Titolo: Walter VELTRONI. - Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2007, 11:52:38 pm Il tesoretto di Walter
Michele Ciliberto Mi sono divertito a rileggere le varie previsioni di voto apparse sui giornali di domenica - a cominciare dall’autorevolissimo Corriere della Sera - ad opera di sondaggisti, politologi ed altri esperti di varia umanità. Al massimo - nel caso di Andrea Romano su la Stampa - si prevedeva una affluenza di due milioni, anche sulla base di curiose giostre sofistiche sul grande numero di candidati e sul codazzo di parenti che li avrebbero sostenuti aumentando, su base biologica, il numero dei votanti. Naturalmente c’è poco da ridere di fronte a tanta distanza tra «società» e «politica», tra «paese reale» e «paese legale», per riprendere due espressioni classiche. Eppure, le avvisaglie di quello che poteva accadere erano sotto gli occhi di tutti: dalle primarie per Prodi, non c’è stata occasione nella quale la gente non abbia fatta sentire la sua voce, quando è stata chiamata ad esprimersi per eleggere, ad esempio, i propri amminstratori. Proprio sulle colonne di questo giornale si è sostenuto che lo stesso successo di Grillo non andava interpretato in termini di qualunquismo o addirittura come un ritorno di pulsioni di tipo fascistico; ma, piuttosto, quale espressione - distorta, certamente - , di una voglia di partecipazione, di essere presenti, di far sentire la propria voce, come dovrebbe essere normale in democrazia. Né va dimenticato - per capire quanto è successo - l’importante lavoro che è stato compiuto nell’ultimo anno aggiustando il tiro strategico del Partito Democratico e anche di queste primarie con la preparazione di liste nelle quali hanno trovato spazio significativo (non voglio dire sufficiente) donne,giovani, esponenti di quello che si chiama (con un termine un po’ rozzo) società civile. È un segnale di novità che gli italiani, votando in maniera così ampia, hanno evidentemente apprezzato. Ma di questo, come dice il poeta, sat prata bibere. Mi interessa invece sottolineare un altro punto: è ora che comincia la parte più dura e impegnativa dell’impresa, se i «governanti» vogliono rispondere responsabilmente alle richieste che gli elettori hanno fatto loro con questo voto. E dicendo questo non mi riferisco solo al lavoro che andrà fatto per definire in modo più netto e conseguente il profilo ideale e politico del Partito che sta nascendo. Mi interessa sottolineare un altro punto che considero cruciale. In queste ore tutti hanno sottolineato che la partecipazione è stata la cosa più importante; ed è vero. Si è trattato di un gesto politico, nel senso più forte della parola; non, semplicemente, di una nobile testimonianza (senza nulla togliere a manifestazioni di questo genere). Un gesto - occorre aggiungere - assai meditato, basato sulla scelta tra varie liste, tra molti candidati. Ma è proprio qui che sorge, a mio giudizio, il problema centrale: esso consiste nell’individuare, ora, un nesso organico,e continuativo, tra partecipazione e rappresentanza, tra questa voglia di partecipare e di contare e le «forme» che il nuovo Partito deve darsi. Insisto: un nesso organico e continuativo - non rapsodico e temporaneo - stabilendo un circolo virtuoso tra rappresentanza e partecipazione e mettendo, in questo modo, su basi sicure il nuovo Partito. È, naturalmente, un problema di regole e, quindi, di scelte statutarie che, in un momento come questo, diventano decisive. Ma è, al tempo stesso, una questione di volontà politica; ed è su questo terreno - di natura squisitamente democratica - che si parrà la «nobilitate» della leadership del nuovo Partito. È questo - il nesso tra rappresentanza e partecipazione - il problema dei problemi da risolvere, se non si vuole che una così eccezionale partecipazione si ripieghi progressivamente su di sé, fino ad esaurirsi. Non sarà facile, ci vorrà del tempo per avviare questa strada; e come si sa, il tempo in politica è decisivo. Per questo trovo oziose - e anche un po’ curiose - le varie esercitazioni sui rapporti tra Prodi e Veltroni, tra il governo e il nuovo Partito democratico - una sorta di nuovo tormentone che ci perseguiterà - temo - per molto. Non è difficile, infatti, prevedere che su punti anche significativi ci saranno diversità di punti di vista ,ed anche tensioni, fra governo e Partito Democratico. È un fatto normale, sarebbe strano il contrario, a meno di non voler condannare al declino il Partito che nasce. Anzi,è prevedibile che il Pd si muoverà con tutte le sue energie per rendersi visibile, per manifestare i propri punti di vista e le proprie posizioni. E ciò anche per rispondere, in modo adeguato all’investimento che gli elettori hanno fatto su di esso: si tratta, in senso proprio, di un problema di responsabilità democratica. Ed è un punto che il Governo, e Prodi per primo, devono avere chiari: non sarà necessariamente sempre un idillio,quello che li attende. Ma in democrazia questo è un fatto ordinario, ed è addirittura auspicabile. Grave sarebbe se Partito Democratico e Governo si muovessero in direzioni divergenti, sulla base di diverse strategie, di programmi differenti. Ma, allo stato degli atti, è difficile - se non impossibile - che questo accada: nè Veltroni, tanto meno Prodi hanno reali motivi politici per muoversi in questo senso; anzi, non hanno alcun interesse per farlo, almeno in questo momento. Sia l’uno che l’altro hanno bisogno - per motivi diversi - del «benefizio del tempo» (come direbbe il Segretario fiorentino). E con questo il discorso potrebbe anche chiudersi, se non fossero in campo altri attori di cui tener conto. Per questo stesso motivo, infatti - specularmente rovesciato - il centrodestra - , e in modo particolare Berlusconi e Fini, aumenteranno energicamente la pressione sul Governo, sforzandosi in tutti i modi di farlo cadere,a cominciare dalla battaglia sulla prossima legge finanziaria. Anche questa è una facile previsione: il clima nelle prossime settimane è destinato a peggiorare, perché sia Berlusconi che Fini sono consapevoli che con la costituzione del Partito democratico si è arrivati ad un passaggio decisivo, dopo il quale niente più sarà come prima. O riescono a bloccare questo processo o rischiano di vedere esaurire la loro «figura» politica ed erodersi, oltre a vedere erodersi mese dopo mese,il vantaggio elettorale che hanno accumulato in questo periodo, anche per gli errori politici della coalizione che sostiene il governo. Come sempre, tutto si tiene: la nascita del nuovo Partito - ed è questo il punto centrale - avvia un mutamento di tutto il quadro politico,destinato ad agire sia sul sistema che sui singoli attori. E questo sia a destra che a sinistra, rimodellando tutto lo schieramento sia politico che parlamentare. Si tratta di un fatto positivo per la democrazia italiana,della quale già si risentono gli effetti su entrambi i lati dello schieramento: a sinistra con le varie discussioni sulla «cosa rossa»; a destra con i discorsi abbozzati,a corrente alternata,ora da Fini ora da Berlusconi (l’Udc, ed anche la Lega, si muovono su un’onda diversa). Ma non bisogna farsi molte illusioni sulla speditezza di questi processi, specialmente per quanto riguarda la destra. Berlusconi - per riprendere la citazione di prima - di tutto ha bisogno, in questo momento, fuorché del «benefizio del tempo»; deve cercare di chiudere la partita, il prima possibile: non ha alcun interesse a un rimodellamento sistemico del quadro politico, tanto meno a una nuova legge elettorale. Vuole solo, il prima possibile, chiudere il conto: e per questo è pronto ad usare tutte le armi, nessuna esclusa, a sua disposizione. Nei prossimi giorni ne vedremo di tutti i colori; anzi abbiamo già cominciato a vederle: l’unica cosa che Il Giornale è stato capace di scrivere è che le primarie di domenica sono stare truccate. Non sono battute da sottovalutare : rispecchiano con immediatezza gli umori - e i pensieri - del padrone del quotidiano. È su questo che occorre concentrare l’attenzione, senza cadere nella trappola dei falsi obiettivi e delle inutili polemiche: perché è di qui che verranno,nei prossimi mesi, gli attacchi più violenti e più insidiosi al governo Prodi; né c’è da dubitare del fatto che il Partito democratico sarà in prima linea a sostenerlo con le forze di cui dispone. E così farà per un periodo non breve,sia pure esprimendo - simultaneamente, e con energia - la propria funzione e il proprio ruolo, sia sul piano dell’iniziativa politica che su quello dei gesti simbolici. Tale è, per ora la situazione. Quando poi saranno superati questi scogli - e il sistema italiano si sarà assestato in modi nuovi, anche con la costituzione di un nesso organico, e continuativo, tra rappresentanza e partecipazione - allora, e solo allora, chi avrà più filo lo tesserà... Pubblicato il: 16.10.07 Modificato il: 16.10.07 alle ore 12.56 © l'Unità. Titolo: Walter VELTRONI. - Inserito da: Admin - Novembre 11, 2007, 04:51:32 pm Il coraggio di una donna
Walter Veltroni Era una donna coraggiosa, Giglia. Coraggiosa, attiva, combattiva e insieme appartata: se ne è andata in silenzio chiedendo a tutti i suoi di circondare la sua malattia e l´improvviso peggioramento nel più totale riserbo. Era una suo tratto e l´abbiamo rispettato. Di Giglia Tedesco, dei suoi ottantun´anni - i suoi ottanta li abbiamo festeggiati proprio in Campidoglio - passati tutti immersi nell´impegno e nella passione politica, mi piace ricordare l´ironia. L´ironia con cui affrontava anche le cose importanti (soprattutto le cose importanti), e la sua instancabile voglia di cambiare. Apparteneva a quella generazione di dirigenti politici che avevano costruito la nostra democrazia, lei con la sua storia particolare, con la sua provenienza dall´impegno cattolico, condiviso col marito, l´indimenticabile Tonino Tatò, aveva sempre portato nella politica passioni e convinzioni forti. Il terreno su cui più si era impegnata era certamente quello delle donne. Aveva saputo dopo le tante lotte per l´emancipazione e l´eguaglianza femminile, in un´Italia che su questo terreno scontava un terribile ritardo, confrontarsi anche con femminismo. Per molte della sua generazione non fu facile, ma lei ci riuscì in pieno proprio grazie alla sua curiositàe alla consapevolezza che quel partito a cui era profondamente legata, che era la sua casa aveva ancora molta strada da compiere. Così noi più giovani trovavamo in questa donna che guardavamo con un po´ di reverenza e di timore, un´amica sempre pronta a discutere, a capire, a cercare qualcosa in più. Lei e Tonino conoscevano le culture nuove, guardavano con curiosità ai cambiamenti e alle spinte dei giovani. Chi non la conosceva bene forse l´aveva sottovalutata schiacciandola in questa dimensione di moglie dell´uomo più vicino a Berlinguer. Era una sciocchezza: Giglia era una dirigente a tutto tondo, con convinzioni personali, con una propria cifra politica. Così nelle occasioni di svolta, cominciando dall´89, è stata protagonista sempre in prima linea, spingendo per i cambiamenti che lei giudicava necessari, cercando di convincere quanti tentennavano (e, ad esempio nella sua generazione ve n´erano diversi) del passo che andava compiuto. Fu, in quelle svol\molo per tutti, con i suoi interventi, con quell´autorevolezza appartata e con l´equilibrio che tutti le riconoscevano o anche semplicemente con le sue battute cariche di un´ironia che non era disincanto ma passione, in questo così romana. Con Giglia avevamo parlato spesso del nuovo partito da costruire. Lei che si era sempre battuta perché le donne contassero in politica, perché in Parlamento e nei partiti ce ne fossero molte partecipava a questa nuova sfida con passione e speranza. Quando ci siamo impegnati - e non per forma ma per sostanza - perché nel Partito democratico le donne ad ogni livello fossero almeno la metà l´abbiamo avuta vicino. Avevo pensato a lei quando abbiamo annunciato che nell´esecutivo del Pd c´era una maggioranza di donne. Mi ero detto, ecco una cosa che farà piacere a Giglia. Una rivincita senza acrimonia per le donne di una generazione che si erano viste sempre piccola minoranza nelle istituzioni e nei partiti. Siamo solo all´inizio di quel cambiamento che lei aveva condiviso con noi. Continueremo a pensarla ogni volta che riusciremo a segnare un risultato sulla strada del cambiamento, del rinnovamento della politica di un´accresciuta presenza e forza delle donne. Pubblicato il: 11.11.07 Modificato il: 11.11.07 alle ore 15.00 © l'Unità. Titolo: Walter VELTRONI. - Inserito da: Admin - Novembre 21, 2007, 03:19:15 pm CRONACA
Per il consigliere Nieri nessun patto tra Biscione e tv di Stato, ma solo normali consultazioni Rizzo Nervo, del cda di viale Mazzini: "Dopo le rivelazioni di Repubblica i dirigenti si devono dimettere" Intercettazioni, querele e inchieste Veltroni: "Calpestato il servizio pubblico" La Commissione parlamentare di vigilanza: "L'indagine farà chiarezza" Il ministro delle Comunicazioni Gentiloni: "Affiora un clima collusivo" ROMA - Querele, inchieste, reazioni politiche durissime e richieste di dimissioni. Sta provocando un vero e proprio terremoto la pubblicazione su Repubblica di oggi delle intercettazioni del "patto" tra Rai e Mediaset nel trattare informazione politica e altri grandi eventi. Mediaset annuncia querele, la Rai un'inchiesta interna, mentre il centrosinistra, con Walter Veltroni, parla di "fatto gravissimo" e di un "servizio pubblico umiliato". Chi invece cerca di smentire tutto è Gina Nieri, consigliere di amministrazione Mediaset: "Siamo alle stupidaggini: che Rai e Mediaset si facciano concorrenza è sotto gli occhi di tutti 72 ore al giorno. Detto questo, è evidente che, come accade nei giornali, i direttori si chiamino, si consultino". Ma in viale Mazzini, la questione viene presa molto sul serio ed è già partita un'inchiesta interna. E si muove anche il governo. "C'è un clima collusivo - dice il ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni - All'ombra del duopolio affiora un clima collusivo che non mi pare edificante per il servizio pubblico e per la sua autonomia". Mentre il membro del Cda Rai Nino Rizzo Nervo si spinge a chiedere le dimissioni dei dirigenti e dei giornalisti Rai coinvolti nelle intercettazioni telefoniche. Sul fronte Mediaset, invece, arriva l'annuncio di azioni giudiziarie. "Come al solito - dice Gina Neri - vengono fuori intercettazioni che non c'entrano niente con l'indagine principale", quella della vicenda Hdc, la società dell'ex sondaggista Crespi. "I nostri legali stanno predisponendo le querele. Quando ci sono notizie come la morte del Papa o le elezioni amministrative - continua il consigliere di amministrazione - è normale che ci sia una consultazione. Penso che i De Bortoli, i Mauro si sentano ogni qualvolta ce ne sia bisogno. Tanto rumore per nulla". Una versione minimalista, quella fornita da Mediaset, che non convince la Direzione generale della Rai, che con un comunicato ha reso noto di aver già aperto un'indagine interna, annunciando l'intenzione di costituirsi come parte lesa. Una scelta che ha trovato l'approvazione del presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai Mario Landolfi che chiede però "di evitare strumentalizzazioni politiche". (21 novembre 2007) da repubblica.it Titolo: Walter VELTRONI. - Inserito da: Admin - Novembre 24, 2007, 05:03:08 pm Una battaglia di civiltà
Walter Veltroni Ogni giorno le donne muoiono più per la violenza fuori e dentro la famiglia che per malattie o incidenti. Ed è così in tutto il mondo, senza distinzioni sociali, etniche, culturali. A tutti, anche a quanti spesso dimenticano questa realtà, lo ricorda oggi questa giornata mondiale contro la violenza. È una violenza che vive nella sopraffazione e nella violazione del corpo e dell’anima delle donne, si manifesta per mano del partner o nelle strade dell’insicurezza urbana: è una violenza che si radica nel cuore di chi l’ha subita, difficile da estirpare, fatta di umiliazione e vergogna, di silenzio e di paura. Lo sanno bene tutti coloro che quotidianamente si occupano del sostegno alle donne vittime di violenza, penso ai centri e alle case antiviolenza, ai servizi degli ospedali e dei comuni, alle forze dell’ordine: migliaia di donne e di uomini che combattono una battaglia di civiltà e di legalità, e che non vanno lasciati soli dalle istituzioni e dalla politica. Non è facile aiutare una donna che ha subito violenza, ma anche noi possiamo fare la nostra parte, innanzitutto parlandone, abbandonando l’indifferenza, ricomprendendo la dignità delle donne nella scansione dei nostri valori. Dare al Paese una nuova identità maggiormente condivisa, avviare una nuova stagione sono obiettivi che non possono prescindere dall’affermazione della libertà femminile come condizione della libertà di tutti. Ne è un esempio la strategia per la sicurezza che, lungi dall’essere esclusivamente repressiva, deve saper cogliere il sentimento di inquietudine e insicurezza che attraversa le nostre città. L’esperienza delle donne ci parla di una sicurezza umana, di interventi dolci, di città amiche, del desiderio di potersi sentire sicure, e dunque libere, di giorno come di notte, nel centro della città come nelle periferie. Ci dice che il rispetto del corpo è la prima forma di legalità e che il progetto di vita di ciascuno non può essere interrotto, talvolta fino alla morte, in nome di relativismi etici o presunti superiorità naturali, che non possono avere spazio nella civiltà di un mondo dal destino comune. Per questo la battaglia contro la violenza alle donne è figlia del cammino mai interrotto per l’affermazione dei diritti umani delle donne come diritti universali. Ci vuole coraggio e determinazione per costruire la società della convivenza, per consolidare diritti e doveri nelle coscienze, per abbattere il muro dei fondamentalismi di ogni cultura. Battaglia delle idee, fermezza nel perseguire il crimine, crescita della coscienza civile, nuova legislazione sono gli ingredienti di un nuovo patto fra uomini e donne per la dignità e la libertà. Non c’è tempo da perdere, è il tempo delle decisioni. Lancio un appello a tutte le forze politiche perché il Parlamento approvi rapidamente le nuove norme contro la violenza alle donne, a partire da quelle contro le molestie persistenti e contro l’omofobia. È urgente una nuova legge che abbia al centro la prevenzione, il contrasto e il sostegno alle vittime, che si doti di strumenti come un osservatorio permanente, che coinvolga in un monitoraggio attivo centri, associazioni, istituzioni, enti locali. E occorrono finanziamenti adeguati. Ma le leggi non bastano se non cambiano cultura, mentalità, senso comune, se non vive una nuova responsabilità sociale verso le donne, dalla scuola al sistema dei media. Oggi molte donne parteciperanno alle iniziative nelle piazze e nelle strade d’Italia e del mondo. Saremo con loro dovunque ci saranno azioni e parole per sconfiggere la violenza contro le donne con le nostre proposte, aperti al dialogo, fermi nella convinzione che la dignità delle donne è lo specchio della civiltà di una nazione. Pubblicato il: 24.11.07 Modificato il: 24.11.07 alle ore 12.59 © l'Unità. Titolo: Celli: chiamate dei politici in Rai? Sempre state Inserito da: Admin - Novembre 26, 2007, 10:37:44 am Controcorrente L’ex dg della Rai ulivista e il caso delle intercettazioni
Celli: chiamate dei politici in Rai? Sempre state ROMA—«Questa storia delle intercettazioni è come un fotogramma di un film. Se lo si taglia e lo si isola, assume un significato. Se invece lo si inserisce in una lunga sequenza allora si capisce che siamo di fronte alla parte di qualcosa che è sempre esistito…». Parola di Pier Luigi Celli, oggi direttore generale della Luiss ma ex direttore generale della Rai dell’Ulivo sotto la presidenza di Roberto Zaccaria, scelto perché «gradito» a D’Alema e uomo di centrosinistra («lo ero e lo sono, non ho cambiato idea»). Dunque queste intercettazioni non hanno stupito il predecessore di Claudio Cappon…. «Le telefonate dei politici alla Rai ci sono sempre state, sarebbe un’ipocrisia negarlo. E quindi sarebbe interessante se si potessero esaminare altre intercettazioni, quelle legate al passato. Perciò faccio il discorso del fotogramma». Ma qui si immagina una commistione Rai-Mediaset con un unico beneficiario, Silvio Berlusconi, e con una Rai piena di uomini «vicini» al Cavaliere. «La faccenda indubbiamente appare rilevante poiché riguarda la guida dell’informazione. Se fosse provato, sarebbe gravissimo. Ma circa i contatti col concorrente… se giurassi di non aver mai sentito Fedele Confalonieri non sarei sincero. Anzi, mentirei». Vi sentivate per dar vita a «Raiset»? «Macché. Ma due gruppi concorrenti come Rai e Mediaset possono confrontarsi sulle grandi strategie industriali. Succede ovunque». Se lei fosse ancora direttore generale sospenderebbe Deborah Bergamini? «Bisogna essere molto cauti e chiari. La certezza del diritto va rispettata. Non ci si può stracciare le vesti a corrente alternata né indignarsi a seconda di chi sono i bersagli. Certi criteri devono valere sempre. Vedo che si infuriano molti personaggi "benedetti" e graditi a tante parti politiche». Parla del centrosinistra? «Del centrosinistra come del centrodestra, in altri casi. La Bergamini? Non la conosco, non lavorava alla Rai ai miei tempi. Non sono in grado di giudicare la sua competenza. In passato so però che si era più professionali anche nel fare le sciocchezze...» In quanto a Clemente Mimun? «Come direttore Rai è sempre stato di una correttezza estrema. Faceva bene il suo mestiere. Ha sempre battuto il Tg5. Non ha mai nascosto le sue idee politiche, diverse dalle mie. Ma lo faceva con lealtà e chiarezza». Ma certe telefonate dimostrerebbero un «accordo» con la concorrenza… «Per come lo conosco io, mi sembrerebbe impossibile. Non è quel tipo di persona». Ma torniamo alle telefonate dei politici, alle pressioni. Chi la chiamava? «A me nessuno. La delega ai contatti con le istituzioni apparteneva a Zaccaria in quanto presidente». Quindi arrivavano a lui? «Non potrei dirlo. So però perché me ne sono andato l’8 febbraio 2001, pochi mesi prima delle elezioni politiche. Io non volevo una Rai schierata prima delle urne, convinto com’ero che l’equilibrio avrebbe giovato anche al centrosinistra. Vidi invece un grande attivismo di Zaccaria che convocava direttori e autori di programmi. Mandai uno, due, tre segnali. Poi me ne andai. In seguito accadde ciò che sappiamo: i programmi Travaglio-Luttazzi, i casi Santoro, una Rai schieratissima. Il centrosinistra, a elezioni perdute, dovette poi pagare tutto con gli interessi, com’era ovvio. Seguirono cinque anni di berlusconismo che è meglio dimenticare ». Una pausa: «Ora sto benissimo dove sto. Guardo ciò che accade e penso quanto sia triste questa politica fatta solo di appartenenze e priva di idee e ideali». Vale per tutti? «Purtroppo vale per tutti. Lo dico con molta amarezza». Paolo Conti 25 novembre 2007 da corriere.it Titolo: «Ecco i dodici punti per cambiare l'Italia» Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2008, 11:22:12 pm ELENCATI DA VELTRONI ALL'ASSEMBLEA DEL PD
«Ecco i dodici punti per cambiare l'Italia» Dalle infrastrutture al Sud, dalla riduzione delle tasse alla sicurezza. E poi giustizia e precarietà dei giovani ROMA - Dalla Fiera di Roma Walter Veltroni lancia «dodici proposte innovative per cambiare l'Italia». Il candidato premier del Pd le ha esposte alla platea dell'assemblea costituente del Pd. INFRASTRUTTURE - «Primo: modernizzare l'Italia significa scegliere come priorità le infrastrutture e la qualità ambientale - ha detto - per colmare il ritardo che l'Italia ha accumulato. Diciamo no alla protesta Nimby e sì al coinvolgimento e alla consultazione dei cittadini. Sì agli impianti per produrre energia pulita, ai rigassificatori, ai termovalorizzatori e al completamento della Tav». MEZZOGIORNO - Secondo punto programmatico «è il grande obiettivo di innovazione del Mezzogiorno, della sua crescita, che è la crescita dell'Italia». Veltroni dice no ad una «politica che disperda fondi in una miriade di programmi, mentre diciamo sì a una drastica e veloce revisione dei programmi europei». SPESA PUBBLICA - Terzo obiettivo «il controllo della spesa pubblica». Negli anni di governo della destra - spiega Veltroni - è aumentata la spesa primaria corrente, «mentre il governo Prodi ha risanato e migliorato i conti pubblici. Per questo il nostro slogan è spendere meglio, spendere meno». RIDUZIONE TASSE - Il quarto obiettivo del Pd «è fare quello che non è mai stato fatto: ridurre le tasse ai contribuenti leali, ai lavoratori dipendenti e autonomi che oggi pagano troppo». Un obiettivo che si traduce nello slogan: «Pagare meno, pagare tutti». LAVORO DONNE - Quinto punto del programma «è investire più di quanto mai sia stato fatto sul lavoro delle donne». Perché «oggi in Italia ci sono tre patologie: bassi tassi di occupazione femminile, bassa natalità e alti tassi di povertà minorile. E noi vogliamo trasformare il capitale umano femminile in un asso per la partita dello sviluppo». CASE IN AFFITTO - Al sesto punto programmatico c'è il problema della casa. Veltroni vuole aumentare le case in affitto e la «costruzione di circa 700 mila nuove case da mettere sul mercato a canoni compresi tra i 300 e i 500 euro». DOTE FISCALE - Settimo obiettivo «è quello di invertire il trend demografico mediante l'istituzione di una dote fiscale: 2500 euro al primo figlio e aiuti per gli asili nido». Veltroni ha quindi rimarcato la necessità della lotta alla pedofilia, «il più orrendo dei crimini». UNIVERSITA' - Ottavo posto nel programma del Pd è quello dell'università. «Cento nuovi campus universitari e scolastici entro il 2010 «perché la società dovrà contare sul talento e sul merito dei ragazzi italiani». PRECARIETA' - Nono punto: «la lotta alla precarietà, la qualità del lavoro e la sua sicurezza». Per Veltroni «la sicurezza sul lavoro è un diritto fondamentale della persona umana, che non può essere comprato e venduto a nessun prezzo». Quanto ai giovani precari dovranno raggiungere il minimo di 1.000 euro mensili. SICUREZZA - Decimo obiettivo è quello della sicurezza «perché far sentire sicuri i cittadini è uno dei principali obiettivi del Pd». Il segretario del Pd vuole maggiori fondi per le forze dell'ordine e ribadisce la certezza della pena come uno dei cardini dell'azione di governo del centrosinistra. GIUSTIZIA - Undicesimo punto è quello della giustizia e della legalità. Ricordando le parole di Napoletano Veltroni dice «che da troppi anni c'è uno scontro nel Paese sulla giustizia e tra politica e magistratura. Proporremo norme innovative per la trasparenza delle nomine di competenza della politica. Nel nostro ordinamento inseriremo il principio della non candidabilità in Parlamento dei cittadini condannati per reati gravissimi connessi alla mafia, camorra e criminalità organizzata o per corruzione o concussione». INNOVAZIONE - Ultimo e dodicesimo punto è quello dell'innovazione: «Vogliamo portare la banda larga in tutta l'Italia e garantire a tutti una tv di qualità». Il segretario del Pd dice che è necessario superare il duopolio tv «e correggere gli eccessi di concentrazione delle risorse economiche, accrescendo così il pluralismo e la libertà del sistema». 16 febbraio 2008 da corriere.it Titolo: museo Shoah Veltroni, la lettera di dimissioni "Ferito dalle parole di Alemanno" Inserito da: Admin - Settembre 08, 2008, 10:09:06 pm POLITICA
Il messaggio del segretario del Pd inviato a Riccardo Pacifici in cui spiega perché ha deciso di lasciare il museo della Shoah Veltroni, la lettera di dimissioni "Ferito dalle parole di Alemanno" ROMA - "Ho deciso di presentare le mie dimissioni dopo le dichiarazioni di Alemanno che mi sono apparse gravissime" e il suo tentativo di "esprimere un giudizio 'doppio' sul fascismo". Comincia così la lettera di Walter Veltroni in cui annuncia le dimissioni dal comitato per il museo della Shoah, presieduta dall'attuale sindaco di Roma, e inviata a Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica romana, Renzo Gattegna, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane e Settimio Di Porto del direttivo dell'associazione Figli della Shoah. Nella lettera Veltroni ricorda lo "sforzo" fatto da sindaco di Roma " per dar corpo alla proposta di un museo romano della Shoah". "Sono state proprio le vostre sollecitazioni a entrare nel consiglio di amministrazione del comitato dei fondatori del museo della Shoah che mi hanno spinto a farne parte" si legge ancora nella lettera. "Ho accettato per senso di responsabilità e per portare a termine un lungo lavoro condiviso con voi e tanti altri. Ho deciso ora però di presentare le mie dimissioni dal consiglio dopo le dichiarazioni del sindaco Alemanno che mi sono apparse gravissime". "Quel tentativo di esprimere un giudizio 'doppio' sul fascismo, questa ambiguità non chiarita e anzi se possibile aggravata dalle successive dichiarazioni mi feriscono e mi fanno ritenere impossibile rimanere al mio posto nel comitato presieduto dal sindaco di Roma Alemanno". "Ho letto le vostre reazioni alle dichiarazioni del sindaco - prosegue Veltroni - e mi unisco al limpido giudizio espresso dal presidente Gattegna quando annota che 'le leggi razziali sono state emanate dal regime fascista e convalidate dalla monarchia. Quindi mi sembra difficile separare le due cose'. Così come mi hanno emozionato le dichiarazioni di una persona cui sono legato da un grande affetto come Piero Terracina, quando ricorda che 'se non ci fosse stato il fascismo non ci sarebbero state le leggi razziali. Il fascismo è stato allora e rimane ancora una malattia contagiosa, e c'è sempre il pericolo che, se non lo si ferma, diventi inarrestabile'". "Prima della promulgazione delle leggi razziali" prosegue il segretario del Pd "il regime fascista aveva già espresso la sua carica totalitaria, aveva soppresso la libertà di tutti, non solo degli antifascisti, aveva perseguitato i suoi nemici, avvelenato l'aria del paese con la sua ideologia pervasiva e violenta. Non è a voi che devo ricordare cosa, dal colpo di stato della 'marcia su Roma' e persino prima, era avvenuto nel nostro Paese. Dalle sedi sindacali e mutualistiche bruciate, dalle tante violenze perpetrate per imporsi con la forza dei manganelli e dei moschetti nasce quel regime che subito impone la fine delle libertà. Il delitto Matteotti, la messa al bando di ogni opposizione, la chiusura dei giornali avversari e la normalizzazione di tutta la stampa sono i primi atti costitutivi del fascismo al potere. Allo stesso modo finiscono le libertà di organizzazione e di espressione, gli oppositori come Gramsci vengono rinchiusi nelle carceri fino alla loro morte, altri gettati al confino o costretti all'esilio, altri ancora uccisi vigliaccamente da sicari come Giovanni Amendola, Piero Gobetti, don Minzoni e i fratelli Carlo e Nello Rosselli". "E' il fascismo - scrive ancora l'ex primo cittadino della Capitale - che spinge l'Italia nelle guerre coloniali che furono, benché in pochi lo ricordino, segnate da crimini gravissimi contro le popolazioni civili come il bombardamento dei villaggi in Etiopia con l'iprite. E' qui che si inseriscono le leggi razziali non come un semplice 'cedimento' al nazismo ma come la conseguenza di uno spirito razzista e antisemita che aveva serpeggiato a lungo nell'ideologia mussoliniana, è qui che si innesta la scelta scellerata dell'entrata in guerra", in un conflitto, scrive Veltroni che provocò "milioni di morti in Europa" e "lo sterminio sistematico degli ebrei". Ad esso "il fascismo italiano, stavolta sotto le divise della Repubblica sociale, contribuì attivamente e consapevolmente come ci ricordano i rastrellamenti nelle strade dell'Italia occupata, il campo di concentramento di Fossoli, o la Risiera di San Sabba". "Ritengo che una istituzione come il futuro museo romano della Shoah - aggiunge Veltroni - al cui progetto abbiamo lavorato in tutti questi anni con la passione che sapete, che ha al centro proprio l'affermazione di una memoria condivisa come fondamento della convivenza civile e che fa del ricordo della Shoah un elemento imprescindibile non possa ammettere ambiguità o incertezze. Per questo, anche se con grande rammarico, vi annuncio le mie dimissioni. Al tempo stesso voglio confermarvi che continuerò a compiere ogni sforzo insieme a voi perché il museo romano della Shoah possa realizzarsi e possa essere il luogo della denuncia di ogni dittatura e ogni totalitarismo che insieme abbiamo immaginato". (8 settembre 2008) da repubblica.it Titolo: Re: museo Shoah Veltroni, la lettera di dimissioni "Ferito dalle parole di Alemanno" Inserito da: Admin - Settembre 08, 2008, 10:11:20 pm Il Pd contro An: «Approfitta della maggioranza per riscrivere la storia»
Coro di voci del partito Democratico contro le parole del ministro La Russa in occasione dell’anniversario dell’8 settembre. Il capogruppo alla Camera Antonello Soro sottolinea che «le parole ambigue del sindaco di Roma sul fascismo nella giornata di ieri, e quelle del ministro della Difesa in occasione della commemorazione di Porta San Paolo, non aiutano la memoria, rischiano di generare confusione e disorientamento». Soro ci tiene anche a ricordare che «nello sforzo pur legittimo di riconoscere le ragioni di tutti i combattenti, dobbiamo saper mantenere sempre la capacità di discernere: non tutte le storie hanno lo stesso valore». Definisce invece «inaccettabile e stridente» il fatto che La Russa abbia pronunciato quelle parole proprio l'8 settembre, al capogruppo Pd al Senato Anna Finocchiaro. Secondo lei, «gli esponenti di Alleanza Nazionale stanno cercando, con la forza della maggioranza, di riabilitare il fascismo e la Repubblica Sociale attraverso distinzioni che stupiscono e allarmano. Non esistono – aggiunge – un fascismo buono e uno cattivo, è la natura stessa di quella dittatura ad essere incompatibile con i valori della democrazia e della repubblica. La Repubblica italiana – conclude – è nata dalla guerra di Liberazione e dalla Resistenza e per questo la nostra Costituzione assume come valore fondante l'antifascismo». Pubblicato il: 08.09.08 Modificato il: 08.09.08 alle ore 15.35 © l'Unità. Titolo: Walter Veltroni I segnali di allarme di questi tempi devono chiamare la sinistra Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2008, 12:34:20 pm Lunedì la telefonata tra i due leader.
