appassionata, base militante ma dagli scarsi rilievi con cui interagisce invece nella discussione con gli altri partiti. Un voto Findus, compatto ma congelato in se stesso se Grillo e il suo braccio destro Casaleggio non decideranno infine di «far politica». Ancor meglio i dati parlano se confrontati con il territorio. Come dimostrano i calcoli dei flussi del professor Roberto D’Alimonte per il Cise, è stato il Sud, in particolare Campania e Puglia, a toglier fiato al Pd, negandogli la vittoria. E sulle mappe regionali Tycho-Imt (www.lastampa.it) il Pd al Sud stentava molto, in Puglia non riuscendo neppure a passare la soglia minima delle citazioni. Visualizzazione dati di una sconfitta annunciata. I dati cantano dunque, ma i dati vanno analizzati, ponderati. Uno studio del Journal of Computer-Mediated Communication dimostra come i «troll», i calunniatori online, i sarcasmi di chi commenta nichilista in fondo agli articoli, danneggino la credibilità dei loro obiettivi in modo grave e imprevisto. Napolitano, Benedetto XVI, il Papa, Rita Levi Montalcini, nessuno è immune all’acido della perfidia online. Un pericolo che induce il pioniere del web Jaron Lanier, nel suo nuovo libro «Who owns the future» (chi possiede il futuro?) a temere che l’informazione libera finisca in mano a pochi grandi monopoli punzecchiati dai troll che alla lunga elimineranno, come pulci su un elefante. Un destino malinconico ma non obbligato. Se, come ha già cominciato a fare sperimentalmente nel 2013, la stampa impugnerà rete e dati per informare, i risultati saranno sorprendenti. A un seminario della Scuola di Giornalismo alla Columbia University, durante la recente Social Media Week, Amanda Zamora e Blair Hickman hanno parlato di callout, inviti diretti alla rete a dire la propria nel corso di un’inchiesta, sulle case fatiscenti, la scuola che non funziona, la crisi finanziaria. Anziché intervistare le solite, poche, fonti, attingere a una massa larga di esperienze, storie, aneddoti, emozioni. Insomma, se guardate senza astio al voto 2013 possiamo dire che l’informazione ha davanti a sé un grande futuro: a patto, beninteso, di non avere paura del futuro, di amarlo, studiarlo, sperimentarlo. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/03/09/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/tsunami-annunciato-nelle-urne-la-protesta-IIssuIyeke7wt46FdIqZhM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Aung, l’angelo caduto nell’inferno della realtà Inserito da: Admin - Marzo 15, 2013, 06:33:36 pm Editoriali
15/03/2013 Aung, l’angelo caduto nell’inferno della realtà Il premio Nobel da icona positiva a bersaglio di accuse e attacchi: un destino comune ad altri leader Gianni Riotta Non c’era icona più magnifica della signora Aung San Suu Kyi, dissidente e premio Nobel per la pace birmana, detenuta da una giunta selvaggia, figlia di un padre della patria, bellissima, simbolo per chi ha ancora a cuore sulla nostra Terra libertà e giustizia. Vederla lasciare gli arresti domiciliari, parlare al suo popolo, ispirare rinascita democratica e tolleranza è stata un’ora da ricordare. Ma, come tutti i simboli che tornano nella realtà, riprendono a fare politica fuori dal mito, nella vita comune, oggi la signora Aung San Suu Kyi è criticata, commette errori, vede la sua immagine corrosa nel vortice dei blog online, dei giornali. Sul sito prestigioso del Council on Foreign Relations lo studioso del Sud-Est asiatico Joshua Kurlantzick denuncia da mesi l’ipocrisia con cui la premio Nobel tace, minimizza, occulta la feroce persecuzione in corso nel suo Paese contro la minoranza musulmana dei Rohingya, un milione di esseri umani senza difese che vivono nella regione occidentale di Myanmar (l’antica Birmania) nello stato di Rakhine (già Arakan). San Suu Kyi ha invocato l’esercito contro di loro, ha negato di considerarli cittadini come tutti gli altri, non ha speso una parola per mitigare la violenza dei buddisti birmani contro i fedeli all’Islam. Ora arrivano accuse di finanziamenti controversi, di eccessiva scaltrezza nella trattativa politica, insomma il mito torna umano, fragile, imperfetto. Lesti gli avversari di un tempo si uniscono ai seguaci delusi: Aung San Suu Kyi è come tutti gli altri. Gli errori di oggi cancellano, sporcano, inquinano il coraggio e la sofferenza di ieri. È il passatempo preferito, creare icone preziose e poi travolgerle nella furia della realtà. Il nuovo papa, Francesco, era ancora sul balcone di San Pietro a chiedere la benedizione della folla, prima dell’Urbi et Orbi, e già online circolavano polemiche per la sua condotta negli anni della dittatura militare in Argentina. Cronaca corretta e rigore storico lasciavano subito posto alla diffamazione garrula: il regista premio Oscar Michael Moore lanciava sul suo account twitter una «foto» di Bergoglio che porge la Comunione al sanguinario despota argentino Videla, salvo, 24 ore dopo, suggerire che non è autentica. Vogliamo in copertina, in diretta tv, in homepage online, Angeli e aspettiamo golosi l’attimo in cui dichiararli Demoni. Ci sfugge, per ingenuità, ignoranza, malafede, che sono solo Uomini e Donne, capaci di gloria, di mediocrità, nefandezze. Ad Obama è stato dato un acerbo premio Nobel per la Pace che gli si rinfaccia adesso a ogni attacco di droni sull’Afghanistan. L’ex presidente della Federal Reserve americana Alan Greenspan era così riverito da avere una biografia chiamata «The Maestro»: ora non c’è studente di secondo anno di economia che non gli affibbi la responsabilità intera della crisi finanziaria. Così va il mondo nel 2013. Delusi dalla realtà ci rifugiamo in una patetica ricerca di purezza assoluta, nel mondo o a casa nostra. Per chi oggi decide - deluso da anni di corruzione in Italia - di dar fiducia a Beppe Grillo e agli uomini delle sue 5 Stelle nulla riesce a intaccare il miraggio di perfezione dei suoi «giovani». Eccessi retorici, ingenuità politiche, investimenti opachi che agli avversari sarebbero contestati con furore vengono invece perdonati a propri leader. Un modello, del resto, che a centro-destra, da anni, è applicato all’ex premier Berlusconi, osannato dai suoi, mai studiato dagli avversari. Nello sport non amiamo altro se non fischiare gli assi per cui ci sgolavamo ieri, nello spettacolo non c’è show più popolare di vedere la stella invidiata cadere nel fango. E’ sempre stato così, potrebbe obiettare il lettore: vero, questa meschinità fa parte della natura umana. Ma il mondo iperconnesso in cui viviamo impedisce ai leader ogni normalità. Churchill mandò lettere di adulazione a Mussolini fino a pochi giorni prima della dichiarazione di guerra nel 1940, pur di tenerlo neutrale. L’eroe pacifista Gandhi non esitò a incontrare il Duce, nemico dei suoi nemici inglesi. Roosevelt salvò l’America dalla crisi e il mondo da Hitler, ma internò, senza colpa, i civili giapponesi in California. Il mestiere di quei leader che definiamo «grandi» nei manuali di Storia sarebbe stato ancor più difficile in un’era con falangi di petulanti frettolosi - alla Moore - ad attaccarli via web ad ogni istante. Le critiche alla signora Aung San Suu Kyi sono fondate, il suo comportamento non è purtroppo all’altezza della fama e del rispetto di cui gode. Speriamo presto si ravveda e capisca che i diritti umani per cui tanti si sono battuti in suo nome non conoscono ragione «politica», e vanno sempre affermati, quando conviene e quando non conviene alla propria fazione. Nel frattempo però, in Italia e ovunque, smettiamo di incensare i leader del momento ebbri di fede, studiamoli, vediamone luci ed ombre, accettiamone con serietà limiti umani, contraddizioni, errori, incertezze. Accettiamo che torti e ragioni non stanno mai solo dalla nostra parte. Non solo capiremo tutto meglio: ci eviteremo domani una precipitosa umiliazione quando gli Angeli, che senza logica avevamo posto in Cielo, cadranno come Demoni grotteschi nell’Inferno della Realtà. Twitter@riotta da - http://lastampa.it/2013/03/15/cultura/opinioni/editoriali/l-angelo-caduto-nell-inferno-della-realta-HROyhDJlQedZa2njwCfzRM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Non si tratta solo di eleggere un presidente Inserito da: Admin - Aprile 16, 2013, 02:57:47 pm Editoriali
16/04/2013 Non si tratta solo di eleggere un presidente Gianni Riotta In 48 ore il Partito democratico gioca una partita che peserà a lungo sul futuro italiano e che, altrettanto a lungo, determinerà l’identità del Pd, la sua strategia, il suo modo di esistere. Molti dei nomi che circolano in queste ore per il Quirinale, per la successione del saggio presidente Napolitano, sono di politici perbene, dagli ex premier Prodi e Amato, all’ex presidente del Senato Marini, alla senatrice Finocchiaro. E anche nella lista dei nove prescelti da Beppe Grillo e dai suoi militanti M5S, tra giuristi come Rodotà e Zagrebelsky e lo stesso Prodi, si nomina Emma Bonino, apprezzata ex Commissario Europeo. Ma come sa bene il segretario Bersani, il nome che il Pd dovrà indicare al Parlamento ha una doppia importanza. L’uomo, o la donna, che andrà al Quirinale rappresenterà l’Italia in sette cruciali anni in cui l’Europa diventerà nuova comunità politica, dovrà ritrovare in Patria dialogo e sviluppo, ma soprattutto darà – al di là delle sue intenzioni - il segnale per un possibile governo a quasi due mesi dal voto. Nell’indicare un Presidente, il Pd sceglierà che partito essere. Ogni formula è legittima, ma la rotta presa non si invertirà senza fatica. Rompere con il centro-destra, non con Silvio Berlusconi o il suo Pdl ma con la comunità di cittadini che vota a destra, bocciandola come «non democratica», implica un Pd militante, sintonizzato sugli umori di base e iscritti, meno su quelli degli elettori, favorevoli a intese parlamentari per sbloccare lo stagno, minaccioso in crisi economica. I giornali indicano in Romano Prodi il candidato che incarnerebbe questa scelta per il Pd, lettura paradossale visto che Prodi, tecnocrate cattolico raziocinante, ha vinto le elezioni contro Berlusconi nel 1996 e nel 2006 proprio con i voti centristi, perdendo poi il governo per i capricci della sinistra radicale. L’altra scelta è riconoscere, con pragmatismo, la situazione di arrocco del 24 febbraio, prendere atto dei no irridenti di Grillo e Casaleggio e fare quel che i padri del Pd, la vecchia Dc e il vecchio Pci, dal 1946 al 1994 tante volte hanno fatto, rinunciare agli slogan e lavorare nella realtà. Per i militanti che si sono sacrificati con entusiasmo potrebbe non essere gratificante, per i cittadini che vedranno un governo che mette mano all’economia, finalmente, sarebbe una preoccupazione in meno. In questo caso il candidato favorito dai media sarebbe Giuliano Amato, e anche qui non manca il paradosso, visto che a guardare a tanti voti cattolici e moderati sarebbe chiamato un laico rigoroso (malgrado una sensibilità seria sull’aborto), l’ex direttore del Centro Studi della Cgil, un uomo della classica sinistra europea. Il doppio paradosso, in realtà, non ha ragion d’essere, arrivati al Quirinale i candidati responsabili, da Prodi ad Amato, sanno di dovere guardare all’interesse nazionale e lo faranno. La scelta strategica di Bersani e dell’intero Pd è dunque, più che il nome, che «mandato» dare all’eletto, e in che direzione cercargli una maggioranza. Per un governo largo, sia pure a tempo, o per un governo che viva, come in Sicilia, con le mance di Grillo? Il Pd è il partito che con più forza ha pagato prezzo al sacrosanto rinnovamento della politica e alle sue code populiste. Veltroni e D’Alema, che sono stati rispettivamente il software e l’hardware dei partiti nati dal Pci, hanno rinunciato al Parlamento. Alla Camera e al Senato sono andati due non dirigenti Pd. In campagna elettorale non una parola è stata spesa contro Grillo, nell’illusione che M5S mordesse Berlusconi, mentre dissanguava il Pd. Molti grillini, dice lo studio dei flussi elettorali di D’Alimonte e Mannheimer, hanno votato Berlusconi nel passato, il suo braccio destro Casaleggio si candidò perfino in una lista fiancheggiatrice, la loro ostilità va alla «Kasta», non alla Destra. Il Pd sta decidendo in queste ore come toccava un tempo alla Dc, chiamata ogni sette anni a dare, o lasciar passare, un nome per il Quirinale. Da questo nome vedremo quanto «forza di governo» è oggi, quanto capace di «egemonia» politica e culturale, nel senso dettato dal fondatore del Pci Gramsci. Gramsci sapeva che in politica si è «egemoni», non quando si persuadono gli iscritti al partito, ma quando si porta in sintonia con le proprie ragioni chi è lontano, avversario. Gramsci studiava Machiavelli, distingueva politica, morale, propaganda e temeva il populismo. Chiunque vada al Quirinale dovrà lavorare a un governo possibile o a elezioni senza caos. Perché, e qui forse la foga post voto qualche amnesia nel Pd l’ha aperta, i problemi italiani di non crescita, stagno economico, disoccupazione e perdita di peso internazionale (vedi caso India) restano interi. Chiunque vada a Palazzo Chigi dovrà combattere la disoccupazione e per farlo dovrà leggere il rapporto McKinsey Global Institute sul lavoro di marzo (integrale http://goo.gl/5uB0x ). I 40 milioni di disoccupati del mondo industriale pagano pegno alla tecnologia, che negli Usa ha cancellato 2.000.000 di posti tradizionali, creandone meno di 500.000, tutti però per personale qualificato. Dove il lavoro c’è, i lavoratori non hanno il sapere necessario: nel 2020 agli Stati Uniti mancheranno un milione e mezzo di laureati e 6 milioni di diplomati, in Francia oltre due milioni di laureati e due e mezzo di diplomati. Da noi la situazione peggiore. La sinistra italiana ha una lunga tradizione di lavoro sull’educazione dei lavoratori, dall’Umanitaria di Milano alle 150 ore dei metalmeccanici: la rispolveri per creare lavoro dove c’è nel mondo globale, non dove manca. Se Matteo Renzi, malgrado gli scatti che fanno arrabbiare qualcuno, piace agli elettori è perché dà l’impressione di volersi misurare con questa realtà, di non fermarsi a una sinistra industriale, ma di vivere in quella post industriale di oggi. Inutile dividersi se avesse ragione la Thatcher o no, se Blair è stato leader laburista grande o no. Quella stagione è finita, la sinistra deve saper vivere in un mondo con più robot e meno operai. Vedremo se il Pd sarà capace di questo salto perché stavolta, come cantavano gli Inti Illimani in un altro tempo: «Non si tratta solo di eleggere un Presidente…». Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/04/16/cultura/opinioni/editoriali/non-si-tratta-solo-di-eleggere-un-presidente-u3EvLLKJwo4bZcCeyy2BNP/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - L’ipocrisia che giustifica la violenza (Nulla la giustifica!) Inserito da: Admin - Aprile 30, 2013, 11:29:38 am Editoriali
29/04/2013 L’ipocrisia che giustifica la violenza Gianni Riotta La sparatoria di Luigi Preiti che a Roma ha ferito gravemente - rischia la paralisi - il brigadiere dei Carabinieri Giuseppe Giangrande e colpito l’appuntato Francesco Negri e una passante incinta, non è la strage di via Fani del 1978 con la strage della scorta e il rapimento del presidente Aldo Moro. La Repubblica non è sotto scacco dei terroristi, il Paese è maturato. Ma il sollievo, dopo mesi di palude politica, seguito alla nomina di Enrico Letta e al giuramento del governo di larghe intese Pdl-Pd è stato subito cancellato e nuove ansie che si sono proiettate sull’opinione pubblica, provata da crisi economica e caos politico. I ministri stavano ancora sorridendo nel solenne palazzo del Quirinale e davanti al vero regista del governo, il saggio presidente Giorgio Napolitano, quando le scene cui siamo purtroppo avvezzi, uomini in divisa a terra nel sangue, civili in fuga, cronisti con le telecamere Sky e Rai News e social media in diretta, ci hanno ricordato che il governo ha davanti tempi, e prove, terribili. La Seconda Repubblica, nata dalla crisi dei partiti storici, ha avuto come pilastro centrale, sua vera Costituzione Materiale, l’impossibilità di ogni accordo tra Silvio Berlusconi e il centrosinistra. Ogni mossa in tal senso veniva denunciata, «tradimento!» o, con parola mal tradotta dal dialetto napoletano, «inciucio», dagli ultras di destra e sinistra e dai loro organi di informazione, ieri nei giornali, oggi sul web. Rendendo impossibile la normale dialettica parlamentare, le riforme indispensabili, in economia e nelle istituzioni, soprattutto da quando la crisi finanziaria più dura dal 1929 ha spazzato via il nostro modo tradizionale di produrre e lavorare. Con il suo discorso al momento del secondo incarico, il presidente Napolitano ha incenerito quel pilastro di divisione e sciolto quel crampo ideologico e ha – davvero con frasi che passeranno nella storia italiana - richiamato alla realtà, oltre le idee e i giudizi diversi e sacrosanti delle parti. La realtà del risultato elettorale richiamava tutti, compreso Beppe Grillo e il suo M5S, a una collaborazione pur temporanea. Davanti al «no» di Grillo non restava che l’intesa Pd-Pdl. Enrico Letta, grazie alla disponibilità dei due partiti, ha creato un governo con molti uomini e donne eccellenti, che ha avuto plauso nel mondo. Illudersi però che un discorso del Presidente, una lista di ministri, un premier giovane e una maggioranza di parlamentari che tornano a ragionare potessero, come d’incanto, dissolvere astio, rancore, risentimento, sfiducia che anni di corruzione, intolleranza, abusi e sfiducia hanno radicato sarebbe stato ingenuo. Chi sia Preiti, quali sentimenti e motivazioni personali o pubbliche abbiano armato la sua mano, lo sapremo dalle indagini. La reazione emotiva seguita al suo gesto e alla sua grottesca autodifesa «Volevo colpire i politici», invece, valgono quanto un’analisi dei Big Data sul web: confermano l’identikit di un’Italia divisa e amareggiata, che ha bisogno di un lavoro lungo, da parte del governo, degli intellettuali, dei media, dei partiti per ricostruire un tessuto condiviso di valori e interessi nazionali. Ha fatto bene Beppe Grillo a dichiarare subito solidarietà ai Carabinieri, e meglio avrebbe fatto a non pubblicare, sul suo popolarissimo sito web, commenti farneticanti che rivendicano appoggio e comprensione al killer mancato Preiti «dovevi sparare ai politici!». Di certo, oggi, dovrebbe duramente rampognare i suoi militanti, tra cui un improvvido consigliere torinese, che fanno campagna sul «colpire nel mucchio» gli avversari. Otto milioni di elettori Cinque Stelle non meritano di vedersi coinvolti nella violenza. La classe dirigente italiana tutta, politici, imprenditori, media, cultura, sindacato ha mancato in questi anni di governare il Paese, privandolo di fari morali, innovazione, sviluppo. Napolitano, memore degli anni seguiti alla guerra, quando insieme i nostri padri ricostruirono il paese, pur tenendo vivo un vivacissimo dibattito in Parlamento e nelle piazze, non ha chiesto di cancellare idee diverse e diverse agende, e neppure ha proposto ai giornalisti di fare da agenti stampa del governo. Ha detto quel che l’ammiraglio Nelson segnalò con l’alfabeto delle bandiere, ai marinai della sua flotta alla vigilia della battaglia di Trafalgar, 1805: «L’Inghilterra si aspetta che ciascuno di voi faccia il suo dovere». Niente di più, niente di meno, tocca ora a noi, fare il nostro dovere. L’hanno fatto certo ieri i carabinieri feriti a Roma, con i loro colleghi, che invece di crivellare di colpi l’attentatore rimasto senza cartucce in canna, come sarebbe accaduto in moltissime altre capitali in un giorno ad alta tensione, lo hanno arrestato senza un graffio, consegnandolo incolume alla giustizia. Prova professionale ed umana da Paese civile – rara, lo ripeto, anche per tante democrazie - di cui ringraziarli ed essere fieri. Le malefatte della «Casta» non giustificano in alcun modo la violenza. Nemmeno ci servono a comprenderla, o ne attenuano la colpa: gli anni del terrorismo insegnano che questa velenosa ipocrisia distrugge il garantismo e nasconde alla fine complicità. Neppure ci serve imputare alla «Casta» ogni impotenza del nostro presente, siamo in 60 milioni di liberi individui, non siamo servi della gleba russi, anime morte di Gogol. L’Italia ha bisogno di lavoro, sviluppo, benessere, unità. Di dare uno stipendio a ragazzi che non l’hanno mai avuto, di usare il loro talento e la loro cultura frustrate e svilite. Non sono le pistole, non sono gli slogan di odio, non è il predicare che una parte sola, la «nostra» abbia il monopolio di etica e democrazia, che ci faranno crescere dopo una generazione di stagno. Desideravamo vivere una domenica tranquilla intorno a Enrico Letta e ai suoi ministri, speravamo in un varo tra i sorrisi, non nel sangue. La storia ha voluto diversamente: ma l’immagine del brigadiere Giangrande riverso sui sampietrini di piazza Montecitorio, davanti al Parlamento cui la Costituzione Repubblicana affida la democrazia nel nostro paese, ci richiama a un dovere rinnovato. I ministri e il premier, i parlamentari tutti ma anche noi cittadini semplici, davanti ai quei sassi bagnati dal sangue di un uomo che lavora per difendere la nostra libertà, abbiamo un dovere semplice e aspro: fare insieme, ogni giorno, come Giangrande, il nostro dovere. DA - http://lastampa.it/2013/04/29/cultura/opinioni/editoriali/x-MVe0v34catinKZp18sPG5K/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - La Rete è lo specchio del nostro tempo Inserito da: Admin - Maggio 04, 2013, 03:42:52 pm Editoriali
04/05/2013 La Rete è lo specchio del nostro tempo Gianni Riotta La rete siamo noi, la nostra vita globale è online, come persone e come cittadini. I nostri affetti più intimi sono su Facebook, il nostro lavoro appare su LinkedIn, le nostre foto non vanno nell’album come una volta ma su Instagram. Leggiamo online, scegliamo online i nostri viaggi, online si matura il dibattito politico e culturale. Dieci anni fa il mondo digitale ha cambiato la musica, cinque anni fa i giornali, presto toccherà alle università trasformarsi, programmi come i Moocs o Coursera costringeranno gli atenei a confrontarsi con l’istruzione via Internet. Papa Francesco è su Twitter, ieri la Cei si interrogava sull’evangelizzazione online in Italia con una relazione di Monsignor Pompili. Il finanziere e mecenate americano Warren Buffett arriva sui microblog di 140 caratteri, senza tweet non raggiunge ormai l’americano medio. La rete è specchio del nostro tempo, realtà del XXI secolo. Ci parla di libertà e oppressione, ci fa stampare merci con i printer tridimensionali, ci fa perdere posti di lavoro nei settori tradizionali. Nessuno sfugge al suo onnipresente network. Regolare il web sembra dunque indispensabile, perché nessun Far West resta senza steccati, sceriffi e bounty killer per sempre. Ma regolare la rete senza lacerarla, appesantirla con i piombi di leggi e filtri che ci privino della libertà digitale non è semplice. Ora la presidente della Camera Laura Boldrini riapre il caso «responsabilità e web» dopo le minacce razziste subite da siti squallidi e pericolosi. Rete aperta non può implicare - come troppi illusi e furbi predicano, per ignoranza o interesse - che ognuno possa, protetto dall’anonimato personale e di website, ricattare, calunniare, infangare, minacciare leader politici e semplici cittadini. Negli Anni Settanta l’informazione italiana impose ai giornali di pubblicare i bilanci, perché conoscendo la proprietà di una testata è più semplice distinguerne gli interessi. Nel web non è così, di influenti siti non conosciamo bilanci, sponsors, proprietà. Questo è un tema - trasparenza delle testate - su cui lavorare. Il resto, come purtroppo la presidente della Camera scoprirà, è assai complesso. Il blocco delle leggi Sopa e Pipa in America, e il fallimento delle velleità Onu di «regolare il web» lo dimostrano. È ovvio che minacce di morte, ricatti, violenza negli slogan vadano messi al bando dalla rete, ma se ci provate in concreto vedrete che non è semplice come mettere il lucchetto al garage. Ieri due dirigenti del centrodestra, Maurizio Gasparri e Antonio Palmieri, hanno preso sul tema posizioni opposte, Gasparri d’accordo con la Boldrini – che pure è stata eletta con la sinistra -, Palmieri contro. Perché non si tratta più di dialettica Destra-Sinistra come ai tempi dell’Illuminismo, ma di valutazione sulla natura delle Rete. A Gasparri Palmieri spiega che la Rete non «risiede» in Italia, in America o in nessun luogo, regolarla non è semplice. Perfino i cinesi, che hanno un sistema di censura sofisticato e costosissimo, non riescono a fermare i dissidenti, figuriamoci noi in democrazia con gli invasati. La presidente della Camera, del resto, denuncia anche i paparazzi che inseguono sua figlia 19enne mentre corre in motorino mettendola a rischio, o i miserabili che cercano di fotografare suo fratello, autistico. Anche gli old media, purtroppo e non solo il web, pullulano di guai, arroganze, materialismi da quattro soldi. La tecnologia è, e resterà, più veloce del diritto. Le leggi sull’agricoltura e la sua proprietà ebbero millenni per regolare un settore che mutava pochissimo di generazione in generazione. L’industria classica ebbe un secolo, dallo sfruttamento dei bambini al welfare state, per trovare l’intesa con la legge. I primi giornalisti in Germania, dopo Gutenberg, vennero scuoiati vivi, e la loro carcassa impagliata e mostrata nelle fiere a monito contro l’informazione. Ci vollero secoli per una regola democratica ma alla fine arrivò. Il web, che richiedeva prima un computer da tavolo, poi da borsa e oggi arriva in tasca con i cellulari, muta ogni sei mesi, i social media che scandiscono la nostra vita erano sconosciuti solo dieci anni fa. Oggi l’esercito israeliano e Hamas si insultano a vicenda su Twitter, portando l’odio in tasca a ciascuno di noi. Altro che Paradiso online! Non è però il web a rendere feroci i siti, è la ferocia che c’è in giro ad animali. A Torino hanno inneggiato in corteo allo sparatore di Roma, come usava con le Br negli Anni 70 e allora il web non c’era. Una legge non fermerà il populismo violento, anche se, certo, chi minaccia online va punito: e fa male, molto, Beppe Grillo a illudersi di guidare la tigre della rete afferrandola per la coda e fingendo di credere che la Boldrini chieda censure. L’ex attore e oggi capo del M5S, che distruggeva un tempo i computer sul palcoscenico, si accorgerà presto che, scatenato, l’Apprendista Stregone non si riesce più a fermare. Le leggi ci sono e si possono, lentamente, migliorare. Ma alla lunga la battaglia tra Tolleranza e Intolleranza, Equilibrio e Violenza, Ragione e Ricatto online la si vince su valori, argomenti, chiarezza, ideali. Il web non è arma del Male o Scudo del Bene: è il campo di battaglia tra Bene e Male, tra democrazia e populismo irrazionale. La repressione serve in casi estremi ma giorno dopo giorno ci serve una paziente opera di persuasione. Con l’umile consapevolezza che tanti lavoreranno contro e che, a guardare il web di oggi, non ci appare affatto un vincitore certo. Per vincere contro grassatori, razzisti, violenti online una legge non basta, servono intelligenza, forza d’animo e amore per la rete e la giustizia. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/05/04/cultura/opinioni/editoriali/la-rete-e-lo-specchio-del-nostro-tempo-KwJE02o2cx748jN2IelUxO/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Obama, l’eredità più forte degli scandali Inserito da: Admin - Maggio 20, 2013, 11:55:28 pm Editoriali
19/05/2013 Obama, l’eredità più forte degli scandali Gianni Riotta Brutti giorni per il presidente americano Barack Obama: i repubblicani lo accusano di non avere protetto l’ambasciatore ucciso in Libia con altri tre funzionari; il movimento conservatore dei Tea Party è furioso perché l’Irs, il fisco Usa, ha tenuto sotto mira i suoi finanziamenti; perfino la sinistra liberal, Guardia Pretoriana della Casa Bianca, lamenta un ministero della Giustizia ficcanaso sulle telefonate dei cronisti Associated Press. Ogni presidente nel secondo mandato è vittima di scandali, veri o presunti, con cui l’opposizione, e una stampa ridotta alla petulanza dall’incapacità di analisi e di critica serie, cercano di limitarne l’opera. Prima di Monica Lewinsky, Clinton e sua moglie furono martoriati su una speculazione in Arkansas, il caso Whitewater, di cui nessuno capì il senso. Reagan inviò una torta agli ayatollah in Iran, nella vicenda disgraziata Iran-Contras. Bush figlio fu crocifisso per l’alluvione a New Orleans. I repubblicani esagitati chiedono addirittura l’impeachment, l’incriminazione davanti al Senato, contro Obama. Sarà dura, nella storia bisecolare della Repubblica solo due presidenti sono stati rinviati a giudizio, Andrew Johnson nel 1868 e Clinton nel 1998, entrambi prosciolti. La raffica di scandali serve a tenere il Presidente sotto scacco, paralizzare la riforma sanitaria, bloccare la legge sull’immigrazione, stopparne l’agenda per il ceto medio. Come reagirà la Casa Bianca? Fin qui Barack Obama, cerebrale, distaccato, amletico, è riuscito a eludere le critiche non di parte, sia in America che in Europa. Denunciato a destra come «socialista» e coccolato dai sostenitori «un vero liberal», Obama è invece solo un centrista moderato. Nei suoi libri incoraggia la fine dello scontro politico in America e rimprovera le minoranze per il culto del vittimismo. «Tiratevi su i pantaloni fratelli» e andate a lavorare dice severo ai giovani afroamericani. In politica estera, dopo il magnifico discorso del 2009 all’Università del Cairo Al-Azhar in cui promise di «Ricominciare» il dialogo con i musulmani salutandoli «Assalaamu alaykum», Obama ha ordinato più raid con i missili droni di quanti non ne siano partiti sotto «il falco» Bush figlio. I repubblicani hanno difficoltà a dipingerlo da sinistrorso perché Obama la pensa giusto come la maggioranza degli americani: via dall’Iraq, via dall’Afghanistan, Dio ci scampi dall’intervenire in Siria, colpiamo i terroristi senza mettere a rischio i soldati, con robot teleguidati. Che questa sia una posizione «liberal» sembra difficile da sostenere, ma il fascino del presidente funge da cosmesi politica. I bombardamenti allontanano la fiducia delle popolazioni civili predicava già nel 1963, in un testo dimenticato, James Eliot Cross, «Conflict in the shadows», guerra nell’ombra: «L’aviazione è troppo veloce per le guerre “politiche”, non distingue il nemico combattente dall’uomo o la donna civile e innocente, nemmeno se i soldati si fanno riconoscere agitando i fucili. La perdita di consenso dei bombardamenti sui civili pesa più di qualunque successo contro i guerriglieri eliminati». Cross, massimo esperto di controguerriglia, parlava di Vietnam ma la sua massima pesa adesso su Obama. Al tempo stesso, però, come dipingere da «debole» un presidente che scaglia dalla Casa Bianca missili droni come Zeus le sue folgori dall’Olimpo? È dunque probabile che il Presidente se la cavi, salvo imprevisti. È ormai assodata la sua incapacità di «far politica» in Congresso, raccogliendo i voti dei repubblicani – per esempio sul porto d’armi, riforma benemerita e fallita - con la pazienza e l’umiltà di Lincoln nel bellissimo film di Spielberg. Ma i suoi rivali irritati e i suoi sostenitori perplessi, finiscono insieme per perdere la cifra che la Storia assegnerà a Barack Obama. Il suo carisma non trova riscontro nelle riforme approvate, ma il Presidente – grazie alla comprensione razionale dell’America del XXI secolo, identificata via Big Data raccolti dai suoi collaboratori - ha cambiato natura alla politica Usa. Oggi il partito democratico ha l’egemonia sui ceti urbani modernizzanti delle due coste, tra le donne e spopola tra gli emigranti, futura maggioranza. L’ottusità partigiana relega i repubblicani nella condizione di partito di minoranza in cui i democratici hanno languito dal 1968 al 1988, vincendo in venti anni una sola volta, e male, con Carter. Allora i democratici premiavano alle primarie i candidati radicali, finendo bastonati alle presidenziali dai centristi, ora lo stesso destino tocca ai repubblicani che, senza le ubbie dei Tea Party, controllerebbero anche il Senato. Questa eredità storica Obama lascia non al Paese, ma al partito: una nuova coalizione sociale. La coalizione di F.D. Roosevelt tenne – con la parentesi centrista e moderata di Eisenhower - i democratici alla Casa Bianca dal 1933 al 1968 grazie a lavoratori, intellettuali, minoranze, sindacati. Obama raccoglie minoranze «quasi maggioranze», ceti tecnologici, donne, città. Nixon rigirò la bilancia e diede una generazione di egemonia centrista ai repubblicani del Grand Old Party con i bianchi del Sud e gli operai ostili al 1968: quanto ci vorrà perché i suoi eredi battano la destra estremista e tornino a dialogare con ispanici e donne emancipate? Secondo molti osservatori lo schieramento di Obama durerà almeno una generazione. Secondo me il pendolo Progressisti-Conservatori che lo storico Arthur Schlesinger considerava simbolo della politica americana non si muove più al ritmo languido di un blues di Ella Fitzgerald, ma alla frenetica cadenza del rapper Nas. Obama ne ha rivoluzionato lo spartito e sopravviverà ai guai di oggi. I repubblicani impareranno però infine a suonare la salsa ispanica, i brani di The Voice cari alle donne giovani e la musica rap dei neri. Per ora, alla Grande Orchestra America, il bastone da direttore resta in mano al Maestro Obama. Twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/2013/05/19/cultura/opinioni/editoriali/obama-l-eredita-piu-forte-degli-scandali-TWrM9On3CSvDftT1il9oyO/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - È inglese l’assassino che voleva restare nei video del mondo Inserito da: Admin - Maggio 24, 2013, 11:18:39 am Editoriali
24/05/2013 - lo choc online È inglese l’assassino che voleva restare nei video del mondo Gianni Riotta I passanti con i telefonini, la donna coraggiosa che cerca di distogliere i killer da ulteriori crudeltà, i cronisti che dai computer si collegano via radio in dirette immediate. Immagini che un tempo sarebbero state condensate in poche frasi strappate ai testimoni dai cronisti più svegli, diventano ora parte della nostra coscienza, orrore online. Pensate alla grande strage dell’11 settembre 2001 a New York: rivedete l’aereo colpire la seconda Torre, l’incendio, gli sfortunati che volano dalle finestre, il crollo del vecchio World Trade Center, la nuvola di polvere che insegue i sopravvissuti Lower Manhattan. Sono immagini riprese dalle televisioni o scattate da fotoreporter professionisti, come il maestro Jim Natchwey. Non vengono da smartphone, telecamerine portatili che ciascuno di noi conserva in tasca o nella borsa: oggi una strage, un attentato, un’emergenza trasforma impiegati e casalinghe in cronisti della storia. La social media editor del «New York Times» Jennifer Preston, la donna che sta pilotando il quotidiano più importante al mondo nel futuro, racconta di quando vide apparire su Twitter la fotografia del jet finito sul fiume Hudson: i fotografi del quotidiano erano ancora lontanissimi dalla riva e già un passante aveva fermato per sempre i passeggeri che, uno dopo l’altro, si allineavano salvi per miracolo sull’ala del velivolo a fior d’acqua. In un secondo la Preston capisce che frenesia del giornalismo e maestà della Storia sono cambiate, ogni evento è scolpito per sempre. Ad Atene si attendevano i marmi del Partenone, a noi basta un cellulare. Ogni momento della nostra vita, il sorriso di un bambino, un piatto ben riuscito, la fine della partita a tennis, i dati del documento che ci scoccia ricopiare, vengono ormai registrati in immagine o video da smartphone. La Samsung promette perfino l’immagine doppia, che riprenderà insieme chi vogliamo fotografare e noi stessi, sovrapposti, un doppio occhio che avrebbe affascinato i grandi critici dell’arte fotografica, Walter Benjamin e Susan Sontag. Se possiamo avere sulla stessa foto nostro figlio e noi, il gol della squadra e il nostro urlo felice, la fidanzata che desideriamo e il ritratto del nostro desiderio, è purtroppo parallelo anche il doppio obiettivo sul male. Il grido di Allah U Akbar che gli assassini han lanciato è perpetuato ora su Google, YouTube, Twitter, Facebook i social. Un tam tam elettronico che non conoscerà freno, né oblio, preservato per sempre nei «cloud», i serbatoi elettronici di memoria collettiva. I terroristi lo sanno, come lo sanno i killer solitari che prima di far strage nelle scuole americane si riprendono «dressed to kill», vestiti a morte. Nessuno potrà fermare questa Macchina della Verità Eterna e Globale in cui abbiamo scelto di vivere con regole o divieti. È nella natura umana, dai fregi primitivi sulle grotte di Lascaux ai graffiti metropolitani, ostinarsi a fermare la realtà con un segno. Chi vuol seminare morte e odio nel nostro Pianeta confida che il web sarà la sua velenosa ragnatela. Chi non smette di credere che la tolleranza e il dialogo siano più forti della mannaia insanguinata – come la donna che ha forse impedito altri morti oltre allo sfortunato Lee - ha invece nel web un alleato. Per esempio, rilanciando ovunque, anche nel mondo arabo, le parole sagge del premier inglese Cameron, che ha parlato di «tradimento dell’Islam» nell’agguato di Woolrich. La reazione di Cameron è quella giusta, fede nella democrazia, fede nella giustizia e nel diritto, ancora una volta new media e old values, mezzi di comunicazione nuovissimi, per preservare valori antichi e benigni. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/05/24/cultura/opinioni/editoriali/inglese-lassassino-che-voleva-restare-nei-video-del-mondo-YfhAjQ6nHaW0E3S5ThLz4K/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Non evocate il Grande Fratello Inserito da: Admin - Giugno 07, 2013, 06:39:43 pm Editoriali
07/06/2013 Non evocate il Grande Fratello Gianni Riotta Capire bene la vicenda del traffico telefonico americano controllato sotto l’amministrazione democratica di Barack Obama, ci permette di intravedere non solo il futuro politico americano, ma anche la nostra vita quotidiana prossima. La questione è semplice solo in apparenza: il quotidiano inglese The Guardian rivela che, da aprile, la Casa Bianca fa controllare la rete di telefonate della grande compagnia Verizon, grazie alla legge Patriot Act contro il terrorismo approvata ai tempi del repubblicano George W. Bush. Non si tratta, guardatevi dall’errore diffuso, di tradizionali intercettazioni: le autorità dello spionaggio Nsa, National Security Agency, non ascoltano il contenuto dei dialoghi ma, connettendo tra loro le informazioni – in gergo metadata, dati sui dati - creano un identikit perfetto degli individui, delle loro relazioni, movimenti, affari e, nel caso dei terroristi, intrighi e trame. Il presidente Obama ha ieri difeso la pratica sostenendo, tramite un portavoce, che né si ascoltano voci, né si schedano cittadini. Le organizzazioni di tutela della privacy, come l’Aclu, si ribellano, il Congresso si divide, qualcuno – come il National Journal - irride la «Casa Bianca Bush-Obama», sostenendo che, al di là della propaganda, tra bombardamenti con i droni, Guantanamo, controllo ai reporter Ap, inchiesta fiscale sui Tea Party, Grande Fratello Nsa, lo stile non è cambiato. Il chiasso politico sarà forte, ma non dobbiamo farcene distrarre. La questione centrale è: opporre alla vicenda Casa Bianca - Nsa - Verizon un concetto primitivo di privacy, per intenderci precedente il web, la telefonia mobile e i social media, è come voler fermare le cascate del Niagara col secchiello da spiaggia. Una generazione fa si intercettava una telefonata per costruire un processo, registrando legalmente, o illegalmente. Oggi i dati esistono «comunque», già a disposizione delle compagnie telefoniche, informatiche, dei motori di ricerca. Le aziende li analizzano di routine e spesso non si tratta di dati carpiti in segreto, ma di informazioni che i cittadini rendono pubbliche volontariamente, via Facebook, Twitter, blog. Chi è «padrone» di questi dati? Noi? Le aziende che ci offrono un servizio pubblico gratuito, Facebook, Twitter, YouTube, Google Gmail, proprio in cambio di notizie da rivendere ai pubblicitari? E se Verizon, un ospedale, una scuola, una biblioteca, Amazon, conservano dati a valanghe, non ha diritto lo Stato a controllarli per tutelare la nostra sicurezza? Non è l’analogo informatico delle umilianti perquisizioni cui ci sottoponiamo partendo in aeroporto? Fate attenzione alla differenza: non sono informazioni che occhiuti 007 collezionano di nascosto, sono dati già schedati dalle compagnie: è giusto o no contribuiscano a difenderci da attentati? Ieri la Casa Bianca ha ribadito che il Patriot Act tutela i controlli Nsa e ha negato che l’intelligence conosca l’identità dei cittadini coinvolti, disegnandone via data visualization solo la rete. Purtroppo entrambe le dichiarazioni di Obama suscitano interrogativi. Come scrive il giurista dell’Università di Harvard Noah Feldman, la Corte che assicura la legalità dell’operato di Obama, l’interpretazione giuridica del Patriot Act stesso, sono tutelate dal segreto della legge, quindi i critici, e perfino gli avvocati, non hanno accesso trasparente alle norme. Il dettaglio fa infuriare l’ex vicepresidente Al Gore, ma permette a Obama di schivare i controlli, lasciando i cittadini in balia dello Stato. È vero che l’analisi dei metadata è fruttuosa contro i terroristi: per fare un esempio di casa nostra, lavorare sui metadata sarebbe cruciale per scovare gli evasori fiscali, a patto di avere un sistema informatico all’altezza. E per questo molti americani non protesteranno poi troppo contro le rivelazioni del Guardian. A patto però di essere coscienti, oggi in America e domani in Italia, che dalla mappa del traffico della rete, all’identificazione dei cittadini stessi via smartphone, i passi sono pochissimi e banali. Un saggio apparso su Scientific Reports, firmato da studiosi del Mit e dell’Università di Lovanio, ha analizzato 1.500.000 telefonate da cellulari in Europa in 15 mesi: usando solo 4 coordinate spazio-tempo ha identificato ben 95 cittadini su 100. Basta coordinare, per esempio, la chiamata da una certa località con un post su Facebook o Twitter, e il gioco è fatto. Se due ricercatori, un dottorando e un assistente universitario ci riescono con i mezzi limitati dell’Università, immaginate cosa non riesce a fare il dominio di computer Nsa. Il caso Nsa - Verizon - Casa Bianca illumina dunque il mondo in cui abbiamo scelto di vivere nel XXI secolo, smartphone in tasca. Una sfera dove «pubblico» e «privato» non hanno più confini e dove i «dati» sulla nostra vita sono già raccolti, esaminati e schedati da burocrazie commerciali o politiche, in gran parte dati offerti da noi stessi. Gridare al Grande Fratello di Orwell non serve, scrivere leggi da Cyber-Azzeccagarbugli che la tecnologia aggirerà domani stesso, neppure. Servono coscienza dei cittadini sulla nuova realtà (e coraggio di studiare il futuro per chi si occupa dei media), trasparenza per politici e magistratura. Perché fanno più danni una legge segreta e un tribunale opaco, di tutti i metadata del mondo. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/06/07/cultura/opinioni/editoriali/non-evocate-il-grande-fratello-IOZyDfsOvg3PfiUjZlLKAN/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Le nostre abitudini che regaliamo con un clic sul Web Inserito da: Admin - Giugno 08, 2013, 06:11:04 pm Esteri
08/06/2013 Le nostre abitudini che regaliamo con un clic sul Web Nessuno ruba le notizie, sono tutte già disponibili on line Gianni Riotta Tre miliardi di telefonate al giorno, senza contare le e-mail: questa la giungla di dati che la National Security Agency e l’amministrazione Barack Obama sono accusate di avere controllato, con il programma segreto Prism. Il presidente sa di avere la legge dalla sua parte, perché – purtroppo - il vecchio testo Foreign Intelligence Surveillance Act, voluto nel 1978 da Ted Kennedy e Jimmy Carter, è stato così stravolto dal Patriot Act, dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001, da dare alla Casa Bianca perfino un Tribunale segreto che concede permessi di controllo senza contraddittorio. La sorpresa politica che un paladino – a parole - della trasparenza come Obama, abbia messo su un gigantesco sistema di controlli, è sorpresa solo per chi non abbia seguito con attenzione la mostruosa macchina con cui la Casa Bianca ha vinto le elezioni 2012, grazie all’analisi Big Data sugli elettori aperta da John Kerry già nel 2004. Raccolti, certo, in modo legale, ma giusto ieri si è scoperto che gli uomini di Obama hanno battuto con un 42% di precisione in più perfino Nate Silver, statistico principe del «New York Times». Chi toglierà di testa ai nemici del presidente, ai Tea Party, al commentatore radio Limbaugh, che la sua campagna elettorale non abbia utilizzato il flusso dei dati, raccolti in apparenza contro il terrorismo, per cercar voti? Nessuno: ma è una posizione ingenua, e se vuole davvero capire cosa sta accadendo, il lettore dovrà fare un passo indietro. È sbagliato dire - come fanno tanti in queste ore, per ignoranza o furbizia - che i «dati vengono raccolti». I dati sono già «raccolti» non appena mandiamo una mail, facciamo una telefonata, postiamo su Facebook o Google +. Paolo Vecchi di Omnis Systems ha spiegato a «The Guardian» come la corrente di dati passi da «Content delivery networks», la «colonna vertebrale di Internet». Compagnie come Cisco guidano il traffico e il contenuto non è schermato. Le aziende spiate negano, con linguaggio burocratico, di avere collaborato con Nsa, Eric Schmidt di Google twitta da @ericschmidt di non avere «una porta posteriore» per dare al governo i dati. È vero, ma Obama non ha bisogno di chiederli, e se lo ha fatto con Google e Facebook, è solo perché l’industria digitale lo ha sempre sostenuto e non vuole irritarla. Calcola Lori Andrews, giurista autrice del saggio «I Know Who You Are and I Saw What You Did: Social Networks and the Death of Privacy» che Facebook abbia in media sui propri utenti 1600 pagine di informazioni. In Europa possiamo richiederle, negli Usa non possono. 85% del fatturato, 3,7 miliardi di dollari (circa 3 miliardi di euro) vengono prodotti analizzando dati che volontariamente i cittadini affidano a Facebook, Google fattura dieci volte tanto grazie a dati da ricerche e Gmail. Obama si schermisce: se vi sta bene che le aziende si arricchiscano sui vostri dati, non ve la prendete poi se Nsa li guarda per proteggervi dai terroristi, tanto più che non ascoltiamo le vostre telefonate e seguiamo stranieri, non americani. Un sondaggio «Cnn» prova che l’opinione pubblica è spaccata e, per esempio, l’ex direttore di «The New Republic», oggi blogger, Andrew Sullivan suggerisce prudenza: bilanciare privacy e anti-terrorismo. Prima di gridare al Grande Fratello, dunque, ricordate che se il programma Prism si vanta di controllare «email, chat in video e voce, filmati, foto, documenti di archivio, VoIP (chiamate via web), trasferimento file, teleconferenze, analisi dei social media» quei dati sono «già» archiviati e studiati online. A ridimensionare orgoglio dell’intelligence e paure dei difensori della privacy, guardate al budget di Prism, 20 milioni di dollari appena (15 milioni e mezzo di euro). Per quella cifra, gli studiosi di Big Data lo sanno, controllare «ogni» telefonata Usa, «ogni» mail, è illusione. «The Guardian», uno dei giornali dello scoop con «Washington Post» e «Wall Street Journal», calcola che Twitter generi 5 terabyte di dati al giorno (unità di misura dell’informazione digitale, per esempio l’Enciclopedia Wikipedia supera 9 terabyte solo nel 2011): se la compagnia Topsy spende 6 milioni di dollari l’anno per archiviare i tweet, con 20 e la rete tutta non si va lontano. Quali sono le prime morali del caso Prism? 1) I dati sono campo di battaglia del futuro, in economia e in politica, chi li controlla e meglio analizza ha vantaggio strategico, su rivali e concorrenti. 2) Obama, a lungo giudicato un libertario filo privacy, è presidente che punta su intelligence e sicurezza, quanto George W. Bush. 3) Nel XX secolo era decisivo il copyright sui contenuti, nei media, in politica, nel lavoro di polizia e intelligence, contava «chi» sapeva «che cosa» e chi più sapeva meglio resisteva, vedi Guerra Fredda. 4) Oggi il vantaggio va a chi meglio analizza il flusso dell’informazione sulla rete, studiandone i nodi e i flussi. Sono le ultime parole scritte da Italo Calvino prima di morire: la rete è il sapere del futuro, il sapere e il potere. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/06/08/esteri/le-nostre-abitudini-che-regaliamo-con-un-clic-sul-web-vm5if2RzIyerXzEP5hbL7J/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Le età della protesta Inserito da: Admin - Giugno 23, 2013, 11:06:08 am Editoriali
23/06/2013 Le età della protesta Gianni Riotta Una generazione fa il comico Marcello Marchesi divertiva dalla tv in bianco e nero con la gag tenera dell’«uomo di mezza età», i suoi tic e le sue idiosincrasie. Oggi siamo un Paese di «mezza età» e la manifestazione di ieri dei sindacati Cgil, Cisl e Uil ne è testimonianza, non solo nei sorrisi e nei volti di tanti dimostranti in corteo – molti già attivi nell’autunno caldo 1969 in blue jeans -, ma anche negli obiettivi. La segretaria della Cgil Camusso ha chiesto «la restituzione fiscale per i lavoratori e i pensionati, per fare ripartire i consumi e la produzione», primo choc contro l’anemia economica, che non risolverà il ritardo del nostro Paese su produttività, saperi, nuove produzioni. Il leader della Uil, Angeletti, ha parlato con un linguaggio che avrà ricordato ai dimostranti la gioventù, invocando «un piano per il lavoro» e annunciando che «saranno i disoccupati a staccare la spina al governo Letta» (per mettere sotto carica quale governo, il sindacalista non ha detto). Per confrontare il pacifico e colorato corteo di ieri con la protesta sociale e politica che in questi giorni ha animato la Turchia e il Brasile, basta esaminare le età medie dei tre Paesi, la demografia è carta di identità di una nazione, fattore importante del futuro economico. Gli assi del calcio che si sono sfidati ieri sera sono entrambi giovani, 1990 per l’azzurro Balotelli, 1992 per il campione della Seleçao Neymar: tra i tifosi tutto cambia. Ai nostri 44,2 anni di media (43 gli uomini, 45,3 le donne), il Brasile oppone una media di 30,3 anni, 29,5 per gli uomini, 31,3 per le donne. La Turchia è, di poco, più giovane, media 29,2 anni, maschi 28,8, femmine 29,6. La «coppia media» italiana ha alle spalle matrimoni, scelte di lavoro, figli e riflette già sulla seconda parte della vita. Le «coppie medie» turca e brasiliana hanno appena finito i venti anni, con tutta la vita davanti. È chiaro come le scelte politiche divergano davanti a questa differenza. Il sindacato italiano difende per i propri iscritti quel che resta dei frutti del boom economico italiano Anni 60, e dei contratti stipulati dal 1969 in avanti, quando il salario reale dei nostri operai aumentò sensibilmente per la prima volta nella storia. Battaglia nobile, ma che non ha al primo posto l’innovazione, la tecnologia, le start up, la additive manufacturing, le specializzazioni che oggi creano nuovo lavoro anche nei Paesi sviluppati. In Turchia e Brasile l’ondata di protesta guarda oltre i successi del dopo Guerra Fredda, e vuole accoppiare benessere sociale a libertà individuale. Come «La Stampa» ha osservato prima delle proteste che hanno acceso Rio, la presidente Dilma Rousseff ha prematuramente frenato sulla crescita del Brasile, 20 milioni di persone entrate nel ceto medio in pochi anni, agendo un po’ sulla falsariga della prudenza degli slogan sindacali di ieri, «Piano per il lavoro», «Democrazia è lavoro». Troppo presto per gestire il successo, in una nazione dove ancora troppi soffrono nelle favelas, passando la vita su impossibili trasporti pubblici che raddoppiano l’orario di lavoro e con criminalità comune feroce. Un analogo errore di superbia politica ha compiuto in Turchia il premier Recep Tayyip Erdogan, reprimendo le manifestazioni per la difesa dell’amato Parco Gezi. Il suo islamismo soft, che dapprima aveva confortato tanti cittadini, adesso stucca un Paese che chiede di vivere nel mondo contemporaneo, non di sfuggirlo. Che l’Europa della signora Merkel non sappia rispondere se non con un burocratico «No!» ad ogni dialogo con Istanbul, conferma che le rinunce della «mezza età» sono mal comune tra Italia e Unione Europea. Nei siti populisti italiani si dà dell’ipocrita a chi ha criticato le violenze dei No Tav per mostrarsi invece attento alle richieste della piazza turca e brasiliana. Osservazione mal riposta, perché i «No Tutto» italiani, No Tav, No Ponte, No Muos, No Ogm, No Gronda, No Ricerca, No Vaccini, non sono molla del nuovo in Italia. Sono la versione radicale del conservatorismo, lo Strapaese del Novecento, il mito di un’Italietta autarchica che si illude, magari leggendo di fretta la polemica antimoderna di Pasolini e Nanni Moretti, di vivere nel passato. Lo Spi, il Sindacato Pensionati della Cgil, ha deciso di incontrare i suoi tre milioni di iscritti non solo nelle Camere del Lavoro, nei patronati, nei classici luoghi del lavoro, ma anche online, sui social media, Facebook, nei siti web, twitter. Ogni giorno cresce il numero di «anziani digitali», lavoratori e professionisti che lasciano fabbrica e ufficio, ma non il computer. Vedremo che effetti darà l’esperimento online dei pensionati Cgil. Vedremo come maturerà la protesta turca e brasiliana, gente che ha appena intravisto il benessere e chiede anche libertà privata, «Il pane e le rose» rivendicati dai lavoratori del Massachusetts già nel 1911. Perché se era possibile prevedere che la frenata nella crescita brasiliana avrebbe chiuso il miracolo di Lula, altrettanto scritto nella forza della Storia è – per esempio - che anche il miliardo di cinesi, dopo il riso ottenuto con Deng Xiao Ping, chiedano se non le rose, le meihua, i fiori di susino tradizionali. Ma se in Italia prevarrà il Partito dello Status Quo, lo schieramento Destra - Sinistra che da venti anni paralizza l’Italia, allineando imprese, sindacato, intellettuali che di passato vivono e intendono continuare a vivere, da noi il pane sarà sempre più raffermo e le rose sempre più sfiorite. Twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/2013/06/23/cultura/opinioni/editoriali/le-et-della-protesta-wRSv8EzfpT9YmEGO0iDPxI/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Alla fine c’è sempre un Kennedy Inserito da: Admin - Giugno 27, 2013, 04:04:04 pm Editoriali
