Titolo: Gian Carlo Caselli - È la mafia una tortura Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2007, 11:42:14 pm È la mafia una tortura
Gian Carlo Caselli Ostriche e champagne. Non è il sogno di un goloso refrattario alla «nouvelle cuisine». È la fotografia di com’era il carcere per i mafiosi prima del cosiddetto «41 bis». Ovviamente, il problema non riguardava soltanto le esagerazioni gastronomiche dei boss ed il loro colesterolo. Riguardava la credibilità stessa della lotta alla mafia. Perché lo Stato non era credibile, si indeboliva con le sue proprie mani, fino a quando i mafiosi restavano padroni di fare il bello e il cattivo tempo anche in carcere. Luogo in cui - per definizione - la supremazia dello Stato dovrebbe affermarsi, per tutti, in forme persino totalizzanti. E non era soltanto questione di «immagine». C’era anche il fatto che, pur essendo in carcere, i mafiosi continuavano a comandare come prima e più di prima sul «loro» territorio, come se il carcere fosse un’appendice del loro dominio assoluto. Conclusione: pretendere di contrastare efficacemente la mafia - in un simile contesto - era come pretendere di fermare un carro armato con una cerbottana. Giovanni Falcone sapeva bene come stavano le cose. Fu lui difatti ad elaborare il progetto di una carcerazione finalmente di giusto rigore per i mafiosi detenuti, che ne ostacolasse i rapporti con l’esterno: vale a dire che rendesse più difficile continuare ad impartire - dal carcere - ordini di stragi, omicidi, traffici illeciti e altre attività criminali. Questo progetto cominciò a delinearsi proprio mentre la Corte di cassazione rendeva definitive le condanne scaturenti dall’inchiesta (il cosiddetto «maxi processo») che era stata il capolavoro investigativo-giudiziario del pool guidato da Nino Caponnetto e formato, tra gli altri, da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per la prima volta nella sua esistenza, Cosa nostra doveva fare i conti con pesanti condanne definitive e con la prospettiva di doverle scontare in un carcere non più trasformato - solo per i mafiosi - in un grand hotel. Anche di qui nacque l’idea criminale delle stragi del 1992: una vendetta postuma contro Falcone e Borsellino e nello stesso tempo il tentativo di soffocare nel sangue il proposito di Falcone (passato ad incarichi ministeriali) di riproporre su scala nazionale il metodo di lavoro del pool di Palermo, potenziandolo con la previsione di una normativa sui «pentiti» e sul regime carcerario dei mafiosi. Per fortuna, alle stragi lo Stato italiano seppe reagire con efficacia. Tra l’altro approvando (con decisione unanime del Parlamento) un nuovo articolo dell’Ordinamento penitenziario, l’art.41 bis. Il «41 bis» è quindi una norma letteralmente intrisa del sangue di Falcone e Borsellino, oltre che impregnata della loro intelligenza, perché da loro pensata e voluta in base all’esperienza maturata sul campo. Questa è la storia del «41 bis». Il magistrato americano che lo avrebbe equiparato alla tortura (il condizionale è d’obbligo: vuoi perché fin qui si conoscono solo i «lanci» di agenzia; vuoi per l’intrinseca incredibilità della notizia) è un magistrato che vive fuori della realtà. Ignora non solo l’origine, le finalità ed il contenuto effettivo dell’istituto, ma anche la sua successiva evoluzione. Che è cadenzata da ripetuti interventi della Corte costituzionale che hanno fissato precisi e rigorosi paletti contro possibili abusi, garantendo equilibrio fra il rispetto dei diritti fondamentali della persona e l’esigenza di non calare le brache di fronte alle organizzazioni criminali. Successivi interventi di alcuni Tribunali di sorveglianza e certe prassi carcerarie hanno poi decisamente stemperato vari profili del regime carcerario disciplinato dal «41 bis». Fino al punto che esiste anche - ormai - una robusta corrente di pensiero secondo cui il «41 bis» si sarebbe di molto svuotato. Questa è la realtà. Ora, giudicare e decidere ignorando la realtà, accontentandosi di prospettazioni tanto interessate quanto assurde, è cosa sempre e comunque grave. Se poi davvero provenisse da un magistrato straniero che si fosse impancato a giudice di istituzioni che dimostra chiaramente di non conoscere, sarebbe ancora più grave. E inaccettabile. Pubblicato il: 17.10.07 Modificato il: 17.10.07 alle ore 13.05 © l'Unità. |