Fioroni: "La pace è importante evitiamo però finti compromessi". Caso Firenze il segretario sonda Chiti Massimo e Walter, tregua per il partito "Ma un chiarimento resta necessario" di GOFFREDO DE MARCHIS ROMA - "Comunque la prossima settimana, in direzione, mettiamo le carte sul tavolo". "Certo, il chiarimento è necessario". Stamattina ci sarà un round a quattr'occhi tra Walter Veltroni e Massimo D'Alema. Prima della lunga giornata del Pd, chiamato a risolvere i nodi di Firenze, di Napoli, della Campania, le primarie, Jervolino, Bassolino, e della scelta del posto nel Parlamento europeo: con i socialisti e da soli? Ma i due eterni sfidanti della sinistra si sono già sentiti al telefono lunedì pomeriggio, nel giorno di festa. Non hanno firmato una vera pace perché nella direzione del 19 si dovrà fare luce su un periodo di veleni. Ma nella confusione che avvolge il Partito democratico a tutte le latitudini e di fronte agli attacchi del centrodestra, si è voluto impedire a Berlusconi d'infilare nell'antica rivalità. Per il "bene della ditta", Veltroni e D'Alema hanno sancito una tregua necessaria ma circoscritta sulla questione morale: "Reagiamo uniti agli attacchi strumentali". Può essere comunque un primo passo, l'incontro di stamattina ne può registrare altri e al 19 manca più di una settimana. È sicuramente la rottura di una lunga incomunicabilità, segnata dall'avvertimento di D'Alema ("torno a occuparmi del partito") e dalla replica di Veltroni ("chi vuole sostituirmi si faccia avanti"). Con un voto della direzione sulla piattaforma annunciata dal segretario, il cosiddetto Lingotto 2, che conferma la vocazione maggioritaria del Pd, punta a un bipolarismo netto, privilegia come momenti fondativi le primarie del 14 ottobre e il Circo Massimo a un'organizzazione vecchio stile del partito, sarà difficile trovare una sintonia con le posizioni di D'Alema. In questo caso il voto potrebbe davvero segnare una resa dei conti, una distinzione netta. Ma tutti sono pronti a giurare che non andrà così, che lo show down non avverrà. "Tutti i momenti di pace sono importanti, ma anche la chiarezza è fondamentale", avverte il coordinatore organizzativo Beppe Fioroni. Significa: evitare soluzioni di compromesso, "documenti condivisi che il giorno dopo si trasformano in sette convegni e interviste di rottura". E però neanche lui crede a un chiarimento che finisca con uno strappo. Tanto più in questa fase, con un partito investito da un mare di problemi e all'indomani del voto in Abruzzo (domenica e lunedì) che probabilmente si rivelerà pesante per il Pd. Insomma, anche il 19, come l'altro ieri nel giorno dell'Immacolata Concezione, potrebbe prevalere il "bene della ditta". Veltroni, prima dell'appuntamento della direzione, deve giocare bene le carte di Napoli e Firenze e della collocazione europea. Presentarsi con delle soluzioni in tasca. Ieri ha cominciato affrontando il nodo del capoluogo toscano. Riservatamente, ha incontrato Vannino Chiti. È il segno che per lui la candidatura dell'ex ministro sta diventando sempre di più la strada maestra. "È l'unico modo per mettere ordine a Firenze", si stanno convincendo nel Pd. Anche se i candidati alle primarie (ormai congelate) contestano le scelte romane. Chiti ha molti dubbi sulla corsa per Palazzo Vecchio e comunque ha chiesto garanzie, cioè che il campo sia sgombro dalle polemiche di questi giorni. Per correre alle primarie di coalizione come candidato unico del Partito democratico. Oggi il coordinamento di Largo del Nazareno incontra i segretari regionale, cittadino e provinciale sul caso Firenze. Lo stesso avverrà per Napoli. Senza Bassolino e la Jervolino, ma con Luigi Nicolais e Tino Jannuzzi. Nicolais, segretario provinciale, non ha cambiato idea: la giunta del comune di Napoli va azzerata. "Ma non mi sembra che la Jervolino lasci molti spazi. E se non ci sono possibilità di cambiamento vero lascerò il mio incarico". Il caminetto con tutti i big (escluso D'Alema impegnato proprio a Napoli) dovrà discutere della collocazione europea del Pd per le prossime elezioni. Sarà braccio di ferro tra gli "autonomisti" puri (Francesco Rutelli e Arturo Parisi) e i sostenitori dell'alleanza con il Pse (Piero Fassino e in forme diverse l'area degli ex ppi). A Bologna la prima riunione del coordinamento del Nord (tutti i segretari regionali del Pd) ha sancito ieri la nascita di questa struttura. "Non siamo un partito", precisano i protagonisti. Ma la sfida è alla Lega e alle sue parole d'ordine. Prossima riunione il 9 gennaio a Milano. Massimo Cacciari commenta: "Non è quello che volevo". (10 dicembre 2008) da repubblica.it Titolo: Veltroni apre al piano per l'auto "Berlusconi non sa gestire la crisi" Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2008, 10:42:23 pm ECONOMIA
Il segretario del Pd a Milano per la ricandidatura del presidente della Provincia Penati "Se lo faranno gli altri invito a mettere in campo, anche noi, incentivi al settore" Veltroni apre al piano per l'auto "Berlusconi non sa gestire la crisi" "Cambierà la vita degli italiani e il premier riceve le gemelle dell'Isola dei famosi" e sulla riforma della giustizia dice: "Strano Paese, Bossi il più moderato" MILANO - Gli aiuti al settore dell'auto, la crisi economica, l'Alitalia, la riforma della giustizia, il potere di Berlusconi e una battuta: "Considero compimento della stranezza di questo paese il fatto che il più moderato sia Bossi, il mondo è capovolto". Sono alcuni degli argomenti toccati dal segretario del Pd, Walter Veltroni, a Milano nel corso di un incontro al teatro Strehler a sostegno della ricandidatura del presidente della Provincia Filippo Penati. Aiuti all'auto. Veltroni, ha spiegato che, di fronte a quella che ha definito una "riduzione gigantesca delle vendite di auto", se gli altri Paesi interverranno si "altererà la concorrenza e l'Italia pagherà di più". Per questo, ha detto, "se lo faranno gli altri invito a mettere in campo, anche noi, incentivi al settore delle auto". Governo inadeguato. "Il governo e il presidente del Consiglio sono inadeguati a governare e ad affrontare questa crisi", ha detto il segretario del Pd. "Stiamo entrando in una crisi che cambierà la vita di centinaia di migliaia di italiani. Nonostante questo, Berlusconi riceve a Palazzo Chigi le gemelle dell'Isola dei famosi come fosse un appuntamento istituzionale inderogabile rispetto alla cassa integrazione che sta colpendo migliaia di lavoratori. Non facciamo propaganda - ha aggiunto Veltroni - accusando il governo di questa situazione perché la crisi è mondiale, tuttavia Berlusconi è inadeguato a governare questa crisi". "Sbagliata ogni previsione". Il segretario del Pd ha quindi accusato Berlusconi e il suo governo "di avere sbagliato ogni previsione". "In Italia - ha detto - non è ancora stato predisposto un intervento per aiutare le figure sociali più deboli come gli operai delle fabbriche e i precari". Mentre è stata per esempio disposta la detassazione degli straordinari: "Quali straordinari? - ha chiesto Veltroni - I magazzini sono pieni di merce e le aziende vanno in cassa integrazione". Alitalia. "E' tempo di crisi e bisogna evitare di buttare i soldi dalla finestra. Il governo invece ha regalato miliardi di euro alla cordata per Alitalia e ha buttato denaro con l'abolizione dell'Ici", ha affermato il segretario del Pd. Giustizia. "Siamo disponibili a creare un tavolo che discutere della riforma della giustizia a favore dei cittadini e delle imprese", ha poi spiegato Veltroni. "Un tavolo - ha sottolineato - che non deve durare sei mesi ma 60 giorni, con la partecipazione di magistrati e avvocati. Siamo invece assolutamente contrario, e lo saremo in futuro, ad un controllo del governo sulla magistratura", ha detto ancora il segretario del Pd. Magistrati e intercettazioni. Secondo Veltroni dev'essere consentito ai magistrati l'utilizzo delle intercettazioni telefoniche "anche per reati contro la corruzione, ma allo stesso tempo questi strumenti devono servire per le aule giudiziarie e non per i giornali tutti i giorni". "L'impero di Berlusconi si sta sgretolando". "Berlusconi - ha poi spiegato Veltroni - governa ormai da molti anni e deve smettere di far finta di venire da Marte, se l'Italia è quella che è lui ha le sue responsabilità. La gente si sta ricredendo. Si stanno accorgendo della differenza tra le promesse e i fatti, si stanno accorgendo di queste prese in giro. Ci vorrà del tempo, anche perché il controllo sull'informazione è asfissiante, ma stiamo vedendo che l'impero di Berlusconi si sta sgretolando". Al Cavaliere, Veltroni rimprovera poi di fare "con Di Pietro lo stesso gioco che faceva con Bertinotti, con l'obiettivo di scegliersi l'opposizione. Noi dobbiamo batterci per una grande forza riformista popolare". Bossi moderato. Infine la battuta sul leader della Lega: "Ho letto Bossi sulla giustizia e mi sembra che qualche cosa non funzioni in questo Paese se è lui ad essere il più moderato". "Bossi - ha proseguito Veltroni - dà atto del ruolo del presidente della Repubblica e parla di dialogo. Berlusconi invece dice solo cose da campagna elettorale perché non è capace di governare e sa fare solo quella". (14 dicembre 2008) da repubblica.it Titolo: WALTER VELTRONI Inserito da: Admin - Marzo 31, 2009, 03:48:41 pm 31/3/2009 - L'INTERVENTO
Pd, non si torna indietro WALTER VELTRONI In un libro Massimo Salvadori ha scritto che con il 1989, con il crollo del Muro di Berlino, è iniziata per la sinistra «un’altra storia». Diversa da quella precedente, che aveva visto il campo riformista diviso e frammentato. Laici e cattolici, nel Psi e nella Dc, e anche nel Pci: i riformismi e i riformisti sono stati dappertutto. Quasi sempre, però, all’interno di partiti che avevano logiche complessive che poco avevano a che fare con il riformismo, e che quand’anche li avevano erano privi della forza necessaria ad affermarlo come strategia maggioritaria nel Paese. Davvero si può dire, andando più indietro nel tempo, pensando ai riformisti alla Turati, ai socialisti liberali alla Rosselli, alla stessa breve vicenda del Partito d’Azione, che sono esempi di chi «ha avuto ragione ma non ha fatto la storia». Pensiamo al Partito d’Azione. Un partito che nasce nel pieno della guerra, che in un tempo già dominato dalle ideologie contrapposte e dall’affermarsi di partiti «chiesa» si contraddistingue per il fatto di unire al suo interno diverse culture riformiste: il socialismo liberale di Rosselli, il liberalsocialismo di Calogero e Capitini, le posizioni liberal-democratiche di Parri e La Malfa. Un partito che cessa di vivere nel 1947, dopo aver preso alle elezioni per l’Assemblea Costituente una percentuale irrisoria di voti, e che pure aveva tra le sue file uomini che nei decenni a venire avrebbero continuato a incidere nelle vicende e nella cultura di questo Paese, come un «fiume carsico» periodicamente destinato a riemergere in superficie. Viene da domandarsi se non sia stata, questa, una delle occasioni perse nella storia del riformismo italiano. Quando gli azionisti parlavano di «democrazia integrale», quando insistevano sulla necessità di coniugare il buon funzionamento delle istituzioni con il lealismo dei cittadini, quando sottolineavano il bisogno di costruire un sistema politico funzionante, animato da una forte tensione etica, da un limpido conflitto tra idee e posizioni distinte, e in grado di assicurare ai cittadini stessi partecipazione e influenza sulle scelte pubbliche, coglievano nodi profondi, destinati a riproporsi lungo il cammino del nostro Paese. E comunque, per quanto riguarda la sinistra «tradizionale» è vero, come ha scritto lo stesso Salvadori, che la sua parte maggioritaria non ha mai fatto propria «la filosofia del gradualismo riformistico». Il Pci non era certo un partito di «professionisti della rivoluzione». Era un grande partito di massa che nelle forme concesse contribuiva a «governare» la società italiana. Detto ciò, resta il fatto che si autodefiniva ed era un partito comunista. Il suo legame con l’Urss, per quanto critico e particolare, si rescinderà definitivamente solo con la «svolta» nell’89. Forse la storia dei riformisti italiani sarebbe stata diversa se nel ’56, di fronte ai fatti di Budapest, i comunisti italiani avessero posto fine a quel legame e avessero fatto propri i valori della democrazia occidentale, trasformandosi in un partito socialista. Forse sarebbe stato possibile avviare un percorso tale da portare all’incontro col Psi e a un’alternativa rispetto alla Dc, rendendo il sistema politico italiano simile a quelli degli altri paesi europei. Ma si sa: la scelta del gruppo dirigente del Pci fu opposta. Ed ebbe esiti opposti. I comunisti accentuarono la loro linea antiriformista, non considerando altra alternativa che non fosse di sistema. I socialisti scelsero la via dell’autonomia e aprirono quella strada della collaborazione con la Dc che avrebbe portato all’esperienza del primo centro-sinistra. Una collaborazione che nel tempo si sarebbe rivelata sostanzialmente subalterna e che non riuscì mai ad aprire, nel Paese, una stagione di concreto e duraturo riformismo. Questo è mancato, nei primi cinquant’anni di storia della Repubblica: un partito riformista che fosse maggioritario e che guidasse, come è avvenuto e avviene in altri paesi europei, la vita politica nazionale. Solo nel 1995, con il sistema politico ormai «sbloccato», nasce l’Ulivo. Qualcosa di meno di un vero e proprio partito dei riformisti, ma anche di più di un mero accostamento di forze, di una sola alleanza di governo. Nell’introduzione a un mio libro pubblicato durante l’esperienza del primo governo dell’Ulivo scrissi che «il centrosinistra è la nuova sinistra del Duemila». Ne sono oggi più convinto di ieri. Oggi che il partito del centrosinistra c’è, ed è il Partito democratico. Prima cosa: il Pd non è certo nato nel segno dell’improvvisazione o della fretta. È nato in ritardo. Un forte, grave e colpevole ritardo. Già nel ’95-’96 c’erano, l’ha detto bene Michele Salvati, condizioni da cogliere con maggiore decisione: la fine delle gabbie ideologiche e la possibilità d’incontrarsi sulla base di valori e programmi, e una maggiore fluidità del legame tra scelte politiche e dimensione individuale. Era scattata una maggiore sensibilità verso la propria «macro-appartenenza»: lo spirito dell’Ulivo voleva dire che ci si sentiva dentro una coesione di culture, esperienze e linguaggi, quasi un «meticciato» di tradizioni e storie. Seconda cosa: il Pd non è nato per riscrivere la storia politica italiana del Novecento, per dare al Paese il partito socialista che non ebbe allora. Non è vero che progettare e costruire il Pd abbia significato non essere realisti, voler impiantare in Italia qualcosa che è fuori dalla nostra storia, e dalla storia europea. È vero il contrario. Sono astratte le critiche fatte al Pd tenendo lo sguardo rivolto all’indietro, ai partiti identitari del secolo scorso, si chiamassero socialisti o cristiani. Quel tempo è finito per sempre. In nome di identità chiuse si possono certo formare piccole formazioni che raccolgano qualche punto in percentuale alle elezioni, soprattutto dentro una logica di tipo proporzionale. Ma non possono nascere grandi partiti a «vocazione maggioritaria» che abbiano non la presunzione dell’autosufficienza, ma l’ambizione di rivolgersi all’insieme del Paese e di esercitare una funzione generale. * dal discorso che Walter Veltroni ha pronunciato ieri all’Università Luiss di Roma da lastampa.it Titolo: WALTER VELTRONI "Non fu Alemanno a fare il saluto romano" Inserito da: Admin - Aprile 25, 2009, 02:54:15 pm Messaggio distensivo dell'esponente Pd al sindaco socialista francese
Anche il ministero degli Esteri francese si dissocia. "Le due città resteranno gemellate" Polemica Roma-Parigi, Veltroni scrive a Delanoe "Non fu Alemanno a fare il saluto romano" ROMA - Il ministero degli Esteri francese si dissocia. Anche Walter Veltroni prende le distanze. Il sindaco socialista di Parigi Bertrand Delanoe è rimasto solo a sostenere che Gianni Alemanno fece il saluto romano il giorno della sua elezione a primo cittadino di Roma. "Furono i suoi sostenitori ad alzare il braccio destro - scrive Veltroni al compagno francese - non Alemanno". Nell'ufficio del sindaco in Campidoglio, la telefonata di scusa che da due giorni Alemanno chiede al suo omologo d'oltralpe ancora non è arrivata ma la dichiarazione il ministero degli Esteri francese sembra più che sufficiente per chiudere il caso-Delanoe. ''Le dichiarazioni del sindaco di Parigi non vincolano la Francia", ha detto ai giornalisti il vice portavoce del Quai d'Orsay. "Le relazioni italo-francesi restano eccellenti". Parole che il sindaco di Roma ha accolto con grande soddisfazione assicurando che garantirà tutto il suo impegno affinché "la città di Roma e quella di Parigi non solo rimangano gemellate ma aumentino le loro relazioni culturali, sociali e civili". L'espressione di solidariatà ad Alemanno ieri era giunta dal presidente della Camera Gianfranco Fini. Oggi la lettera di Veltroni a Delanoe ha chiarito l'equivoco: "Caro Bertrand - scrive l'ex sindaco di Roma - quei saluti romani in Piazza del Campidoglio non fu Alemanno a farli ma alcuni suoi sostenitori. Anzi, continua Veltroni, è "importante ricordare che in questi mesi sono venute da quella parte - e mi riferisco a prese di posizione del presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini - di inequivocabile condanna del fascismo, di autentico rispetto e valorizzazione delle radici della nostra democrazia". "Mi auguro che le tue preoccupazioni nate per un atto di coerenza e amore verso i comuni valori di libertà e democrazia - conclude Veltroni nella lettera a Delanoe - possano lasciare il posto ad un clima di rinnovata collaborazione tra i cittadini di Parigi e Roma". (24 aprile 2009) da repubblica.it Titolo: Pd, Veltroni sta con Franceschini "Tornare allo spirito del Lingotto" Inserito da: Admin - Giugno 15, 2009, 06:33:46 pm Appello su Facebook e convocazione il 2 luglio a Roma
"Basta con i ritorni al passato, servono nuovi dirigenti" Pd, Veltroni sta con Franceschini "Tornare allo spirito del Lingotto" Iniziativa il 2 luglio a Roma con Chiamparino, Ichino, Serracchiani di MATTEO TONELLI ROMA - Walter Veltroni esce allo scoperto e, in vista del congresso autunnale del Pd, lascia capire che si batterà per la riconferma di Dario Franceschini. Lo fa con un appello pubblicato su Facebook che rilancia lo spirito del Lingotto e lo slancio del battesimo dei democratici. E arriva al Pd di oggi: "In Italia c'è finalmente una grande forza che unisce le tradizioni e le nuove idee dei riformisti. Il sogno che alcuni di noi coltivavano da anni si è realizzato". Un progetto che, però, Veltroni vede "messo in discussione". Per questo l'ex sindaco di Roma torna a far sentire la sua voce. E giovedì 2 luglio (alle 16.30 nel centro congressi Capranica a Roma) l'ex segretario scenderà direttamente in campo. Per Franceschini. Al suo fianco ci saranno Francesca Barracciu, Sergio Chiamparino, Paolo Gentiloni, Pietro Ichino, Andrea Martella, David Sassoli, Aldo Schiavone, Debora Serracchiani. Non sarà la nascita di una "corrente", assicura Veltroni. Che guarda al Lingotto, quando annunciò la sua leadership, e chiede che si recuperi quello spirito. "Abbiamo bisogno di un partito in cui avanzi una nuova generazione di dirigenti, che senta con orgoglio l'identità che era racchiusa nelle centinaia di migliaia di bandiere del Circo Massimo. Un partito senza ex di nulla, senza correnti e personalismi, senza vecchie e paralizzanti logiche figlie di un tempo superato. Semplicemente e per sempre superato" scrive Veltroni. Parole che suonano come un atto d'accusa verso l'attuale stato dei rapporti all'interno dei democratici. Che sembrano aver dimenticato "la tregua interna" chiesta da Franceschini al momento della sua investitura. Vede un rischio l'ex segretario. Che il progetto del Pd sia abbandonato. Per questo parla "di richiami antichi" di tensioni che "tornano e aumentano", di scenari che "arrivano a dire che forse sarebbe meglio lasciar perdere il Pd oppure ridurne le ambizioni trasformandolo in un frammento minoritario di uno schieramento senza un disegno riformista". E non si non può non leggere, in queste parole, la severa critica verso i passi indietro che si sono affacciati in casa democratica nel post elezioni. Quei boatos che chiedono un dissolvimento del Pd e la creazione di due forze politiche distinte: una di centro e una di sinistra. "Di tutto abbiamo bisogno, tranne che di ritorni ad un passato che ha poco da dire. Ci vuole più riformismo, più modernità, non il ritorno ad antiche e inesistenti certezze" taglia corto Veltroni. L'ex segretario vede un berlusconismo nella fascia "discendente" ma spiega che "per sola inerzia" i riformisti non vincono. Serve innovazione e impegno. "E in questo senso il Partito Democratico deve fare ancora molto, davvero molto. Non tornando indietro, ma andando avanti. Evitando di ripetere gli errori compiuti e correggendo radicalmente un modo di essere e di fare che ci ha fatto solo male" continua l'ex segretario. Che segnala come la passione di tanti elettori sia stata "delusa" da un partito "impegnato più in laceranti e troppo spesso sotterranei scontri interni, più in un gioco perverso di posizionamenti individuali e di manovre di corrente, che in un convinto e unitario lavoro comune". Dinamiche nefaste che Veltroni ammette di non essere riuscito a bloccare ai tempi della sua segreteria. Da qui le dimissioni e il "silenzio" durato mesi. Silenzio che il 2 luglio, a Roma, terminerà. Ma che nessuno parli della nascita di una corrente, assicura Veltroni. "Sarà quanto di più lontano dell'ennesimo incontro di una componente che si vede per "pesare" nella vita interna di un partito. Chi si aspetta questo può anche non venire, quel giorno" dice l'ex segretario. Due anni dopo il Lingotto si riparte: "Sarà il modo per dire che i grandi obiettivi attorno ai quali ci eravamo ritrovati allora, "fare un'Italia nuova", unire gli italiani, aprire una nuova stagione di governo per il Paese, sono gli stessi di quelli che oggi attendono il Partito Democratico. Dovremo tutti esserne all'altezza". (15 giugno 2009) da repubblica.it Titolo: Veltroni si schiera con Franceschini Inserito da: Admin - Giugno 16, 2009, 04:19:13 pm 15/6/2009 (16:36) - PD - IL NODO DELLA SEGRETERIA
Veltroni si schiera con Franceschini TORINO I ballottaggi ci saranno solo domenica prossima, Dario Franceschini ufficialmente ripete che parlerà del suo futuro solo dopo il secondo turno delle amministrative, ma gli schieramenti in vista del congresso si vanno definendo, Walter Veltroni torna a far sentire la sua voce con un appello a «non tornare indietro» che suona come un endorsement al segretario e la sfida tra con Pierluigi Bersani è, di fatto, partita. Se nei giorni scorsi erano scesi in campo diversi "grandi elettori" di Bersani, da Massimo D’Alema a Enrico Letta, oggi è stata la volta dei sostenitori di Franceschini, da David Sassoli a Sergio Cofferati, fino appunto a Veltroni. In realtà, l’ex segretario ha fatto qualcosa di diverso da un semplice annuncio di sostegno a Franceschini. Veltroni ha lanciato un vero e proprio allarme, ha sostenuto che il progetto del Pd è «messo in discussione», ha denunciato «richiami antichi», ha stigmatizzato chi pensa che «sarebbe meglio lasciar perdere il Pd» e chi punta a «ridurne le ambizioni trasformandolo in un frammento minoritario di uno schieramento senza un disegno riformista». Una piattaforma programmatica vera e propria, senz’altro alternativa a quella illustrata nei giorni scorsi da D’Alema. Veltroni ci tiene a precisare che la sua iniziativa del 2 luglio non è «correntizia», l’incontro sarà presieduto non a caso da Luigi Zanda, un dirigente classificato come rutelliano fino a qualche tempo fa, e in sala ci saranno, tra gli altri, Francesca Barracciu, Sergio Chiamparino, Paolo Gentiloni, Pietro Ichino, Andrea Martella, David Sassoli, Aldo Schiavone, Debora Serracchiani. Un parterre volutamente variegato, dal punto di vista dell’appartenenza alle correnti. Ma il sostegno per Franceschini è nei fatti. Uomini vicini a Veltroni ricordano che «Franceschini ha fatto il Lingotto con Walter», è stato vice-segretario e dunque «se decide di candidarsi, come pare, e se dice di voler proseguire su quella linea... naturale che Walter stia da quella parte». Con Franceschini si schierano anche Lapo Pistelli e la fassiniana Marina Sereni mentre Rosy Bindi, che potrebbe alla fine stare con Bersani, per ora si lamenta della rottura della tregua congressuale: «È davvero sorprendente. Siamo stati convocati con urgenza dal segretario a urne ancora aperte per prendere tutti l’impegno a non aprire il dibattito congressuale prima dei ballottaggi. E invece vedo che ci sono due pesi e due misure». Nel partito, peraltro, ha destato stupore la sortita di ieri dell’ex ministro degli Esteri a proposito delle possibili «scosse» che potrebbero far cadere il Governo. L’invito a «farsi trovare pronti» è sembrata a molti un’allusione ad eventuali governi di ’unità nazionalè, o comunque a larghe intese tipo quelle che si realizzarono nel ’95 dopo la caduta di Berlusconi. Franceschini ha liquidato la vicenda con una frase: «Sinceramente non sono un esperto di complotti e di scosse e penso, invece, che sia più utile parlare di un Governo che c’è ma non è in grado di governare». Non solo, il segretario pur rimandando il tema congresso a dopo i ballottaggi, non ha rinunciato a sottolineare che «abbiamo smentito con i fatti tutti gli avvoltoi che prevedevano la fine del partito nel voto europeo, ora si tratta di ripartire». Giorgio Tonini, veltroniano, chiarisce che se ci fosse una crisi di Governo bisognerebbe tornare alle urne, stesso concetto lo ripete Rosy Bindi, mentre Antonello Soro offre una sua lettura delle parole di D’Alema: «Io lo interpreto come un’esortazione ad accelerare nella costruzione di un’alternativa al Governo, visto che sembra iniziata per Berlusconi una traiettoria declinante. Anche se nessuno è in grado di dire se durerà tutta la legislatura o se ci saranno precipitazioni a breve». Sul tema congresso, invece, tace per ora Romano Prodi, che però storicamente ha buoni rapporti con Bersani. Ma è il prodiano Mario Barbi a polemizzare con Veltroni e Franceschini: «Sento parlare del rinnovare lo spirito del Lingotto - dice Barbi - ma il Lingotto è stato il deragliamento del Pd da un progetto responsabile di governo», una scelta che «ci ha portato a consegnare il Paese nelle mani di Berlusconi e della destra e della destra». Francesco Rutelli, invece, si dice pronto a dare battaglia al vertice sulla collocazione europea che si terrà domattina. L’ex leader Margherita, che ha convocato i suoi ’coraggiosì per il 3-4 luglio, dice no all’accordo raggiunto da Franceschini con il Pse per la costituzione di un nuovo gruppo parlamentare a Strasburgo, l’Asde, l’Alleanza dei socialisti e dei democratici. Rutelli nicchia, quando gli viene chiesto se sia possibile una sua uscita dal Pd, ma è un dato di fatto che alcuni della sua area, da Gianni Vernetti a Paola Binetti, sono da tempo molto scettici sulla permanenza nel Pd. È anche vero che altri esponenti come Paolo Gentiloni e Linda Lanzillotta sembrano decisi a continuare nel partito la loro battaglia e molti ritengono che Rutelli punti solo a far mettere agli atti il suo dissenso. da lastampa.it Titolo: La nuova stagione secondo Veltroni, il maggioritario... (testa dura eh!). Inserito da: Admin - Luglio 02, 2009, 11:41:12 pm Veltroni: «Pd a vocazione maggioritaria Non torno: servono nuove energie»
ROMA (2 luglio) - «L'ambizione giusta per il Pd è la vocazione maggioritaria: o c'è la vocazione maggioritaria nel Pd o non c'è il Pd»: lo ha detto Walter Veltroni nel suo discorso in chiusura della manifestazione "La nuova Italia dei democratici. Il Lingotto 2 anni dopo" al teatro Capranica di Roma. «Ho visto lo striscione "Bentornato Walter". Vi ringrazio, ma io sono fuori - ha sottolineato Veltroni - E' assolutamente sbagliato parlare di un mio ritorno, non è il tempo dei ritorni, ma è il tempo di una nuova stagione, ora servono nuove energie. Io sono fuori e resterò fuori dal partito». Vocazione maggioritaria. Veltroni ha definito «paradossale» che si metta in discussione la vocazione maggioritaria del partito. «Se non c'è un'alleanza riformista, questo Paese non uscirà dai guai - ha detto Veltroni - Senza un progetto centrale per il Paese, non ci potrà essere un ciclo riformista. Quando dicevo il Pd deve essere a vocazione maggioritaria, non era l'idea di coltivare l'isolamento, la solitudine arrogante e presuntuosa di chi vuole raggiungere il 51 per cento». Senza bipolarismo si corre verso l'inferno. «Abbandonare il bipolarismo - sostiene Veltroni - e tornare ai governi di coalizione che fanno i partiti dopo il voto significa imboccare la strada dell'inferno. Il rifiuto del bipolarismo è la tomba del riformismo, perché l'Italia ha bisogno di stabilità». Le primarie strumento essenziale del partito. «Le primarie sono uno strumento essenziale, sono parte del Partito democratico - dice Veltroni - Le primarie sono una scelta democratica dei candidati. Non solo quelle di coalizione, ma anche quelle di partito sono un valore». Candidato premier e programma riformista. «Sganciare il segretario del partito dal candidato premier mi lascia molto perplesso - dice Veltroni - Questo significherebbe tornare ad un premier oggetto di una trattativa in un governo di coalizione. E' meglio presentarsi agli italiani con un candidato premier e un programma riformista». Un errore considerare sconfitta il 33% del 2008. «Noi abbiamo fatto un grande errore, e cioè accettare che quel risultato del 33% delle elezioni del 2008 fosse considerato una sconfitta - sostiene Veltroni - Certo, abbiamo perso la sfida per il governo del Paese, ma partivamo dal 22%. Quel giorno un italiano su tre aveva votato per noi e noi abbiamo ottenuto un risultato straordinario nel nord e abbiamo avviato il rinnovamento della classe dirigente al sud». Un Paese alla rovescia. «Il nostro è un Paese alla rovescia - dice Veltroni - Il nostro Paese sta male, è in preda a un senso di smarrimento. E' inutile dire, come fa il presidente del Consiglio, che non si deve dirlo, e se la prende con un complotto ordito dalla sinistra, dai mezzi di informazione, addirittura dalle potenze straniere». Contro Debora Serracchiani un incredibile tiro al bersaglio. «Contro Debora Serracchiani c'è stato un incredibile tiro dopo la sua intervista di ieri su Repubblica - ha detto Veltroni concludendo il convegno al quale era presenta anche la neo deputata - Voglio dire una cosa sull'intervista di Debora in cui diceva che Franceschini è simpatico. Si capisce che era una battuta, come lo era anche il commento di Nicola Zingaretti. Ma in poche ore si è scatenato su di lei un incredibile tiro perché ha detto cose che non si dovevano dire. Santo Dio, quanti sono quelli che hanno detto cose che non si dovevano dire e non hanno subito la stessa sorte. Il nuovismo, come tutti gli "ismi", può essere un'ideologia. Ma quando il "basta col nuovismo" è difesa di quello che c'è, allora e sbagliato». Tra i presenti nella sala c'erano alcuni dei volti nuovi portati in politica da Veltroni, come Massimo Calearo, Achille Serra e Marianna Madia, nonché altri parlamentari da sempre vicini all'ex segretario del Pd (Roberto Morassut, Giorgio Tonini, Enrico Morando, Stefano Ceccanti). In sala anche Silvio Sircana, che fu portavoce di Romano Prodi, e diversi parlamentari ex Ds, come Giovanna Melandri, Luigi Nicolais, Roberta Pinotti, Marina Sereni e Cesare Damiano. Tra i rutelliani Roberto Giachetti, Luigi Zanda, che ha introdotto i lavori del seminario, e Paolo Gentiloni, uno dei relatori. In sala anche una delegazione degli ex popolari (la maggior parte dei quali oggi è a Norcia per un seminario) come Gianclaudio Bressa, Lapo Pistelli, Maria Pia Garavaglia e Pina Picerno. Sul palco anche David Sassoli Debora Serracchiani, Filippo Penati e Pietro Ichino. Seduti ai primi posti alcuni esponenti eco-dem, come Ermete Realacci, Roberto Della Seta e Ferrante. Tra gli esponenti della cultura e del giornalismo Ettore Scola, Miriam Mafai, Maurizio Mannoni. da corriere.it Titolo: Veltroni al Capranica con il popolo del Lingotto Inserito da: Admin - Luglio 02, 2009, 11:53:14 pm Veltroni al Capranica con il popolo del Lingotto