27/06/2013 Alla fine c’è sempre un Kennedy Gianni Riotta C’è una persona che rappresenta, da sola, i cangianti umori di questa America di inizio secolo. Una sorta di sismografo umano delle scosse politiche e culturali che squassano la vecchia Repubblica. Questa persona è il giudice della Corte Suprema Anthony Kennedy. In una Supreme Court spaccata a metà tra quattro toghe progressiste e quattro conservatrici, Kennedy è il pragmatico che legge i principi fondamentali degli Stati Uniti come fissati dai Padri Fondatori, alla luce delle nostre turbolenti, digitali, stagioni. In solo 48 ore la Corte, con Kennedy ago della bilancia, ha precisato che la Costituzione, formale della Legge e materiale del Costume, non obietta in linea di principio al matrimonio di coppie omosessuali e garantisce loro, se lo stato in cui vivono lo permette, gli stessi diritti materiali delle coppie eterosessuali ma ha anche detto basta alla difesa del voto delle minoranze ai seggi elettorali. Un colpo di acceleratore, uno di freno sui diritti. Quella di ieri è una vittoria legale, sociale ed etica per il movimento gay. La Corte non dice ancora che il matrimonio dei gay è un diritto assoluto e che proibirlo, o regolarlo, è anticostituzionale, ma con sempre nuovi Stati ad ammettere le nozze omosessuali, inclusa presto la California, contano ormai pensioni, eredità, assistenza medica, adozione dei figli, le «normali» questioni dei matrimoni. E la Corte le ha protette. All’interno delle Forze Armate, che per prime hanno dato un riconoscimento di professionalità alle minoranze afro-americane ma che a lungo hanno discriminato i gay, la sentenza permetterà a soldati e ufficiali gay un trattamento simile a quello dei colleghi etero. Anche se resta da vedere come, se trasferiti in uno Stato che ha solo nozze uomo-donna, il diritto verrà applicato. I difensori del matrimonio etero hanno visto cadere anche la legge a difesa delle nozze tradizionali firmata, in cerca di voti, da un presidente Clinton insolitamente «all’antica». La loro battaglia continuerà adesso nelle zone più ostili ai gay, al Sud. Dovranno con attenzione portare un caso alla Corte sperando, se non in un bando assoluto, almeno nel diritto degli Stati di dire no locali. Un atteggiamento che sembra condiviso dal Capo della Corte, il giudice Roberts. Ma se ieri la Corte del «fulcro» Kennedy riconosce che l’America ormai ha detto sì a fiori d’arancio gay, ieri l’altro, in opposta direzione, ha detto che le minoranze etniche e afro-americane non hanno più bisogno delle protezioni al momento del voto, garantite ai tempi duri dei diritti civili con Johnson. Se un nero è arrivato alla Casa Bianca con Obama, uno a capo dello Stato Maggiore con Powell, il percorso è compiuto: sempre più a rischio nel futuro le «quote» a difesa delle minoranze nelle scuole e università. È il paradosso dell’America ai tempi dell’amletico presidente Barack Obama. La politica tra Casa Bianca, Congresso, media, web e tv sembra all’acme delle ostilità, con presidente e partiti incapaci di compromessi e riforme. Sui siti o nei talk show sembra che ogni americano sia o arrabbiato militante di sinistra pronto a Occupare Wall Street o furioso adepto della destra pronto a servire Tea Party al cianuro a ogni avversario. In realtà, la grande massa degli americani decide ormai caso per caso, diffidente dalle ideologie, lasciandosi guidare dal buon senso, non dal populismo. La Corte fiuta l’aria e si adegua, guidata dal sorridente giudice Kennedy, volto che sembra uscito da un film di Capra o Spielberg, l’Americano Buono. Twitter @riotta http://lastampa.it/2013/06/27/cultura/opinioni/editoriali/alla-fine-c-sempre-un-kennedy-SV6JSowCcuf4UIaZNmFp1L/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Chiarezza senza propaganda Inserito da: Admin - Luglio 01, 2013, 11:59:23 pm Editoriali
01/07/2013 Chiarezza senza propaganda Gianni Riotta In una divertente scena del classico film «Casablanca», cercando scuse per chiudere il bar di Rick-Humphrey Bogart, il simpatico capitano francese Renault sbotta: «Sono scioccato: qui si gioca d’azzardo!», giusto mentre il croupier gli paga il pizzo. Lo stesso choc, ipocrita e imbarazzato, percorre le cancellerie occidentali che fingono pubblica sorpresa, «Scioccate!» nell’apprendere che da parte degli alleati americani ci sarebbero stati controlli su partner europei, ambasciata italiana a Washington inclusa, con il programma Dropmire impiantato sui cryptofax delle sedi diplomatiche Ue. La pratica, resa pubblica dal giornale tedesco Der Spiegel e dal quotidiano inglese The Guardian su informazioni a seguito del caso Nsa, Prism e della talpa Edward Snowden oggi rifugiato nella Russia di Putin, non è né bella, né decorosa e dispiace alla pubblica opinione perbene. Spiarsi tra amici non è carino. Ma come sanno diplomatici, politici e professionisti degli affari internazionali, l’intelligence prova a controllare «tutto» il traffico di informazioni, nemico e amico. Gli inglesi tenevano d’occhio De Gaulle durante la II guerra mondiale. Italia e Germania, alleate, si marcavano in manovre la cui eco arriva nei «Diari» di Ciano. In Guerra Fredda Parigi, Washington, Londra, Berlino, Roma, Tokyo, compagne di barricata, intercettavano, mettevano microspie, leggevano di soppiatto dossier militari e industriali. Come nei vecchi 007 di Sean Connery, quando il capo dello spionaggio M invita a collaborare «up to a point», fino a un certo punto, con la Cia. Oltre la Cortina di Ferro gli intrighi tra Mosca e Pechino furono sanguinosi, dagli scontri del 1969 all’isola Zhenbao, sul fiume Ussuri, all’aereo precipitato in Mongolia con a bordo il maresciallo Lin Biao nel 1971. Bene dunque fa la signora Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, ministro della Giustizia tedesco, a chiedere corrucciata alla Casa Bianca di Barack Obama un chiarimento: ma occorre rapidamente riportare la vicenda alle sue reali proporzioni, evitando che la propaganda, americana, europea, russa o cinese che sia, prenda il sopravvento. E soprattutto evitando che il cruciale patto commerciale Usa-Ue finisca ostaggio della scherma tra spioni. È comico che regimi formidabili per l’occhiuto controllo sui propri cittadini e la repressione sui dissidenti, facciano di Snowden un eroe e di Obama il Grande Fratello. Le tv di Mosca, su velina del governo, dipingono l’ex collaboratore Nsa, rifugiato all’aeroporto della capitale, da Robin Hood che rivela al mondo come la libertà di stampa sia privilegio dell’ex Urss, conculcato nel Paese che ha inventato il web. Se gli europei, come sta capitando a qualche leader a caccia di titoli d’estate, cadranno nella trappola tesa da Putin e servizi cinesi per imbarazzare Obama, avranno forse qualche piccolo ritorno di immagine, ma alla lunga pagheranno un prezzo cospicuo nella condivisione delle informazioni e nell’antiterrorismo. Da parte sua Obama dovrebbe seguire le indicazioni del saggio senatore Udall, e – anziché girare il mondo leggendo discorsi sempre colmi di retorica affascinante, fratellanza e giustizia per poi in segreto seguire le politiche del suo detestato predecessore G. W. Bush - eliminare i protocolli segreti del Patriot Act per continuare sì nell’opera di intelligence, ma senza gli aspetti più oscuri ed odiosi, sottratti al controllo giudiziario. Ai tempi della Commissione Church, nel 1975, l’America seppe ripulire in pubblico gli eccessi di Cia, Nsa e Fbi in tempo per la fine della Guerra Fredda. Chi voglia però davvero comprendere il caso Snowden, Prism, Nsa, al di là di ipocrisie e propaganda, deve rimetterlo dove è sempre stato, scontro tra sistemi di spionaggio internazionali, non nobile campagna di giornalismo contro il Potere. La gaffe del Guardian, costretto a rimuovere dal suo sito un’ulteriore accusa, già in edicola nell’edizione cartacea, è la conferma che di buona informazione poco sopravvive in queste ore. Cercando di trascinare l’Italia nel calderone, s’è fatto vivo Wayne Madsen, ex spia che ora vive di complotti e fole, persuaso che Obama sia «un gay, rinnegato africano, impostore alla Casa Bianca». Che la prestigiosa testata anglosassone cada nella sua provocazione, fino all’imbarazzante retromarcia di cancellare l’articolo online senza dare ai lettori spiegazione alcuna (a proposito di «trasparenza»…), prova come Prism rifranga poche «verità», mentre la spudorata propaganda di parte accechi tanti, furbi o ingenui che siano. Twitter @riotta DA - http://lastampa.it/2013/07/01/cultura/opinioni/editoriali/chiarezza-senza-propaganda-PacSccSyonT22KrmGmktwM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - La capacità di correggere gli errori Inserito da: Admin - Luglio 13, 2013, 10:43:08 am Editoriali
13/07/2013 La capacità di correggere gli errori Gianni Riotta Ricorre quest’anno il Cinquecentesimo anniversario della pubblicazione di uno dei capolavori del pensiero mondiale, Il Principe di Machiavelli, opera che rivaleggia con la Divina Commedia di Dante per traduzioni dalla nostra lingua. Se avrete la pazienza di rileggere la fatica del Segretario fiorentino resterete impressionati da come, nella sua visione del Potere, degli Interessi, della Forza e della Strategia nulla sia mutato dai turbolenti giorni delle Corti e dei Principati. Obama contro Putin, Xi Jinping contro il premier giapponese Abe, le manovre navali congiunte Mosca-Pechino, i marines che arrivano in Australia, l’intero nostro tempo ancora si inquadra nel Potere che si fa Leone, Volpe, che si cura di Essere o di Apparire, di far Paura o indurre Amore. Tutto, tranne i social media, il web, l’epoca dei personal media che rendono il Potere sottoposto a un caleidoscopio di informazioni, controlli, dibattiti, trasparenza. Se i familiari di Muktar Ablyazov, dissidente kazako, fossero stati deportati dall’Italia al loro Paese nei giorni della vecchia diplomazia e del vecchio potere, secondo la sintassi feroce così genialmente studiata (non difesa, si badi) da Machiavelli, nessuno di noi avrebbe mai sentito parlare di loro. E questo articolo non sarebbe mai finito in prima pagina su La Stampa. Soffrire di nascosto e in silenzio era la pena dei deboli, imporre la loro ferrea volontà a piacimento era il privilegio dei forti. L’esilio, l’oblio, l’emarginazione, condivise da Dante e Machiavelli, venivano comminate dal solo capriccio del Principe. Se oggi il governo di Enrico Letta, Angelino Alfano ed Emma Bonino, dopo una campagna di opinione pubblica guidata da questo giornale, torna sui propri passi e riconosce l’incongruenza di affidare profughi inermi ai loro possibili persecutori si deve al potere morale dell’opinione pubblica diffusa dal web, oltre naturalmente alla loro sensibilità umana. In altri tempi, la regola burocratica poteva essere applicata passando inosservata, magari seguendo alla lettera la legge e il protocollo l’espulsione poteva anche essere comminata, ma il web rende il motto antico «Summum ius summa iniuria» una legge morale più forte di quella scritta. Seguire un diritto la cui conseguenza è l’ingiustizia può salvare la coscienza di un burocrate, ma oggi non è più difendibile davanti a tanti cittadini con in mano uno smartphone e una connessione internet. L’ambasciatore italiano a Washington Bisogniero ha chiesto a dirigenti della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e docenti Usa di dibattere la «cyberdiplomacy» tra Usa e Europa e il risultato è stato sorprendente: il consenso è che il web ha mutato per sempre i rapporti tra gli Stati. Se per i tiranni, delle grandi e piccole potenze, questa è una minaccia che alla lunga potrebbe anche essere fatale, per i leader delle democrazie è insieme una costrizione e un’opportunità. A breve li rende soggetti a valutazioni da fare sotto pressione, come quelle opportunamente prese infine sulla famiglia Ablyazov. Alla lunga però concede un termometro di temperatura etica del Paese, dando ai governi, grazie al web, un dialogo fitto e continuo con la gente. La capacità di autocorrezione degli errori e il dibattito libero sono la vera forza della democrazia rispetto ai regimi autoritari, costretti sempre a restare ingessati nella volontà assoluta del Capo, e blindati ai loro errori. Non si tratta di un antibiotico politico che cancella ogni male, naturalmente e presto i leader, anche studiando l’andamento dei Big Data sul web, riusciranno a manipolare e a guidare la discussione nei loro Paesi. Ma in profondo, oggi, i sistemi hanno una chance di essere davvero «società aperte» come sognava il filosofo Popper, che solo una generazione fa sarebbe stata illusoria. Bene ha fatto dunque il governo Letta a recedere da una scelta non felice, bene hanno fatto tutti coloro che hanno lavorato online perché si arrivasse all’esito positivo. Meglio ancora se, in futuro, l’Italia saprà prevenire incidenti del genere, dandosi carattere da Paese amico dei dissidenti politici e aperto agli esiliati, come ricordano i libri di scuola è nella tradizione del nostro Risorgimento. Quanto a Machiavelli, tornasse oggi tra noi a festeggiare il mezzo millennio del suo capolavoro, non esiterebbe ad includere un capitolo sull’online, indicando con la sua prosa lapidaria al Principe come governare il web da Leone e ai suoi rivali digitali come opporsi da Volpi internet. Twitter@riotta da - http://lastampa.it/2013/07/13/cultura/opinioni/editoriali/la-capacit-di-correggere-gli-errori-Da7ViooZLZNPKLDq2yPIsL/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Come uscire dal labirinto Inserito da: Admin - Luglio 20, 2013, 06:57:15 pm EDITORIALI
19/07/2013 Come uscire dal labirinto GIANNI RIOTTA Neppure ai tempi della Guerra Fredda, con gli scontri sulla Nato, la politica estera contava come oggi. Prima il caso dei sottufficiali Latorre e Girone che, arrestati in India durante una missione anti-pirati, sono da un anno e mezzo in incerta attesa di giudizio. Vari paesi, dagli Stati Uniti a Sri Lanka, in casi analoghi, hanno risolto i problemi con l’India senza arresti, noi no. Poi la tormentata vicenda del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, manovrata da interessi e diplomazie che hanno ignorato e irriso il nostro paese, deportando innocenti in condizioni disperate. A completare l’atlante geopolitico il fermo a Panama dell’ex dirigente Cia Seldon Lady, condannato con un gruppo di 23 agenti americani per avere organizzato a Milano, nel 2003, il rapimento dell’imam Abu Omar. Erano i tempi in cui l’America di George W. Bush, in guerra con il terrorismo, lanciava le sue «extraordinary rendition», sequestri di sospetti in territori stranieri, da giudicare poi nelle corte militari Usa, o deportare in paesi alleati, tra torture e pestaggi. Ora che Lady, l’ultimo dei condannati su cui ancora pendesse mandato internazionale, è fermato a Panama e può essere estradato in Italia, si apre un altro, inaspettato e delicatissimo, dossier internazionale per il premier Letta. Complicato perché, proprio nelle ore in cui i siti lanciavano la notizia dell’arresto di Lady, il nostro paese veniva deprecato a Ginevra dalle Nazioni Unite sul caso dei familiari di Ablyazov, considerato dagli esperti di diritti umani proprio una «extraordinary rendition» come per Abu Omar. Segua il lettore il labirinto in cui siamo finiti: possiamo chiedere l’estradizione di Lady, in nome di una sentenza che lo condanna per avere mandato al macello in Egitto Abu Omar, «extraordinary rendition» che viola il diritto internazionale e italiano, oltre alla moralità innervata alla nostra Costituzione, mentre dobbiamo difenderci dall’accusa di avere perpetrato, ai danni della famiglia di Ablyazov, lo stesso reato, violando a nostra volta norme e etica. Brutte notizie per Enrico Letta, che dovrebbe occuparsi di rilanciare la nostra anemica economia e deve invece districarsi da insidiose trame. Che fare adesso? In primo luogo è importante che tutti, governo, parlamento, diplomazia, magistrature, opinione pubblica, seguano, nella forma e nella sostanza, leggi e buon senso, senza scorciatoie furbette. Avessimo seguito questa norma elementare non avremmo la colpa Ablyazov. Al tempo stesso i politici a caccia di un titolo di mezza estate, ricordino che stiamo trattando di vicende serie, inutile fare i filo o gli anti americani, ammantati di garantismo o antiterrorismo. Già la collaborazione seria tra la Casa Bianca di Barack Obama e il Quirinale di Giorgio Napolitano spense molti guai con il metodo della grazia, e se la stessa antica e efficace diplomazia tra paesi amici fosse stata usata per i marò la contesa sarebbe stata risolta con reciproca soddisfazione. Usare l’estradizione di Seldon Lady, che al processo irritò con la sua condotta i magistrati ricordando che certi accordi politici segreti tra paesi non dovrebbero finire in un processo pubblico, per propagande petulanti nuocerà al governo Letta ma, soprattutto, agli interessi nazionali dell’Italia e alla sua, purtroppo offuscata, credibilità internazionale. Possiamo affermare il nostro giusto diritto con il tono fermo di paese fondatore dell’Unione Europea, democrazia alleata degli Usa nella Nato e protagonista su ogni fronte di peace keeping con le nostre forze armate. Dobbiamo farlo senza perdere di vista la realtà. L’Unione Europea, che ieri si è limitata a un flebile comunicato di Lady Ashton per condannare Putin sulla persecuzione al dissidente Navalny, ha tuonato contro Washington sul caso dei Big Data e del programma di sicurezza Nsa Prism dopo le rivelazioni dell’ex agente Snowden. Bene, il chiasso – pur giustificato dall’invadenza americana - rallenta, qualcuno perfino teme metta a rischio, il negoziato sul Patto di libero scambio Usa -Europa, accordo necessario alle nostre economie per crescere e al nostro continente per vivere sereno, nei giorni in cui Cina e Russia lanciano le più grandi manovre navali militari congiunte della loro storia. Possiamo dunque, e dobbiamo, chiedere il rispetto del nostro diritto anche sul caso Abu Omar, ma dobbiamo farlo da paese e democrazia matura, cosciente dei propri interessi nazionali e rispettoso degli alleati, in un mondo che è ormai il nostro condominio. Twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/2013/07/19/cultura/opinioni/editoriali/come-uscire-dal-labirinto-wsCt4VZqNg1UM1u6fGGSpN/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Un’economia “inclusiva” è possibile Inserito da: Admin - Luglio 23, 2013, 04:22:11 pm Editoriali
23/07/2013 Un’economia “inclusiva” è possibile Gianni Riotta Il discorso di Papa Francesco in volo verso il Brasile su giovani e lavoro ha un valore di fede e pastorale che teologi ed esperti cattolici approfondiranno. Ma ha, in parallelo, una rilevanza per l’economia e lo sviluppo delle nostre società, che tutti possiamo considerare. Dice il Papa: «Corriamo il rischio di avere un’intera generazione che non avrà mai trovato lavoro…». Quel lavoro da cui «Viene la dignità personale di guadagnarsi il pane… La crisi mondiale non fa cose buone con i giovani, visto che, sul mercato, un disoccupato ha sempre maggiore difficoltà a ottenere un impiego». Considerate questo ragionamento alla luce dell’inchiesta che il New York Times ha pubblicato il 19 luglio: i laureati dopo la grande crisi finanziaria, dal 2009 al 2012 in America, paese che crea posti lentamente ma con maggiore lena della media Unione Europea, e assai più velocemente dell’Italia, stentano a lavorare perché le aziende penalizzano i loro due, tre anni di disoccupazione, preferendo ragazzi «freschi» di laurea 2013. Un posto in un bar, il lavoro da commessa per pagare l’affitto, non solo non commuovono gli addetti alle assunzioni ma, paradossalmente, li rendono diffidenti. La disoccupazione viene considerata causa di frustrazione, delusione, smarrimenti personali, meglio dare chance a chi esce dall’Università ancora carico di entusiasmo. Tanto più che, dimostrano analisi dell’agenzia Ernst & Young, nessuna grande compagnia offre lavoro più da annunci diretti, preferendo selezionare il personale su raccomandazioni private o tra chi ha già fatto, quasi sempre grazie ad amici di famiglia, stage presso la ditta. Il Papa ha detto con semplicità quel che le più sofisticate analisi del mercato comprovano: la disoccupazione è una trappola, sabbie mobili dove una generazione e milioni di giovani non solo rischia di smarrire il proprio avvenire, ma trova solitudine personale difficile da rimontare. L’idea che questa sia una condizione umana da delegare ai singoli cittadini, dando loro magari consigli giusti sul corso post laurea da scegliere, le lingue da imparare, gli skills di cui dotarsi, e non invece un’emergenza globale per le economie sviluppate e i paesi nuovi è pericolosa, e porterà a instabilità, al Cairo e Istanbul, a Detroit e Pechino, a Roma e Parigi. Sintetizza Justin Wolfers, economista all’Università del Michigan: «Abbiamo creato un’economia in cui i giovani laureati cercano lavori svolti un tempo dai diplomati, i diplomati si accontentano di posti per chi non ha studiato e chi non ha studiato resta precario». Papa Francesco denuncia la cultura del degrado sul lavoro, che non si corregge certo con leggine ad hoc, ma ricreando nuovi lavori e non illudendosi, lo ha scritto il direttore Calabresi qualche giorno fa, di «difendere» uno status quo che si scioglie senza soste, senza che imprenditori e sindacalisti possano fermare la realtà: «Siamo abituati a questa cultura dello scarto: con gli anziani si fa tanto spesso, ed è un’ingiustizia perché li lasciamo da parte, come se non avessero niente da darci, e invece essi ci trasmettono la saggezza e i valori della vita, l’amore per la patria, l’amore per la famiglia: tutte cose di cui abbiamo bisogno. Ma ora tocca anche ai giovani di essere scartati…Dobbiamo tagliare questa abitudine di scartare le persone» proponendo «una cultura dell’inclusione, dell’incontro, e uno sforzo per portare tutti nella società». L’organizzazione industriale classica del Novecento non basterà a salvare la generazione dei senza lavoro, né in Occidente e neppure nei paesi del nuovo sviluppo e chi si ostina ad affermarlo tradisce i disoccupati, non li aiuta. Le autorità di Rio, in Brasile, hanno vietato l’uso di ogni maschera tradizionale agli incontri del Papa, temono che le proteste che hanno scosso il paese si riverberino lungo il viaggio del Pontefice. Francesco non sembra condividere queste preoccupazioni e anticipa il tema sociale ancor prima di metter piede in Brasile. «Questione di credibilità – spiega il teologo Ramon Luzarraga - la gente ormai crede agli esempi più che ai messaggi, quando Giovanni Paolo II predicava contro il totalitarismo era credibile perché lo aveva sofferto in Polonia, Francesco ha visto nelle parrocchie di Buenos Aires la povertà e se parla degli esclusi l’uomo della strada lo ascolta». Il Papa sa anche che la crisi non è solo economica, che nel 1970 il 92% dei brasiliani si professava cattolico, cercando nella fede riparo contro oppressione e povertà, devastanti in aree come il Nordeste. Oggi il 62% dei brasiliani si dice cattolico, mancano all’appello milioni di fedeli passati ai Pentecostali e ai loro riti appassionati, di comunità, capaci di coinvolgere gli esclusi. Paese con più cattolici al mondo, il Brasile vede dunque la sua Chiesa cambiare, padre Marcelo Rossi adotta ritmi, canzoni, cerimonie scatenate dei pentecostali, offrendo un’alternativa ai fedeli. Milioni di dischi e libri venduti, milioni di credenti raccolti negli stadi fanno del Rinnovamento Cattolico Carismatico di Rossi una realtà inaspettata. Il Papa argentino lo sa, ma sa anche che i riti non mutano da soli le realtà. Lancia, nel suo primo viaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù, un messaggio che non risuonerà solo nei luoghi di culto. Parla ai leader politici, agli uomini di azienda e finanza, ai sindacalisti, ai tecnici. Nel XXI secolo è possibile lavorare a un’economia «inclusiva», libera e capace di produrre innovazione e ricchezza, senza tuttavia lasciare indietro - come fossero granelli di sabbia perduta - gli esseri umani che, nella clessidra del presente, scivolano oggi nella sfera inferiore. Twitter @riotta DA - http://lastampa.it/2013/07/23/cultura/opinioni/editoriali/uneconomia-inclusiva-possibile-cpdM76iv6EsYv0YlzG9XeO/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Dalle atomiche allo smartphone Inserito da: Admin - Agosto 14, 2013, 11:21:13 pm ESTERI
14/08/2013 Dalle atomiche allo smartphone Kim aggiorna i simboli del potere GIANNI RIOTTA Nel corso della storia umana, le potenze hanno avuto molti, diversi, simboli di grandezza per intimidire i rivali, elefanti sulle Alpi, parate trionfali e schiavi incatenati, castelli con bandiere al vento, cannoni sugli spalti, ferrovie fumanti, caccia rombanti da portaerei, capsule spaziali a lanciare beep beep che allargano l’Impero sino al Cosmo. Ora lo status symbol del potere diventa uno smartphone, nel caso della Corea del Nord l’Arirang, consegnato nel corso di una visita alla fabbrica 11 Maggio al dittatore Kim Jong-un. Hitler, Stalin, Mussolini, despoti del Novecento, hanno perfezionato l’arte del sopralluogo in azienda, tra i campi, negli arsenali militari, fotografati accanto a cannoni, camion, putrelle, mucche, campi di grano. Ora l’immagine di vitalità di un regime passa attraverso la maestria nei new media. Pare che il giovane Kim Jong-un, per dimostrarsi all’altezza dei tempi e dei rivali in Corea del Sud dove il colosso Samsung rivaleggia con Apple in California, abbia elogiato i «megapixel» di Arirang, come una volta si scrutava con orgoglio una fresatrice, un toro da monta, l’ala di un aereo. Poco importa che lo studioso di tecnologia asiatica Martyn Williams spieghi che Arirang non è prodotto in Corea del Nord ma, con ogni probabilità, ordinato su misura in Cina, per poi lanciare il colpo di scena per la propaganda: erano infatti presenti sia il capo dell’Ufficio Propaganda che il Direttore dell’Agenzia Stampa Kcna. Già un «tablet» sfoderato in omaggio a Kim Jong-un aveva origine cinese e Williams ne fa risalire il software a studi di Hong Kong. Il software di Arirang, il nome viene da una tradizionale canzone locale, sembra invece un clone di Android Google. Kim Jong-un invita il pittoresco ex asso del basket Rodman a visitare il paese, il leader di Google Schmidt è uno dei pochissimi occidentali che, di recente, ha potuto condurre una missione privata in Nord Corea. Ora, dopo avere straparlato di guerra nucleare con Seul, di imminente attacco, di arsenale nucleare, il regime che non sa sfamare il suo popolo, con campagne ancora coltivate con metodi feudali, finge di stare lavorando a una Silicon Valley sul Fiume Yalu. Toccherà a chi svolge l’infelice mestiere di North Korea watcher, gli analisti sull’ultimo stalinismo del pianeta, capire (o fingere di capire) cosa stia passando davvero in mente al giovane Kim. Di sicuro possiamo dire che è la tecnologia, ormai, a unire il pianeta. Ieri, in Italia, un tweet critico sulle performances del Blackberry ha scatenato un tifo da stadio, con i fan di Apple, Google, Samsung e i veterani BB a scontrarsi tra loro, come ultras di Juventus, Milan, Inter. Sempre più il tablet che teniamo in borsa, il computer che abbiamo sul tavolo, lo smartphone che ci ipnotizza definiscono il nostro status, come un tempo i jeans Levy’s o Super Rifle, le sigarette Camel o Gitane, l’Alfa Duetto o la Fiat 124 spyder, l’hamburger e patatina contro gli spaghetti al pomodoro, al cinema Hitchcock o Antonioni. I nostri nipoti rideranno, con rispettosa ironia, di queste nostre manie ma, per adesso, va così. Il telefono non è più solo «la nostra voce», esprime la nostra intera personalità, un tablet, un Pc o un Mac ci danno l’illusione di far parte di una comunità, di condividere uno stile, sobrio o elegante, casual o tecnocratico. Illusione per l’appunto, ma che perfino la paranoica propaganda nord coreana si faccia catturare da quello che il critico Barthes avrebbe definito un «mito d’oggi» e lo studioso di strategia Nye«soft power», potere soffice, indica fino a che punto il tic high tech ci tenga in ostaggio dei suoi chip. Twitter @riotta DA - http://www.lastampa.it/2013/08/14/esteri/dalle-atomiche-allo-smartphone-kim-aggiorna-i-simboli-del-potere-sOijcl9TvdmHDZT8MwvHCL/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - L’equazione sanguinaria di Al-Sisi Inserito da: Admin - Agosto 17, 2013, 08:14:42 am Editoriali
17/08/2013 L’equazione sanguinaria di Al-Sisi Gianni Riotta La giornata di guerriglia di ieri, in Egitto, ha toccato oltre al Cairo Alessandria, Ismailia, Damietta e le proteste hanno lambito i centri turistici internazionali, dando alla grande crisi del Paese arabo risonanza nelle distratte cronache del mese di vacanze in agosto. La strage di centinaia di morti, il calcolo delle vittime resterà per sempre incerto, conferma che il regime militare del generale Abdel Fattah al-Sisi ha deciso di portare l’orologio politico egiziano ancora più indietro rispetto ai tempi del presidente Mubarak. Allora i Fratelli Musulmani, per quanto perseguitati e incarcerati, avevano però un margine di manovra sociale, lavorando nei quartieri con la loro vasta rete di solidarietà religiosa. Tollerati, purché non alzassero troppo la testa. Ora, dopo il golpe che ha abbattuto il presidente islamista Morsi e la feroce repressione, la giunta militare manda un messaggio chiaro: l’ordine deve regnare al Cairo e in tutte le altre città d’Egitto e lo stato di perenne anarchia seguito alla caduta di Mubarak deve cessare, subito. La protesta del presidente Obama, per quanto flebile e limitata, in concreto, a un semplice stop a manovre militari congiunte che avrebbero visto gli americani fianco a fianco ai responsabili delle stragi, è stata irrisa dai generali. Che hanno spiegato, con sussiego, di dare la caccia agli stessi islamisti che Obama colpisce con i droni in Yemen e Afghanistan. Un’accusa chiara di ipocrisia, tanto più che Washington staccherà puntuale l’assegno annuo di un miliardo di euro, mancia pingue su cui l’esercito basa da decenni il potere. La denuncia europea della repressione, guidata dalla cancelliera tedesca Merkel, dal presidente francese Hollande e dal premier italiano Letta, benvenuta sul piano diplomatico, non avrà però nessun effetto concreto sulla crisi. Da troppi anni l’Europa agisce in Medio Oriente divisa, ciascuna potenza a rimorchio dei propri interessi locali, e l’assenza di una forza militare accanto alle belle parole sui diritti, farà sì che l’UE, per dirla all’italiana, godrà di «una bella figura» all’Onu, che pure sta muovendo, tardi e male, il Consiglio di Sicurezza, ma senza aiutare l’Egitto a ritrovare pace. Israele, che collabora nel Sinai con l’esercito egiziano contro terroristi infiltrati, sta a guardare, ma il bagno di sangue al Cairo rende i «negoziati di pace» israelo-palestinesi, voluti a tutti i costi dal segretario di Stato Usa Kerry, ancor più vacui e velleitari. In Egitto la parola è alle armi, in uno scontro di potere dove la forza schiaccia la debolezza, nel senso più crudele dei filosofi Hobbes e Machiavelli, niente diritti, niente dialogo, nessuna carta civile. Il generale al-Sisi legge il governo di Morsi come prova che i Fratelli Musulmani non accetteranno mai non solo la democrazia, ma neppure un equilibrio di stabilità, il vecchio Egitto, più grande Paese arabo, come boa tra le tensioni in Medio Oriente. La giunta accusa Morsi di non avere mediato con i militari, di avere lasciato che la piazza islamista spaventasse e minacciasse i cristiani copti, i liberali, il ceto dei mercanti e degli industriali. Ha deciso che, fino a quando i Fratelli non saranno annichiliti, ridotti alle corde, terrorizzati, l’Egitto non avrà pace e si comporta di conseguenza, certo che alla fine Usa e Europa abbozzeranno, come in Siria davanti alla piramide macabra di 100.000 morti che Assad ha eretto pur di restare al potere. La noncuranza con cui i militari massacrano i Fratelli Musulmani e fanno spallucce davanti alle proteste occidentali si radica nell’appoggio, sfrontato, immediato e munifico che viene loro dai Sauditi. Terrorizzata dalla cosiddette «Primavere arabe» e dall’insorgenza islamica in Egitto, la Casa Reale saudita è opulento sponsor di al-Sisi. Re Abdullah mobilita con l’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti per versare 10 miliardi di euro nelle esauste casse del Tesoro egiziano, 10 volte, calcola il quotidiano Financial Times, più dell’obolo americano e del sostegno venuto al presidente Morsi da Qatar e Turchia. L’azzardo di al-Sisi punta su un’opinione pubblica egiziana stanca di disoccupazione e violenza, poco interessata alla democrazia, determinata a riprendere il lavoro e una qualche forma di convivenza pacifica. A questa stabilità i militari vogliono portare i contadini, i poveri delle città, il ceto medio produttivo e urbano, i cristiani, contando che intellettuali e progressisti accetteranno la mano forte, in cambio di un Egitto laico, odiato da Morsi. Un sondaggio Zogby sembra dare loro ragione, tra la gente comune poca attenzione per i diritti, molto desiderio che il caos finisca presto. L’incognita della sanguinaria equazione è lo spirito di sacrificio e la forza del fanatismo islamista. Che potrebbe non accettare di tornare nei quartieri come ai tempi di Mubarak, occupare tragicamente le piazze, mentre il terrore filo al Qaeda colpisce le spiagge sul Mar Rosso, distruggendo l’industria del turismo. I libri di storia registreranno come insieme liberali, militari e Fratelli Musulmani abbiano sprecato un’opportunità unica per avviare il loro antico Paese verso il XXI secolo. Oggi, mentre in Egitto si muore e nel mondo si parla compunti e presto si penserà ad altro, la sola alternativa sembra una vittoria della repressione di al-Sisi o la guerra civile strisciante. Lo «scontro di civiltà», che nella fallace previsione del professor Huntington avrebbe dovuto opporre occidentali a musulmani, continua invece, dal Nord Africa alla Turchia all’Afghanistan, a dilaniare la umma, la gigantesca comunità islamica. Gianni Riotta twitter@riotta da - http://lastampa.it/2013/08/17/cultura/opinioni/editoriali/lequazione-sanguinaria-di-alsisi-aIWzCbemchfBGoBsjdIOKP/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Un dubbio machiavellico per Obama Inserito da: Admin - Agosto 29, 2013, 04:20:24 pm EDITORIALI
28/08/2013 Un dubbio machiavellico per Obama GIANNI RIOTTA Il 23 ottobre del 1983 una sconosciuta organizzazione terroristica chiamata Jihad Islamica distrusse con attacchi kamikaze la caserma dei marines americani e quella dei militari francesi, in missione di pace a Beirut. I giovani carabinieri italiani di stanza nella capitale libanese ricordano ancora l’orrore dei cadaveri ridotti a pezzi, caddero 241 marines, 58 soldati francesi e 6 civili, oltre cento i feriti. L’allora presidente americano Ronald Reagan, considerato un falco, viene spinto alla reazione, deve «vendicare» la strage. Reagan ordina alla corazzata New Jersey, che incrocia nel Mediterraneo, di aprire il fuoco con i proiettili da 16 pollici, arnesi che scavano crateri grandi come campi da tennis non più usati dal Vietnam, «Volkswagen volanti» li chiamavano i libanesi. Partono undici cannonate e il raid si ferma. Il 7 febbraio 1984 «il falco» Reagan comanda il ritiro unilaterale dei marines dal Libano e il giorno dopo la New Jersey, per guadagnare titoli sui giornali, spara 300 cannonate – record dai tempi della Corea – sulla Valle della Bekaa, contro miliziani siriani e drusi. Muoiono molti civili, molto odio è seminato, la ritirata è coperta dal frastuono di ordigni da 16 pollici. È lo scenario che il pragmatico presidente Barack Obama, premio Nobel per la Pace, ha sul tavolo adesso per la Siria, in punizione per l’uso di gas tossici da parte del dittatore Assad, in palese violazione del diritto internazionale. Reagan, etichettato come «falco» non aveva in realtà nessuna voglia di essere coinvolto nella tragica guerra civile libanese e, salvata la faccia a cannonate, riporta tutti a casa. Obama, etichettato con altrettanta superficialità «colomba», non intende affatto contrariare il 60% degli americani ostili al blitz contro Damasco. Sa però di avere intimato ad Assad di non usare i gas e sa che Russia, Cina e Iran, veri bersagli psicologici del suo raid, lo scrutano. Se il Presidente, intimidito, non mantiene la parola, Mosca, Pechino e Teheran alzeranno il prezzo in ogni trattativa, civile e militare. E la forza americana, nella Grande Guerra Civile che divide l’Islam dal Nord Africa alla Turchia a Kabul, conterà meno di quel poco che conta oggi. Centomila morti civili non son bastati a smuovere Usa, Europa, Onu e Nato, il veto imposto alle Nazioni Unite da Russia e Cina ferma tutto. Ma ora non conta il sangue, conta la credibilità politica e mezzo millennio dopo la pubblicazione del «Principe» di Machiavelli, il cerebrale Presidente americano è cosciente che un leader non temuto è un leader finito, anche nell’epoca in cui la cyberdiplomazia dei tweet conta almeno quanto le cannonate da 16 pollici. Obama colpirà dunque alla Reagan, neanche mirando alle centrali dei gas letali, ma a basi aeronautiche e militari per segnare il territorio, dare una mano ai ribelli (molto divisi sul raid, tra soddisfazione per la botta ad Assad e timore che i civili li considerino servi degli americani) e fare la voce grossa davanti a alleati e nemici. Con lui il conservatore inglese Cameron e il socialista francese Hollande, preoccupati che Washington non appaia sola a difendere i valori occidentali mentre Assad viola Convenzione di Ginevra e ogni trattato internazionale contro le armi chimiche. La Lega Araba parlerà come sempre la Lega Araba a due toni, condannando Assad ma senza autorizzare il blitz. L’Unione Europea, come sempre, non avrà voce comune, ogni capitale impegnata secondo i propri interessi. Il ministro degli Esteri Emma Bonino ha dichiarato che l’Italia non interverrà senza mandato Onu, certa che tale mandato non ci sarà. Il governo Letta è davanti a un delicatissimo passaggio, vitale, ed è comprensibile che, con tanti italiani scettici o indifferenti, non voglia aprire un altro fronte. Forse però si potrebbe almeno seguire la proposta dell’ex consigliere del presidente Carter, Zbigniew Brzezinski: promuovere all’assemblea generale Onu una risoluzione che condanni l’uso dei gas, senza incriminare direttamente Assad, ma facendo uscire le Nazioni Unite dalla pilatesca indifferenza di queste ore, che le dichiarazioni del segretario Ban Ki Moon non sanno scuotere. L’Italia, pur senza partecipare militarmente se non ne ha adesso la forza, potrebbe offrire agli alleati un contesto diplomatico alla reazione anti Assad e non restare inerte, tragicamente, davanti alla strage degli innocenti. Il blitz confermerà lo status quo in Medio Oriente, nessun negoziato Israele-Palestina, guerra civile araba, Europa assente, Stati Uniti concentrati sull’Asia e la crisi economica interna, Obama leader astratto secondo gli amici, distratto secondo i nemici. Ma non sarà senza opportunità e pericoli. Nel suo gioco d’azzardo Putin, che difende in Siria l’ultima base navale di Mosca nel Mediterraneo, potrebbe rilanciare l’appoggio a un Assad sempre meno forte, oppure, come suggeriscono fonti inglesi, ascoltare una proposta saudita, mollare Damasco in cambio di interventi a suo favore nel mercato del petrolio. Conoscendo Putin la prima ipotesi sembra più solida della seconda. L’Iran del nuovo presidente Hassan Rohani ha condannato ieri l’uso dei gas in Siria, mentre il pragmatico ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif ha ricordato i pericoli di un blitz militare. Entrambi sono consapevoli che Obama, Cameron e Hollande parlano alla Siria perché l’Iran intenda: esistono dei limiti alla violenza, l’irresponsabilità, l’intolleranza, non potete ignorare del tutto le nostre richieste. Vedremo presto se il raid militare del premio Nobel Obama sarà, o no, compreso. Twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/2013/08/28/cultura/opinioni/editoriali/un-dubbio-machiavellico-per-obama-SO4kYi8wYXQNVAlbDFCcNP/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Se manca la strategia Inserito da: Admin - Agosto 31, 2013, 08:59:48 am Editoriali
30/08/2013 Se manca la strategia Gianni Riotta Cosa manca al presidente Barack Obama in vista del raid militare contro il regime alawita siriano di Assad? Una strategia: perché colpire, con chi colpire e quale risultato ottenere con il blitz. Due anni dopo aver parlato di caduta di Assad, un anno dopo avere giurato che l’uso di gas avrebbe scatenato il blitz Usa, il presidente contempla un difficile panorama. Dall’Onu nessun semaforo verde, il flemmatico Segretario Ban Ki Moon attende i suoi ispettori “per fine settimana” e il capo della diplomazia russa, Lavrov, ha già ordinato di bloccare l’iniziativa britannica di una risoluzione alle Nazioni Unite contro l’uso di gas letali, in violazione della Convenzione di Parigi sull’uso delle armi chimiche del 1993. Il premier inglese David Cameron, unico alleato degli Usa con il presidente francese Hollande a dirsi d’accordo sul blitz contro Assad, è guai dopo la storica sconfitta di ieri notte in Parlamento. Per 13 voti, con un’aperta rivolta dei conservatori, i deputati hanno bocciato il loro premier, che pure aveva promesso un secondo voto prima del blitz: No all’intervento in Siria dall’House of Commons. Un evento straordinario che segnala l’acutezza del momento. L’intelligence inglese afferma di avere le prove che i gas sono stati lanciati dal regime siriano, gli americani concordano precisando di non sapere “chi” abbia dato l’ordine diretto. La Camera dei Comuni nega però a Cameron il via libera, memore dei guai del laburista Tony Blair ai tempi dell’invasione dell’Iraq 2003. E il leader laburista Miliband, finora ai margini della scena, spera in una rimonta di immagine sul caso Siria. Anche il Congresso americano, non tanto perché davvero preoccupato della situazione in Medio Oriente, ma perché consapevole, come i colleghi inglesi, che la maggioranza dei cittadini vuole lavoro e non guerre all’estero, rema contro Obama. Liberali e conservatori fiutano il presidente in difficoltà e alzano il prezzo. Lo Speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, scrive a Obama per chiedere quel che il presidente non ha, una chiara strategia in Siria, lamentando la scarsa consultazione con il Congresso. 116 deputati, 98 repubblicani e 18 democratici, scrivono invece alla Casa Bianca intimando che nessun raid parta “senza l’autorizzazione del parlamento”. Insomma, sono finiti i tempi del dopo 11 Settembre quando in nome della sicurezza nazionale il presidente aveva mano libera. Obama, incerto, deve trattare. Paradossalmente il falco numero 1 sembra Hollande, socialista francese, che incassata una cautissima riforma delle pensioni, prova ad usare la forza contro un’ex colonia ereditata dai Turchi, per vellicare l’orgoglio imperiale della nazione, anche se la sconfitta di Cameron lo indurrà a più miti consigli. Ieri, con un tweet da @martadassu la viceministro degli Esteri Marta Dassu ha chiarito la posizione italiana, replicando al Wall Street Journal: dapprima sembrava che l’Italia sarebbe intervenuta solo con un mandato Onu contro Assad, poi nemmeno in questo caso, ora la vice del ministro Emma Bonino conclude che l’Italia interverrebbe con un mandato Onu. Vedremo in che direzione evolverà la nostra diplomazia dopo lo stop di Londra. Obama voleva, in fretta e furia, lanciare qualche missile cruise Tomahawk contro basi militari in Siria per mantenere la parola data “No gas!” e ammonire Russia, Cina e Iran sulle sue intenzioni in Medio Oriente. Si accorge che Damasco è capitale ostica. Alessandro Magno, nel 333 avanti Cristo, la conquistò con tanto bottino da far ammirare gli storici e richiedere 7000 bestie da soma per il trasporto, incluse 55 tonnellate d’oro e l’intera famiglia dell’imperatore persiano Dario. Molto difficile ripeterne l’exploit con Assad. Il regime minaccia, con la solita retorica, rappresaglie, il premier siriano Wael Al-Halqi annuncia la tradizionale “tomba per gli invasori” e l’ambasciatore all’Onu Bashar Ja’afari indica in Israele il bersaglio, sul modello del raid di Saddam Hussein durante la Guerra del Golfo. Altrettanto truculento il generale di Stato Maggiore iraniano Hassan Firouzabadi: “Attaccano la Siria? Israele brucerà”. Propaganda, ma serve a spaventare Barack Obama, al suo primo, vero, test di politica estera. Un blitz mordi e fuggi, alla Reagan in Libano o alla Clinton dopo l’attacco alle ambasciate Usa in Africa, non sarà facile, la Siria e i suoi padrini, Russia, Iran, Hezbollah, reagiranno in qualche modo. Discretamente, a Gaziantep, in Turchia, ribelli del Consiglio Militare Supremo e del Libero Esercito Siriano consultano agenti americani per concordare i bersagli del blitz. Il regime alawita di Assad ha costruito molte basi militari in quartieri popolosi e i ribelli non vogliono essere accusati di avere diretto il fuoco contro i connazionali. Dall’inizio della guerra civile l’opposizione non è riuscita ad incidere nel consenso della base di Assad, gli alawiti, ma anche i cristiani restano scettici, temendo i fondamentalisti, i salafiti, al Qaeda e gli altri terroristi infiltrati tra i ribelli. La mappa dei possibili siti da colpire include gli aeroporti di Damasco, Aleppo, Homs e Latakia. Gli inglesi hanno già mobilitato due caccia Typhoons a Cipro, per “difesa aerea”, altri quattro arriveranno entro oggi. Ma Putin –che resta in silenzio sulla crisi in Siria, lasciando la parola a Lavrov per tenere sulla corda Obama- ha ordinato che altre due navi russe incrocino nel Mediterraneo, “in chiave anti sommergibile” dicono i dispacci militari: per rendere più difficile la vita ai sommergibili Usa che monitorano e possono colpire Damasco. Il dilemma strategico di Barack Obama è così sintetizzato da Matthew Waxman del Council on Foreign Relations “Il presidente deve fermare le atrocità di Assad contro i civili, mantenere la credibilità internazionale evitando che la sua parola perda di peso, senza però che il raid destabilizzi il Medio Oriente, dalla guerra ad al Qaeda alla crisi nucleare in Iran”. Ci sono momenti in cui un leader non può che giocare d’azzardo, l’“alea iacta est” di Cesare e l’algoritmo del matematico russo Kolmogorov, calcolare quando un semplice rischio è la migliore strategia possibile. Ma nella vita, personale e politica, di Barack Obama l’azzardo non è mai entrato, tutto è frutto di lavoro, talento e pianificazione precisa di ogni mossa, i pro e i contro vagliati al millesimo. Ora non gode più del cerebrale beneficio di “planning”, progettare, deve agire secondo principi, istinto, fiuto, il cervello non basta, servono “guts”, la pancia. Come ne uscirà sarà un capitolo importante del giudizio che la Storia trarrà di lui e non ha troppi giorni, stavolta, per ponderare: aspettare, amletico, tra il sì, il no, il magari, è un modo, forse il meno felice, per decidere. L’incertezza è un lusso che i profughi siriani in fuga dalle aree di Damasco considerate bersaglio del raid non possono concedersi. Devono agire subito, testa o croce, per loro niente calcoli possibili. Migliaia di famiglie hanno raccolto poche masserizie e si avviano al confine libanese. Chi resta ha la cucina colma di cibo in scatola, pane, acqua, carburante per generatori elettrici, pile per le radio, medicine per gli ammalati e aspetta le scelte dei Grandi. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/08/30/cultura/opinioni/editoriali/se-manca-la-strategia-ckT9T0EDwuzxiloW9lmsNO/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Un mondo senza arbitro Inserito da: Admin - Settembre 06, 2013, 11:24:14 pm Editoriali
04/09/2013 Un mondo senza arbitro Gianni Riotta Con i sì del falco senatore McCain, dello Speaker della Camera Boehner e dell’House Majority leader Eric Cantor, repubblicani, e di Nancy Pelosi, leader dei deputati democratici, il presidente Barack Obama fa un passo, importante anche se non decisivo, per uscire dalla trappola siriana. L’ok del Congresso al raid punitivo contro Assad per l’uso dei gas appare, se non scontato, meno appeso agli umori partigiani di destra e sinistra. Comunque vada, si conferma una nuova stagione globale: rischiamo di vivere in un mondo senza arbitro, senza poliziotto di quartiere, nessuna superpotenza si farà più garante dello status quo, la Pax Americana, per quanto precaria, tramonta. Durante la Guerra Fredda Washington e Mosca governavano le loro sfere di influenza, con i Paesi non allineati dalla Conferenza di Bandung dal 1955 in poi a cercare spazio. Gli Stati Uniti provavano a contenere l’Urss, sostenendo Berlino durante il blocco russo e accettando l’invasione della Ce coslovacchia, come il Pcus non reagiva ai golpe filoamericani in America Latina. Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, il presidente Bush padre progetta quello che definisce un Nuovo Ordine Mondiale, democrazia anche a Mosca, garanzia Onu, gli Stati Uniti potenza benefica ad assicurare mercato globale, commerci, libertà. Quando Saddam invade il Kuwait, la coalizione funziona, l’Onu di Perez de Cuellar dà il via libera, europei e arabi si uniscono all’operazione, il Kuwait è liberato. Sembra una nuova strada, ma dura poco. A Mosca la stagione di Gorbaciov e Eltsin cede il Cremlino al nuovo panslavismo di Putin, ostile all’America e alla democrazia. Negli Usa il Nuovo Ordine Mondiale è osteggiato a sinistra dal movimento No Global, che da Seattle 1999 vede nella globalizzazione il nemico, a destra dagli estremisti isolazionisti. Nel 1995, quando il terrorista razzista Tim McVeigh fa saltare a Oklahoma City il Federal Building, la motivazione è il suo odio per il New World Order. Clinton guiderà il mondo contro Milosevic nei Balcani, fermando i pogrom in Kosovo e la guerra ma poi il multilateralismo si insabbia, un mondo senza ordine. L’attacco alle Torri Gemelle manda gli Usa in guerra a Kabul e Baghdad, ma dieci anni dopo - come dice il segretario Kerry - «l’America è stanca di guerra» come la ragazza Teresa Batista del romanzo di Jorge Amado. Il deputato populista di destra Ron Paul dice: «No alla guerra in Siria, che ce ne importa, non abbiamo i soldi, non dobbiamo perdere soldati, se la vedano tra di loro». Il dilemma di oggi è: avremo un mondo senza arbitro, senza superpotenza? Quando la Cina sembra agire con troppa foga nell’Oceano Pacifico, quando vara una flotta verso l’Oceano Indiano e una portaerei, Paesi amici come l’Australia, o ex nemici come il Vietnam, guardano subito agli Stati Uniti come freno. Gli australiani chiedono e ottengono un contingente di marines, il Vietnam condivide esercitazioni con gli americani che ha sconfitto nel 1975, «contro gli Usa abbiamo combattuto 20 anni, contro la Cina 2000». La posta in gioco oggi è questa divisa di arbitro, di agente del quartiere Mondo: hanno ancora gli Stati Uniti i soldi, le forze armate, il consenso, gli ideali e la visione per fungere da leader nel XXI secolo? Studiosi come Kishore Mahbubani parlano di «secolo asiatico», ma con la Cina ripiegata su una difficile transizione politica e l’India che rallenta la corsa economica, mentre la rupia perde valore, dall’Asia non si annunciano leader. La Russia è chiusa nel cerchio petrolifero e di astio per i diritti umani, dai gay alle Pussy Riot, di Putin. L’Europa, alle prese con una crisi economica e dell’euro che solo da poco dà qualche respiro, non sembra avere una prospettiva comune, Germania, Francia, Gran Bretagna, Polonia e Italia divise da interessi e culture. L’Europa superpotenza è oggi più lontana di quel che si sperava al momento della nascita dell’euro e dell’allargamento alle nuove democrazie a Est. In America i Tea Party come Occupy Wall Street, destra e sinistra populiste, non vogliono nessuna visione multilaterale, internazionalista, con Washington a creare coalizioni e consenso, tra Onu e mondo. Molti parlamentari sono attratti da questa scelta. Il voto del Congresso avrà conseguenze tattiche sulla guerra in Siria, il no rafforzando un poco Assad, il sì un poco indebolendolo, ma senza mutare alla fine l’esito dello scontro, che resterà incerto e doloroso: ogni minuto 4 siriani scelgono la strada dell’esilio. Ma il voto del Congresso sulla Siria avrà conseguenze strategiche sul mondo. La bocciatura di Obama ridurrà a lungo status, prestigio e credibilità americana. La sua vittoria confermerà a Russia, Cina, Iran, Hezbollah, Corea del Nord, come agli alleati, che Washington non intende abdicare al ruolo di playmaker per la diplomazia e l’economia globale. È evidente che nemici e amici dell’America attendano il voto con opposte speranze e uguale ansia. Come ha detto la senatrice Boxer, «stiamo votando se trasformarci o no in una tigre di carta». Sarebbe bello che gli europei, e l’Italia da due generazioni alleata dell’America, non stessero a guardare, volta a volta inerti, indifferenti, pilateschi o tifosi perbene ma costretti a nascondere la passione. E quando la Bella Addormentata Europa si sveglierà dal sonno domestico troverà un mondo cambiato e senza più principe azzurro o a stelle e strisce. Twitter @riotta da - http://www.lastampa.it/2013/09/04/cultura/opinioni/editoriali/un-mondo-senza-arbitro-p9sPxETcZPL9jGDXkNGMtL/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Don Giussani, prima la fede poi la politica Inserito da: Admin - Settembre 11, 2013, 05:43:33 pm cultura