di Maria Grazia Gerina Due anni dopo il Lingotto, da cui tutto è cominciato. Veltroni, non più segretario del Pd, chiama tutti a raccolta, al teatro Capranica, a due passi da Montecitorio. La sala è piena. Ci sono solo posti in galleria, dicono i commessi. "Bentornato Walter", recita uno striscione appeso alla balaustra. Sul palco, anche Sergio Chiamparino. E poi Debora Serracchiani e Francesca Barracciu, un'altra Debora, europarlamentare mancata nonostante le sue 117mila preferenze. In prima fila, la squadra del Campidoglio, da Ileana Argentin a Roberto Morassut. E poi Piero Terracina, Miriam Mafai, Ettore Scola. E, tra loro, Dario Franceschini. Valter saluta. Parte un applauso, spontaneo. "Non è la riunione di un corrente, ma un momento per ragionare insieme del nostro paese", dice il senatore Zanda a cui tocca fare gli onori di casa. E ovviamente del partito. "Giovani, leadership, come costruire una classe dirigente, come costruire una democrazia compiuta", sono le questioni che Zanda mette sul tappeto. "Ma l'amalgama è riuscito", assicura. E poi lascia le parole agli altri testimonial. Che parlano di quello che non ha funzionato in questi anni, del vecchio, del nuovo. E ben presto il grido diventa "Basta a questo Pd che assomiglia al Gattopardo". Lo lancia Francesca Barracciu, da isolana. "I morti seppelliscano i morti e lasciamo spiccare il volo al Pd". 17.00 Francesca Barracciu: "Basta con questo Pd gattopardesco, spazio al nuovo" Con le sue 117mila preferenze conquistate in Sardegna Francesca Barracciu, se non fosse per i meccanismi elettorali che tagliano sistematicamente via la seconda isola dal parlamento europeo, poteva essere un'altra Debora Serracchiani. E un po' parla come lei. Dice che "Franceschini sta “simpatico anche a lei". Ma poi aggiunge carne al fuoco. Contro un "Pd gattopardesco" e "una classe dirigente che ormai il futuro ce l'ha alle spalle". "I morti seppelliscano i loro morti e sia consentito a questo partito di spiccare il volo", dice Francesca Barracciu, "A me più che i 150 anni che abbiamo alle spalle stanno a cuore i 20-30 anni che abbiamo davanti". "In Sardegna i signori delle tessere sono già in campo e stanno compromettendo il radicamento serio del partito nei territori", avverte. E andando avanti così: "Non so quanti, anche tra quelli che ci hanno votato alle europee, continueranno a stare con questo partito". 17.15 Pietro Ichino: «Il Pd è nato per dare voce anche a chi non è rappresentato dal sindacato» Tra i primi a prendere la parola è il giuslavorista Pietro Ichino, che Veltroni ha voluto portare in parlamento. Lo fa citando don Milani. "Dobbiamo occuparci dell’operaio che non ha nemmeno il sindacato alle spalle. Quello a cui nessuno dà voce perché non ha nemmeno una tessera in tasca", dice Ichino. E spiega che è una certa risonanza che ho sentito tra il discorso sul nuovo partito proposto al Lingotto e quelle parole di don Milani che lo ha convinto ad accettare "l'invito di Walter a candidarmi nel 2008". Il suo spirito del Lingotto parla di 2 milioni di lavoratori "ai quali il sindacato non dà voce". Co.co.co, partite Iva. "La vecchia sinistra ha ingannato i giopvani quando ha detto che la fonte del precariato era la legge Biagi", dice. Il "suo" Pd è nato per rappresentare le istanze di quel popolo. 17.30 David Sassoli: "Non dobbiamo inseguire la destra e i sondaggi" Il grido lo lancia Francesca Barracciu, ma piace anche al David Sassoli, anche lui una delle "novità" dell'ultima campagna elettorale, che spende qualche parola per difendere Debora Serracchiani e il senso delle sue parole. "Perché se questo partito non può essere un film con Totò e Tina Pica, ancora meno può essere una parodia del Gattopardo in cui i notabili locali indoassano i panni dei rinnovatori", spiega con una battuta quale sia la posta in gioco. Ovvero il rinnovamento. E ancora prima: "Capire cosa si è inceppato". "Non siamo capiti se inseguiamo la destra sul suo stesso terreno", avverte Sassoli. "Dobbiamo essere sinceri e non pensare di barattare valori nel mercato di ciò che i sondaggi dicono ci convenga". E ancora, terzo punto da tenre presente: "In coloro che non ci hanno votato per delusione o per rabbia c'è un forte sentimento di partecipazione". E la speranza di "una nuova politica", che non va tradita. 17.45 Gentiloni: "Non confondiamo il sogno dell'Ulivo con l'incubo dell'"Unione" Giovani, meno giovani sul palco del Capranica. Ma anche molti della generazione "incriminata", che prova a ritrovare lo spirito del Lingotto: "Appartengo a una generazione che a 18 anni ne aveva già quaranta e non ha mai accettato i compierne 41", premette con una citazione l'ex ministro Paolo Gentiloni. Che prova a farsi carico, appunto, dello spirito del Lingotto, prima di tutto difendendo le primarie come via al rinnovamento: "Le primarie sono quel meccanismo che ha permesso a un ragazzo di 35 anni di diventare sindaco di Firenze contro tutto e contro tutti". E senza mitizzare il Lingotto prova a recuperare l'obiettivo messo a fuoco allora: il governo del paese. "Se si manifestasse una crisi della ledership a destra e il Pd non fosse pronto sarebbe insopportabile per il nostro popolo", avverte. E suggerisce da ex Dl di sgomberare il campo dalle nostalgie. Per Ds e Margherita, un partito del 16-17% e un altro del 10-11%. O anche per l'Ulivo. Perché "Non vorrei qualcuno confonda il sogno dell'Ulivo con l'incubo dell'"Unione". 18.15 Serracchiani: "Conflitto d'interessi, laicità , giustizia. Ma il Pd per essere una forza riformista deve fare spazio anche a chi un passato non ce l'ha" Prova a fare il bis. E sarà che la platea è "simpatica", come dice lei, con un pizzico di autoironia, ma gli applausi arrivano anche questa volta. Specie quando, marzullescamente, Debora Serracchiani si fa una domanda e si dà una risposta. "Abbiamo qualcosa da rimproverarci?". "Abbiamo molto da rimproverarci", dice, cominciando il lungo elenco delle "doglianze" con il conflitto di interessi. Il passaggio più applaudito di tutto il discorso. "La prima volta ne abbiamo sentito parlare nel 1993 e siamo ancora qui a dirci che qualcosa non è risolto. Abbiamo qualcosa da rimproverarci? Sì abbiamo molto da rimproverarci", bacchetta Debora che scandisce: "Quello che chiede al Pd è di mettere in agenda problema e indicare con quali strumenti risolverlo. Non vorrei che arrivassimo al punto che l'interesse di un privato non deve essere turbato da quello pubblico". L'agenda del Pd. Debora prova a scandirla, da leader. Da giovane emergente che riconsoce il passato ma rivendica: "Il pd per essere una grande forza riformista ha bisogno anche di quelli che un passato non ce l'hanno". La laicità , prima di tutto, il tema su cui ha battuto di più durante il suo discorso di esordio. E quindi la necessità di ricercare dentro al Pd "un'etica condivisa". "La legge sul divorzio e sull'aborto non sono stati incidenti di percorso ma esempi concreti di laicità", scandisce, sperando che da lì si possa ripartire. "E questa volta non ci fermeremo alla libertà di coscienza ma troveremo una vera sintesi". E poi ancora: "Giustizia. Ne parliamo solo il giorno in cui si inaugura l'anno giudiziario. Non può essere tabù, un tema da lasciare a Di Pietro". La legge elettorale: "Non posiamo tirarlla fuori di tanto in tanto. Abbiamo dato battaglia contro il porcellum, ora dobbiamo tenere in agenda la riforma sistema elettorale. Discutiamo animatamente ma decidiamo". Confessa di aver riletto il discorso del Lingotto per prepararsi. Forse per questo anche lei tira fuori una lettera. Non la legge. La riassume. Quella di Rita Clemente, ricercatrice, "che se ne è andata dall'Italia sperando che un altro paese possa garantire vita migliore ai suoi tre figli". Rinuncerà alla cittadinanza, racconta Debora. "Il pd deve costurire un paese in cui nessuno rinunci ad essere italiano", dice, spiegando, alla Veltroni, l'Italia che lei ha in mente. Laica. Dove la "morale" è qualcosa che "riguarda tutti noi e non solo un problema del presidente del consiglio". E dove la sicurezza e l'integrazione non siano valori che dividono destra e sinistra. "Bisogna creare una alternativa culturale a quella dei piccoli egoismi che la destra è riuscita a imporre nella testa degli italiani prima ancora che nelle urne", dice. Ma prima ancora, per farlo, "bisogna tornare a parlare con la gente". 18.30 Chiamparino: "Troppi chi, il congresso non è cominciato bene". E poi va via l'audio Sono le 18.30 quando al Lingotto va via il collegamento audio. Debora Serracchiani ha appena finito di parlare. "Che sia un sabotaggio delle giovani generazioni", scherza qualcuno. Sul palco quando i microfoni si spengono "Sergio Chiamparino, che dopo aver rinunciato a candidarsi, si trova anche a dover rinunciare a parlare. A meno fino a quando i microfoni non si riaccendono. Fa appena in tempo a dire l'essenziale. "Non abbiamo più l'orgoglio di essere dalla parte giusta", scandisce rimandando per contrasto all'esempio della Lega. Anche lui riparte dal Lingotto, ma quello di sabato, quello dei "piombini", dei giovani in cerca di una "terza via". E avverte "troppi chi troppi pochi che cosa il congresso non è iniziato bene". Torna l'audio. E Chiamparino lancia il suo "partito federale e autonomista". Prima però riprende parlando un po' da leader e un po' "da sindaco", visto che "è quello che ho scelto di continuare a fare". E spiega che cosa significa non inseguire la destra sulla sicurezza e tenere presente però che la sicurezza è anche una questione di libertà delle persone. "Le ronde servono per far sì che polizia e carabinieri si occupino delle ronde invece che della sicurezza, premette. Ma: "L'unico modo per fare sentire più libero e più sicuro l'operaio è fare più asili nido o più case popolari per chi si sente scavalcato in graduatoria dagli immigrati". E invoca con Pietro Ichino che ha parlato poco prima di lui una "grande ridistribuzione del reddito che sposti risorse da settori garantiti e protetti a settori non garantiti e protetti". Questo spiega significa "essere dalla parte giusta del paese". Invoca la laicità . E poi la questione che gli sta più a cuore. "Lo vogliamo fare o no un partito federale e autonomista?", chiede rivolto a Veltroni. E invoca piattaforme regionali autonome che magari possano avere uno sbocco unitario. Questa è la base – dice – per avviare quel partito che parta dai territori e per tornare coon questo congresso a parlare al paese. 02 luglio 2009 Titolo: WALTER VELTRONI (adesso non più soli?). Inserito da: Admin - Luglio 18, 2009, 07:20:28 pm «Alleanza riformista con Vendola, socialisti e radicali.»
«Lavorerò nell’Antimafia e sul conflitto d’interessi» «Non posso tollerare il potere sempre più invadente della criminalità» ROMA — «Buono e chiaro il discorso di Franceschini. Un passo avanti per il Partito democratico». Cosa fa uno dei pochi leader politici italiani che si è dimesso da leader, cosa fa Walter Veltroni ex segretario Pd? «Non sono pentito, ma non sto fuori con allegria. Diciamo che sono sereno». Dalla politica non ci si riesce a dimettere... «Voglio occuparmi dei temi che mi appassionano. Non si può accettare passivamente di vivere in un Paese in cui le mafie hanno un potere sempre più invadente. Camorristi che sparano per strada, Saviano che vive braccato, le organizzazioni criminali che fatturano 100 miliardi l’anno. Una parte del Sud è nelle loro mani, e risalgono l’Italia. Assurdo che in Italia si parli d’altro». Quindi? «Ho chiesto al capogruppo del Pd alla Camera di far parte, come semplice membro, della Commissione antimafia». Senza farsi troppo notare, segue anche le vicende del Pd... «Vedo due piattaforme nitidamente diverse. Una è legittimamente dentro l’evoluzione Pci-Pds-Ds. Punta a un modello di partito come ce n’erano un tempo». L'altra? «La piattaforma di Franceschini disegna un partito con l'ambizione di cambiare radicalmente il Paese, diventando il perno dell’Alleanza riformista per l’Italia. Per me, dopo il fallimento dell’Unione, è questa la vocazione maggioritaria del Pd». Alleanza riformista, assieme a chi? «Questo Pd dovrebbe sviluppare innanzitutto il rapporto con la formazione di Vendola, i socialisti di Nencini, i radicali ». E Di Pietro? L'Udc? «La prima fascia di alleati è quella che ho detto. Poi, sulla base dei progetti riformisti, si possono stringere patti con le altre formazioni di opposizione». Parliamo solo di forze politiche consolidate. «Il partito deve essere invaso dalla società civile. Perché la modernità è fatta di persone che vivono con la politica un rapporto non totalizzante. Queste persone devono essere in prima fila, come alle primarie del 14 ottobre. Altrimenti, gli stati maggiori ammalati di correntismo restano padroni. Correntismo: la malattia più grave che ha minato il Pd!». Malattia che può vanificare il progetto? «L’errore mio più grave, da segretario, è stato non combattere a fondo le correnti. Nei partiti moderni si discute, poi si vota e si decide. Nel Pd il rischio è che ci siano tante casematte raccolte attorno ai vari leader e chiuse all’esterno. Così, la selezione delle classi dirigenti non avviene fra i migliori ma sulla base delle quote di appartenenza». Una visione che non apre grandi prospettive. «Con Vico, sostengo: Parevan traversie, erano opportunità. Ma ciascuno deve pensare con la propria testa e non essere "uomo" di qualcun altro. I danni compiuti sono sufficienti. La grande tragedia di questi anni, che ha aperto la strada al periodo berlusconiano, è la caduta del primo governo Prodi». Ventuno ottobre 1998, Veltroni vicepremier. «Sì, Ciampi al Tesoro, Napolitano agli Interni, Andreatta alla Difesa. Un governo troppo autonomo dai partiti. E i partiti lo fecero saltare. Rifondazione comunista, innanzitutto ». Ma non solo. «Non solo. In quel governo nessuno ha mai parlato a nome di un partito o di una delegazione». Quindi, certi vizi non sono mai stati debellati? «Ho fatto il segretario del Pd per soli 14 mesi. Una cosa mi dispiace davvero: dopo le dimissioni nessuno degli altri protagonisti ha alzato la mano e ha detto: "Forse qualcosa ho sbagliato anche io". Non dipendeva da me la vicenda dei rifiuti in Campania, né l’andamento della giunta in Abruzzo. Sarebbe stato bello e generoso se qualche mano si fosse alzata. Anche fra i ministri del secondo governo Prodi...». La mano di D'Alema. «Basta. L’eterna diatriba D’Alema-Veltroni io l’ho chiusa unilateralmente. Con le mie dimissioni e la decisione di non partecipare al congresso». Ma il correntismo, la caduta del primo governo Prodi... «Io e D'Alema abbiamo due diverse visioni politiche. E non da oggi. Ma questo può essere fecondo e vitale, in un clima di lealtà e solidarietà». Oggi però sembra che le carte comincino a mescolarsi. Fassino con l’ex Dc Franceschini, l’ex popolare Bindi con Bersani. «È positivo. A patto che non siano blocchi compatti che scelgono una parte o l’altra ». Se Franceschini perde il congresso, c’è un rischio scissione dei moderati? «La risposta è no». Cosa pensa della candidatura Grillo? «Grillo ha raggiunto il suo scopo: stare sui giornali, sempre contro il centrosinistra ». Ieri Franceschini ha fatto autocritica sulla legge mai varata dal centrosinistra contro il conflitto di interessi. «Tema chiave. Berlusconi che convoca Fiorello per chiedergli di non andare in un gruppo televisivo concorrente del suo è una vicenda simbolica, come la demolizione della vita culturale del Paese che il governo sta attuando. Con Roberto Zaccaria lavoriamo a un testo molto semplice: incompatibilità fra funzioni pubbliche e possesso di mezzi di comunicazione». Neanche il governo Prodi- Veltroni si occupò di conflitto di interessi. «Tutto era sospeso, in quel periodo: andava avanti il lavoro della Bicamerale per la grande riforma istituzionale, che poi Berlusconi fece saltare». Franceschini ieri è tornato a parlare di una riforma di governo e Parlamento da condividere con gli avversari. «Gli interlocutori non si scelgono e una riforma istituzionale è indispensabile: o il funzionamento della democrazia diventa veloce, o la democrazia sarà travolta e la gente preferirà le decisioni alla partecipazione». Non sta già accadendo? «Il modello di democrazia imperiale di Berlusconi prevede opinione pubblica debole e potere forte. Quindici anni di berlusconismo stanno lasciando il Paese in ginocchio: deprivazione di valori, sottrazione di legalità. Sfiducia e odio sono gli ingredienti più diffusi. Inquietudine e frustrazione sono diffusi quanto mai prima ». C’è stato clamore, pochi giorni fa, per la sua rivalutazione di Bettino Craxi, più «moderno» di Berlinguer. «La prima fase del nuovo corso socialista, la stagione del congresso di Torino e della convenzione di Rimini o posizioni come quelle di Sigonella mostrarono indubbia vitalità. Ma ho sempre detto che Berlinguer ha saputo compiere strappi coraggiosi e decisivi rispetto alle posizioni tradizionali del Pci, vedi la Nato o l’Europa. E Berlinguer aveva ragione sulla questione morale. Il Psi non cadde per un complotto dei giornali. Esisteva allora una questione morale, e non riguardava solo i socialisti. Questione morale che esiste anche oggi». Andrea Garibaldi 18 luglio 2009 da corriere.it --- La citazione Giambattista Vico (1668-1744) fu filosofo e storico. La frase qui citata da Veltroni— «sembravano traversie ed erano in fatti opportunità» —è tratta dalla dedica a papa Clemente XII dell’edizione del 1730 della Scienza nuova. Nell’opera, l’uomo viene individuato come il creatore della civiltà umana attraverso la storia: ma al di là della sua azione si colloca quella di una Provvidenza che porta alla realizzazione di obiettivi di progresso e giustizia Titolo: BOZZA VELTRONI ... (meglio tardi che mai.) Inserito da: Admin - Agosto 02, 2009, 03:43:10 pm «Incompatibilità tra incarichi di governo e proprietà di patrimoni superiore a 30 milioni»
Conflitto d'interessi, la bozza Veltroni sottoscritta da Pd, Idv e Udc L'ex segretario: «L'assenza di questa norma ha privato l'Italia di una regola tipica delle democrazie liberali» ROMA - Tredici articoli e il tentativo di rimediare a quello che viene definito un «vulnus» della legislazione italiana: è la proposta di legge per regolare il conflitto di interessi che Walter Veltroni ha presentato insieme a Roberto Zaccaria, del Pd, e a deputati di tutti i partiti d'opposizione: Massimo Donadi e Leoluca Orlando dell'Italia dei Valori, Bruno Tabacci dell'Udc e Beppe Giulietti, portavoce dell'Associazione Articolo 21, eletto nell'Idv e ora passato al gruppo Misto. SEPARAZIONE - «Come avevo annunciato - afferma Veltroni - ho lavorato con Roberto Zaccaria ad un testo di legge che affronti in modo definitivo il tema, cruciale in una democrazia, della separazione tra interessi pubblici e privati. In questi anni la colpevole assenza di questa norma ha finito con il privare il nostro Paese di una regola tipica di tutte le democrazie liberali. Il valore politico di questa iniziativa - conclude l'ex segretario del Pd - è per me in primo luogo nel fatto che essa è sostenuta e sottoscritta unitariamente da autorevoli parlamentari di tutta l'opposizione». LE REGOLE - Nella relazione al testo si definisce inefficace la legge Frattini del 2004 e si citano il testo di Dario Franceschini della passata legislatura e quello di Gianclaudio Bressa, presentato nell'aprile scorso. La proposta di legge in particolare, stabilisce la «incompatibilità assoluta» tra precisi incarichi di governo (da presidente del Consiglio a sottosegretario a commissario del governo) e, ad esempio, «la proprietà di un patrimonio di valore superiore a 30 milioni di euro la cui natura, anche riguardo alla concentrazione nel medesimo settore di mercato, configura l'ipotesi di conflitto di interessi», «la proprietà, il collegamento o il controllo diretto o indiretto di un'impresa che svolga la propria attività sulla base di qualunque titolo abilitativo rilasciato dallo Stato». In questo caso, la soluzione indicata dalla proposta di legge è «l'invito ad optare (da parte dell'Autorità Antitrust, ndr), con decadenza dalla carica in caso di mancata opzione». Fuori dai casi di incompatibilità assoluta, invece, si indica la strada dell'obbligo di astensione, sottoponendo il caso all'Autorità. La proposta di Veltroni indica poi la strada per la «repressione di situazioni di conflitto di interessi»: diffida, sanzioni amministrative pecuniarie per violazione degli obblighi di dichiarazione o di astensione o per inottemperanza alla diffida, che arrivano fino a un livello «non inferiore al doppio e non superiore al quadruplo del vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dall'impresa» proprietà del soggetto. Il testo prevede infine anche la «parità di accesso ai mezzi di comunicazione durante le campagne elettorali», da parte dei candidati a cariche elettive. 01 agosto 2009 da corriere.it Titolo: WALTER VELTRONI Il silenzio colpevole Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2009, 04:38:12 pm 17/10/2009
Il silenzio colpevole WALTER VELTRONI Caro direttore, un mio amico appassionato di montagna mi ha raccontato che ormai su alcune grandi vette italiane si vede la neve nera. Questa immagine mi torna nella mente guardando il mio Paese oggi. La meraviglia della sua storia, della sua identità, della sua cultura, nitida come la neve. E la pesantezza di uno spirito pubblico, di un senso comune, in cui smarrimento e odio sembrano avere il colore della pece. «Alla democrazia ghe pensi mi»: è una frase che racconta per intero l’assurdità della condizione politico-istituzionale in cui si trova oggi l’Italia. Così come racconta molto il fatto che, diciassette anni dopo, numerosi indizi fanno pensare alla morte di Paolo Borsellino come alla conseguenza dell’eroico rifiuto di una trattativa tra Stato e mafia. Eccola, l’istantanea del nostro Paese. Rissosità politica condita da un odio che ha paragoni solo con i momenti più duri degli Anni Settanta e Ottanta. E immobilità, ripetizione sistematica di diseguaglianze, conservatorismi, illegalità. Tutto questo non può durare sino allo sfinimento del Paese. «Maggioranza silenziosa». Dalla fine degli Anni Sessanta in America, e subito dopo da quest’altra parte dell’oceano, Italia compresa, è con queste parole, che si descrive la larga parte di cittadini abituata a non partecipare attivamente alla vita politica e a non esprimere opinioni sulle grandi scelte del proprio Paese. È un’espressione che nel tempo ha avuto indubbio successo, che ancora oggi è ampiamente usata e che permette spesso a chi governa di accreditarsi come beneficiario di un consenso popolare a prova di qualunque opposizione. Io credo che oggi, in questo preciso momento storico, sia però un’altra la definizione che meglio racconta lo spirito diffuso, il clima prevalente, del nostro Paese. In Italia, questa è la mia idea, c’è una «maggioranza civile» che forse non riesce ancora a farsi sentire, visto se non altro il clamore di polemiche e scontri ormai continui e assordanti, ma che certo non è passiva, non è disinteressata, non è rinunciataria. È una maggioranza civile stanca di Berlusconi e delle sue urla, sempre più attonita di fronte ad un presidente del Consiglio che negando alla radice il suo stesso ruolo è in guerra ormai con tutti: con il Capo dello Stato e con i giudici della Corte Costituzionale, con i mezzi di informazione che raccontano quel che non dovrebbero e con i giornali che affermano con il loro lavoro la sacralità di quel diritto che si chiama libertà di stampa, con i sindacati che difendono i diritti dei lavoratori, con l’Unione Europea che ammonisce l’Italia a non scadere in comportamenti inumani nei confronti degli immigrati. È una maggioranza civile stanca anche di un «grillismo» che non a caso, come il «berlusconismo», fa rima con populismo. Stanca pure di un certo «dipietrismo» che troppe volte preferisce la facilità della polemica alla difficoltà della ricerca delle soluzioni. Non è una maggioranza, nessuno si illuda e nessuno fraintenda, da catalogare nel gioco della composizione e scomposizione di questo o quello schema politico, di questa o quella prospettiva di governo. Per essere chiari, considererei un errore gravissimo ipotesi di governi pasticciati o di grandi coalizioni, che apparirebbero tanto velleitarie quanto inopportune in un Paese che ha invece bisogno di radicali innovazioni, di profonde sfide ai conservatorismi e non di accordi politici al minimo comun denominatore. Non è tempo di «governissimi». È tempo di una sana alternanza di tipo europeo. È la larga parte della popolazione italiana che vorrebbe un Paese retto semplicemente (anche se dopo un quindicennio sappiamo quanto semplice non sia) da una naturale dialettica democratica: due schieramenti alternativi, in serrata e anche aspra competizione politica, ideale e programmatica, per guadagnare il diritto di governare e il dovere di rispondere a fine legislatura del proprio operato. Dovrebbe essere una cosa scontata? Sì, è vero, e in effetti in ogni grande Paese europeo è così. Ma da noi no. Proprio non riusciamo ad uscire da logiche vecchie e paralizzanti, da conservatorismi, veti e rissosità di diverso tipo e con un solo esito: il male dell’Italia. E la mia paura è che così proseguendo il nostro continuerà ad essere un Paese fermo e terribilmente diseguale, con infrastrutture arretrate e senza mobilità sociale, sempre più diviso fra ricchi e poveri, fra chi paga le tasse e chi no. E se aggiungiamo l’atteggiamento di chi spinge a contrapporre Nord e Sud e un clima di cupa intolleranza e ora di vergognosa omofobia e di violenza, verbale e non solo, che avvolge le nostre città e colpisce i più deboli, gli indifesi, chiunque sia percepito come «altro», ecco emergere il ritratto preoccupante di un’Italia che tende a frammentarsi pericolosamente e che rischia davvero di smarrire se stessa, la sua identità, il suo futuro. Io ora sono fuori da responsabilità nella vita politica attiva. Ma amo il mio Paese e oggi lo vedo impaurito, sfiduciato, attraversato di nuovo da un clima di odio e contrapposizione che nella storia italiana è spesso sfociato in intolleranza e violenza. Sento perciò che il malessere diffuso che c’è nell’opinione pubblica e che confessano sottovoce molti uomini politici, anche della maggioranza, dovrebbe produrre a breve un sussulto di responsabilità politica e istituzionale, di tutti e di ciascuno. Anche con il coraggio di cercare quella riforma della macchina delle decisioni e delle garanzie che per me costituisce da tempo il cuore dei problemi italiani. Nella storia di questo Paese quando la democrazia, specie in tempi di insicurezza sociale, si è inceppata, la nazione è sempre precipitata verso avventure pericolose. Per questo i silenzi oggi sono colpevoli. Per questo la speranza, una speranza che ogni persona di buon senso è chiamata a far crescere, vorrei dire ora o mai più, è che il silenzio si rompa definitivamente, che una stagione si chiuda e un’altra se ne apra. Una stagione più civile, nella quale la maggioranza degli italiani potrà finalmente ritrovarsi. da lastampa.it Titolo: WALTER VELTRONI «Scrivo al mio Paese e vi dico cosa farei» Inserito da: Admin - Agosto 24, 2010, 11:04:51 am La lettera di Walter Veltroni
«Scrivo al mio Paese e vi dico cosa farei» Rischiamo che questa monarchia livida sia sostituita da una pura difesa dell'esistente. Si va incontro a suggestioni di democrazia autoritaria del sistema russo o cinese Caro Direttore, scrivo al mio Paese. Scrivo agli italiani che tornano a casa, a quelli che non si sono mossi perché lavoravano o perché non possono lavorare. Scrivo agli imprenditori che fanno e rifanno i conti della loro azienda chiedendosi perché metà del loro lavoro di un anno debba andare a finanziare uno Stato che non riesce a finire da sempre la costruzione di un'autostrada come la Salerno-Reggio Calabria o che alimenta autentici colossi del malaffare come quelli emersi in questi mesi. Scrivo ai lavoratori che sentono che si è aperto un tempo nuovo e difficile, in cui, per resistere alla pressione di una globalizzazione diseguale, dovranno rinegoziare e ritrovare un equilibrio nuovo tra diritti e lavoro. Scrivo ai nuovi poveri italiani, i ragazzi precari, che arrivano a metà della vita senza uno straccio di certezza, senza un euro per la pensione, senza un lavoro sicuro, senza una casa, senza la sicurezza di poter mettere al mondo dei figli. E senza che politica e sindacati si occupino di loro. Mi permetto di scrivere agli italiani solo perché sento di avere un minimo di titolo per farlo. In fondo due anni fa, un secolo di questo tempo leggero e bulimico, quasi quattordici milioni di italiani fecero una croce sul simbolo che conteneva il mio nome come candidato alla presidenza del Consiglio. Se un milione e mezzo dei 38 milioni di votanti avesse scelto il centrosinistra riformista invece di Berlusconi ora saremmo noi a guidare il Paese. Ma non è successo, per tanti motivi. Come cercherò altrove di approfondire, credo più per ragioni profonde e storiche che per limiti di quella campagna elettorale che si concluse con il risultato elettorale più importante della storia del riformismo italiano. Non è successo e dopo alcuni mesi io mi feci da parte. Forse è questo l'altro titolo per il quale sento di potermi rivolgere al mio Paese. Sono stato tra i pochi che si sono fatti da parte davvero (caricandomi responsabilità certo non solo mie). Non ho chiesto alcun incarico, non ho fatto polemiche, non ho alimentato veleni. Ho semmai taciuto e ingoiato fiele, anche di fronte a varie vigliaccherie. Cosa sta succedendo a noi italiani? Abbiamo trascorso la più folle e orrenda estate politica che io ricordi. Una maggioranza deflagrata, un irriducibile odio personale e politico tra i suoi principali contraenti, toni e giudizi che si scambiano non tra alleati ma tra i peggiori nemici. E poi dossier, colpi bassi, una orrenda aria putrida di ricatti e intimidazioni che ha messo in un unico frullatore informazione, politica e forse poteri altri costruendo un mix che non può non preoccupare chi considera la democrazia come un insieme di regole, di valori, di confini. Il Paese assiste attonito allo sfarinarsi della maggioranza solida che era emersa dalle urne, a ministri che sembrano invocare freneticamente la fine della legislatura, nuovi voti, nuovi conflitti laceranti. Mentre stanno per essere messe in circolo emissioni consistenti di titoli pubblici per finanziare il nostro abnorme debito pubblico chi governa questo Paese sembra dominato dal desiderio della instabilità. E, tutto, senza una parola di autocritica. Chi ha vinto le elezioni e ne provoca altre neanche a metà delle legislatura vorrà almeno dichiarare il proprio fallimento politico? L'alleanza di centrodestra sembra immersa nello scenario dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Prima l'abbandono di Casini, ora la irreversibile crisi con Fini. Le forze più moderate hanno abbandonato uno schieramento sempre più dominato dalla logica puramente personale degli interessi di Berlusconi e dallo spirito divisivo di una Lega che alimenta ogni forma di egoismo sociale con lo sguardo solo al tornaconto elettorale immediato. Con effetti che già registriamo nel sentire diffuso e nei comportamenti. Un Paese che smarrisce il suo senso di comunità, la sua anima solidale, la sua coscienza unitaria finisce con lo sfarinarsi violentemente. Quella che stiamo vivendo è una profonda crisi del nostro sistema. Era la mia ossessione quando guidavo il Pd. Mi angoscia l'idea che la democrazia rischi sotto la pressione delle spinte populistiche e dei conservatorismi di varia natura. E la crisi di questi mesi rafforza una distanza siderale tra la vita politica e i reali bisogni dei cittadini e della nazione. Berlusconi forza costantemente e pericolosamente i confini immaginando di vivere in un regime che non esiste. Se ci fosse un semipresidenzialismo lui certo non potrebbe disporre, ciò che è già una insopportabile anomalia oggi, di giornali e tv con i quali promuovere se stesso e randellare i suoi avversari. Ma neanche quella che su questo giornale è stata giustamente definita la «repubblica acefala» può fare sentire al Paese che il sistema politico tempestivamente ascolta, comprende, decide. Indeterminatezza di tempi, modalità, sedi di decisione hanno accompagnato anche altre stagioni politiche. Questo è il rischio che corriamo, l'alternativa tra una monarchia livida e una pura difesa dell'esistente. E tra i cittadini rischia di rafforzarsi l'idea che di fronte alla velocità del nostro tempo, dei suoi repentini mutamenti sociali e finanziari, a essere più «utile» sia un sistema che decide, qualsiasi esso sia. Il rischio è che si faccia strada, anche in Occidente, quella suggestione di «democrazia autoritaria» che è già una realtà in sistemi, come quello russo o, in forma diversa, in quello cinese, che stanno segnando il tempo della fine dei blocchi. La possibilità che la società globale porti con sé un principio di disunità e che questo reclami poteri centrali forti e semplificati è molto di più di un rischio. Rimando per una analisi più compiuta al volume di John Kampfner Libertà in vendita o al bellissimo lavoro di Alessandro Colombo La disunità del mondo. In una società globale una democrazia che non decide è destinata a soccombere. Ma in una società globale la suggestione autoritaria si scontra con una irrefrenabile esigenza di libertà, libertà di sapere, dire, pensare. Dunque l'unica strada che i veri democratici devono percorrere è quella di una repubblica forte e decidente. Ma questa comporta profonde e coraggiose innovazioni, nei regolamenti delle Camere, nell'equilibrio dei poteri tra governo e Parlamento, nelle leggi elettorali, nella riduzione dell'abnorme peso della politica, nella soppressione di istituzioni non essenziali. Bisogna semplificare e alleggerire, bisogna considerare il tempo delle decisioni come una variante non più secondaria. E, soprattutto, l'Italia, tutta, deve ingaggiare una lotta senza quartiere alla criminalità che succhia ogni anno 130 miliardi di euro alle risorse del Paese. Non basta che si arrestino i latitanti. La mafia è politica, è finanza. La mafia compra e condiziona. La mafia invade tutto il territorio e credo che ora, guardando le cronache di Milano o