11/09/2013 - personaggio Don Giussani, prima la fede poi la politica In una monumentale biografia curata da Alberto Savorana l’epopea del prete che nel ’68 sfidò la sinistra e i vertici della Chiesa milanese Gianni Riotta I più aspri critici dell’esperienza di Comunione e Liberazione, e i più fedeli militanti del movimento, dovrebbero leggere questa straordinaria Vita di don Giussani (Rizzoli), redatta in anni di monumentale lavoro da Alberto Savorana, come se trattasse di un personaggio storico di cui mai abbiano sentito parlare prima. Evitando cioè che i pregiudizi, positivi o negativi che il fondatore di Cl ha attratto a lungo su di sé, impediscano loro di riscoprire un «don Gius», così lo chiamavano i suoi studenti affezionati, inedito, come documentato da Savorana, che è stato vicino ieri a Giussani, oggi al suo successore Julian Carrón. Un don Giussani che considera il regista Pier Paolo Pasolini «unico intellettuale cattolico italiano», che trova momenti di solidarietà con don Milani, il parroco che si scontra con la gerarchia cattolica per la «scuola di Barbiana». E di scontri con i vertici, quando a Milano la Diocesi è retta dal cardinal Colombo, Giussani ne ha molti, anche rivendicando con orgoglio in punto di morte «Ho sempre obbedito». La sua prima creatura tra gli studenti – è stato professore al Liceo «bene» Berchet, poi all’Università Cattolica – si chiama Gioventù Studentesca, e «don Gius» ammonisce: la centralità non è il lavoro sociale, politico o culturale, ma la radicalità «dell’annuncio» cristiano, la figura di Cristo. Uno studente spagnolo, che per essere vicino a Cl finirà in galera nella Spagna del dittatore Franco, propone di vivere «per Cristo e per i poveri», Giussani con irruenza spiega che Cristo viene prima, «o diventiamo solo marxisti», come obietta a un collega comunista del liceo. Negli Anni 50 della Guerra Fredda, nel 1968 che spazza le università e svuota in un giorno i quadri di Gs, nel 1977 estremista che incendia le sedi di Cl e ne disperde le assemblee con i pestaggi (Paolo Mieli, ex direttore del Corriere, dirà che la sinistra deve delle scuse a Cl per il clima di intimidazione di allora e farà con coraggio le sue personali), come nella stagione in cui Cl e il Movimento Popolare assumono potere nella Chiesa, nella politica italiana, nell’economia e nei media, Giussani tiene un solo orientamento. È la critica, che Giovanni Paolo II porterà al vertice della Chiesa, al «marxismo e del materialismo» del secondo ‘900. Secondo il vescovo Camisasca, don Giussani «Non è stato ossessionato dal problema della modernità. […] Ha sentito l’epoca moderna come un tempo che stava finendo, su cui non era necessario soffermarsi. Occorreva invece ripensare in termini nuovi le questioni di sempre, che la modernità aveva a suo modo reso impensabili… ricominciare da capo, riscoprire le parole fondamentali, riguardare l’uomo in azione per coglierlo nei suoi dinamismi più profondi, nelle sue attese più radicali». Quando Cl diventa fenomeno di massa, le grandi firme accorrono a intervistare Giussani, Giorgio Bocca, Massimo Fini, Giovannino Russo, provando a farlo cadere in contraddizione, gli parlano del suo voto alla Dc, della pillola anticoncezionale, dell’industria, ma il fondatore di Cl li spiazza – e Bocca in una ironica chiusa lo riconosce – insistendo che il suo discorso è altrove, in una fede che la politica non coglie. Il filosofo Althusser critica i comunisti e li vota? Io faccio lo stesso con la Dc, scherza Giussani. È impressionante in una pagina di Savorana, il malumore di Giussani dopo un’assemblea riuscitissima al Palalido di Milano, intorno al 1975. Mettendo in guardia i suoi dalle sirene della «politica», rimandandoli da «pretaccio», come una futura madre badessa di clausura, Monica Della Volpe, lo giudicherà al primo incontro da studentessa, Giussani sembra prevedere la deriva di «materialismo» che toccherà una generazione dopo leader vicini a Cl, e contro cui il suo successore Carron predicherà con energia. La futura badessa Monica Della Volpe ricorda come Giussani trattava i giovani che si avvicinavano a lui spinti anche da ambizione: si infiltra a «un pranzo di capetti con il Gius, al ristorante. Io li vedo tutti lì: piccini, ansiosi di carpirsi una parola, uno sguardo del capo. Insopportabili. Poi vedo Giussani che si fa portare un carciofo crudo, con una salsina. Comincia a staccare le foglie una a una, le mangia ed esclama: “Ah, come è buono questo carciofo! Come è buono questo carciofo!”»…Intanto Giussani «guarda quegli altri, gli lancia battute, zampate fra l’ironico e l’affettuoso, li prende in giro…». Alberto Savorana, in oltre 1300 pagine, racconta non solo la vita di don Giussani, ma decenni di storia. Anni in cui al Berchet, Giussani «prof» di religione e i colleghi marxisti, dibattono di «fede e ragione» in corridoio, mentre gli studenti ascoltano. Al Circolo Peguy di Milano, un giovanissimo Gian Enrico Rusconi ragiona con Giussani di fede e politica, nasce la casa editrice Jaca Book (dal nome di una specie di albero del pane) che sarà la prima a tradurre il capolavoro di Grossman Vita e destino. Su Rinascita, settimanale del Pci, il futuro parlamentare Fabio Mussi denuncia Cl come misto di integralismo e marketing. La Stampa e il Manifesto accusano – la notizia sarà smentita – Cl di essere finanziata dalla Cia. Padre Davide Maria Turoldo, sul Corriere della Sera, polemizza in un articolo molto duro con l’«integrismo» di Giussani, chiedendosi poi perché Giussani non attacchi il terrorismo di destra, gli scandali, la corruzione. Perfino il mite frate Nazareno Fabbretti, a colloquio con Giussani, gli chiederà come mai quelli di Cl siano così detestati nella Chiesa, non nascondendo di condividere l’antipatia. Più lontano vedono il cardinal Montini, poi papa Paolo VI e Aldo Moro. Montini, quando gli universitari cattolici della Fuci di Fabrizio Onida, che pure aveva diretto a suo tempo, si scontrano con Giussani per un libro sulla Spagna fascista, prende a sorpresa le parti di Gs, persuaso che la fede venga avanti alla politica. E Moro, all’apice del potere, andrà taccuino in mano, nascosto tra gli studenti, ad ascoltare «don Gius» e i suoi. Immaginate l’aneddoto, ricordato dal nostro – giovanissimo – Luigi La Spina, con protagonista un leader di oggi? Savorana non nasconde le critiche radicali rivolte a Giussani, gli abbandoni, le sconfitte, i momenti di depressione, per la precaria salute, o quando il cardinal Colombo lo manda in una specie di esilio on the road in America. Preoccupato di trovare mele cotte per il fegato e la cistifellea che ha a pezzi, Giussani vagabonda da Los Angeles a New York, ma appena i dolori gli regalano un certificato medico ad hoc, si precipita a riorganizzare Gs a Milano. Ratzinger ne celebrerà i funerali, condividevano la denuncia di totalitarismo, materialismo e relativismo, la fede nella parola. Agli studenti del ’68 Giussani spiega che se i cristiani non predicano il Vangelo, allora il messaggio più rivoluzionario è Marx. Divertente a tratti, dal padre di Giussani vecchio socialista vicino ad Anna Kuliscioff, a «Gius» che si lagna di «essere brutto» perché i giovani si distraggono in classe, La vita di don Giussani è un capitolo del dopoguerra che tocca tutti noi. L’incontro in Spagna con don Carrón meriterebbe un saggio a sé. Perché con Vita di don Giussani, Savorana compie il lavoro di storico, attingendo ad archivi e documenti inediti. Ma il suo è anche un libro «politico», che parlando del fondatore di Cl ne indica la strada futura, contro le possibili «deviazioni», come i Fioretti di San Francesco nel dibattito medievale. Contro il timore di Emilia Cesana, carissima a don Giussani sugli altri leader del movimento, «Speremm desfen no quel che don Giussani el fa», speriamo non distruggano quel che ha fatto don Giussani, una citazione spesso ripetuta dal cardinale di Milano Angelo Scola. Un pericolo contro cui lavora Carròn e che ha così esorcizzato il giorno dei funerali di Giussani: «L’unità tra di noi è il dono più prezioso che nasce dall’accogliere questa iniziativa. Chiedo la grazia, per la responsabilità affidatami da don Giussani, di poter servire questo dono dell’unità». Un libro da leggere per capire una figura chiave del nostro Paese, un manifesto di guida politica per chi in Cl militerà. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/09/11/cultura/don-giussani-prima-la-fede-poi-la-politica-dCQ0nKyumkgIcLbM907G7M/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Barack finisce in un vicolo cieco Inserito da: Admin - Settembre 14, 2013, 07:40:10 pm EDITORIALI
13/09/2013 Barack finisce in un vicolo cieco GIANNI RIOTTA Forte delle sue lauree da primo della classe a Columbia e Harvard, il presidente americano Barack Obama ha paragonato il presidente russo Vladimir Putin «allo studente pigro che ciondola all’ultimo banco». Imagine efficace, ma non di rado lo studente scarso a scuola le suona poi nella vita al secchione in classe. Sulla tragica vicenda della Siria, Putin surclassa, in politica, diplomazia e comunicazione il rivale Obama. E se Arafat e Kissinger hanno vinto il Premio Nobel per la Pace, magari a qualcuno verrà in mente di concederlo anche a Putin. Il leader Usa s’è contraddetto a ripetizione, chiedendo via via il cambio di regime contro Assad a Damasco, poi imponendo un ultimatum sull’uso dei gas, infine preparando il blitz dopo la strage di civili innocenti uccisi dalle armi chimiche, infine, in extremis, chiedendo un voto al Congresso, dopo che il suo vice Biden e il segretario di Stato Kerry avevano dato per certo l’attacco. Il caos della Casa Bianca ha prima costretto all’umiliazione l’alleato premier inglese Cameron alla Camera, poi isolato il presidente Hollande, rimasto a fianco degli americani contro Assad. Mentre Kerry parlava, in termini che facevano inorridire lo stato maggiore militare Usa, di «un attacco incredibilmente minuscolo», un raid bonsai, Obama annunciava invece che non si sarebbe accontentato di «colpi di spillo». Un pasticcio che ha confuso alleati come l’Italia e screditato il Presidente in casa. I deputati e i senatori, in privato, siano democratici o repubblicani, si dicono più incerti di due settimane fa. E i falchi, come il senatore McCain, sono sbigottiti che l’attacco venga condotto in questo modo grottesco. Alle Nazioni Unite da decenni gli Stati Uniti non erano tanto malmessi, almeno ai tempi di G.W. Bush e dell’Iraq c’era un pacchetto di paesi amici, da Londra a Roma a Madrid a Varsavia. Oggi sorrisi educati e battute dietro la schiena. Che poi l’iniziativa diplomatica sia passata a Putin, e al suo esperto ministro degli Esteri Lavrov, manda al tappeto Obama. In pochi giorni il Presidente russo ha dipinto il premio Nobel Obama come uno spione che perseguita la libera informazione incarcerando Chelsea Manning su Wikileaks e braccando Snowden sui dati Nsa, mentre viola la legge internazionale minacciando di colpire un paese indipendente come la Siria: altro che pace, un guerrafondaio. Con l’editoriale sul New York Times, nell’anniversario dell’11 settembre, Putin cita Papa Francesco, invoca Dio e si atteggia a statista difensore degli equilibri contro l’America «che milioni nel mondo vedono non come una democrazia» perché «punta solo sulla forza bruta». Per uno «studente pigro dell’ultimo banco» un successone. Chi ricorda, leggendo le righe nobili di Putin sul pacifista New York Times, che, sulla stessa pagina delle opinioni, nel 1999, il presidente russo si vantò della sua guerra di aggressione in Cecenia con un editoriale dal titolo «Perché dobbiamo agire», in cui spiegava che «comunque vada purtroppo in guerra ci sono vittime civili»? Nessuno. Chi chiede a Putin come mai la «legge internazionale» e le Nazioni Unite non gli sembrarono importanti quando decise di bombardare la Georgia? Sotto il suo governo giornalisti sono stati uccisi, innocenti incarcerati, dissidenti assassinati all’estero dalle spie, intellettuali trascinati in tribunale, omosessuali chiusi in un clima di odio. Ma grazie agli errori di Obama, Putin ha ripulito la sua immagine e quella del Cremlino. «Scoiattolo cieco» definisce ora Obama, il saggista David Rothkopf su Foreign Policy, confessando «di averlo votato due volte» ma di condividere lo sgomento della base democratica per Amleto-Barack. Se il negoziato che ora Putin propone, dare all’Onu il controllo dell’arsenale chimico di Assad, diventasse realtà, sarebbe una vittoria diplomatica fantastica per i russi, la prima vera dalla fine della Guerra Fredda, ridimensionando per sempre il mito che tanti entusiasti avevano, con ingenuità eccessiva, creato intorno a Obama. Senza opposizione, Putin può chiedere insieme la trattativa sui gas di Assad e scrivere sul Times che ad usarli sono stati i ribelli, non il regime siriano: dunque a che serve mai il controllo Onu a Damasco, il fronte anti Assad potrebbe ancora fare strage di civili! Colum Lynch, blogger del Washington Post rivela che le Nazioni Unite hanno le prove della responsabilità di Assad, ma il segretario generale Ban Ki-moon poco potrà fare, bloccato dai veti di Russia e Cina: altro che Onu «garanzia della pace»… L’opinione pubblica americana che, come ha detto Kerry, è «stanca di guerra», vede nel Presidente un evanescente leader, incerto. Se ora Obama comanderà il blitz, Putin e i suoi avversari avranno buon gioco, anche in un’Europa del tutto indifferente alla tragedia siriana, senza marce per la pace, bandiere, slogan, a dipingerlo da «guerrafondaio». Se, disperato, acconsentirà alla proposta russa, entrerà in un labirinto come quello della trattativa sul nucleare in Iran, anni di inutili riunioni, mentre il programma atomico di Teheran prosegue. Assad, consigliato e guidato da Putin, tratterà e si terrà per anni i gas, mentre sul campo la strage e le sofferenze dei civili, già 100.000 morti e 7 milioni di profughi, la metà siriani, continueranno. Obama ha rivinto la Casa Bianca nel 2012 grazie al guru Michael Slaby e ai suoi Big Data. Ma nessun computer, nessuna banca dati, viene in soccorso davanti alla guerra, alla pace, ai diritti, quando un leader democratico è solo con la sua coscienza, e la forza, le idee e l’energia per una condotta giusta ed efficace deve chiederli al proprio animo, non a un algoritmo. Twitter@riotta da - http://www.lastampa.it/2013/09/13/cultura/opinioni/editoriali/barack-finisce-in-un-vicolo-cieco-q22LygYyPglWtC1foKPcJM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Sfida rock a Grillo Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2013, 05:17:51 pm Editoriali
13/10/2013 Sfida rock a Grillo Gianni Riotta Vestito e cravatta scuri da Reservoir Dogs di Tarantino, camicia bianca, microfono da conduttore di talk show, luci rock e palcoscenico rotondo con freccia. Tutto perfetto al lancio della corsa verso la segreteria di Matteo Renzi ieri a Bari. Già gli analisti politici studiano la Fenomenologia del Look, opponendo «Matteo hot» a Enrico Letta cool», secondo la vecchia, fallace teoria di McLuhan. In realtà il sindaco di Firenze sa benissimo – riascoltatene il discorso come prova- che non gli basterà l’immagine per vincere la difficile partita in corso. Il «look» colpisce infatti l’opinione pubblica, ma alla fine sono le idee, gli interessi, la realtà ad assegnare la vittoria. Credere che Berlusconi abbia vinto «grazie alla tv» è errore teorico, cocktail di ignoranza e presunzione, costato alla sinistra italiana venti anni di guai. Renzi ha ora davanti gli elettori che dovranno votarlo, militanti e simpatizzanti Pd. Ha concesso loro la critica alla legge Fornero, ha parlato di temi cari a Vendola. Consapevole che il «Matteo» Gian Burrasca fiorentino degli esordi non piace all’apparato, ai dirigenti tradizionali del sindacato, al Pd ortodosso, Renzi modula i toni: conta vincere bene, senza strappi. Ma un Renzi mellifluo come un doroteo e grigio come un apparatchick del Cremlino farebbe ridere. Piaccia o no, la personalità del sindaco è insofferente perfino ai consigli dei suoi spin doctors, spinto da una foga che può creargli guai, ma piace agli elettori. Ieri le scelte Pd erano nitide. Un Letta di governo che alla Festa di Repubblica dialoga col direttore Mauro e con il socialdemocratico tedesco Schulz. A Roma Cuperlo e Civati a cercare spazio. A Bari Renzi «formato Pd». Gianni Cuperlo dice, con serietà, di volere «bucare le coscienze» e non il video. In meno di 60 giorni Renzi deve dimostrare di saper bucare le coscienze, oltre al video, cosa che fa egregiamente. Perché tra «immagine» e «sostanza» non c’è contraddizione, nel mondo web la sostanza «è» immagine, l’immagine «è» sostanza. La tenuta del centrodestra nei sondaggi malgrado l’impasse di Berlusconi ne è prova. La sfida di Renzi è semplice e dura: restare se stesso, non truccarsi da statista corrucciato, ma ascoltare voci e bisogni dei militanti Pd alle primarie e dei cittadini alle politiche. Ci ha provato ieri parlando contro la Fornero, ma anche contro l’amnistia, non polemico contro il Quirinale, ma attento agli umori moderati, centristi e perfino ai populisti che dovrà contendere a Grillo. Twitter @riotta da - http://lastampa.it/2013/10/13/cultura/opinioni/editoriali/sfida-rock-a-grillo-vRNZx63hepmu9HsnpnVNZM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Trasparenza contro il Far West Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 09:38:03 am EDITORIALI
22/10/2013 Trasparenza contro il Far West GIANNI RIOTTA Fa benissimo la Francia a lamentarsi del programma di controllo Big Data, regia della National Security Agency americana, che l’ha investita. Non capita tutti i giorni che l’ambasciatore Usa a Parigi venga convocato dal ministro degli Esteri Fabius per una lavata di capo e quando capita è notizia da prima pagina. Le rivelazioni dell’ex collaboratore Cia Snowden e dell’attivista Greenwald, sul network segreto continuano a imbarazzare la Casa Bianca, e il peggio deve arrivare. Il contrasto che oppone il presidente Hollande a Obama stride con l’intesa che i due capi di Stato avevano trovato sulla Siria e il brutto incidente segue il viaggio mancato negli Stati Uniti della presidente brasiliana Rousseff, anche lei sdegnata per il caso Nsa. La campagna di Edward Snowden, ora rifugiato nella Russia di Putin a gestire la cassaforte di dati trafugata in Nsa, non è finita. L’ex giornalista del Guardian Glenn Greenwald è stato assunto dal miliardario Pierre Omidyar, fondatore della catena di aste online eBay, e il duo intende lanciare nuovi documenti, senza le precauzioni giornalistiche «old media» dei quotidiani, considerate obsolete. La filosofia di Greenwald e Snowden, condivisa dall’ex agente Kgb Putin e ora corroborata dalla ricchezza e diffusione digitale di Omidyar, è opposta a quella del giornalismo professionale, senza controllo delle fonti, ricerca dei motivi per cui certi documenti vengono diffusi, analisi delle conseguenze che la pubblicazione comporta, per esempio sull’antiterrorismo. Governi e le opinioni pubbliche occidentali sono davanti a una scelta storica e prima l’affrontano, senza ipocrisia o ignoranza, meglio sarà. Il presidente Obama, distratto dal caos al Congresso, shutdown e difficile decollo della sua riforma sanitaria, ha davanti una scelta netta. Gli americani non possono continuare a analizzare i dati online e telefonici di soppiatto, è indispensabile alla sicurezza nazionale la collaborazione con gli alleati, se non vogliono poi essere costretti a scusarsi arrossendo, colti con le mani nel software. Gli apparati dei vari paesi alleati devono concordare strategia e regole comuni, senza inciampare in un «caso» dopo l’altro. Ma l’opinione pubblica, in America e in Europa, deve maturare. Tutti i paesi, nessuno escluso, conducono analisi Big Data del traffico di informazioni, online e offline. La Francia, che giustamente denuncia l’occhiuta ingerenza dello Zio Sam, ha il suo efficiente Dgse, ufficio di intelligence che usa stessi metodi e software Nsa. Il direttore tecnico del Dgse, Bernard Barbie, si vanta «La Francia, dopo gli inglesi, ha il miglior centro raccolta dati in Europa». Nsa e Dgse negano di ascoltare il contenuto delle telefonate, o di leggere il contenuto delle e-mail sottoposte ad esame. Piuttosto disegnano la rete dei contatti, esaminano «chi chiama e chi scrive a chi e quanto spesso». Quando un numero o un’utenza mail infittiscono i contatti con centrali terroristiche, conosciute o sospettate, vengono pedinati online. Lo Stato, in America come in Europa, utilizza gli stessi algoritmi che i motori del web usano ogni giorno su di noi (paradossalmente eBay, che assume Greenwald come paladino della trasparenza, è pioniera di queste tecniche informatiche…). Ma quel che i cittadini perdonano a Google, Amazon, Facebook, Twitter, studiare e raccogliere i nostri gusti online, perdoneranno anche allo Stato? Secondo gli attivisti digitali, da Assange e Manning del caso Wikileaks, a Snowden e Greenwald del caso Nsa, no: Greenwald non ha obiezioni a lavorare per eBay ma combatte la sicurezza di Washington. Hanno ragione i guerriglieri del web? Solo fino a un certo punto. Come ha detto il capo dei servizi segreti inglesi MI5, Andrew Parker, l’impresa di Snowden «è un regalo immenso ai terroristi». La rete del fondamentalismo, attiva dall’Africa, al Medio Oriente, gli Usa e l’Europa, utilizza gli stessi modelli analitici della polizia e, una volta dedotto l’algoritmo usato per snidarli, può con facilità eluderlo e confonderlo. I Big Data sono arma letale a doppio taglio, chiunque può impugnarli. Il presidente Obama, nei guai con i francesi – «i nostri più antichi alleati» li ha definiti con enfasi il segretario Kerry -, deve meditare e noi con lui. La soluzione non è abolire ogni controllo online per timore del Grande Fratello. Non obiettiamo a posti di controllo e telecamere in strada, a perquisizioni in aeroporto, spesso degradanti, perché ne conosciamo l’utilità. Ma è ora che il Far West online cessi e che gli utenti sappiano fino a che punto, e come, la loro privacy è studiata, da governi e monopoli. Apparati di sicurezza online sono necessari, ma il loro mandato deve essere trasparente, le responsabilità delle agenzie assegnate con precisione, senza setacciare nel mucchio. Come si sta, faticosamente purtroppo, negoziando un’area di libero scambio Usa-Eu si deve lavorare a un accordo Usa-Eu sui dati, con confini chiari e metodi acclarati. Se Washington spera di continuare a fare da sola, se gli europei gongolano quando l’America è colta in fallo salvo poi arrossire a loro volta quando Anonymous tramerà a Bruxelles, il risultato sarà meno coordinamento ed efficacia nella lotta al terrore globale e più slancio per pirati e nichilisti. I quali, malgrado collaborino con caudillos latinoamericani, oligarchi russi e padroni del web, si vestiranno da Robin Hood, sottraendoci utili armi contro terrorismo e criminalità organizzata. Obama deve imporre regole alla Nsa, magari reclutando con più attenzione: letti i curriculum del soldato Manning e dell’agente Snowden ci si chiede quale matto li abbia messi a lavorare con i dati segreti. Le ricerche vanno coordinate con gli alleati europei, con un’Interpol digitale. E, infine, i giornalisti professionisti veterani dovrebbero spiegare al pubblico qual è la posta in gioco, come funziona davvero la raccolta dati, che differenza c’è tra informazione libera e furto di dossier segreti. Gianni RiottaTwitter @riotta http://lastampa.it/2013/10/22/cultura/opinioni/editoriali/trasparenza-contro-il-far-west-tDQiOtMu8wrPhnZ3XTXQhI/pagina.htmlDa - Titolo: Gianni RIOTTA - Il teatro di ombre Inserito da: Admin - Novembre 03, 2013, 06:39:23 pm Editoriali
03/11/2013 Il teatro di ombre Gianni Riotta La vicenda dei dati raccolti dall’agenzia americana di intelligence National Security Agency e la reazione dei governi europei nasconde una delicata filigrana. L’immagine in superficie divide la pubblica opinione nella contesa politica, mentre i professionisti più accorti studiano, e si contendono, la filigrana occulta. Curioso paradosso per una crociata sulla trasparenza. Il presidente francese Hollande protesta con Obama sulle scorribande Nsa in Francia, ma solo con pacata sagacia. Hollande sa quel che Bernard Squarcini, ex capo dell’intelligence interna Dcri, dice con candore raro in un uomo dei servizi : «Se i nostri leader si stupiscono per le rivelazioni Nsa vuol dire che non hanno mai letto i rapporti che mandavo loro… tutti sanno che gli alleati cooperano sull’antiterrorismo, ma poi si spiano a vicenda, lo fanno gli americani e lo facciamo noi, dal mercato all’industria, nessuno è fesso». Con realismo il ministro del Commercio Nicole Bricq conferma: «Inutile piagnucolare… piuttosto la Francia migliori» la propria rete di raccolta dati. Distratti dal Teatro di Ombre su sicurezza e dati, non vediamo il vero scontro, indicato dalla Bricq, ed è qui che va invece puntata l’attenzione. Se il Ministero del Tesoro americano, con un attacco di rara violenza, castiga la Merkel e la politica dell’austerità che confinerebbe nella recessione l’Europa, se il presidente dei socialdemocratici tedeschi Sigmar Gabriel minaccia di bloccare il patto di libero scambio Usa-Ue in rappresaglia contro l’intelligence Nsa, è perché i governi, sulle due rive dell’Atlantico, sanno che lo spionaggio continuerà comunque e provano almeno a ricavarne vantaggi sui temi di politica economica in discussione. Mentre l’ex direttore del New York Times Keller e l’ex analista del Guardian Greenwald dibattono di vecchi o nuovi canoni del giornalismo, gli addetti ai lavori studiano la falla aperta dalla politica sfrenata Nsa. La società contemporanea, politica, finanza, economia, commercio, lotta alla criminalità, si basa su un livello accettabile e condiviso di sicurezza della rete. Se mandate una mail, comprate un biglietto del treno, seguite il vostro conto in banca o la carta di credito online, scommettete su un accettabile grado di privacy. Il codice Swift presiede - ad esempio - domestiche o faraoniche transazioni finanziarie. Ai massimi vertici dell’antiterrorismo, alla guida dei satelliti in orbita, nella protezione dei sistemi complessi, la crittografia che tutela la comunicazione online è preziosa e indispensabile: se accessibile ai Cavalli di Troia di hackers, terroristi, malviventi, spie, mette a rischio ogni passo quotidiano online. Purtroppo questa è - anche se pochissimi ne parlano - la più nefasta conseguenza della bulimia Big Data Nsa. Secondo gli esperti di crittografia Nadia Heninger e Alex Halderman, la Nsa avrebbe chiesto ai programmatori di lasciare «vie d’accesso» nei software di protezione della comunicazione, per permettere con facilità agli agenti Usa di controllarli e deporre «virus» capaci di registrare il traffico dei siti sotto indagine. Heninger e Halderman temono che annacquare gli algoritmi guardiani della privacy e della sicurezza online sia il vero pericolo: una volta aperta la strada per le spie Nsa, essa può essere ripercorsa da chiunque altro. E se il sistema perde di credibilità, cittadini, aziende e istituzioni lo useranno meno e con minore fiducia. Da una generazione, garante della sicurezza digitale è il Nist, National Institute of Standards and Technology, agenzia americana che sovrintende agli standard crittografici accettati poi da governi e aziende. I codici AES, le funzioni SHA-3, la crittografia delle «curve ellittiche» studiata da Koblitz e Miller, sono tra gli algoritmi cui il Nist ha concesso autorevolezza. Purtroppo, secondo la rivista «Foreign Affairs», la Nsa avrebbe chiesto al Nist di indebolire i sistemi di sicurezza approvati, così da permetterle più agevoli intrusioni. Scricchiola così l’intera tecnologia web. Ancor prima delle rivelazioni sulla Nsa dell’ex agente Snowden, i crittografi Dan Bernstein e Tanja Lange sospettavano che gli algoritmi di sicurezza, soprattutto quelli basati sulle «curve ellittiche», fossero stati allentati dal Nist. L’algoritmo «Dual EC DRBG» a curve ellittiche è sotto osservazione già dal 2006, come i sistemi di sicurezza a «numeri random». Secondo Snowden proprio «EC DRBG» è stato indebolito su richiesta Nsa. È l’architrave su cui il web futuro basa l’architettura, se Nist non chiarisce, con franchezza, fino a che punto lo ha crepato, il prezzo da pagare, in termini politici ed economici, sarà gravissimo. Se anche Obama riuscisse - e non sembra sia per ora il caso - a riguadagnare fiducia su Nsa e Nist, come osserva il saggista Misha Glenny, il monopolio del web, dalla nascita gestito in America, emigrerà «in un network confuso, dove le nazioni erigono barriere digitali e i governi alzano il controllo su quello che i cittadini possono, o non possono, fare online». Il web bloccato dai dazi digitali farà rimpiangere la convulsa prateria americana e il controllo online sarà l’esito bizzarro della campagna per la trasparenza. Stavolta però gli Stati Uniti potranno prendersela solo con se stessi. È stato lo Zio Sam a sfiduciare gli algoritmi Nist, complessi ed umili cardini della libertà digitale. Per questo Hollande, saggiamente, tiene i toni bassi: sa che il peggio deve ancora venire e spazzerà via chi oggi si atteggia a cicisbeo. Da - http://lastampa.it/cultura/opinioni/editoriali Titolo: Gianni RIOTTA - Eppure la cultura ci può salvare Inserito da: Admin - Novembre 05, 2013, 06:19:59 pm Editoriali
05/11/2013 Eppure la cultura ci può salvare Gianni Riotta L’Italia che emerge dai dati europei sui consumi culturali è come un’immagine composta al computer da milioni di pixel, mosaico che, spostando il fuoco, si sgrana e assume diverse fisionomie. Paese impoverito, potremmo dire a prima vista, che taglia su spettacoli e libri perché disoccupazione, cassa integrazione, precariato limano i redditi familiari. È di ieri la notizia che ha visto ridotti quasi della metà gli italiani in lizza per la Maratona di New York: crisi del podismo o risparmi? Un Paese intimidito, che non studia musica perché preoccupato di quel che la crisi ci butta addosso, magari deciso a investire i risparmi in un corso che si ritiene più utile, «Informatica», «Inglese Commerciale», «Tecniche del Marketing» anziché violino, pianoforte, composizione. Un Paese affaticato, perché niente logora come la vita del disoccupato e del precario. Da mattina a sera cercando un posto, un impiego, calcolando se i tre mesi di contratto a rischio rinnovo valgano la pena, o se sia meglio restare free lance e non perdere clienti. Incerti se cercarsi una raccomandazione detestata, tornare a studiare, o – per i senza lavoro over cinquanta - tornare con trepidazione a «guardarsi in giro», come si era fatto solo trenta anni indietro. Stati d’animo che poco invogliano a mettersi in coda con i turisti agli Uffizi a Firenze, a meditare sul Cenacolo di Leonardo a Milano o l’Annunciata di Antonello a Palermo, ascoltare le Variazioni Golberg di Bach, un brano jazz di Tristano, l’ultimo spettacolo di Luca Ronconi. I numeri che Marco Zatterin analizza sono i pixel di un Paese depresso, distratto, indaffarato, frustrato, dove un’élite di rango o cultura continua a potersi permettere anche la «Cultura» ma la grande galassia di chi scivola nell’economia post industriale dal ceto medio al disagio taglia i consumi, nobili come La Scala, semplici come pizza e birra con gli amici. I nostri luoghi comuni, il Paese con i tanti (troppi?) siti dell’Unesco, la patria del diritto, il Bel Paese dove il Sì suona, gli elzeviri del solito parruccone, svaniscono davanti a un censimento impietoso, dove conservatori, cinema, gallerie d’arte, restano deserti e ciascuno di noi si isola, detestando perfino la tv. Ci sarà chi, e non a torto, rimprovererà la cultura italiana, specchio depresso di questa deprimente realtà, incapace di dare visione al resto della comunità, con romanzi insieme di eccellenza e popolari, come «I Promessi Sposi» o «Il barone rampante», film come il «Gattopardo» di Visconti, un cult che però ebbe record di incassi nel 1963-1964. Nei ricordi de «L’impronta dell’editore», Roberto Calasso ha ricordato con ironia come «Fuga senza fine» di Joseph Roth, aristocratico romanzo Adelphi della Mitteleuropa divenne nel 1977 lo struggente manifesto di una generazione ribelle: il corto circuito culturale, anima del jazz, produce simili scintille emotive. Oggi troppo appare spento in Italia. La crisi induce risparmio, contrazione, taglio, la paura sociale genera rancore, astio, invidia, oppure frustrazione, solitudine, alienazione. Eppure è giusto in momenti come questi che la cultura salva. Il neorealismo italiano, con il suo De Sica capace di essere eroe per il capolavoro di Rossellini «Il generale Della Rovere» (anche qui tensione cultura-cronaca, l’idea era di Indro Montanelli) come per il bonario «Pane, amore e fantasia» di Comencini, la Loren tragica della «Ciociara», premiata con l’Oscar, e la Loren comica dello spogliarello davanti a Mastroianni al ritmo languido di «Abat Jour», facevano meditare e rasserenare. In America, negli anni terribili della Depressione, Steinbeck racconta l’esodo dei braccianti, il regista Capra conforta con i suoi film, commedie morali. Facendoci riflettere o sorridere, mai annoiandoci però, la cultura è indispensabile negli anni bui. Troppi nostri romanzi, troppi nostri film, troppa nostra tv, riflettono invece opachi la società perduta, che si lamenta, si isola, non vuol combattere né sperare e diserta. Il populismo corrente addebita, a destra, centro e sinistra, questo vuoto alla «Kasta», un totem che ha finito, complice la nostra disastrosa classe politica degli ultimi 20 anni, per assolvere tutte le colpe parallele della leadership italiana, finanzieri e aziende, la Chiesa, la cultura e i media, la pubblica amministrazione, i sindacati. La mancanza di visione, la paura del futuro, lo sterile attaccarsi ai pochi, diffusi, privilegi, ci ha buttati nel pozzo in cui ci sentiamo infelici. Dall’oblò lontano vediamo poca luce e neppure un pezzetto di quella Luna meravigliosa che il piccolo minatore Ciaula di Pirandello, riesce a scorgere una notte uscendo dalla tomba di fatica dove vive. L’Italia – ci dicono i centri studi - non cresce da 25 anni, una generazione. Qualcuno scrolla le spalle, invocando il miraggio della «decrescita felice», ossimoro grottesco. È questo deserto culturale, invece, il panorama maligno della decrescita. Non meno tempo sprecato al centro commerciale a comprare roba inutile trasformato in prezioso seminario a Ivrea, su Signorina Felicita e Gozzano. No, niente shopping, niente Gozzano, restare seduti da soli in tinello sul sofà con la tv o il computer che girano a vuoto e neppure guardiamo, aspettando in silenzio i guai di domani. Twitter @riotta Da - http://www.lastampa.it/2013/11/05/cultura/opinioni/editoriali/eppure-la-cultura-ci-pu-salvare-wQhIR6ef1gNyBIkZfRZimK/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Il teatro di ombre Inserito da: Admin - Novembre 05, 2013, 06:21:59 pm Editoriali
03/11/2013 Il teatro di ombre Gianni Riotta La vicenda dei dati raccolti dall’agenzia americana di intelligence National Security Agency e la reazione dei governi europei nasconde una delicata filigrana. L’immagine in superficie divide la pubblica opinione nella contesa politica, mentre i professionisti più accorti studiano, e si contendono, la filigrana occulta. Curioso paradosso per una crociata sulla trasparenza. Il presidente francese Hollande protesta con Obama sulle scorribande Nsa in Francia, ma solo con pacata sagacia. Hollande sa quel che Bernard Squarcini, ex capo dell’intelligence interna Dcri, dice con candore raro in un uomo dei servizi : «Se i nostri leader si stupiscono per le rivelazioni Nsa vuol dire che non hanno mai letto i rapporti che mandavo loro… tutti sanno che gli alleati cooperano sull’antiterrorismo, ma poi si spiano a vicenda, lo fanno gli americani e lo facciamo noi, dal mercato all’industria, nessuno è fesso». Con realismo il ministro del Commercio Nicole Bricq conferma: «Inutile piagnucolare… piuttosto la Francia migliori» la propria rete di raccolta dati. Distratti dal Teatro di Ombre su sicurezza e dati, non vediamo il vero scontro, indicato dalla Bricq, ed è qui che va invece puntata l’attenzione. Se il Ministero del Tesoro americano, con un attacco di rara violenza, castiga la Merkel e la politica dell’austerità che confinerebbe nella recessione l’Europa, se il presidente dei socialdemocratici tedeschi Sigmar Gabriel minaccia di bloccare il patto di libero scambio Usa-Ue in rappresaglia contro l’intelligence Nsa, è perché i governi, sulle due rive dell’Atlantico, sanno che lo spionaggio continuerà comunque e provano almeno a ricavarne vantaggi sui temi di politica economica in discussione. Mentre l’ex direttore del New York Times Keller e l’ex analista del Guardian Greenwald dibattono di vecchi o nuovi canoni del giornalismo, gli addetti ai lavori studiano la falla aperta dalla politica sfrenata Nsa. La società contemporanea, politica, finanza, economia, commercio, lotta alla criminalità, si basa su un livello accettabile e condiviso di sicurezza della rete. Se mandate una mail, comprate un biglietto del treno, seguite il vostro conto in banca o la carta di credito online, scommettete su un accettabile grado di privacy. Il codice Swift presiede - ad esempio - domestiche o faraoniche transazioni finanziarie. Ai massimi vertici dell’antiterrorismo, alla guida dei satelliti in orbita, nella protezione dei sistemi complessi, la crittografia che tutela la comunicazione online è preziosa e indispensabile: se accessibile ai Cavalli di Troia di hackers, terroristi, malviventi, spie, mette a rischio ogni passo quotidiano online. Purtroppo questa è - anche se pochissimi ne parlano - la più nefasta conseguenza della bulimia Big Data Nsa. Secondo gli esperti di crittografia Nadia Heninger e Alex Halderman, la Nsa avrebbe chiesto ai programmatori di lasciare «vie d’accesso» nei software di protezione della comunicazione, per permettere con facilità agli agenti Usa di controllarli e deporre «virus» capaci di registrare il traffico dei siti sotto indagine. Heninger e Halderman temono che annacquare gli algoritmi guardiani della privacy e della sicurezza online sia il vero pericolo: una volta aperta la strada per le spie Nsa, essa può essere ripercorsa da chiunque altro. E se il sistema perde di credibilità, cittadini, aziende e istituzioni lo useranno meno e con minore fiducia. Da una generazione, garante della sicurezza digitale è il Nist, National Institute of Standards and Technology, agenzia americana che sovrintende agli standard crittografici accettati poi da governi e aziende. I codici AES, le funzioni SHA-3, la crittografia delle «curve ellittiche» studiata da Koblitz e Miller, sono tra gli algoritmi cui il Nist ha concesso autorevolezza. Purtroppo, secondo la rivista «Foreign Affairs», la Nsa avrebbe chiesto al Nist di indebolire i sistemi di sicurezza approvati, così da permetterle più agevoli intrusioni. Scricchiola così l’intera tecnologia web. Ancor prima delle rivelazioni sulla Nsa dell’ex agente Snowden, i crittografi Dan Bernstein e Tanja Lange sospettavano che gli algoritmi di sicurezza, soprattutto quelli basati sulle «curve ellittiche», fossero stati allentati dal Nist. L’algoritmo «Dual EC DRBG» a curve ellittiche è sotto osservazione già dal 2006, come i sistemi di sicurezza a «numeri random». Secondo Snowden proprio «EC DRBG» è stato indebolito su richiesta Nsa. È l’architrave su cui il web futuro basa l’architettura, se Nist non chiarisce, con franchezza, fino a che punto lo ha crepato, il prezzo da pagare, in termini politici ed economici, sarà gravissimo. Se anche Obama riuscisse - e non sembra sia per ora il caso - a riguadagnare fiducia su Nsa e Nist, come osserva il saggista Misha Glenny, il monopolio del web, dalla nascita gestito in America, emigrerà «in un network confuso, dove le nazioni erigono barriere digitali e i governi alzano il controllo su quello che i cittadini possono, o non possono, fare online». Il web bloccato dai dazi digitali farà rimpiangere la convulsa prateria americana e il controllo online sarà l’esito bizzarro della campagna per la trasparenza. Stavolta però gli Stati Uniti potranno prendersela solo con se stessi. È stato lo Zio Sam a sfiduciare gli algoritmi Nist, complessi ed umili cardini della libertà digitale. Per questo Hollande, saggiamente, tiene i toni bassi: sa che il peggio deve ancora venire e spazzerà via chi oggi si atteggia a cicisbeo. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2013/11/03/cultura/opinioni/editoriali/il-teatro-di-ombre-jNo056OOm0q30OEs3b2i5O/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - E dei nuovi guai non sappiamo che cosa dire Inserito da: Admin - Novembre 25, 2013, 04:23:48 pm Editoriali
24/11/2013 E dei nuovi guai non sappiamo che cosa dire Gianni Riotta Siete preoccupati del futuro? Non siete soli, c’è ansia alla Casa Bianca e al Cremlino, negli uffici delle grandi multinazionali, nei tinelli del ceto medio e nelle favelas povere. Per capire cosa sta succedendo, in preparazione del World Economic Forum che ogni anno a Davos riunisce la classe dirigente mondiale, si sono raccolti ad Abu Dhabi i Global Agenda Council, gruppi di studio che analizzano il presente per intravedere gli sviluppi futuri. 1500 esperti, politici come Carl Bildt, Javier Solana, l’ex presidente messicano Zedillo, intellettuali come la rettrice di Harvard Drew Gilpin Faust o il teorico del «secolo asiatico» Kishore Mahbubani, hanno tracciato la mappa del XXI secolo. Al primo posto tra i 10 «top trend» «Tensioni sociali in Medio Oriente e Nord Africa», considerato il pericolo maggiore 2014. «È una battaglia di idee nel mondo arabo e nell’Islam» in cui speranza e tolleranza, violenza e intolleranza, una diversa lettura del ruolo della religione nella società e in politica si riverbereranno ogni sera nei telegiornali. Al secondo posto «La crescente disparità economica», non solo tra «Paesi ricchi e poveri» ma soprattutto nelle nazioni, tra chi ha accesso ai saperi del presente e chi non li possiede e non trova lavoro. «I nuovi poveri nascono nel ceto medio che perde status e benessere… negli Stati Uniti la crescente disuguaglianza è il problema centrale» perché la grande ricchezza che gli Usa producono non viene redistribuita ma finisce ad una minoranza di cittadini. È difficile per il ceto medio, negli Usa ma anche in Europa, mantenere i figli all’università, molti laureati che stentano a trovare lavoro si frustrano, convincendo i fratelli minori a non finire la scuola. Alla domanda «Nel vostro Paese l’economia favorisce i ricchi?» rispondono «Sì» 95% greci, 60% in Usa e Canada, 64% in Asia e un esplosivo 86% in Italia. Nasce qui la terza sfida 2014 «Disoccupazione strutturale», un’economia che non crea lavoro induce nei giovani sfiducia e rancore e alimenta i movimenti populisti (forti di un terzo nei sondaggi per il futuro Parlamento Europeo). I governi accusano «globalizzazione» e «tecnologia» per la scomparsa di posti di lavoro, ma non vedono, spiega S.D. Shibulal di Infosys, che «il lavoro non scompare, evolve» se la tecnologia elimina impiegati e cassieri, crea lavoro nel software e nella robotica ed è lì che serve investire. Nel saggio «La nuova economia del lavoro» (Mondadori) Enrico Moretti indica dove si può creare lavoro, senza perder tempo con i «piani industriali statali» cari alla vecchia sinistra: la Global Agenda 2014 del WEF gli dà ragione, ma chi ascolta in Italia? Al quarto posto, contraddicendo scettici come Morozov e Rid persuasi che si tratti di esagerazioni, la Global Agenda 2014 piazza «La minaccia cibernetica», guerra e hacking contro stati e aziende. Dall’Esercito Elettronico Siriano ai pirati che hanno messo in ginocchio Twitter e il New York Times, il professore di Harvard Jonathan Zittrain vede un pericolo crescente: in Germania l’azienda N.Runs ha scoperto che le comunicazioni tra le torri di controllo e gli aerei di linea non sono crittate, esposte quindi all’intrusione di ragazzacci e terroristi. I governi dovrebbero studiare - tra l’altro sono posti di lavoro! - non un impossibile muro impermeabile a ogni assalto, ma un sistema di «rimbalzo» per turare subito le falle quando si aprono. L’Italia ha qui un record negativo, produciamo da soli ben il 2% dell’attività pirata online. Emergenza numero 5 il cambio del clima, «stiamo facendo tanto, ma non abbastanza» ammonisce Christiana Figueres dell’Onu. Al sesto il tema che lacera ogni democrazia, ma che anche il leader cinese Xi Jinping teme: «Sfiducia nelle politiche economiche». I cittadini non credono più che, con il debito, senza spesa politica e investimenti, e con tasse già alte, i governi possano davvero governare l’economia. Nei sondaggi i giovani tra 18 e 29 anni sono i più pessimisti, persuasi che l’impotenza della politica inneschi per loro povertà. I «sì» alla domanda «La vostra economia va male?» sono una valanga: 99% Grecia, 65% Usa, 83% Gran Bretagna, 71 Giappone e 61 Cina. Per trovare ottimismo, e 90% di «no», dobbiamo andare in Cina. Numero 7: «La caduta dei valori nei leader», non abbiamo John Kennedy o Olaf Palme che ci diano fiducia, detestiamo i nostri governanti: il fascino di Papa Francesco deriva anche da questa amarezza. Il boom della classe media in Asia, oggi 500 milioni di persone, nel 2020 un miliardo e 750 milioni, occupa il posto n. 8. «Non ci sono nella storia - scrive l’economista Mahbubani - precedenti di una simile creazione di ricchezza» con conseguenze positive, il mercato che si apre e una generazione che lascia la fame per il lavoro, e preoccupanti consumi di energia e inquinamento. Punto 9 è «L’era delle megalopoli»: nel 2025 Tokyo con 39 milioni di abitanti, e New Delhi con 33, avranno insieme più abitanti dell’Italia. Pechino e Shangai saranno a 23 e 28 milioni, New York 24, San Paolo 23, Città del Messico 20 e Mumbai 27. La stragrande maggioranza degli umani vivrà in città che, come ha osservato il demografo Jeoffrey West studiandone i Big Data, funzioneranno allo stesso modo della diffusione dell’Aids, il numero delle strade, delle pompe di benzina, la criminalità «Le città hanno un Dna comune, sono reti complesse di persone, che alla fine funzionano in modo simile». Il decimo e ultimo top trend, sorprende: «La diffusione delle false informazioni online». Dalla politica, agli attentati come la maratona di Boston o i disordini a Londra, fino ai disastri naturali come l’uragano Sandy a New York, i social media lanciano false notizie che a volte i media tradizionali raccolgono per superficialità, altre volte tentano invano di correggere. Come garantire un flusso di notizie non taroccate, in buona o cattiva fede, si chiede la studiosa Farida Vis? Questi sono i dieci temi di cui i leader discuteranno a Davos, questi sono i nodi su cui i migliori cervelli si stanno lambiccando. Altri interrogativi ci sorprenderanno, nuove emergenze ci metteranno allerta, ma questi sono i compiti a casa del Pianeta Terra 2014. Vi pare che in Italia politici, imprenditori, intellettuali, media, cittadini se ne stiano occupando a sufficienza? A me pare di no, temo pagando presto un nuovo prezzo per il nostro narcisistico, indolente, compiaciuto, ingenuo ritardo. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2013/11/24/cultura/opinioni/editoriali/e-dei-nuovi-guai-non-sappiamo-che-cosa-dire-NndmdouxYEVlhHXJfkORHO/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Cina-Giappone. sfida nel pacifico Inserito da: Admin - Novembre 29, 2013, 07:09:45 pm Esteri
28/11/2013 - Cina-Giappone. sfida nel pacifico Sugli scogli di Senkaku si gioca la partita imperiale di Pechino Una protesta anti-cinese a Tokyo per dire no al controllo aereo sulle isole contese Il gigante comunista rispolvera le mappe dell’800: in ballo un tesoro minerario e strategico Gianni Riotta È una storia del ventunesimo secolo che comincia nel diciannovesimo secolo, storia di Imperi caduti e rinati, potenze che non vogliono decadere, amici e nemici che cambiano fronte ad ogni generazione. La disputa sulle isole Senkaku, così le chiamano i giapponesi, o Diaoyu, secondo i cinesi, ha conosciuto un nuovo capitolo nei giorni scorsi, quando la Cina ha annunciato che avrebbe imposto alle compagnie aeree di comunicare i piani di volo sulla zona del Mar Cinese Meridionale, in gergo Adiz, che reclama come propria. Le linee aeree hanno subito detto di sì, i rapporti militari tra Tokyo e Pechino, malgrado qualche recente miglioramento, non sono sincronizzati e il rischio di un incidente, un radar mal calibrato, la pressione di un militare falco, terrorizza l’aviazione civile. Ma il premier Shinzo Abe ha fatto subito fare retromarcia ai manager, nessuna comunicazione di rotte alle autorità cinesi, sarebbe un abdicare ai diritti sugli isolotti, disabitati e brulli. Gli americani hanno dapprima protestato con i ministri della Difesa Hagel e degli Esteri Kerry, poi mandato i bombardieri B52, simbolo di quel che resta dell’impero Usa, a volare sulle isole, a contestare la sovranità cinese. La reazione di Pechino è stata curiosa, non violenta nei toni, come sorpresa che giapponesi e americani rispondano alzando i toni, non abbassandoli. Alla vigilia della festa del Ringraziamento, l’opinione pubblica americana è distratta sulle remote isole Senkaku-Diaoyu e l’Europa ignora la frizione. Un errore, perché quegli scogli possono diventare la Crisi di Cuba del nuovo secolo, come l’impasse che vide affrontarsi 51 anni fa Kennedy e Kruscev. Il Giappone fa risalire i propri diritti al 1894, tempi della guerra Sino-Giapponese, ma Pechino replica che già il governo nazionalista Kuomintang aveva disegnato una mappa delle aree di influenza «delle 11 linee» che comprendeva le isole disputate. La Cina comunista rivendica dal 1953 un’area semplificata a «9 linee» che include le isole Pratas, Stratly, Paracel, il Macclesfield Bank come riconquistati dopo la Seconda Guerra Mondiale. Molti passaporti di cittadini cinesi sono decorati con l’elegante filigrana della mappa «a 9 linee». Ma la Storia è più ruvida di una filigrana e gli americani e i giapponesi hanno differenti narrative. Quando il Giappone perde la guerra, gli Usa assumono il controllo del Paese, incluso l’arcipelago delle isole Ryukyu che - secondo l’interpretazione di Washington e Tokyo - comprende le disputate Senkaku-Diaoyu. Pechino, da ancor prima della vittoria di Mao, non si dice d’accordo. L’8 settembre 1951 tutto dovrebbe andare a posto con la firma del Trattato di San Francisco, Usa, Giappone e 47 Paesi che chiudono la tragedia della guerra mondiale. Tokyo rinuncia a ogni rivendicazione sui territori di Corea, Taiwan (Formosa a quei tempi), Pescadores e Spratly. Quella carta diplomatica reca le tracce della tensione di oggi. Le Senkaku-Diaoyu non sono menzionate, perché, secondo Washington e Tokyo, fanno parte della «Prefettura di Okinawa» e, quando nel 1971 gli Usa restituiscono Okinawa ai giapponesi il patto è chiuso. In realtà né Taiwan né la Cina lo accettano, e l’alleanza militare nippo-americana del 1960 e la scoperta del petrolio nella zona, 1969, piantano a fondo i semi del veleno. Le isole sono al centro delle rotte commerciali e militari verso il Mar Cinese Meridionale, ricche di banchi di pesca e con il petrolio ormai accertato. I sommergibili le usano come boa e il traffico di superficie è formidabile, 4000 miliardi di merci in euro incrociano dal Mar Cinese Meridionale in un anno, il 23% import-export americano, con 11 miliardi di barili di greggio, 1900 miliardi di piedi cubici in gas naturale. Entro 20 anni il 90% del petrolio medio orientale passerà da quelle acque. Pechino, Washington e Tokyo e gli altri Paesi che seguono la disputa, Filippine, Malesia, Vietnam, Australia, non hanno come posta isole senza case, che il Giappone ha in parte riacquistate da un proprietario, temendo finissero proprietà di estremisti nazionalisti. Sanno che controllare quel mare, l’autostrada dello sviluppo dell’Asia in un secolo che intellettuali come Kishore Mahbubani a Singapore predicono «Secolo asiatico» significa controllare il Pacifico, il mondo, la pace e la guerra. La Cina ha varato una flotta d’alto mare, la prima dall’Impero, ristrutturando una portaerei ucraina che in queste ore, sotto le pretese di una «spedizione scientifica», naviga con quattro navi da guerra verso le Senkaku-Diaoyu. Vuol controllare lo stretto di Hormuz e l’imbocco dell’Oceano Indiano. Il presidente Xi Jinping ha avviato, cautissime, riforme economiche e demografiche interne, ma sa che davanti alle forze armate non può rinunciare ad accrescere l’egemonia cinese. La pressione del Drago getta quindi in braccio all’Aquila Usa amici e nemici di ieri, Giappone, Malesia, Filippine, Australia, Vietnam. Obama in Asia, continente al centro della sua strategia, non può sbagliare. Servirebbe che nessuno facesse mosse precipitose, che Pechino chiedesse un arbitrato internazionale sulle isole e che Tokyo si dicesse disposta ad accettarne il verdetto. La scommessa è purtroppo un’altra: chi comanderà nel XXI secolo come la Gran Bretagna comandava nel XIX e l’America (e solo in parte l’Urss) nel XX? India e Pakistan, ma anche Indonesia, Malesia, Russia, stanno a guardare con interesse come la Cina se la cava. Pechino non è mai la prima ad alzare i toni, butta il sasso e aspetta di vedere come reagiscono i rivali. Se resistono fa marcia indietro, se cedono, avanza. Le pittoresche Senkaku-Diaoyu sono un pericolo per i traffici che dominano, perché Pechino non può rinunciarvi e perché dopo il «flip flop» sulla Siria Obama non può sbagliare. In Giappone Shinzo Abe ritiene che la Seconda Guerra Mondiale sia ormai chiusa e che il suo Paese debba potersi difendere dallo storico avversario continentale. Occhio a una possibile guerra dei nostri tempi, eredità di tempi remotissimi, imperi e faide che non finiscono mai. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2013/11/28/esteri/sugli-scogli-di-senkaku-si-gioca-la-partita-imperiale-di-pechino-E7moeP9dYeTnlArllaRPFP/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Mandela, la magia che il tempo non potrà scalfire Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2013, 06:10:18 pm Editoriali
07/12/2013 Mandela, la magia che il tempo non potrà scalfire Gianni Riotta Il Dalai Lama dice di aver perso «un amico». Per Papa Francesco Nelson Mandela era maestro di «dignità, non violenza, riconciliazione». Per il leader Usa Barack Obama, commosso, «l’esempio di tutta la mia vita». Il presidente Giorgio Napolitano assicura: «I suoi ideali sopravviveranno», attento a spostare l’attenzione dall’uomo all’opera. L’ex premier Silvio Berlusconi considera il premio Nobel «eroe della libertà», con sottile polemica «tanti che ne tessono le lodi hanno da imparare da lui». Per Raul Castro, se ne va «un caro compagno» di Cuba. Il leader russo Putin e il premio Nobel Gorbaciov, la cancelliera tedesca Merkel, la Regina Elisabetta II, il presidente francese Hollande, gli ex rivali per la Casa Bianca Bush padre e Clinton, Bill Gates di Microsoft, il padrone del calcio Blatter, le cantanti Beyoncè, Rihanna e Lady Gaga, tutti rivolgono le stesse parole di rispetto, omaggio e venerazione al profeta della libertà d’Africa. Nessun leader politico del Novecento ha raccolto un simile consenso. Alla morte del grandissimo presidente americano F.D. Roosevelt fa in tempo a gioire Hitler. De Gaulle e Churchill soffrono nei necrologi le divisioni di Guerra Fredda e post colonialismo. Anche il padre della non violenza Gandhi suscita odio tra i musulmani, la sua idea di castità è giudicata «sbagliata e rischiosa» dal successore Jawaharlal Nehru, mentre il primo ministro dello Stato indiano pre indipendenza Travancore è rude «Gandhi è un pericoloso maniaco sessuale». Malgrado i non pochi guai familiari, chi oserebbe scrivere frasi del genere su Mandela? Nessuno. Gli elogi toccano il diapason del grottesco quando il dittatore siriano Bashar al Assad, che ha massacrato decine di migliaia di connazionali, disperdendone milioni come profughi, fa scrivere sulla sua pagina Facebook «la storia della lotta di Mandela è ispirazione per tutti i paesi vulnerabili al mondo, nell’attesa che oppressori ed aggressori imparino la lezione: alla fine saranno loro a perdere». La «contraddizione Mandela» è brusca in Cina. I leader di Pechino paragonano Mandela al fondatore della Cina popolare Mao Ze Dong, il presidente Xi Jinping detta all’agenzia Xinhua un dispaccio tradizionale «Profondo dolore… il popolo cinese ricorderà per sempre lo straordinario contributo alle relazioni bilaterali e alla causa del progresso umano». I commenti ufficiali, commossi, segnalano che Mandela amava leggere il reportage filo-maoista del giornalista Snow «Stella rossa sulla Cina» e «L’arte della Guerra» dell’antico stratega Sun Tzu. Ma ai tempi dell’Urss, quando il Cremlino piangeva un alleato scomparso, nell’immenso Arcipelago Gulag dei campi di concentramento, si festeggiava in silenzio annota il Nobel Solgenitsin Invece, secondo il blog Sinosphere degli analisti Austin Ramzy e Mia Li, anche i dissidenti cinesi commemorano Mandela addolorati. Lo scrittore antiregime Liu Xiaobo ricevendo il Premio Nobel nel 2010 è paragonato per il suo coraggio morale proprio all’ex presidente sudafricano. Gao Xiaoliang, con addosso sentenze di due e poi nove anni per la campagna democratica del 1989 a Pechino, racconta di essersi ispirato a Mandela per tenere duro in galera: «Se Mandela non s’è arreso dopo 27 anni dietro le spalle, posso io cedere dopo soli 9?». L’attivista Hu Jia apprende in carcere che Mandela è diventato presidente e gioisce, né lo condanna quando poi, al potere, stringe patti diplomatici ed economici con Pechino: «È giusto, deve pensare al progresso del suo paese». Tocca – conclude Sinosphere - allo scrittore He Baoguo irridere il doppio standard del governo cinese: «Se Mandela fosse nato in Cina, l’avrebbero torturato in cella, costretto a confessione forzate, umiliato alla tv pubblica: poi nessuno avrebbe più sentito parlare di lui» scrive sul social network Sina Weibo. Basta dunque raschiare il consenso e la commozione di superficie per vedere che Nelson Mandela, da morto come da vivo, unisce chi si batte per la libertà e costringe alle corde dell’ipocrisia chi di diritti parla, negandoli poi ai suoi cittadini. Chi oggi riguardi le prime pagine dei giornali nel 1976, alla morte di Mao Ze Dong, resta stupefatto per la glorificazione di un leader che riunisce sì il Paese, ma a costo di milioni di morti e dittatura inflessibile. Pochi ne fecero allora traccia, parlando «dell’ultimo dei Grandi», ora la Storia è con Mao severa. Ieri invece con i leader piangeva la gente semplice, «l’unico gigante del nostro tempo» diceva a Roma un barista. Ha ragione, gli studiosi registreranno nuove memorie, documenti, interpretazioni, ma la grazia, la riconciliazione, la compassione, la sete di giustizia Nelson Mandela, come dice il presidente Napolitano, resteranno immuni da revisionismi. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2013/12/07/cultura/opinioni/editoriali/mandela-la-magia-che-il-tempo-non-potr-scalfire-pnkaz1lw90Cke2Iij2i6nN/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Ora attenti a non favorire le lobby Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2013, 10:58:59 pm Editoriali
14/12/2013 Ora attenti a non favorire le lobby Gianni Riotta Prima l’elezione di Matteo Renzi a segretario del Partito Democratico in primarie valanga. Poi il premier Enrico Letta che, dal suo account twitter @enricoletta, usa il più popolare social media dell’informazione per annunciare «Avevo promesso ad aprile abolizione finanziamento pubblico partiti entro l’anno. L’ho confermato mercoledì. Ora in cdm manteniamo la promessa». La politica italiana si rimette in cammino, come se avesse finalmente sentito gli umori pessimi che arrivano dalla piazza, con picchetti, manifestazioni, scontri, e dalla rete dove crisi economica e frustrazione politica distillano veleni populisti, rancore, risentimento. Già l’11 giugno del 1978, un’era della geologia politica or sono, in piena emozione per l’assassinio di Aldo Moro, gli italiani avevano chiesto con un fortissimo 43,6% dei voti l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. I partiti che rappresentavano il 97% degli elettori avevano dimezzato i consensi e la pattuglia dei radicali guidati da Pannella, Bonino e Adelaide Aglietta coglieva benissimo l’animo italiano. I più giovani non ricorderanno forse neppure più che il finanziamento pubblico nacque come norma etica, di trasparenza, per rendere sana la vita politica. Nel dopoguerra i partiti maggiori, Democrazia Cristiana e Partito Comunista, furono a lungo finanziati dai referenti della Guerra Fredda, Washington e Mosca. Poi i leader di maggioranza ricorrono ai fondi neri e le prime pagine titolano sugli scandali «Trabucchi», 1965, e «Petroli», 1973. Riviste come L’Espresso e Panorama a sinistra, Il Borghese a destra, conquistano spazio denunciando mazzette e tangenti ai partiti. Si pensa quindi che bilanci chiari e fondi in proporzione ai voti liberino la politica dalla corruzione, ma già nel 1978, correttamente, la metà degli italiani dubita. L’inchiesta Mani Pulite, la fine dei partiti storici, l’avvento di Silvio Berlusconi modificano il Paese, ma i soldi ai partiti rimangono. Finché il boom di Beppe Grillo e dei suoi 5 Stelle, le continue, grottesche, rivelazioni su malversazioni, spese mal gestite, ruberie spicce e perfino rimborsi regionali usati come rubare la marmellata della nonna nelle favolette di un tempo, non fanno capire che è ora di finirla. Va dato atto al M5S che la sua irruenza, che spesso non ci piace, ha però forzato gli altri partiti ad accelerare sul tema. L’opinione pubblica italiana, disgustata da 35 anni, approverà la scelta del governo. Renzi non mancherà di segnalare la coincidenza con la sua leadership, Grillo alza i toni chiedendo al Pd di restituire 45 milioni incassati, gli uomini del vicepremier Alfano approvano, Forza Italia protesta, ma a mezza voce, si parla di un 2x1000 fiscale come contributo volontario. Era difficile fare altrimenti in questo clima, molti italiani sono persuasi che la corruzione sia «la causa» della crisi economica, e taglio alla spesa può forse soddisfare i moderati, mentre «duri e puri» chiederanno di più. Dunque scelta ragionevole di Enrico Letta che, in qualche misura, può contribuire, se non a rasserenare il Paese, almeno a non incattivirlo ancor di più. Detto questo, con responsabile serenità, si deve però ricordare che la smodata fame di fondi dei nostri politici ha distrutto il patto tra elettori ed eletti che governa tantissime democrazie. Non dare un centesimo alle campagne non renderà il nostro dibattito più franco e leale ma rischia, in un futuro non lontano, di avvantaggiare cittadini influenti e lobby miliardarie. Non dimentichiamo che all’alba della nostra nazione si andava in Parlamento per onore, senza ricevere uno stipendio, finché le nuove classi, i braccianti, gli operai, gli artigiani, non imposero che i loro rappresentanti, popolari o socialisti, potessero essere eletti ricevendo un salario. Quando in America la Corte Suprema ha cancellato i limiti ai contributi che singole aziende o lobby potevano offrire alle campagne elettorali, non si è avuta più trasparenza, ma più pressione dei dollari sui voti. Gruppi come la lobby delle armi, Nra, o la famiglia Koch, investono sui candidati vicini alle loro posizioni, ma anche contro i politici a loro avversi e spesso determinano i risultati a tavolino. I Koch hanno speso fino a 200 milioni di dollari (150 milioni di euro) in propaganda elettorale: dovrete faticare in crowdfunding online a 5 dollari a testa per contrastarli. Insomma, senza finanziamento pubblico i ricchi hanno meno ostacoli dei candidati privi di portafogli di coccodrillo. Ragion per cui forme di rimborso sulle spese elettorali e sostegno alla spesa politica sono diffuse nei Paesi principali. I cittadini, stufi, obietteranno che dal 1978 a oggi hanno, di tasca propria, coperto questo importante principio e sono stati i politici ad averlo tradito. Che solo il No radicale ai finanziamenti possa essere vissuto come ripartenza etica dice molto della triste palude di corruzione, sfiducia, cinismo e amarezza in cui siamo precipitati. Voglia il cielo che questo taglio e il cambio di generazione al vertice, che oggi coinvolge sinistra e centro ma presto toccherà anche la destra, siano accettati dagli elettori come inizio di una nuova stagione e un nuovo patto tra politica e Paese, senza troppi scontri populisti. Speriamo non sia troppo poco e troppo tardi, e speriamo che nel vuoto scettico e nichilista non avanzino Paperoni furbi e Masanielli spregiudicati. Speriamo sia il primo, di tanti passi umili e sinceri, per un Paese migliore, in Parlamento e tra i cittadini. Perché in una democrazia si torni a essere, davvero, tutti uguali. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2013/12/14/cultura/opinioni/editoriali/ora-attenti-a-non-favorire-le-lobby-sJbJKsyMEs3OrgyBUAAdgO/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Tassa web, strapaese contro innovazione Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 06:35:08 pm Editoriali
17/12/2013 Tassa web, strapaese contro innovazione Gianni Riotta Matteo Renzi ha, di slancio, presentato la propria leadership di segretario del Pd come campione dell’innovazione, politico nuovo, capace infine di trascinare la sinistra e il paese nell’era digitale e postindustriale. Era digitale e postindustriale dove produzione, cultura, vita non sono più «mass», come nel Novecento, ma «personal», individuali e originali. Stupisce quindi che il suo messaggio sia, in queste ore, contraddetto dalla battaglia che vari esponenti Pd, Boccia, Covello, Fanucci tra gli altri, ingaggiano in Parlamento a favore di una «tassa web», «tassa Google«, che nega in radice l’impegno di innovazione di Renzi. Vediamo perché. Nelle intenzioni dei promotori, in testa il presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia, la tassa web ha nobili intenzioni, da Robin Hood che vuole bloccare gli ignobili sceriffi della Web Foresta di Nottingham, Google, Facebook, Twitter, Amazon. Secondo Boccia si tratta «Soltanto di una misura di equità fiscale: se l’azienda di Brescia o di Catania deve pagare un’imposta per ciò che ha guadagnato in Italia, altrettanto devono fare le multinazionali del web che guadagnano nel nostro Paese e che oggi, incredibilmente, pagano le tasse in Paesi che hanno un’aliquota più conveniente. Si tratta dei principi basilari dell’equità fiscale, sociale e produttiva» e l’esponente Pd è talmente persuaso della sua tesi, che in varie dichiarazioni cita oltre a Brescia e Catania anche Busto Arsizio e Matera. Come dissentire? Perché mai il gigantesco motore di ricerche da cui passa oltre il 95% delle nostre domande sul web dovrebbe non pagare tasse, mentre a Brescia, Catania, Busto Arsizio e Matera si cede ad odiosi balzelli? Purtroppo, come dimostra Tim Worstall sulla rivista Forbes, la tassa sarebbe illegale, e così la definiscono in America «Italy passes the illegal Google tax». Non vogliamo tediare il lettore con i dettagli fiscali, che già Raffaele Rizzardi, il massimo esperto italiano in materia di Iva, e componente del Comitato fiscale europeo, ha dettagliato con acribia. Basti qui dire che schiaffare l’Iva «italiana» sui prodotti venduti online, e, peggio, costringere virtualmente produttori, grandi e piccoli, ad aprire una partita Iva italiana per fare e-commerce nel nostro paese viola le norme europee. Mai la «tassa web» italiana passerà il vaglio di Bruxelles. Come, dove e perché si paga l’Iva in Europa, online e offline, è dettagliato con chiarezza dall’Unione, e per di più l’Italia è vincolata da trattati contro la doppia imposizione fiscale con altri paesi. Rimandiamo dunque volentieri Boccia e i suoi colleghi ai documenti di Rizzardi e Worstall, o, ove li ritenessero fonti di parte, al loro autorevole collega parlamentare G. P. Galli, che ha già segnalato come la tassa non funzioni. Imporla è impossibile, l’Ue la rimanderà al mittente, e nel breve periodo in cui il fisco italiano avrebbe la chance di mungere oltre a Busto Arsizio e Matera anche Google e Amazon, i proventi sarebbero grami. Il professor Carlo Alberto Carnevale Maffè della Bocconi li riduce a una scodella di lenticchie, tra 15 e 20 milioni di euro l’anno. Ma questa scodella di lenticchie, come nel caso di Esaù, costerà all’Italia il sogno di primogenitura digitale nel futuro. È questa la posta in gioco: non i soldi delle tasse, non l’infantile orgoglio di umiliare i giganti del web forzandoli ai nostri dazi, non una ripicca interna alla sinistra tra tradizionalisti e innovatori. Fare dell’Italia un mercato in cui il digitale, l’innovazione è mal vista, male accolta. Da settimana si rumina di «web tax», nel frattempo gli uffici di Milano di Google sono stati attaccati da dimostranti contro la raccolta dei metadati Nsa della Casa Bianca di Obama (Google ha già chiesto all’amministrazione, con altre aziende, di cambiare la legge sulla sorveglianza, detestata dalle corporations) e infine Apple è al centro di un’indagine dalle nostre autorità fiscale. Renzi sa che, come scrive il professor Enrico Moretti nel saggio «La nuova geografia del lavoro», il web crea, non distrugge lavoro. Gli uomini di Confindustria digitale, diretti da Stefano Parisi, o la McKinsey, calcolano quanto, ogni euro di investimento in innovazione, ricerca, scuola e tecnologia generi occupazione, diretta e indiretta. Perfino Beppe Grillo, celebrato su YouTube per la spassosa gag in cui distrugge computer sul palcoscenico, s’è reso conto della gaffe dei suoi parlamentari 5 Stelle che appoggiano la «tassa web» e li smentisce bocciandola. Con un gioco di parole sul nome del promotore, su twitter gira l’hashtag, la parola chiave, «#Boccialawebtax». E chi si illudesse di ricavare dalla pressione su Google vantaggi sui contenuti giornalistici, sbaglia. Noi non siamo fan dell’accordo che Google ha stipulato con gli editori francesi, ma per quell’accordo s’è mosso il presidente Hollande in persona. Se i giornali italiani ne vogliono uno analogo, o speriamo migliore, deve muoversi il governo, non bastano gli editori. Vedremo se Renzi, che ha di fronte due gruppi parlamentari in cui i suoi uomini e donne sono in minoranza, terrà duro contro il balzano balzello o se cederà ai luddisti fiscali Pd. La partita dirà parecchio di come intende muoversi nel partito. Per tutti noi dire di no alla «tassa web» vuol dire schierarsi contro i dazi al futuro: davvero li vogliamo? È ovvio che i giganti digitali devono pagare le tasse come tutti. La sede per imporglielo è l’Europa, non una furbata nostrana. Anche in America un regime fiscale per il web è tema cruciale, ma anche lì la risposta è federale, globale, non casareccia. Tocca a noi decidere se vogliamo un’Italia del XXI secolo, o una Italietta da Strapaese. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2013/12/17/cultura/opinioni/editoriali/tassa-web-strapaese-contro-innovazione-XKdyF5EcR9o5MAi89x7UFK/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - La stagione delle contraddizioni Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2013, 12:42:52 pm Editoriali
31/12/2013 La stagione delle contraddizioni Gianni Riotta L’anno che si aprirà stanotte, il 2014, sarà l’Anno della Contraddizione. Lo sviluppo dell’Asia è da celebrare con i brindisi, negli ultimi dieci anni - secondo la Fao - i poveri sono scesi del 30% grazie al boom di India e Cina, passando dai 739 milioni di disperati di dieci anni fa ai 563 di oggi. Anche in Africa il benessere si diffonde e i poveri, che vivono come meno di 90 centesimi al giorno, scendono dalla maggioranza, dal 58% al 48%. Stavolta però niente brindisi, perché - ecco il mondo contraddittorio in cui viviamo - l’aumento della popolazione fa sì che, diminuendo in termini percentuali, gli affamati crescano in termini assoluti, da 175 milioni a 239 milioni. Ci lamentiamo moltissimo - e certo non senza ragioni - della classe politica, la consideriamo troppo ricca, lontana dalla gente comune. Ma se cercate il Paese che davvero ha una «Casta» d’oro, prima di arrivare a Roma o a Washington o alle altre capitali del mondo sviluppato, andate a Pechino, ultima trincea del comunismo. I 50 parlamentari più ricchi d’America mettono insieme un patrimonio di un miliardo e 200 milioni di euro, deposito di monete degno di Paperon de’ Paperoni ma casupola da poveracci se paragonata al salvadanaio dei 50 delegati più ricchi del Congresso Nazionale del Popolo, Parlamento cinese. I primi 50 rappresentanti del popolo comunista, infatti, mettono insieme un patrimonio di 73 miliardi di euro. Il politico più ricco d’America, il californiano Darrell Issa, «vale» 275 milioni di euro, da noi Berlusconi ne denuncia 35 l’anno, ma il magnate cinese Zong Qinhou, «delegato popolare» «vale» 14 miliardi e mezzo di euro grazie all’impero delle bevande Hangzhou Wahaha. In una conferenza del 1992 il professor Samuel Huntington lanciò la tesi dello «scontro di civiltà», «Noi» sviluppati contro «Loro» terzo mondo, soprattutto islamico, poi diventata celeberrimo best seller e popolarizzata da Oriana Fallaci nel pamphlet «La rabbia e l’orgoglio» dopo l’11 settembre 2001. Invece «lo scontro di civiltà» divide la comunità islamica, sunniti contro sciiti, moderati contro estremisti, islamisti contro militari e democratici, fondamentalisti salafiti contro secolari in blue jeans. Dalla primavera araba, alla guerra civile in Siria, all’Egitto dove i militari hanno rovesciato il governo dei Fratelli Musulmani di Morsi, gli islamici combattono tra loro, a sangue. Come aveva indicato la rivista «Oasi», promossa dall’allora Patriarca di Venezia Angelo Scola, oggi cardinale di Milano, non esiste «un Islam» monolitico, ma molti «Islam», dalla religione, alla cultura, alla tradizione, un «Islam globale» come scrive lo studioso Fouad Allam. Saluteremo nel 2014 la più grande elezione democratica al mondo, in India, 800 milioni di elettori, solo i debuttanti saranno in 150 milioni. L’India, che lascia la povertà per il software di Bangalore, vive la contraddizione ogni giorno, laureando più ingegneri di America e Europa, ma con l’80% delle abitazioni rurali dove ancora si cucina sul fuoco alimentato da sterco di animali. Così l’India interpreta la stagione da nuova potenza facendo la voce grossa, ormai dal 15 febbraio 2012, con l’Italia sul caso dei due sottufficiali di Marina imputati, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, ma poi reagisce animosamente se gli Stati Uniti accusano una diplomatica indiana di falso in atto pubblico. Per riaffermarsi Paese autonomo l’India impone il proprio diritto con mano di ferro contro l’Italia, ma quando gli Usa la ripagano della stessa moneta, la stampa locale parla di colonialismo. Vecchi rancori nel nuovo mondo delle contraddizioni. Nel 2014 più lavoratori e professionisti perderanno il posto di lavoro, sostituiti da un robot. Secondo l’International Federation of Robotics i «computer di servizio» aumenteranno del 30% in pochi anni, capaci - come scrive Tom Standage caporedattore web dell’Economist - di eseguire sofisticate mansioni: il robot Baxter è in grado di accelerare e rallentare i ritmi alla catena di montaggio, senza le comiche contorsioni di Charlot nel capolavoro «Tempi moderni». Il Michigan permetterà nel 2014 il transito in strada di auto guidate da robot «a patto che un essere umano sia a bordo», Google rastrella start up di robotica sul mercato persuasa che saranno il prossimo boom. Nel 2014 ricorderemo nonni e bisnonni vittime della grande carneficina detta Prima Guerra Mondiale. Gli storici stentano ancora a capire «perché» sia scoppiata. Nel suo curioso saggio «1913. L’anno prima della tempesta», Florian Illies ricorda come Lenin si lamentasse che né lo Zar, né il Kaiser, volessero «fargli il regalo» di una guerra che avvicinasse la rivoluzione in Russia. Lenin sbagliava, ebbe «il regalo» di guerra e rivoluzione e le contraddizioni della guerra 1914-1918 sono ancora tra di noi, dal Medio Oriente, con la fine dell’Impero Ottomano, ai Balcani, alle frizioni Russia-Ucraina. Vladimir Putin è maestro pattinatore, da medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sochi, delle contraddizioni, uomo di guerra con Assad, passa per pacifista dopo lo stop al blitz di Obama. E il Presidente americano vede il suo Paese crescere del 4%, recuperare dalla crisi finanziaria 2008, ma non sa come tornare leader del pianeta. A Papa Francesco tocca la contraddizione di essere lodato da tutti, perfino da chi non ha mai messo un piede in chiesa e detesta i valori cattolici. L’America di Internet, regno della trasparenza, è accusata di raccogliere dati in segreto con la Nsa, i paladini della nuova verità, Snowden e Greenwald, rifiutano la trasparenza e non dichiarano quanti documenti e dossier ancora abbiano in mano. L’Europa orgogliosa della propria Unione celebra elezioni in cui voterà il 20% in meno dell’esordio nel 1979 e un elettore su tre sceglierà candidati ostili all’euro. Nessun Paese infine vivrà di contraddizioni come l’Italia, 9000 miliardi di ricchezza privata, 2000 miliardi di debito pubblico, seconda manifattura d’Europa con disoccupazione in crescita, unico Paese sviluppato che dal 2000 perde competitività, benessere, lavoro. Curvi a discutere di legge elettorale, politica, Casta, populismo, Destra-Sinistra, dimentichiamo che solo competere a testa alta nel mondo globale ci salverà. Prima di rinunciare al brindisi, cari lettori, non dimenticate però: il bello delle contraddizioni è che sanno sorprenderci. «Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico, sono vasto, contengo moltitudini» scriveva il poeta Walt Whitman. Anche noi italiani, ciascuno di noi, «contiene moltitudini» e talvolta - come dicono i nostri ragazzi - «facciamo casino». Speriamo di tirar fuori da queste «moltitudini» invece, magari per italico «spirito di contraddizione», il meglio. Auguri 2014. Twitter @riotta DA - http://lastampa.it/2013/12/31/cultura/opinioni/editoriali/la-stagione-delle-contraddizioni-dTEucVQkj8dl94uM6SXefJ/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - L’Italia, i diritti e una destra troppo antica Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2014, 04:37:31 pm Editoriali
04/01/2014 L’Italia, i diritti e una destra troppo antica Gianni Riotta Il leader della diaspora berlusconiana, Angelino Alfano, ha il difficile compito di dare ai propri parlamentari identità e cultura politica nella stagione che ci separa dalle elezioni. Impresa che si è rivelata dura per un veterano come Pierferdinando Casini e, al centro, impossibile per il senatore a vita Mario Monti. Sbaglia però Alfano a pensare – o ad ascoltare chi in tal senso lo indirizza - che schierando il suo movimento su posizioni «dure», demagogiche, «di destra», guadagnerà voti, consensi, attenzione. Al contrario, perderà stime, considerazione, spazio. Chi vuol menare gli immigranti, sbattere tutti in galera, usare la famiglia non come nido ma come spaventapasseri, ha già i suoi riferimenti a destra, e spesso tra i 5 Stelle. Sperare che il no del Nuovo centro destra alle unioni civili tra omosessuali, proposte dal Partito democratico del neo segretario Matteo Renzi, ringalluzzisca la base cui guardano Alfano, Lupi, Mauro, è illusorio. L’Italia si è rivelata dai tempi dei referendum sul divorzio e l’aborto, mezzo secolo or sono, allergica alla politica dei valori, confermando che l’antico buon senso di casa nostra sa evitare le polemiche che a lungo hanno diviso l’America, per esempio, sull’interruzione di gravidanza. Due grandi regioni meridionali, la Sicilia e la Puglia, hanno eletto, con notevole presenza di voti cattolici e tradizionali, presidenti omosessuali, Crocetta e Vendola. La destra occidentale ha ormai accettato, dalla Francia alla Gran Bretagna, culture di tolleranza e inclusione. In America, dove lo stesso Ronald Reagan trattò con compassione la morte per Aids dell’attore Rock Hudson fermando gli estremisti, i repubblicani sono divisi da febbri ideologiche, ma perfino le figlie dell’ex vicepresidente Dick Cheney, due conservatrici Doc, si dividono sulle nozze gay, ne parlano, non discriminano o tacciono. La proposta di Renzi è soft, non si tratta di matrimoni omosessuali – pur ormai routine in tante metropoli da New York a Los Angeles -, ma di unioni civili che cancellano solo le più odiose discriminazioni a danno dei cittadini gay. Bloccarla non rende Alfano e il suo Ncd bastione credibile dei valori tradizionali, ma al contrario palcoscenico petulante, dove risuona la grancassa populista. Il voto cattolico in Italia è stato studiato a lungo, da Mannheimer a D’Alimonte, e non rivela correnti di maggioranza contro l’integrazione dei cittadini. Nel suo libro «Il ventennio», l’ex presidente della Camera Gianfranco Fini riflette con amarezza sulla strada aspra che la destra italiana deve compiere per diventare definitivamente occidentale e liberale, amarezza tanto politica quanto esistenziale. La disattenzione di Silvio Berlusconi ai temi etici, l’accordo meccanico tra centrodestra e gerarchia della Chiesa italiana nel recente passato, hanno seminato confusione e opportunismi. Oggi il clima è diverso, dal Vaticano, alla Cei, alle parrocchie, ai movimenti, Comunione e Liberazione di don Carron in testa. Papa Francesco incanta il mondo restando saldo sulla strada maestra della Chiesa, ma ammonendo che essa va percorsa da «tutti i peccatori», senza barriere o protezionismi dell’anima. Il grido neo francescano «Chi sono io per discriminare quel peccatore…?» commuove le anime, ci parla di fratellanza per chi non condivide la nostra etica, la nostra condotta personale. Insomma la scommessa di Alfano è perdente nella tattica della politica e disastrosa nella strategia dei valori. E – se ci possiamo permettere - stride anche con la sua personalità, che non ha rivelato finora il difetto dell’astioso settarismo. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2014/01/04/cultura/opinioni/editoriali/litalia-i-diritti-e-una-destra-troppo-antica-HCd4ExjQ7u6f3LigPSb45M/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Le immagini che cambiano il destino dei conflitti Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2014, 06:54:28 pm Editoriali
22/01/2014 Le immagini che cambiano il destino dei conflitti Gianni Riotta Ci sono foto che diventano icone di un conflitto, il miliziano della Repubblica spagnola ferito di Robert Capa, la bimba Phan Thi Kim Phúc ustionata dal napalm in Vietnam di Nick Ut. E ci sono invece foto che riproducono le divisioni di una guerra. Il reporter americano Eddie Adams, il primo febbraio 1968 scatta mentre il capo della polizia vietnamita Nguyen Ngoc Loan, con il revolver spara alla tempia del guerrigliero Vietcong e crea il simbolo del terrore a Saigon. Nessuno ricorda però che, a lungo, Adams provò invano a raccontare il contesto della tragica foto «Il generale Loan uccise il Vietcong, io uccisi il generale con la mia foto. Le fotografie sono le armi più potenti al mondo. La gente crede nelle immagini, ma le fotografie mentono, anche senza alcuna manipolazione. Sono solo mezze verità. Quel che la mia fotografia non dice è “Cosa avreste fatto voi, al posto del generale Loan in quel posto e in quel momento di un giorno terribile, se aveste preso il presunto colpevole dopo che aveva ammazzato a freddo uno, due, tre soldati americani?”». Scusandosi con Loan, Adams non lo giustifica, ammette con onestà che la sua foto storica è «una mezza verità», senza contesto. La stessa cautela può essere usata davanti alle terribili fotografie che la rete tv americana Cnn, il quotidiano inglese «The Guardian» e l’agenzia semiufficiale di stampa turca Anatolia hanno diffuso di prigionieri siriani torturati, uccisi, affamati dal regime di Assad. Un ex fotografo delle forze di sicurezza di Damasco, detto Cesar, le avrebbe trafugate e tre esperti internazionali, Sir Desmond de Silva, pubblico ministero per i crimini in Sierra Leone, David Crane, pubblico ministero nei processi per le violazioni dei diritti umani perpetrate dall’ex presidente liberiano Taylor, e Sir Geoffrey Nice, ex pm nel processo al despota serbo Milosevic, le hanno convalidate come «Prova certa». L’opposizione siriana parla di «genocidio evidente» e di 11.000 giustiziati. Damasco reagisce e paragona «Cesar» a «Curveball», la fonte che si rivelò poi non attendibile, sulle armi di sterminio di massa di Saddam Hussein, segnalando la coincidenza tra il rapporto sulle sevizie e la Conferenza sulla Siria che si apre a Ginevra. Che infine l’inchiesta sia organizzata dal Qatar, vicino ai ribelli contro il governo alawita, sarebbe segno ulteriore di non credibilità. Come il povero Adams comprese solo tardi, non serve però a nulla guardare le immagini come fossero fuori dal mondo, senza tempo e spazio. Illudersi che un fotogramma ieri, un mosaico di pixel oggi, ci restituiscano la verità, senza la fatica, il dolore, il tempo passato a studiare, informarsi, riflettere, pensare, decidere, giudicare induce ad errori. La guerra civile in Siria ha fatto 130.000 morti civili e ha seminato milioni di profughi in Medio Oriente. Lo scorso ottobre l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch, nel rapporto «Dentro il buco nero» (http://goo.gl/JZOl6w) ha denunciato «sistematiche violazioni dei diritti umani e torture che sono crimini contro l’umanità» di Assad. Secondo uno studio di Amnesty International «lo stato di polizia di Assad si macchia di colpe che ammontano a crimini contro l’umanità» (http://goo.gl/V1cI7f). Le foto di «Cesar», validate dai magistrati internazionali, non cadono dunque nel vuoto. Non sono «un fotogramma», sono «il film» dell’orrore che Assad sta compiendo, nell’indifferenza della comunità mondiale persuasa quasi che, fermato il blitz minacciato da Obama, in Siria ci sia «pace». Che Russia e Iran appoggino il regime siriano complica sia la Conferenza di Ginevra che un possibile intervento umanitario dell’Onu, impotente per i veto in Consiglio di Sicurezza. Giudicate dunque come volete il dossier atroce di «Cesar», pesatelo contro le violazioni dei diritti di cui anche l’opposizione si macchia, con i rapimenti e le rappresaglie comminate dall’ala vicina ad al Qaeda: il verdetto non cambia. Assad è colpevole di crimini contro l’umanità, ma non sarà processato come Milosevic o condannato come Taylor. Debole nel 2012, tornato in gioco grazie alle divisioni dei ribelli e all’inanità occidentale nel 2013, è oggi saldo in sella per l’astuta diplomazia di Putin. Nei campi profughi si spera solo che da Ginevra esca almeno una tregua, un cessate il fuoco, mentre i siriani fedeli al regime – compresi i cristiani terrorizzati dalla vendetta dei fondamentalisti - non immaginano nemmeno più che, come Gheddafi e Mubarak, anche Assad possa finire nella polvere. Chiunque siano le vittime innocenti delle foto, chiunque siano le migliaia di torturati senza un volto e che mai vedremo, in Siria al più possiamo sperare anche noi in un «cessate il fuoco», che limiti i danni e plachi gli orrori. Pace e giustizia sono parole che da Ginevra tanto sentirete, ma che in Siria non hanno traduzioni. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2014/01/22/cultura/opinioni/editoriali/le-immagini-che-cambiano-il-destino-dei-conflitti-8kjQkRsL60K9mrENpcVpSI/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - A Davos la faccia nuova del vecchio Iran Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2014, 05:57:44 pm Editoriali
24/01/2014 - il summit A Davos la faccia nuova del vecchio Iran Gianni Riotta Invano i filologi della politica internazionale cercheranno nell’intervento del presidente iraniano Hassan Rohani al World Economic Forum di Davos parole che rompano, in modo radicale, con la recente tradizione del suo Paese e che quindi, rilanciate con veleno dagli ayatollah conservatori, gli mettano contro il Leader Supremo Ali Khamenei. Rohani segue alla lettera il protocollo condiviso a Teheran. Ma lo sillaba con accattivante bonomia e simpatia, includendo gli astanti nella gentile risata, l’elegante turbante, il mantello senza una piega. Pronunciato così il messaggio muta di senso. Dopo anni di virulenta foga populista del suo predecessore Ahmadinejad, il colto, flemmatico, garbato Rohani invoca l’essenza di quel che c’è di antico, sofisticato nella cultura millenaria dei Persiani, il carisma che rende la potenza non minacciosa, affascinante. Quando il fondatore del Forum di Davos, Klaus Schwab, gli ha proposto con forza l’invito «Allora l’Iran è pronto a intrattenere relazioni normali con tutti i Paesi?», Rohani ha assentito con cortese gravità mentre la platea dei manager e uomini di stato ruggiva felice la propria approvazione. Purtroppo qui tocca fare i pedanti e segnalare che Rohani intende solo «i Paesi che Teheran riconosce», escludendo quindi Israele, oggetto segreto dell’ovazione. Questa è la «filologia diplomatica» con cui il presidente si scherma dai falchi di casa: il messaggio di simpatia umana prevale, ieri, dalla Svizzera, al web, alle Cancellerie. Celebre per il suo handle twitter @hassanrouhani, con 170.000 lettori-follower, Rohani ha ammesso con candore di non scrivere i messaggi da solo, aiutato da collaboratori ed amici. La e-diplomacy, la diplomazia digitale dei social media di cui il nostro ambasciatore a Washington Bisogniero giusto in queste ore discuteva con l’ex vice Segretario di Stato Usa Anne Marie Slaughter, ha conosciuto ieri un giorno di gloria quando, all’offensiva social media di Rohani a Davos, ha replicato secco il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Non da un’affollata conferenza stampa o con un forbito comunicato di agenzia: no, dalla sua pagina Facebook, come un teen ager, Netanyahu denuncia «la campagna di falsità» di Rohani, a cui la platea internazionale presterebbe ascolto, ricordando che su nucleare, Medio Oriente e Siria, la posizione di Teheran non muta. Vero, si ripete solo che la «colpa» della guerra civile di Damasco non è del regime di Assad ma «di terroristi feroci», non si spiega bene a che cosa serva il nucleare in un Paese che galleggia su giacimenti di petrolio, a Israele non si porge nessun ramoscello d’ulivo. Ma Rohani sembra tentato da una versione sciita della comunicazione cattolica di Papa Francesco, non mutare un rigo di teoria e tradizione pregresse, ma declinarle con dolcezza, affabilità, cordialità. E non ha forse ieri il Papa definito Internet «un dono di Dio»? L’Italia, che con gli uomini dell’Eni ha una storica presenza in Iran dai giorni di Enrico Mattei a Paolo Scaroni oggi, a Davos era guardata, per una volta, con invidia. Tanti politici e businessmen sperano che, se la trattativa sul nucleare e quella sulla Siria procederanno senza troppi intoppi, e Khamenei lascia spazio a Rohuani, Teheran ritorni mercato strategico. Italia ed Eni godrebbero di un vantaggio prezioso, perché Rohani annuncia già il nuovo modello di investimenti per i contratti internazionali sul petrolio per settembre 2014, preceduto da un seminario a Londra, in estate, per illustrarne le modalità. A Davos i dirigenti francesi della Total marcavano infatti stretto gli iraniani. «È il tono che fa la musica» dice un antico motto e Rohani annuncia suadente di volere l’Iran tra i primi dieci Paesi al mondo per benessere, si dichiara pronto a collaborare con tutti - dell’ambiguità su Israele s’è detto - se le sanzioni internazionali verranno allentate e poi cancellate. Messaggi per il presidente Obama e il Congresso Usa dove non mancano i dubbi sul nuovo corso di Teheran. Finita la Guerra Fredda il web nascente, il mercato internazionale aperto, lo sviluppo dei Paesi poveri fecero sperare che il XXI secolo fosse di pace, intese, prosperità. Poi crisi finanziaria e dell’euro, guerre locali, fondamentalismi, autoritarismo in Russia e Cina, «globalizzazione e mercato» sono diventate parolacce. Ascoltando Rohani proporre cooperazione e lavoro, dal web a Davos tornava in mente che le sole alternative al mercato, con tutti i suoi difetti, alla democrazia, con tutte le sue demagogie, alla cooperazione internazionale, con tutte le lungaggini burocratiche (a proposito: rilanciamo in fretta l’area di libero mercato Europa-Usa!) sono guerra, odio, intolleranza. O lavoriamo, commerciamo e cresciamo insieme o ci scanniamo come in Siria e prepariamo le armi come India e Pakistan sul Kashmir, o Cina, Usa e Giappone nel Pacifico. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2014/01/24/cultura/opinioni/editoriali/a-davos-la-faccia-nuova-del-vecchio-iran-P0nSgMvCAUeNtOMRw4sRmJ/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - I grillini vogliono caos non riforme Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2014, 04:37:40 pm Editoriali
03/02/2014 I grillini vogliono caos non riforme Gianni Riotta Dal 2012, con la vittoria di Beppe Grillo in Sicilia, fino alla scorsa primavera, l’opinione pubblica di sinistra ha coccolato i Cinque Stelle. Dopo il successo grillino alle elezioni di febbraio un manifesto di intellettuali spingeva perché il Partito democratico formasse un governo con Grillo e Gianroberto Casaleggio, con giornali, riviste, case editrici fiancheggiatori del movimento mobilitati perché l’ex attore andasse al potere. Analogo fermento si raccolse attorno alla candidatura di Stefano Rodotà al Quirinale: ignari che il costituzionalista aveva, in un’intervista, paragonato con severità Cinque Stelle alla destra oltranzista ungherese di Orban, i grillini ne scandivano il nome in strada. Né l’infatuazione era solo italiana: l’autorevole «New Yorker», in un rapito ritratto di Grillo, concludeva con l’ex attore che, al cadere della sera, chitarra in mano, canta ai pescatori sardi una ballata, «con la rauca voce di Ray Charles». In politica però un anno può essere più struggente di un vecchio blues e la cotta della sinistra per Grillo sembra svaporarsi. Ora che si bruciano i libri del decano Corrado Augias, e il parlamentare 5 Stelle Roberto Fico inquadra il gesto nella «rabbia incontenibile», ora che la presidente Boldrini viene sottoposta a uno stupro mediatico aizzato da Grillo via blog, è impossibile rivedere nei parlamentari di Grillo gli illuminati riformatori che si volevano al governo un anno fa con queste parole «Mai, dal dopoguerra a oggi, il Parlamento italiano è stato così profondamente rinnovato dal voto popolare. Per la prima volta i giovani e le donne sono parte cospicua delle due Camere. Per la prima volta ci sono i numeri per dare corpo a un cambiamento sempre invocato, mai realizzato. Sarebbe grave e triste che questa occasione venisse tradita, soprattutto in presenza di una crisi economica e sociale gravissima». Ora con disinvoltura si taccia Grillo da «fascista», l’amico nobile si muta in nemico spregevole. Poco da meravigliarsi, il trasformismo narciso non è mai mancato nella storia intellettuale del Paese. Ma è invece importante capire perché all’errore di incenso 2012-2013 si sovrappone l’errore di vetriolo 2014, senza trovare equilibrio analitico davanti non al «fascismo» che nulla c’entra, ma al populismo 5 Stelle. La ragione del primo fenomeno è semplice, Grillo veniva visto da tanti come un apriscatole che poteva infine far saltare l’ermetico nemico Berlusconi, la cui tenuta per due decenni beffava le teorie «del partito di plastica». Chi abbia studiato il blog e la letteratura politica di Casaleggio e Grillo sa che non c’è stato in loro alcun cambiamento di toni o contenuti. Dal primo Vaffa Day, al voto di febbraio, Grillo ha sempre considerato la democrazia italiana, le istituzioni repubblicane seguite al referendum del 1946, la classe dirigente tutta, una rovina. Ha sempre postulato di volere agire da solo per rompere il sistema, senza compromessi, alzando il tiro, dentro il 5 Stelle e in Parlamento, niente compromessi, niente negoziati. Il risibile impeachment contro il presidente Napolitano era già scritto nella gita al Quirinale di Grillo un anno fa. Jacopo Iacoboni ha, in un bell’articolo, rievocato i lontani giorni in cui al tempo dell’adesione dell’Italia alla Nato il Partito comunista fece ostruzionismo e le Camere ribollirono. In altre occasioni furono i radicali di Pannella, storico l’interminabile discorso di Marco Boato, a far ricorso al filibustering. La differenza tra allora e adesso è quanto raramente Pci e radicali siano ricorsi all’ostruzionismo, consapevoli che fosse un «mezzo», da utilizzare solo in casi estremi – come la collocazione internazionale dell’Italia nella Guerra Fredda. Per Grillo bloccare la Camera non è invece un «mezzo» per ottenere qualcosa, con il 25% dei voti avrebbe da incassare risultati politici ogni giorno. Fermare il dibattito democratico in Parlamento, e poi a cascata nel Paese, è il «fine», la «meta» nella, evidentemente illusoria, persuasione che il caos «manderà a casa la Casta», dando il governo a Grillo e Casaleggio. Si tratta di rompere, non ricostruire. Aver creduto che si potesse lanciare un programma di riforme per il XXI secolo su queste basi è abbaglio su cui meditare. Ma altrettanto grave sarebbe ora per il Pd e la sinistra duplicare l’errore degli ultimi 20 anni, quando gli elettori di Berlusconi sono stati branditi come «fascisti, mafiosi, evasori fiscali». I milioni di italiani che hanno votato per Grillo vengono – rileggete i flussi disegnati da Roberto D’Alimonte - da destra, centro e sinistra. Lo hanno scelto, e in gran parte ancora dichiarano di volerlo votare non per bruciare libri, dire lepidezze orrende sulla Boldrini, parlare nell’italiano maldestro del parlamentare medio 5 Stelle, o perché depressi dalle scie chimiche. Lo votano perché sommano il disgusto per la corruzione e l’inanità della classe dirigente italiana tutta, con la fatica di sbarcare il lunario oggi. Molti di loro compiono l’errore intellettuale – comprensibile per l’angoscia sociale che lo genera - di credere che il lavoro manchi per colpa della corruzione, che il figlio sia precario «Perché Quelli rubano». Non è così, anche quando «Quelli» smetteranno di rubare, senza innovazione, tecnologia, mercato, cultura, ricerche, laboratorio, scuola, il lavoro in Italia non si troverà, Electrolux non è un caso, è l’ultimo sintomo della deindustrializzazione che da 50 anni trasforma l’Occidente. Di queste riforme Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio sono, e resteranno, nemici giurati. Saranno sempre schierati per il caos, via carta, tv, web, convinti che serva a spezzare il sistema. Queste riforme sono insieme salvezza per il Paese e sconfitta certa per 5 Stelle. Come non bisognava ieri flirtare vanesi con Grillo, non si devono adesso insultare e isolare i suoi elettori perbene. Va detta loro, con onestà e senza frivolezza, la verità sulla tempra morale dei fondatori di 5 Stelle. Va loro mostrata un’etica pubblica lucida, con tagli alle spese politiche severe, ma poi serve un piano di crescita coerente, logico e sostenibile. Solo la crescita azzittirà il Pifferaio ligure in fretta. Avrà allora tempo per show di successo o per leggere qualche libro, magari non flambé. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2014/02/03/cultura/opinioni/editoriali/i-grillini-vogliono-caos-non-riforme-xK1S88C0eIgoszYOUgLX8K/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Burocrati e moralisti a Palazzo di Vetro Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2014, 04:43:01 pm Editoriali
06/02/2014 Burocrati e moralisti a Palazzo di Vetro Gianni Riotta Che la Chiesa Cattolica abbia gestito in modo errato, fino alla tragedia, la vicenda della pedofilia nei propri ranghi, ai vertici, nei palazzi, nelle parrocchie e nei seminari, è verità storica assodata. Ho visitato a Washington un ritiro-casa di cura in cui venivano ricoverati i preti pedofili, curati, sottoposti a penitenze e controlli. Ricordo il senso di angoscia orribile che gravava in quelle stanze, il vecchio monito evangelico di legarsi una macina da mulino al collo, punizione per lo scandalo dato ai bambini. Il Rapporto della Commissione Onu per i diritti dei minori (testo integrale a http://goo.gl/L4zPuh) arriva dunque opportuno a stigmatizzare il grande scandalo, i ritardi della gerarchia nell’escludere i colpevoli, l’ipocrisia nel lasciare le vittime in silenzio, la vergogna, l’omertà, la folle scelta di rimandare i pedofili peggiori nelle parrocchie, tra famiglie impotenti e piccoli terrorizzati. Un’intera generazione di cattolici, ovunque nel mondo, si è sentita estraniata dalla fede per questa condotta da sepolcri imbiancati e lunga sarà la Quaresima di espiazione. Quel che non persuade nel testo delle Nazioni Unite non è dunque la condanna delle colpe dei pedofili nella Chiesa, da tempo condivisa e diffusa. È nel tono superficiale da magazine alla moda, dove con nonchalance questioni controverse come aborto, contraccezione, identità sessuale uomo-donna, vengono gettati nella stesso canovaccio con la pedofilia. Come se un piccolo parroco di provincia, immaginate un pretino come nel vecchio romanzo “Diario di un curato di campagna” di Bernanos, che dal pulpito condanni l’interruzione di gravidanza e raccomandi prudenze con le contraccezioni, sia per questo, d’istinto, sospettabile di pedofilia, da tenere lontano dagli scolari del Catechismo. Suor May Ann Walsh, portavoce della Conferenza Episcopale americana, commenta con sagacia il testo Onu: “Chiunque porti attenzione sul problema (degli abusi sessuali) contribuisce a risolverlo…”, ma mischiarlo con aborto e contraccezione rischia di far caos, “Purtroppo hanno gettato tutto nel lavandino e indebolito il rapporto. Aborto e contraccezione sono temi che scatenano guerre culturali, gli abusi sessuali non son temi da scontro culturale, sono un peccato e un crimine”. C’è, tra mille verità, un eccesso di giacobinismo moralistico che indebolisce il rapporto Onu. Come se si dovessero pagare pegni al Codice del Politicamente Corretto reso particolarmente rigido dal linguaggio burocratico da Palazzo di Vetro. I polemisti diranno che la stessa Onu non riesce a dire granché sui bambini gasati in Siria, pena il veto di Putin in Consiglio di Sicurezza, adorna le sue bacheche, ieri sui muri oggi online, di comunicati sui diritti umani, civili, culturali e religiosi dell’uomo e del cittadino, salvo farli firmare da governi che violano ogni giorno, in modo orrendo, quei diritti. I critici osserveranno che altre religioni o confessioni, che hanno stati membri pronti a difenderle con energia, raramente subiscono questo tipo di scrutinio, attenzione e condanna. Infine confusa appare l’identità tra Chiesa Stato Sovrano e Chiesa religione, come se un parroco pedofilo americano, italiano o brasiliano rispondessero solo al Papa delle proprie colpe, e non anche ai tribunali del proprio paese. Conta soprattutto che l’Onu, con la lentezza etica che spesso la aliena da tanti, non colga il clima nuovo nella Chiesa dopo l’elezione di Papa Francesco, il lavoro già avviato prima di lui per guarire la piaga infetta della pedofilia, degli abusi sessuali e del sistema che li ha protetti e perpetuati. Non valuti le differenze tra paese e paese, tra le culture diverse del mondo cattolico sul pianeta, tra paesi ricchi e poveri. Fa la morale richiamando a una data di controllo, il 2017, che nessuno avrà il potere di riconoscere. La Chiesa ha collaborato con il Rapporto al massimo livello –con il Procuratore Capo nei processi contro la pedofilia fino al 2012, il vescovo Charles J. Scicluna- sperando servisse da stimolo esterno all’opera di riforma morale. La gelida prosa Onu ha tutti i timbri della burocrazia contemporanea a posto, ma priva di calore e rispetto, si rivela purtroppo poco utile contro i mali che, a parole, intende combattere. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2014/02/06/cultura/opinioni/editoriali/burocrati-e-moralisti-a-palazzo-di-vetro-nLkJlBJpmQcoe8xG5EgQ5J/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Il potere perduto dell’Europa Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2014, 05:20:33 pm Editoriali
08/02/2014 Il potere perduto dell’Europa Gianni Riotta La diplomatica americana Victoria Nuland è nata nel 1961, ed aveva così solo tre anni quando, il 7 febbraio di 50 anni fa, i Beatles atterrarono nella sua città, New York, per suonare due giorni dopo, 9 febbraio, al leggendario Ed Sullivan Show televisivo. La Nuland è diventata famosa, già lo registra la sua pagina Wikipedia, per avere detto senza troppi riguardi «Si f… l’Unione Europea», liquidando con un «fuck the Eu» gli storici alleati a proposito della crisi in Ucraina. Come cambia il mondo in mezzo secolo. Nel febbraio 1964, l’America ancora sotto choc per l’assassinio di John Kennedy, vede arrivare con gioia la band inglese, invitata dal presentatore Ed Sullivan. Due volte bloccato in aeroporto dalle fans di John, Paul, Ringo e George, Sullivan tratta con il loro manager, Epstein, una tournée tv in America. Siglano stringendosi la mano un contratto per 10.000 dollari, allora il salario medio annuo americano era 6000 dollari. Le tre serate fanno la storia della tv, in sala solo 700 posti, l’ex vicepresidente Nixon invoca un biglietto per la figlia, il compositore Bernstein – ricorda il sito dell’Ed Sullivan Show – rimane fuori, mentre le ragazze urlano e sotto l’inquadratura di John Lennon appare la scritta «Ci spiace ragazze, è sposato». 73 milioni di spettatori, share del 60%, l’America si innamora dei Beatles. Era ancora un’Europa capace di soft power, l’influenza sottile che passa attraverso la cultura, studiata nel saggio celebre di Joseph Nye tradotto da Einaudi: ai falchi di George W. Bush (tra cui proprio il marito della Nuland, Robert Kagan) Nye contrappone il soft power, accanto alla forza delle armi creare egemonia con arte, costume, moda. Nye lamenta l’arte perduta del soft power Usa, ma davanti al «si f… l’Europa» scandito mezzo secolo dopo la trionfale tournée dei ragazzi di Liverpool vien da chiedersi: e noi europei quando abbiamo perduto il nostro «Potere soffice»? Quando non siamo riusciti a darci una Costituzione condivisa? Quando abbiamo dimenticato il monito del vecchio Churchill, 19 settembre 1946, Zurigo «Dobbiamo costruire gli Stati Uniti d’Europa…»? Quando su Balcani, Ucraina, Medio Oriente, Iran, Siria, balbettiamo nella Babele delle lingue nazionali? Quando abbiam perduto l’occasione di avere al Consiglio di Sicurezza Onu un solo seggio, dall’altissimo prestigio morale e politico, per l’Unione? Gli storici decideranno. Nel frattempo i politici minimizzano, in America un «f…» non si nega a nessuno, nel suo ultimo film su Wall Street Leonardo DiCaprio impiega la parolaccia per un record di 506 volte. Ma la verità è che Usa ed Europa sono ormai lontane. Durante la presidenza G.W. Bush tanti, tra gli europei e i democratici Usa, davano la responsabilità ai «neoconservatori» repubblicani. Sciocchezze. La presidenza Obama, che incanta gli europei fin dal discorso da candidato a Berlino, luglio 2008 «L’America non ha migliore amico dell’Europa», lascerà Washington e Bruxelles non più vicine di un pollice. Il patto sul libero commercio Atlantico non scatta, e non per mancanza di interessi, ma perché il negoziato langue burocratico, sterile, senza passione civile. Nsa e spionaggio, Russia e Cina, shale gas e Ogm, ambiente, troppi attriti tra i partner del dopoguerra. Se non ci offendiamo per il «vaffa» della Nuland, se lo guardiamo in controluce, con nostalgia per la Beatlemania 1964 Usa, quando l’Europa era «cool», forse cogliamo la magia perduta. I nostri leader di oggi, gli incolori Van Rompuy e Lady Ashton, i contendenti alla guida dell’Unione, gli eterni Jean-Claude Juncker, Martin Schulz, Guy Verhofstadt, un conservatore, un socialista, un liberale per tutte le stagioni come mai potrebbero colpire il nipote di una ragazzina urlante del 1964? Immaginate qualcuno a strillare per Jean-Claude, Martin, Guy come per John, Paul o George? Noi no, purtroppo. Twitter @riotta Da - http://www.lastampa.it/2014/02/08/cultura/opinioni/editoriali/il-potere-perduto-delleuropa-kQI4kT3yPHEbsiS6c9IdgM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - All’estero l’Italia resta un rischio Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2014, 04:58:02 pm Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 20/02/2014.