di Imperia, ci si accorga finalmente che non è un problema della Kalsa di Palermo o una invenzione di Roberto Saviano, ma una spaventosa realtà che altera il mercato, distorce la concorrenza, limita la libertà delle persone. Le culture di progresso non possono declinare solo un verbo: difendere. Agli italiani non sembra di vivere in un Paese da conservare così come è. Un Paese che non ha una università tra le prime cento del mondo (dopo averle inventate), che ha una metà, meravigliosa, di sé sotto il condizionamento di poteri criminali, che ha evasione altissima e altissima pressione fiscale, che ha una amministrazione barocca e il primato dei condoni, che scarta come un cavallo l'ostacolo ogni volta che deve sfidare sondaggi e corporazioni. Un Paese fermo, che ha bisogno di correre. Che ha bisogno di politica alta, ispirata ai bisogni della nazione. Non è retorica. Parri, De Gasperi, Moro, Ciampi, Prodi e altri hanno dimostrato che si può stare a Palazzo Chigi per servire gli italiani. Bene o male, ma servire gli italiani. Non se stessi. Spero che si concluda rapidamente l'era Berlusconi. Ma forse con una visione opposta a quella di alcuni protagonisti della vita politica italiana. Spero che finisca questo tempo non per tornare a quello passato. Non per mettere la pietra al collo al bipolarismo e riportare l'orologio ai giorni in cui pochi leader decidevano vita e morte dei governi, quasi sessanta in cinquanta anni, come l'andamento del debito pubblico testimonia in modo agghiacciante. Anche perché quei partiti avevano storie grandi che affondavano nel Risorgimento o nelle lotte bracciantili e quei leader avevano fatto, insieme, la Resistenza o la Ricostruzione. Berlusconi è stato un limite drammatico per il bipolarismo, perché la sua anomalia (una delle tante, troppe della storia italiana) ha costretto dentro recinti innaturali, pro o contro, una dialettica politica che avrebbe potuto e dovuto esprimersi nelle forme tipiche della storia del moderno pensiero politico occidentale. Senza Berlusconi in Italia potremo finalmente avere un vero bipolarismo, schieramenti fondati sulla comunanza dei valori e dei progetti, capaci di riconoscersi e legittimarsi reciprocamente in un Paese con una politica più lieve e perciò più veloce ed efficiente nella capacità di decisione del suo sistema democratico. Solo così sarà possibile affrontare, in un clima civile, l'indifferibile esigenza di ammodernamento costituzionale per dare alla democrazia la capacità di guidare davvero la nuova società italiana. Se saremo invece tanto cinici da pensare che il declino di Berlusconi possa aprire la strada a un nuovo partitismo senza partiti e alla sottrazione ai cittadini del potere di decidere il governo, finiremo con l'allungare l'agonia del berlusconismo e l'autunno italiano. In questa estate orrenda non per caso la frase più citata dai leader politici è stata «Mi alleo anche con il diavolo pur di...». Lo ha detto Calderoli parlando del Federalismo, lo hanno detto alcuni leader del centrosinistra parlando della necessità di una santa alleanza contro Berlusconi. Io rimango dell'idea che invece le uniche alleanze credibili, prima e dopo le elezioni, siano quelle fondate su una reale convergenza programmatica e politica. In fondo il repentino declino del centrodestra conferma proprio questo. È giusto semmai che, in caso di crisi di governo, si cerchino soluzioni capaci di fronteggiare per un breve periodo l'emergenza finanziaria e sociale e di riformare la legge elettorale dando forma, per esempio attraverso i collegi uninominali e le primarie per legge, a un moderno e maturo bipolarismo. Perché poi, alle elezioni prodotte dal dissolvimento della destra, si presenti uno schieramento alternativo capace di assicurare all'Italia quella stagione di vera innovazione riformista che questo nostro Paese non ha mai conosciuto. Perché questo Paese deve uscire dall'incubo dell'immobilità che perpetua rendite e povertà. Deve conoscere un tempo di radicale, profondo cambiamento. È questo, da decenni, il frutto dell'alternanza nei diversi Paesi europei. Il nostro è un meraviglioso Paese. Amare l'Italia e gli italiani dovrebbe essere una precondizione per partecipare alla vita politica. Chiunque alzi gli occhi nella Cappella Palatina di Palermo o nella galleria di Diana di Venaria Reale non può non sentire tutto intero l'orgoglio di essere figlio di questo Paese e della sua straordinaria e travagliata storia. Lo stesso orgoglio che si prova pensando agli italiani che lavorano per la nazione, imprenditori od operai, insegnanti o poliziotti. Per questo il nostro Paese merita di più. Merita di più dei dossier e dei veleni. Di più della politica ridotta a interesse di un leader. Di più delle alleanze con il diavolo. Il nostro Paese deve smettere di vivere dominato solo da passioni tristi. È difficile. È possibile. Walter Veltroni 24 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/politica/10_agosto_24/veltroni-lettera_50de02f4-af44-11df-bad8-00144f02aabe.shtml Titolo: WALTER VELTRONI La testa in avanti Inserito da: Admin - Settembre 26, 2010, 11:34:03 am 26/9/2010
La testa in avanti WALTER VELTRONI Caro direttore, il Partito Laburista solo qualche mese fa ha perso le politiche in modo rovinoso. Non è una eccezione, purtroppo. Il roll back della sinistra in Europa è clamoroso. In poco più di dieci anni sono passati alla destra Francia, Germania, Inghilterra, Italia e anche i Paesi scandinavi. Nel Vecchio Continente si affermano una nuova destra populista e persino forze dichiaratamente estremiste se non esplicitamente neofasciste. Il Labour Party ha scelto tra due belle, giovani, candidature separate, al traguardo, solo da un punto percentuale di differenza. David ha svolto la sua campagna richiamandosi alle intuizioni del New Labour di Tony Blair che fece voltare pagina agli inglesi dopo il lungo periodo thatcheriano. Suo fratello Ed è un uomo di forte cultura ambientalista, un elemento identitario che cresce nell’opinione pubblica europea, e forse più vicino di altri alle Unions. Ma parliamo, in ogni caso, di veri e coraggiosi riformisti, di vere culture della modernità e dell’integrazione. Lo dimostra la campagna elettorale fatta parlando ai giovani, nei social network, casa per casa. Non c’è nei fratelli Miliband, oggi personalità decisive del partito, nessuna tentazione di trovare testa all’indietro le risposte alle sfide difficili del pensiero democratico in una società globalizzata e parcellizzata. Il Labour si prepara così alla rivincita. In un Paese stabile, segnato dalla cultura dell’alternanza. Situazione diversa da quella italiana. Nella quale alla decomposizione dello schieramento di governo non corrisponde ancora, come è stato per Cameron, l’affermazione di uno schieramento alternativo. Luca Ricolfi si è occupato di questo, commentando sulla Stampa il documento sottoscritto da 76 parlamentari. Ricolfi ha letto il documento e ha detto di condividerne le preoccupazioni politiche: la possibile deriva del Pd e del centrosinistra verso una riedizione dell’Unione, che nel passato ha dimostrato di poter vincere ma non di governare, o la nascita di un terzo polo, arbitro del gioco politico, che impedirebbe ai cittadini di scegliere il governo del Paese. È proprio la preoccupazione per questi due possibili esiti di elezioni anticipate che ha portato il Pd, nelle scorse settimane, a unirsi attorno al segretario Bersani nel sostenere l’utilità, in caso di crisi di governo, di un governo di emergenza, per rasserenare il Paese e cambiare la legge elettorale. Ricolfi pone problemi reali. Sono convinto che dietro la orrenda stagione politica che stiamo vivendo non ci sia solo un insanabile contrasto personale e politico, ma anche l’evidente inadeguatezza della coalizione di centrodestra a realizzare l’ambizioso programma di riforme del quale il Paese ha urgente, perfino drammatico, bisogno. Si tratta di un fallimento che si ripete per la terza volta ed è il frutto di una insanabile contraddizione tra la natura populistica del berlusconismo e quel moderno riformismo che serve a scuotere l’Italia. La sconfitta del centrodestra e del berlusconismo è quindi condizione necessaria per far ripartire l’Italia. Necessaria, ma non sufficiente. L’altra condizione è che il Partito democratico si dimostri in grado di aprire quel ciclo riformatore che né l’Unione né il centrodestra, pur così diversi tra loro, sono stati in grado di realizzare. Il Partito democratico è nato per questo, per far rinascere la speranza nel cambiamento, ma «per responsabilità diffuse e condivise», come abbiamo scritto nel documento, non è ancora riuscito a mettersi all’altezza della sfida. E infatti, Berlusconi perde terreno, non solo nei sondaggi, anche nelle elezioni vere: alle regionali il Pdl ha perso il 40 per cento dei voti che aveva preso alle politiche. Eppure, noi non riusciamo ad approfittarne. Nel documento lo spieghiamo così: usiamo troppo la parola «difendere», applicata a questa o a quella conquista del riformismo del secolo scorso, e troppo poco la parola «cambiare». Prendiamo giustizia e scuola. C’è una sola cosa straordinaria in questi settori ed è la passione e la motivazione di chi vi lavora. Ma le mediocri performance di questi due essenziali servizi sono alla base della scarsa competitività e della crescente disuguaglianza: oggi, carriere e stipendi degli operatori dipendono, essenzialmente, dalla anzianità. È un incentivo distorcente. Bisogna privilegiare, previa valutazione di tutto e di tutti, il merito e l’impegno. Abbiamo i salari più bassi tra i grandi Paesi dell’Ue, il costo del lavoro relativamente alto e una produttività del lavoro e totale declinante. Ci vuole un nuovo, coraggioso, patto tra produttori, ispirato alla crescita e al lavoro. E rimango convinto che una forza democratica non abbia oggi senso se non si propone di dare una risposta alla più inaccettabile delle moderne disuguaglianze, la totale assenza di certezza per l’oggi e di speranza per il futuro che oggi devasta la vita di milioni di giovani italiani, uno su tre dei quali è disoccupato. Di questo ha scritto ieri Pietro Ichino. Oggi, nel Sud più che nel Nord, la politica ricerca il consenso con la spesa improduttiva (esempio le assunzioni clientelari); e la società, a sua volta, rivolge alla politica una domanda che ne premia i comportamenti peggiori. In questo senso, il federalismo è un’occasione soprattutto per il Mezzogiorno: costi e fabbisogni standard - per le prestazioni essenziali della Pubblica amministrazione - possono far emergere «buona» politica e «buona» società. Su un punto voglio esprimere un avviso radicalmente diverso da quello di Ricolfi: è quello della lotta per la legalità. Aver assicurato alla giustizia dei latitanti è importante, ma i poteri criminali sono sempre più forti in questo Paese, estendono il loro controllo sul territorio, specie nel Nord più ricco, e condizionano politica e finanza in modo crescente. Penso che ora per tutti noi l’obiettivo debba essere far finire al più presto il pericoloso autunno del berlusconismo e, insieme, costruire quella chiara alternativa politica che deve dare all’Italia una stagione riformista, che rompa la continuità gattopardesca. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7875&ID_sezione=&sezione= Titolo: WALTER VELTRONI "C'è una maggioranza silenziosa e stanca" Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2010, 10:33:13 am INTERVISTA A VELTRONI
"C'è una maggioranza silenziosa e stanca" «L'invito a contestualizzare le bestemmie di Berlusconi segna la crisi terribile della Chiesa» ROMA - «Siamo stati gli italiani che andavano a Firenze per salvare le persone e i libri dall'alluvione. Era l'Italia dei ragazzi del 1966, in fondo figli dei ragazzi del 1945. Eravamo un paese generoso, altruista, solidale. Oggi siamo il paese di quelli che si fanno fotografare ad Avetrana davanti alla casa dov'è stata assassinata una ragazza di quindici anni, o di quelli che si scansano di fronte a una donna colpita a morte nella metropolitana di Roma. È accaduto sul serio questo passaggio? O questo passaggio è nel racconto dell'Italia? Il paese si è trasformato davvero, o si è trasformato il modo in cui viene descritto, narrato, in cui si selezionano le cose importanti?». Secondo lei, Walter Veltroni? «Non ci si può stupire se oggi l'Italia, con i suoi efferati fatti di cronaca o con la povertà del suo dibattito politico, mostra un volto che a ciascuno di noi dà ansia e amarezza. Alla domanda "si può vivere senza valori?" lo spirito del tempo ha risposto sì. Invece non è vero. Non si può vivere senza valori. E non mi rassegnerò mai all'idea che gli unici valori per un paese come il nostro fossero quelli racchiusi nelle ideologie del Novecento. Un paese senza valori è un campione senza valore: una scatola vuota, un guscio di anime sostanzialmente finite, un mondo di passioni tristi, una competizione senza regole. Ed è questo che si è voluto. In tutti questi anni si è fatto un genocidio dei valori. Si è animato, per pure ragioni quantitative – i voti, l'auditel –, un paese dominato dalla paura. C'è un bellissimo libretto di Andrea Kerbarker, dedicato alle finte minacce con le quali abbiamo convissuto in questo passaggio di secolo. La vita di tutti noi è dominata dalla paura. Paura di qualsiasi cosa. Paura di malattie misteriose: talvolta riaffiorano persino pesti millenarie dal profondo della storia. Paura della tecnologia. Dello sviluppo. Della crescita. Soprattutto, paura dell'altro. Quell'altro che, quando lo vediamo in televisione, racconto del mondo globalizzato, ci fa sentire onnipotenti, ma quando si materializza davanti a noi ci spinge a considerarlo un pericolo». La paura non è causata anche dalla crisi mondiale? «Certo, la paura è figlia anche dell'insicurezza sociale, di un mondo senza garanzie, di ragazzi che crescono avendo timore del futuro e non voglia di futuro. Forse per questo nel 1966 andavano a salvare il passato, e ora vanno a farsi fotografare nell'orrore. Questa insicurezza inevitabilmente genera un'ansia di vivere e sottrae quella voglia di conquistare il futuro che è tipico, persino biologicamente, di una generazione. Paura e insicurezza producono egoismo sociale. È il mondo del "nimby", not in my backyard: fate quel vi pare, ma lasciate perdere il mio giardino. È il paradosso della globalizzazione: da una parte la Cnn, l’I-pad, la Rete; dall'altra un mondo sempre più piccolo, in cui la vita è concentrata nel quartiere, nelle relazioni familiari, dove tutto quel che succede sembra essere un terremoto, visto che non c'è niente di grande fuori che ti faccia mettere le cose nella giusta gerarchia. Non è vero che un mondo senza speranze collettive è più libero e felice; è un mondo più violento. E quando nella storia hanno prevalso le paure - pensiamo all'avvento del nazismo -, si sono fatte strada le soluzioni più devastanti. L'idea che l’altro sia un pericolo ha sempre generato violenza, e questo contrasto tra un mondo grande che si vede in tv e da cui dipende in forma incontrollabile il tuo destino, dall’11 settembre alla crisi finanziaria, e di un mondo bonsai che è quello di un localismo egoista, figlio del rifiuto di una dimensione di relazione sociale e solidale, non può che portare alla barbarie. E persino a rischi per la democrazia». Di chi è la colpa? Certo non solo della destra. «Tutti hanno responsabilità in questo. Tutti hanno pensato che i valori fossero roba buona per i poeti e i visionari, e non ossigeno per la convivenza comune. C'è una crisi dei partiti, che parlano solo di se stessi. C'è una spaventosa crisi della scuola, che non riesce a interpretare i bisogni di una generazione figlia di una società frantumata. C'è una crisi terribile della Chiesa: quando ho sentito dire per giustificare Berlusconi da parte di un uomo di Chiesa che anche le bestemmie vanno contestualizzate, ho pensato che forse il processo di secolarizzazione è andato oltre i confini immaginabili. Un paese è anche figlio della sua storia. La rimozione del valore della Resistenza, ormai messa sullo stesso piano di chi aveva continuato l'avventura del fascismo, così come le difficoltà a riconoscere il valore fondativo del Risorgimento e dell'unità d’Italia, raccontano un altro degli elementi di questa cancellazione dei valori». Un'altra foto di Veltroni (LaPresse) Un'altra foto di Veltroni (LaPresse) La televisione come la trova? «La televisione, la Rete, Facebook sono i luoghi dove il mondo appare. Più il mondo si fa piccolo, più compare attraverso la tv. La ragazza di Avetrana che probabilmente ha contribuito a uccidere sua cugina, e che ha mentito a tutte le trasmissioni tv cui partecipava senza alcun pudore, che quando è stata portata in carcere sembra aver chiesto cos'hanno detto i tg, è il prodotto di un tempo in cui si sono spogliati gli esseri umani di altre ambizioni se non quella di apparire, di essere in tv per dimostrare di essere al mondo. Non sembri un atteggiamento del passato; ma io penso che una società senza pedagogia sia una società morta. Che sia morta una società senza maestri, senza una trasmissione di esperienza, di sapere, di conoscenza che dia a ciascuno degli orizzonti di interesse, di avventura, di scoperta che oggi appaiono assolutamente limitati. Per questo penso che la tv non debba rinunciare a questa ambizione. Tutto è quantitativo nella società moderna, il Pil come l'Auditel, e nulla è qualitativo. Sono convinto che si dovrà trovare uno strumento di rilevazione dello stato di salute di una società diverso dal éil. Qualità dell’educazione, qualità dell'aria, pluralismo informativo, stabilità sociale: esistono tanti altri fattori che una società moderna dovrà trovare il modo di misurare. La stessa cosa vale per la televisione». Si riferisce in particolare alla Rai? «Quando il servizio pubblico televisivo fa "L'Isola dei famosi" smette di essere se stesso. C’è qualcosa che viene prima della miseria in cui il direttore generale della Rai ha cacciato l'azienda in questi mesi, dando l'impressione di una volontà di normalizzazione unidirezionale. Il servizio pubblico dovrebbe cercare proprio quello che sembra voler cancellare, cioè la diversità dei linguaggi, degli approcci. Non dovrebbe preoccuparsi dell'omogeneità di quello che offre al pensiero di chi momentaneamente governa. Dovrebbe aiutare l’intelligenza collettiva del paese». Berlusconi cita spesso l'elenco delle trasmissioni e dei personaggi tv che considera di sinistra: Santoro, Floris, Fazio, Saviano, Dandini, Gabanelli… «A me non interessa tanto il punto di vista politico. È evidente che il pluralismo politico è necessario. Mi interessa la qualità culturale. Ovviamente giudicare non spetta a me, come a nessun uomo politico. Tranne qualche eccezione, però, è evidente che non c'è più creatività. La tv è una specie di format universale: tutti i programmi sono uguali. Andiamo verso un mondo di città fatte di centri commerciali, di case piene di mobili Ikea, di tv monopolizzate da Grandi Fratelli, di strade percorse da persone con l'iPad in mano. Un mondo terribilmente uniforme e omogeneo, che tende a cancellare tutti gli elementi di diversità. Eppure la tv è il regno della diversità. Ci sono stati momenti molto belli nella storia della televisione italiana: la rete Due di Massimo Fichera, la rete Tre di Angelo Guglielmi, la rete Uno di Emanuele Milano. Ci sono stati momenti nei quali la tv pubblica ha saputo accompagnare il paese nella sua crescita, non assecondarlo nei suoi difetti. Per questo penso che la Rai abbia bisogno di un profondo, radicale cambiamento, probabilmente persino nei meccanismi di finanziamento». Pensa alla rinuncia alla pubblicità? «Con una normativa antitrust che riguardi il privato e regoli il conflitto di interessi come si fa in ogni società liberale, si può pensare a un canone esigibile attraverso la bolletta elettrica, in modo da stanare gli evasori. A quel punto il servizio pubblico dovrebbe essere liberato dal dominio dell'Auditel, rimettendo in circolo risorse pubblicitarie, a condizione che non vadano all'oligopolista privato e cioè Berlusconi. Noi abbiamo bisogno che ci sia più tv, la più diversa possibile; che la Rai torni a produrre e creare, non solo ad acquistare format degli altri. Tutto questo sarà possibile solo se la Rai riuscirà a liberarsi dal dominio dei partiti». Ma anche la sinistra ha lottizzato la Rai. «Da anni sostengo che occorre nominare un direttore generale, il cui mandato sia a cavallo di due legislature e che abbia pieni poteri. Se oggi al vertice ci fossero Franco Bernabé o Enrico Bondi, avendo al fianco persone con una competenza specifica sul prodotto, io penso che la Rai uscirebbe dai guai imbarazzanti in cui si trova oggi». Un "governatore" della Rai? «Non certo una figura autocratica; una persona che senta di dover rispondere non a chi l'ha momentaneamente nominato, ma al paese. E che abbia una missione: far crescere la qualità della vita culturale italiana. Purtroppo questo paese è dominato dal passato. E il passato è pieno di buchi. Cercare di capirlo è doveroso e affascinante; ma procura anche angoscia il pensiero che siano stati condannati solo ora i responsabili della strage di piazza della Loggia a Brescia, che è avvenuta nel 1974. Noi ci stiamo occupando delle stragi del '92 e del '93, un momento cruciale della recente storia italiana. Ma il passato è aggrappato alle gambe di questo paese, e gli impedisce di correre verso il futuro. In Inghilterra hanno presentato una manovra di tagli da quasi novanta miliardi di sterline, ma non hanno fatto un taglio lineare; hanno tagliato l’economia, la difesa e gli esteri e non hanno tagliato la scuola». L'ha fatto un governo conservatore. «Sì. Consapevole però che se non si investe sul sapere e sulla conoscenza i paesi europei sono destinati a essere schiantati dalla concorrenza del mondo globalizzato. Se non si investe sull’ambiente, sulla qualità di uno sviluppo compatibile, non ci si può dire un paese moderno. Se i ricercatori italiani vanno all’estero, se la scienza e la ricerca sono considerate meno importanti di Masi, l’Italia non avrà futuro. Il futuro del paese deve diventare l'assillo delle persone responsabili. Credo che, alla fine di questo insopportabile incubo in cui ci tocca vivere, fatto di dossier, litigi, divisioni finte e vere, interessi personali, vincerà chi saprà razionalmente dire al paese: è arrivato il momento di fare quei cambiamenti che l'Italia non ha mai conosciuto nella sua storia; ricostruiamo quel sistema di valori, il cui perno è racchiuso in una serie di parole-chiave». Quali sono? «La prima è comunità. Allo smarrimento del mondo, e dell'Occidente in particolare, si può reagire con l'arroccamento egoistico, con il localismo identitario. O si può reagire con lo spirito di comunità. Non c'è nulla di male se in questa grande confusione ciascuno cerca in una dimensione più minuta il senso delle cose. Nulla di male se questo avviene in uno spirito di comunità, come lo pensava Adriano Olivetti. Dovremo darci un modo di vivere della democrazia che riconosca questa dimensione comunitaria. Dovremo accentuare gli elementi di autogoverno e di responsabilizzazione«. Il federalismo fiscale non è proprio questo? «Ma oggi viene visto esattamente al contrario dello spirito comunitario: ognuno faccia come gli pare a casa sua, liberiamoci degli zaini. Il federalismo può diventare uno strumento utile. Ma nella dimensione culturale in cui viene pensato dalla Lega, finisce per rafforzare le burocrazie e gli elementi di pesantezza, di lentezza. Invece occorre aumentare lo spazio della sussidiarietà e della società civile. La politica deve ritrarsi dagli spazi inopinatamente invasi, e riaffermare orgogliosamente un ruolo di guida che ha perduto”. E le altre parole-chiave? «Inclusione. La capacità di includere culturalmente, socialmente, religiosamente, per evitare che le separazioni e le esclusioni diventino, come stanno diventando in Italia e altrove, intolleranza o violenza. Pensiamo al successo dei partiti neonazisti in Europa, al revanscismo di una destra sparita da decenni dalla storia americana che ora riappare in una campagna elettorale particolarmente violenta. La terza parola-chiave è merito: ciascuno ha il diritto di essere giudicato per il merito di quello che fa. Tutte le forme di “6 politico” sono gigantesche ingiustizie sociali. Diamo a tutti opportunità, ma a ciascuno il confronto con il merito di quello che realizza. Il più bel giornale italiano, che si chiama Internazionale, ha ripubblicato un articolo di "The Atlantic": due bambini americani frequentano due classi diverse, e se ne segue l'evoluzione misurando i progressi dell'uno e le difficoltà dell’altro in relazione alla capacità e alla passione dei due differenti maestri. Il merito è il contrario della logica italiana delle raccomandazioni e dell’egualitarismo lottizzato. La quarta parola è creatività. L’Italia ha dentro di sé grande talento. Ma il paese non accompagna e non aiuta chi ha l’ambizione di creare. Penso alla frase di Tremonti, per fortuna smentita, secondo cui "la cultura non si mangia". Infine, l’ultima parola-chiave è legalità: rispetto delle regole del gioco, rispetto della concorrenza, rispetto degli altri. Penso che da un paese smarrito, angosciato, malato come il nostro si debbano estrarre le virtù civili». Colpa solo di Berlusconi? «La colpa storica di Berlusconi è aver assecondato i difetti dell’Italia e aver combattuto le sue virtù civili. Credo che oggi esista una maggioranza silenziosa degli italiani che si è stufata di questo paese immobile e rissoso e vorrebbe occuparsi di cose serie, che vorrebbe avere un'Italia unita e dinamica, che vorrebbe respirare un'aria di diritti e di doveri. Questa maggioranza merita per una volta nella storia di diventare anche maggioranza politica». Aldo Cazzullo 23 ottobre 2010(ultima modifica: 24 ottobre 2010)© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/politica/10_ottobre_23/veltroni-aldo-cazzullo_3c269b3e-deae-11df-99d6-00144f02aabc.shtml Titolo: WALTER VELTRONI «Il Pd cambi rotta o il destino è a rischio» Inserito da: Admin - Novembre 18, 2010, 12:24:43 pm L'ex leader «Irresponsabile votare ora». «Ridurre le ambizioni fa perdere peso politico»
«Il Pd cambi rotta o il destino è a rischio» Veltroni: «Sono per un'alleanza sul programma allargata a chi ci sta e di cui noi siamo il perno» ROMA - Walter Veltroni, che succede al Pd? Ieri la Puglia, ora Milano: ogni volta che si vota alle primarie, vincono gli altri. «Ci sono volte in cui dispiace aver ragione. Com'è scritto nel documento firmato da 75 parlamentari, la perdita della vocazione maggioritaria del Pd può comportare rischi molto forti per il destino del partito del riformismo italiano. Purtroppo i sondaggi e le primarie confermano che la riduzione delle ambizioni comporta la riduzione del peso politico. Rimango convinto che il Pd non possa non aver dentro di sé un'ambizione maggioritaria, altrimenti non è il Pd. Dev'essere un soggetto capace di accendere un sogno nella società italiana, un razionale e realistico sogno. E l'unico sogno che la storia politica ci ha dimostrato essere realizzabile è quello riformista di Martin Luther King, di Olof Palme, di Brandt, di Obama: il cambiamento radicale del presente non attraverso il racconto di una società altra, ma attraverso la sfida molto più dura di cambiare la società com'è oggi. Se il Pd rinuncia a questa ambizione, se rinuncia a dire alla società italiana che la vuole portare fuori dal tunnel dove si trova da tempo immemorabile, il Pd non è se stesso». Com'è possibile che il primo partito di opposizione perda consensi proprio mentre li perde il primo partito di maggioranza? «Ma i sondaggi dicono pure che nessun partito italiano ha un elettorato potenziale grande come il nostro: i numeri si invertono, il 24% diventa il 42. Quel divario dev'essere colmato attraverso il ritorno a un'ispirazione che sia da Pd. Se il Pd si trasforma in una forza a fatica distinguibile, se rinuncia al suo essere più com'è il Partito laburista inglese o il Partito democratico americano che come sono i partiti socialisti europei, non ce la farà a costruire l'alternativa di cui l'Italia ha bisogno». Bersani come si sta muovendo e come l'ha trovato lunedì sera da Fazio? «Io apprezzo il lavoro che sta facendo Bersani. Siamo in una fase in cui bisogna garantire il massimo di convergenza, e in questa crisi la convergenza c'è. Però mi è spiaciuto, nel suo intervento a "Vieni via con me" sotto molti aspetti apprezzabile, non sentire mai l'aggettivo "democratico". Bersani ha detto "sinistra", "progressisti"; mai "democratici". Per me non è un aggettivo che si usa per privazione degli altri; democratico è il pensiero politico più forte che la storia del '900 ci abbia consegnato, ancora valido per essere usato nel tempo successivo: l'unico pensiero politico che abbia radici di cui dobbiamo essere orgogliosi. Essere democratico non è meno che essere di sinistra; è la più radicale delle politiche di cambiamento. Il Pd deve assumere senza equivoci questa identità, coniugata con il suo verbo fondamentale; che non è il verbo "difendere", ma il verbo "cambiare". Il paese ha bisogno di un cambiamento profondo». Franceschini, Letta, la Bindi sostengono un'alleanza vasta con Fini e Casini. Lei che ne dice? «La cosa più grave che può accadere al Pd è dividersi tra chi sostiene che bisogna allearsi con Vendola e Di Pietro e chi con Fini e Casini. Solo il fatto che si discuta di questo contraddice il progetto originario, secondo cui dovevano essere gli altri a discutere se allearsi con noi. Il Pd non ritroverà il consenso perduto se non ritorna centrale, se non individua le grandi frontiere di innovazione necessarie all'Italia. Su quelle vediamo chi c'è». Quindi lei non esclude un'alleanza allargata? «Sono per un'alleanza allargata programmaticamente a chi ci sta. Non cadiamo nel vizio da Prima Repubblica di discutere prima di alleanze che di cose, e in primo luogo di precarietà e legalità, che sono le due cose fondamentali. E potrei continuare: ambiente, scuola. Questi sono i temi su cui il Pd deve ritrovare una fortissima capacità di innovazione, per rappresentare il perno di un'alleanza più vasta possibile in vista delle elezioni. È evidente che non possiamo essere solo noi. Non invoco né l'autosufficienza né l'isolamento. Il punto è la centralità, è se sei tu a indicare la frontiera su cui costruire un'alternativa fondata su un'idea d'Italia, su un messaggio positivo, non solo sul dire che Berlusconi non va bene». Che impressione le fa l'ascesa di Vendola? «Non ho paura di avere altri alla mia sinistra. Se Nichi ha successo è un bene; a condizione che il Pd, forza di centrosinistra, sia capace di intercettare il voto degli astensionisti e i voti in uscita dal centrodestra, anziché mettersi a fare lo stesso mestiere di Vendola. Lui può svolgere una funzione positiva: evitare che l'esasperazione di una radicalità che rinuncia a una sfida di governo porti a una posizione minoritaria e ininfluente. L'ultima cosa che noi possiamo fare è immaginare una campagna con lo schema del '94, con i progressisti da una parte, al cui interno prevalgono le posizioni più radicali. Il centro è nato perché al centro si è aperto uno spazio». E i «rottamatori» di Renzi? «L'innovazione è sempre benedetta e benvenuta. Ma si fa con il coraggio di scelte politiche, non agitando l'esigenza di cambiamento di per se stessa. Quando noi andammo oltre il Pci, non pensammo di "rottamare" Tortorella o Chiaromonte; chiedemmo di dar vita a qualcosa di nuovo. E lo facemmo consentendo a quella sinistra, nella coalizione dell'Ulivo, di governare per la prima volta l'Italia». Si riaffaccia l'ipotesi di un ruolo politico per Saviano. Che ne pensa? «Il successo di "Vieni via con me" conferma l'esistenza di una nuova maggioranza silenziosa che non ne può più di una politica rissosa, pesante, inconcludente, che si è stancato di Berlusconi e del suo universo orrendo. È una maggioranza di italiani che vorrebbe girare pagina e ogni volta che può esprimersi si esprime, stavolta con un programma tv. È un fatto culturale prima che politico, il segno di un'inversione di tendenza. Saviano è l'espressione di questo mondo che tiene alla legalità e non capisce perché uno scrittore venga sfidato da autorità che dovrebbero essere al suo fianco, perché debba prendersi gli insulti di Maroni e Berlusconi. Ho affetto e stima per Roberto, so come vive, so che ogni volta che i governanti anziché stargli vicino lo scagliano lontano aumentano per lui isolamento e solitudine. Ma so anche che Saviano non è politicamente collocabile. È trasversale, perché la legalità costituisce un pre-valore, che dovrebbe essere comune a tutti». È vero che il Pd ha trovato una linea comune per la riforma elettorale? Qual è la vostra proposta? «È nell'Assemblea nazionale che abbiamo votato all'unanimità le linee guida della nostra posizione sulla nuova legge elettorale. E abbiamo confermato le ragioni di una proposta che va nel senso di un sistema sul modello di quello francese. Ma siamo aperti a cercare con gli altri soluzioni che rimuovano le anomalie dell'attuale legge elettorale e consentano all'Italia di avere un sistema stabile». Si va verso elezioni anticipate? «Chi vuole le elezioni è nemico dell'Italia. Non lo dico per una forzatura propagandistica, ma perché sento una preoccupazione persino drammatica su quel che accade su scala europea. Quando Van Rompuy dice che sono in gioco in queste ore l'Ue e l'euro, dice una cosa gigantesca, che dovrebbe far fermare tutti a riflettere. Stiamo per vedere incrinata la più grande conquista politica di questo nuovo secolo. L'Italia arriva al momento critico con tutti gli indicatori negativi: crescita di debito, deficit, spesa pubblica; calo delle entrate fiscali. Ricordo che, quando ero al governo con Prodi, ogni giorno Ciampi entrava nella nostra stanza sorridendo, e ci mostrava la differenza in positivo rispetto al giorno prima dello spread tra i Bund tedeschi e i nostri Btp. Oggi il divario è tornato a livelli mai raggiunti dal 2000, da quando siamo nell'euro. Ci attendono manovre di rientro dal debito molto forti. Sento parlare di 45 miliardi di euro per la prossima primavera. In queste condizioni, l'idea di elezioni anticipate è un'idea da nemici dell'Italia». Chi vincerebbe? «Sarebbe un voto dall'esito incerto. Nessuno degli schieramenti sarebbe in grado di garantire la modernizzazione e la stabilizzazione necessarie. Rischiamo di perdere sei mesi per ritrovarci in uno stallo peggiore di quello di oggi». Lei quindi è per un governo tecnico? «Questo governo è finito. È finito il ciclo politico di Berlusconi, per quante manovre e campagne acquisti possa tentare. Si deve dar vita a un governo di responsabilità istituzionale, che non sia un ribaltone, ma raccolga tutte le forze in Parlamento preoccupate di questa condizione del tutto particolare in cui versano l'Italia e l'Europa, e delle conseguenze sociali sugli italiani che si impoveriscono, sulle aziende che chiudono. Un governo che, come il governo Ciampi, rassereni e dia sicurezza al paese, cambi la legge elettorale, prepari il terreno a una dialettica di tipo europeo tra schieramenti diversi». Quanto dovrebbe durare? «Non certo un mese. Deve avere il respiro necessario per fare tutto questo, non nell'interesse dei partiti ma dell'Italia. Lo chiedono tutte le forze sociali, dalle organizzazioni degli imprenditori a quelle dei lavoratori. Dobbiamo sancire la fine del berlusconismo ed evitare che Berlusconi trascini nella sua crisi anche le forze del centrodestra. Tutte le forze responsabili diano vita a una fase di transizione, con un governo di altissimo profilo, immagine e autorevolezza; oppure il paese rischia moltissimo». Chi dovrebbe guidarlo? «Ho fatto il nome di Ciampi non per caso. Non necessariamente dev'essere la persona che occupa lo stesso ruolo. Ma persone con quella cifra, quella autonomia, quell'indipendenza esistono. L'Italia, ricordiamolo sempre, è molto migliore di come oggi la si rappresenta». Aldo Cazzullo 18 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/politica/10_novembre_18/veltroni-il-Pd-cambi-rotta-o-il-suo-destino-a-rischio-aldo-cazzullo_b21f2fe2-f2de-11df-8691-00144f02aabc.shtml Titolo: WALTER VELTRONI È ora di scendere in piazza Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2011, 06:02:31 pm LA LETTERA