All’estero l’Italia resta un rischio Nella sala riunioni di un istituto internazionale che valuta i «rischi-paese» per le aziende globali che investono all’estero, a New York, si è esaminata 48 ore fa la situazione italiana dopo la staffetta Letta-Renzi. Prima di dirvi qual è stato il giudizio finale degli studiosi sulla nostra nazione, voglio raccontarvi di che cosa «non» hanno parlato gli analisti. Il look di «Matteo», il chiodo, le camicie bianche, il tifo per la «Fiore», lo streaming con Grillo, andare in giro senza scorta, il gossip popolare, il petulante Totoministri, non sono stati citati. Sia governata da un maturo economista come Monti, un tecnocrate come Letta o un giovane ex sindaco come Renzi, l’Italia non impressiona mercati e cancellerie per l’anagrafe o le personalità. I dati che passavano crudi sono Pil, disoccupazione, produttività, tempi della giustizia, mercato del lavoro vischioso, corruzione, burocrazia, tasse elevate, debito pubblico, scuola e ricerca dietro la media europea, Sud, digital gap, frammentazione politica in Parlamento. È un gran bene che, con Matteo Renzi, una nuova generazione prenda il potere in Italia. Si devono assumere decisioni che condizioneranno la vita dei nati dopo il 1975, ed è opportuno che lo faccia chi ne subirà le conseguenze. Il nostro paese è avvitato a favore degli anziani contro i ragazzi, degli occupati contro chi non ha un lavoro, di chi ha connessioni personali, familiari, di lobby, politica o professione con la classe dirigente contro chi invece è un outsider senza raccomandazioni. Che queste ingiustizie vengano corrette, che il paese sia leale, con regole e senza trucchi, è auspicabile. Renzi ha rotto due tabù a sinistra. Non crede che la Repubblica si fondi su «Viva o Abbasso» Berlusconi («niente viva, niente abbasso» dice un bellissimo racconto di Elio Vittorini), non considera gli elettori del centrodestra marchiati dalle loro idee, anzi li invita apertamente a unirsi nelle urne al centro sinistra, da pari a pari. E non segue, né nei modi, né nel linguaggio, lo stantio galateo dei mandarini da talk show. I suoi comizi sono performances, battute, scherzi, il pubblico, spesso composto da suoi coetanei, ride divertito. Le due novità, frutto della cultura e della storia di Renzi, lo hanno fatto molto criticare, ma alla fine gli hanno consegnato la guida di un Pd smarrito e incerto. Renzi è il primo leader di una sinistra post-berlusconiana, con nuove visioni e idiosincrasie. Ma l’intera avventura politica di Matteo Renzi si arenerà se lui stesso, o il suo staff, dal raziocinante Del Rio, al blogger Sensi, alla cerebrale Boschi, finiranno per credere alla loro propaganda: che cioè basti non balbettare nell’antico politichese da «militanti severi» della ballata di Guccini, per creare lavoro e far crescere il Pil. I guai italiani, i numeri dell’economia, se ne infischiano della data di nascita del premier, di camicie, «Chi?» e parlantina. Sono scomodi, irriducibili. Ridicole gaffes come denunciare le agenzie di rating perché non considerano il nostro patrimonio culturale ci fan ridere dietro, sembriamo la vecchia aristocratica di La Grande Bellezza di Sorrentino, che rimpiange la nobile culla dove riposava da bambina, ora diventata esca per turisti chiassosi. Il mondo giudicherà Renzi dalle riforme. Quelle che Thatcher e Blair, Reagan e Clinton, Schroeder e Merkel, leader conservatori e progressisti, hanno creato e difeso nei loro paesi. Non da altro. Le riforme economiche sono invocate dagli esperti, ma alla prova dei fatti gli italiani arretrano davanti al salto, esausti per la crisi e le tasse, nostalgici per gli anni dorati del boom. Grillo e i suoi paladini danno la colpa della paralisi economica alla «Politica», autoassolvendo così cittadini e ordini professionali, manager e sindacalisti, imprese e burocrazie, clan accademici e intellettuali, la ragnatela dello status quo che detesta meritocrazia, trasparenza, impegno. Renzi non troverà applausi quando dovrà chiedere ai cittadini di lavorare, o studiare, più e meglio, tagliare la spesa, ridurre i sussidi a imprese, enti, istituzioni, evitare gli sprechi. Dovrà vivere di maggioranze precarie, prendere posizioni impopolari, con la forza del riformista che mai Berlusconi ha voluto impugnare. Non sarà una passeggiata, slalom allegro tra tweet e blog, non ce la caveremo con battute toscane, sorrisi accattivanti. Servono sudore e lavoro, strategia, impegno, studi, tenacia, coraggio. I partner europei ci daranno una mano sul benedetto 3%, a patto di vedere che siamo seri nella ricostruzione economica, come Spagna e Grecia, più della malmostosa Francia. Ma sconti non ne faranno. Gli investitori internazionali torneranno se l’Italia sarà trasparente e non corrotta, altrimenti se ne andranno altrove, incuranti dei picchetti in strada e dei tanti editoriali di casa nostra contro Wall Street. Come se non bastasse servirà che l’Italia dica la sua a testa alta sull’India e l’intollerabile vicenda dei sottufficiali detenuti, che parli sulle violenze in Ucraina e Venezuela, che sia protagonista sulla trattativa in Siria e Iran, insomma ritorni paese degno del suo nome. Renzi non cambi condotta e personalità, anche volendo non potrebbe. Ma prenda atto, con il suo governo, che non va in gita scolastica, corre una maratona defatigante. Gli analisti del think tank americano non hanno dato un parere favorevole al nostro paese, «Manca in Parlamento una maggioranza per le riforme economiche, dopo Monti e Letta anche Renzi fallirà». Lo stallo tra Pd, Berlusconi e Grillo è visto come cronico, l’outlook, la previsione per noi, non è positiva. Tocca adesso a Renzi dar loro torto: ha dimostrato di amare il rischio come candidato, continui a rischiare da leader. Si esponga sulle riforme e parli chiaro – come sa fare – all’opinione pubblica. Si stupirà, e con lui gli analisti Usa, di quante persone serie e perbene, capaci di scommettere nel futuro, ci siano in Italia, nate tra il 1975 e il 2000 ma anche più indietro, fino agli Anni Venti del secolo scorso. Se non azzarda, è perduto. Twitter@riotta Gianni Riotta Da - http://lastampa.it/2014/02/20/cultura/opinioni/editoriali/allestero-litalia-resta-un-rischio-lgadPEO0XlMxEWnz8kVXML/premium.html Titolo: Gianni RIOTTA - Kiev e le scelte dell’Europa Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2014, 06:57:11 pm Editoriali
24/02/2014 Kiev e le scelte dell’Europa Gianni Riotta Nel romanzo «La Guardia Bianca», lo scrittore russo Michail Bulgakov ritrae la tragedia della famiglia Turbin a Kiev nel 1918-19, durante la guerra tra l’armata dei conservatori Bianchi, i Rossi bolscevichi, le effimere milizie del nazionalista ucraino Petlyura. I personaggi usano le due lingue come maschere politiche, proclamandosi fedeli a Mosca o Kiev nei giorni alterni dell’assedio. Oggi l’Ucraina conosce la seconda rivoluzione dopo il 2004 Arancione, ma, malgrado la fuga del presidente Yanukovich, irriso sul web per il grottesco palazzo con i water decorati da mosaici finto bizantini e il ritorno dell’ex eroina Tymoshenko, il quadro è fermo a Bulgakov: da che parte va Kiev, a Ovest con Bruxelles, o a Est, con Mosca? La mappa delle ultime elezioni è nitida, l’Occidente vota unito l’opposizione democratica, Est e Sud, dove si parla russo, stanno con Putin, spaccati a metà. Le speranze del 2004 Arancione sono perdute, la Tymoshenko discreditata, nessuno nella piazza che ha rovesciato il regime filorusso dell’ex teppista Yanukovich è leader maturo, non l’ex ministro dell’Economia Yatsenyuk, non l’ex pugile Klitschko. La propaganda di Mosca (e i suoi galoppini in Italia) seminano scandalo per i neofascisti nazionalisti di «Settore Destra», ma la debolezza dell’opposizione non bilancia le colpe del regime, lo sfascio economico, la repressione dei dimostranti anche quando la piazza era ancora non violenta. Anche il falco putiniano Alexei Pushkov, presidente della Commissione Esteri del Parlamento russo, ammette «Yanukovich ha fatto una triste fine». E ora? Non ci sono «buoni» e «cattivi», in Ucraina tra cui scegliere, ma ricordate che Vladimir Putin non smetterà di interferire: se Kiev entra nell’area di influenza europea, o addirittura della Nato, il sogno neoimperiale di Mosca fallisce. Quando ha fatto strappare a Yanukovich, con la promessa di 15 miliardi di euro e un oceano di gas, l’accordo con i troppo cauti diplomatici europei, Putin voleva per sempre legare Kiev a Mosca, emulo della cacciata della Guardia Bianca 1919. Il Cremlino ambisce alla Crimea, che, si dice, Kruscev abbia assegnato agli ucraini durante una sbronza. L’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale americano Brzezinski e l’ex presidente europeo Prodi hanno, in questi giorni, proposto che, per evitare la guerra civile tra filorussi e filo-Ue che il Cremlino non esiterebbe a scatenare come in Georgia, il paese resti libero ma neutrale, modello Finlandia. Putin si impegna a non mestare negli affari interni, Europa e Stati Uniti sostengono l’economia che è allo sfascio, ma senza alleanze militari. Gli stessi oligarchi ucraini, al sicuro nel lusso di Londra, sembrano comprenderlo, se Rinat Akhmetov, considerato dal Financial Times «l’uomo più ricco in Ucraina» e ex alleato di Yanukovich, dichiara «Voglio un’Ucraina forte, indipendente ed unita e sottolineo unita». La strada della ragionevolezza ha un solo contro: Putin. Per risolvere la crisi occorre che il duro del Cremlino accetti che, come la sua adorata squadra di hockey non è riuscita ad assicurarsi la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sochi, così anche per lui, dopo i successi di Siria e Iran davanti alle incertezze croniche del presidente Obama, sia venuto il giorno della sconfitta. I dimostranti di Piazza Indipendenza sono riusciti dove ormai nessuno sembrava più riuscire, umiliare Vladimir Putin. Perché il piano per un’Ucraina neutrale passi, occorre che Putin lo accetti, riconoscendo di aver perduto. Nella sua storia non ci sono precedenti di questa saggezza, quando le prende, Zar Putin aspetta, si lecca le ferite e riparte. Una Seconda Guerra Fredda non è nell’interesse di nessuno, mentre la Cina mobilita la flotta nell’Oceano Pacifico, ma non possiamo farci illusioni. L’Ucraina è divisa, fragile e povera, per sottrarla al Cremlino Usa e Ue devono investire in aiuti finanziari veri, mobilitando una diplomazia meno di porcellana di quella che l’ex Kgb Putin ha fugato con rubli e minacce. Se la Russia scegliesse di vendicare lo smacco, Washington, Bruxelles e Berlino devono avere un Piano B, contrastare l’offensiva russa con caparbietà. La cosmopolita città di Leopoli, (Lviv), teatro negli Anni Trenta di una grande scuola filosofica, ha fatto parte in un secolo di quattro nazioni, impero Austro Ungarico, Polonia, Urss e Ucraina: i suoi studenti sono pronti alla secessione, non intendono vivere sotto il tallone russo. Il Cremlino deve sapere che Usa ed Europa sono pronti al negoziato, ma senza tradire i ragazzi europei di Lviv. Così è bene che agisca anche l’Italia. Il neo ministro degli Esteri Federica Mogherini ha lanciato su twitter un post che il premier Matteo Renzi ha condiviso: «Con il pensiero, e il cuore, a #Kiev. Che tu sia poliziotto o manifestante, non si può morire così, in #Europa». Giusti sentimenti, a patto di ricordare che non siamo nella poesia di Pasolini dopo gli scontri di Valle Giulia, tra poliziotti e studenti nella democratica Italia 1968. I dimostranti andati pacificamente in piazza, i primi a morire, e le squadracce del regime oggi in fuga vergognosa dopo le violenze, non sono uguali, né politicamente, né eticamente. Il governo proponga in Europa, alla vigilia del semestre italiano, per l’Ucraina un ragionevole compromesso senza gradassate con la Russia, ma con un nitido segnale a Putin: l’Ue non tollererà nuove aggressioni a Kiev. Il 2014 non è il 1918 di Bulgakov. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2014/02/24/cultura/opinioni/editoriali/kiev-e-le-scelte-delleuropa-nNkaWDsAdvXFYC5Nhbgk2M/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Ottimo e abbondante: il futuro non si addice a Cassandra Inserito da: Admin - Marzo 04, 2014, 07:07:23 pm Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 02/03/2014.
Ottimo e abbondante: il futuro non si addice a Cassandra Contro i profeti di sventura, Peter Diamandis spiega perché l’avvenire è migliore di quanto pensiamo. Un libro da leggere, soprattutto in Italia Alla fine del XVIII secolo Malthus previde lo sterminio dell’umanità: poiché la popolazione cresceva in progressione geometrica - 1, 2, 4, 8, 16, 32… - il cibo solo in progressione aritmetica - 1, 2, 3, 4, 5 -, tutti morti di fame in poco tempo. Le previsioni tragiche hanno di rado successo, Cassandra non coglie le tragedie vere, guerra nel 1914 e 1939, Aids, crisi finanziaria 2008, e annuncia spaventapasseri innocui. Stanley Jevons ebbe successo nel 1865 scrivendo che il carbone si sarebbe esaurito entro il secolo, il Times di Londra denunciava nel 1894 che entro il 1944 la città sarebbe stata sommersa da tre metri di sterco di cavallo di migliaia di carrozze e tram. Nel 1914 il governo Usa stima la fine del petrolio in 10 anni, e ripete l’errore nel 1939 e 1951. Nel 1972 il Club di Roma - attraendosi le ironie dell’Economist - è certo della fine di petrolio, gas naturale e materie prime, del boom dei prezzi, della depressione globale. Smentito, intigna: sbagliammo allora, ma il Caos resta vicino! Perché il business di Cassandra non conosce crisi - date un occhio a giornali, tv e web - annunciando ogni sorta di malanno che il futuro non comprova? Secondo lo studioso e investitore Peter Diamandis, autore con Steven Kotler del saggio Abbondanza. Il futuro è migliore di quanto pensiate (Codice Edizioni) è colpa dell’amigdala, la parte del cervello umano che controlla la reazione alla paura e al pericolo. Millenni di sopravvivenza grazie all’amigdala che ci avvisava della bestia feroce in agguato nella boscaglia, del predone con un tomahawk dietro la grotta, ci rendono più sensibili al rischio da prevenire che all’opportunità da cogliere. Ci insegnava il direttore della Columbia Journalism Review, Spencer Klaw: «La gente scambia sempre il commentatore pessimista per autorevole, l’ottimista per superficiale». Amigdala! Diamandis è un ottimista, la sua X Prize Foundation concede milioni di dollari in finanziamenti a chi realizza progetti pilota, auto elettriche, capsule spaziali economiche. Ed è dunque persuaso, al contrario di Malthus e del Club di Roma, che il futuro sarà migliore del presente, malgrado crisi, cambio del clima, disuguaglianze crescenti. Perché sbagliano le Cassandre, secondo Diamandis? Perché - e qui l’autore ha ragione - calcolano il futuro sui parametri del presente, come se nulla cambiasse e non si introducesse innovazione a mutare le stime. Oggi negli Usa la rivoluzione dello shale gas, energia che solo 10 anni fa valeva nulla, rende il paese libero dal ricatto del petrolio e assai meno vulnerabile dal ricatto energetico di Mosca e del Medio Oriente. Siate pessimisti o ottimisti, in Abbondanza troverete spunti affascinanti, il futuro delle energie solari, robot chirurghi, nati in guerra e che adesso lavorano sulle ginocchia infortunate, stampanti tridimensionali con materiale genetico (creeremo pelle sintetica per gli ustionati), energia nucleare pulita entro il 2030, altro che Fukushima, desalinatori per rendere fertile il Sahara e dissetare le megalopoli con l’acqua marina. Ci preoccupiamo tanto della desertificazione, Slow Food e Terra Madre di Carlin Petrini giustamente difendono i venerabili prodotti della terra, mentre Diamandis parla - e va ascoltato - di «agricoltura verticale», grattacieli che hanno a ogni piano una serra gigantesca: sorgendo in periferia della città, tagliano a 0 i costi di trasporto, uso di fertilizzanti, danno respiro ai campi troppo sfruttati, portano frutta e verdura fresca in ogni tavola senza che la carta di credito ci rovini al supermarket. I critici, come Matt Ridley del Wall Street Journal, contestano a Diamandis che la sua «dematerializzazione», risolvere i problemi con un software o un algoritmo secondo la filosofia di Silicon Valley, non basta a eliminare disoccupazione, inquinamento, miseria. Diamandis risponde che si tratta di processi, non di formule magiche (il dibattito Ridley-Diamandis al sito http://goo.gl/tRzejN). Per chi ama il realismo, senza farsi condizionare dalle fobie dell’amigdala o dalle utopie tecnologiche, Abbondanza suscita due riflessioni. La prima: libro assolutamente da leggere in un Paese drogato di pessimismo come l’Italia, tra profeti cupi, persuasi che il web crei ignoranza, lo shale gas terremoti, gli Ogm mostriciattoli verdastri, le infrastrutture mafia…, per ricordarsi quanto le Cassandre abbiano sbagliato negli ultimi due secoli e sbaglino nel 2014. La seconda: verissimo che il presente è migliore di quanto i nostri nonni non sognassero e la realtà diversa dalle chiacchiere dei talk show (negli Usa il 5 per cento dei più poveri è, in media, più ricco del 5 per cento degli indiani più ricchi, nessuno ve lo dice e vale la pena di riflettere su cosa significhi questa cifra…), ma come il futuro ci sorprende in bene, ci sorprenderà anche nel male. Chi avrebbe detto, ai tempi degli abbracci tra Reagan e Gorbaciov, che un nuovo leader del Cremlino avrebbe mandato truppe oltre i confini russi? Purtroppo all’impotenza di Obama e degli europei, l’ottimismo condivisibile di Diamandis nessun aiuto offre. Davanti ai carri armati di Putin servono Machiavelli e Churchill, non bastano le stampanti 3D. Twitter @riotta Gianni Riotta Da - http://www.lastampa.it/2014/03/02/cultura/ottimo-e-abbondante-il-futuro-non-si-addice-a-cassandra-HclUNu6XGaX5iMCiLwENLM/premium.html Titolo: Gianni RIOTTA - Il premio come avvertimento Inserito da: Admin - Marzo 04, 2014, 07:11:35 pm Editoriali
04/03/2014 Il premio come avvertimento Gianni Riotta Il cinema italiano ha vinto dodici Oscar prima del trionfo di domenica con Paolo Sorrentino e «La Grande Bellezza». Vittorio De Sica e Federico Fellini da soli ottengono sette statuette (più l’Oscar alla carriera per Fellini). E d è «Sciuscià» di De Sica, vincitore nel 1948 di quello che allora si chiamava «Oscar Speciale», a metter le basi per il futuro «Premio al miglior film straniero». Prima di De Sica Hollywood guardava e premiava se stessa, indifferente a quanto accadeva lontano da Los Angeles e dalla scritta immensa sulla collina franosa, un tempo «Hollywoodland», poi orgogliosamente solo “Hollywood”. Il cinema che l’America premia nel dopoguerra è il cinema italiano della realtà. De Sica vince nel 1948 con il bianco e nero tragico di «Sciuscià», neologismo italo-americano per «lustrascarpe», in un Paese che dal ’43 al ’45 conosce l’umiliazione della prostituzione, gli stupri di massa delle truppe coloniali. Nel 1950 De Sica rivince con «Ladri di biciclette», l’Italia che lo studioso Edward Banfield disprezza in un celebre saggio per il «familismo amorale», trova invece nella famiglia il riscatto, quando lo Stato crolla. Hollywood premia l’Italia che eravamo davvero, e i critici nostrani parrucconi contestano il neorealismo, vergognandosi che i panni non vengano lavati in casa. De Sica rivince nel 1965 con «Ieri, oggi, domani», e già l’Italia della povera contrabbandiera Adelina - Sofia Loren -, costretta a restare sempre incinta per non andare in galera (personaggio ispirato dalla cronaca, con le 19 gravidanze di Concetta Muccardi, venditrice di Marlboro illegali) incontra il boom. Lo spogliarello sexy-ironico della Loren davanti all’incantato Marcello Mastroianni strega gli americani, sulle note di Abat-Jour di Henry Wright. Anche l’Italia di Fellini oscilla tra realtà e fantasia, da «La strada» e «Le notti di Cabiria», premiati nel 1957 e 1958, alla nostalgia di «Amarcord», premio 1975, passando per il capolavoro «8 ½» statuetta 1965. È l’Italia del miracolo economico, in 15 anni passata da appena 7 case su 100 con acqua corrente, fognature e elettricità all’Oscar della valuta per la Lira, concesso nel 1960 dal Financial Times al Governatore di Bankitalia Menichella, da 430.000 automobili a 5 milioni di utilitarie e spider a scorrazzare in autostrada. Un’Italia ricca, che non lucida più scarpe o ruba biciclette, sensuale, ma incerta sul futuro, Dio, la politica, la propria identità. L’Italia senza Oscar di Antonioni. La nostalgia per il Paese perduto rimpianto da Pasolini, commuoverà gli Usa con «Nuovo Cinema Paradiso» di Tornatore nel 1990, e l’ambiguità dell’italiano mandolinaro, eterno vitellone che non fa la guerra ma gli amorazzi ed elogia la vita come fuga da se stessi, colpisce Hollywood nel 1992 con «Mediterraneo» di Salvatores. Benigni, con la favola «La vita è bella», fa storia a sé. L’America applaude quando ricordiamo ai membri dell’Academy il Paese che eravamo e più non siamo, o quando ci lanciamo nel Carnevale infingardo da Arlecchino e Pulcinella, pasticcioni, eleganti, sexy, pronti alla risata ma se c’è da fare sul serio, impegnarsi per un ideale, scappiamo con un flirt, un Gin Tonic, una bella pensione. In villa se va bene, altrimenti ci si accontenta della panchina. E gli intellettuali? Sproloquiano tronfi, dalla «Terrazza» di Ettore Scola con Gassman, a «La Grande Bellezza» di Sorrentino (guardate le perfette facce dell’editor Severino Cesari, che debutta come attore interpretando il marito della Direttrice nana). Film italiani «duri», «La battaglia di Algeri» di Pontecorvo, «Gomorra» di Garrone, «Il generale Della Rovere» di De Sica, «Salvatore Giuliano» di Rosi, «Baaria» o «La migliore offerta» di Tornatore, dove la realtà prevale sulla malinconia, non persuadono l’Academy. L’Italia deve avere sapore di «Eataly», essere commestibile, Doc, a chilometro 0, ruspante e chic, piccante e senza colesterolo, colta e divertente, come i siti web delle agenzie turistiche propongono al viaggiatore Business Class. Paolo Sorrentino – cui vanno vive congratulazioni per la vittoria, che speriamo riporti un po’ di ottimismo in giro da noi - firma il film dell’Italia rassegnata a non avere credibilità: le grandi aziende fuggono, i fondi di Borsa non investono, i laureati emigrano. Il suo è un apologo - giornalisti con attico sul Colosseo e feste da Grande Gatsby non ce ne sono più -, per mostrare il Paese com’era, vedi la cartolina dei primi 20, calligrafici, minuti. Il resto sono pasticci, smorfie, battute grevi alla «Jep» Servillo. La sua maschera, contrapposta da Sorrentino all’eleganza del Mastroianni di Fellini in «8 ½», ricorda un dribbling di Rivera davanti a un tackle di Gattuso, il design di un computer Olivetti di Sottsass contrapposto al piatto di «cacio e pepe» ammannito nei ristoranti trappola per turisti oggi. Il Paese che sperava e cresceva del 6% e il Paese che non sogna e cresce, dopo una generazione di stagno, dello 0,1%. La nobildonna di Sorrentino guarda affranta la culla nella vecchia casa diventata Museo e noi siamo come lei. Mentre il Paese manda al governo con Renzi il leader più giovane da sempre, «La Grande Bellezza» è un monito: continuiamo così e finiamo eleganti straccioni a guardare il passato, vincendo magari un sacco di Oscar, ma senza un domani dignitoso. Gianni Riotta@twitter Da - http://lastampa.it/2014/03/04/cultura/opinioni/editoriali/il-premio-come-avvertimento-XagkFySpeTCZIYlqpMoonK/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Il rischio che lo Zar rilanci Inserito da: Admin - Marzo 18, 2014, 12:16:23 pm Editoriali
17/03/2014 Il rischio che lo Zar rilanci Gianni Riotta Viviamo in Ucraina la più grave crisi internazionale dalla fine della Guerra Fredda. Le tragedie delle guerre civili in Africa e nei Balcani, l’eterno Medio Oriente da Israele e Palestina alla Siria, due guerre in Iraq e una in Afghanistan, la tensione con la Cina sulle isole Senkaku-Diaoyu, non hanno mai posto a rischio l’equilibrio intero del pianeta. Lo scontro su Kiev non è ancora allarme rosso come i giorni dei missili a Cuba nel 1962, quando il presidente Kennedy e il leader russo Kruscev si sfidarono sull’orlo della guerra atomica, ma è duello senza regole certe, con possibili errori gravi, da una parte e dall’altra. Il referendum farsa imposto da Mosca alla Crimea si risolve come stabilito, gli exit polls parlano di 95% a 5 per il ritorno a Mosca. La Casa Bianca e l’Europa considerano l’annessione di Sebastopoli inammissibile e si apprestano a imporre sanzioni contro Mosca. Il Cremlino reagirà con analoghe misure, nel galateo inamidato delle ripicche diplomatiche, poi arriverà la sostanza: Putin si accontenta della Crimea o vuole nuove aree ucraine, gli basta una Kiev intimidita che resti a mezz’aria tra Bruxelles e Mosca, o la vuole di nuovo vassalla, come ai tempi del Pcus? La posta in gioco è storica, Vladimir Vladimirovich Putin si difende dall’espansione occidentale a Est o sogna un nuovo impero Urss? L’astuta condotta del Cremlino tiene in sospeso i rivali, a tratti persuasi che Putin voglia forzare la mano, altre che stia bluffando. Qual è la verità? A stare alla propaganda dei media russi «i fascisti» hanno conquistato Kiev, spalleggiati da americani ed europei, e la Crimea deve essere protetta da rappresaglie contro la popolazione amica di Mosca. La scusa per queste sciocchezze viene dal tentativo di abolire la lingua russa in Ucraina, subito bloccato dal presidente pro tempore Oleksandr Turchynov. Di scuse Putin ne troverà di nuove -ricordate la favola del Lupo e dell’Agnello?- e Kiev denuncia già scorrerie oltre il confine con morti. Se ci fosse un raid con vittime, una provocazione dei fascisti ucraini di Settore Destra, un attentato misterioso, Mosca potrebbe intervenire ancora. L’Europa e gli Stati Uniti sono perplessi. Davanti alla Crimea, da sempre legata a Mosca e solo nel 1954 ceduta all’allora repubblica sovietica dell’Ucraina, né il cauto Obama né la prudente signora Merkel, alzeranno il tiro, tanto più che gli americani sono, come la Teresa Batista del vecchio romanzo di Jorge Amado, «stanchi di guerra» e gli europei legati al petrolio e al gas russi (Svezia e Gran Bretagna pressano per sanzioni dure, Spagna e Italia per sanzioni wafer, la Germania media). Ma se Putin marciasse verso ovest e il confine Nato della Polonia, malgrado tutte le paure e le riluttanze occidentali, qualche cosa si romperà. Polonia e Svezia hanno scelto il riarmo, a Parigi e Londra si ripensa ai tagli al bilancio della Difesa, i Paesi baltici sono allarmati ed è forse prematuro, da noi, interrogarsi sull’abolizione dell’Aeronautica come ha fatto ieri la ministro della Difesa (dovremmo anche - per logica conseguenza tattica - abolire carri armati, artiglieria e, di conseguenza, le Forze armate: opinabile scelta in questo clima). La crisi è dunque in mano a Putin, se ordina l’escalation apre scenari imprevedibili. Ieri il presidente russo ha, come sempre, scelto l’ambiguità: al telefono con la Merkel ha ripetuto il suo sdegno per le minacce ucraine ai cittadini di origine russa, ma poi non s’è detto ostile a una mediazione Osce (l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), mentre il suo ministro Lavrov discuteva con il segretario di Stato Usa Kerry di «riforme costituzionali» a Kiev per risolvere lo stallo. Molti incoraggiano la cautela, ma occorre fare attenzione che Putin non legga la diplomazia come timore, e scateni la Fase II della sua «guerra speciale», occupare l’Ucraina con truppe mascherate da milizie locali. Per questo il quotidiano Washington Post, da sempre attento agli equilibri globali, propone ora una linea dura: le sanzioni e il blocco dei visti di viaggio vanno imposte non verso i pesci piccoli in Ucraina (come suggerisce anche la diplomazia italiana) ma direttamente contro «Gli oligarchi e mandarini del potere intorno a Putin… e tra loro Igor Sechin, presidente della compagnia petrolifera Rosneft, Vladimir Yakunin, presidente delle Ferrovie Russe, Alexei Miller, presidente di Gazprom (la grande compagnia del gas ndr). La Russia è governata da una cosca mafiosa. Se i boss non pagano pegno, le sanzioni occidentali avranno poco effetto». È un linguaggio insolito nel felpato mondo di Washington e non basta la nuova proprietà multimedia di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon a spiegarla. Il Washington Post indica al presidente Obama e agli europei il dilemma strategico: la strada della pace e della diplomazia passa stavolta da una linea forte, che tolga a Putin la voglia di attaccare ancora. Perché se Putin marciasse mai su Kiev anche il XXI secolo avrebbe la sua crisi di Cuba. Meglio non indurre il Cremlino in tentazione dunque, come ha fatto la Cina rompendo la tradizionale condotta filo-russa al Consiglio di Sicurezza Onu e astenendosi sulla condanna dell’invasione in Crimea. Pechino dice a Putin a suo modo «Fermati!», ora tocca agli occidentali farlo. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2014/03/17/cultura/opinioni/editoriali/il-rischio-che-lo-zar-rilanci-ShNaoCEqqNC7GtJwy5X62M/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Lo scambio tra Difesa ed Economia Inserito da: Admin - Marzo 29, 2014, 12:17:17 pm Editoriali
28/03/2014 Lo scambio tra Difesa ed Economia Gianni Riotta Se vi è ormai nota la percentuale del «3%» di Maastricht, camicia di forza che il premier Matteo Renzi prova ad allentare, imparatene una nuova, il «2% Nato». È la percentuale di Prodotto Interno Lordo dei Paesi dell’Alleanza Atlantica che i patti prevedono venga destinata alle spese militari. Gli americani fanno i generosi, con il 4,1% del Pil, gli europei i taccagni, in media solo l’1,6% Pil alla Difesa. La missione europea del presidente Barack Obama, nel mezzo della crisi ucraina seguita all’annessione della Crimea da parte di Vladimir Vladimirovich Putin, si condensa giusto nel brand «2%». Finite le cerimonie, i picchetti in alta uniforme, i palazzi scintillanti del Vecchio Continente, Obama ha detto in soldoni: «Fratelli, Putin è alle porte. Nessuna sa quando colpirà di nuovo dopo Cecenia, Georgia e Ucraina, forse tra Moldova e Transnistria dove ha già milizie. Se si muoverà, la Nato dovrà esser pronta e noi americani non possiamo pagare da soli». Il presidente Obama resta popolare in Europa, malgrado le incertezze su Siria, Iraq e Afghanistan e la prudenza nel riformare la raccolta dei metadati Nsa dopo le rivelazioni dell’ex agente Snowden ne abbiano appannato l’aureola. Ma l’offensiva di Putin costringe Casa Bianca e Unione Europea a ripensare il vecchio matrimonio senza amore. Obama non può solo dedicarsi al «pivot» verso la Cina, anche se nella sua prossima missione in Asia, in aprile, parlerà meno di Nato e più di frizioni Pechino-Giappone. Gli europei non possono più fingere di vivere nel 1962, con i Beatles, le minigonne a Carnaby Street, Kennedy a proteggere l’Occidente a Cuba. Chi fosse pessimista sul viaggio di Obama in Italia, rilegga però le cronache dopo la visita del presidente Richard Nixon a Roma, 27 febbraio 1969. Lo storico Guido Panvini ricostruisce quei giorni terribili, i militanti neofascisti e del Msi che ricordano la morte dello studente cecoslovacco Jan Palach e scrivono sui muri «W la visita di Nixon», (oggi molti dei loro eredi flirtano con Putin), mentre un corteo rivale di migliaia di giovani marcia verso l’Ambasciata Usa in via Veneto, con alla testa parlamentari del Partito Comunista e dello Psiup e striscioni contro «Nixon Boia», la «X» deformata in svastica. Scontri con la polizia, cariche, poi all’università lo studente anarchico pugliese Domenico Congedo cade da un cornicione e muore a 24 anni. Le proteste persuadono Nixon ad annullare la conferenza stampa a Roma. I distinguo di oggi scompaiono davanti alla violenza dei giorni di Guerra Fredda 1969: Obama definisce ora il presidente Napolitano «un amico», «uno statista», confidando di contar su di lui per la stabilità in Europa e in Italia. Altrettanto caloroso l’«endorsement», il sostegno che Obama offre a Renzi, lodandone «energia, ambizione, visione» e se in Italia «ambizione» è parolaccia, in America è virtù cardinale. Obama sa che l’Italia, con Austria e Cipro, è il Paese più cauto davanti alle sanzioni contro Putin, per l’interscambio economico che lega Roma a Mosca. Non chiede a Renzi di diventar falco come svedesi o come il ministro Sikorski in Polonia (nei discorsi da sindaco di Firenze, però, Renzi è molto «atlantico», rispetto a tanti nella sinistra). Gli chiede di restar fedele al ruolo italiano nella Nato, alleato fedele che conta poi su una mano di Washington nei giochi delle cancellerie europee, vedi entusiasmo per l’Expo 2015 di Sala. Obama mette le due cifre sul tavolo: se Renzi lavora al 2% sulla Difesa (senza obblighi sugli aerei F35 ma senza smobilitare le Forze Armate), lui lo copre con la Merkel sul 3% Maastricht. Può non bastare all’austera Cancelliera, ma meglio di niente. La Nato, Obama non ne fa mistero quando i reporter queruli si allontanano, non è in forma. Mentre Nixon e i parlamentari del Pci si fronteggiavano a Roma 1969, gli americani avevano in Europa 400.000 soldati. Oggi 67.000. Allora erano pronti al decollo 800 aerei militari Usa, adesso ne son rimasti 172, comprese 12 innocue cisterne volanti e 30 aerei cargo. La Marina aveva 40.000 uomini in Europa, per una flotta guidata da maestose portaerei. Sono rimasti in 7000 e non ci sono più portaerei a stelle e strisce di stanza nel Mediterraneo. Gli alleati han fatto di peggio, Londra ha sotto le armi 82.000 uomini, meno, osserva il New York Times citando l’ex capo di Stato Maggiore Dannatt, di quanti ne avesse Lord Wellington ai tempi della battaglia di Waterloo, 1815. Parigi taglia la Difesa a ogni finanziaria. La scommessa euro-americana su pace e status quo è dunque travolta dall’impeto di Putin, lamenta in un amaro editoriale l’ex ambasciatore Usa a Mosca McFaul http://goo.gl/uM00a6 . Ma, nota il professor Schindler del War College della Marina, il mea culpa di McFaul suscita a Mosca l’orgogliosa reazione di Vyacheslav Nikonov, sul giornale del Cremlino Rossiyskaya Gazeta: «La Russia ha vinto – scrive Nikonov - perché l’America è odiata, l’Europa dipende da noi, i Paesi emergenti detestano Washington, Cina e India ci sono amici e noi russi agiamo sul serio, gli americani no. La genealogia rende l’articolo (in versione russa http://goo.gl/EB6A3e) ancor più sprezzante, Nikonov è il nipote del ministro stalinista Molotov, autore del patto con il nazista Ribbentrop. Il dilemma strategico per americani ed europei resta oscuro, il Pentagono esclude ogni pressione militare su Mosca per l’Ucraina ma le sanzioni non funzioneranno subito, «Ogni ragazzo moscovita perbene – scrive Nikonov - ambisce a stare nella lista nera della Casa Bianca». La prossima mossa Usa-Ue andrà dunque ben ponderata. Oggi per Obama, la difficile tappa in Arabia Saudita, alleata dal 1933 con le prime trivellazioni Aramco, che contesta gli stop and go in Siria, Iran, Medio Oriente. Quanto al colloquio con il Papa, un osservatore attento dice «Obama ha apprezzato il Santo Padre, il Vaticano è più cauto. Obama parla di povertà nel mondo, il Segretario di Stato Parolin critica la riforma sanitaria e la politica familiare dei democratici». Ieri Obama ha chiuso la missione a Roma al Colosseo con il ministro Franceschini, senza blindarsi come Nixon 1969. Ma se Usa e Ue non vogliono dar ragione al nipotino di Molotov «la Russia ha vinto!», il lavoro davanti resta lungo, i sacrifici ardui, non come i comunicati al giulebbe. Twitter@riotta Da - http://lastampa.it/2014/03/28/cultura/opinioni/editoriali/lo-scambio-tra-difesa-ed-economia-6ISOhH6pSEgTAYjeZMVuHP/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Se la Cina sorpassa un’America distratta Inserito da: Admin - Maggio 01, 2014, 07:37:33 pm Editoriali
01/05/2014 Se la Cina sorpassa un’America distratta Gianni Riotta Thomas Polgar, ultimo capo della Cia a Saigon e uno degli ultimi americani a lasciare la capitale del Vietnam nei giorni della disfatta 1975, scomparso da poche settimane a 91 anni, amava dire: «Abbiamo perso la guerra in Vietnam per il golpe in Cile e la guerra del Kippur». A chi chiedeva stupito, come un colpo di Stato in America Latina e una guerra in Medio Oriente del 1973, avessero innescato una sconfitta nel Sud-Est asiatico, Polgar spiegava tranquillo che il Congresso, furioso per l’appoggio della Cia e del segretario di Stato Kissinger al golpe di Pinochet, non concedeva più spazi di manovra, civili o militari, al Vietnam, e che l’impegno economico per sostenere Israele dopo il Kippur, nel pieno della crisi energetica del petrolio, impedì ogni resistenza in Vietnam. Avesse torto o ragione su Saigon, il metodo della vecchia spia Polgar è spesso utile. Fatti lontani nel presente, si rivelano cruciali causa ed effetto nella storia. Noi viviamo giorni storici, il mondo che ne nasce sarà diverso da quel che immaginiamo. Ma dobbiamo almeno provare a cercare i nessi decisivi. La classe dirigente tedesca, per esempio, resta filo Putin, persuasa che l’interesse energetico a breve cancelli ogni preoccupazione strategica: e, a stare ai dispacci diplomatici, la cancelliera Merkel avrebbe persuaso il nostro governo a questa linea «morbida», corroborata sembra dall’interpretazione delle fonti russe sulla telefonata tra il leader del Cremlino e il nostro primo ministro Renzi. Come è cambiato il mondo! Milizie filorusse organizzate da Mosca in Ucraina orientale (quelli del passamontagna per capirci) sequestrano i sei osservatori Osce di un team tedesco, si rifiutano di trattare con il ministro degli Esteri di Berlino Steinmeier con tale protervia da venirne definiti «disgustosi». Infine però Berlino porge l’altra guancia: e, badate, le fonti confermano che l’ex ragazza della Germania Est, Angela Merkel, è la più dura del Paese, industria e finanza, guidate dall’ex cancelliere socialista Schroeder lobbysta di Putin, accetta che la Russia, dopo porzioni di Georgia e Crimea, ingoi anche l’Ucraina, purché l’Ebitda non ne risenta. Cosa può fare allora il presidente Obama? Poco. La spaccatura Usa-Ue, che la guerra in Iraq del 2003 non provocò, ma solo aggravò, è compiuta, e in poche ore il leader della Casa Bianca legge sui bollettini che la Cina è prossima al sorpasso economico 2014 su Washington, con gli Stati Uniti che perdono la testa del pianeta per la prima volta dal 1872, quando alla Casa Bianca venne rieletto il generale Grant. Non basta: i dati sul Pil, malgrado le scuse sul pessimo inverno, parlano di una crescita «all’italiana» 0,1%, sotto le pur mediocri previsioni Federal Reserve 1,1%. Peggio, un sondaggio del quotidiano finanziario «Wall Street Journal» stima che la metà degli americani, 47%, è stufa e stanca di intervenire nel mondo, e vuole la Casa Bianca concentrata sull’occupazione. America isolazionista come negli Anni Trenta? Le sfortunate guerre in Afghanistan e Iraq, costate miliardi di dollari e migliaia di vite umane, hanno disgustato gli americani, eppure la maggioranza dei cittadini ritiene «troppo prudente» Obama in Ucraina, mentre il 53% boccia la sua intera politica estera e il 58 l’economica. Lo studioso conservatore Max Boot nota il paradosso: l’America non vuole impicciarsi con il mondo, ma non approva la politica estera di un presidente che se ne impiccia pochissimo. Che succede? Succede che i nessi vanno ricercati lontano, abbiamo dimenticato che il presidente Roosevelt non riuscì a far dichiarare guerra al Congresso prima di Pearl Harbor, e anche dopo l’attacco giapponese il Parlamento nicchiò ad attaccare Italia e Germania, che fecero da sole l’errore di affrontare lo Zio Sam. Gli europei non capiscono che, in un mondo instabile, i commerci rischiano, gli americani non comprendono come leadership economica, politica e morale sono integrate, non si può essere Paese numero 1 in un solo ambito. La classe media Usa, a lungo la più benestante, è sorpassata dai canadesi, perde ricchezza e status; le infrastrutture Usa, strade, ponti, edifici pubblici, comunicazioni, sono bocciate una per una, «da terzo mondo» dal devastante rapporto «Financial Times». Ma chi ha in America la forza di proporre un piano di lavori pubblici, scuole migliori, Difesa high tech e senza sprechi, tagliando i sussidi a industrie obsolete? Provateci e la sconfitta elettorale è certa. Dunque il mondo, in giorni di storici eventi che non fanno titoloni sui siti web, non vede i nodi che il futuro considererà con acribia. L’America crede di poter essere leader senza sacrifici; Putin si illude di potere entrare in tutta l’Ucraina, non capendo che la sua crescente aggressività ha già svegliato polacchi, svedesi e baltici e domani sveglierà gli altri europei; la Cina è, per ora, vincitrice della «guerra speciale» in Ucraina, con Casa Bianca e Cremlino in gara per corteggiarla, mentre gode dei comunicati «Numeri 1 economici!», ma ci vorranno al ritmo attuale decenni, prima che la classe media cinese abbia il tenore di vita europeo o americano, il disastro demografico rallenta la corsa, crescono in piazza e sul web malumori politici e sociali. Siamo un mondo di miopi, grandi e piccoli. La lezione di Polgar brilla adesso con il Vietnam, che temendo l’invadenza cinese, si avvicina ai vecchi nemici del 1975, gli americani. Per dieci anni Washington ha perduto partner per eccesso di aggressività. Putin in Ucraina e i cinesi nelle isole Sankaku-Diaoyu chiariscono a tanti (forse perfino agli europei a un certo punto) che forse è comunque meglio esser amici degli americani nel duro XXI secolo. E gli americani intanto cantano «Che mi importa del mondo…». Povero Polgar: riposi in pace! Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2014/05/01/cultura/opinioni/editoriali/se-la-cina-sorpassa-unamerica-distratta-bRbOPXKDSEefNNS5ciEraK/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Le zone franche dove lo Stato non comanda Inserito da: Admin - Maggio 05, 2014, 11:50:18 pm Editoriali
05/05/2014 Le zone franche dove lo Stato non comanda Gianni Riotta Provate ad immaginare lo Yankee Stadium di New York circondato da sparatorie, con pistolettate e feriti lungo le Avenues. Considerate lo stadio Stamford Bridge di Londra, casa del Chelsea, ostaggio di un avanzo di galera, imparentato con la mafia, detto Genny The Scum, che discute con i garbati bobbies, i poliziotti, e il capitano dei Blues da pari a pari. Completate il viaggio nell’Impossibile con l’Allianz Arena di Monaco, l’elegante struttura disegnata dagli architetti Herzog&deMeuron, assordata dall’esplodere di bombe carta ed ordigni così potenti da far piangere, terrorizzata, la bambina della Cancelliera tedesca: fuori la capitale bavarese preda della guerriglia urbana. Spiace ammettere subito che nessuna delle situazioni descritte è lontanamente possibile nella realtà, in America, Gran Bretagna, Germania. Paesi che hanno profondi problemi sociali, ma in cui lo sport non può finire in mano a racket violenti perché mai lo Stato cederebbe all’anarchia spazi pubblici. Capire come invece noi italiani ci siamo ridotti così è stilare una diagnosi che ci porta subito lontani dal calcio-sport, 4-4-2, falso 9 centravanti, ripartenze di fascia, gioco che milioni di tifosi perbene adorano, «la cosa più importante tra le non importanti» nella definizione del mister Arrigo Sacchi. La Repubblica italiana ha progressivamente ceduto il controllo di territori nazionali, il potere, a minoranze faziose, organizzate, estremisti politici, ultras del calcio, criminalità organizzata, devianze e soggetti eversivi. Citare insieme questi usurpatori del diritto di controllo sociale non significa pensare che No Tav violenti, Commandos della Serie A, Clan camorristi, gang di quartieri, siano la stessa cosa, abbiamo gli stessi obiettivi o siano pericolosi alla pari, come i soliti faziosi insinuano online. Malgrado i rapporti di Polizia, Carabinieri, gli studi di sociologia e le cronache dei reporter testimonino di larghe aree di convivenza tra i settori illegali – e il signor Gennaro De Tommaso, corpulento ultras detto Genny a’ carogna, figlio di un camorrista, condannato e bandito dagli stadi ne è prova vivente - le violenze pubbliche hanno motivi, strategie e radici diverse. Quel che le unisce però, ed è il veleno che la Repubblica dovrebbe combattere, temere e neutralizzare, è il monopolio della violenza nei territori che presidiano, siano quartieri, valli, impianti sportivi, porti, traffici, commerci. Il cardine di una democrazia è la delega dell’uso della forza alla comunità e «the rule of law», la legge, in vigore sull’intero Paese, senza nessuna franchigia, zona franca, dove il diritto non si possa applicare, come capitava nei periodi bui del Medio Evo, nella Cina dei Signori della Guerra, nel Far West americano. Davanti alle autorità, dal presidente del Consiglio tifoso della Fiorentina, alla seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Grasso che festeggiava nel cuore la promozione del suo Palermo, i violenti, dentro e fuori lo stadio Olimpico, fischiando l’inno nazionale, fermando la partita, bloccando la Capitale, hanno provato che la Repubblica non è più, ovunque, sovrana. Questo è un pericolo così drammatico, vera emergenza nazionale, che ci si aspetterebbe dalla politica, e dalle istituzioni, uno scatto unito, per una volta, per dire «Basta!». Le forze dell’ordine hanno da tempo proposte, in parte di repressione in parte di bonifica sociale, per contrastare la rivolta ultras. Bene ha fatto il premier Renzi a chiamare la signora Raciti, vedova di un funzionario dello Stato ucciso mentre faceva il suo dovere da un ultras, a Catania, che sconta pochi anni di pena mentre i suoi sodali lo elogiano dalle telecamere. Ma i leader politici per troppo tempo hanno offerto totali, o parziali, giustificazioni ai violenti, e oggi non hanno credibilità. Sentire online chi parla del doloroso caso del giovane Aldrovandi, per coprire i violenti, è sintomo di una comunità dispersa. Se la violenza è commessa da studenti autonomi, contadini anti Europa, tifosi arrabbiati, estremisti anti sindacato, abusivi di ogni risma, c’è sempre in parlamento un drappello di deputati pronti a dire «ben altri sono i problemi, la violenza va compresa». No, va repressa. E poi vanno recise le eventuali ragioni di ingiustizia che l’hanno prodotta. Ma provare a blandire la piazza per una manciata di voti è grave. Spiace dunque che ieri, nel condannare il caso Olimpico con toni per una volta misurati, il leader del movimento di opposizione più forte, Beppe Grillo fondatore del M5S, non abbia saputo resistere all’insulto elettorale contro Renzi. Piccolezze che indeboliscono la reazione alla violenza e indeboliscono lo Stato. Grillo ha ormai un potere grande nella Repubblica: deve gestirlo con responsabilità, o finirà travolto come capita sempre agli Apprendisti Stregoni. Chi ha vissuto gli Anni di piombo seguiti al 1969 sa che la violenza, una volta accesa la miccia, brucia senza quartiere. La crisi economica da cui l’Italia non sa uscire lascia milioni di giovani disoccupati a vita, senza speranze, valori, indicazioni. Nelle periferie, soprattutto al Sud, arruolarsi nella criminalità è spesso il solo cursus honorum. Qualche intellettuale blatera ancora di «decrescita felice», ma questo è il volto della decrescita, la trasformazione di ragazzi in gamba in plebei pronti ad arruolarsi per una mancia, generazione sfortunata relegata al ruolo di Lazzari senza arte e destino. È questo che vogliamo per i nostri figli più deboli? Che andare in piazza con casco, spranghe, fumogeni, ordigni, pistole sia la loro università e Genny ’a carogna il leader di riferimento? twitter @riotta da - http://lastampa.it/2014/05/05/cultura/opinioni/editoriali/le-zone-franche-dove-lo-stato-non-comanda-FGmnwW66QiVvfk7ifWD6IK/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Non votare contro il futuro Inserito da: Admin - Maggio 22, 2014, 05:40:30 pm Editoriali
21/05/2014 Non votare contro il futuro Gianni Riotta Con ventisei milioni di cittadini senza lavoro, la disoccupazione è epidemica in Europa: eppure, senza Europa, i disoccupati cresceranno, non diminuiranno. Con il Parlamento europeo a legiferare senza sosta per regolare – o almeno provare a goffamente regolare - tecnologie, innovazione, ricerca scientifica, l’Europa perde colpi davanti a Silicon Valley e Bangalore nel software: eppure senza Europa nessuna azienda o laboratorio Ue avrebbe peso nel mondo, e il CERN – culla del bosone di Higgs e del world wide web - chiuderebbe i battenti. I parlamentari che eleggeremo il 25 maggio, riottosi, populisti e in vena di protezionismi economici e culturali, vogliono bocciare, malauguratamente, il patto di libero scambio con gli Usa: eppure senza Europa nessuna capitale del vecchio continente avrà peso specifico trattando con Washington. Fa disperare la pavidità con cui Bruxelles fronteggia l’aggressività di Putin, fino ai pasticcini offerti da Lady Ashton al ministro degli Esteri russo Lavrov mentre in Ucraina si moriva in strada: eppure senza Europa il Cremlino non avrà rivali tra la Moscova e il Potomac, fiume della capitale americana. È il paradosso delle VIII elezioni europee dal 1979: l’Ue genera talmente tanti problemi che il 50% dei cittadini ne diffida, meno della metà andrà alle urne e un terzo degli elettori sceglierà simboli anti Unione, destra o sinistra, Le Pen a Parigi, Farage a Londra, Grillo a Roma, Alba Dorata o Tsipras ad Atene. 380 milioni di elettori, il secondo corpo democratico del pianeta Terra dopo l’India, l’Europa è accusata – e spesso colpevole - di colpe gravi, che però il ritorno a Stati nazionali e valute locali, moltiplicherà, non sanerà. Riflettano le lettrici e i lettori infuriati con Bruxelles e l’euro: le lagnanze che mugugniamo all’ombra della bandiera blu a stelle d’oro sono le stesse che hanno portato alla vittoria in India il nazionalista hindu Modi, in America azzittiscono il dialogo tra Congresso e Casa Bianca, e che così bene Vladimir Vladimirovich Putin strumentalizza a Mosca. Mal comune, non solo dell’Europa comune. L’Europa esaspera, vero. Berlino combatte fantasmi dell’inflazione alla Weimar, invisibili ormai come la ballata del Mackie Messer 1928, predicando l’impossibile sermone «tutti i Paesi possono essere esportatori sul modello teutonico». Italia e Francia non riescono a completare le riforme e contenere il debito. Spagna e Grecia, dopo i disastri, colgono i benefici tardivi della svolta. Una pletora di burocrati e tecnocrati grigi ci stucca e tre candidati leader, Juncker, Schulz e Verhofstadt, sembrano a volte la caricatura populista del «Solito Politico». Ma – è questa la posta in gioco - se il 25 maggio prevarranno le forze della disunione, della frammentazione nazionalistica, con veti e dazi a bloccare emigrazione, commerci, mercato, nella nuova Europa, tra i canti di vittoria Cinque Stelle, Ukip e Fronte Nazionale, vivremo peggio, non meglio. Quando l’ultima diaspora antieuropea travolgerà le speranze, magari solo i sogni, di quella che «La Stampa» ha definito Generazione Erasmus, i ragazzi che studiano all’estero, prima leva davvero «europea» nella nostra storia recente, non avremo il ritorno all’armonia, con artigiani operosi da villaggio delle fiabe, l’Europa «all’antica» cara alla propaganda anti-Ue: avremo una «generazione Hobbes», europei lupi tra loro. Non ci faremo subito la guerra, anche se le tensioni nei Balcani, in Ungheria, al confine tra Polonia e Ucraina, o al Nord tra scandinavi, baltici e russi, sono serie, ma ciascuno darà il peggio di sé, tedeschi a farla da padroni, inglesi chiusi oltre Manica come il vecchio John Bull, europei dell’Est ripresi dai rancori che hanno insanguinato il XX secolo, noi latini sedotti dalla droga svalutazione e debito facili, a sostenere mediocri prodotti da esportazione. E l’italiano Mario Draghi, che giusto sulla linea ha salvato l’euro, sarà sommerso di autogol. Non ascoltate dunque Gatti e Volpi populiste. I nostri guai sono i guai del tempo, globalizzazione che marginalizza, tecnologia che elimina ceti medi e operai, flussi migratori che non sappiamo qualificare o formare, incertezza sul futuro che ci ha tolto le identità, pur dolorose, di nonni e genitori. Non è detto – il lieto fine era scontato in tv solo prima di Troni di Spade, mai nella Storia - che l’Europa riesca a uscire libera, unita e prospera dalla crisi politica, economica e morale di questa stagione. Ma se la «Generazione Hobbes» prevarrà sulla «Generazione Erasmus», se i populisti prevarranno alle urne, è detto che lo spirito europeo declinerà. I leader hanno perso il diritto di criminalizzare gli elettori che sceglieranno, disgustati da inerzia e corruzione, le sigle di un Ritorno al Passato camuffate da Futuro. Non erano forse intonati a «Avvenire» e «Giovinezza» gli inni totalitari di destra e sinistra un secolo or sono? Ma chi vota contro il futuro, prepara a se stesso, e a tutti noi, un futuro buio. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2014/05/21/cultura/opinioni/editoriali/non-votare-contro-il-futuro-HbRE6MA4qdMj9Uq4ybvr0K/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Angela e Matteo contro Le Pen e Putin Inserito da: Admin - Maggio 28, 2014, 11:13:24 pm Editoriali