È ora di scendere in piazza di WALTER VELTRONI CARO Direttore, il momento che vive il paese è tra i più drammatici che l'Italia abbia mai conosciuto. La sensazione di sfarinamento delle regole minime della vita civile, l'arroganza di chi detiene il potere, la delegittimazione intollerabile del prestigio della nazione all'estero si accompagnano ad una pericolosa sensazione di impotenza e di sfiducia dei cittadini. Un mondo sta finendo, un mondo durato diciassette anni, che ha stravolto il paese senza introdurre una sola modernizzazione. La vita politica è stata imprigionata dentro un'anomala dialettica tutta negativa. Solo qui gli schieramenti e le esperienze di governo si sono consumati esclusivamente "contro" impedendo al paese di conoscere ciò che è suo diritto conoscere: riforme, modernizzazioni, pagine nuove di giustizia sociale e diritti collettivi. Solo il primo governo Prodi, con l'obiettivo dell'euro, è riuscito a mobilitare le coscienze e dare al paese la sensazione di essere proiettato verso una meta collettiva. Quel mondo sta finendo, ma non finisce. E anzi sta abbarbicato ad istituzioni che si cerca di piegare ancora una volta a ragioni meschinamente personali. Fino al punto di mettere in gioco il destino stesso dell'Italia. Cinismo, da "avvelenatori di pozzi". Oggi l'Italia è un paese stanco, sfibrato, nauseato. E la crisi bussa violentemente alle porte delle famiglie trovando ragazzi imprigionati nella trappola della precarietà, lavoratori in cassa integrazione, piccoli imprenditori schiacciati da burocrazia e stretta creditizia, talenti con la valigia in mano. E, in tutti, una paura nuova per gli italiani. La paura del futuro. E la sensazione che la politica sia non la soluzione, ma uno dei fattori della crisi. Esiste il rischio che si faccia strada la frustrazione che, spesso, genera radicalizzazione disperata. Dobbiamo evitarlo, tutti insieme. Cercando di fare in modo che questa crisi devastante finisca, dando spazio alle energie sane del paese. In questo momento molti elettori che hanno votato per il centrodestra sentono un disagio profondo anche se stentano a individuare un'alternativa credibile. Ora però è il momento non di dividersi sul futuro. Ma di dare forza non alla rabbia ma alla speranza. È ora che questo paese faccia sentire la sua voce. Il paese che intraprende, il paese che ha talento, il paese che fatica, il paese delle persone perbene, che sono tali indipendentemente dalle loro opinioni e sensibilità culturali, civili, politiche. C'è una Italia migliore di quella che domina la vita pubblica. Non un'altra Italia, ma la nazione vera o larga parte di essa. So bene che anche le ultime vicende ci raccontano di quanto siano arrivati in profondità i guasti del berlusconismo. Ma non accetto la rassegnazione di chi dice che ormai tutto il paese è perduto. Non è così. Ci sono energie immense. È semmai la politica, chiusa in se stessa, che non riesce ad esprimerle e a farle pesare. Per questo penso che, per accelerare la transizione, sia bene entri in campo la soggettività dei cittadini. Come sta già avvenendo con le raccolte di firme e con appelli sottoscritti sulla rete. Entri in campo prima che vincano rassegnazione o radicalizzazione. Uscire da questo immobilismo malato, da questa rissosità inconcludente è una esigenza avvertita dall'intero paese. E allora mentre Berlusconi riunisce i suoi per scagliarsi contro i magistrati e lanciare un'altra campagna di odio io credo che si apra uno spazio grande e importante per mandare un messaggio nuovo e forte. Sarebbe bello se tutte le forze politiche di opposizione, le organizzazioni sindacali dei lavoratori e dell'impresa, i mezzi di comunicazione e le associazioni del volontariato, i singoli cittadini promuovessero una giornata di impegno civile nel nome dell'Italia che crede nella democrazia, nelle regole, nel valore del lavoro e dell'impresa, che vorrebbe solamente avere un paese dinamico, in cui esista pluralismo, senso dello stato, rispetto reciproco. Un'altra Italia, rispetto a quella violenta e inane di oggi. Un paese possibile. Sarebbe allora bello se in uno stesso giorno, in una stessa ora, in tutti gli ottomila comuni italiani, nessuno escluso, i cittadini si riunissero nella piazza centrale, per dire "giriamo pagina, ritroviamo l'Italia". Una manifestazione civile, non di parte. Senza bandiere, senza comizi che possano dividere. Una grande festa della democrazia italiana, in cui sia protagonista l'autorganizzazione civile. Un momento fatto vivere dalle comunità dei cittadini. Occasioni nelle quali anche un elettore deluso dal centrodestra si possa ritrovare. Sarebbe la più grande manifestazione della storia italiana. In cui si attiverebbe un protagonismo diffuso. Non organizzare il pullman per andare a Roma o a Milano a sentire un comizio. Ma far vivere nella più piccola come nella più grande piazza italiana l'indignazione e la speranza. Se a Pieve di Soligo o a Mazara del Vallo, in quei luoghi meravigliosi che sono le piazze dei comuni italiani, si ritrovassero, come è possibile, milioni di persone, sarebbe anche il modo più bello di celebrare i centocinquanta anni di questo grande paese. E far capire a tutti gli italiani chi divide e semina odio e chi unisce e apre alla speranza. E sono sicuro che ai luoghi fisici si aggiungerebbero migliaia di piazze virtuali. "L'Italia in piazza", come si intitola lo splendido libro di Mario Isnenghi, ha cambiato spesso il destino della nazione. Dimostriamo che c'è un'Italia che ha solo voglia di girare pagina. Dimostriamo che dopo il tempo di Berlusconi inizia il tempo degli italiani. Che vogliono vivere il loro futuro in una comunità solidale, non in un saloon rissoso. (29 gennaio 2011) © Riproduzione riservata http://www.repubblica.it/politica/2011/01/29/news/ora_di_scendere_in_piazza-11799226/?ref=HRER3-1 Titolo: Veltroni: 'Occhio, crolla tutto' Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2012, 03:20:53 pm Veltroni: 'Occhio, crolla tutto'
di Marco Damilano «La situazione è più grave di come sembra. La depressione economica ricorda quella che negli anni '30 portò al nazismo e poi alla guerra. La democrazia rischia di essere sostituita dal populismo e dalla tecnocrazia. Noi politici dobbiamo capirlo. E proporre subito un nuovo grande patto sociale». Parla l'ex leader del Pd (28 dicembre 2011) Il 2011 è stato un anno pericoloso. Una grande cupezza, un pessimismo opprimente. Con due eventi positivi: l'uscita di scena di Silvio Berlusconi come premier, che non significa solo la fine di un governo ma la chiusura di un lungo tempo politico e culturale. E il risveglio della società civile, dal movimento delle donne in poi, un'opinione pubblica che vuole partecipare e contare". La politica ai tempi della recessione: Walter Veltroni ragiona sull'anno che verrà e non nasconde l'inquietudine: "Questo tempo non è una parentesi". E non lo sarà il governo dei tecnici: "Basta con le riserve. Il Pd deve appoggiare Mario Monti con autonomia, ma con convinzione". Si annuncia una recessione più pesante del previsto. La politica è pronta ad affrontarla? "Ho l'impressione che la politica non sia consapevole di quanto sta accadendo. Si parla di recessione, ma la direttrice del Fmi Christine Lagarde ha usato un termine più duro: depressione. E ha citato gli anni Trenta del Novecento. E' un precedente terribile: in quel decennio la depressione portò in Germania al nazismo e poi all'inizio del conflitto mondiale. Oggi sta venendo meno l'Europa che è stata il senso della seconda parte del Novecento. Sta crollando la fiducia che il sistema funzioni. Stiamo vivendo una fase storica in cui si è spezzata l'ininterrotta crescita economica e sociale dal dopoguerra a oggi, un terremoto che cambia la percezione del mondo. Non si uscirà da questo tempo come una parentesi. Vorrei utilizzare un'espressione antica: dobbiamo pensare a un nuovo modello di sviluppo. Non si evita il pericolo degli anni Trenta con una manovra economica, serve un New Deal. O la politica riesce a dare qualche risposta oppure ci penseranno la tecnocrazia o il populismo. Tanto più che la recessione accelererà la pulsione già presente nella società a ridurre la complessità. E se non recupera agli occhi dei cittadini legittimità e capacità di decisione, la politica e, questo è il rischio, persino la democrazia sembreranno un peso e non una opportunità". Lei parla di un cambio di mentalità, ma all'Italia sono richieste scelte dolorose e immediate, dopo le pensioni il mercato del lavoro. Fino a che punto siete disposti a sostenerle? "Il nuovo modello di cui parlo richiede che si riveda la scala delle priorità: ci sono bisogni primari collettivi che vanno soddisfatti e bisogni secondari cui bisognerà rinunciare o che andranno rivisti, per estendere l'accesso ai primi in modo universale. E' una rivoluzione necessaria: fine di egoismo e individualismo esasperati e scoperta di un nuovo senso di comunità, di relazioni sociali e umane solidali. In Italia per decenni ci siamo retti su un patto che comprendeva le baby pensioni, una certa tolleranza per l'evasione fiscale, perfino la convivenza con la criminalità mafiosa, teorizzata anche da uomini di governo. Quel patto era per l'immobilismo, si è scaricato sul debito pubblico ed è diventato intollerabile. Ora serve un nuovo patto per il dinamismo. Un patto per le riforme, per la modernizzazione giusta del Paese". Il governo tecnico serve a scrivere il nuovo patto? "Vedo che c'è un eccesso di domanda nei confronti di Monti. Al premier viene chiesto di fare tutto: salvare l'Italia, evitare il tracollo, scrivere in pochi mesi riforme che attendono da decenni. La politica è molto esigente con Monti dopo essere stata pochissimo esigente con se stessa. Ma il compito di questo governo non è fare un Paese nuovo. Questo spetta ai partiti, ai sindacati, alle forze sociali. Se non si farà questo, non si staccherà la spina a Monti, si staccherà la spina al Paese". Per Gustavo Zagrebelsky "i partiti, di fronte all'emergenza, hanno alzato bandiera bianca". Il governo Monti è una resa della politica? "Aprendo la strada a Monti, in realtà, la politica si è portata all'altezza della situazione, come aveva chiesto il presidente Napolitano. E' stato un atto di responsabilità, di generosità e di intelligenza, tre virtù necessarie e non molto praticate. Chi ha compiuto questa scelta ha il diritto e anche il dovere di rivendicarla con orgoglio, non deve vergognarsi di averla fatta. L'anomalia non è Monti, sono stati i 17 anni in cui abbiamo avuto da una parte Berlusconi e sul fronte opposto gli anti-Berlusconi, cioè coalizioni costruite per mettere insieme tutti quelli che erano contro. Con un'eccezione: il governo Prodi del 1996-98. Considero quel governo di cui facevo parte il migliore della Repubblica. L'estremismo e poi il maldipancia dei partiti che il giorno dopo l'euro chiesero la fase due hanno provocato la sua caduta. E' stato come spalancare l'autostrada al ritorno di Berlusconi, il punto di svolta. E' in quel momento che tutto si è avvitato. Se fosse nato all'epoca il partito dell'Ulivo, il Partito democratico, la storia sarebbe cambiata...". E invece ecco un'altra anomalia. Il Pd di fronte al fallimento di Berlusconi non ha chiesto il voto anticipato: sarebbe stato in grado di governare? "Sa cosa non mi è piaciuto della foto di Vasto? Che è stata scattata prima che si discutesse di cosa fare dell'Italia. Lo schieramento prima dei contenuti. Comunque, la mia risposta è no. In questo momento non c'è uno schieramento così robusto e coeso da poter governare la tempesta in arrivo. Abbiamo bisogno di sgomberare il campo dalle macerie che il berlusconismo e il conservatorismo hanno prodotto. Ma per la politica, a saperli cogliere, ci sono spazi enormi". La maggioranza che sostiene Monti, Pdl-Pd-Terzo Polo, può valere anche per il futuro? "Escludo in modo categorico che questa maggioranza possa governare anche dopo la fine di questa legislatura. Dobbiamo approfittare di questo anno e mezzo per fare sul serio quello che abbiamo solo finto di aver fatto: la Seconda Repubblica e il bipolarismo. L'abbiamo chiamata per comodità Seconda Repubblica, ma è stata una Prima Repubblica bis, si è cambiata la legge elettorale e ci si è illusi di aver costruito così le nuove istituzioni. Non si potrà parlare di Seconda Repubblica finché non si metterà mano alla Costituzione. Così come non ci sarà un vero bipolarismo finché non ci saranno due schieramenti in competizione per governare e non per distruggere l'avversario". Toccare la Costituzione è un tabù: in che direzione? "Monocameralismo. Senato delle regioni. Rafforzamento dei poteri del premier e di quelli di controllo del Parlamento. Modifica dei regolamenti parlamentari, con il riconoscimento di una dialettica tra la maggioranza e l'opposizione, o più opposizioni. A questo dovremo aggiungere regole che tengano i partiti fuori dalla gestione delle aziende pubbliche di ogni ordine e grado. E tetti rigidi per le spese elettorali dei candidati. Perché la legalità e la questione morale per me fanno parte, nel disinteresse generale, dell'emergenza italiana". Non manca qualcosa? Lei è sempre stato il più americano tra i politici italiani: le primarie, il "sindaco d'Italia"... ora è un presidenzialista pentito anche lei, come Fini? "Considero i sistemi presidenziali, come quello americano o brasiliano, e semi-presidenziali alla francese, altamente democratici. Ma noi abbiamo alle spalle anni di berlusconismo. E finché ci saranno le scorie del populismo sarà difficile affrontare il tema come andrebbe fatto: con confini durissimi, sui conflitti di interesse, sui poteri di controllo del Parlamento. Rafforziamo i poteri del premier e l'autorevolezza delle Camere. Poi si potrà parlare del resto. Ora sarebbe sbagliato farlo". La Consulta sta per decidere sui referendum elettorali. Cosa si aspetta? "Mi auguro che sia riconosciuta la costituzionalità dei quesiti: il Parlamento sarebbe costretto in poche settimane a cancellare il Porcellum, la peggiore legge elettorale dell'universo. Ma anche se la sentenza della Consulta fosse negativa dobbiamo comunque cambiare sistema". In che modo? Dario Franceschini evoca il ritorno alla proporzionale... "Dobbiamo tenere insieme due elementi: i governi li decidono i cittadini, non si può tornare alla vecchia stagione in cui i governi erano il frutto di estenuanti mediazioni tra i partiti in Parlamento. E il sistema elettorale deve mettere i partiti nella condizione di poter evitare le alleanze coatte, le coalizioni "anti". Sul piano tecnico ci sono diverse proposte. Anche il Pd ha la sua, approvata mesi fa. Vedremo". Il Pd appare diviso tra chi sta con Monti e chi con la Cgil, tra chi sta con la Bce (Enrico Letta) e chi contro (Stefano Fassina). E chi sta con entrambi: la maledizione del ma-anchismo ha colpito anche Bersani? "Trovo normale che nel Pd si discuta e che ci siano posizioni diverse. Succede così in tutti i grandi partiti occidentali, a meno che non si pensi di tornare a modelli superati. E poi anche all'epoca del centralismo democratico si discuteva: Napolitano e Ingrao non sono mai stati la stessa cosa. Io al Lingotto ho proposto la patrimoniale e mi fu risposto che era una proposta troppo di sinistra. Il punto è dov'è la sintesi: lo si vede anche nei sondaggi, il Pd cresce nei consensi quando assume una posizione di responsabilità nazionale e di innovazione. Altrimenti si fa come il candidato democratico americano George McGovern che nel '72 scaldò i cuori della sua base ma svuotò le urne. A vincere sono stati Roosevelt e Kennedy, Clinton e Obama. Il Pd deve riuscire a scaldare i cuori e a conquistare nuovi elettori. Il riformismo non è pragmatismo sganciato da una visione. Non è moderatismo. Quando è così perde". Ma lei con chi sta: con Monti o con Susanna Camusso? "Mi hanno sorpreso i toni della Camusso contro Elsa Fornero, più duri perfino di quelli usati contro i ministri di Berlusconi. Non farò la sgradevolezza di mettermi a dire io cosa avrebbe fatto Bruno Trentin in questo caso. Tutti i sindacati, non solo la Cgil, sono chiamati a dare una risposta a dieci milioni di lavoratori senza contratto. Nella politica c'è qualcuno che se n'è occupato davvero? Nel 2008, lo rivendico, fu il cuore della nostra campagna elettorale. Oggi non è il tempo del muro contro muro. Il debito pubblico, la crescita zero, la demografia zero sono i segni del declino della nazione. Ora è venuto il momento di un patto tra produttori, smetterla di chiamare padroni i piccoli e medi imprenditori, rispettare il lavoro e dare stabilità ai milioni di precari: rimettere tutti insieme il Paese nelle condizioni di crescere. E' il tempo di una nuova grande unità di chi lavora e produce ricchezza". Alla fine del 2012 cosa ci sarà? Nuovi partiti? Candidati premier come Corrado Passera? O un congresso del Pd per eleggere un nuovo segretario? "Mi preoccupa di più se alla fine del percorso sarà integro il Paese. So solo una cosa: se il Pd è intelligente e ha coraggio, sosterrà questo governo. Il Pd deve stare con Monti con autonomia e convinzione. Anche correggendo e migliorando provvedimenti come ha fatto con la manovra. Deve essere una forza aperta, inclusiva, combattiva. Deve essere il partito che guida l'Italia fuori dal tunnel. E che restituisce fiducia e speranza. Se farà questo sarà premiato". © Riproduzione riservata http://espresso.repubblica.it/dettaglio/veltroni-occhio-crolla-tutto/2170215//2 Titolo: Veltroni insiste "Ho posto problema del giudizio su Monti" Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2012, 11:43:29 am IL CASO
Governo e articolo 18, Veltroni insiste "Ho posto problema del giudizio su Monti" Dopo gli attacchi per l'intervista di ieri a Repubblica, l'ex segretario del Pd difende le sue posizioni: "Sul lavoro ho detto molto meno di quanto detto mille volte da Bersani" ROMA - Dopo gli attacchi di ieri 1 per l'apertura sulla riforma dell'articolo 18, Walter Veltroni si difende su Twitter. "Il problema non è l'articolo 18, sul quale ho detto molto meno di quanto detto mille volte da Bersani. Il problema è il giudizio su Monti", ha spiegato l'ex segretario del Pd. "Cito Bersani, per capirsi: 'Se vogliamo modificare l'articolo 18, va bene. Ma facciamolo in fondo. L'ha detto il 7 febbraio a Otto e mezzo", ha ricordato. Poi, sempre attarverso Twitter, una freccita polemica: "Bisogna avere il coraggio di discuterne. E civilmente. Senza dire che una opinione diversa è una opinione del nemico. Teorie pericolose". In un'intervista a Repubblica, l'ex sindaco di Roma aveva invitato ieri a mettere da parte i tabù sulla riforma dell'articolo 18 e a "non lasciare Monti alla destra". Parole che hanno continuato a suscitare dure reazioni anche oggi. Particolarmente sferzante il segretario della Cgil Susanna Camusso. "Ci sono code di investitori al confine che aspettano che scompaia quel numero...", commenta sarcastica la leader sindacale. Quella dell'articolo 18 quale strumento per la crescita, aggiunge, è una "ossessione". "Abbiano il coraggio di dire che si può licenziare in modo discriminatorio, così faremo una discussione vera. Questo è il tema", aggiunge. Si scaglia contro Veltroni anche il leader di Sel Nichi Vendola. "Leggo le parole che dice Veltroni e sono trasecolato", afferma, perché "indica come un retaggio novecentesco tutto ciò che è appartenuto al campo delle conquiste sociali, dei risultati di decenni di lotte". Ma "se si cancella il Novecento della giustizia sociale - prosegue Vendola - non si entra nel nuovo millennio ma si torna all'Ottocento". "E' una curiosa modernità - sottolinea - quella che guarda con antipatia alla Fiom e con simpatia a Marchionne. E' una singolare idea di modernità e di riformismo". (20 febbraio 2012) © Riproduzione riservata da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/20/news/governo_e_articolo_18_veltroni_insiste_ho_posto_problema_del_giudizio_su_monti-30192379/ Titolo: Walter Veltroni I segnali di allarme di questi tempi devono chiamare la sinistra Inserito da: Arlecchino - Settembre 14, 2015, 06:55:59 pm Il giorno della marmotta
Pd Walter Veltroni I segnali di allarme di questi tempi devono chiamare la sinistra a una doppia responsabilità. La chiama a non compiere i due errori nei quali è storicamente più facile che ripiombi Gaber, genio irregolare e dunque genio, cantava «Cosa è la destra, cosa è la sinistra». Forse oggi è il giorno giusto per soffermarsi su questa storica, reale, profonda distinzione. Un confine da ritrovare non per ergere un muro ma per riconoscersi, per capire che un sistema di valori è diverso dall’altro. Rispettabili e legittimi entrambi, ma diversi. Si oscilla spesso tra due estremi pericolosi: la demonizzazione dell’altro, in primo luogo. Se non sei di sinistra sei fascista, generalizzazione nella quale si è caduti spesso, salvo dover capire, in ritardo, quanto ci fosse di integralista e di autoritario in questo. Indro Montanelli non era certo di sinistra ma era un galantuomo che credeva in valori – quelli sì che dovrebbero essere universali – come la probità, come la piena libertà di impresa e di opinione. Renzo De Felice aveva le sue opinioni sul fascismo, la genesi del fenomeno e il consenso di cui ha goduto, e meritava di essere rispettato e considerato, non certo bollato come un revisionista, etichetta che ha una lunga e tragica storia. E che io ricordo essere stata spesso applicata, dagli estremisti di turno, persino a Enrico Berlinguer. Ma, in verità, la sinistra si è affrancata nel tempo da questi difetti che pure talvolta, come in un riflesso pavloviano, tendono a riemergere. La destra, regnante Berlusconi, ha invece tenuto in vita gli anni cinquanta fino a oggi. Chiunque era critico era comunista. Anche i liberali più socialmente moderati e magari legittimamente intransigenti sul piano della morale pubblica venivano equiparati a Stalin, Beria e se ne auspicava, ricordiamoci l’editto bulgaro, la defenestrazione. Enzo Biagi, certamente non un pericoloso esponente dell’Armata Rossa, è stato sovente inchiodato sul banco degli eversori dell’ordine costituito. Il linguaggio politico ha così recuperato la truculenza degli anni peggiori, senza neanche l’alibi delle ideologie. E il Paese è stato inchiodato così al suo eterno “giorno della marmotta”, quello che fa da pretesto ad un famoso film americano, “Ricomincio da capo”, in cui tutti gli eventi del giorno sono identici a quelli del giorno prima. Siamo scesi in tutti gli indici di competitività, compresi – come darsene pace? – quelli che riguardano la cultura, la formazione, la scuola. Cioè l’Italia e la sua storia. Però l’essere contro l’altro giustificava l’assenza di riforme e schieramenti eterogenei e stravaganti si paralizzavano a vicenda, in un surplace infinito ed estenuante. Ho pensato, dopo la caduta del muro di Berlino, che potesse aprirsi, per l’Europa, un tempo storicamente unico. Che est e ovest potessero unirsi, che essere europei sarebbe diventato più naturale e che la politica di questo continente si sarebbe liberata dalle scorie ideologiche e avrebbe potuto mostrare, in termini di valori e di programmi, le nuove, splendide e profonde differenze tra destra e sinistra, tra conservatorismo e riformismo. C’ è stato un momento, l’Ulivo di Prodi, Clinton e la Terza via del primo Blair, in cui questo sembrò possibile. Almeno a sinistra. E ora? Il mio timore è che si stia tornando nel “giorno della marmotta”. A destra non si è certo fatto strada un nuovo conservatorismo, moderno e liberale. Reagan sembra un miraggio di responsabilità, pensando all’impasto micidiale di Orban, Trump, Salvini, Le Pen e destra xenofoba del Nord Europa che si va affermando come modello ricostituivo del fronte opposto alla sinistra. Un micidiale cocktail di integralismi, di razzismo neanche tanto mascherato, di populismo esagitato, di spirito antieuropeo. Seminagione costante di paura sociale, di diffidenza nei confronti dell’altro. La nuova ideologia di questa destra non è l’anticomunismo, ormai palesemente grottesco, ma purtroppo l’intolleranza. Il nuovo linguaggio di questa destra, qualcosa che tende a definirla, è il populismo più sfrenato. Questo vale anche per il mondo conservatore italiano che deve decidere se scegliere la Merkel o Marine le Pen. Una sola scelta non è praticabile: essere le due cose insieme. Altrimenti si propone al Paese qualcosa di ambiguo e pericoloso. Angela Merkel è sostanzialmente la guida, nello scacchiere europeo, dello schieramento dei popolari, in storico conflitto con quello socialista. In questi giorni, di fronte al tema dei migranti, ha mostrato coraggio politico e capacità di rifiutare la facile suggestione populista. Lo ha fatto in un momento in cui, se avesse preso la posizione opposta, tutto, compreso la costruzione europea, sarebbe andato in una crisi drammatica e irreversibile. Conservatori da rispettare. Come lo furono Winston Churchill o Helmut Kohl, statisti il cui nome è scritto in modo indelebile nella storia del Novecento. Due uomini politici, ruolo tra i più nobili possibili, specialismo di spessore intellettuale che, come tale, andrebbe rivalutato. Se vogliamo che non siano i peggiori a occuparsi di politica, i più spregiudicati o i più disonesti; se vogliamo che la gestione della cosa pubblica non sia in mano a incompetenti e ladri bisogna alzare l’asticella, alla ricerca, nelle persone, delle motivazioni profonde e dei talenti più puri. Ma siamo sicuri che dal virus moderno del populismo sia al riparo anche la sinistra? Siamo certi che anch’essa non partecipi dell’“eterno ritorno” della politica , del suo ripararsi nei confini più sicuri, quelli dell’ideologia, quando tutto intorno si fa più complesso? Voglio dirlo chiaramente: se la sinistra torna indietro, se riscopre nel passato non le sue radici migliori ma i suoi difetti peggiori, è destinata a sconfitte storiche. Tanto più gravi se consumate a fronte di quella destra. La vittoria del nuovo leader laburista, al quale auguriamo buon lavoro, è secondo me il segno di questo rischio. Spaventata dalle nuove sfide e dai processi di globalizzazione, smarrita in un labirinto di nuove figure sociali e di inediti meccanismi di comunicazione e formazione del senso comune, la sinistra rischia di arroccarsi, di cercare indietro ciò che deve essere trovato davanti a noi, se siamo davvero figli di quella storia complessa e affascinante. È sinistra quella che, non rinunciando a sé, proietta il suo sistema di valori nel suo tempo. È sinistra un’idea di futuro, non una nostalgia di passato che non tornerà, ammesso che lo si debba auspicare. Molte parole di Corbyn sarebbero state, diciamoci la verità, considerate datate anche nel dibattito della sinistra europea degli anni ottanta. La recente vicenda greca, le scelte arrischiate ma coraggiose di Tsipras, ieri idolo fuggevole di tutti i più “radicali”, hanno dimostrato che il passato e le ideologie non possono sfuggire alla sfida della realtà. Ho già scritto qui, e ripeto, che non sopporto l’indistinto, l’idea che in fondo, ormai, esista un unico pensiero, parola grossa, che tutto dissolve e cancella, a cominciare dalle differenze tra destra e sinistra, ritenute ormai stupidi sbaffi a quadri contemporanei. Il populismo e l’intolleranza per le diversità politiche e culturali sono gemelli. Ma chi la pensa diversamente da te non è mai un eretico, è una risorsa. La sinistra che serve in questo momento è orgogliosa dei suoi valori, ma non è cultrice del vintage. È severa nel difendere le opportunità, i diritti, l’inclusione come la stessa ragione della sua esistenza. Non è un volto senza identità e cerca di stare immersa nel suo tempo per dare risposta alle sfide e alle diseguaglianze di oggi. Che non saranno affrontate, non dico vinte, tornando indietro. E attenzione perché anche la sinistra può farsi populista, quando semplifica ideologicamente la complessità sociale ed umana di questi tempi complicati. L’ ideologia, nemica degli ideali, è stata spesso la forma di sinistra del populismo. Stretta tra il populismo di destra e quello ideologico di sinistra l’Europa rischia di essere travolta. I muri di Orban e le frontiere chiuse della civile Danimarca devono accendere segnali di allarme. E devono chiamare la sinistra a una doppia responsabilità. La chiama a non compiere i due errori nei quali è storicamente più facile che ripiombi: la suggestione rassicurante delle vecchie coperte ideologiche o del camuffamento e il naturale istinto a farsi del male da sola, a non sapersi ascoltare, a dividersi. Tutto già visto, già subito, con dolore. Noioso, persino nel “giorno della marmotta”. Da - http://www.unita.tv/opinioni/walter-veltroni-il-giorno-della-marmotta/ Titolo: Walter Veltroni Il rischio dell’estremo Inserito da: Arlecchino - Settembre 14, 2015, 06:59:26 pm Il rischio dell’estremo
Walter VELTRONI Viviamo una stagione in cui prevalgono le posizioni “contro” e l’opinione pubblica spaventata ha bisogno di trovare un nemico contro cui scagliarsi Donald Trump sta scalando le vette dei sondaggi sul prossimo candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 2016. Sta sbaragliando i suoi avversari usando un armamentario retorico che ci è ormai noto: l’essere un imprenditore che si è fatto da solo, il proporre soluzioni disumane per il fenomeno della migrazione, l’insultare le donne. Il tutto condito da un linguaggio estremo, dalla totale indifferenza per ogni coerenza e praticabilità reale delle proposte, e da una buona dose di antipolitica. In nome del rifiuto dell’ormai usurato “politically correct” si fa strada un frasario della politica barbaro e violento, che parla alla pancia dell’elettorato e sollecita intolleranza e estremismo. In effetti candidati simili si sono già visti, nella storia del dopoguerra americano: Barry Goldwater per i repubblicani e George Wallace per i democratici. Quest’ultimo, partito da posizioni ultra liberal, approdò, per ottenere voti, a una linea di sostegno alle posizioni segregazioniste e discriminatorie nei confronti dei neri. La motivazione che fornì per questo radicale cambiamento, cinica e spregiudicata, è riassunta in queste parole, terribilmente attuali, «Sa, ho cercato di parlare di buone letture e di buone scuole e di queste cose che sono state parte della mia carriera, e nessuno ascoltava. Poi ho cominciato a parlare di negri, e si sono messi a battere i piedi sul pavimento». Tutti e due questi candidati non ebbero successo e tutto fa dire agli osservatori che lo stesso sarebbe se davvero Trump ottenesse la nomination repubblicana. E che Hillary Clinton sarebbe la più felice se davvero si candidasse il miliardario americano perché, con le sue posizioni così estreme, libererebbe uno spazio politico enorme, come spesso è stato nelle elezioni americane. Può essere sia così. Così è stato, si pensi al trionfo di Nixon contro George Mc Govern. I prossimi mesi ci daranno il responso. Io però non ne sarei più tanto sicuro. Infatti si vanno affermando, in tutto l’Occidente, pulsioni del tutto nuove, fenomeni carsici che spingono fasce di elettorato all’impegno o al disimpegno a seconda del grado di mobilitazione che l’estremizzazione delle posizioni determina. I n un sondaggio svolto in North Carolina, gli elettori hanno risposto che preferirebbero Trump, con il 40% dei voti, alla Clinton con il 38%. Ma la cosa più strana e interessante è che il 9% si pronuncia per un candidato, Deez Nuts, che in realtà non esiste. È infatti lo pseudonimo, preso da una canzone di un gruppo che ama, di un ragazzino di quindici anni che, per gioco, si è iscritto alla competizione e che, lavorando su Facebook, ha raggiunto un consenso singolare. Lo cito solo per dire quanto sia grande la confusione e per questo sia sbagliato guardare l’evoluzione degli orientamenti dell’opinione pubblica solo con le lenti tradizionali della politica tradizionale. E, d’altra parte, il partito Laburista inglese non sta per eleggere un suo leader che ha posizioni, sui temi sociali e politici, molto lontane dalla più recente tradizione laburista, quella di Kinnock, Blair, Brown e dello stesso Miliband? In Spagna e in altri paesi non si vanno affermando posizioni simili? Persino in Grecia non si sono sollecitate elettoralmente spinte estreme, fino al referendum, salvo poi virare su soluzioni meditate e su accordi che un tempo venivano bollati con il marchio dell’infamia? Prendere voti è un conto, governare un altro. Ma come mai, nel tempo più complesso della storia, si vanno affermando posizioni così semplificate? Si potrebbe dire che viviamo una stagione in cui prevalgono, persino nelle primarie dei partiti, le posizioni “contro”, in cui un’opinione pubblica spaventata e preoccupata ha bisogno di trovare sempre un nemico contro cui scagliarsi. In cui la paura ha preso il posto della speranza e l’odio quello della ragione. È già successo, nella storia. A questo contribuiscono certamente più fattori. Il primo è l’estenuante prolungarsi della più lunga crisi economica dal dopoguerra che, a dispetto di annunci ottimistici, si estende in tutto il mondo e, lo vediamo in questi giorni, colpisce anche economie forti e paesi emergenti. La recessione si sposa poi con l’altrettanto infinita catena di attacchi e minacce terroristiche e con l’esplodere, anche in conseguenza delle decine di conflitti che devastano il mondo, di un fenomeno di migrazione di proporzioni enormi di cui vediamo non solo a Lampedusa ma in Macedonia, in Grecia, a Calais le dimensioni umanamente incalcolabili. La politica si dibatte, ovunque, in una crisi devastante di autorevolezza e di prestigio, legata certamente ai due fattori strutturali prima richiamati. Una crisi che ha effetto persino sul significato della parola democrazia. Chiunque, agendo su questa debolezza, si sente autorizzato a dileggiare la politica, come in televisione ho ascoltato fare persino da partecipanti al funerale di Casamonica, un evento che ha ferito la città e il paese in modo molto profondo. Ma la perdita di stima e di consenso dipende anche dalla trasformazione dei partiti e dei luoghi istituzionali. L’ho richiamata varie volte e non ci torno, se non per dire che senza la riapertura di un grande dibattito politico, culturale, di valori tra le persone che militano in un partito, non importa quale, i criteri di selezione del personale politico saranno sempre più confusi: estremismo verbale (e disponibilità a compromessi deleteri), capacità di portare voti (spesso non importa in quale modo), fedeltà assoluta al leader di turno (in attesa di pugnalarlo alla prima difficoltà). La politica, quella vera, o rinascerà o sarà travolta da questo impasto di populismo e furbizia di potere che costituisce per me, la miscela più pericolosa in questo tempo del tutto originale che siamo chiamati a vivere. Credo infatti che ci sia una pericolosa sottovalutazione degli effetti, persino antropologici, della rivoluzione tecnologica che ha cambiato il mondo con ancora maggiore velocità di quella industriale. Pochi si fermano a ragionare sugli effetti di lungo periodo, positivi e negativi, che si stanno determinando nel profondo della società. Cose importanti, che cambiano il nostro rapporto con gli altri, con le relazioni umane, con il sapere, con il formarsi del senso, con il mutare degli orientamenti dell’opinione pubblica. D’altra parte non fu così con la televisione? Non fu lo stesso Sessantotto, sul piano culturale, il prodotto dell’ingresso, nelle case dei cittadini di tutto il mondo di una scatola che mostrava universi, linguaggi, esperienze sconosciute e, nel momento stesso in cui lo faceva, le rendeva universali? La televisione e la cultura di massa hanno creato fenomeni collettivi, hanno modificato linguaggi pubblici. E hanno cambiato la stessa politica. È ormai straconosciuta l’analisi della barba lunga di Nixon e dell’aspetto fresco e giovanile di John Kennedy nel dibattito televisivo del 1960. E nel grande successo del Pci, in Italia, contò la semplicità di linguaggio e il carisma personale di Enrico Berlinguer veicolate, dalla tv, anche nelle case di chi era più lontano dalle sue idee. Oggi la nuova rivoluzione culturale produce un effetto molto diverso. Intanto proprio per la velocità e la pervasività delle informazioni che in tempo reale giungono, a noi. Nicole Aubert ha scritto che «le strutture temporali della “ tarda modernità” sono oggetto di una triplice accelerazione: l’accelerazione tecnica, che rinvia al ritmo crescente dell’innovazione nel campo dei trasporti, della comunicazione, e della produzione; l’accelerazione del cambiamento sociale, che riguarda i mutamenti nelle istituzioni sociali, in particolare la famiglia e il lavoro, la cui stabilità appare sempre più minacciata; infine l’accelerazione del ritmo della vita, di cui risente l’esperienza quotidiana degli individui contemporanei che sentono in modo sempre più acuto che manca loro il tempo o che il loro tempo è contato». Di qui, dice il sociologo americano Richard Sennett, il fatto che «l’angoscia del tempo spinge le persone a sfiorare le cose, più che ad attardarsi su di esse» o, anche, che i new media determinano una condizione che si potrebbe definire di “soli, insieme” e cioè la sensazione di essere integrati in un sistema di relazioni esclusivamente virtuali, rapporti che vengono sperimentati dalla propria stanza, isolati dal mondo ma convinti di esserne il centro. D’altra parte solo chi ha un lavoro fisso, una famiglia solida, può forse permettersi il lusso di progettare lentamente. Chi vive in una dimensione di permanente precarietà che investe i rapporti personali e la sfera occupazionale ha come imperativo quello di sopravvivere e cerca nell’oggi, qui e subito, soluzioni. Tutta la società cambia così velocità. E la stessa politica viene investita da tsunami emotivi sotto i quali delibera in fretta e furia. Pronta però a decidere una cosa e/o il suo contrario se, ad esempio, un fatto di cronaca scuote l’opinione pubblica o attiva interessi di gruppi sociali specifici. A questa altezza di problemi la nuova politica è chiamata. Invece continua come ha sempre fatto, con i suoi riti, magari riverniciati, con le sue guerre di potere, con le sue parole che rischiano di sembrare vuote. Se non si vuole che questo diventi definitivamente il tempo dell’estremo, con i rischi che Papa Francesco e il Presidente Mattarella hanno correttamente indicato, spetta alla forza della ragione, alla sua capacità di suscitare emozioni e passioni di indicare una soluzione possibile. Gli esempi di bellezza, anche terribile, della propria missione civile e umana, non mancano. L’ ultimo, per me struggente, è quello di un intellettuale di ottantadue anni, Khaled Asaad, che ė stato torturato e poi decapitato per non aver voluto rivelare dove aveva nascosto, per salvarli, alcuni dei reperti archeologici più preziosi di Palmira, testimonianza essenziale di storia e di civiltà. Asaad ha difeso con la sua vita qualcosa che apparteneva non a lui, ma alla umanità intera. Qualcosa che i massacratori dell’Isis vogliono distruggere, come facevano i nazisti con i libri. Noi siamo, con tutti i nostri difetti, i difensori di quel bene supremo che è la libertà del pensiero. Non dimentichiamolo mai, in questo tempo complesso e confuso. DA - http://www.unita.tv/opinioni/il-rischio-dellestremo/ Titolo: Walter VELTRONI. - Il giorno della marmotta Inserito da: Admin - Settembre 15, 2015, 05:32:18 pm Il giorno della marmotta
Pd Walter Veltroni I segnali di allarme di questi tempi devono chiamare la sinistra a una doppia responsabilità. La chiama a non compiere i due errori nei quali è storicamente più facile che ripiombi Gaber, genio irregolare e dunque genio, cantava «Cosa è la destra, cosa è la sinistra». Forse oggi è il giorno giusto per soffermarsi su questa storica, reale, profonda distinzione. Un confine da ritrovare non per ergere un muro ma per riconoscersi, per capire che un sistema di valori è diverso dall’altro. Rispettabili e legittimi entrambi, ma diversi. Si oscilla spesso tra due estremi pericolosi: la demonizzazione dell’altro, in primo luogo. Se non sei di sinistra sei fascista, generalizzazione nella quale si è caduti spesso, salvo dover capire, in ritardo, quanto ci fosse di integralista e di autoritario in questo. Indro Montanelli non era certo di sinistra ma era un galantuomo che credeva in valori – quelli sì che dovrebbero essere universali – come la probità, come la piena libertà di impresa e di opinione. Renzo De Felice aveva le sue opinioni sul fascismo, la genesi del fenomeno e il consenso di cui ha goduto, e meritava di essere rispettato e considerato, non certo bollato come un revisionista, etichetta che ha una lunga e tragica storia. E che io ricordo essere stata spesso applicata, dagli estremisti di turno, persino a Enrico Berlinguer. Ma, in verità, la sinistra si è affrancata nel tempo da questi difetti che pure talvolta, come in un riflesso pavloviano, tendono a riemergere. La destra, regnante Berlusconi, ha invece tenuto in vita gli anni cinquanta fino a oggi. Chiunque era critico era comunista. Anche i liberali più socialmente moderati e magari legittimamente intransigenti sul piano della morale pubblica venivano equiparati a Stalin, Beria e se ne auspicava, ricordiamoci l’editto bulgaro, la defenestrazione. Enzo Biagi, certamente non un pericoloso esponente dell’Armata Rossa, è stato sovente inchiodato sul banco degli eversori dell’ordine costituito. Il linguaggio politico ha così recuperato la truculenza degli anni peggiori, senza neanche l’alibi delle ideologie. E il Paese è stato inchiodato così al suo eterno “giorno della marmotta”, quello che fa da pretesto ad un famoso film americano, “Ricomincio da capo”, in cui tutti gli eventi del giorno sono identici a quelli del giorno prima. Siamo scesi in tutti gli indici di competitività, compresi – come darsene pace? – quelli che riguardano la cultura, la formazione, la scuola. Cioè l’Italia e la sua storia. Però l’essere contro l’altro giustificava l’assenza di riforme e schieramenti eterogenei e stravaganti si paralizzavano a vicenda, in un surplace infinito ed estenuante. Ho pensato, dopo la caduta del muro di Berlino, che potesse aprirsi, per l’Europa, un tempo storicamente unico. Che est e ovest potessero unirsi, che essere europei sarebbe diventato più naturale e che la politica di questo continente si sarebbe liberata dalle scorie ideologiche e avrebbe potuto mostrare, in termini di valori e di programmi, le nuove, splendide e profonde differenze tra destra e sinistra, tra conservatorismo e riformismo. C’ è stato un momento, l’Ulivo di Prodi, Clinton e la Terza via del primo Blair, in cui questo sembrò possibile. Almeno a sinistra. E ora? Il mio timore è che si stia tornando nel “giorno della marmotta”. A destra non si è certo fatto strada un nuovo conservatorismo, moderno e liberale. Reagan sembra un miraggio di responsabilità, pensando all’impasto micidiale di Orban, Trump, Salvini, Le Pen e destra xenofoba del Nord Europa che si va affermando come modello ricostituivo del fronte opposto alla sinistra. Un micidiale cocktail di integralismi, di razzismo neanche tanto mascherato, di populismo esagitato, di spirito antieuropeo. Seminagione costante di paura sociale, di diffidenza nei confronti dell’altro. La nuova ideologia di questa destra non è l’anticomunismo, ormai palesemente grottesco, ma purtroppo l’intolleranza. Il nuovo linguaggio di questa destra, qualcosa che tende a definirla, è il populismo più sfrenato. Questo vale anche per il mondo conservatore italiano che deve decidere se scegliere la Merkel o Marine le Pen. Una sola scelta non è praticabile: essere le due cose insieme. Altrimenti si propone al Paese qualcosa di ambiguo e pericoloso. Angela Merkel è sostanzialmente la guida, nello scacchiere europeo, dello schieramento dei popolari, in storico conflitto con quello socialista. In questi giorni, di fronte al tema dei migranti, ha mostrato coraggio politico e capacità di rifiutare la facile suggestione populista. Lo ha fatto in un momento in cui, se avesse preso la posizione opposta, tutto, compreso la costruzione europea, sarebbe andato in una crisi drammatica e irreversibile. Conservatori da rispettare. Come lo furono Winston Churchill o Helmut Kohl, statisti il cui nome è scritto in modo indelebile nella storia del Novecento. Due uomini politici, ruolo tra i più nobili possibili, specialismo di spessore intellettuale che, come tale, andrebbe rivalutato. Se vogliamo che non siano i peggiori a occuparsi di politica, i più spregiudicati o i più disonesti; se vogliamo che la gestione della cosa pubblica non sia in mano a incompetenti e ladri bisogna alzare l’asticella, alla ricerca, nelle persone, delle motivazioni profonde e dei talenti più puri. Ma siamo sicuri che dal virus moderno del populismo sia al riparo anche la sinistra? Siamo certi che anch’essa non partecipi dell’“eterno ritorno” della politica , del suo ripararsi nei confini più sicuri, quelli dell’ideologia, quando tutto intorno si fa più complesso? Voglio dirlo chiaramente: se la sinistra torna indietro, se riscopre nel passato non le sue radici migliori ma i suoi difetti peggiori, è destinata a sconfitte storiche. Tanto più gravi se consumate a fronte di quella destra. La vittoria del nuovo leader laburista, al quale auguriamo buon lavoro, è secondo me il segno di questo rischio. Spaventata dalle nuove sfide e dai processi di globalizzazione, smarrita in un labirinto di nuove figure sociali e di inediti meccanismi di comunicazione e formazione del senso comune, la sinistra rischia di arroccarsi, di cercare indietro ciò che deve essere trovato davanti a noi, se siamo davvero figli di quella storia complessa e affascinante. È sinistra quella che, non rinunciando a sé, proietta il suo sistema di valori nel suo tempo. È sinistra un’idea di futuro, non una nostalgia di passato che non tornerà, ammesso che lo si debba auspicare. Molte parole di Corbyn sarebbero state, diciamoci la verità, considerate datate anche nel dibattito della sinistra europea degli anni ottanta. La recente vicenda greca, le scelte arrischiate ma coraggiose di Tsipras, ieri idolo fuggevole di tutti i più “radicali”, hanno dimostrato che il passato e le ideologie non possono sfuggire alla sfida della realtà. Ho già scritto qui, e ripeto, che non sopporto l’indistinto, l’idea che in fondo, ormai, esista un unico pensiero, parola grossa, che tutto dissolve e cancella, a cominciare dalle differenze tra destra e sinistra, ritenute ormai stupidi sbaffi a quadri contemporanei. Il populismo e l’intolleranza per le diversità politiche e culturali sono gemelli. Ma chi la pensa diversamente da te non è mai un eretico, è una risorsa. La sinistra che serve in questo momento è orgogliosa dei suoi valori, ma non è cultrice del vintage. È severa nel difendere le opportunità, i diritti, l’inclusione come la stessa ragione della sua esistenza. Non è un volto senza identità e cerca di stare immersa nel suo tempo per dare risposta alle sfide e alle diseguaglianze di oggi. Che non saranno affrontate, non dico vinte, tornando indietro. E attenzione perché anche la sinistra può farsi populista, quando semplifica ideologicamente la complessità sociale ed umana di questi tempi complicati. L’ ideologia, nemica degli ideali, è stata spesso la forma di sinistra del populismo. Stretta tra il populismo di destra e quello ideologico di sinistra l’Europa rischia di essere travolta. I muri di Orban e le frontiere chiuse della civile Danimarca devono accendere segnali di allarme. E devono chiamare la sinistra a una doppia responsabilità. La chiama a non compiere i due errori nei quali è storicamente più facile che ripiombi: la suggestione rassicurante delle vecchie coperte ideologiche o del camuffamento e il naturale istinto a farsi del male da sola, a non sapersi ascoltare, a dividersi. Tutto già visto, già subito, con dolore. Noioso, persino nel “giorno della marmotta”. Da - http://www.unita.tv/opinioni/walter-veltroni-il-giorno-della-marmotta/ Titolo: Walter VELTRONI. - Il rischio dell’estremo Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2015, 06:03:14 pm Il rischio dell’estremo
Dal giornale Walter VELTRONI Viviamo una stagione in cui prevalgono le posizioni “contro” e l’opinione pubblica spaventata ha bisogno di trovare un nemico contro cui scagliarsi Donald Trump sta scalando le vette dei sondaggi sul prossimo candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 2016. Sta sbaragliando i suoi avversari usando un armamentario retorico che ci è ormai noto: l’essere un imprenditore che si è fatto da solo, il proporre soluzioni disumane per il fenomeno della migrazione, l’insultare le donne. Il tutto condito da un linguaggio estremo, dalla totale indifferenza per ogni coerenza e praticabilità reale delle proposte, e da una buona dose di antipolitica. In nome del rifiuto dell’ormai usurato “politically correct” si fa strada un frasario della politica barbaro e violento, che parla alla pancia dell’elettorato e sollecita intolleranza e estremismo. In effetti candidati simili si sono già visti, nella storia del dopoguerra americano: Barry Goldwater per i repubblicani e George Wallace per i democratici. Quest’ultimo, partito da posizioni ultra liberal, approdò, per ottenere voti, a una linea di sostegno alle posizioni segregazioniste e discriminatorie nei confronti dei neri. La motivazione che fornì per questo radicale cambiamento, cinica e spregiudicata, è riassunta in queste parole, terribilmente attuali, «Sa, ho cercato di parlare di buone letture e di buone scuole e di queste cose che sono state parte della mia carriera, e nessuno ascoltava. Poi ho cominciato a parlare di negri, e si sono messi a battere i piedi sul pavimento». Tutti e due questi candidati non ebbero successo e tutto fa dire agli osservatori che lo stesso sarebbe se davvero Trump ottenesse la nomination repubblicana. E che Hillary Clinton sarebbe la più felice se davvero si candidasse il miliardario americano perché, con le sue posizioni così estreme, libererebbe uno spazio politico enorme, come spesso è stato nelle elezioni americane. Può essere sia così. Così è stato, si pensi al trionfo di Nixon contro George Mc Govern. I prossimi mesi ci daranno il responso. Io però non ne sarei più tanto sicuro. Infatti si vanno affermando, in tutto l’Occidente, pulsioni del tutto nuove, fenomeni carsici che spingono fasce di elettorato all’impegno o al disimpegno a seconda del grado di mobilitazione che l’estremizzazione delle posizioni determina. I n un sondaggio svolto in North Carolina, gli elettori hanno risposto che preferirebbero Trump, con il 40% dei voti, alla Clinton con il 38%. Ma la cosa più strana e interessante è che il 9% si pronuncia per un candidato, Deez Nuts, che in realtà non esiste. È infatti lo pseudonimo, preso da una canzone di un gruppo che ama, di un ragazzino di quindici anni che, per gioco, si è iscritto alla competizione e che, lavorando su Facebook, ha raggiunto un consenso singolare. Lo cito solo per dire quanto sia grande la confusione e per questo sia sbagliato guardare l’evoluzione degli orientamenti dell’opinione pubblica solo con le lenti tradizionali della politica tradizionale. E, d’altra parte, il partito Laburista inglese non sta per eleggere un suo leader che ha posizioni, sui temi sociali e politici, molto lontane dalla più recente tradizione laburista, quella di Kinnock, Blair, Brown e dello stesso Miliband? In Spagna e in altri paesi non si vanno affermando posizioni simili? Persino in Grecia non si sono sollecitate elettoralmente spinte estreme, fino al referendum, salvo poi virare su soluzioni meditate e su accordi che un tempo venivano bollati con il marchio dell’infamia? Prendere voti è un conto, governare un altro. Ma come mai, nel tempo più complesso della storia, si vanno affermando posizioni così semplificate? Si potrebbe dire che viviamo una stagione in cui prevalgono, persino nelle primarie dei partiti, le posizioni “contro”, in cui un’opinione pubblica spaventata e preoccupata ha bisogno di trovare sempre un nemico contro cui scagliarsi. In cui la paura ha preso il posto della speranza e l’odio quello della ragione. È già successo, nella storia. A questo contribuiscono certamente più fattori. Il primo è l’estenuante prolungarsi della più lunga crisi economica dal dopoguerra che, a dispetto di annunci ottimistici, si estende in tutto il mondo e, lo vediamo in questi giorni, colpisce anche economie forti e paesi emergenti. La recessione si sposa poi con l’altrettanto infinita catena di attacchi e minacce terroristiche e con l’esplodere, anche in conseguenza delle decine di conflitti che devastano il mondo, di un fenomeno di migrazione di proporzioni enormi di cui vediamo non solo a Lampedusa ma in Macedonia, in Grecia, a Calais le dimensioni umanamente incalcolabili. La politica si dibatte, ovunque, in una crisi devastante di autorevolezza e di prestigio, legata certamente ai due fattori strutturali prima richiamati. Una crisi che ha effetto persino sul significato della parola democrazia. Chiunque, agendo su questa debolezza, si sente autorizzato a dileggiare la politica, come in televisione ho ascoltato fare persino da partecipanti al funerale di Casamonica, un evento che ha ferito la città e il paese in modo molto profondo. Ma la perdita di stima e di consenso dipende anche dalla trasformazione dei partiti e dei luoghi istituzionali. L’ho richiamata varie volte e non ci torno, se non per dire che senza la riapertura di un grande dibattito politico, culturale, di valori tra le persone che militano in un partito, non importa quale, i criteri di selezione del personale politico saranno sempre più confusi: estremismo verbale (e disponibilità a compromessi deleteri), capacità di portare voti (spesso non importa in quale modo), fedeltà assoluta al leader di turno (in attesa di pugnalarlo alla prima difficoltà). La politica, quella vera, o rinascerà o sarà travolta da questo impasto di populismo e furbizia di potere che costituisce per me, la miscela più pericolosa in questo tempo del tutto originale che siamo chiamati a vivere. Credo infatti che ci sia una pericolosa sottovalutazione degli effetti, persino antropologici, della rivoluzione tecnologica che ha cambiato il mondo con ancora maggiore velocità di quella industriale. Pochi si fermano a ragionare sugli effetti di lungo periodo, positivi e negativi, che si stanno determinando nel profondo della società. Cose importanti, che cambiano il nostro rapporto con gli altri, con le relazioni umane, con il sapere, con il formarsi del senso, con il mutare degli orientamenti dell’opinione pubblica. D’altra parte non fu così con la televisione? Non fu lo stesso Sessantotto, sul piano culturale, il prodotto dell’ingresso, nelle case dei cittadini di tutto il mondo di una scatola che mostrava universi, linguaggi, esperienze sconosciute e, nel momento stesso in cui lo faceva, le rendeva universali? La televisione e la cultura di massa hanno creato fenomeni collettivi, hanno modificato linguaggi pubblici. E hanno cambiato la stessa politica. È ormai straconosciuta l’analisi della barba lunga di Nixon e dell’aspetto fresco e giovanile di John Kennedy nel dibattito televisivo del 1960. E nel grande successo del Pci, in Italia, contò la semplicità di linguaggio e il carisma personale di Enrico Berlinguer veicolate, dalla tv, anche nelle case di chi era più lontano dalle sue idee. Oggi la nuova rivoluzione culturale produce un effetto molto diverso. Intanto proprio per la velocità e la pervasività delle informazioni che in tempo reale giungono, a noi. Nicole Aubert ha scritto che «le strutture temporali della “ tarda modernità” sono oggetto di una triplice accelerazione: l’accelerazione tecnica, che rinvia al ritmo crescente dell’innovazione nel campo dei trasporti, della comunicazione, e della produzione; l’accelerazione del cambiamento sociale, che riguarda i mutamenti nelle istituzioni sociali, in particolare la famiglia e il lavoro, la cui stabilità appare sempre più minacciata; infine l’accelerazione del ritmo della vita, di cui risente l’esperienza quotidiana degli individui contemporanei che sentono in modo sempre più acuto che manca loro il tempo o che il loro tempo è contato». Di qui, dice il sociologo americano Richard Sennett, il fatto che «l’angoscia del tempo spinge le persone a sfiorare le cose, più che ad attardarsi su di esse» o, anche, che i new media determinano una condizione che si potrebbe definire di “soli, insieme” e cioè la sensazione di essere integrati in un sistema di relazioni esclusivamente virtuali, rapporti che vengono sperimentati dalla propria stanza, isolati dal mondo ma convinti di esserne il centro. D’altra parte solo chi ha un lavoro fisso, una famiglia solida, può forse permettersi il lusso di progettare lentamente. Chi vive in una dimensione di permanente precarietà che investe i rapporti personali e la sfera occupazionale ha come imperativo quello di sopravvivere e cerca nell’oggi, qui e subito, soluzioni. Tutta la società cambia così velocità. E la stessa politica viene investita da tsunami emotivi sotto i quali delibera in fretta e furia. Pronta però a decidere una cosa e/o il suo contrario se, ad esempio, un fatto di cronaca scuote l’opinione pubblica o attiva interessi di gruppi sociali specifici. A questa altezza di problemi la nuova politica è chiamata. Invece continua come ha sempre fatto, con i suoi riti, magari riverniciati, con le sue guerre di potere, con le sue parole che rischiano di sembrare vuote. Se non si vuole che questo diventi definitivamente il tempo dell’estremo, con i rischi che Papa Francesco e il Presidente Mattarella hanno correttamente indicato, spetta alla forza della ragione, alla sua capacità di suscitare emozioni e passioni di indicare una soluzione possibile. Gli esempi di bellezza, anche terribile, della propria missione civile e umana, non mancano. L’ ultimo, per me struggente, è quello di un intellettuale di ottantadue anni, Khaled Asaad, che ė stato torturato e poi decapitato per non aver voluto rivelare dove aveva nascosto, per salvarli, alcuni dei reperti archeologici più preziosi di Palmira, testimonianza essenziale di storia e di civiltà. Asaad ha difeso con la sua vita qualcosa che apparteneva non a lui, ma alla umanità intera. Qualcosa che i massacratori dell’Isis vogliono distruggere, come facevano i nazisti con i libri. Noi siamo, con tutti i nostri difetti, i difensori di quel bene supremo che è la libertà del pensiero. Non dimentichiamolo mai, in questo tempo complesso e confuso. DA - http://www.unita.tv/opinioni/il-rischio-dellestremo/ Titolo: Veltroni: "Democrazia in pericolo, sinistra dia subito risposte" Inserito da: Arlecchino - Giugno 26, 2016, 11:44:51 am Veltroni: "Democrazia in pericolo, sinistra dia subito risposte"
Intervista all'ex segretario del Pd. "Bisogna farsi carico del disagio sociale e riuscire a progettare una società nuova. Dal governo cose importanti, ma a Renzi dico di riflettere sull'Italicum" Di SEBASTIANO MESSINA 26 giugno 2016 ROMA. Quando gli chiedo cosa pensi delle tempeste politiche che investono l'Europa, Walter Veltroni mi risponde aprendo un libro che ha sulla scrivania: "Vediamo distintamente come tutte le cose che una volta ci apparivano salde e sacre, si siano messe a vacillare: verità e umanità, ragione e diritto. Vediamo forme di governo che non funzionano più, sistemi di produzione che agonizzano. La rimbombante macchina di questo nostro tempo formidabile sembra in procinto di incepparsi". Poi posa il libro, La crisi delle civiltà. "Johan Huizinga scriveva queste parole nel 1933. Molti pensarono che esagerasse. Ma poi scoppiò la guerra, e lui morì nel 1945, prigioniero dei nazisti". Lei pensa che il vento di follia che soffia sull'Europa sia lo stesso degli Anni Trenta? "Ci sono dei momenti della storia in cui, per slittamenti progressivi, improvvisamente diventa plausibile l'implausibile. C'è una parola che non possiamo e non vogliamo pronunciare, ma l'ha pronunciata Papa Francesco quando ha parlato di una Terza Guerra Mondiale. L'Europa è stato il grande antidoto alla guerra: popoli che si erano fatti la guerra scoprivano la bellezza della pace, gli ex nemici si stringevano la mano. Ma oggi, purtroppo, le cose stanno cambiando. E quello che più mi spaventa è la totale assenza di quella che il cardinal Martini chiamava "l'intelligenza complessiva delle cose". È come se ci fossero davanti a noi dieci indizi di un assassinio, e la politica fosse come l'ispettore Clouseau, che non riesce a metterli insieme. La vittoria di Trump alle primarie, il voto austriaco, la Brexit, l'ascesa di Marine Le Pen, i muri che risorgono nell'Est Europa. Che altro deve accadere, perché ci si renda conto che siamo in un tempo della storia nuovo, carico più di pericoli che di possibilità?". Qual è il principale pericolo che lei vede, leggendo questo quadro di indizi? "La crisi della democrazia. Perché non è detto che la democrazia, che è necessariamente processualità e delega, in una società così frenetica, presentista ed emotiva sia la forma di governo considerata naturale. Nascerà alla fine un pericoloso desiderio di semplificazione dei processi di decisione". Cosa si può fare per allontanare questo pericolo? " Accelerare nella direzione degli Stati Uniti d'Europa. Ma subito, perché i margini di tempo non sono infiniti. Altrimenti un'Europa fredda, lontana e censoria che non accende nessuna speranza verrà sancita, nella sua fine, dal dilagare di questo virus nazionalista e antieuropeo". Cosa c'è, nel vento di destra che soffia da una parte all'altra del pianeta? "Oggi il mondo è dominato dalla precarietà e dalla paura. Un mix pericolosissimo. E se la politica non si rende conto che siamo all'alba di un nuovo mondo, continuerà a pensare che si possa essere di sinistra o di destra come lo si era nel Novecento. Oppure, errore ancora più grave, comincerà a pensare che non esistano destra e sinistra. È vero che l'orizzonte socialdemocratico è in crisi, perché è finita la società nella quale erano inscritte le idee del socialismo, del comunismo e della socialdemocrazia, ma non è finita la missione storica della sinistra: quella di essere giustizia sociale, equità, opportunità, diritti". Ma a volte si ha la sensazione che sia la sinistra, per prima, a non rendersene conto... "Perché, finite le ideologie, ha smesso di immaginare un mondo diverso. E oggi è schiacciata sul presente, sembra una forza che garantisce la continuazione di una società che ha un livello di ingiustizia, di diseguaglianza, di precarietà, e dunque viene investita dalla protesta della gente. Ma è possibile che la sinistra non abbia l'intelligenza, la modernità, il coraggio di progettare una nuova società?". Nel giro di cinque giorni abbiamo avuto la vittoria a sorpresa di Grillo nelle città e il voto inglese per l'uscita dall'Europa. Quale di questi due risultati è più allarmante, per un italiano di sinistra? "Il secondo, senza dubbio. Diciamoci la verità: nel voto ai Cinque Stelle c'è tanto voto di sinistra". È un voto perduto, per la sinistra? "No, non lo è. È un voto che racconta di uno smarrimento, di una protesta, di una rabbia. Ma non è perduto. A condizione che la sinistra sappia cambiare". Lei è stato il primo segretario del Pd, oltre che uno dei suoi fondatori. Il partito oggi è nella tempesta, e c'è chi minaccia di non votare più neanche la fiducia al governo Renzi. È svanito il sogno del Partito democratico? "Io mi ostino a pensare che quel sogno non sia svanito. Penso che se non ci fosse il Pd il Paese sarebbe esposto a rischi molto maggiori. E allora, non da fondatore ma da italiano dico: non sciupate il Pd. Non dividetelo. Lo dico a tutti, a chi ha le massime responsabilità e a chi si oppone. E aggiungo tre cose. Primo, questo governo deve essere consolidato: se noi oggi avessimo in Italia una crisi di stabilità, le conseguenze sarebbero devastanti. Secondo, bisogna esercitare la funzione di guida del Pd, avendo una maggiore capacità di inclusione. Questo non è un momento in cui basta dire: io ho fatto. Bisogna farsi parte del disagio sociale. Bisogna farsi carico del fatto che c'è un dolore, un malessere, esteso in tutta la popolazione, e assumerlo dentro di sé". E la terza cosa? "Il Pd è il Pd. Non deve essere la prosecuzione dei vecchi partiti e delle vecchie correnti. È una cosa nuova, è la sinistra riformista del nuovo millennio". Eppure perde voti. Perché? "Per molte ragioni. Oggi perde voti chiunque è identificato col potere. Il governo ha fatto cose importanti, penso innanzitutto alla legge sulle unioni civili. Ma la recessione agisce in profondità. Ed è a quella profondità che la sinistra riformista deve tornare". Per esempio facendo propria, magari rimodellandola, la proposta grillina del reddito di cittadinanza? "Tutto quello che dà stabilità, sicurezza e tranquillità alle famiglie italiane in questo momento è da studiare. Il welfare va ripensato. Noi dobbiamo evitare che il cittadino moderno sia lo spettatore rabbioso di qualcosa che sente sempre più lontano". Cosa dovrebbe fare Renzi per recuperare il consenso degli italiani? "Per esempio evitare che un referendum sul rafforzamento della democrazia diventi un'elezione politica camuffata. È la prima cosa da fare. Anche perché altrimenti quelli che sono contro il governo finiscono con l’essere, numericamente, più di quelli a favore. Poi, alla luce di quello che sta accadendo, bisogna fare una riflessione sulla legge elettorale". Lo dicono in molti, ma non tutti chiedono la stessa cosa. Come bisognerebbe cambiarla? "Bisogna tener conto che oggi il Paese non è più bipolare ma tripolare. Le soluzioni possono essere diverse. Purché non venga meno il punto dal quale si è partiti: dalle elezioni deve uscire un governo, lo devono scegliere i cittadini e deve durare per cinque anni. Lo scettro deve tornare agli elettori, e non alle alchimie dei partiti. E' la democrazia che deve rigenerarsi. Il ricorso alla democrazia diretta come fuga dalla responsabilità della politica è sbagliato. Immagini se Roosevelt avesse promosso un referendum per chiedere se i giovani americani dovevano andare a morire per la libertà dell'Europa...". © Riproduzione riservata 26 giugno 2016 Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/26/news/walter_veltroni_bisogna_farsi_carico_d_el_disagio_sociale_e_riuscire_a_progettare_una_societa_nuova_dal_governo_cose_im-142827182/?ref=HREC1-3 Titolo: Veltroni Scrivo a voi, dispensatori di odio Inserito da: Arlecchino - Luglio 11, 2016, 06:09:05 pm Scrivo a voi, dispensatori di odio