28/05/2014 Angela e Matteo contro Le Pen e Putin Gianni Riotta Le due Europe, l’Europa dei populisti intenti a disfare l’Ue, e l’Europa che dovrà contrastarli, guidata dalla strana coppia Merkel-Renzi, non fanno in tempo a chiudere con i commenti tv e twitter che da Est si alza, acre, il fumo dei combattimenti. Si muore a Donetsk, in Ucraina, dove durante la II Guerra Mondiale - si chiamava allora Stalino - si batterono divisione Celere, Lancieri di Novara e Savoia Cavalleria. Si parla di oltre 50 morti tra i separatisti filorussi, ma Alexandr Borodai, premier della secessionista Repubblica Popolare del Donetsk rilancia: «Le nostre perdite sono gravi, ma i lealisti han più morti». La Storia non concede tregue. Chi si illudeva che il nuovo Parlamento - dove gli ostili alla vecchia Europa, Farange, Le Pen, Grillo, hanno un quinto dei seggi - avesse tempo per show contro il patto commerciale Usa-Ue, rilancio dei dazi e stucchevoli manfrine per eleggere il solito Juncker, sbatte subito nella guerra ai confini dell’Unione, terra di Gogol, Bulgakov, Grossman, autori europei. A colloquio con il premier Renzi, il presidente russo Vladimir Vladimirovich Putin ha fatto il primo commento sulla battaglia di Donetsk, intimando al neo presidente ucraino, Petro Poroshenko, di fermare l’offensiva contro i ribelli. Putin arma, organizza, gestisce le rivolte nell’Est ucraino, persuaso fossero una passeggiata, bande, divise da parà, retorica «antinazista», come l’annessione della Crimea. Ma ha sbagliato i conti. Le sue milizie son restie a combattere se si spara davvero e la repressione di Kiev, vicino casa, meno inefficace. L’incapacità americana, europea e Onu di dire no a Putin, spacciata dai profeti dello status quo per «realismo davanti agli interessi russi e ai bisogni energetici europei», spesso in cambio, vedi l’ex cancelliere tedesco Schroeder, di pingui sovvenzioni Gazprom, si rivela per quel che è sempre stata, disfattismo inerte, che rinfocola la guerra in Europa, semina la zizzania del terrorismo, mettendo a rischio l’approvvigionamento del gas. La Cina ha ben colto la fragilità di Putin, il cui fronte di attacco è troppo esteso, e gli ha imposto un contratto capestro sul gas, sancendo che Pechino conta più di Mosca. Solo, ahinoi, in Italia, la lettura del patto è opposta, vuoi per interessi o subalternità al Cremlino. La battaglia di Donetsk cancella ogni ipocrisia. Putin ha nel nuovo parlamento europeo amici, alleati, manutengoli. Il trattato commerciale Europa-America, che Mosca detesta, è avversato dai populisti, soprattutto francesi e italiani. I toni xenofobi, anti emigrazione ed Islam diffusi dal governo in Russia, sono comuni agli estremisti Ue. Marine Le Pen del Fronte Nazionale francese, Nigel Farage dell’Ukip britannico e Heinz-Christian Strache del Partito della Libertà austriaco hanno difeso l’invasione russa in Crimea. Il «Patto Le Pen-Putin» sogna un continente chiuso all’innovazione; Asia, America, Africa e globalizzazione nemici; il passato come trincea nostalgica, l’ex impero sovietico e un’Europa Strapaese, «sangue e zolla» si diceva un tempo. Con il premier inglese Cameron e il presidente francese Hollande azzoppati alle urne, tocca inaspettatamente alla Cancelliera Angela Merkel e al Presidente Matteo Renzi difendere la libertà economica, la pace sociale e l’indipendenza in Europa. La Germania è filorussa al midollo, la Confindustria tedesca lancia proclami pro Putin, l’ex cancelliere socialdemocratico Schmidt slogan di antiamericanismo duro. Ma la Merkel, memore della gioventù in Germania Est, ha tenuto una dignitosa linea autonoma, senza cadere in grotteschi bellicismi, senza seguire il presidente Obama ciecamente, ma senza svendere la dignità europea per un metro cubo di gas. I Paesi critici con Putin, Polonia, i Baltici, la Gran Bretagna, guardano preoccupati alla mediazione con Berlino, cui, da sempre, l’Italia fa da contrappeso negativo ponendo il veto alle misure contro Mosca. Renzi ha ribadito che l’Italia è un Paese fondatore dell’Unione, cui il risultato elettorale assegna il compito di leader alla vigilia del semestre di guida Ue. Vero. Un leader però non guarda solo all’interesse meschino di parte, uggiolando con la coda tra le gambe in attesa della ciotola. Un leader guida. Matteo Renzi può guidare l’Ue d’intesa con la signora Merkel, senza mettere a rischio gli interessi nazionali italiani - dopo il diktat cinese, l’Europa è il solo cliente per il gas russo, Putin ha perso l’arma delle sanzioni - ma eliminando la dialettica negativa «Filorussi-Antirussi». Può spingere, tarati bene i dettagli, la firma del patto economico Usa-Ue, può forzare Poroshenko a chiudere l’escalation e fronteggiare corruzione e neonazisti, ma al tempo stesso chiarire a Putin che non può insinuarsi nelle divisioni dell’Europa democratica e deve fermarsi. Poi si possono trattare neutralità, convivenza e sussidi per l’Ucraina, rassicurando i popoli confinanti. L’audacia nelle primarie Pd, nella staffetta di governo, in Parlamento e alle elezioni europee, ha dato a Renzi un 40% che la Dc ottenne solo nel 1948 e 1958, costruendo su quei successi due generazioni di governo. Un’Italia non più «filorussa ad ogni costo», un’Italia «europea», capace di dar forza e consiglio alla Germania, farebbe di Renzi qualcosa di più di un brillante leader di partito e promettente premier, gli indicherebbe la strada verso una condotta da statista europeo. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2014/05/28/cultura/opinioni/editoriali/angela-e-matteo-contro-le-pen-e-putin-PoyC85yb8KEoEzYp7Gju7O/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Cercando una nuova Alleanza atlantica Inserito da: Admin - Giugno 04, 2014, 12:29:31 pm Editoriali
04/06/2014 Cercando una nuova Alleanza atlantica Gianni Riotta Qual è il vero Obama? Il presidente cauto che si vanta all’Accademia di West Point, «è vero abbiamo il miglior martello del mondo», la Difesa americana, «ma non ogni problema è un chiodo», ricordando che al suo ingresso alla Casa Bianca nel 2009 c’erano 180.000 militari Usa in Iraq e Afghanistan, mentre ce ne saranno solo 10.000, intorno a Kabul, nel 2015? O il Presidente muscolare che atterra in Polonia, parla subito ai militari schierati sulla pista e annuncia di voler chiedere al Congresso 750 milioni di euro per dislocare più truppe a rotazione in Europa centrale e orientale, cuscinetto contro l’aggressività russa in Ucraina? Se lo chiedono in queste ore i leader europei, che Obama incontrerà in un rispolverato G7 senza Vladimir Vladimirovic Putin, punito per l’annessione della Crimea. Si interroga anche l’opinione pubblica americana, spesso sconcertata dall’amletico presidente, Premio Nobel per la Pace ma durissimo nell’uso dei droni killer contro i terroristi, certo che la nuova frontiera fosse il Pacifico e il partner-rivale la Cina, almeno finché Putin non ha riacceso i fuochi all’antico confine cosacco, persuaso che fosse la cyberguerra dei cinesi il nuovo allarme e non più il terrorismo, salvo poi riparlare di Al Qaeda pericolo N. 1. L’Obama marziale che impone l’ultimatum ad Assad in Siria, o lo studioso cerebrale che fa marcia indietro davanti alle rimostranze di Congresso e Papa? Una condotta ondivaga che, insieme agli alleati, sembra star però confondendo anche il Cremlino. Putin sarà alla celebrazione dello sbarco in Normandia, in nome dell’alleanza tra democrazie e Stalin. Ha alle spalle l’ambiguo patto energetico con la Cina, che gli fa pesare la forza nel XXI secolo, e la promessa di un miliardo e mezzo di euro in aiuti alla Bielorussia con un pacchetto da approvare, altrettanto pingue, al Kazakistan pur di stabilizzare le aree dell’ex Urss contro le sirene filo europee. Ma il gioco che ha funzionato in Georgia e Crimea non funziona in Ucraina, le elezioni si sono svolte regolarmente eleggendo il presidente Poroshenko e le milizie infiltrate dall’intelligence russa, anche dalla Cecenia, sono efficaci nelle provocazioni, pavide se c’è da battersi. Obama leader irresoluto darà ai polacchi ragione per essere nervosi, senza più fondi e uomini e mezzi subito ma solo promesse, mentre i russi insisteranno nel bluff militarista. Ma se Obama è l’uomo che sulla lotta al terrore ha parlato di pace preparando la guerra, e sull’espansione cinese ai confini del Vietnam e del Giappone lavora a una coalizione asiatica, il quadro cambia, Putin va sulla difensiva. Domani Mario Draghi alla Bce potrebbe fare esattamente il contrario di quanto ci si aspetta dalla sua collega Yellen, rilassando l’austerità, per incoraggiare l’economia del vecchio continente davanti allo spettro della deflazione, tagliando il costo del denaro e imponendo tassi negativi sui depositi inerti delle banche. Il patto economico atlantico Bruxelles-Washington non decollerà a breve, stoppato dall’affermazione dei partiti che lo osteggiano alle recenti elezioni europee. Eppure a 70 anni dall’inizio della fine di Hitler e a 25 dalla caduta del Muro di Berlino, americani ed europei, senza chewing gum e boogie woogie come nel 1944, senza spumante a pioggia sulla cortina di ferro che aveva diviso l’Europa da Danzica a Trieste come nel 1989, devono fronteggiare nuove sfide comuni, ben più radicali di dazi sulle bistecche, divergenze sugli Ogm, metadata Nsa. Chi comanderà nel XXI secolo? La Cina e i suoi satelliti? Putin e un’Urss con il petrolio al posto di falce e martello? L’Onu esangue? Un’Europa senza difesa e divisa in diplomazia ed economia? L’America stanca di guerra dopo Baghdad e Kabul? Paradossalmente più, da Washington al Middle West, prevale negli Usa l’umore di lasciare il pianeta – che lo Zio Sam considera ingrato – ai suoi guai senza «martellare ogni chiodo», più chi si sente nudo davanti alle nuove potenze riscopre Old Glory, la bandiera a stelle e strisce, perfino ex nemici come il Vietnam e il Giappone. Che farà l’Europa? Darà voce a chi teme Putin, svedesi, polacchi, baltici, inglesi, o a chi cerca sconti sul gas, spagnoli, greci, l’armata filorussa Le Pen-Farange? Obama sa che la chiave sta nella strana coppia che ha vinto le elezioni Ue, la cancelliera Merkel e il premier Renzi. Dall’intesa o dal dissenso di questi tre leader, inaspettatamente al centro del ring, amici e nemici capiranno di che pasta è fatta l’alleanza atlantica 2014. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2014/06/04/cultura/opinioni/editoriali/cercando-una-nuova-alleanza-atlantica-hTFi23qVovhSvjZKwABvdI/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA Dai Racconti di Canterbury al “longread” Se il web ora scopre... Inserito da: Admin - Giugno 10, 2014, 11:10:35 am Società
08/06/2014 - Dai Racconti di Canterbury al “longread” Se il web ora scopre la lettura lunga Gianni Riotta New York Nei «Racconti di Canterbury», classico inglese del XIV secolo, Geoffrey Chaucer racconta i disastri del quinto marito della Donna di Bath, che lei vorrebbe sempre sedurre a letto e che invece si rintana nella protettiva lettura di un libro. Anche lo scrittore Italo Calvino, ne «Gli amori difficili» scrive de «L’avventura di un Lettore», sempre distratto dalla sua amata lettura. E nell’affascinante serie tv «Ai confini della realtà» (Twilight Zone), come dimenticare la storia del povero impiegato che non riesce mai a trovare il tempo per leggere e che la fine del mondo illude finalmente di riuscirci? La lotta per leggere in pace sembra una costante nella nostra vita e oggi spesso, invece, i critici del web, e ce ne sono di seri, imputano alla Rete l’eccesso di rapidità, l’illusione che a volo d’uccello si possa leggere e informarsi, magari con i 140 caratteri contenuti in un tweet o nel flash delle poche parole e immagini consentite in un Vine, senza l’impegno dei lettori di Chaucer e Calvino. L’accusa ha del vero, quando calcoliamo il tempo che gli utenti trascorrono in Rete su una singola voce, un giornale online, una photo gallery, siamo spesso sorpresi dalla velocità del consumo e dalla rapidità effimera con cui si passa da un tema all’altro. I giornali quotidiani riservano ancora alla homepage del loro sito la stessa cura amorosa che in chiusura dei quotidiani, nelle vecchie tipografie odorose di inchiostri e piombo fuso, si dedicava all’ultima edizione della prima pagina. Purtroppo i lettori arrivano quasi sempre non dalla homepage, ma dai motori di ricerca e dai social media, tanti click (ne scriverà in una prossima inchiesta il Wall Street Journal) sono ignari, - leggo un articolo de L’Eco di Peretola online, ma non so neppure cosa sia la testata, sono arrivato solo grazie a una search su Google -, oppure comprati alle grandi aste semiclandestine dei contatti (tema caldo, occhio!). Ma davvero il web incoraggia la superficialità? Davvero costringe la nostra mente a spasmi frenetici nella banalità? Il tema non è frivolo e va discusso a fondo. La prima obiezione che potrebbe avanzarsi è che «breve» non è mai sinonimo di «sciocco». I dieci Comandamenti della Bibbia occupano a stento tre tweet e sono riproducibili in tre Vines, eppure la saggezza e il diritto della civiltà occidentale poggia su quei due tweet e mezzo. Anche la tradizione orientale usa haiku e aforismi, il poeta greco Callimaco, lavorando alla Biblioteca di Alessandria, ci ammoniva «I libri lunghi sono lagne», Cicerone elogiava la «concinnitas», armonia del discorso senza dilungarsi. «Breve» non è dunque «sciocco», ma la vera, finale, obiezione è che online un tweet, un post di poche righe su Google o un blog, è solo la chiave che apre una biblioteca, e così il saggio cardinale Carlo Maria Martini considerava Internet, biblioteca del sapere a tutti aperta, che occorre imparare a compulsare con lo studio. Qui si afferma la fortuna del genere che il gergo web definisce «longform», «longread», articoli e saggi lunghi, un tempo soprannominati ironicamente «articolesse». Guardate il sito Arts and Letters Daily, www.aldaily.com, forse uno dei più interessanti online, un’attenta selezione dei migliori saggi dalle autorevoli riviste di cultura in lingua inglese. Seguendo giorno per giorno Aldaily avete accesso alla conversazione degli intellettuali, con i suoi tic e tabù, come sedendo in un salotto illuminista dei XVIII secolo: ne apprezzate la ricerca colta, ridete agli eccessi di narcisismo. La rivista The Atlantic svolge la stessa funzione con il sito longreads.com , antologizzando i testi impegnativi per i propri utenti, mentre il quotidiano inglese The Guardian mobilita insieme i giornalisti, i lettori e robot guidati da algoritmi per l’esperimento (dall’alterna fortuna, a mio avviso) che segnala quali articoli lunghi siano i più seguiti online. Il genere dilaga, Daily Beast ha i suoi «long read», ogni testata raccoglie il meglio – vero o presunto - della propria produzione. Se dunque online la lettura di testi non sincopati è di moda, se un tweet può solo essere la chiave che apre la Biblioteca di Babele del sapere universale l’ultima domanda da farsi prima di registrare il successo del longread è: dove mai, nella frenetica sarabanda delle nostre giornate, lavoro, famiglia, trasporti, burocrazie, troviamo il tempo per leggere pagine e pagine di testo? La risposta sta nei tablet, da Samsung a iPad e nei nuovi smartphone a schermo grande, che permettono di leggere con comodità e senza aguzzare la vista sui tram, in auto, in aereo, nella pausa pasto, non appena ci tocchi un momento di quiete. Quante volte vi capitava di ritrovarvi nella sala d’attesa di un ambulatorio, fuori dal colloquio con i professori dei figli, bloccati in coda a uno sportello alle Poste o alle Ferrovie? Senza un libro, senza una rivista a portata di mano sfogliavate annoiati i fascicoli vecchi di un anno abbandonati da chissà chi, o passavate il tempo leggendo frusti annunci pubblicitari. Adesso queste pause inaspettate son benvenute, salta fuori di tasca il Samsung 8.0, il Kobo, il Kindle, il vostro supporto preferito e come d’incanto siete trasportati nella vostra lettura come gli eroi medievali, moderni o postmoderni di Chaucer, Calvino e Confini della Realtà. Twitter @riotta Da - http://lastampa.it/2014/06/08/societa/se-il-web-ora-scopre-la-lettura-lunga-QTv2gxmRVqMbZhdnuKNoAI/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Bruxelles fermi l’escalation Inserito da: Admin - Luglio 19, 2014, 06:29:53 pm Editoriali
18/07/2014 Bruxelles fermi l’escalation Gianni Riotta Segue dalla prima pagina L’Unione europea è circondata da guerre a bassa intensità e conflitti armati tradizionali su un fronte di migliaia di chilometri da Tripoli a Kiev. Libia ed Egitto, dopo i cambiamenti di regime, sono accesi da attentati e scontri, la guerra tra il regime di Assad - sostenuto dalla Russia - e i ribelli in Siria ha fatto centosettantamila vittime e milioni di profughi. In Iraq le milizie islamiste dell’Isis occupano città e posti di confine con la Giordania, mentre a Nord i peshmerga curdi si mobilitano intorno ai pozzi di petrolio. Hamas e Israele si scontrano a Gaza, mentre in Ucraina il neo presidente Petro Poroshenko sferra l’offensiva per liberare le zone Sud orientali, occupate da miliziani filorussi. Questo drammatico teatro geopolitico non sembra turbare finora troppo né i governi, né le diplomazie, né le opinioni pubbliche dell’Unione Europea che, dopo i Mondiali di calcio, sono intenti a seguire le lottizzazioni per il governo europeo, nominato l’eterno presidente Juncker. L’aereo malese MH17, abbattuto sui cieli tra Ucraina e Russia, in aree controllate dai miliziani secessionisti anti Kiev, ci sveglierà ora dal torpore estivo? Il presidente americano Barack Obama e il leader russo Vladimir Putin, ai ferri corti da mesi, hanno brevemente discusso del caso al telefono, mentre i rivali sul terreno si rimpallavano le responsabilità in una battaglia psicologica combattuta sui social media. Gli esperti danno per scontato che come il volo coreano Kal 007 del settembre 1983, abbattuto da un caccia sovietico e il volo Iran Air 655 distrutto da un missile della nave Usa Vincennes nel luglio 1988, anche l’aereo Malaysia Airline MH 17, 280 passeggeri – di cui 23 cittadini americani, pare - e 15 membri dell’equipaggio, sia stato vittima di un attentato. Da giorni nella zona si parlava di rampe di missili Buk, progettati dai tecnici russi dell’istituto Tikhomirov, montati su mezzi corazzati o camion, con una gittata di 22 chilometri, capaci dunque di colpire il jet che volava a circa 10.000 metri. E secondo il portavoce ucraino Anton Gerashenko, proprio un Buk sarebbe stato usato ieri. Mercoledì un caccia Sukhoi 25 dell’aviazione di Kiev era stato abbattuto da un missile aria-aria russo, secondo le autorità ucraine, mentre i ribelli si vantavano online di aver colpito, con missili terra-aria a spalla, altri due Sukhoi 25 lealisti (il governo di Poroshenko parla solo di un aereo colpito). È ipotizzabile che i secessionisti siano responsabili della tragedia? Sono in corso verifiche ed inchieste, ed è ora possibile solo ragionare su cosa sta accadendo al confine Russia-Ucraina. Dopo l’occupazione della Crimea, accolta dalla popolazione locale con simpatia, il Cremlino ha provato a destabilizzare anche l’Ucraina, contando sulle incertezze di Obama e l’inerzia dell’Unione Europea, condizionata dagli ambienti filorussi, nei Paesi latini e fra gli imprenditori tedeschi, mentre il presidente francese Hollande vende sofisticate navi alla Marina di Mosca, addestrandone gli specialisti. Ma non tutto funziona stavolta bene nella strategia di Vladimir Vladimirovich Putin. In casa il suo consenso resta stellare, intorno all’80% (il doppio di Obama in America), ma i cittadini russi non vogliono l’invasione dell’Ucraina, memori dei disastri dell’attacco a Kabul 1979 che condusse alla dissoluzione dell’Urss. Putin deve dunque usare i miliziani locali per indurre il presidente Poroshenko a staccarsi dall’Europa, tra sabotaggi, terrorismo, atti di guerra coordinati da militari russi. Kiev però rompe la tregua e libera le città occupate dai secessionisti, Slovyansk, Artemivsk, Druzhkivka. La popolazione è divisa, al contrario che in Crimea, ed è difficile per le milizie agire liberamente: ripiegano dunque su Donetsk, un milione di abitanti, perché l’attacco frontale di aviazione e mezzi corazzati contro un centro popolato avrebbe un numero alto di vittime, operazione complicata per Poroshenko. I ribelli sentono però che Putin s’è molto raffreddato nei loro confronti. Non è la parata trionfale di Sebastopoli, i militari ucraini combattono, accettano le perdite, contano sull’aiuto Usa (solo equipaggiamento «non letale», giubbotti antiproiettile, elmetti, visori notturni) mentre i secessionisti imprecano contro gli sponsor tirchi del Cremlino. Un sito web a loro vicino rivendica subito l’abbattimento del MH17, dopo avere fatto sfoggio di rampe Buk, ma non appena i media di Kiev rilanciano foto e notizie, i comunicati vengono cancellati. È opinione diffusa nell’intelligence Usa che i ribelli abbiano confuso l’aereo malese per un jet ucraino, colpendolo. Radicalizzare lo scontro, a loro parere, potrebbe riaprire il conflitto e, nella ritirata verso Donetsk, i capi più estremisti sembrano aver preso la guida delle operazioni. Le teste calde potrebbero avere invece aperto una falla clamorosa nella politica estera di Putin. Molto efficace nell’accusare gli ucraini di «fascismo e nazismo», rinfocolando il patriottismo della II guerra mondiale - 20 milioni di morti in Russia -, Putin non può attaccare Kiev in forze, né sostenere un’armata di terroristi che ormai non controlla più, mentre Poroshenko si avvicina all’Europa, costretta malgrado tutto a non isolare il pur cauto Obama sulle sanzioni. Lo sdegno per un missile dei ribelli contro il MH 17 sigillerebbe questa realtà. Il premier russo Medvedev esprime perciò cordoglio su twitter e l’ambasciatore Churkin rispolvera lo stile ruvido del ministro Urss Gromyko: «Non siamo stati noi». La guerra in Europa aggrava la sua l’escalation: sarebbe opportuno ne tenessero conto governi e Commissione Ue nel formare una solida squadra di leader tosti intorno al burocratico Juncker. www.riotta.it Da - http://lastampa.it/2014/07/18/cultura/opinioni/editoriali/bruxelles-fermi-lescalation-9n5Cf578OK3rXzkzUh5tUM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Quei corpi accusano l’Europa Inserito da: Admin - Luglio 26, 2014, 11:12:46 am Editoriali
21/07/2014 Quei corpi accusano l’Europa Gianni Riotta Nell’Iliade, l’epica greca celebra le onoranze funebri ai defunti come comandamento etico del mondo classico: il poema si conclude, nella traduzione di Monti, con «questi furo li estremi onor renduti al domator di cavalli Ettorre». E nel dialogo tra il Re troiano Priamo, che gli chiede il corpo straziato del figlio Ettore, e il crudele guerriero mirmidone Achille, i due eroi trovano un momento di comune compassione umana, al di là del conflitto feroce in corso. Da Omero alle tregue della I guerra mondiale per recuperare i caduti, fino al credo del corpo Usa dei Marines non lasciare mai un compagno indietro, vivo o morto che sia, e alle donne che corrono al Santo Sepolcro per accudire il cadavere di Gesù, trovandolo risorto, il valore del corpo delle vittime è cruciale nella nostra cultura. Troppo tempo, ahinoi, sembra dividerci dai classici cui facciamo risalire, con trascurata arroganza, le radici della civiltà, se i cadaveri dei 298 esseri umani del volo MH17, travolti dalla ferocia dei separatisti ucraini del capobanda «Bes», guidati da specialisti militari russi, possono giacere sui campi tra Snizhne e Torez, adulti e bambini «di cani e d’augelli orrido pasto» – come ha descritto nel suo impressionante reportage Lucia Sgueglia - e poi venire traslati su vagoni merci, senza che la coscienza di europei e americani sia travolta dallo sdegno. La maggior parte degli innocenti immolati in Ucraina a una folle rivolta, che il leader russo Vladimir Putin, qualunque sia il suo ruolo nella strage MH17, ha incoraggiato, finanziato e fomentato, sono cittadini dell’Unione Europea, che si vanta di essere faro di diplomazia, pace, convivenza. In realtà, mentre la Casa Bianca – che ha sul tavolo, come gli europei, le prove della colpa dei separatisti ucraini e del coinvolgimento diretto dei russi - prova a alzare di un filo il tono, gli europei proseguono nel frusto cerimoniale, feluche e poltrone da occupare, note di ambasciatori consegnate tra un tè e un ballo, attentissimi a non turbare un solo contratto, un appalto, un import-export. I cadaveri dei nostri concittadini, saccheggiati, sporcati, derubati dai mercenari raccolti in nome di una causa violenta oggi e perdente domani, intenti a occultare sacrileghi le prove del loro criminale intento, saranno nei libri di storia di domani accusa feroce a questa Europa, che fingendo di detestare la guerra e di parlare di pace per far business, stolidamente semina la zizzania della prossima guerra ai confini dell’Unione. Che arriverà e sarà crudele. www.riotta.it DA - http://lastampa.it/2014/07/21/cultura/opinioni/editoriali/quei-corpi-accusano-leuropa-DM1CojYXDZn73oV8MHbQdK/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - “Petrolio e stato sociale” Edimburgo sogna un “futuro norvegese" Inserito da: Admin - Settembre 17, 2014, 05:42:37 pm “Petrolio e stato sociale”, Edimburgo sogna un “futuro norvegese”
Ambiente, diritti civili, pacifismo e benessere per tutti i cittadini. Il fronte del sì guarda alla Scandinavia per dimenticare la Thatcher 17/09/2014 Gianni Riotta Edimburgo Bastano due passi nella brughiera di Culloden Moor, sterpi, erba secca, acquitrini fradici sotto il cielo grigio e la nebbia, per capire quanto avesse ragione, quell’alba lontana del 16 aprile 1746, il generale Murray a consigliare prudenza al romantico Bonnie Prince Charlie, pretendente Giacobita al trono di Scozia. Il principe, nato a Roma, attaccò invece sul fiume Nairn, senza criterio, il Duca di Cumberland, che lo attese con l’artiglieria, sterminò i ruvidi volontari dei clan, fece a pezzi i feriti riversi sulle pozzanghere che adesso i turisti scavalcano in silenzio con gli stivaloni di gomma. Il Duca si guadagnò il soprannome di Macellaio, gli 8000 inglesi ebbero 300 morti, i 7000 scozzesi 2000, il sogno di indipendenza stroncato, almeno fino a giovedì prossimo, 18 settembre 2014. Basta guidare per le contorte strade scozzesi, 259 chilometri fino alle mura di Edimburgo, per sentire quanto i 307 anni di unione tra Scozia e Inghilterra, la vita stessa del Regno Unito e quel che rappresenta, cultura, civiltà, economia, tradizioni, siano a rischio, oppure già spezzati per sempre, qualunque sia l’esito del voto tra «Yes» e «No» all’indipendenza, che i sondaggi danno 50-50, mentre le scommesse pagano la vittoria del «No» 1/4 e quella del «Sì» 11/4. La bozza della nuova Costituzione è già scritta, il primo articolo recita solenne «In Scozia il popolo è sovrano», sottintendendo che nel Regno Unito no. Ma se cercate di capire, come troppi fanno, la posta in gioco in questo storico giovedì guardando alla Storia, le battaglie, la sconfitta di Culloden e la vittoria scozzese di Bannockburn con Robert the Bruce, le gesta di William Wallace, il Braveheart di Mel Gibson, se credete che il voto si svolga tra cornamusa, kilt, tartan e clan, prendete un abbaglio. Il referendum scozzese parla del nostro futuro non del passato, un passato popolato da miti, fantasmi e invenzioni, la prima biografia «storica» di Wallace di Blind Harry data due secoli dopo la sua morte, e i colori dei tartan orgogliosi dei clan non sono ancestrali, ma disegnati a tavolino da una coppia di furbi sarti, i fratelli Sobieski Stuarts, che finsero di averli ritrovati in manoscritti antichi. Il referendum ha sulla scheda la domanda secca «Deve la Scozia essere paese indipendente?» ma cela altre verità. «Odiate ancora Lady Thatcher, la sua riforma del welfare state, la deindustrializzazione, l’economia di servizi e finanza?»; «Avete paura che la globalizzazione distrugga lo stato sociale scozzese, volete difendere il posto stabile, mutua, assicurazione sanitaria, scuola e spesa pubblica?», e infine «Volete ritirarvi dal mondo, non curarvi di Ucraina, Isis che ha ucciso un volontario scozzese, esercito, testate nucleari?». Fuori dal Parlamento di Edimburgo, un edificio sperimentale dell’architetto Eric Miralles, con tanto di lance simbolo icona della resistenza a Bannockburn, gli attivisti dello «Yes», tanti, e i pochi e guardinghi del «No», sanno bene cosa conta per gli elettori. Da Londra arriva il bus dei sindacati laburisti, rosso e lucente, invoca il «No», il Labour Party perderebbe con la Scozia 40 seggi a Westminster, i Conservatori del premier Cameron forse solo uno. Ma lo sgangherato camioncino del «Sì», di solito uso ai trasporti di un ferramenta, ribatte con lo slogan rudimentale «Mai più i conservatori al governo». La grande illusione del Partito Nazionale Scozzese di Alex Salmond, premier a Edimburgo, è tutta qui. L’indipendenza si reggerà sul petrolio del Mare del Nord, la Scozia diverrà una Norvegia che produce whisky, la ex Gran Bretagna accetterà di dividere il debito pubblico e le ricchezze, poi l’Europa aprirà le porte, mentre, rabbiosa, Londra lascerà l’Unione. L’esercito del tartan avrà 4700 soldati, di cui appena 1700 in grado di combattere. Le testate nucleari britanniche lasceranno la base sul Clyde e la nuova costituzione metterà al bando ogni ordigno atomico. La Nato obietta? Nei comizi del «Sì» non ci sono dubbi: l’Europa, secondo Salmond, aprirà le porte a Edimburgo, nonostante il no minacciato dagli spagnoli che hanno paura per l’addio della Catalogna, e altrettanto farà la Nato. Cresciuto a East Fife, cuore scozzese, l’editorialista del «Financial Times» John Lloyd, dissente amareggiato «Una serie di azzardi senza sicurezze. Salmond spiega che tutto andrà bene, ma il mondo non avrà tenerezza per una Scozia piccola e debole». David Greig, autore del popolare musical Charlie and the Chocolate Factory, noto in Italia per «Midsummer», tradotto da Masolino d’Amico, è la prova vivente che il passato remoto non c’entra, si vota sul futuro. Su Twitter Greig ha creato una commedia in 140 battute, @yesnoplay, in cui una moglie e un marito dibattono sul voto. Il gioco è brillante, ma ha sempre la meglio la tesi della bonomia separatista, Greig spiega che la nuova Scozia andrà d’accordo con tutti, «si leverà infine gli occhiali inglesi», animata da «una palla di energia». «Si tratta di riforme democratiche» secondo lo scrittore. E la Costituzione in scrittura echeggia i buoni sentimenti, gli scozzesi avranno «diritto a un ambiente salubre», alla «biodiversità» e il nuovo stato combatterà «i cambi climatici». Con orgoglio che brilla negli occhi i ragazzi dello «Yes» mi spiegano «Solo tre paesi hanno nella Carta Costituzionale l’impegno a battersi contro l’effetto serra» e li elencano serissimi «Ecuador, Repubblica Dominicana, Tunisia». La Carta sembra per ora un tema di liceo colmo di speranze, avranno diritto alla cittadinanza i cittadini britannici residenti oggi in Scozia, i residenti di origine nord-irlandese, i residenti con passaporto Ue e chi ha passaporto estero, ma genitori, o forse antenati, scozzesi. Tornerà a casa la diaspora lontana? Ho provato a ripetere l’esperimento di Greig al pub storico di Abbotsford, battezzato dalla casa di campagna cara allo scrittore scozzese Walter Scott. Grazie al barman Robert Wilson i clienti hanno detto la loro, e il sondaggio tra birra e Scotch è netto «Chi vota Sì viene con il distintivo sulla giacca o la camicetta da mesi, chi vota No è incerto, sta zitto e aspetta». Il premier Cameron, il liberale Clegg, il laburista Miliband, l’ex premier Gordon Brown, scozzese laburista che si batte come un leone per il No, contano su chi - per non litigare al bar- resta in silenzio, ma nel segreto dell’urna ascolterà il consiglio della Regina Elisabetta II e rifletterà attento. Con i cittadini scozzesi votano anche i residenti. «I ragazzi italiani che vivono qui - spiega un giovane di Potenza - sono divisi, ma onestamente ne sanno poco». Alle urne anche i sedicenni, e saranno una sorpresa. Perché l’astuzia populista di Salmond, la Carta delle Buone Intenzioni e la passione dei militanti come Greig non contano sulla realtà. La finanza, le banche, le aziende, le assicurazioni emigreranno a Sud, verso Londra e il clima pro business. La sterlina scozzese perderà peso. Se il divorzio con gli inglesi sarà acido Londra renderà difficile la strada dell’Europa. I supermercati aumenteranno i prezzi in un mercato più piccino come annunciano John Lewis, Asda, Marks and Spencer, i francobolli della Royal Mail costeranno di più. La finanziaria Black Rock prevede che i tassi di interesse della Scozia Nazione saranno peggiori di quelli del Regno Unito, fino a un punto e mezzo l’anno. Le minacce degli estremisti «Nazionalizzeremo la Bp e le altre aziende se si mettono di traverso», la simpatia di Salmond per Putin «con lui la Russia è rispettata» hanno già aperto una fuga di capitali che, se il «Sì» vince, diventerà rotta. Come a Culloden. @riotta Da - http://lastampa.it/2014/09/17/esteri/petrolio-e-stato-sociale-edimburgo-sogna-un-futuro-norvegese-jS3M2VhGc0auEHFQ28yGuL/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - L’America di nuovo in bianco e nero Inserito da: Admin - Novembre 26, 2014, 05:37:51 pm L’America di nuovo in bianco e nero
26/11/2014 Gianni Riotta Un proverbio americano scherza, «Perfino un panino al prosciutto, se arriva davanti al Grand Jury, finisce alla sbarra». I fatti confermano. Quando il District Attorney, il pubblico ministero, porta ai giurati popolari del Grand Jury un’accusa di reato, il rinvio a giudizio è certo. Ben Casselman, del sito FiveThirtyEight, calcola che tra il 2009 e il 2010, su 162.000 casi presentati alle Grand Jury federali solo undici sono stati respinti, lo 0,006%. L’irrisoria cifra spiega perché la decisione della Grand Jury (stavolta non federale ma dello Stato del Missouri) di non rinviare a giudizio Darren Wilson, poliziotto bianco di Ferguson, sobborgo di St. Louis, accusato di avere ucciso il giovane afro-americano Michael Brown, incendia il Missouri, fa occupare il ponte di Brooklyn e marciare da New York alla California, mentre – invano – il presidente Obama e la mamma della vittima invocano calma. Le opposte narrative politiche e culturali non si riconciliano. Per una, non si tratta di razzismo, ma di statistica: il 96% dei reati, per esempio a New York, è commesso da neri e ispanici, naturale che la polizia stia allerta. Per gli attivisti dei disordini, come per milioni di pacifici cittadini Usa che seguono gli scontri sullo smartphone, la polizia bianca ha un doppio standard. Spara ai sospetti per il colore della pelle, il rione, il vestito. Il caso del ragazzo nero Trayvon Martin, ucciso da un vigilante bianco perché portava il cappuccio della felpa alzato («avessi un figlio, sarebbe come Trayvon» lamentò Obama), la grottesca vicenda del professore di studi afro-americani ad Harvard «Skip» Gates, arrestato mentre cercava di rientrare a casa, senza chiavi, da un poliziotto che lo scambia per un ladro, fino al bambino nero di 12 anni ucciso domenica a Cleveland da un agente, perché giocava con un revolver di plastica, fan parlare di «epidemia razzista». Ogni 28 ore la polizia Usa uccide un afroamericano, di solito maschio sotto i 30 anni. A Ferguson, i testimoni oculari si dividono. Per quelli dell’accusa l’agente Wilson avrebbe sparato a bruciapelo all’inerme Brown. Per i testimoni della difesa Brown avrebbe aggredito Wilson, picchiandolo: solo allora l’agente avrebbe sparato. La difesa allega foto del poliziotto con lividi in ospedale, l’accusa cita un verbale in cui un superiore ordina a Wilson di recarsi al Pronto Soccorso. Dalla Centrale di Polizia confermano che si cercava il rapinatore di una tabaccheria, cappello rosso e calze gialle, che aveva sottratto anche una scatola di sigari sottili in compagnia di un complice. Brown indossava un cappello da baseball rosso, calze gialle, fumava un cigarillo ed era con un amico. Fatalità? Brutalità? La Grand Jury, come solo nello 0,006 dei casi, ha deciso Fatalità. I giurati erano sei uomini e tre donne bianche, due donne e un uomo afroamericani: per rinviare a giudizio Wilson servivano nove voti. Ma la legge, ripetuta a memoria ai giurati, impone che il rinvio alla sbarra avvenga «solo se l’accusa è credibile al di là di ogni ragionevole dubbio». La Grand Jury di Ferguson, che riflette il tessuto della Contea di St. Louis, 24% neri, 68% bianchi, non ha visto reati «al di là del dubbio», né omicidio volontario, né preterintenzionale. Ho fatto parte di una Grand Jury a Manhattan e ho raccontato a La Stampa la mia esperienza goo.gl/KVwbjb. C’erano giurati che, non appena il pubblico ministero lanciava l’accusa e i poliziotti testimoniavano, alzavano la mano per il rinvio a giudizio. Una giurata, nera e coltissima, contestava invece puntuale ogni caso. Una volta abbiamo respinto l’incriminazione, sollevando l’ira dei pm. In America non c’è obbligo di azione penale come in Italia, i prosecutors si sforzano dunque di andare davanti alla Grand Jury solo con casi formidabili, a prova di avvocati difensori e giurie popolari (l’avete visto nei film e telefilm). Perché a Ferguson l’equilibrio si spezza? Perché viviamo in diretta web. Dalla morte di Brown al no della Grand Jury, una valanga di tweet, 450 al secondo, 3,5 milioni solo ieri notte, acceca paese e giudizi. La mappa dei Big Data http://goo.gl/17P0PY trasforma in luce i tweet di notte e l’America si illumina irata. I pm non se la son sentita di non portare alla Grand Jury un caso tanto controverso, la Grand Jury di rinviare a giudizio Wilson. Alla vigilia del Thanksgiving, che domani raccoglie le famiglie intorno al tradizionale tacchino arrosto, la pistolettata di Ferguson rimbomba sul web e ricolora l’America, in bianco e nero. www.riotta.it Da - http://www.lastampa.it/2014/11/26/cultura/opinioni/editoriali/lamerica-di-nuovo-in-bianco-e-nero-dZ9iTL7O9VKpULhVgcHJcO/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Per vincere la guerra più lunga le forze armate non bastano Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2015, 11:27:30 am Per vincere la guerra più lunga le forze armate non bastano
Contro Isis e Al Qaeda l’Occidente va in ordine sparso: serve un’azione comune 09/01/2015 Gianni Riotta La strage di Parigi conferma come il dibattito, europeo e italiano, su terrorismo e guerre asimmetriche resti ancorato agli errori del 2001. A sinistra si obietta che solo «dialogo e diplomazia» batteranno l’insorgenza islamica, «perché la guerra non risolve nulla», a destra Le Pen e Salvini usano l’attentato a Charlie Hebdo nella campagna anti-emigrazione, malgrado una delle vittime sia un poliziotto musulmano. Dopo le débâcle in Iraq e Afghanistan, guerre durate oltre dieci anni e senza risultati positivi, gli Stati Uniti hanno invece avviato una dolorosa revisione strategica, per comprendere cosa l’Occidente stia sbagliando nel confrontare al Qaeda e Isis e come non ripetere gli errori. Al di là dell’ambito militare, questa discussione è del tutto ignorata da noi, grave omissione che ci avvia a nuovi scacchi. Nessuna strategia Lo scorso novembre esce lo straordinario saggio del generale Daniel Bolger «Why we lost». Dopo aver combattuto a Baghdad e Kabul, Bolger, generale con dottorato di ricerca in Storia all’Università di Chicago, non ha dubbi: gli Stati Uniti hanno perso «the Long War», la guerra più lunga, perché le forze armate sono straordinarie nella tattica sul campo, ma la politica e gli stati maggiori non hanno una strategia quando la battaglia si conclude. I militari, scrive Bolger, non hanno fantasia, sviluppano piani per combattere Stato contro Stato, vanno in confusione davanti a Isis e al Qaeda, network di combattenti ideologici che cambiano natura, alieni. Al Qaeda non occupa terreno, parassita altri regimi, dai talebani al Corno d’Africa. Isis decide invece che lo status quo degli accordi europei Sykes-Picot 1916 è finito e fonda uno Stato terrorista tra Siria e Iraq. Il generale Graziani in Libia Lo studioso John Schindler osserva che normalizzare una così vasta area di territorio richiede impegno militare gravissimo, e che nella storia l’ultima operazione del genere ad avere successo fu condotta dal generale italiano Graziani in Libia alla fine degli Anni 20, contro i ribelli dello sceicco Omar Mukhtar, con armi chimiche illegali, centomila civili deportati, fucilazioni di massa. I tedeschi non ci riuscirono in Jugoslavia durante la Seconda Guerra Mondiale, malgrado dispiegassero 600.000 uomini. Oggi, conclude Schindler, brutalità alla Graziani non sono pensabili, servono dunque altre idee. Non aspettatevi però risposte semplici, slogan da talk show. Sul prezioso blog Small Wars Journal Joseph Collins, ex colonnello dell’esercito Usa e ex sottosegretario alla Difesa, chiarisce perché siamo in difficoltà, se non «sconfitti» come opina amaro il generale Bolger. I sondaggi prima di tutto La politica, a Washington e in Europa, è polarizzata, i leader hanno a cuore i sondaggi del momento e le elezioni prossime, sono incapaci di strategie e visioni, mentre il nemico fondamentalista ha disciplina di lunga durata. George Kennan disegna il piano per «contenere l’Urss in un telegramma dall’ambasciata Usa a Mosca del febbraio 1946 e fino alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 gli americani si attengono tenaci alla sua proposta. Contro il fondamentalismo Reagan decise di ritirarsi dal Libano 1983, Bush padre creò la vittoriosa coalizione 1990 anti Saddam in Kuwait, Clinton si limita a qualche raid aereo dopo gli attacchi alle ambasciate Usa in Africa 1998, Bush figlio attacca l’Afghanistan, con la Nato nel 2001 e l’Iraq da solo nel 2003, Obama parla di pace al Cairo, usa i droni, giustizia Bin Laden, si ritira in fretta da Baghdad e Kabul, salvo rilanciare i raid su Kobane per fermare Isis in Kurdistan 2014. Amnesie che uno spietato rapporto dell’istituto Rand, preparato per lo Special Operations Command dell’Esercito Usa, condanna e gli europei dovrebbero mandare a memoria. La mescolanza dei ruoli La guerra asimmetrica mescola ruoli, Osama e al Baghdadi sono leader civili, militari, religiosi e di propaganda, in Occidente i generali non capiscono i politici e viceversa, i politici diffidano dell’intelligence, la propaganda stenta online e i commandos non sanno a chi riferire dal campo. Ieri il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha detto bene: finché Isis occupa uno Stato terrorista non ci sarà pace in Europa. Ma battere il Califfato è arduo perché la guerra asimmetrica non sappiamo farla, non c’è consenso nell’opinione pubblica, difettiamo in cultura, preparazione, impegno. La Nato senza un accordo La Nato, che ha sconfitto l’Urss, non ha neppure un piano comune contro terrorismo e insorgenze islamiche, ogni Paese è lasciato a se stesso, manca accordo. Tre ufficiali Nato, Lee Jae Hun, Peter Pedersen e Chad Pillai denunciando con allarme in un rapporto come Usa ed Europa non abbiano alcun coordinamento civile, militare o di intelligence contro la guerra asimmetrica e i governi si ritrovino soli, costretti ad azioni sporadiche e dunque perdenti. Una nuova alleanza Per vincere il terrorismo fondamentalista, ovunque, servono presto una nuova alleanza e una nuova strategia, chiudere con l’astio seguito al caso Snowden, condividere intelligence, adattare le forze armate alla sfida asimmetrica, fronteggiando nel contempo Cina, Russia, Corea del Nord e Iran. Non aspettatevi miracoli. Senza una riflessione profonda, idee serie e non polemiche vacue, avrà ragione il generale Bogler: americani ed europei sconfitti insieme. www.riotta.it. Da - http://www.lastampa.it/2015/01/09/esteri/per-vincere-la-guerra-pi-lunga-le-forze-armate-non-bastano-PyfIpF2Hi6UMfuVzQuho8I/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Il giornalismo degli Usa ostaggio del bon ton Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2015, 10:17:58 pm Il giornalismo degli Usa ostaggio del bon ton
12/01/2015 Gianni Riotta «In tutta Europa i giornali si sono stretti in solidarietà con Charlie Hebdo, nel pubblicare le vignette che avrebbero motivato la strage in redazione. Non così in America, terra della libertà di parola». La sconsolata ammissione dal blog Buzzmachine.com di Jeff Jarvis, docente all’Università Cuny. Le critiche di Jarvis sono riprese, con amara prosa giansenista, da Ross Douthat, il più profondo columnist del «New York Times» oggi. Mentre l’opinione pubblica dell’Europa continentale ha ben colto, con qualche eccezione, il senso della tragedia di Parigi – un attacco al nostro libero stile di vita -, tante prestigiose testate anglosassoni, Usa e Regno Unito, scivolano nella melassa perbenista del non voler offendere alcuna sensibilità, del bon ton politico, come se si trattasse di una blasfemia di troppo, di un sedere in eccesso, di volgarità antireligiosa e non di una mattanza che cancella i distinguo cicisbei. Jarvis se la prende con il «New York Times», che ha deciso – fin qui nulla di male, anzi - di non ripubblicare per intero le vignette del Charlie, ma ha poi, e qui il risultato è goffo, sbianchettato ogni foto, mettendo i mutandoni della preoccupazione moralistica sulla vicenda, costringendo i lettori a scorribande sul web per capire cosa davvero stesse accadendo. Douthat ricorda lo scomparso polemista Christopher Hitchens: è la difesa dell’eccesso, di quel che non condividiamo (e Christopher di eccessi, dal pamphlet contro Madre Teresa alla difesa di Bush figlio, se ne intendeva…) il confine della libertà e richiama tra le righe il suo giornale a meno timidezza e più coraggio. Stephen Pollard, direttore del giornale ebraico inglese Jewish Chronicle, sintetizza il tormento della vicenda in due tweet: «I miei principi di lavoro mi dicono di pubblicare i disegni…» «ma siamo seri, esporrei i colleghi di una testata ebraica ai killer islamisti…». La rete tv Cnn invece, con gli ordini di servizio interni ai cameramen, «Se riprendete le vignette nei cartelli dei dimostranti, sfocatele da lontano», non ha le contraddizioni di Pollard, manda solo in onda candeggina. I terroristi di Parigi hanno, con la loro strage, messo i media di tutto il mondo davanti alla realtà, massacrando le ipocrisie a colpi di AK 47. Il direttore di Al Jazeera, rete tv araba, ricorda in una serie di email melliflue alla redazione di stigmatizzare «comunque» Charlie Hebdo, finché i suoi giornalisti occidentali non reagiscono, lo mandano a quel paese e ne pubblicano i dispacci imbarazzanti. In America la lunga coda di paglia del politicamente corretto, (ieri il «New York Times» non ha ospitato neppure la foto vecchia di 60 anni di una statua di Maometto demolita dal Tribunale di Manhattan, temendo chissà quali obiezioni), di atenei dove l’Occidente è considerato ex cathedra «razzista e terrorista», fa perdere di vista la sfida morale di Parigi. È bene che uomini diversi come Jarvis e Douthat, o siti bizzarri come Buzzfeed, si siano ricordati, da soli, del Primo Emendamento alla Costituzione e delle libertà che fonda. Twitter @riotta Da - http://www.lastampa.it/2015/01/12/cultura/opinioni/editoriali/il-giornalismo-degli-usa-ostaggio-del-bon-ton-XwCcJDZ8YjutYEYMcRqO0O/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - La zona grigia che l’Europa non vuol vedere Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 12:09:36 pm La zona grigia che l’Europa non vuol vedere
27/04/2015 Gianni Riotta Migliaia di studenti tedeschi marciano a Berlino chiedendo solidarietà e giustizia per immigranti e rifugiati. Lo striscione del pacifico corteo annuncia «Oggi Lezione di Diritto Politico» e, figli dell’era globale e social, i ragazzi intonano in inglese «Canta forte e sostenuto, il rifugiato è benvenuto». A 70 anni dalla fine della guerra mondiale, grazie a loro, la Germania torna leader spirituale d’Europa, un giorno di Romanticismo. Gli studenti di Berlino ripropongono la domanda del Santo Padre: «Che fare?», davanti alla biblica ondata di migrazione, due-tre milioni di esseri umani, che guerre, carestie, clima, sogno di vita migliore, spingono da Africa e Medio Oriente al largo nel Mediterraneo. Se accendete un talk show o un sito web, gli slogan, fast food del pensiero, sono serviti: Bombardare, Blocco navale, Tolleranza zero per gli illegali, Accogliere tutti, Schiudere le frontiere, Compassione contro profitti. Nella realtà, invece, non esiste soluzione unica, diretta, solo piani complessi e difficili. Il «blocco navale militare», per esempio, sarebbe illegale, impossibile da attuare e innescherebbe ammutinamenti nella Marina davanti all’ordine di sparare contro la legge del mare. La dimensione tragica deve restare punto di partenza, nel 2014 3000 annegati, nel 2015 almeno 1500, in 16 mesi tre Titanic naufragati sulle nostre coste. L’Europa insiste «il controllo delle frontiere è responsabilità nazionale» e bissa la squallida performance degli Anni Novanta con la guerra nei Balcani. Ogni Paese fece i propri interessi, lasciando marcire le deportazioni, finché gli Usa non intervennero. Le carte, gli appelli, la retorica dell’Unione, grondano compassione, solidarietà, benevolenza. Gli intellettuali, a destra e sinistra, sono lesti a condannare gli americani per il muro nel deserto messicano e i milioni di clandestini, ma dimenticano la realtà. 41,3 milioni di emigranti vivono in America, record storico; un emigrante su cinque al mondo, il 20% del totale, sbarca negli Usa che hanno solo il 5% degli abitanti della Terra; gli emigranti sono 13% dei 316 milioni di cittadini Usa, con i figli arrivano a 80 milioni, 25% della popolazione. Gli Usa si dilaniano sul tema, la riforma dell’emigrazione è campo di battaglia nella corsa alla Casa Bianca 2016, l’Europa è inerte Ponzio Pilato. Spera, come davanti a Milosevic, al fondamentalismo islamico, a ogni emergenza, che anche la tragedia emigrazione venga infine assorbita da una pubblica opinione estenuata da anni di crisi economica. Contro quest’inerzia, politica e morale, protestano i ragazzi di Berlino, avanguardia della generazione Erasmus, pur consapevoli che la Germania accoglie più rifugiati di tutti nell’Unione. Una strategia geopolitica è indispensabile contro la calamità geopolitica che mette in marcia quelli che un tempo Frantz Fanon chiamava «Dannati della Terra». Per disegnarla servono lo sforzo congiunto, la fantasia, di politici, urbanisti, economisti, diplomatici, Difesa, uomini di fede. Servono sì azioni militari, sul modello della campagna che ha ridimensionato i pirati del Corno d’Africa, raid contro il racket, contro le milizie che li proteggono, contro i banditi-guerriglieri-terroristi che li scortano nel deserto, contro i porti del traffico, anche con droni, per dare il senso che l’Ue fa serio. Ma in parallelo serve un Piano Marshall, dal respiro decennale, in cui coinvolgere altre potenze – per esempio la Abii, Banca di sviluppo asiatico promossa dalla Cina che può intervenire nel Medio Oriente - dando alternative alla rotta disperata dei gommoni. Gli Usa destinarono al Piano Marshall il 4% del loro Pil: noi quanta ricchezza siamo disposti a investire per la pace del Mediterraneo? Si mette in mare il ceto medio africano, depauperando la classe dirigente locale e rallentando la positiva crescita del continente che, non dimenticatelo, il Fondo monetario calcola nei Paesi del sub Sahara al 5% nel 2014 e 5,75% nel 2015. Blitz e piani di crescita non fermeranno però le ondate e lì l’Europa deve stimare gli ingressi, razionalmente, senza alzare i già rabbiosi umori populisti. Illudersi che siano l’Onu o gli americani a risolvere per noi il dilemma è ipocrita. Quando rileggiamo, nel 2015 le memorie 1945 di padri e nonni, vediamo amaro il ricordo «di chi restava a guardare», davanti ai treni piombati verso i lager, ai rastrellamenti, ai comizi dei dittatori, alla raccolta delle vittime. Indignarsi è facile per noi nel tinello del XXI secolo, opporsi a mani nude alla violenza richiede coraggio fuori dal comune. I libri che diamo in lettura agli scolari deprecano gli ignavi di allora: e noi? L’Europa decida quel che vuole, per calcolo elettorale, convenienza del momento, paura di agire, egoismi. Ma tutti saremo giudicati con la stessa severità con cui Primo Levi inchiodava «la zona grigia» dei lager tra vittime e oppressori. Il prossimo Titanic che scomparirà nelle acque delle vacanze, mentre ci commuoviamo cambiando canale senza far poi nulla, ci renderà «zona grigia». Non aspettiamoci dunque pietà da chi ci giudicherà. www.riotta.it Da - http://www.lastampa.it/2015/04/27/cultura/opinioni/editoriali/la-zona-grigia-che-leuropa-non-vuol-vedere-bWvUIvyrxIlIcYo1DwkP9M/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Il Vietnam alleato a sorpresa della sfida di Obama alla Cina Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 05:03:54 pm Il Vietnam alleato a sorpresa della sfida di Obama alla Cina