Da Veltroni L’odio è il contrario delle idee. Porta prima a bruciare i libri. Poi a bruciare le persone. Non dimentichiamolo, vi prego, finché siamo in tempo Ho nelle orecchie la voce di quella ragazza americana che parla con il poliziotto che ha appena sparato al suo ragazzo. Ho negli occhi le immagini di quell’agente di Dallas assassinato alla schiena, nel modo più vigliacco. Leggo della morte, in Italia, di un ragazzo nero ucciso da chi aveva definito sua moglie una scimmia. Siamo appena reduci dagli orrori di Istanbul e di Dacca. Viviamo, quasi inconsapevoli, in una escalation rapida e infernale della violenza, verbale e fisica. Allora io scrivo a voi, dispensatori di odio. Scrivo a voi che non accettate l’esistenza dell’altro, che negate il diritto di avere una fede, un colore della pelle, un’idea politica, un amore diverso dal vostro. Scrivo a voi che usate le parole come clave, che insultate chi non la pensa come voi, che vi sentite depositari di un sapere che forse domani diventerà il suo contrario. Scrivo a voi che non sapete la bellezza del dubbio, voi che pensate che la vita sia davvero senza se e senza ma, che rifiutate a priori l’idea che un altro possa mai avere ragione. Scrivo a voi che riempite le 140 parole di un tweet di entusiasmo quando muore qualcuno che non era come voi o che aveva avuto il torto del successo nella vita. Non vi meravigliate, voi, se poi succede quello che è successo a Fermo, civile cittadina del centro Italia. L’odio è un virus, cambia colore e forma, come una malattia imprevedibile. E presto diventa metastasi e genera spasmi violenti. L’odio nasce dalle parole, la più delicata forma di vita che esista. E le parole, specie i media, devono ponderarle, perché sono pietre. So bene che le merci più vendute, in questa fase di “mercato”, sono proprio l’odio e la paura. Ma so anche che dentro ogni operatore di quella fragile materia che sono le notizie o ancor di più in chi fa politica dovrebbe albergare un codice etico. Dobbiamo sapere che ora tutto il dolore del mondo entra nelle nostre case, subito, senza mediazioni. Portato da immagini tremolanti di cellulari, da telecamere fisse che vigliano sulla nostra sicurezza, l’orrore compare in tempo reale sui nostri telefoni, sui nostri computer, sui televisori accesi. Abbassare la febbre, fare politica rispettando l’altro, restituire ai media il compito non solo di informare ma di far capire, imporre la fine delle urla e degli insulti come codice comunicativo normale, è davvero così difficile? Forse si perderà un punto di share o qualche voto ma si aiuterà il mondo a non perdere la testa. Perché il mondo, tutti noi, possiamo davvero, smarrire, giorno dopo giorno, i valori che ci hanno fatto liberi, aperti, inclusivi. Contano, certo, le condizioni materiali della società, la sua insopportabile ingiustizia, la totale assenza di speranza e di una politica alta, coraggiosa e forte, contano quei mutamenti sociali, culturali, antropologici a cui tante volte ho fatto riferimento su queste colonne. Ma contano anche le nostre parole, la nostra responsabilità. Urlare o ragionare, insultare o rispettare sono scelte che ciascuno di noi deve fare, dentro di sé. Specie chi informa, chi ha responsabilità comunicative o politiche. Il mondo, in altre fasi storiche, è slittato, applaudendo, verso l’odio e l’orrore, ha gioito per la guerra e tollerato o sostenuto le più odiose discriminazioni. “Un uomo che sia stato nel pericolo quando ne esce dimentica la sua paura, e spesso anche i suoi propositi”, scriveva Tucidide nell’Ifigenia in Tauride. Chi ci ha messo al mondo ha visto con i suoi occhi portare via i padri, le sorelle, i figli da uomini investiti dal loro Führer o dal loro Duce del compito di estirpare la mala pianta della diversità. Nel fumo del gas delle docce di Birkenau sono passati gli ebrei, gli antifascisti, gli omosessuali, gli zingari. Ognuno di loro era diverso dal nazismo o dal fascismo perché aveva una religione o un pensiero proprio, non conforme all’ imposta “normalità”. Dai gulag staliniani sono passati quelli che disobbedivano al partito e quelli che avevano un altro modo di ragionare. Avevano altre idee. Le idee: alimento rivoluzionario, meraviglioso e permanente stimolo sovversivo. Le idee non vivono in un recinto, hanno bisogno di praterie libere. Le idee, per essere tali, hanno bisogno di essere ascoltate, discusse, forse accettate. Ma in primo luogo hanno bisogno di essere esaminate come diceva Ezra Pound, “ad una ad una”. L’odio è il contrario delle idee. Porta prima a bruciare i libri. Poi a bruciare le persone. Non dimentichiamolo, vi prego, finché siamo in tempo. Da - http://www.unita.tv/opinioni/scrivo-a-voi-dispensatori-di-odio/ Titolo: Walter Veltroni- Ciampi è stato davvero un grande italiano Inserito da: Arlecchino - Settembre 20, 2016, 12:32:41 pm Walter Veltroni
@veltroniwalter · 18 settembre 2016 Un uomo della nostra storia Uomo onesto e competente, innamorato delle istituzioni e della verità, Ciampi è stato davvero un grande italiano In questo anno sono andati via Umberto Eco, Ettore Scola, Carlo Azeglio Ciampi. Se l’Italia avesse le lacrime avrebbe tutto il diritto di piangere. E il nostro paese ha diritto, guardando il panorama culturale e politico, di sentirsi più povero. Ha perso le parole di queste persone intelligenti. Ha perso il loro stile, la loro eleganza, la moralità di uomini che hanno fatto grande il nostro nome nel mondo. Ha perso, non è cosa da poco, il loro sorriso, il loro senso dell’umorismo, la loro curiosità. Ma erano figli di questo grande paese e, fatemelo dire, solo l’Italia – con la sua storia, il suo talento, il suo dolore – poteva generare persone così. Sono stati figli di una grandezza culturale e di un Dna nazionale fatto di talento e competenza. Ogni italiano sa quello che Carlo Azeglio Ciampi ha fatto per il paese. Quando, soldato, difendeva la patria mentre i potenti se la davano a gambe. Quando, da Governatore della Banca d’Italia, contribuì a salvare la lira e l’economia italiana. Quando accettò il passaggio a compiti politico istituzionali, da presidente del consiglio nell’Italia terremotata del post Tangentopoli, capace di definire, con la concertazione, una nuova politica dei redditi. Poi quando fu ministro dell’economia del governo Prodi e protagonista della difficile sterzata della finanza pubblica, operata secondo principi di equità sociale e di sostegno espansivo a ciò che, come la cultura, era segno forte e unico dell’identità italiana. Fino al tempo della sua presidenza della Repubblica, quando fronteggiò con grande saggezza una situazione politica difficile. Ciampi, con la sua mitezza forte, fece una grande rivoluzione culturale, accompagnò gli italiani nella riscoperta della parola «Patria». La parola che avevano sulle labbra i protagonisti e i martiri della Resistenza, la parola che, per ragioni ideologiche, era sparita dal tempo successivo nel quale, per combattere il nazionalismo, si smise di considerare il valore della nazione e della sua identità. Ciampi era un italiano orgoglioso di esserlo, un maestro di «Italia» per gli italiani e, al tempo stesso, un convinto europeista. L’Europa vera, quella che era negli auspici del manifesto di Ventotene, quella sognata nel fuoco di una guerra che insanguinava il continente. Ciampi era espressione, a suo modo, di una cultura azionista, purtroppo mai maggioritaria nel nostro Paese. Quella cultura che faceva del rispetto delle regole, dell’etica pubblica, della prevalenza dell’interesse generale su quello di parte il suo fulcro centrale. Carlo Azeglio Ciampi che, insieme a Prodi, accompagnò il nostro paese all’appuntamento dell’euro che, prima del governo dell’Ulivo, sembrava una chimera o una pia illusione ha dimostrato che si possono avere, nella vita, più identità. Si può rivendicare, con la stessa forza, di essere figli della storia, dalla cultura e del talento italiano e di appartenere alla civiltà europea, alla cultura della libertà e della democrazia che questo continente, al prezzo del suo sangue, ha affermato come sua forma di convivenza. Uomo onesto e competente, innamorato delle istituzioni e della verità, Ciampi è stato davvero un grande italiano. Ed era, non per caso, un uomo ricco di curiosità e dolcezza. Mi parve di capirlo la prima volta che entrai nella sua casa e vidi il rapporto speciale che aveva con Franca, la cui intelligenza e il cui umorismo sono stati cemento per la splendida vita d’amore e di solidarietà che loro due hanno trascorso, sempre insieme. Non abbiamo mai smesso di sentirci e lui, pur con le difficoltà della sua età, non ha mai smesso di esserci. Ora a me, come a tutti gli italiani, mancherà. Ma possiamo, come figli col padre, essere davvero fieri di lui. Da - http://www.unita.tv/opinioni/un-uomo-della-nostra-storia/ Titolo: Walter VELTRONI. La mia sinistra? Fantasiosa e senza pregiudizi Inserito da: Arlecchino - Settembre 29, 2016, 05:15:40 pm La mia sinistra? Fantasiosa e senza pregiudizi
Sinistra Sono un tipico post-comunista italiano, ex Pci nonché ex troppe altre cose; Non sono renziano ma nutro rispetto per Renzi e la sua volontà di fare Caro Macaluso, intanto grazie per l’attenzione che hai voluto dedicare alla mia intervista sul Foglio; credevo di avere fatto soprattutto una lunga conversazione sul mio umore e sugli anni che passano, non rendendomi conto che avrebbe assunto una decisa connotazione politica. Si vede che devo rassegnarmi a un’autorevolezza che a vent’anni, quando entrai a lavorare nella tua (e mia) “Unità”, non avrei sospettato neanche lontanamente. Mi rendo conto che una certa disillusione sul bilancio della mia generazione, unita alla mia intenzione di voto per il Sì, possa qualificami come “renziano”. Non lo sono e non posso esserlo per ragioni di formazione culturale e politica: sono un tipico post-comunista italiano, ex Pci nonché ex troppe altre cose; Renzi è un cattolico popolare di nuovo conio, con elementi antropologico-culturali a me del tutto alieni. Ma è vero che nutro, per Renzi e il suo tentativo, un certo rispetto, che i dubbi su qualche sua scelta e molti suoi atteggiamenti non bastano a incrinare. Gli riconosco energia, volontà di fare, qualche buona opera (la Cirinnà) e un minimo di autonomia da quell’europeismo gretto e contabile che sta mettendo in ginocchio il Welfare. Se non basta a definirlo “di sinistra”, basta e avanza a non classificarlo, come fanno con grossolano astio alcuni suoi nemici, “erede di Berlusconi”. Ma Renzi è una contingenza; per certi versi un’emergenza, nonché il frutto del vuoto che lo ha preceduto (un vuoto che ha fruttato, lui sì, vent’anni di Berlusconi). Mi guardo bene dal pensare, come tu scrivi, che «per chi è di sinistra non c’è che Renzi e il suo Pd». Il problema è che la sinistra, così come la tua generazione e la mia l’hanno conosciuta e frequentata, oggi è un accampamento in disarmo; e non per sua pusillanimità o inettitudine, ma perché la guerra è finita: parlo di quella guerra, quella novecentesca tra borghesia e proletariato, tra capitale e lavoro salariato, quella che aveva nella fabbrica la sua centralità e il suo campo privilegiato, nella lotta sindacale il suo modo di combattere, nell’organizzazione politica e culturale degli operai e dei braccianti il suo daffare, negli «intellettuali organici» molti dei suoi quadri dirigenti. Quel mondo è così profondamente mutato da permetterci di dire che non esiste più. Tutto è come vaporizzato: il capitale e il lavoro. Il capitale è diventato finanziario, e in Occidente ha abbandonato quasi del tutto il cimento imprenditoriale, quello della produzione. Il lavoro è sbriciolato e disperso, in parte annichilito dalla più grande rivoluzione tecnologica della storia umana, per altri versi dalla delocalizzazione e dal precariato. A parità di fatturato, il rapporto di occupati tra Silicon Valley e il vecchio capitalismo fordista è uno a cento. Tra i lavoratori bianchi disoccupati o sottoccupati che votano Trump, questa decimazione (al quadrato) non è passata inosservata… Non siamo in un’altra epoca. Siamo in un altro evo. In breve, e per non annoiare te e i lettori: penso, esattamente come quando avevo vent’anni, che sia sempre più vero il celebre assunto di Rosa Luxemburg: «socialismo o barbarie». O si ritrovano forme di nuova solidarietà, di ripartizione del reddito, di alleanza tra i deboli e gli esclusi, di allargamento delle basi del potere, insomma di democrazia e di uguaglianza, o il futuro sarà sempre più iniquo e – di conseguenza – sempre più doloroso e cruento. In questo senso non solo sono ancora «di sinistra», ma lo sono perfino più radicalmente di come lo ero da ragazzo: per esempio sulle questioni ambientali e agricole, sulla sovranità alimentare dei popoli, sui cambiamenti climatici e sull’impatto delle nostre scelte di consumo e dei nostri stili di vita, penso si giochi moltissimo del futuro del pianeta. Ma di una sinistra che di queste cose si occupi con radicalità e fantasia, libera da pregiudizi, rivoluzionaria nello spirito e ragionevole nella prassi, quasi debba riscrivere daccapo i propri statuti, per ora non vedo tracce sostanziose. Certo, sarebbe bellissimo che il Pd (anche il Pd) partecipasse a questa gestazione; diventasse un luogo dove la sinistra si crea, e la si crea proprio perché non lo si è più, o non lo si è abbastanza. In questo senso sono convinto che Matteo Renzi dovrebbe lasciare la segreteria del partito a uno o una che ci si dedichi a tempo pienissimo: non si può governare e dirigere un partito al tempo stesso, e credo che lo stesso Renzi se ne sia reso conto, ormai. Bisogna avere fiducia nella discussione: se il contenitore è solido, può reggere anche la discussione più acce sa. Nel frattempo, è bello che l’Unità di Staino si sia data il compito di far discutere attorno a una cosa impalpabile come la sinistra, indispensabile come la sinistra. Un abbraccio fraterno, caro Emanuele, e se permetti anche un poco filiale. Da - http://www.unita.tv/opinioni/la-mia-sinistra-fantasiosa-e-senza-pregiudizi/ Titolo: Walter VELTRONI. Il Partito democratico, nove anni dopo Inserito da: Arlecchino - Ottobre 21, 2016, 12:56:28 pm Il Partito democratico, nove anni dopo
Io ho messo un seme, con milioni di italiani, in quel tempo ormai lontano. Tocca a voi, oggi, far crescere la pianta. Fatelo insieme, viene meglio Sono passati nove anni da quel giorno di metà ottobre del 2007 in cui nacque il Pd. Nove anni di esistenza di un partito, per questi tempi paradossali, sono quasi un record. Ormai i partiti sono come i Kleenex, usa e getta. Sono proiezioni di ambizioni personali, sono del tutto privi di radici storiche e culturali, per non parlare dell’esistenza di valori comuni di riferimento. Nascono, in generale, da continue scissioni, fino a quella dell’atomo. Si costituiscono in parlamento gruppi parlamentari dai nomi fantasiosi, riempiti da Fregoli del trasformismo. Si dice che siano quasi trecento i parlamentari che hanno cambiato casacca in questa legislatura. Un fenomeno di crisi della politica che racconta i prodromi di una crisi istituzionale. Il Partito democratico nacque invece da ciò che è più difficile nella vita politica, da sempre: una fusione. Si misero insieme culture diverse, si sciolsero due partiti eredi di tradizioni profonde nel novecento. Fu doloroso e meraviglioso, come un parto. Solo per un attimo voglio ricordare il clima, quasi di festa, di quei giorni, quelli successivi al Lingotto. Non dimentichiamo – perché la storia non è un tweet e semplificarne la complessità è un reato culturale grave – che il nuovo partito nacque nel momento forse più difficile della storia recente del centrosinistra italiano. Nasce dopo lo choc delle amministrative del 2007, quando il centrosinistra che governava – in verità con un solo voto di maggioranza al Senato – subì quella che tutti i giornali definirono una “batosta storica”, perdendo decine di amministrazioni. Giustamente Prodi, commentando quel voto, rivolse l’indice nella direzione corretta, verso i partiti e i ministri della sua coalizione che partecipavano grottescamente a manifestazioni contro il governo del quale facevano parte: «Come si fa a dare un’immagine di buongoverno, quando i ministri e gli alleati della tua maggioranza sono i primi a smontare i provvedimenti che prendi? Ormai il dissenso precede addirittura il provvedimento da cui si dissente. Basta che lo annunci, e c’è subito qualcuno che si ritiene titolato a criticare, per aumentare la visibilità sua e quella del suo partito». Il Pd nacque, diciamoci la verità, per fronteggiare un’emergenza politica, in un momento di tracollo del consenso attorno ai suoi partiti. E nacque, anche questo va detto, con dieci anni di ritardo. Il Pd doveva essere la prosecuzione dell’Ulivo. Doveva nascere sulla scia della inaspettata e entusiasmante vittoria del 1996. Come Prodi propose, inascoltato ed avversato da molti. Il Pd, lo ha scritto benissimo Ezio Mauro, ha radici solide, che non deve dimenticare. Quando presentai i lineamenti della mia candidatura a segretario, al Lingotto, cercai di far capire quale miracolo politico dovevamo compiere. Assumere con orgoglio la parte migliore di storie politiche diverse, Moro e Berlinguer, e la meravigliosa vicenda umana di milioni di persone che avevano fondato associazioni di volontariato o cooperative di braccianti, che avevano combattuto ed erano morti insieme per liberare l’Italia dal fascismo, di operai comunisti che avevano migliorato la vita dei loro compagni di lavoro battendosi per i loro diritti, di militanti cattolici che facevano vivere l’idea della pace o della moralità, da La Pira a Don Milani a Tina Anselmi. Nel nostro cuore, non solo nella nostra mente, queste storie di vita e di sofferenza, di lotte e di valori, dovevano coesistere. Incontrandone altre, culture vitali, la cui dimensione minoritaria ha pesato come un macigno nella storia italiana: l’azionismo, il socialismo riformista, quello che nel ’56 aveva ragione, l’ambientalismo, il femminismo. Come si poteva fare tutto questo? Come si potevano far incontrare culture così diverse e, nella storia conflittuali? Ma il mondo, dopo il 1989, era un mondo nuovo ed era possibile farlo. Era necessario farlo. Diciamoci la verità: singolarmente nessuna di quelle culture, fondate nel novecento europeo, era in grado di affrontare una società in radicale e repentino mutamento di figure sociali, di modi di pensare, di meccanismi di produzione e distribuzione della ricchezza e del lavoro. Un mondo globalizzato, dopo un mondo separato in blocchi. Una rivoluzione. Non poteva farcela nessuna delle culture del novecento europeo. E, d’altra parte, consentite di dirlo a chi ora continua in altra forma il suo impegno civile e politico, co s’altro deve succedere per farlo capire? Quanti tentativi di tenere in vita forme di sinistra tradizionale, estrema, massimalista, ideologica sono stati realizzati e sono falliti? E quanto è profonda la crisi dei partiti socialisti europei, purtroppo ridimensionati dall’incapacità di trovare risposte al cambiamento in atto? Erano egemoni negli anni novanta ora sono quasi ovunque all’opposizione. E che fine hanno fatto i partiti di ispirazione cattolica? Bisognava, nel far nascere il Pd, essere capaci di saldare il senso di una storia e una cultura politica tutta nuova, tutta nuova. Non la giustapposizione di ciò che preesisteva ma lo sforzo di portare un sistema di valori in un mondo nuovo con una posizione politica e programmatica forte e dei valori riconoscibili. L’idea che mi muoveva era quella di fondare un partito riformista di massa, un inedito nella storia italiana. Doveva avere una propria cultura autonoma, una struttura di partito aperto, idee coraggiose per coniugare crescita e equità, doveva essere discontinuo per introdurre una nuova etica pubblica. Questo è stato il lavoro intenso di quei mesi: la carta dei valori, la creazione di comitati che in tutta Italia fecero nascere, anche oltre i partiti tradizionali e le loro strutture e dirigenti, la nuova forza che raccoglieva ed esprimeva un entusiasmo che porto ancora negli occhi e nel cuore. Il movimento di Grillo, in quella prima metà del 2007, prima della nascita del Pd, aveva già mostrato la sua forza, con decine di migliaia di persone che partecipavano alle manifestazioni del cosiddetto vaffa day. Ma, anche qui voglio essere schietto, la nascita del Pd, per la sensazione di novità che trasmetteva, arginò quel fenomeno. Lo vedemmo nelle urne, alle elezioni di Aprile, il cui esito era purtroppo, in termini di governo, scritto nei sondaggi da più di un anno. Il Pd raccolse, alla sua prima uscita, dodici milioni di voti, e raggiunse una percentuale di più del 33 per cento. Un dato storico, finora ma spero per poco tempo ancora, mai più raggiunto in elezioni politiche. E conquistato dopo una campagna elettorale davvero entusiasmante. Quale era, sul piano politico, la novità rappresentata dal Pd? Era la “vocazione maggioritaria”, cioè l’ambizione di dimostrare che, in questo tempo nuovo, alla sinistra riformista non fosse riservata la sola possibilità, per governare, di trovare alleanza funamboliche, come quella da Mastella a Ferrero, che magari potevano affermarsi di un soffio alle elezioni ma poi non riuscivano a governare. Per il Pd delle origini vincere le elezioni era un mezzo, non un fine. Avevamo verificato, torno alle parole di Prodi, come la eccessiva eterogeneità di una coalizione impedisse l’azione riformista e persino la stabilità necessaria. Bisognava voltare pagina e costruire le condizioni politiche e istituzionali della democrazia dell’alternanza. Quelle politiche prevedevano l’idea di una sinistra riformista a vocazione maggioritaria, innovativa nei programmi e radicale nelle ambizioni di cambiamento sociale. Sinistra, che non è una brutta parola. Sinistra moderna, sinistra del cambiamento possibile. La sinistra conservatrice è un ossimoro. Così come lo è l’idea di un partito democratico che non sia di sinistra. Le elezioni americane ci stanno ricordando il valore di una differenza che bisogna far emergere. Il Pd esiste solo se è a vocazione maggioritaria e la vocazione maggioritaria esiste solo se il Pd è una forza aperta della sinistra riformista moderna. Né un partito di centro modernizzato, né una forza di sinistra tradizionale possono aspirare a nulla di utile in questo paese smarrito. Ma la nascita del Pd portava con sé anche il completamento di un percorso travagliato di innovazione del sistema politico e istituzionale. Non ho cambiato idea: credo in una democrazia dell’alternanza, in un sistema maggioritario, in un governo autorevole controllato da un parlamento forte, in regolamenti delle assemblee che assicurino diritti alle minoranze. Ma, in una democrazia moderna, devono essere gli elettori a scegliere il governo, il governo deve essere messo in condizioni di attuare pienamente il mandato ricevuto, le opposizioni devono controllare l’azione di governo e prepararsi alle elezioni successive. Davvero vogliamo tornare ai governi fragili, prodotti dalle trattative tra partiti deboli, esposti ai giochi delle imboscate politiche e parlamentari? Non ci rendiamo conto che viviamo un tempo in cui è la stessa idea di democrazia ad essere messa in discussione? E l’idea di tornare al proporzionale, il gioco dell’oca del quale ho già parlato qui, è secondo me foriera di una pericolosa instabilità di governo. Oggi davvero pericolosa per le istituzioni. Una democrazia che non decide, la storia lo dimostra, è destinata ad essere travolta, specie in tempi di crisi, da qualcuno che interpreta il bisogno di decisione privandolo della democrazia. Il Partito Democratico, non smetto di pensarlo, è la principale risorsa di governo europeo e riformista per l’Italia. Deve essere liberato dai capicorrente e dai capobastone che hanno fatto fuggire tante persone che volevano aiutare. Deve essere aperto e deve rispettare e capire chi è diverso da sé. Deve includere e mettere in movimento. Deve essere orgoglioso delle sue radici e farsi parte del futuro possibile. Deve combattere e non indulgere o inseguire populismi e demagogie. Deve avere valori, morali e politici, che lo facciano sentire dalle persone oneste e dalle persone che soffrono come la loro casa. Buon compleanno a tutti coloro che hanno vissuto questi nove anni, che hanno discusso, che litigano, che hanno passione politica. Io ho messo un seme, con milioni di italiani, in quel tempo ormai lontano. Tocca a voi, oggi, far crescere la pianta. Fatelo insieme, viene meglio Da - http://www.unita.tv/opinioni/il-partito-democratico-nove-anni-dopo/ Titolo: Walter VELTRONI. - Sveglia, prima che sia troppo tardi Inserito da: Admin - Novembre 14, 2016, 05:31:48 pm Opinioni
Walter Veltroni @veltroniwalter · 13 novembre 2016 Sveglia, prima che sia troppo tardi Insisto da tempo sulla dimensione (per me sconvolgente) della crisi della democrazia in Occidente Il titolo dell’ultimo editoriale, quello di domenica scorsa, era Il mondo sospeso. Scrivevo, al termine della più brutta campagna elettorale della storia americana, che non mi fidavo dei sondaggi, che l’America non è quella delle aree metropolitane, che il mondo era a un passo dalla svolta che avevamo paventato, su queste colonne, da luglio dell’anno scorso. Non sono un indovino, non faccio il bastian contrario di giornali, di pagatissimi uomini dei polls, dei bookmakers. No, semplicemente osservo, come la mia posizione di oggi, lontana, per scelta, dalla ruvidità del centro del ciclone, mi consente di fare. E, chi legge queste colonne lo sa, insisto da tempo sulla dimensione, per me sconvolgente, della crisi della democrazia in Occidente. Lo dissi al Lingotto, quando tutto sembrava correre veloce verso il sole. Non sono pessimista, a chi vuole cambiare il mondo non è consentito. Uso la ragione, come mi è stato insegnato tempo fa. Proviamo a mettere in ordine le cose che sono cambiate, nel breve tempo della storia che abbiamo vissuto. La storia non si calcola a giorni o a mesi, come facciamo con le nostre vite. La storia è fatta di fasi, quelle con cui, chi la guarda all’indietro, ordina e fornisce coerenza alle cose accadute. La giusta datazione dell’inizio del tempo storico che viviamo, di questo grande rivolgimento, è il 1989. Quando cadde, sotto la spinta di un processo di liberazione dato dalla crescita economica, il Muro di Berlino e, con esso, l’equilibrio politico, strategico, militare che aveva retto il mondo per quarant’anni. La storia è finita, la democrazia ha trionfato annunciarono molti analisti. Sembrava che la forza della libertà e l’irrinunciabilità dei diritti individuali e collettivi fossero inarrestabili. Il mondo, che aveva visto cadere i regimi fascisti del sud dell’Europa e del Sud America, ora registrava l’arrivo di milioni di esseri umani a bordo della nave inaffondabile della democrazia. Ci fu un ciclo di espansione economica e di speranza diffusa di equità sociale che espresse i governi riformisti in Usa, Italia, Francia, Germania, Inghilterra. La sinistra cresce in tempi di speranza economica e sociale, la destra in quelli di paura diffusa. D’altra parte, non dimentichiamolo mai, una si chiama progressista e l’altra conservatrice. Così è stato, in quel tempo. Poi è arrivato quel giorno di settembre del 2001 e tutto è cambiato. Il più grande attacco straniero sul suolo americano da Pearl Harbor non poteva non mutare i paradigmi di un mondo in cerca di un equilibrio. Siamo precipitati, inseguendo inesistenti “armi di distruzione di massa”, in un conflitto che non ha sconfitto il terrorismo ma ha finito col produrre effetti non calcolati. I muscoli americani hanno prevalso sul cervello americano e quell’area ha cominciato a destabilizzarsi senza che fosse prevista una strategia analoga a quella che orientò il secondo dopoguerra del novecento. Nel 2008 la crisi devastante dell’economia mondiale ha aperto un ciclo recessivo in tutto l’Occidente, un ciclo che, salvo gli Usa, non sembra destinato a finire, dopo quasi dieci anni. Si sono perduti posti di lavoro, patrimoni, certezze. Le saracinesche sono scese come una mannaia su imprese e negozi, per milioni di persone il lavoro è diventato l’incubo di perderlo. Dieci anni così. Tutto è diventato precario, nella vita delle persone. In primo luogo il rapporto con il lavoro. Il proprio, che si vive come provvisorio e quello dei figli che si vedono destinati ad una retrocessione di ruolo sociale rispetto all’inarrestabile ascensione che ha caratterizzato la vita delle famiglie occidentali dal dopoguerra ad oggi. Nelle frettolose analisi delle elezioni americane è passata solo una parte della verità: la conquista di consenso repubblicano nelle roccaforti operaie squassate da chiusure di aziende prodotte dalla concorrenza internazionale. Tutto vero, come vera è l’immagine di un pensiero democratico lontano da questo dolore sociale. Ma la realtà, come sempre è più complessa. Si guardino le analisi differenziate. Trump ha avuto il massimo del consenso nelle fasce di età dai 45 in su e la Clinton ha invece prevalso tra i più giovani. Ma la candidata democratica ha ottenuto il massimo dei voti nei ceti più poveri della popolazione mentre ha perso brutalmente nelle fasce di reddito medio. È la grande crisi di quella enorme zona mobile della piramide sociale che determina oggi la fase che viviamo. Il dolore degli ultimi e la paura degli intermedi. È a loro, vittime principali della crisi, che la sinistra moderna dovrebbe guardare. E poi il fattore più sottovalutato: la portata antropologica e sociale della rivoluzione tecnologica. Schematizzo e mi scuso: le tecnologie hanno ridotto il lavoro senza produrre ricchezza redistribuita e hanno alterato, il tempo ci dirà se in bene o in male, tutte le nostre relazioni più importanti, quelle del sapere e del comunicare, quelle dell’amare e del socializzare. L’uomo moderno è solo, sempre di più, ed è immerso in un sistema vorticoso di contatti e di conoscenze che sono frammentate, rapsodiche, voraci, semplificate. Ha completamente modificato il suo rapporto con il tempo e agisce in un universo cognitivo scritto sulle sabbie molli: un delirio di false notizie, di allarmi separati dalla ragione, di costante riduzione della complessità. Sono in crisi tutti gli agenti unificanti, a partire da quelli della comunicazione. Si può dire che sia il tempo in cui è tramontato il concetto del Novecento di opinione pubblica. Ed è venuto il momento di dirsi chiaramente che la cecità politica ha determinato una grave conseguenza: sono spariti o ridimensionati tutti gli agenti unificanti della società: partiti, sindacati. L’idea di coltivare la disintermediazione ha reso la relazione della democrazia un gioco a due tra un vertice lontano e una platea infinita e indistinta che fatica a razionalizzare e può essere preda di ogni pulsione emotiva. E oggi è la paura il cemento favorito per attivare processi di unificazione elettorale. Paura che si vende facilmente, al mercato della comunicazione esplosa. Paura che porta al paradosso, nel tempo globalizzato, di una società chiusa, di un riflesso identitario come reazione al mistero dell’altro. Da qui si generano le pulsioni protezionistiche ben presenti nei programmi del populismo mondiale. E l’Europa, ferita a morte dalla Brexite dalla sua incapacità di corrispondere ad un bisogno di crescita e equità, rischia di essere la vittima eccellente di questa nuova fase. E così nasce la voglia del vaff, del calcio al tavolino, della rabbia nichilista. Quella che sta attraversando, come un’onda grigia, tutto l’Occidente. Non ci stancheremo di ripetere che la democrazia è stata, lo ha ricordato recentemente Michele Ainis, una piccola parentesi nella storia della vicenda umana. Il dominio, per secoli, lo hanno avuto varie forme autoritarie. E la storia ci insegna che il bisogno di semplificazione autoritaria nasce proprio dalla combustione di diversi elementi: la recessione e l’iniqua distribuzione della ricchezza, la crisi della capacità di decidere della democrazia, la difficoltà di partiti e soggetti collettivi. Il cittadino restato solo, spaventato dalla paura di precipitare socialmente, diffidente verso gli altri, finisce con l’invocare un uomo forte, che lo liberi dalla paura, dia ascolto e risposta alle sue ansie, metta ordine nel caos. Per farlo sceglie non importa chi. Purché arrivi da un presunto nulla, come un cavaliere ricco e spietato. A lui non si chiederà nessuna delle virtù che si pretendono da un politico: Trump, riporta La Stampa, ha detto: «Potrei andare sulla Fifth Avenue, mettermi a sparare e non perderei un voto». E ha ragione. Non so quanto durerà, perché la divisione establishment-anti establishment che oggi rende “immune” chi sostiene la seconda causa ha, dentro di sé, il trabocchetto autodistruttivo che trasforma in breve tempo in uomo del potere chi assume il potere in nome del populismo. E, a conferma, il nemico della grande finanza, il candidato che bollava Hillary Clinton come l’espressione delle banche ha annunciato, tra le prime misure, la cancellazione di alcune norme della legge Dodd-Frank voluta da Obama che introduceva limiti alle speculazioni finanziarie. Il mondo sta virando e non sappiamo dove andrà. Il vento è di burrasca. La cosa peggiore è non capire da dove viene. Nell’asilo Mariuccia, che è diventato il discorso pubblico del nostro paese, tutto questo non esiste. Ci si chiede semmai come lucrare a breve qualche voto dalla vittoria di Trump, roba assurda. E, siccome in Italia è sempre l’8 settembre, ora spuntano come funghi i sostenitori della prima ora del nuovo presidente americano. L’ufficio della Casa Bianca è il più difficile del mondo. Ora lo abita un uomo che non ha alcuna esperienza politica o militare, che ha sinceramente affermato di non conoscere il mondo. Dobbiamo sperare che il suo mandato assomigli al discorso della prima notte piuttosto che a quelli con i quali ha preso i voti. Altrimenti il vento diventerà burrasca. Verrebbe da dire, specie a sinistra, di stare molto attenti. Di fronte a questa fase inedita la sinistra può compiere i suoi due errori tradizionali. Mettersi a rincorrere il populismo o l’antieuropeismo o non capire la necessità di un discorso di redistribuzione che assuma il tema della caduta di ruolo sociale come centrale per la sua azione. Ma il paradosso contrario sarebbe anche grottesco. Sarebbe ridicolo se la sinistra, in questo mondo sconvolto da un muramento gigantesco che investe tutta la sfera della vita degli umani pensasse, come fa tradizionalmente quando è smarrita dal nuovo, che la soluzione è tornare al Novecento, a quelle ricette, a quelle opzioni. Che il tempo inedito si affronti con lo sguardo al passato. O la si smette di litigare, si torna a cercare di capire la società, di interpretare il dolore e le ansie del popolo, si rafforza il riformismo sociale e la capacità di innovare o tutto finirà male. Davvero male. La sinistra debole e divisa, vecchia o elitaria è un fattore di questa crisi. Fu così, in altri momenti tragici della storia. Sveglia, prima che sia troppo tardi. Da - http://www.unita.tv/opinioni/prima-che-sia-troppo-tardi/ Titolo: Walter VELTRONI. Il pericolo della post verità Inserito da: Arlecchino - Novembre 28, 2016, 08:37:52 pm Opinioni