Il segretario del Partito comunista martedì a Washington: “Abbiamo avuto gli Usa nemici per 50 anni, i cinesi per duemila” Giappone e Vietnam, durante un summit hanno rivendicato la libertà di navigazione e preso di mira i tentativi di Pechino di modificare gli assetti regionali nel mar Cinese meridionale. Le tensioni sono aumentate negli ultimi mesi con le rivendicazioni territoriali cinesi Nguyen Phu Trong ha aperto al mercato irritando la vecchia guardia ad Hanoi 05/07/2015 Gianni Riotta Quando gli analisti americani che seguono la Cina hanno cominciato a vedere, nei documenti ufficiali o top secret, troppe volte citato il nome Alfred Thayer Maham l’allarme s’è diffuso a Washington. Poco conosciuto dal grande pubblico, l’ammiraglio Maham (1840-1914) è per la strategia navale quel che Clausewitz è per la fanteria, e se i cinesi ne citano il saggio fondamentale «The Influence of Sea Power upon History» è perché, anche nel secolo digitale, il controllo degli oceani decide le sorti dei commerci, della geopolitica, della guerra. Il Pacifico tra Usa e Cina La visita del segretario generale del partito comunista del Vietnam Nguyen Phu Trong a Washington, martedì, risponde alla logica dell’ammiraglio Maham cara ai cinesi: le rotte dell’Oceano Pacifico, dal Mar Cinese Meridionale all’Oceano Indiano e al Golfo Persico, sono teatro del grande duello strategico tra la Casa Bianca e il presidente cinese Xi Jinping. Un generale vietnamita ammette sorridendo «Gli americani sono stati nostri nemici per mezzo secolo, i cinesi per due millenni» e così il presidente Barack Obama, dopo aver ricevuto il presidente vietnamita Truong Tan Sang nel 2013 e aver incontrato in Birmania il premier Nguyen Tan Dung rompe il protocollo incontrando il capo di un partito, non un leader di governo, conscio che il segretario Trong è l’uomo più potente del Vietnam. Tra i temi in discussione, il patto su commerci e cooperazione economica Tpp, che Obama in extremis è riuscito a far passare al riluttante Congresso, e che vede la Cina isolata con la Corea del Nord, davanti a una cooperazione pacifica che la esclude. La pressione cinese nel Mar Meridionale cinese avvicina a Washington vecchi rivali come il Vietnam, tradizionali alleati come Australia e Nuova Zelanda, alleati della Guerra Fredda come il Giappone. Da quelle acque transita, in potenza, il 40% del Pil mondiale. I nemici interni In America la senatrice democratica di sinistra Elizabeth Warren s’è battuta contro il Tpp, Hillary Clinton fa la riottosa corteggiando il voto dei sindacati verso la Casa Bianca 2016, il Nobel Paul Krugman fa il protezionista temendo per i posti di lavoro. Ma i consumatori vedranno arrivare merci a buon prezzo, gli agricoltori esporteranno beni finora sottoposti a dazi, i marchi americani accederanno all’export verso paesi in crescita rapida. Al Vietnam – calcola lo studioso Ian Bremmer – il patto Tpp assicura una crescita del 10% in dieci anni, alla Malaysia del 5-6%. L’origine contadina Quando i soldati del generale Giap assediavano i marines nella vecchia cittadella imperiale di Hue, nel 1968, la battaglia che spezzò i nervi del presidente Johnson, il segretario Nguyen Phu Trong aveva 24 anni, ma anziché mandarlo a combattere nelle risaie il partito cui si era appena iscritto, lo spedì a lavorare come redattore alla rivista teorica dei comunisti, Tap chí Cong San «Rassegna Comunista». La sua scheda biografica, allora obbligatoria per tutti i quadri, recitava laconica: «Di origine povera e contadina». Dopo la scuola di partito e l’università, specializzato a Mosca, e una carriera brillante, Trong è adesso il comunista che apre con cautela al mercato, provando a non irritare la vecchia guardia anti-americana di Hanoi. Teme la guerra con i comunisti capitalisti di Pechino, cerca alleanza economico-militare con i capitalisti di Washington. Il mondo globale è ricco di contraddizioni, 40 anni fa a Saigon la bandiera a stelle e strisce fu ammainata per alzare la bandiera rossa con la stella gialla di Hanoi, nel 2015 i due vessilli garriscono insieme in manovre militari congiunte che hanno, come obiettivo non dichiarato, la prima flotta d’alto mare che Pechino si accinge a varare dai tempi dell’Impero, comprese due portaerei. La Banca asiatica Sorpresa dalla reazione di paura che ha accolto l’offensiva sugli isolotti Senkaku-Diaoyu, contesi al Giappone, la costruzione di isole artificiali al largo del Mar Cinese Meridionale, su rotte battute da Brunei, Malaysia, Filippine, Taiwan, Vietnam per i commerci, la pesca e le risorse sottomarine da sfruttare, ma soprattutto da un bilancio militare che registra il +10,1% nel 2015, Pechino ha cambiato tattica, lanciando la Banca asiatica di sviluppo Aiib, finanziata con 50 miliardi di euro. Goffamente Obama ha invitato europei e Giappone a non aderire, solo per vedere la storica amica, la Gran Bretagna, firmare per prima l’accordo Aiib con Xi Jinping (anche l’Italia ha, meritoriamente, aderito). Scottato, Obama ha fatto marcia indietro, in fondo Aiib può essere partner per i contratti commerciali Tpp, ma la Banca di sviluppo nasce anche dall’ammissione cinese di un errore, la maschera da Signori della Guerra non conquista consensi nel Pacifico. Le isole contese Chissà se Obama e Trong ragioneranno di Quemoy e Matsu, remote isolette cinesi che il generale nazionalista Chiang Kai-Shek rivendicava per Taiwan dopo la guerra civile cinese e che Mao Zedong prese a bombardare nel settembre del 1954, per fare il duro mentre a Ginevra si negoziava sull’Indocina e il Nord Vietnam era stato costretto a far concessioni. Il presidente Eisenhower arrivò a temere la guerra nucleare per quelle anonime rocce, si arrivò vicini all’apocalisse come a Cuba, e Mao concluse «Quemoy e Matsu sono il cappio che ho messo al collo all’America, posso stringerlo quando voglio». Obama e i vietnamiti non vogliono cappi, perché Washington ed Hanoi non hanno ancora compreso se Xi Jinping, impegnato nella sua rischiosa campagna contro la corruzione che investe ormai anche le forze armate, seguirà la lezione di controllo degli oceani dettata dall’ammiraglio Maham o invece affiderà l’egemonia cinese ai finanziamenti della Banca di sviluppo. Un dilemma cruciale delle prossime stagioni. www.riotta.it da - http://www.lastampa.it/ Titolo: Gianni RIOTTA - Mediterraneo, il nostro bivio tra affari e ideali Inserito da: Arlecchino - Maggio 10, 2016, 12:02:21 pm Mediterraneo, il nostro bivio tra affari e ideali
13/04/2016 Gianni Riotta Da sempre la politica estera Usa è divisa tra due scuole, gli «Idealisti», legati al presidente Wilson, contro i «Realisti» che hanno il loro campione nell’ex segretario di Stato Kissinger. Gli Idealisti credono che l’America debba affermare ovunque i suoi valori, i Realisti, scettici, preferiscono difendere gli interessi nazionali. Dilemma antico, se è vero che Atene, presunta madre della democrazia, ai poveri isolani di Melo che rivendicano il valore della neutralità, riserba guerra e deportazione. Torniamo ad affrontare quel bivio remoto, con le missioni del primo ministro Matteo Renzi a Teheran, dove ha incontrato il presidente riformista iraniano Hassan Rohani, e del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni a Tripoli, primo leader ricevuto dal premier libico Fayez al-Sarraj, dopo il rocambolesco sbarco del governo nella capitale. L’Italia deve limitarsi a sponsorizzare economia ed interessi nel Mediterraneo, come proporrebbero i Realisti alla Kissinger, o spingere perché gli ayatollah pongano fine alle esecuzioni, smorzino la propaganda anti Israele, concedano libertà a donne e dissidenti secondo la scuola di Wilson? In Libia e Iran, dopo le colonie e il coraggio di Enrico Mattei, dobbiamo parlare di pace, diritti, lotta al terrorismo o solo di affari? Durante la Guerra Fredda il nostro Paese aveva poca voce nel Mediterraneo e nessuna nel mondo, i governi si limitavano a piccoli cabotaggi, raccattando qualche contratto da regimi poco raccomandabili. Ora siamo nel G8, fondatori dell’Ue, membri autorevoli di Onu e Nato e l’impegno formidabile delle nostre forze armate nei contingenti multinazionali di pace, da poco anche in Iraq, sostenuto da una nuova generazione di diplomatici, dai cognomi meno altisonanti di un tempo ma assai preparati, ci ridà protagonismo. Al seguito di Renzi in Iran c’erano i capi di importanti aziende, De Scalzi di Eni, Cao di Saipem, Castellano della Sace, Nagel per Mediobanca, Mazzoncini Fs e Benedetti della Danieli, le sanzioni sono cadute dopo il patto di Rohani con il presidente Obama sul nucleare, il Paese vuol rinnovare infrastrutture decrepite e ritrova accesso ad asset congelati nelle banche. L’Italia non cresce da una generazione e ha sete di lavoro, ma per ottenerlo non c’è motivo di abdicare ai valori della nostra Costituzione, che il tricolore difende, dal Libano all’Afghanistan con militari e civili. Perché la diatriba Realisti-Idealisti è superata nell’era dei social media e della e-diplomacy, dal costante lavorio tra vertice e base, accordi con i leader e consensi, o dissensi, in eco tra i cittadini. Considerate l’impegno che il governo Renzi ha messo, fino a richiamare l’ambasciatore italiano dal Cairo, sul caso del giovane studioso Regeni, torturato e ucciso in Egitto. L’Italia ha con il regime del generale al Sisi grandi prospettive di cooperazione, anche per lo sfruttamento di giganteschi giacimenti di idrocarburi, ma cercare giustizia, per arduo che possa rivelarsi infine, non solo non ci ha reso impopolari in Egitto ma anzi, malgrado le censure, ha fatto sì che tanti ragazzi ci guardino con ammirazione dal web. Il mondo non è più, per noi italiani, mediocre bazar dove svendere merci, ma forum severo del nostro animo, di chi noi siamo davvero. I partner europei, dalla Germania alla Francia, detestano gli esami di coscienza e siglano, sereni, contratti con i peggiori regimi. Difficile far da soli le anime belle, ma anche pretendere di «fare i furbi, all’italiana» non pagherebbe. L’insediamento del governo di al Sarraj, spinto da Roma nel disinteresse cronico di Washington, è solo un piccolo, trepido, passo in un Paese lacerato da tribù ostili, miliziani Isis, interessi di potenze. Contiamo in Libia non già per il passato, ma per il presente, per quel che proviamo a fare. Non siamo stati convocati tra i Paesi che hanno trattato con l’Iran, malgrado il presidente G. W. Bush ci volesse, anche per il boicottaggio poco rispettoso di presunti alleati. Chiave decisiva è recuperare status, è agire insieme, sugli interessi e sui valori. Se invece l’opposizione depreca le intese di Teheran e Tripoli perché Renzi e Gentiloni sono di «sinistra», come una certa «sinistra» mina i contingenti di pace all’estero, considerati «di destra», se prevale l’ancestrale spirito fazioso, non firmeremo contratti né affermeremo ideali, restando la solita Italietta. Abbiamo due casi aperti, la disputa con l’India sui sottufficiali di Marina Latorre e Girone e l’inchiesta Regeni in Egitto. Saremo credibili se India ed Egitto sentiranno che, quando si tratta di cittadini italiani, siamo uniti. Nel 1983, il pilota americano Goodman fu abbattuto con il suo caccia sul Libano e tradotto prigioniero in Siria. Il reverendo afroamericano Jesse Jackson, rivale acerrimo del presidente Reagan, andò personalmente in missione dal dittatore Assad padre, ottenendo il rilascio dell’ostaggio. Reagan, felice, li accolse entrambi alla Casa Bianca. Interessi, ideali, difesa dei cittadini possono conciliarsi, a patto che l’Italia, finalmente, maturi. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Facebook riotta.it Da - http://www.lastampa.it/2016/04/13/cultura/opinioni/editoriali/mediterraneo-il-nostro-bivio-tra-affari-e-ideali-Bda7v584cINGVht1ykdSgP/pagina.html Titolo: G. RIOTTA A caccia degli ultimi vantaggi aspettando il nuovo leader degli USA Inserito da: Arlecchino - Settembre 06, 2016, 03:55:13 pm A caccia degli ultimi vantaggi aspettando il nuovo leader degli Stati Uniti
06/09/2016 GIANNI RIOTTA I G20 non sono più quelli di una volta, eleganti parate in cui i leader controfirmavano accordi redatti da felpati diplomatici. L’ultimo, a Hangzhou in Cina, è cominciato con il protocollo di Pechino, impeccabile dai tempi di Confucio, che non ha steso il tappeto rosso per Barack Obama, ha bloccato la Consigliera per la Sicurezza Nazionale Susan Rice, mentre un funzionario urlava: «È il nostro aeroporto, il nostro paese!», obbligando il presidente a scendere dal portellone merci. Ed è finito con il presidente filippino, Rodrigo Duterte, a definire Obama «figlio di p…», scontento per le pressioni sulla lotta al narcotraffico. Obama ha minimizzato «banali equivoci all’arrivo… e Duterte è un tipo bizzarro», ma la flemma non maschera l’esito del G20. Le relazioni con la Russia, malgrado un’ora e mezzo di colloquio con il presidente russo Vladimir Vladimirovič Putin, sono gelide e nessun accordo sulla Siria verrà raggiunto fino a gennaio e al nuovo presidente Usa, neppure un corridoio umanitario per i civili assediati ad Aleppo. «Manca la fiducia» ammette Obama, riconoscendo il fallimento del «reset» con Mosca, sognato quando spedì, ingenuamente, la segretario di Stato Hillary Clinton a ricucire con la Russia. Putin tiene duro a Damasco, il dittatore Assad bombarda i ribelli e non Isis (fonte Isw) e ordina la mobilitazione sul fronte ucraino, chiacchierando fitto fitto con l’uomo forte turco Erdogan durante la foto di rito, mentre Obama li guarda stupefatto. L’attività di cyberspionaggio russa sulle elezioni Usa prosegue indisturbata, terrorizzando intelligence e Casa Bianca. Il presidente Xi Jinping s’è rivelato assai meno amichevole del predecessore Hu Jintao. Malgrado una diffida precisa di Obama, Xi ha spedito alla vigilia del G20, una squadra navale con quattro mezzi della Guardia Costiera e sei d’appoggio nello Scarbourogh Shoal, area contesa dalle Filippine, dove Pechino vuol creare l’ennesima isola artificiale. Insomma, il celebrato «pivot», la svolta verso l’Asia di Obama è fallita. «Sono il primo presidente del Pacifico» aveva annunciato, vanteria già cara al vecchio Richard Nixon, ma, come per tanti suoi sogni, la realtà l’ha sorpreso negativamente. Come nota Mike Green del Center of Strategic and International Studies http://goo.gl/xyfWh3 Obama è partito nel 2009 dicendosi pronto ad accettare «gli interessi cinesi in Asia», spaventando Giappone, Australia e Vietnam, salvo poi - mentre Pechino incoraggiata armava una flotta d’alto mare per la prima volta dai tempi dell’Impero - mandare truppe in Australia. Con improvvisa marcia indietro, Obama, dopo il fallito raid in Siria 2013, provava a ricucire plaudendo al «Nuovo modello di relazioni tra le grandi potenze «di Xi Jinping, condominio sulle rotte commerciali che Washington presidia dal 1945, salvo vedersi costretto al pericoloso tackle navale nel Mar Cinese Meridionale con le squadre cinesi. Era, purtroppo, troppo tardi perché le difficilissime relazioni Washington-Mosca-Pechino ripartissero dall’ultimo G20 di Obama e leggeremo presto nelle memorie che il Presidente si appresta a scrivere - contratto pronto, 45 milioni di euro - la sua versione dei fatti. Il lettore non concluda però che il summit di Hangzhou sia stato inutile. Le grandi potenze non hanno ritrovato intesa, ma almeno i leader hanno, tardivamente, concordato sull’ondata di scontento che dall’America di Trump alla Pomerania di Merkel squassa il mondo: va affrontata, prima che degeneri in guerra e violenze. Il segretario del Tesoro Jack Lew loda il consenso su investimenti internazionali per creare lavoro. I patti di libero scambio, Tpp nel Pacifico, Ttip nell’Atlantico, restano impopolari, ma si deve però metter fine alla stagione segaligna dell’austerità. Il ministro tedesco Schauble, cavaliere dell’austerity, è stato criticatissimo a Hangzhou, con il premier australiano Turnbull a invocare «un capitalismo civile» e Xi a decretare «la vecchia strada della politica solo fiscale e monetaria è morta», con tagli annunciati su acciaio e carbone. Xi Jinping, Putin e gli europei dopo Brexit attendono il nuovo inquilino della Casa Bianca, la favorita Clinton o l’imprevedibile Trump. Fino ad allora tutti cercheranno gli ultimi vantaggi nei tanti vuoti lasciati dal carismatico Barack Obama. Facebook riotta.it Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/09/06/cultura/opinioni/editoriali/a-caccia-degli-ultimi-vantaggi-aspettando-il-nuovo-leader-degli-stati-uniti-yUTB7EW4DkL3re0RctWUNM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - “Mandate la Clinton in galera”. Inserito da: Arlecchino - Ottobre 31, 2016, 06:53:34 pm “Mandate la Clinton in galera”. Trump trova la spinta giusta e azzera il distacco nei sondaggi
È a meno 2 dalla rivale. L’effetto “mailgate” ancora deve farsi sentire 30/10/2016 Gianni Riotta New York Che week end di Halloween 2016! Donald Trump, candidato repubblicano, salta nei sondaggi al 45%, due soli punti dietro la democratica Hillary Clinton. E i numeri non calcolano ancora la reazione di un elettorato stanco, frustrato, malmostoso al caos scatenato da James Comey, repubblicano capo dell’Fbi nominato da Obama, con la irrituale lettera al Congresso su nuovi, possibili, accertamenti a proposito di e-mail della Clinton. Trick or Treat, scherzetto o dolcetto, l’America si maschera anche in politica, due tribù l’una contro l’altra armate. In New Hampshire, dove Hillary è avanti di un punto, e in Iowa, Trump avanti di un punto, il magnate di New York accoglie il dolcetto Fbi incitando le folle a «sbattere in galera Hillary», l’accento rotondo di Queens, suo quartiere natale, rilanciato rauco dai microfoni. La colonna sonora è adesso i Rolling Stones, «You can’t always get what you want», i versi dei vecchi rockettari colgono l’humor nero trumpista. Siamo andati giù alla dimostrazione, a prenderci la vostra buona dose di insulti, cantando «Noi vogliamo urlare la nostra frustrazione, altrimenti facciamo esplodere pure le valvole da 50-amp!». Trump rioccupa il terreno prediletto, il trash, il sospetto, al confine tra Vero, Falso, Verosimile, dove i militanti si caricano di energie anti Hillary, «bitch», la cagna delle t-shirt più vendute. Come osservano nel saggio appena pubblicato da Franco Angeli, «Misinformation, Guida all’età dell’informazione e della credulità» gli studiosi Quattrociocchi e Vicini, gli elettori colgono online solo i fatti che aderiscono alle loro opinioni, magma fazioso in cui Trump sguazza a suo agio. L’Fbi non ha rimesso Hillary sotto inchiesta – almeno per ora -, e Comey ha disubbidito alle indicazioni dirette del ministro della Giustizia Lynch, temendo probabilmente di essere accusato dal suo partito di parzialità filo democratici. Trump ha però buon gioco a infierire sugli errori, stupefacenti, della rivale: permettere alla fida consigliera Huma Abedin, moglie separata del disgraziato ex deputato Wiener, sorpreso a ripetizione con sms porno pare anche a minorenni, di condividere con l’assatanato coniuge il telefonino. E da questo scaricare, e stampare, mail dell’allora segretaria di Stato perché Hillary, ahinoi analfabeta digitale, non legge se non su carta e non distingue un server web privato da uno pubblico. La volata della campagna più pazza a memoria d’uomo, e stavolta sembra non entrarci Putin con gli gnomi hacker pronti a rubacchiare mail democratiche e girarle a Wikileaks, rioffre a Trump l’occasione per vincere sul filo di lana, o almeno perder bene. Lo stato maggiore del partito repubblicano, umiliato nelle primarie in primavera, costretto al silenzio dalla populista Convenzione di Cleveland in estate, aveva trovato nella débâcle delle molestie sessuali di Trump in autunno occasione per rialzare la testa, con i due ex candidati, McCain 2008 e Romney 2012 a guidare lo sdegno contro «il barbaro» Trump. Ora è in gioco anche il Senato, dove il partito ha la maggioranza 54 a 46, ma teme il pareggio 50-50 (maggioranza andrebbe ai democratici, con il vicepresidente Kaine a rompere l’impasse). Dire no a Trump e perdere la Camera Alta rischia di facilitare a Hillary la nomina di giudici costituzionali progressisti. Con Obama che si sgola a far comizi, Florida, North Carolina e Ohio stati in altalena tra i partiti, i leader repubblicani devono trangugiare l’amara realtà. Vinca o perda a novembre, Donald Trump è il loro Clown Killer, il mostro fantastico che i bambini temono divertiti questo Ognissanti. La sua presenza nella destra è e resterà forte, se davvero lanciasse un canale di talk show, ogni candidato dovrà genuflettersi, se partecipasse a future campagne sarà ostico ignorarne i seguaci scatenati. A 192 ore dal voto il pasticciaccio Comey-Fbi conferma la debolezza di Hillary come candidata (nei sondaggi parecchi repubblicani la battono facilmente), corroborata solo dall’impopolarità di Trump. Se l’aria infelice che pesa sulla democratica e il richiamo della foresta del machismo di Trump strappassero all’astensionismo gli arrabbiati elettori maschi bianchi che lo adorano, per la Clinton sarà una lunga notte, l’8 di novembre. Per questo dal presidente, alla popolarissima First Lady Michelle, alla esausta Hillary, al bonario vicepresidente Biden il grido comune è «Votate!», per questo Trump rialza a palla il volume dei Rolling Stones «Facciamo esplodere tutte le valvole!». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da -http://www.lastampa.it/2016/10/30/esteri/speciali/presidenziali-usa-2016/mandate-la-clinton-in-galera-trump-trova-la-spinta-giusta-e-azzera-il-distacco-nei-sondaggi-wPWCFpsJ3JvgvvhmPamdcJ/pagina.html Titolo: GIANNI RIOTTA - Hillary-Donald, i colpi bassi della battaglia più scorretta Inserito da: Arlecchino - Novembre 08, 2016, 10:55:23 am Hillary-Donald, i colpi bassi della battaglia più scorretta
Dai dubbi sul malore della democratica, ai commenti sessisti del tycoon. L’America oggi è spaccata. E il Presidente è visto solo il capo della gang rivale Pubblicato il 08/11/2016 Ultima modifica il 08/11/2016 alle ore 07:39 GIANNI RIOTTA - NEW YORK «La politica americana è spesso stata un’arena occupata da menti folli di rabbia. Lo chiamo stile paranoico perché evoca bene il senso diffuso di rovente esagerazione, sospetto e fantasia cospiratoria»: così, in un classico articolo del 1964 sulla rivista «Harper’s», lo studioso Richard Hofstadter condensa, con fortunato slogan, «Lo stile paranoico nella politica americana». Hofstadter elenca le occasioni in cui la repubblica si lascia sedurre dal rauco grido dei demagoghi, la caccia alle streghe anticomunista del senatore McCarthy Anni 50, il Populist Party 1895 «l’Europa complotta con l’oro contro gli Usa!», mentre, nel 1855, i giornali in Texas sono certi «I monarchi europei e il Papa di Roma organizzano in segreto la rovina americana». Alla vigilia della Prima guerra mondiale gli elettori temono che Massoni, Chiesa cattolica, Gesuiti, Mormoni, siano curvi a tramare contro Washington. Per anni il Ku Klux Klan razzista brucia le sue croci minacciose mentre gli incappucciati a cavallo linciano neri. Più tardi la John Birch Society, gruppo di ultradestra che prendeva il nome da un missionario ucciso dai cinesi nel 1945, organizza cellule clandestine contro l’invasione russa. Lee Oswald, assassino del presidente Kennedy, già voleva uccidere uno dei leader della Birch Society. L’asso dell’aviazione Lindbergh e Joseph Kennedy, fondatore della dinastia, diffidano degli ebrei e ammirano Hitler. Il presidente Nixon era così paranoico da far spiare illegalmente i democratici nell’elezione 1972 che vinse a valanga, 49 stati a 1! L’idea che la storia americana sia pervertita da agenti foschi è antica, ma le elezioni presidenziali 2016 hanno aperto un capitolo nuovo, inquietante, della saga. Alla radio del prete antisemita e anti F. D. Roosevelt padre Coughlin (1881-1979), succedono adesso hackers dalla Russia, lobby che vogliono bloccare Sanders, Trump o Hillary. L’Fbi, con il suo capo Comey, prima passa per lacchè dei democratici poi dei repubblicani, in un delirio di impotenza complottista, inchiesta su Clinton sì o no? che sporca il dibattito democratico e semina una zizzania di odio che non avvizzisce mai. La piaga nell’anima americana è profonda, aperta, infetta, e dubito che il prossimo presidente possa lenirla. Il grido della Convenzione di Cleveland «Arrestate Hillary!», gli insulti di Trump al padre di un eroe caduto in guerra solo perché musulmano, Trump che irride un cronista malato, insulta i messicani, la sua voce dai nastri «le donne devi acchiapparle dalla …» pesano sulle coscienze. Ma non dimenticate l’effetto maligno che, sull’altra metà degli elettori, hanno silenzi e bugie di Clinton sulle email abusivamente diffuse da un server privato, i suoi cambi di idea opportunisti - sul libero commercio, ad esempio - per trovare voti a sinistra, la volgarità dell’ex deputato democratico Weiner che fa il bulletto con le teenager al cellulare, mentre la moglie Huma, braccio destro di Hillary, scarica sullo stesso telefonino, tra immagini porno, le mail riservate della candidata. Donna Brazile, pomposa e arrogante ex capo della campagna di Al Gore 2000 (fu lei a mandarlo allo sbaraglio, persuadendolo a fare il populista e escludere Bill Clinton dai comizi) che, pagata come commentatrice dalla rete tv Cnn, manda di nascosto le domande che faranno alla Hillary, per poi mendicare in cambio del servizietto una prebenda, che vergogna è? Francis Scott Fitzgerald scriveva che a stroncare il romantico Grande Gatsby «fu la polvere sporca che fluttuava sulla scia dei suoi sogni»: ecco, in questi mesi una «polvere sporca» ha inquinato i «sogni» dell’intero Paese. Che Hillary Clinton non sia solo la rapace paladina di Goldman Sachs, o la claudicante anziana stroncata dalla polmonite, ma oggi possa essere eletta prima donna presidente degli Stati Uniti è conquista storica che il tanfo da talk show e la schiuma da web finiscono per oscurare. Una donna presidente, la sola dal 1776, dovrebbe comunque unire il Paese in celebrazione, invece i repubblicani già affilano i coltelli per l’impeachment e la sinistra sanderista sbuffa scontenta. Non confondete, come fanno i falchi spiumati del presidente G.W. Bush, la crassa volgarità del Trimalcione Trump con le profonde radici di rabbia che spaccano il partito repubblicano e che, anche se sconfitte, lo agiteranno per anni. Nel 1965, nel Sud dell’America, bianchi e neri non potevano ancora usare gli stessi bagni. Nel 2008 l’America ha eletto un presidente afroamericano con il mondo ammirato dal progresso straordinario. Ma la Storia procede in fila indiana, quando Obama arriva alla Casa Bianca milioni di neri restano staccati indietro, e con loro altrettanti bianchi terrorizzati che il Paese diventi multietnico, transgender, diverso dal villaggio bonario da Happy Days che guardavano da bambini in tv. Queste retrovie dimenticate si vendicano nel 2016. Trump non è un fascista, come crede una destra colta ma narcisista, è un demagogo che offre alla rabbia reale di chi ha ceduto il posto a un robot, vede la pensione sfumare, teme per la fede religiosa, bersagli fittizi su cui sfogare frustrazioni, Messicani, Donne, Europei, Minoranze, Banche, Fisco. Nel XVII secolo i Padri Fondatori concepirono la figura del Presidente come un Re Democratico, con sigillo e inno, un patriarca che unisse il Paese al di là della politica chiassosa. Quel sogno è scomparso. Nel XXI secolo il Presidente è il capo della gang rivale, da sgarrettare non appena abbassa la guardia. Facebook riotta.it Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/11/08/esteri/speciali/presidenziali-usa-2016/hillarydonald-i-colpi-bassi-della-battaglia-pi-scorretta-GJLxMkKp3eZw4ToUux0lXL/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Donne bianche e tute blu: le chiavi del successo di Trump Inserito da: Arlecchino - Novembre 11, 2016, 06:12:04 pm Donne bianche e tute blu: le chiavi del successo di Trump
Lavoratori e le classi meno istruite hanno spinto Donald. Il repubblicano abile a parlare dei temi ignorando i sondaggi Pubblicato il 10/11/2016 Gianni Riotta New York «L’elezione di Donald Trump è una tragedia per la repubblica americana, una tragedia per la Costituzione e un trionfo per le forze… del nazionalismo, autoritarismo, misoginia e razzismo… un evento nauseante per la storia degli Stati Uniti e la democrazia liberale… che provoca ribrezzo e ansia»: se l’editoriale di David Remnick, direttore del settimanale «The New Yorker», vi sembra eccessivo, confrontatelo con quello di un repubblicano di destra come Max Boot, del Council on Foreign Relations. «Trump ha trasformato il partito nel Circolo degli Stupidi… è fiero della sua ignoranza e ha letto meno libri di quanti Teddy Roosevelt ne abbia scritto, promuovendo posizioni nazionalistiche, isolazioniste e protezioniste che preoccupano… ». Se, da sinistra e destra, questo è il voto a Trump, come mai l’America l’ha eletto martedì a sorpresa, sconvolgendo i sondaggi che assegnavano la Casa Bianca a Hillary Clinton? Per capire come la crociata del «Circolo degli Stupidi» abbia conquistato l’ultima superpotenza al mondo dovete riguardare la strategia che, ormai dal 2008, il presidente Barack Obama ha assegnato al suo partito. I Big Data, le rilevazioni statistiche derivate dai social media, i trend, i sondaggi, le mail degli elettori, vengono combinate da algoritmi in «files», elenchi, di persone e posizioni, cui si assegnano dei voti, Molto vicino a votarci, oppure, Mai ci voterà. Hillary Clinton ha usato questa tecnica, decidendo giorno per giorno che dichiarazioni fare, dove parlare e dove no, quali temi sollevare. Il risultato, assente la carismatica personalità di Barack Obama, è stata una campagna noiosa, senz’anima che non ha riscaldato la base democratica, né mobilitato i neri, gli ispanici, i giovani del socialista Sanders e Clinton è mancata, negli stati cruciali, la spinta decisiva per vincere. Trump ha fatto l’opposto. Senza chiedere un parere ai suoi consiglieri ha seguito l’istinto – anatema per gli esperti di dati come Nate Silver, che prediligono i numeri, diffidando dal «naso» di politici e giornalisti- e ha dimostrato di saper intuire da che parte gli americani vanno. È il paradosso del 2016. Un figlio del privilegio di Queens a New York, che ha studiato in scuole private, è cresciuto nel lusso ed è stato avviato al lavoro dal padre con un milione di dollari, ha casa e ufficio nel grattacielo più di lusso, magari un po’ kitsch, della Fifth Avenue, diventa il campione dell’America povera, rurale, che non vive in città, non viaggia, non ha avuto tre mogli ma vive con la ragazza sposata al liceo e guadagna in un anno quanto Trump brucia in un week end. Trump ha vinto perché i bianchi senza titolo di studio lo hanno seguito con entusiasmo, spaventati dalla crisi economica, delusi dalla disattenzione di Obama, spaventati dal crimine, preda di una epidemia di stupefacenti che ha fatto strage, per esempio, in New Hampshire. Dopo essersi allungata per secoli, l’età media dei maschi bianchi americani ora si accorcia, la crisi ha indotto suicidi, abuso di psicofarmaci e alcolismo. C’era prima un gradino nella vita media tra bianchi e neri, adesso è tra ricchi e poveri, delusione e paura hanno seminato rabbia. Nelle città, nelle aree della ricerca e della nuova economia i democratici hanno continuato a crescere, Clinton ha vinto il voto popolare infatti, ma nelle aree rurali, dalla Florida all’Alaska, Trump ha dominato. Con numeri che non lasciano dubbi: Lackawanna County, Pennsylvania, Obama ha vinto con +27 punti, Clinton ne ha persi 24; tra i neri Obama toccò il 93%, Hillary è scesa all’88; e tra gli ispanici, malgrado avesse definito i messicani «stupratori», Trump ha avuto il 29%, facendo meglio di Romney del 2012, che si fermò a quota 27%. Dove la campagna di Trump fa terra bruciata è tra i maschi bianchi senza laurea. Un bollettino di guerra per i democratici, New Hampshire +18, Colorado +21, Arizona +22, Wisconsin +24, Michigan + 31, Georgia + 64, North Carolina +40, Florida +34... Davanti a questa offensiva bianca, ogni resistenza che Hillary ha frapposto con la sua coalizione di laureati (in partenza 50% dell’elettorato), donne e minoranze, s’è sbriciolata. Malgrado le accuse di molestie sessuali e i modi molto maschilisti Trump ha umiliato le speranze della prima donna Presidente anche nell’elettorato femminile bianco, vincendo 52 a 48. Si è così realizzata, 12 anni dopo, la previsione del professore Samuel Huntington: «Le forze che stanno scuotendo il centro della cultura americana e del suo credo potrebbero generare un movimento bianco per rilanciare l’identità etnica e razziale, temi che sembravano obsoleti. Si creerebbe così un’America, che potrebbe escludere, espellere o reprimere altri gruppi razziali, etnici e culturali. L’esperienza storica contemporanea – concludeva il conservatore Huntington - suggerisce che è molto probabile che quando un gruppo etnico-razziale, già dominante si sente minacciato dall’ascesa di altri gruppi reagisca, generando un paese intollerante, con alti livelli di scontro fra le comunità». La profezia di Huntington sembra avverarsi quando i ragazzi scendono in strada per le prime manifestazioni, Oregon, California, Washington, poca roba, falò, ma che gli eccessi di Trump potrebbero indurre a peggiori propositi. Eppure questa miscela e la capacità comunicativa di Trump, a poche ore dal voto, erano indietro. Cosa abbiamo mancato noi che seguiamo i sondaggi? Studiare Cambridge Analytica, società diretta da Matt Oczkowski che ha sì analizzato i Big Data, ma partendo non dai numeri ma dal significato dei messaggi, la semantica, una tecnica innovativa che ha permesso a Trump di essere se stesso, non più legato al canovaccio del testo scritto che l’aveva mandato indietro in settembre. Naturalmente, online, Cambridge Analytica è già considerata «una misteriosa compagnia» dai complottisti: perché questa è l’America divisa, odio, rancore, misteri, una miscela in cui Donald Trump nuota come un pesce, anzi un presidente. Facebook riotta.it Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2016/11/10/esteri/speciali/presidenziali-usa-2016/donne-bianche-e-tute-blu-le-chiavi-del-successo-di-trump-w0nU5MLqYQdxaG0On7VWYL/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Tra i minatori del Kentucky: “Saremo anche ignoranti ma ... Inserito da: Arlecchino - Novembre 12, 2016, 12:21:12 pm Tra i minatori del Kentucky: “Saremo anche ignoranti ma abbiamo fatto la storia”
Nella contea del carbone che ha spinto il magnate alla Casa Bianca dove il dibattito sul clima conta meno dei posti di lavoro persi L’Università di Stato del Kentucky è un’università pubblica, con sede a Lexington. È stata fondata nel 1865 Pubblicato il 12/11/2016 Ultima modifica il 12/11/2016 alle ore 07:30 Gianni Riotta Frankfort (Kentucky) «Fare il minatore, nel Kentucky orientale, non è un lavoro, è un modo di vivere. È la tua esistenza, la tua cultura. Una fratellanza umana, che sfama e manda i figli al college, grazie a chi invece scende sottoterra senza poter studiare. La miniera è lavoro onesto, duro, manuale, ingrato, crudele, spoglio e pericolosissimo. I minatori hanno costruito l’America. Sono gente fiera, non ignoranti subumani. Sono fieri, l’avete capito?». Rifletto su questa commossa difesa dei minatori del Kentucky, dai viali assolati della cittadina di Frankfort. Nel 1780 gli indiani uccisero sulla riva del fiume Kentucky un pioniere di nome Frank, e i compagni gli dedicarono il villaggio. Gli eredi del povero Frank hanno ora portato alla vittoria Donald Trump, umiliando la Clinton, i minatori odiano gli accordi di Parigi firmati da Obama, perché chiudono la loro storia pur di ridurre l’anidride carbonica. Quando Trump promette, «Straccio il patto contro i gas serra!» applaudono, battendo i piedi con gli scarponi Timberland gialli. Sono ormai rimasti in pochi in vallata, 6900, meno che nel 1898, gli ultimi licenziamenti di febbraio, 1500 senza lavoro. Gli altri a vivere arrangiandosi, poco nobile per chi «ha costruito l’America ed è fiero», «Negli anni Venti ogni anno la popolazione raddoppiava». Gli ambulatori a Frankfort curano «black lungs», polmoni neri, le malattie professionali dei minatori, ma la disoccupazione è la malattia peggiore. Chi è «fiero» di avere «costruito il Paese» soffre poi di alcolismo, eroina, solitudine, depressione, divorzi, suicidi. La vita media degli operai non cresce, torna ai tempi del pioniere Frank. Sul viale centrale di Frankfort, Broadway, si apre la libreria «Poor Richard», che da 40 anni è amministrata da Lizz Taylor, «visita la soffitta, ci sono migliaia di libri antichi», e quando salgo le scale cigolanti entro davvero nella Caverna di Ali Babà, con i volumi che Signori e Signore leggevano quando i minatori scavavano. Su una copia del Faust degli Harvard Classics, la collana che «ogni uomo colto deve leggere per 15 minuti al giorno», un nome scritto col pennino, «Margaret Swift» e la data «1911». «Il carbone permetteva agli aristocratici di studiare Goethe e ai poveri di non morire di fame come sui monti Appalachi era la regola. Io ho votato Hillary, ma capisco chi vota Trump. Sanders era troppo di sinistra, Hillary troppo moderata. In mezzo s’è infilato Trump» conclude saggia Lizz. Attraversato un vicolo, vedete la vetrina brillante di Kentucky Knows. La porta la apre il proprietario, Tony Davis, orgoglioso di esporre su un manichino la divisa da marine, «Ho servito nel corpo per 4 anni, qui molte famiglie sono militari, alcune hanno combattuto con Washington». Tony compra centinaia di botti usate del bourbon, il whiskey locale che ha reso lo Stato, con il derby dei cavalli e il cocktail alla menta «Mint Julep», famoso. Poi le smonta, doga per doga, e ne ricava mobili d’arte fantastici, legno ricco, grasso, stagionato. Tony, e il suo amico John, invitato a bere un caffè al bourbon, sono cauti, «il popolo ha parlato, siamo ex militari, il presidente è Capo delle Forze Armate», poi si sciolgono, «non era una scelta felice ok? Ma Hillary ci veniva addosso, qui la gente ha paura. Sa cosa fanno per eliminare la povertà dalle vallate più misere? Danno sussidi alle famiglie, perché traslochino dove possono sperare in un lavoro. Vai a vedere i traslochi, si spezza il cuore, qui tengono in soffitta le medaglie del trisnonno alla Guerra Civile, le pallottole Miniè, che si trovano nei boschi», rozze munizioni che aprivano ferite curabili solo con amputazioni e sega da falegname. «Siamo americani, dobbiamo unirci» dice Tony. Ieri era Veteran’s Day, il giorno dei veterani militari e nel patriottico Sud garriva ovunque Old Glory, la bandiera a stelle e strisce. Nel cimitero di Versailles, una dolce collina alla Spoon River, una bandierina su ogni lapide di ex soldato. E davanti al ristorante Cattleman, specialità costolette di porco fritte con le cipolle, passeggia John Howard, il cappello con le decorazioni e la scritta «Reduce di Corea e Vietnam» calcato in testa. Nel 1957 il presidente, ed ex generale, Eisenhower teneva, prudente, in Vietnam solo 693 militari americani, sceltissimi uomini di intelligence e controguerriglia. Howard era uno di loro, già reduce del gelo coreano, poi Francia, Italia, Germania: «La scelta politica era mediocre, il Paese è spaccato. Tu da dove vieni?» intima con tono da ufficiale. New York Sir. «Ah un maledetto yankee, un nordista eh, li detestiamo qui quelli come voi» e ride con occhi felici. Poi si fa serissimo «Nulla per noi ex militari è doloroso come l’America che si odia, tra fratelli. Dobbiamo andare avanti. Trump è presidente? Spero faccia del bene all’esercito». Nelle grandi città, militanti di sinistra, che spesso non hanno neppure votato Clinton, marciano in strada, pochi ma con al seguito telecamere e web. Trump, abile, ne approfitta e denuncia gli intolleranti. Qui, nel Trumpland profondo, non trovate invece neppure una voce rauca. Ogni elettore democratico, Lizz, o la sua commessa Kathy, soavi capelli grigi, «lo so, a Hollywood mi darebbero la parte della bibliotecaria in un giallo!», difende i minatori che votano repubblicano. Fascisti! gridano a Broadway, New York. Brava gente che vuol vivere, spiegano a Broadway, Frankfort. Rimugino le parole così forti, «Fieri, hanno costruito l’America i minatori», ascolto vicende come quella di Gary Hall, caposquadra per 33 anni sottoterra, ultimo lavoro a Pike County, disoccupato dal marzo 2015, «niente mutua e purtroppo noi ci ammaliamo spesso. Dopo una vita in miniera mi ci vedi a fare la guida turistica?». Con i prati di bluegrass, i vigneti, i cavalli a guardare dagli steccati, Eastern Kentucky è meraviglioso, ma pochi turisti sono attratti dalle distillerie pregiate del Bourbon, «abbiamo inquinato, scappano» lamenta Lizz Taylor. Per questo qui il livore dei cortei non arriva. Le parole di nostalgia per i minatori che votano Trump, orfani del loro piccolo mondo antico, sono di Ivy Brashear, gay, femminista, blogger Huffington Post, militante di Hillary, «ma con la famiglia qui da 10 generazioni». «Io temo la presidenza Trump come donna, come queer, come progressista - spiega Ivy - Ma non odio né incolpo i minatori e chi lo ha votato qui, perché non siamo né diversi, né nemici, siamo la stessa cosa, gente del Kentucky. Lo so, la pensiamo in modo opposto, ma non siamo quella robaccia cui questa elezioni ci vogliono ridurre. Siamo cresciuti insieme nelle valli, famiglie numerose e unite, la luce fino a tardi in estate, i cani che si chiamano di collina in collina e Nonna che prepara cena per un esercito. Non abbiamo vicini di casa, abbiamo amici e dobbiamo trovare subito insieme un porticato con le dondolo e ragionare, uniti contro i Politici che non ci capiscono, divorando pomodori in insalata». Lascio Frankfort con nello zainetto il caffè aromatizzato al bourbon regalo di Tony, un libro di poesie del ’32 della Lizz e la certezza che se Hillary avesse avuto Ivy Breashar come consulente, anziché i parrucconi dell’immagine laccata, ‘ste elezioni non le perdeva. Facebook riotta.it Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da- http://www.lastampa.it/2016/11/12/esteri/speciali/presidenziali-usa-2016/tra-i-minatori-del-kentucky-saremo-anche-ignoranti-ma-abbiamo-fatto-la-storia-6T05y0CAMaoyMptgqHjNDL/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Tra gli ex operai di Detroit che hanno tradito i Democratici Inserito da: Arlecchino - Novembre 16, 2016, 11:26:46 pm Tra gli ex operai di Detroit che hanno tradito i Democratici
L’ex cuore industriale d’America si è affidato al tycoon repubblicano che prometteva di ridare lavoro e futuro alle tute blu ormai disoccupate Nel 2013 la città di Detroit ha dichiarato fallimento. Molti quartieri sono rimasti deserti: in tre anni ha perso decine di migliaia di abitanti Pubblicato il 14/11/2016 Ultima modifica il 14/11/2016 alle ore 07:07 Gianni Riotta - Detroit I coloni francesi scacciarono gli indiani Irochesi da antiche valli, fiumi e laghi, avidi di pellicce e territorio, imponendo la pronuncia allo stato del Michigan, «sh» dolce. La metropoli di Detroit la battezzarono dal fiume Detroit, «le détroit du lac Érié» lo stretto sul lago Erie, e se l’inflessione parigina del XVII secolo fosse arrivata fino a noi, Eminem e gli altri rapper bianchi e neri, lamenterebbero rauchi il declino urbano di «Detruà». Troppo chic per gli emigranti polacchi, italiani, ungheresi, belgi, greci, ebrei, fino agli Yugos e Albos, rivali jugoslavi e albanesi arrivati per ultimi, in cerca di un posto di lavoro alle catena di montaggio dell’auto. Eminem canta dunque di «Detroit contro tutti… Negli ultimi tempi sembra che sia io contro tutto il mondo… ma anche se cerco di scappare dalla povertà della strada voglio restare qui… portatemi via con gli amici, alla concessionaria Mercedes». Eminem lavava i piatti da Gilbert’s Lodge, vedeva nel viale 8 Mile Road il confine tra borghesia e «white trash», la spazzatura bianca, cui apparteneva, le famiglie travolte dalla crisi della grande industria. Questa è Macomb County, e qui Hillary ha perso le elezioni contro Donald Trump. Non cercate lontano, cercate qui, Michigan, pronunciato in americano dai tanti, come Eminem, che alla prima superiore, bocciati tre volte, lasciano la scuola per sempre. A Macomb County, l’8 novembre 1960, il cattolico John Kennedy ebbe la migliore percentuale in tutta l’America contro il repubblicano Nixon, 63% a 37. Qui Obama vinse contro McCain e Romney e qui, la campagna di Hillary era certa di vincere, nessuno spot in tv, nessun comizio. Invece il 6 novembre, nello stupore dei suoi consiglieri che giudicavano il Michigan una causa persa, Donald Trump appare a sorpresa al Teatro Freedom Hall di Sterling Heights. A rivederlo da fuori adesso, vuoto, con il prato stento, qualche cartaccia in volo, un cestino colmo di spazzatura, sembra il monumento alla delusione democratica. Joey, uno dei guardiani, è anziano, vota democratico, «Stavo nel sindacato con mio padre, United Auto Worker. Facemmo lo sciopero per il “30 and out”, 30 anni alla catena di montaggio e in pensione, vincemmo e che bei soldi ragazzi, mutua, scuola, assunzione per i figli. Venivano da tutto il mondo, noi neri dal Sud. Al comizio di Trump vendevamo chili, la birra era vietata, ma girava lo stesso. Ha gridato che non era finita, che le vinceva lui le elezioni. Non ci credevo, ma ha avuto ragione. In sala ho visto tanti miei vecchi compagni, e i loro figli disoccupati». Quel che Joey osserva, esterrefatto, al comizio di Sterling Heights, allarmava già da tempo Debbie Dingell, deputata del XII distretto dove lavora la Ford-Mazda ma la GM ha chiuso una fabbrica e la città di Allen Park è in bancarotta. La Dingell si attacca al telefono, prova con Hillary, chiama anche Bill Clinton. Ha 28 anni meno del marito, John Dingell, che eletto nel XII distretto nel 1955 è recordman della Camera. Lui ricorda la Detroit che dai 426.000 abitanti del 1900 esplode a 2.200.000 in trenta anni. Lei è cresciuta nella Detroit che da 1.800.000 cittadini del 1950 crolla a 713.000 del 2010. Il Michigan ha perso tra il 2002 e il 2009 631.000 posti di lavoro, poco meno dell’intera Detroit. La Dingell prega la campagna di Washington di mandare Hillary, Bill, Obama, la Michelle, «Siamo alle corde, gli operai non ci votano dicevo. Non mi rispondevano. Alla fine han mandato Bill, siamo andati in giro a fare compere per incontrare gli elettori, troppo poco e troppo tardi!». Tanti tra quei 631.000 licenziati corrono da Trump, che accusa Hillary di essere il passato, e promette il ritorno dei tempi del «30 and out», salario, mutua, pensione. 56 anni dopo il record di Kennedy, Trump espugna Macomb County, 54% a 42 contro la Clinton. 48.348 voti che gli consegnano l’intero Michigan, per sole 13.107 schede di scarto. Non c’è stato nessun boom di Trump alle urne martedì scorso, Hillary è la seconda candidata più votata della storia, e solo 33.000 voti, in roulette fra Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, hanno dato la Casa Bianca all’ex re dei casino di Atlantic City. Hillary ha perso dove Eminem lavava i piatti perché ha cercato la «valanga», vincere ovunque, anziché consolidare con prudenza i 263 punti elettorali che a lungo ha avuto in tasca. Ora tutti andiamo in pellegrinaggio dall’esperto professor Timothy Bledsoe, dell’Università Wayne State: «Ho il sospetto che il caso Macomb sia vero in tutto il Midwest. È la rivolta della classe operaia bianca, base della coalizione democratica da generazioni… al comizio di Sterling Heights Trump ha spiegato che la Gran Bretagna torna ricca con Brexit e l’America con lui, che le tute blu sono vittime della globalizzazione e lui rovescerà il sistema per loro». Eppure, nella rotta democratica, proprio in Michigan, a Detroit, il professor Bledsoe vede la base della riscossa democratica 2020: primi nel voto popolare, con 48 stati a 2 nel voto under 25, i democratici «devono guardare a contee come Oakland e Wayne, dove han vinto col 51% e il 66%. Macomb e le tute blu sono il passato, all’ultima carica pur vincente. A Oakland e Wayne c’è il futuro dell’America, donne, laureati, tecnici, cultura cosmopolita». Se Bledsoe ha ragione, la campagna elettorale 2020 comincia dunque a 12 Mile Road di Royal Oak, dove ammirate la massiccia torre e la basilica cattolica di Little Flower. Qui, negli Anni Trenta, dalla sua radio, il popolarissimo reverendo Coughlin avvelenava gli animi con una propaganda che anticipava i temi peggiori di Trump, «Non barattiamo la nostra libertà nazionale per accordi con gli stranieri che ci imbrogliano. Chiudiamoci al mondo e pensiamo alla ricchezza americana!». Padre Coughlin finì antisemita e filofascista, l’America di Roosevelt prevalse. Oggi sulla basilica del Little Flower sventolano i manifesti col sorriso di papa Francesco, a Royal Oak e alla vicina Ferndale vivono gay, single, tecnici esperti che lavorano alla fabbrica di carri armati M1, al sofisticato Tech Center della GM, disegnato dal maestro dell’architettura Eero Saarinen. La rabbia di padre Coughlin fu spenta dalle masse ottimiste del New Deal di Roosevelt e l’America si salvò da Depressione e dittature che travolsero l’Europa. Due Americhe, i delusi di Macomb e gli ottimisti digitali di Oakland, si affronteranno da qui al 2020. Ma primi diminuiscono ogni giorno, gli altri si moltiplicano, a patto naturalmente che i democratici trovino un candidato capace di unirli. E qui, vale la rima di Eminem, sono davvero per ora «soli contro tutti». Facebook riotta.it Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2016/11/14/esteri/speciali/presidenziali-usa-2016/tra-gli-ex-operai-di-detroit-che-hanno-tradito-i-democratici-3WmIFFbGMiPOZECbf3zYNK/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Le dimissioni di Renzi, la caduta di Roma Inserito da: Arlecchino - Dicembre 08, 2016, 06:38:18 pm Le dimissioni di Renzi, la caduta di Roma
Gli italiani hanno bocciato i grandi cambiamenti immaginati da Matteo Renzi ma potranno vivere senza lavoro, crescita e riforme? Pubblicato il 07/12/2016 Ultima modifica il 07/12/2016 alle ore 18:03 Gianni Riotta Gli italiani hanno abbandonato il loro quarto primo ministro nel giro di cinque anni, essendosi sbarazzati del magnate della televisione, Silvio Berlusconi nel 2011, del tecnocrate Mario Monti, dell’ex democristiano Enrico Letta e adesso dello sfacciato rottamatore in persona, Matteo Renzi. In un referendum che doveva decidere il destino di una serie di riforme costituzionale - Renzi cercava di eliminare alcuni dei meccanismi più dubbiosi della politica italiana – gli elettori sono riusciti a infliggere una dura sconfitta mortale all’ex boy scout fiorentino. Renzi, che entrò in carica da infaticabile outsider, promettendo che avrebbe distrutto i vecchi modi di fare a Roma, si è lasciato annegare nella palude. Solo due anni fa, alle elezioni europee, Renzi ha vinto con il 40% dei voti al suo Pd, quando era al governo da pochi mesi. La dimensione di questa vittoria, insieme all’energia di Renzi sembravano annunciare una nuova epoca di rinnovamento politico a un’Italia fossilizzata e gerontocratica. Il suo grido di battaglia allora era: “Rottamazione!”, eliminare la vecchia classe dirigente. All’epoca, quella classe dirigente sembrava paralizzata, la destra non riusciva a liberarsi di Berlusconi mentre il centro-sinistra non riusciva a trovare un erede all’ex primo ministro Romano Prodi. Renzi, invece, è entrato a Palazzo Chigi con la promessa di far passare una riforma al mese. E ha fatto dei progressi, almeno all’inizio. Una volta al comando, Renzi ha adottato le prime riforme economiche: ha cercato di ravvivare il mercato del lavoro italiano, bloccato dal 2008, quando scoppiò la crisi economica. Ha dichiarato la guerra contro lo status quo, coinvolgendo una generazione più giovane in politica e costringendo i vecchi cavalli come l’ex primo ministro Massimo D’Alema e l’ex ministro della Cultura Walter Veltroni ad andare in pensione. Persino Berlusconi sembrava sbalordito dalla sua energia, la sua sagacia mediatica e la sua eloquenza, appoggiando per un periodo il suo governo con il cosiddetto «Patto del Nazareno», che prende il suo nome dall’antico vicolo romano dove il patto è stato siglato. Ma in breve tempo Renzi ha iniziato a perdere il tocco magico. Invece di rimanere concentrato sulle urgenti riforme economiche - non c’è stata crescita nel Paese per una intera generazione, la disoccupazione è ancora alle stelle e il debito ha raggiunto il 133% del Pil, una cifra sconcertante – ha mandato la sua coalizione incerta fatta da Pd e da una variopinta combriccola di berlusconiani sulla strada pericolosa della la riforma costituzionale, un’impresa che forse era destinata a fallire sin dall’inizio. Renzi aveva ragione: le strutture governative dell’Italia hanno un forte bisogno di essere riformate. Nel 1946, i padri fondatori della repubblica hanno approvato volutamente un sistema scomodo di pesi e contrappesi, per evitare la concentrazione di potere dopo vent’anni di fascismo. Nonostante le loro nobili intenzioni, hanno portato a uno stato attuale nel Paese in cui governare richiede uno sforzo kafkiano. Potenziali leggi si mandano avanti e indietro tra la Camera dei Deputati e il Senato; una proposta di legge deve essere votata almeno due volte dai deputati e dai senatori, a prescindere della sua importanza, finché il testo approvato è identico fino all’ultima virgola. Grazie a una tattica astuta e una grande dose di fortuna, è riuscito a superare questo caos facendo passare le sue proposte per una riforma costituzionale; grazie anche a un’opposizione di centrodestra indebolita dall’assenza di Berlusconi impegnato a fare servizio civile, scontando una pena per truffa e sottoponendosi a un’operazione a cuore aperto. Il ministro delle riforme Maria Elena Boschi, razionale giovane avvocato, è stata fondamentale in questo impegno, persuadendo la vecchia classe parlamentare a passare le leggi; una leader emergente di cui l’Europa non ha ancora visto la fine. Ma una volta passate le sue riforme dal Parlamento, l’astuzia tattica è stata seguita da una strategia fallimentare: Renzi non ha creato un fronte unito per la campagna del referendum. Salvo la Boschi, il suo astuto ministro degli esteri, Paolo Gentiloni e il suo sagace portavoce, Filippo Sensi, il premier è rimasto completamente solo nel tentativo di convincere gli italiani a votare per il Sì – e si è apparentemente illuso di essere capace di portare avanti il Paese da solo. Nonostante ciò, Renzi aveva forse ancora la possibilità di sopravvivere a una sconfitta del referendum. Ma non appena le riforme sono state approvate, il primo ministro ha commesso il peccato capitale della superbia. Il giovane leader, che una volta era stato così magicamente in sintonia con i cittadini, ha fatalmente proclamato al sua decisione di dimettersi se le sue riforme costituzionali non fossero state approvate. Questo era Renzi per antonomasia, un giocatore d’azzardo che scommetteva la sua carriera politica come nessuno ha mai fatto nel continuo gioco delle sedie musicali (un gioco dove la musica suona e appena si spegne tutti i bambini devono sedersi, che non riesce è fuori) che rappresenta Roma. A lui però gli veniva spontaneo. Da giovane, Renzi ha partecipato al celebre quiz televisivo La Ruota della Fortuna. Un filmato che gira ancora su YouTube mostra il “Campione” – cosi lo chiamava il famoso presentatore Mike Buongiorno – che dopo aver vinto vari giri consecutivi, si faceva fregare da una risposta data con troppa fretta. La sua impazienza lo aveva tradito. Questa settimana, la sua passione per l’azzardo e la sua presunzione gli si sono ritorti contro di nuovo. Beppe Grillo, fondatore del Movimento populista Cinque Stelle che ha vinto le recenti elezioni comunali a Roma e Torino, è stato il primo a sentire l’odore del sangue. Presto, gli altri squali hanno iniziato a girare intorno. Con Renzi distratto dai suoi sforzi di riforme destinati all’insuccesso, il Pd si è immerso nelle stesse lotte interne che hanno afflitto la sinistra italiana per decadi. Gli ex primi ministri D’Alema e Monti hanno fatto una dura campagna per convincere gli elettori a rifiutare le riforme, violando la fedeltà al partito e al gabinetto, martellando Renzi per la sostanza delle riforme in questione. L’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, si è aggiunto a loro, nonostante avesse votato la nuova legge ben tre volte in due anni di dibattito parlamentare. La Cgil, insieme a studiosi di legge guidati dall’autorevole giudice Gustavo Zagrebelsky, si sono uniti in una coalizione bizzarra, con il partito anti-euro e anti-immigrati della Lega Nord, i neo-fascisti, i Berlusconiani e i Grillini. L’ex presidente Giorgio Napolitano e Prodi hanno cercato di mantenere la calma, appoggiando il Sì, ma senza successo. Il giorno del voto, La Stampa ha pubblicato una ricerca di Catchy, un gruppo di analisti di big data (di cui io faccio parte). La ricerca ha rivelato, con straordinaria chiarezza, che durante la campagna, il Paese non discuteva le riforme né dibatteva gli aspetti cruciali dell’eliminazione del Senato. Il voto di domenica sarebbe sempre stato, nello stile dei gladiatori romani, un’approvazione o disapprovazione brutale su Matteo Renzi, tanto amato in passato. Va riconosciuto il fatto che il primo ministro ha lottato con forza, affrontando i suoi tanti nemici da solo. Ma alla fine si è arreso. La scorsa domenica, cercava di trattenere le lacrime mentre ammetteva la sua sconfitta, congratulandosi con i suoi avversari, chiamando la sua base a non mollare e a non disperare ed elogiando le passioni democratiche delle Patria. Poi si è dimesso. Resterà al potere solo nominalmente per passare le leggi di bilancio – per poi lasciare l’ufficio in teoria per sempre. La decisione di Renzi di fare del referendum una questione personale – invitando i cittadini a usare il loro voto come un mezzo per dare il loro verdetto sul suo governo – è stata alla base della sconfitta. È stato un errore, è vero – ma questa spavalderia è una caratteristica innata della sua personalità. Il suo più grave e fatale errore che non si spiega così facilmente, è stato quello di distogliere lo sguardo dalle riforme economiche, in un momento quando gli elettori erano arrabbiati a causa della corruzione e affamati di lavoro, crescita e facilitazioni. Ha lasciato da parte il ruolo di rottamatore per recitare il ruolo di razionale leader della classe dirigente, cercando in vano di ottenere concessioni dai maestri dell’austerity della Commissione Europea con i visi freddi e inespressivi. Così facendo, ha sottovalutato il fervore populista che si espandeva dal Regno Unito fino agli Stati Uniti, alla Francia e adesso l’Italia. È da mesi ormai che nei salotti romani si cerca di capire chi sarà il nuovo primo ministro, il quinto in cinque sfortunati anni. Sarà l’autorevole economista Pier Carlo Padoan che potrebbe stabilizzare i mercati? O l’ex procuratore nazionale anti-mafia Pietro Grasso? Oppure l’amato ministro della cultura, Dario Franceschini? Il compito di scegliere sta nelle mani di un discreto professore di diritto diventato presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Un vedovo tranquillo, Mattarella, è entrato in politica solo dopo che la mafia ha ucciso suo fratello, un politico siciliano. Odia essere sotto i riflettori ma adesso dovrà farlo per forza. Due anni fa, in un articolo che ho pubblicato su Foreign Policy, ho avvertito Renzi di rimanere concentrato perchè il tempo non era dalla sua parte e le sabbie mobili tipiche in Italia, erano ansiose di ingoiarlo. Non posso dire di essere contento di aver avuto ragione. Mentre i populisti, i fascisti, i comunisti e i grillini festeggiano la vittoria del No, il Paese deve affrontare le turbolenze che si avvicinano senza una mano sicura alla guida. Se il nuovo primo ministro riesce a passare a stento una legge elettorale per tenere lontano dal potere Grillo e il Movimento Cinque Stelle, servirà solo a infiammare ancora di più – questa volta giustamente – la loro rabbia latente e la loro indignazione verso il sistema. Chiunque vinca, non saranno in programma riforme come quelle che Renzi ha tentato di passare. Lo status quo ha vinto. Il 60% degli italiani ha dimostrato che magari adorano prendersela con i politici mentre sono bloccati nel traffico ma non vogliono un vero cambiamento. Renzi potrebbe svanire presto, prendendo il suo posto nel Museo delle Cere di Leader Italiani Falliti – o potrebbe guardare al 40% che lo ha appoggiato nonostante tutto e considerare la possibilità di salire sul carro ancora una volta. Nel frattempo però, dimenticatevi della crescita, dell’occupazione, delle riforme delle banche, della proposta di legge fiscale, della riduzione del debito e di vedere un raggio di speranza in un Paese che ne ha disperatamente bisogno. Questo è articolo pubblicato su Foreign Policy. La sua versione in italiano è stata tradotta da Merope Ippiotis. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/12/07/italia/politica/le-dimissioni-di-renzi-la-caduta-di-roma-fKBpADYzqnYLMYai8V1PnM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Usa e Europa puntano sull’online con palinsesti personalizzati Inserito da: Arlecchino - Dicembre 17, 2016, 02:02:02 pm Bolloré gioca sui ritardi dell’Italia per creare una piattaforma che faccia concorrenza a Hollywood
Usa e Europa puntano sull’online con palinsesti personalizzati Pubblicato il 16/12/2016 Ultima modifica il 16/12/2016 alle ore 07:32 Gianni Riotta La sfida in Borsa tra Mediaset di Silvio Berlusconi e Vivendi di Vincent Bolloré è vissuta in Italia, secondo la tradizione del nostro capitalismo, come scontro di personalità, l’astuto magnate francese con un tesoro di 2,4 miliardi di dollari pronti per investimenti, e il veterano italiano che, tra azioni e politica, difende da una generazione il suo l’impero. Sullo sfondo - Presepe in Borsa - le statuine familiari, Intesa, Unicredit, Telecom (di cui Bolloré controlla circa il 24%), Enel, Generali, Mediobanca e il governo. Con il premier Gentiloni e il ministro Calenda schierati a difesa delle risorse strategiche italiane, reti e contenuti, malgrado inalberino il brand dell’antico rivale politico, e perfino i magistrati, Nemesi di Berlusconi, chiamati a tutelarne le aziende nazionali. Se appena lasciate però i nostri confini, la disputa acquisisce un altro interesse strategico, e così la vanno seguendo i mercati globali. Bolloré, racconta chi lo conosce bene, è fiero delle origini bretoni, «terra di pirati», vive di tattica non di strategia, lesto a mutare parere e a far fruttare dagli errori montagne di cash. Aveva scommesso su Premium Mediaset, quando vede che l’affare non c’è, si sfila, scommettendo sulle lungaggini della giustizia civile italiana. Con il premier Renzi dialoga su Telecom, tra due caratteri forti l’intesa non è cristallina sui nomi da mettere al comando. Caduto Renzi, Bolloré fiuta –da buon bretone- gli umori cangianti del vento, debolezza della politica, titolo Mediaset poco valutato, possibili, o futuri, dissapori tra gli eredi Berlusconi con il fondatore impegnato su troppi fronti alla vigilia degli 80 anni e Fedele Confalonieri instancabile, ma solitario. Scala dunque in Borsa, contando su un pozzo di danaro e attendendo che «Les Italiens» si logorino tra loro, «al minimo tratteremo su Premium forti di un terzo di Mediaset». È possibile che, a breve, Mercato&Politica riescano a respingere l’offensiva bretone sul Biscione, e leggeremo commenti burbanzosi sull’«italianità», come in altre, non felici, vicende. Alla lunga però la questione rimanda ai cronici ritardi di casa nostra. Come nota sul Financial Times l’economista Mariana Mazzucato, la Germania ha investito negli ultimi 20 anni il 2,49% del Pil in ricerca e sviluppo, noi l’1,1. Il ritardo colpisce anche il settore dei media, delle reti di comunicazione, l’industria dei contenuti, con Rai, 2,4 miliardi di euro, Sky, 2,7, e Mediaset, 2,2, a dividersi il mercato ma in affanno sull’innovazione (eccezioni Ray Replay, canali tematici, tra le fiction Gomorra). È in corso un serrato dibattito se, davvero, il futuro dei media stia nel consolidare reti e contenuti, per creare poli capaci di contrastare lo strapotere di Netflix o Amazon, e se, davvero, l’Europa abbia la forza per creare un proprio dominio di rete e contenuti o, mentre Bruxelles emana «grida» manzoniane per azzoppare Google e Facebook, debba rassegnarsi, anche in questo campo, al declino. Parecchi studiosi restano scettici sui benefici della convergenza Reti-Contenuti, ma il mercato ci crede con entusiasmo. La tecnologia della distribuzione è mutata, il pubblico under 35 non guarda più reti generaliste a orari fissi, come nonni e genitori, ma segue online quando può, via computer, tablet, smartphone, i propri show e programmi di notizie prediletti. Pochi giorni fa la 21st Century Fox del magnate australiano-americano Rupert Murdoch ha preso pieno controllo della pay tv inglese Sky, 11,7 miliardi di sterline (13,9 miliardi di euro) per una pay tv inglese, italiana e tedesca, accanto a giornali e radio, dopo la fusione proposta tra AT&T, ancora la rete più grande d’America, con Time Warner, che controlla Hbo, Cnn e Time Warner, progetto da 85,3 miliardi di euro. Intanto, in Francia, Altice, fondo multinazionale dell’imprenditore franco-israeliano Patrick Drahi, ha lanciato una campagna parallela per acquisire contenuti televisivi su 8 nuovi canali di intrattenimento per gli utenti della rete Sfr, accanto all’attuale palinsesto di notizie e sport. La mossa di Drahi contrasta il piano di Bolloré: una Netflix europea, radicata nell’Europa latina, Francia, Italia, Spagna a fronteggiare gli anglosassoni. Vivendi, che cominciò sotto Napoleone III come compagnia di acquedotti nel 1853, è per Bolloré la risposta europea a Disney, Apple, Amazon, Google, Time Warner, AT&T e Murdoch. A chi gli ha chiesto in questi giorni «Ma non siete troppo piccoli?» ha risposto sicuro «Abbiamo tutto quel che ci serve per creare sinergie e non ci fermeremo, il cash è lì. Su Mediaset andiamo avanti, almeno fino al 30%: poi se ne parla con chi c’è». Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2016/12/16/economia/bollor-gioca-sui-ritardi-dellitalia-per-creare-una-piattaforma-che-faccia-concorrenza-a-hollywood-orNyjuyJr5RKuMFq6hIdcK/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Obama usa la politica estera per mettere in difficoltà Trump Inserito da: Arlecchino - Dicembre 31, 2016, 02:35:59 pm Obama usa la politica estera per mettere in difficoltà Trump
Mentre i leader rivali disegnano il nuovo Medio Oriente il presidente uscente spera di dividere i repubblicani dalla Casa Bianca Pubblicato il 29/12/2016 Gianni Riotta Il Vecchio Medio Oriente e il Nuovo Medio Oriente si sono incontrati ieri, come nelle vignette dei calendari antichi, con l’Anno Vecchio, debole e ferito, a consegnare il mondo all’Anno Nuovo, fresco virgulto. Il segretario di Stato americano John Kerry, che il 20 gennaio va in pensione, ha pronunciato un solenne requiem per la formula «Due popoli due Stati» che in infiniti dibattiti Onu, negoziati tra due generazioni di leader israeliani e palestinesi, tesi di laurea impolverate, ha cercato, invano, di riportare pace e coesistenza. Il presidente Obama, che aveva irriso Kerry con una battutaccia - «Che mi porti? Altre soluzioni?» - ha lasciato al generoso ministro l’onore delle armi. Kerry riconosce che il pugno duro del premier israeliano Netanyahu sulle colonie di Israele affossa il negoziato con i palestinesi, stretti tra Hamas e l’ormai fragile Abu Mazen dell’Olp. E lancia un monito da editorialista deluso, non da diplomatico di ferro: senza uno Stato palestinese Israele perde l’identità ebraica o la democrazia. In una West Bank ridotta secondo Kerry a «groviera» dalle colonie, dovrà fare il poliziotto, tra terroristi e un «movimento per i diritti civili e umani palestinesi», dopo il voto Onu facilitato da Obama come ritorsione contro i troppi tackle del premier israeliano. Mentre Kerry alzava bandiera bianca, Russia, Turchia e Iran, irrompendo nel vuoto strategico lasciato dal presidente Obama in Medio Oriente, hanno proposto un nuovo patto che, giusto 100 anni dopo la divisione anglo-francese di Sykes-Picot dell’ex impero ottomano, ridisegna la Siria in tre aree. Il dittatore Assad, protetto da Putin e dall’Iran, resterebbe al potere almeno fino alle prossime «elezioni», una farsa in cui al suo posto andrebbe un altro raiss alawita, fedele al Cremlino e vicino, per ancestrale odio contro i sunniti, agli sciiti di Teheran. L’Iran avrebbe un corridoio che, via Siria, lo colleghi ai clienti di Hezbollah in Libano, traffici, armi, propaganda, influenza. La Turchia dell’uomo forte Recep Tayyip Erdogan mobiliterebbe quel che resta dei ribelli anti Assad, ridotti in numero e prestigio dopo la caduta di Aleppo e l’abbandono di Obama, in una sua enclave, da cui combattere - un po’ - l’Isis, ma soprattutto impedire che i miliziani curdi avanzino in Siria, provando a lanciare finalmente la loro «Sfida nel Kurdistan», sognata da un secolo come ricorda la novella di Jean-Jacques Langendorf (Adelphi). Seguite le sorti della città di al-Bab, 40 chilometri da Aleppo, presto contesa tra i combattenti dell’Isis e i ribelli pagati da Erdogan. I turchi hanno mediato tra Putin e i ribelli, favorendo la ritirata da Aleppo e allestendo l’assedio ad al-Bab, che non vogliono in mano ai curdi. Ma gli iraniani, che temono una Casa Bianca di Trump ostile all’accordo sul nucleare sponsorizzato da Obama, non hanno fretta. Ali Akbar Velayati, consigliere del leader supremo ayatollah Khamenei, dice: dopo Aleppo in Siria vanno rifatti tutti i conti. A proposito, Erdogan vorrebbe far pagare il conto dei nuovi campi profughi siriani agli europei, in cambio di una riduzione dell’ondata di rifugiati, alla vigilia di elezioni in Francia e Germania, forse Italia. Arbitro severo è Putin, forte di basi militari nel Mediterraneo. L’America langue nel vuoto pneumatico di Obama che i focosi tweet di Donald Trump non riempiono. La Clinton minacciava una «no fly zone» in Siria, Putin aveva già schierato rampe di missili, ma Trump ha altro per la testa, i ribelli sono sconfitti, Mosca, Ankara e Teheran fanno da soli, con l’Occidente che si lecca le ferite, impotente: addio esportazione della democrazia, Primavere arabe. I fondamentalisti islamici dicono la loro con il terrore, da Berlino all’ambasciatore russo ucciso in Turchia, ma Putin ha fatto terra bruciata in Cecenia come Assad padre e figlio in Siria, Iran e Turchia non si curano certo delle critiche umanitarie per due foto come gli Usa ad Abu Ghraib. La tripartizione della Siria non sarà facile, Assad terrà duro, i fondamentalisti colpiranno, la guerra civile sunniti-sciiti continua, sauditi e Paesi del Golfo non sono d’accordo. E Obama? Si limita ad annunciare nuove sanzioni contro la Russia, per l’ingerenza di pirateria informatica sulle elezioni Usa, minacciando ritorsioni, senza rivelare quali e quante. Crowdstrike, un gruppo di informatici Usa, conferma i legami tra i leaks anti Clinton e il Gru, lo spionaggio militare russo, Assange di Wikileaks in un’intervista a Repubblica si dichiara interessato alla «novità» Trump. Obama sa che in Senato i repubblicani non sono allineati con il neo presidente, amico del Cremlino, e spera di dividere partito e Casa Bianca. Che mentre russi, iraniani e turchi si giocano ai dadi il Medio Oriente, il premio Nobel Obama sia ridotto a questi giochini dice quanto tumultuoso sarà Capodanno 2017. Facebook riotta.it Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati Da - http://www.lastampa.it/2016/12/29/esteri/la-politica-estera-diventa-la-mossa-per-mettere- in-difficolt-il-successore-9Hj3hXFDduXbO8J1s0elSN/pagina.html?wtrk=nl.direttore.20161229. Titolo: Gianni RIOTTA - La tesi di laurea sugli errori in Vietnam è diventata uno stile Inserito da: Arlecchino - Aprile 11, 2017, 06:31:25 pm La rivincita di McMaster il generale del raid contro Assad che dice la verità ai politici
La tesi di laurea sugli errori in Vietnam è diventata uno stile di vita. È stato uno degli ispiratori della «dottrina Petraeus» in Iraq Pubblicato il 09/04/2017 - Ultima modifica il 09/04/2017 alle ore 07:45 GIANNI RIOTTA Il professor Alain Enthoven, esperto di sistemi complessi a rete a Stanford University, è celebrato per le teorie sulla sanità nel mondo post industriale. Nessuno ricorda però che fu proprio Enthoven, trentenne sottosegretario alla Difesa col ministro McNamara, 1965, a convincere il presidente Johnson che la guerra in Vietnam fosse un’equazione, introdotte variabili e incognite, la soluzione poteva essere tratta dai colossali computer Ibm del tempo. Fu il brillantissimo Enthoven, fresco di studi a Oxford e al Mit, a ideare il concetto di «body count», contare i morti: se gli Usa avessero inflitto abbastanza sofferenze al Vietnam, il nemico sarebbe corso al tavolo delle trattative. Non funzionò, e a indicare per primo il ruolo nefasto di intellettuali e militari nella disastrosa strategia Usa contro Hanoi è stato un colonnello dell’esercito, presto mobilitato in Iraq contro Al Qaeda, H.R. McMaster, oggi consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Trump. Scrivendo la sua tesi di dottorato all’Università della North Carolina, il colonnello McMaster cambia l’orientamento della storiografia Usa. Da Hollywood, ai giornali, agli accademici la «colpa» della sconfitta nelle risaie era attribuita sempre alla politica, prima il presidente Kennedy, poi Johnson, non avevano ascoltato società civile e stato maggiore, portando con superbia il Paese alla disfatta. Ancora in divisa, McMaster rompe il tabù e attacca i superiori: pubblicata nel 1997, la tesi diventa un libro dal titolo micidiale come una fucilata, «Dereliction of duty», abbandono, tradimento del proprio dovere. A commettere il tradimento, scrive McMaster, fu il vertice dell’esercito, i generali. Per cupidigia di promozioni, carriera, per incapacità di comunicazione, non seppero superare la diffidenza di Kennedy e Johnson, dissero docili di sì, anche quando sapevano benissimo quanto i numeri di Einthoven e McNamara fossero spazzatura. «La passione di Einthoven, risolvere i problemi con l’analisi quantitativa, era superata solo da una cosa: la sua arroganza», annota il dottorando McMaster, che chiude con un appassionato appello, i militari devono dire la verità ai politici, a qualunque costo. In campo in Iraq nel 2005, il colonnello McMaster comanda il III Reggimento Corazzato di Cavalleria nel deserto a Nord Ovest di Baghdad, per strappare ad Al Qaeda la città di Tal Afar. Prima impone ai soldati di imparare un po’ di arabo, fa lezioni di storia locale, infine chiede rinforzi. Il suo superiore glieli nega senza appello. Non ha letto «Dereliction of duty», perché in uno dei passaggi chiave McMaster ricorda il luglio 1965, quando Pentagono e generali chiedono a Johnson di mobilitare 100.000 uomini della Riserva, per contenere i vietnamiti e dare coscienza al Paese di una guerra aspra. Johnson, impegnato nelle riforme contro la povertà, boccia l’idea e in un meeting decisivo il capo di stato maggiore, generale Wheeler, si dichiara d’accordo: intorno al tavolo tutti sanno che mente per ipocrisia, nessuno ha il coraggio di contraddirlo. Sono i due capi delle forze armate di allora, Wheeler e il predecessore Maxwell Taylor, gli imputati di McMaster, sicofanti e servili. In vista della roccaforte islamista di Tal Afar, McMaster fa quel che la storia gli ha insegnato, disobbedisce al diretto superiore, propone l’invio dei rinforzi al comando a Baghdad, e mette le basi del «surge», la controguerriglia, condotta poi con successo dal generale Petraeus. L’indipendenza di giudizio va di moda a Silicon Valley, non nell’esercito, e per due volte i generali, che hanno sfogliato la sua tesi, negano a McMaster la promozione a generale. Toccherà a un altro anticonformista, Petraeus, concedergli in ritardo le stellette. Ora il calvo, solido, H.R. McMaster fa da coscienza pragmatica al focoso Trump, ed era col presidente sull’Air Force One in volo da Washington a Mar-a-Lago in Florida, quando è stato deciso il blitz limitato contro la base siriana di Shayrat, rappresaglia contro la strage di civili con i gas. Il raid raffredda il clima tra Usa, Putin e Assad, e merita al Presidente imprevedibili elogi di parte liberal, dall’ex sottosegretario di Stato della Clinton, Anne Marie Slaughter, al columnist NYTimes Kristof, mentre la destra isolazionista dà in escandescenze sul web. Molti, vedi lo studioso Robert Kagan, si chiedono cosa accadrà adesso, se Trump andrà avanti con la campagna, come reagirà Putin - che non strappa con Washington, vedrà il segretario Tillerson e magari, sotto sotto, apprezza la strigliata al riottoso alleato Assad, che non vuole saperne di negoziati -, se l’Iran lancerà all’offensiva le milizie sciite in Iraq. Ogni opzione è aperta, ma per capire cosa abbia in mente McMaster non avete che da leggerne la tesi, certi che solo quella ruvida verità proporrà al presidente Trump, costi quel che costi. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/04/09/esteri/la-rivincita-di-mcmaster-il-generale-che-non-ha-paura-di-dire-la-verit-ai-politici-rF8Xc7zSPWPPU2uICWImpN/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Il messaggio di Donald a Pyongyang Inserito da: Admin - Aprile 14, 2017, 06:23:10 pm Il messaggio di Donald a Pyongyang
Pubblicato il 14/04/2017 GIANNI RIOTTA Nel 1998 la Commissione bipartisan di studio sul rischio di guerra atomica contro gli Stati Uniti pubblicò il suo, allarmato, rapporto, proponendo tra le altre idee lo sviluppo di ordigni «preventivi», bombe non nucleari ma di devastante potenza, capaci di distruggere bunker e cunicoli sotterranei, con silos nucleari nemici. Il rapporto, la cui lettura ancora molto spiega del nostro mondo, ebbe come prima firma quella del futuro ministro della Difesa Donald Rumsfeld, la cui controversa «dottrina», guerra tecnologica del XXI secolo contro guerra atomica del XX, ha trovato ieri una nuova applicazione, quando gli Stati Uniti hanno, per la prima volta, usato una bomba Moab in Afghanistan. Moab sta per Massive Ordnance Air Blast, ma, nell’eterno gusto militare per le sigle, è conosciuta come Mother Of All Bombs, madre di tutte le bombe, costruita dalla Dynetics, pesa 9525 chili, lunga 9,15 metri, con 8.165 chili di esplosivo tritonal, Tnt e polvere di alluminio. Non è la più potente nell’arsenale non nucleare Usa, il record va al Mot, pesante ben 14.000 chili, ma, sganciata con un paracadute e poi guidata da sensori, penetra bunker fino a 60 metri di profondità, lasciandosi intorno il deserto in un raggio di 150 metri. Moab è stata lasciata esplodere sul distretto di Achin, provincia di Nangarhar, in Afghanistan, non lontano dal Pakistan, dove un ridotto di circa 800 terroristi Isis organizza i propri raid. Il presidente Trump ha ordinato di intensificare i bombardamenti in Afghanistan, dove i taleban hanno il controllo di ampi territori e Isis è alle corde. Da gennaio 2017, 450 bombe ad alto potenziale hanno colpito il Paese, contro un totale di 1300 usate da Obama nel 2016, il doppio di missioni dell’aeronautica. Gli esperti di strategia sanno che Moab, (Putin ha una sua superbomba, si chiama Padre di Tutte le Bombe, vanterebbe quattro volte la potenza degli ordigni Usa) non vincerà la guerra contro i taleban, radicati su un territorio vasto, ma è capace di indurre terrore «shell shock», la nevrosi da bombardamento della Prima guerra mondiale, in chi sopravvive alla sua esplosione. «Moab crea deterrenza, spaventa chi sa di averla puntata contro» osserva Robert Hammack, uno dei progettisti. Intanto la squadra navale Usa, con la portaerei Vinson, incrocia verso la Corea del Nord e il regime di Kim Jong-un lascia intendere che, nelle prossime ore, un nuovo test nucleare potrebbe essere ordinato sul sito di Punggye-ri, dove i satelliti rilevano una febbrile attività in vista del 15 aprile, anniversario di nascita di Kim Il-sung, fondatore del regime e nonno di Kim. Trump ha chiesto al presidente cinese Xi Jinping una mano per frenare la deriva atomica di Pyongyang, illegale secondo l’Onu, minacciando via twitter di agire da solo se Pechino non collaborerà contro il riottoso vassallo. Xi ha ridotto le importazioni di carbone dalla Corea, ma non intende lasciare Washington libera di colpire al proprio confine. Un raid preventivo, atomico o convenzionale, contro la Corea è da sempre escluso dagli strateghi sud coreani, cinesi e americani, consapevoli che, come provano Germania 1943-1945 e Vietnam 1966-1973, bunker sotterranei ben organizzati sopravvivano anche a rovinosi bombardamenti. E c’è il pericolo che, attaccato, Kim possa girare un ordigno, o materiale radioattivo, a terroristi per fabbricare una bomba «sporca» e destabilizzare Usa o Europa. Trump però, d’istinto, potrebbe non ascoltare queste letture accademiche e agire comunque: la sua imprevedibilità preoccupa la Cina, e potrebbe indurla a rompere il tradizionale attendismo e stoppare finalmente il demagogo Kim. Resta però, su tutti, il rischio dell’incidente, delle comunicazioni mal comprese, e per questo, al confine nucleare delle Coree, si annuncia una Pasqua difficile. Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/04/14/cultura/opinioni/editoriali/il-messaggio-di-donald-a-pyongyang-sqb005OqmKxYfhA8VpXbXO/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - JFK, l’ultimo sogno americano Inserito da: Arlecchino - Maggio 30, 2017, 10:56:40 am JFK, l’ultimo sogno americano
Nasceva cento anni fa il futuro presidente. Dopo un inizio disastroso ridiede fiducia al Paese e speranza ai neri, alimentando un mito duraturo Pubblicato il 29/05/2017 Gianni Riotta Debuttò fra i disastri il presidente democratico John Fitzgerald Kennedy, unico cattolico alla Casa Bianca, che compirebbe oggi 100 anni senza le pallottole del sicario Lee Oswald nel 1963. Il più giovane presidente mai eletto allora, 43 anni, era circondato dai militari che il suo predecessore, il saggio ex generale repubblicano Dwight «Ike» Eisenhower, aveva denunciato come «lobby industrial-militare». Fu quella cricca a intimidire il figlio dell’opulenta famiglia di Boston - il padre Joseph era stato ambasciatore a Londra, in odore di filo-hitlerismo, il nonno materno John «Honey Fitz» Fitzgerald sindaco di Boston e creatore della macchina elettorale che servirà Jfk e il fratello minore, senatore Ted. Così Kennedy, dopo il nobile discorso di insediamento il 20 gennaio 1961, «non chiedetevi cosa il vostro Paese può fare per voi, ma cosa voi potete fare per il vostro Paese!», senza giacca malgrado «si gelasse», come annotava lo storico Arthur Schlesinger, diede il via libera al dissennato piano che i duri della Cia avevano preparato per un golpe a Cuba, lasciando sbarcare in aprile alla Baia dei Porci un manipolo di mercenari male in arnese. Finì in rotta vergognosa, Castro consolidò il potere, l’Urss gongolò, Kennedy fece la figura della mammoletta e ne seguì all’Avana una repressione feroce dimenticata dalla storia, centinaia di esecuzioni, inclusi innocenti, guidata di persona dal leggendario «Che» Guevara. Bollato come playboy E non bastò: in giugno, al primo vertice con il leader russo Nikita Krusciov, Kennedy venne sovrastato nella trattativa dall’irruente veterano della battaglia di Stalingrado, sopravvissuto alle purghe Pcus, che lo bollò da playboy viziato. In Congresso i repubblicani, che avevano perso le elezioni con Nixon per un pugno di voti a Chicago (denunciando invano i presunti brogli del vecchio sindaco democratico Daley), forti della maggioranza alla Camera, insabbiavano ogni iniziativa kennediana. Allora, in una serie di colloqui con l’unica persona di cui si fidasse davvero, il fratello Robert Kennedy, nominato in una stagione che non bocciava il nepotismo ministro della Giustizia, Kennedy decise di esser sé stesso, e governare non per compiacere i cortigiani di Washington, ma seguendo l’istinto. Oggi il presidente è mitologico, due terzi degli americani lo considerano «un grande» e gli storici lo classificano fra l’ottavo e il tredicesimo posto nel ranking della Casa Bianca. Ma primeggiare non fu facile per lui: l’erede designato, «il presidente dei Kennedy» scelto dall’ambizioso patriarca Joseph, era suo fratello maggiore Joe, scomparso in un incidente di guerra come pilota. Il destino era dunque caduto su Jfk, riluttante al ruolo, preferendo i viaggi in Europa, le belle ragazze, i party del jet-set. In guerra, nel Pacifico, aveva visto il suo motoscafo d’assalto PT 109 spaccato in due dai giapponesi e, malgrado la ferita alla schiena che lo affliggerà per tutta la vita, salvò a nuoto i compagni. Eroe per forza, proiettava un’immagine di salute e carisma, ma era in realtà malaticcio, affetto dal morbo di Addison: costretto a iniettarsi farmaci anche nelle ore d’ufficio con una siringa, si irritò quando un mellifluo burocrate gli chiese «Le fa male, Mister President?», e gli piantò l’ago nella coscia sui pantaloni, «Non so, lei che ne dice?». Il mal di schiena lo tormentava ogni giorno, provava ad alleviarlo con la poltrona a dondolo che divenne sua icona senza però nessun effetto analgesico. Il blocco di Cuba Ora sicuro di sé, il giovane presidente sfidò Castro e Krusciov nell’ottobre del 1962, bloccando con la Marina l’isola di Cuba dove i russi stavano installando rampe di missili nucleari puntati contro l’America. Per 13 giorni il mondo fu sull’orlo della crisi atomica, ma quando il Cremlino cedette - in cambio del ritiro, salva faccia, di obsoleti missili Usa in Turchia - Kennedy divenne Kennedy. Le sue missioni all’estero, incluso un viaggio trionfale a Roma e in Vaticano, furono popolari, anche l’America Latina, a lungo trattata come da colonia, ritrovò in parte dignità diplomatica. Il 5 agosto 1963 Stati Uniti e America firmarono il Nuclear Test Ban Treaty che limitava i test atomici sotterranei e apriva la strada a futuri negoziati: il peggio della Guerra fredda era alle spalle. Con la Russia prima nel cosmo grazie al volo dell’astronauta Yuri Gagarin, Kennedy decise di ridare fiducia al Paese con il programma spaziale, promettendo «un uomo sulla Luna entro la nostra decade». Nel 1969 la Nasa mantenne l’impegno, ma il presidente non era più lì a godere il successo. La moglie Jacqueline, i figli che giocavano nello Studio Ovale, Caroline e John John, i concerti alla Casa Bianca, le belle donne - Marilyn Monroe, ammaliante, cantò per lui Happy Birthday - i pettegolezzi, l’ultimo compleanno celebrato sullo yacht presidenziale a corteggiare la moglie del futuro direttore del Washington Post, il suo amico Ben Bradlee, diedero la stura al gossip, che ancora insidia il suo ricordo. Altrettanto tenace la teoria del complotto, malgrado la Commissione guidata dal giudice costituzionale Warren avesse provato a dimostrare che Oswald, ex marine filocastrista in contatto con le spie russe del Kgb a Mosca, fosse il solo killer. Nessuna prova decisiva è mai stata trovata, il filmino del passante Zapruder riesaminato in ogni fotogramma, ma la morte repentina a Dallas, nel Texas che lo odiava e lo accolse con manifesti eversivi, ha lasciato il segno dell’utopia sulla «Nuova Frontiera» di Jfk. Un’America sorridente Kennedy apre, malgrado le perplessità del fratello Bob sul reverendo King, la speranza per diritti civili per i neri, Kennedy negli ultimi, convulsi giorni medita sull’inutile guerra in Vietnam. Il tenente di Marina che diffidava dei generali avrebbe chiuso il conflitto sanguinoso? Così affermano i kennediani, dal fantastico redattore dei discorsi Sorensen allo stesso Schlesinger. La Storia non ha risposte univoche, né potrebbe. Ma è proprio la rottura sanguinosa del sogno che mantiene, cento anni dopo, intatto il fascino di «Jack» (il suo diminutivo) Kennedy, con la nostalgia bruciante per un’America sorridente, con gli occhiali da sole, che sapeva farsi amare dal mondo. Facebook riotta.it Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/ Titolo: Gianni RIOTTA - La rivoluzione delle culle piene Inserito da: Arlecchino - Dicembre 03, 2017, 06:36:27 pm La rivoluzione delle culle piene
Pubblicato il 01/12/2017 GIANNI RIOTTA Qualche tempo fa la Fondazione Nardini organizzò a Bassano del Grappa, tra le pittoresche «Bolle» dell’architetto Fuksas un incontro sul «Capodanno 2050»: statistici come Enrico Giovannini, demografi come Jack Goldstone, gli economisti Moises Naim e Bill Emmott ruppero il silenzio su uno dei tabù più intrattabili da noi, la crisi delle nascite. Al brindisi dell’1 gennaio 2050 gli africani, oggi 1,2 miliardi, saranno 2,6 miliardi, gli europei, oggi inclusa la Russia 745 milioni, saranno invece appena 736 milioni. La Cina si fermerà, da 1,3 miliardi a 1,39, superata dall’India, da 1,35 miliardi a 1,7. La Cina deve diventar ricca prima di diventare vecchia, gli Stati Uniti, 325 milioni di cittadini adesso 397 nel 2050, avranno presto una base attiva più vasta ed educata di Pechino. In Italia, (60 milioni 2017, 56 nel 2050), parliamo poco di culle vuote, forse perché Mussolini premiava le famiglie numerose e penalizzava i single, sotto l’occhiuto controllo dell’Ufficio Centrale Demografico, varato nel 1937. In Francia i sussidi alla maternità hanno funzionato, ma i costi pesano troppo sui bilanci di anni magri. Non stupisce dunque che, tre giorni fa, il presidente russo Vladimir Putin, il più astuto statista tra i leader del nostro tempo, abbia lanciato la sua nuova campagna demografica, investendo due miliardi di euro in un piano di sussidi che concederà ad ogni nuova mamma russa 150 euro al mese per un anno e mezzo, alla nascita del primogenito. Putin sa che la Russia, già colpita dai 20 milioni di morti della Seconda guerra mondiale, declina rapidamente dalla fine dell’Urss, 146,9 milioni all’ultimo censimento, 5 in meno dalla notte dell’ammaina bandiera rossa al Cremlino, 1991. E come può Putin corroborare l’ambiziosa agenda imperiale, davanti alla Cina egemone di Xi Jinping e all’America che vede in declino, se il Paese si svuota per emigrazione, scarsa natalità, aspettativa di vita in calo, alcolismo, in comunità use all’aborto di stato come anticoncezionale? Con sagacia Putin addossa le colpe dei pochi nati al passato, il conflitto finito tre generazioni or sono, «la crisi economica e la paralisi sociale dei primi Anni 90», insomma tutto tranne che la realtà presente, in una nazione che governa ormai da 17 anni. Anche sulla demografia però, Vladimir Vladimirovic Putin si conferma tattico di classe, più incerto stratega. Non saranno infatti i 150 euro al mese a convincere le giovani moscovite o le coetanee contadine dei distretti di «Terra Nera», fertile regione agricola in boom grazie alle sanzioni Usa-Ue, a diventar mamme, perché, scrive su «Foreign Affairs» il professor Goldstone, «Non è in realtà chiaro quali riforme promuovano davvero la natalità». 52 anni fa il futuro senatore Daniel Moynihan divise l’America con il suo rapporto sulla crisi fatale che affliggeva le famiglie afroamericane nei ghetti. Il presidente Johnson reagì aiutando le ragazze madri con sussidi, ma la misura, anziché stimolare nascite, moltiplicò rassegnazione, povertà, droghe, piccola criminalità. Il mondo smetterà di affollarsi giusto nel 2050, a un picco di 9,17 miliardi di esseri umani, Occidente anziano e poco abitato, Asia e Africa con una popolazione giovane, povera, stipata in megalopoli violente, un trend epocale che non saranno i 150 euro di Putin a invertire. Ma il presidente russo ha ben altro in mente che non il Capodanno 2050. Per capire cosa leggete il secondo volume della monumentale biografia di Stalin, appena pubblicato dallo storico Stephen Kotkin: in un discorso alla Conferenza Industriale Sovietica del 1931, stretto da carestia e ritardi nel creare una base industriale moderna, il dittatore sovietico si appella all’insicurezza antica dell’anima russa: «I khan mongoli vi hanno umiliato, come i bey turchi, i baroni svedesi, i signori giapponesi e i capitalisti anglo-francesi, siete deboli e vi calpestano, solo quando sarete potenti vi daran ragione…». Con il fantasma delle culle vuote Putin evoca le umiliazioni storiche, perché la gente si stringa intorno a lui. Funzionerà per il consenso forse, ma non per le cicogne, quelle sono attratte, nei Paesi sviluppati, solo dall’emigrazione, vedi Stati Uniti che crescono, senza sostegni alla natalità, grazie a chi cerca una nuova vita. Un fenomeno che la Russia, per ora, non sembra poter conoscere. Facebook riotta.it Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. http://www.lastampa.it/2017/12/01/cultura/opinioni/editoriali/la-rivoluzione-delle-culle-piene-Ml9u2aLefORzavNfMwV2IP/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Se Obama rinnega Internet Inserito da: Arlecchino - Dicembre 28, 2017, 06:43:32 pm Se Obama rinnega Internet
Pubblicato il 28/12/2017 GIANNI RIOTTA Non credo che l’ex presidente Obama, e il suo arguto intervistatore per la Bbc Principe Harry, ragionando di informazione e politica online abbiano letto il cruciale saggio della filosofa italiana Franca D’Agostini a proposito di «Universalità dei diritti e concetto di verità». A unire chiacchierata tra Barack e Harry e fascicolo de «Biblioteca della Libertà», da popolarizzare oltre l’accademia, è la riflessione su politica e media nell’era che lo studioso Luciano Floridi chiama «dell’informazione», dominata dall’ «infosfera» e dai social media. Secondo Obama, che non nomina Donald Trump ma lo critica tra le righe, «Noi leader dobbiamo trovare strade giuste per ricreare spazi condivisi su internet. Uno dei pericoli online è che la gente crei per se stessa realtà parallele, uniche, finendo incapsulata su informazioni omologate, rinchiusa nei pregiudizi di partenza. Non è facile essere crudeli e fastidiosi di persona come online, nascosti dall’anonimato «. D’Agostini ha dedicato al tema tre saggi, «Disavventure della verità», «Verità avvelenata» e «Introduzione alla verità», che dovrebbero essere distribuiti ai giornalisti, in Parlamento e nelle scuole, perché «diritto alla verità», e sue violazioni, fake news, caso Regeni, trolls del Cremlino, sono decisivi nelle democrazie dei dati. Obama incalza: «Come imbrigliare le nuove tecnologie per garantire voci diverse e molteplici punti di vista, senza balcanizzare le nostre società, ritrovando e migliorando spazi comuni?». Con l’ex presidente e il principe se lo chiede l’Unione Europea, la Commissaria Gabriel ha appena nominato un gruppo di esperti sul tema, ma la D’Agostini ammonisce tutti: regolamentare Vero e Falso è arduo. Al recente seminario World Economic Forum, a Dubai, una docente di giornalismo di Singapore, non aveva dubbi «Il governo decida per editto quali sono le notizie vere, da diffondere, e le false, da censurare», ma in democrazia, grazie al cielo, il Ministero della Verità non esiste. È invece giusto contrastare la cyberwar, guerra nell’informazione, come l’Fbi che ha appena riconosciuto in una falsa giovane blogger, «Alice Donovan», un troll anonimo, prezzolato dal Cremlino per seminare zizzania filo Trump. Fonti politiche o di lobby che spacciano notizie false vanno identificate, i siti, come i giornali, devono avere proprietà e bilanci trasparenti, ma il malessere denunciato ora da Obama non si batte solo con regole e leggi, come quella tedesca anti fake news. Serve una nuova consapevolezza che D’Agostini definisce «diritto aletico», cioè il riconoscimento universale, nell’epoca social media, del «diritto alla verità», non norma stabilita per legge ma coscienza da condividere e acquisire. Non si tratta di un problema tecnologico, ennesima scusa per affibbiare una marca da bollo anti Google o Facebook, si deve ripartire dal nesso tra «verità e realtà» discusso già da Platone nel «Cratilo» e da Aristotele nella «Metafisica», ma smarrito su vaccini, scie chimiche, Brexit, banche, Var e scettici postmoderni: «La ricerca della verità sotto un certo aspetto è difficile, sotto un altro è facile. Una prova di ciò sta nel fatto che è impossibile a un uomo conoscere in modo adeguato la verità, e che è altrettanto impossibile non conoscerla del tutto». Una società aperta si avvizzisce senza verità, mentre dittatori e populisti prosperano con le menzogne su scala industriale. Oggi Trump è maestro, via tweet, nel confermare le opinioni della base, senza dubbi o confronti. Obama scopre invece, troppo tardi, il problema e se il principe Harry non fosse il simpatico che è, la domanda da fare all’ex presidente era: «Quando hai saputo, estate 2016, che la Russia aveva lanciato una campagna formidabile di disinformazione online per danneggiare Clinton, perché hai taciuto, ledendo il “diritto alla verità” dei tuoi cittadini?». Facebook riotta.it Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2017/12/28/cultura/opinioni/editoriali/se-obama-rinnega-internet-vN2pE5rWqKP29LdWnBTvaM/pagina.html Titolo: Gianni RIOTTA - Fra i ghiacci il grande gioco delle potenze Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2018, 11:55:47 am Fra i ghiacci il grande gioco delle potenze
Pubblicato il 03/01/2018 GIANNI RIOTTA «Trifoglio del Nord» suona simbolo poetico, soprattutto se immaginiamo le verdissime foglioline alla luce gelata dell’Artico, verso il Polo Nord. Ma la bucolica immagine è stata scelta dalle forze armate russe per battezzare la nuova, poderosa, base militare sull’isola Kotelny, 4300 chilometri da Mosca, 250 soldati a puntare contro l’America difese antimissili nucleari e radar per bombardieri strategici. Vladimir Putin sa che il cambio del clima libera rotte navali, risorse minerarie e vuol battere gli Stati Uniti nella corsa ai tesori del Nord. Dalla penisola di Kola, territorio più a Nord-Ovest della Russia, il Cremlino intende controllare le risorse di gas naturale, petrolio, fosfati, bauxite, ferro, rame, nickel che il disgelo renderà accessibili, e per farlo trasforma la città di Murmansk in fortezza e blinda la base di Alakurtti. Sotto i ghiacci che si vanno liquefacendo c’è più petrolio che in Arabia Saudita, che l’Istituto Geologico Usa stima in 412 miliardi di barili, con il 13% delle riserve di greggio e il 30% del gas naturale non ancora scoperti. Cina, Norvegia (dove da qualche tempo sono di stanza 500 marines americani), Canada e Danimarca, attraverso la Groenlandia, sono le altre potenze interessate al continente sommerso. Il Cremlino vuole annettersi gran parte delle aree sottomarine disponibili, fin quasi al Polo, la nuova Legge del Mare Onu, Unclos, che gli Stati Uniti hanno negoziato con impegno, non è stata ancora, con paradossale autogol, ratificata a pieno da Washington, e viviamo quindi nel Far North senza regole del XXI secolo. Pechino sta ultimando tre rompighiaccio, Putin domina il campo con 40 navi rompighiaccio, di cui sei nucleari e ha altri tre vascelli atomici in cantiere. L’America, spiega un rapporto del Council on Foreign Relations, s’era illusa, vinta la Guerra Fredda nel 1989, di dominare anche il Pianeta Freddo, ma ha a disposizione solo due navi rompighiaccio e le alterna tra Polo Nord e Sud (l’Antartica, al contrario dell’Artico, ha massa terrestre) per rifornire la base scientifica McMurdo. Thad Allen, capo della Commissione sull’Artico Cfr, ritiene che «agli americani servano almeno 6 rompighiaccio perché la Guardia Costiera possa tenere aperte le rotte, senza trovarsi a mani nude contro Mosca». Nel presentarsi al Senato, il ministro della Difesa di Donald Trump, generale Mattis, ha chiesto con urgenza fondi e investimenti per l’Alaska, quarta frontiera navale Usa che ha fatiscenti infrastrutture di porti e aeroporti militari, inadatti a contrastare lo sforzo militare russo e cinese. Perché il lettore intenda la posta in gioco, basti ricordare che i missili Usa destinati a intercettare un attacco da Russia, Cina o Nord Corea sono dislocati in Alaska, in Alaska si riforniscono di carburante i bombardieri strategici, da lì passa la Great Circle Route, rotta ortodromica per raggiungere distanze lontane nel minor tempo possibile. Considerate, per esempio, la Miniera Red Dog, a Nord del Circolo Polare sulle montagne De Long, con giacimenti tra i maggiori di zinco e piombo. Isolata a lungo, si è dovuto costruire una strada e poi un porto per sfruttarla, e così sarà per ogni risorsa esposta dalla ritirata dei ghiacci. Russia e Cina, a loro modo anche Canada e Paesi europei del Nord, stanno con buona lena allestendo una strategia per il Polo. Il segretario di Stato Usa Tillerson, in odore di licenziamento, il ministro Mattis e il consigliere per la sicurezza McMaster, chiedono con urgenza al presidente Trump di lavorare al suo piano Artico, ma per ora si ritarda. Pensiamo al Polo Nord come distesa di ghiacci che vede gli orsi bianchi affamati dal cambio del clima, ma presto ci saranno anche rifugiati dalle minoranze etniche scacciate dai loro territori ancestrali, una militarizzazione rapida e la corsa all’oro. Come Trump reagirà a queste sfide è scommessa geopolitica centrale del 2018. Facebook riotta.it Licenza Creative Commons Alcuni diritti riservati. Da - http://www.lastampa.it/2018/01/03/cultura/opinioni/editoriali/fra-i-ghiacci-il-grande-gioco-delle-potenze-WP9XKb6Slf6TSYYemTDNhK/pagina.html |