Walter Veltroni - @veltroniwalter · 26 novembre 2016 Il pericolo della post verità Comunicazione Oggi è facile semplificare fino a distorcere. Queste righe solo per richiamare tutti noi alla bellezza dello spirito critico, alla capacità di leggere la realtà nella sua complessità Ha fatto bene, anzi benissimo, Laura Boldrini a rendere noti, con nomi e cognomi, i messaggi offensivi e sessisti da lei ricevuti nel tempo. Bisogna leggerli, per capire la spirale di orrore nella quale si rischia di precipitare. E l’idea della donna che sopravvive, come una bestia immortale, al modificarsi del tempo. Al trivio reso discorso pubblico si unisce il desiderio del dolore e della morte atroce di chi ha idee diverse dalla propria. Si insulta, si aggredisce, si minaccia. Tutto impunemente. Le parole diventano violente ed è questa, da sempre, l’anticamera della violenza. Ma tutto il circuito comunicativo oggi è sottoposto a fenomeni morbosi, per usare un’espressione gramsciana. Oggi, ad esempio, si fa strada semplicemente, come fosse ovvia, l’idea che circolino ampiamente, tra l’opinione pubblica, informazioni false, costruite ad arte per interessi di varie natura. Nobilitando quelle che potrebbero essere altrimenti dette delle insulse menzogne, questo dileggio della realtà è stato gentilmente definito la “post verità”. Se ne parla come fosse una frivola moda del tempo, come il Pokemon Go, che per tre settimane è stato il fesso protagonista della stampa mondiale e ora giace, goffo, nella polverosa soffitta dei ricordi inutili. A me non viene da scherzare o da sottovalutare questo fenomeno nuovo e inquietante. Lo prendo sul serio e mi fa orrore, come il clima infernale che la nuova dimensione del discorso pubblico sta prendendo. Urla e balle, odio e certezze assolute, ce n’è abbastanza per aspettarsi il peggio. Trovo, in questo, conferma della necessità di monitorare bene le grandi mutazioni che stanno intervenendo nei processi di selezione e diffusione della conoscenza nel mondo nuovo. Quando ci renderemo conto che quella in corso è una rivoluzione tecnologica paragonabile a quella che portò, nella seconda metà dell’ottocento alla nascita della società moderna, delle città, delle classi sociali e di forti idee politiche? Oggi sta succedendo qualcosa di persino più grande, perché più invasivo, anche perché avviene non in una fase espansiva dell’economia. La immensa e affascinante trasformazione di ogni modalità del vivere sta cambiando tutti i codici, tutte le relazioni tra sé e il tempo, tra sé e gli altri. E, poi, tra sé e il lavoro, precario e incerto, e tra sé e la democrazia. Cose grandi, passaggi di fase storica di cui i singoli frammenti non possono essere capiti senza uno sguardo d’insieme. La vittoria di Trump non può essere spiegata con analisi ordinarie, come la Brexit, quello che avviene in Turchia, l’affermazione del populismo su scala mondiale… Leggere, in proposito, l’articolo di George Monbiot sul Guardian a proposito delle tredici crisi che l’umanità ha di fronte. Ma soffermiamoci sulla coda della cometa, sulla cosiddetta post verità. Un sito internazionale ha raccolto, nel 2015, la prova che almeno 76 fotografie, divenute virali in rete, erano false, manipolate. La notte del Bataclan circolò la notizia che, nelle stesse ore, un terribile terremoto aveva provocato migliaia di vittime in Giappone. La campagna sulla Brexit è stata alimentata dalla notizia, inventata, che la Gran Bretagna pagava 350 milioni di sterline a settimana per l’Europa. Dopo gli attentati di Parigi è circolata la foto di uno dei presunti attentatori, solo che era in realtà un pacifico critico di videogiochi impegnato in un selfie nel bagno con un Ipad, prontamente trasformato graficamente in libro del Corano, e a cui era stato, con il Photoshop, aggiunta una cintura esplosiva al fianco. Circola, in questi giorni, un video che raccoglie dichiarazioni di dirigenti della sinistra contro le proposte di riforma della Costituzione di Berlusconi. E lo si usa per mostrare una palese contraddizione con il sostegno che le stesse persone hanno dichiarato al sì nel referendum del 4 dicembre. Non lo sarebbero state neanche se si fossero riferite a quando, nel 2006, Berlusconi approvò una riforma nella quale il premier aveva il potere di scioglimento delle camere e di nomina e revoca dei ministri, qualcosa evidentemente di molto diverso da ciò di cui discutiamo oggi. Ma quelle dichiarazioni si riferiscono invece a una manifestazione che il Pd promosse nel 2009 quando Berlusconi dichiarò, da presidente del consiglio, che la Costituzione era filocomunista e che si proponeva interventi sulla carta per limitare l’autonomia dei giudici e per far avanzare il presidenzialismo. Di questo si trattava. Non del superamento del bicameralismo perfetto o dello scioglimento del Cnel. In quella occasione Scalfaro, che parlò per tutti noi, chiarì: «Non abbiamo mai detto che non si può toccare la Costituzione – ha proseguito – vogliamo aggiornarla, ma non si può stravolgerla. Non si possono toccare i valori di fondo, la libertà, la giustizia, i diritti primari delle persone». Affermazione che condivido in toto. Dunque ciò che è diverso, in quel video, non è l’opinione delle persone ma l’oggetto del loro giudizio. Propaganda per ingannare i cittadini, alimentata da una manipolazione, gravissima, nella quale è caduta onestamente anche una persona dabbene come Maurizio Crozza. Ciascuno di noi dovrebbe cercare di dire la verità, essere sempre attraversato dalla meraviglia del dubbio, e accettare la complessità. Oggi invece è più facile fermarsi al titolo che entrare nei contenuti. Semplificare fino a distorcere, che volete che sia. Molto sulla rete è così, ma la colpa non è solo della rete, sottratta alla mediazione responsabile del giornalista. Come ha dimostrato Luca Sofri nel suo bel volume Notizie che non lo erano, ormai anche i giornali, per inseguire lo spirito del tempo, costruiscono o ospitano deliberate, non casuali, fandonie. Queste righe solo per richiamare tutti noi alla bellezza dello spirito critico, alla capacità di leggere la realtà nella sua complessità, al guardarsi dalla emotività che vogliono indurre fabbricanti, consapevoli o no, della post verità. Altrimenti si potrà finire col credere davvero che le camere a gas di Birkenau non siano mai esistite ma che, cito da uno dei testi dei negazionisti, «quei mucchi di cadaveri furono il prodotto di una epidemia di tifo prodotta dai bombardamenti alleati». Il mio amico Shlomo Venezia, uno dei meravigliosi sopravvissuti allo sterminio degli ebrei, mi raccontava sempre che quando tornò da Auschwitz la sua pena maggiore stava nel non essere creduto quando raccontava ciò che aveva vissuto e visto. Degli ebrei, per sostenerne l’eliminazione, era stato detto di tutto, inventato di tutto. Non dimentichiamolo, mai. Da - http://www.unita.tv/opinioni/il-pericolo-della-post-verita/ Titolo: Walter VELTRONI. - Le riforme necessarie Inserito da: Arlecchino - Dicembre 05, 2016, 04:51:05 pm Opinioni
Walter Veltroni @veltroniwalter · 4 dicembre 2016 Le riforme necessarie Questa campagna è stata segnata da distorsioni della realtà che sono il vero obiettivo della cosiddetta “semplificazione” Io spero che molti cittadini vadano a votare. Da quando sto al mondo sono sempre andato alle urne, non ho mai accettato inviti all’astensione, neanche in occasione del referendum sulle trivelle. Votare è bello. E, in queste settimane, la politica è tornata nelle discussioni delle famiglie, ci si è fermati a riflettere sul proprio paese, sul nostro futuro collettivo. Ma, nonostante questo, è stata la più brutta campagna elettorale che io ricordi. I toni, la violenza delle parole, la rimozione del contenuto oggetto del referendum, tutto ha finito col trasformare questa consultazione in qualcosa di diverso dal suo merito. Si voterà su altro: sul governo, sulla politica europea, sui migranti. Su ogni cosa possibile, meno che sul merito. Ma, al di là di questo, mi ha molto colpito, come ha ben notato Michele Serra, il tono delle parole, il senso di odio e di contrapposizione che trasudava da esse, fino all’accusa preventiva di brogli. «Ciò che oggi provoca angoscia è lo sfarinamento del tessuto del Paese, la fatica di immaginare un futuro e la delegittimazione violenta di chiunque non sia o non la pensi come noi. È tale la canea che le persone più ragionanti, pacate e positive sono ormai tentate di chiudersi nel privato, di non impegnarsi in nulla che sia pubblico e sperare che passi la bufera. È tempo per gladiatori e si fatica ad immaginare schiarite all’orizzonte», così ha giustamente descritto questi mesi il direttore di Repubblica Mario Calabresi. Ho sentito manipolazioni della realtà di ogni specie. E, attenzione, la manipolazione sta diventando un virus terribile e maledetto delle società contemporanee. Trump ha sconfitto la Clinton accusandola di essere l’espressione del potere finanziario. Si guardi il governo che sta componendo: militari e banchieri. Il populismo sembra immune alla verità e tutto ad esso sembra consentito, anche il contraddirsi in modo pacchiano, tradendo tutti gli impegni presi. Questa campagna è stata segnata da distorsioni della realtà che sono il vero obiettivo della cosiddetta “semplificazione”. Tra queste segnalo, ad esempio, il mettere sullo stesso piano la riforma approvata dal centro destra e quella che, per tre volte, il centrosinistra unito ha varato in questa legislatura. In quella di Berlusconi, solo per fare un esempio, era previsto che il premier potesse sciogliere le camere e nominare e revocare i ministri, prerogative del capo dello stato che restano inviolate dalla legge oggi al giudizio degli italiani. E, l’ho scritto domenica scorsa, per indicare una contraddizione dei sostenitori del sì, si è cercato di far credere che fosse riferito al superamento del bicameralismo un giudizio durissimo che tutti noi demmo invece quando Berlusconi, nel 2009, disse che la Costituzione era filocomunista, si propose di limitare l’autonomia dei giudici, voleva avviare il presidenzialismo, ciò che peraltro ha ribadito di voler fare oggi. La campagna è stata fatta tutta così, allucinante. O, come ha detto giustamente Napolitano, «aberrante». La realtà è che, per me, questa riforma non è né la panacea di tutti i mali, come non Renzi ma qualche pasdaran del sì ha sostenuto, né, certamente, la deriva autoritaria ventilata, in modo poco responsabile, da certi sostenitori del no. L’autoritarismo vero lo vediamo alle porte dell’Europa dove, nel silenzio di tutti, accade che chi si oppone al governo venga sistematicamente sbattuto in galera. Cerco di ragionare, in questo clima da rissa da saloon: il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari, la certezza dei tempi per l’approvazione delle leggi, la revisione del titolo V sono misure che, seppure in modo non sempre organico, vanno nella direzione che, almeno la sinistra, auspica da tempo e anche per questo io mi auguro vinca il sì. E credo sia la stessa ragione che ha mosso la analoga scelta di Romano Prodi. Vorrei ricordare che le tesi dell’Ulivo del 1996 erano ben più radicali: «Nessun cambiamento della forma di governo può assicurare davvero coerenza ed efficacia all’azione governativa, se non si organizza adeguatamente la struttura stessa del governo, oggi caratterizzata da segmentazione (i vari ministeri come “repubbliche” autonome), e da debolezza della guida centrale. Il nostro programma istituzionale si incentra sul rafforzamento della figura del Primo ministro al quale devono essere riconosciuti espressamente : – il potere di scegliere i ministri e di proporne al Capo dello Stato la revoca in caso di dissenso rispetto all’indirizzo governativo; – il potere di dirigere e coordinare effettivamente la politica generale del governo, essendo pienamente informato dell’attività dei singoli ministri, potendo sospendere i loro atti e devolvere la decisione al consiglio dei ministri; guidando direttamente l’azione delle rappresentanze italiane presso le istituzioni europee; disponendo di un’unica struttura tecnica centrale deputata all’elaborazione di tutti i progetti di legge governativi, degli emendamenti governativi ai progetti di legge in discussione al parlamento, dei regolamenti governativi; – il potere di condizionare l’organizzazione dei lavori delle camere per assicurare la tempestiva discussione delle proposte governative; – il potere di opporre un veto alle iniziative ed agli emendamenti parlamentari tendenti ad accrescere la spesa, sia in sede di discussione delle leggi di bilancio e finanziarie, sia in sede di discussione delle leggi di spesa. Deve essere ridotto il numero dei ministri che partecipano al consiglio dei ministri senza escludere l’introduzione di figure di ministri “juniores” con compiti delimitati, che non partecipano al consiglio. Va abolita la necessità di organizzare le funzioni governative e amministrative centrali attraverso ministeri, rendendo possibile la creazione di strutture di governo flessibili e di strutture amministrative poste sotto la guida di dirigenti professionali scelti dal governo e resi responsabili dell’impiego delle risorse e dei risultati della loro azione.» E quelle della coalizione dell’Unione nel 2006, che , come ricordiamo, teneva insieme Mastella e Rifondazione: «Oltre al sistema elettorale, per assicurare una connessione tra rappresentanza e governabilità riteniamo indispensabili alcune misure che rafforzino il Parlamento e rendano, al contempo più efficace l’azione di governo: – l’attribuzione al Primo Ministro del potere di proporre al Presidente della Repubblica la nomina e revoca di ministri, viceministri e sottosegretari; – una migliore regolamentazione della questione di fiducia, con la previsione di specifici limiti al suo esercizio; – la possibilità di sfiduciare il Primo Ministro solo attraverso una mozione di sfiducia costruttiva, con l’esplicita indicazione di un candidato successore». In tutti e due i documenti era molto presente l’idea di una democrazia fatta del rafforzamento simmetrico del potere di decisione del governo e di quello di controllo del parlamento. E questa è, per me, la strada maestra. Un parlamento che eserciti in forma severa e cogente la funzione di “cane da guardia” dell’esecutivo e un governo che sia messo in condizione di attuare il programma per il quale è stato scelto dagli elettori. La riforma oggi al giudizio degli elettori fa dei passi in avanti in questa direzione. La democrazia moderna, per resistere alla tempesta in corso deve, sottolineo deve, scegliere un più potente sistema di check and balance tra governo e controllo, il contrario di quel consociativismo, il cui asse era le debolezza reciproca, che tanto ha pesato nel passato. E deve farlo presto perché la tendenza delle società moderne e delle loro emotive opinioni pubbliche è oggi quella di considerare la democrazia con i suoi due pilastri portanti la processualità delle decisioni e la delega- un fastidioso orpello. Il moderno populismo tende a rimuovere tutte le forme di mediazione organizzata della società per stabilire un rapporto unico, quello tra i consumatori di informazione, spesso alimentata dalle balle della post verità, e un leader solitario e magari non scelto da nessuno. Il leader e un click, in mezzo il nulla. Chi ama la democrazia, e non a parole, sa che oggi bisogna fare un passo in avanti nella sua capacità di decidere e di farlo in modo veloce e trasparente. Chi ama la democrazia sa che il volere del popolo non è un pollice su o giù, come al Colosseo, ma che esso deve esprimersi in una nuova rete di democrazia di comunità che responsabilizzi e coinvolga nella complessità i cittadini. Altro che disintermediazione, qui ci vuole una democrazia dal basso fortissima e diffusa. Chi ama la democrazia sa che il pluralismo vero e la qualità culturale dell’informazione sono presidi della libertà. Chi ama la democrazia sa che, quale che sia l’esito, bisognerà aggredire la drammatica questione sociale, della quale, sono certo, vedremo il segno nei comportamenti degli elettori. Credo anche che si debba mettere mano alla riforma dell’Italicum, e che si sarebbe dovuto tradurre per tempo in articolato di legge l’accordo maturato nel Pd, e penso che , con la sconfitta del sì, si aprirebbe, con la crisi di uno dei pochi governi a guida progressista rimasti, una prospettiva di instabilità politica che è il contrario di quello che la durezza della situazione sociale del paese richiederebbe. Oggi si vota anche in Austria e non resta che sperare che l’onda nera del populismo di destra non prevalga anche lì compromettendo seriamente la stessa unità europea. Quel populismo che non si vezzeggia, non si rincorre, non si imita, ma si combatte con una battaglia culturale a viso aperto e con una forte capacità di innovazione. Ho visto altri referendum nella mia vita. Scontri duri, che chiama vano in causa cose profonde, come nel caso dell’aborto, del divorzio, dell’ergastolo. Come che sia, da domani il paese scoprirà di essere diviso, quasi a metà. Nessuno, se ha testa sulle spalle, potrà prescindere da questo. Chiunque, se ha a cuore il paese, dovrà lavorare per unire. Non ci dovranno essere né scalpi da esibire né gente da cacciare. È il tempo dell’inclusione, in ogni caso. Oggi si vota, è una buona giornata per la democrazia. Votate e, in ogni caso, fatelo non con il fegato, ma con il cervello e con il cuore. Da - http://www.unita.tv/opinioni/le-riforme-necessarie-referendum-4-dicembre-veltroni/ Titolo: Walter VELTRONI. - Riforma e governabilità Crisi di governo Inserito da: Arlecchino - Dicembre 12, 2016, 03:37:54 pm Opinioni
Walter Veltroni @veltroniwalter · 11 dicembre 2016 Riforma e governabilità Crisi di governo Credo sarebbe ragionevole invece immaginare una struttura per collegi, con uno sbarramento significativo e un limitato premio di governabilità per la coalizione vincente Quando questo giornale sarà nelle mani dei lettori probabilmente la crisi di governo apertasi dopo il referendum avrà avuto una soluzione. La saggezza del presidente della Repubblica Mattarella e il senso di responsabilità delle forze politiche, in primis il Pd, aiuteranno questa prospettiva. Almeno è quanto ci si deve augurare. Io oggi vorrei soffermarmi solo su due punti. È chiaro che questa travagliata legislatura volge al termine anticipato. Non mancheranno tempo e occasioni per una analisi lucida dei processi politici, intrecciati a quelli sociali, che hanno segnato questa fase concitata della vita pubblica italiana. Oggi mi preme dire due cose: la prima è che il necessario iter di revisione della legge elettorale dovrebbe non attendere la sentenza della Corte ma avviarsi subito, in Parlamento. Il governo dovrebbe limitarsi ad un’azione di impulso ma credo sarebbe ragionevole che, da subito, i presidenti delle commissioni affari costituzionali attivassero un tavolo con tutte le forze parlamentari per trovare un’intesa lungo i principi che la Corte ha già delineato con la sentenza che intervenne sul Porcellum e che immagino ribadirà a gennaio. La legge elettorale, specie nelle condizioni date, deve essere il prodotto di un ampio consenso e il lavoro per individuarla credo dovrebbe partire immediatamente. Il secondo tema di riflessione riguarda l’assetto di un sistema che rischia di impazzire, contribuendo alla palese e grave crisi della democrazia che sta, solo chi non vuole vedere può negarlo, mostrando limiti evidenti nel governo delle società veloci e complesse di questo inizio di secolo. Cominciare subito il lavoro significa evitare errori di improvvisazione, concessioni alla demagogia o furbizie di ogni risma. Quando ho visto sfilare al Quirinale, per le consultazioni, diciassette sigle diverse ho pensato che quello resterà come uno dei simboli del processo degenerativo delle nostre istituzioni. Davvero, in una democrazia moderna, ci sono venti e più radicate culture politiche, venti autentici riferimenti ideali tali da giustificare una simile frammentazione, ammantata da pompose e fantasiose autodefinizioni? Non aver posto mano ai regolamenti parlamentari, come proponemmo di fare nel 2008, rende possibile che si costituiscano soggetti che riuniscono uno o due deputati o senatori. Ho letto di partiti che vorrebbero ora un sistema proporzionale con uno sbarramento inesistente, al due per cento. Torneremo ad avere quelle coalizioni elefantiache e contraddittorie pronte a cadere per una bizza o un posto da sottosegretario? Davvero questa è la soluzione agli immensi problemi di governabilità del nostro paese che, anche in questa legislatura, ha sperimentato più governi? L’Italia può bellamente avviarsi verso il suo passato, quello fatto di frammentazione e instabilità? Se il nostro paese, al culmine della sua crisi democratica, scegliesse un sistema proporzionale puro, magari senza premi di governabilità o sbarramenti significativi, mostrerebbe di essere in balia degli eventi e degli egoismi. Si dice, giustamente, che l’assetto ormai tripolare del paese deve far riconsiderare l’Italicum e uscire da una concezione ideologica del maggioritario. Ma la stessa considerazione vale per la definizione di un sistema proporzionale puro. Cosa verrebbe fuori, con il tripolarismo, dopo le elezioni? Forse una situazione simile a quella delle passate consultazioni. Tre coalizioni di pari dimensione. E allora? Facciamo due ipotesi. Che il Movimento cinque stelle abbia più voti degli altri ma non la maggioranza per governare. Cosa accadrebbe? Probabilmente gli altri due poli si alleerebbero per dare un governo al paese. Un governo contro, e un governo che escluderebbe chi avrebbe prevalso nel voto popolare. Facciamo un’altra ipotesi: che prevalga la destra o la sinistra ma, sempre, senza avere la maggioranza. L’unica possibilità sarebbe, di nuovo, un governo di larghe intese. Voglio dirlo chiaramente: un proporzionale senza correttivi forti lascia spazio ad una sola soluzione di governo: la colazione Pdl-Pd. Davvero questa è la soluzione in grado di assicurare stabilità e capacità di affrontare con un segno chiaro la grave crisi sociale del paese? E qualcuno pensa che un governo dei due poli uniti, quelli che si sono naturalmente contrastati in questi anni, sia il modo migliore per curare il “pericolo” Cinque Stelle? Io non credo, pensando che un nuovo riformismo socialmente più radicale sia la giusta strada per la sinistra italiana. Riassumo: legge proporzionale senza sbarramento, magari con le preferenze – strumento di condizionamento esterno pericolosissimo – , frammentazione consentita in decine di partiti e partitini assurdi, una sola soluzione per la governabilità, la grande coalizione, e magari una scissione del Pd per tornare ad un partito di centro e uno di sinistra. Benvenuti nel passato, benvenuti nel caos. Credo sarebbe ragionevole invece immaginare una struttura per collegi, con uno sbarramento significativo e un limitato premio di governabilità per la coalizione vincente. Si può lavorare in questo senso a partire dal Mattarellum? Non è mio compito dirlo. Ma so che l’altra soluzione, che appaga gli appetiti di un sistema politico impazzito, porterebbe la democrazia italiana in un vicolo cieco. Si può assicurare governabilità e maggioranze coese anche con il proporzionale, ma senza coalizioni di legislatura e coesione dei governi l’Italia va a sbattere. Intanto credo che il Pd, se questa è la strada, dovrebbe unirsi, smettendo lo spettacolo di odio e divisione messo in campo prima e dopo il voto, e dovrebbe lavorare ad una coalizione coesa programmaticamente ma forte, a cominciare dalla prospettiva indicata da Giuliano Pisapia. È così difficile, nel nostro paese emotivo, mantenere senso di responsabilità ed equilibrio. Così si rischia di passare dall’impianto maggioritario della fase post referendum Segni al ritorno ai bei tempi del dominio dei partiti, allora almeno pochi e veri, che facevano e disfacevano i governi come fosse cosa loro. Manca un teledrin, una canzone di Cristina d’Avena e poi festeggeremo il capodanno del 1990. Da - http://www.unita.tv/opinioni/riforma-e-governabilita/ Titolo: Walter VELTRONI. - Capire il proprio tempo Inserito da: Arlecchino - Gennaio 02, 2017, 06:21:04 pm Opinioni
Walter Veltroni - @veltroniwalter · 31 dicembre 2016 Solo una sinistra coraggiosa e innovativa può evitare che la società si strappi, che la rabbia sociale diventi miscela per il populismo antidemocratico Capire il proprio tempo È stato l’anno dell’odio, uno dei più brutti, sporchi e cattivi che ci sia capitato di vivere. Un anno bastardo anche perché ci ha portato via molto del meglio che avevamo incontrato: Umberto Eco, Ettore Scola, Dario Fo, Vittorio Sermonti, Claudio Pavone, Ermanno Rea, Umberto Veronesi, Paolo Poli, Gianmaria Testa, Giorgio Albertazzi, Alberto Statera un italiano straordinario come Carlo Azeglio Ciampi e poi Tina Anselmi, Marco Pannella. E, nel mondo, voglio citare solo due diversi uomini della pace e dei diritti: Muhammad Alì e il mio amico Shimon Peres. Il 2016 è stato l’anno degli attentati terroristici più feroci: da Nizza a Berlino, da Dacca a Orlando, da Bruxelles a Istanbul. Centinaia di morti, una scia infinita di sangue. E Aleppo, la guerra nel silenzio del mondo. E i corpi degli immigrati in mare. Proviamo a guardare, per un momento, le grandi tendenze, quelle che fanno la storia, emerse in questo anno di fuoco. La prima è la crisi delle democrazie occidentali. Per me è la tendenza più grave, quella foriera di possibili conseguenze drammatiche. La democrazia, come l’abbiamo conosciuta nel novecento, sembra incapace di fronteggiare una società frammentata e interconnessa, solo apparentemente una contraddizione in termini. Il tessuto produttivo e sociale è sconvolto dal coesistere di due novità epocali: la lunghezza della recessione mondiale e gli effetti di una rivoluzione tecnologica che sembra fondata sulla riduzione del lavoro. Si ha un bel dire delle meraviglie di Amazon. Ma quando nelle città avranno chiuso la gran parte delle attività commerciali, sostituite dal braccio del robot che seleziona il prodotto da vendere negli scaffali di immensi magazzini, il paesaggio sociale e umano si renderà più difficile. Mi hanno raccontato che in qualche giornale americano gli articoli vengono già scritti da computer ai quali si forniscono gli elementi essenziali e si richiede un certo tono della prosa. Isaac Asimov pensava, nella sua visione di futuro, che le tecnologie avrebbero sostituito il lavoro manuale, liberando l’uomo dalla schiavitù di attività senza partecipazione intellettuale. Non credo che oggi confermerebbe questa previsione. Le macchine si preparano a sostituire l’uomo in moltissime funzioni, anche quelle più legate alla sfera intellettuale. Il segno del nuovo mercato del lavoro è la precarietà di vita, l’insicurezza materiale delle basi del proprio vivere la difficoltà di progettare il futuro individuale. E, intanto, la sensazione di un progressivo peggioramento delle condizioni di vita proprie e delle generazioni a venire. Si può pensare che tutto questo non abbia a che fare con gli orientamenti dell’opinione pubblica dell’Occidente? Lo stupore dei superficiali di fronte alla vittoria di Trump, evento che domina l’anno che finisce, o al successo della Brexit dimostrano il ritardo terribile del pensiero critico, deprivato ormai di ogni dimensione collettiva di crescita e verifica dalla crisi dei grandi agenti unificanti: partiti, associazioni, sindacati, università, giornali. Non si capisce più una società la cui mutazione non viene osservata collettivamente e verificata dallo scambio del pensiero. Il discorso pubblico è demandato a 140 caratteri di banalità e di invettive. Il 2016 è stato anche l’anno in cui la rete si è trasformata in una macchina che, con le sue meraviglie anche sociali, ha mostrato il suo volto peggiore: la capacità di generare menzogne e di sollecitare odio. In rete agiscono, e spesso sono politici di professione e disperati, dei nuovi squadristi che cercano di intimidire i pavidi e di seminare divisione e rancore. Io non credo che il dibattito pubblico abbia fin qui avuto il coraggio, anche per timore, di separare la bellezza dei processi di opportunità che la rete porta con sé dalla barbarie di cui si rende responsabile inventando false notizie e creando un clima sociale di odio e contrapposizione simile a quello degli anni del terrorismo. Il 2016 è stato, lo ha ricordato Saviano, l’anno dei muri. Quelli costruiti, quelli annunciati, quelli minacciati. Il mondo globalizzato si ritrae, impaurito, e immagina di chiudersi in nuove forme autarchiche, particolaristiche, nazionalistiche. Di qui la messa in mora dell’idea di una Europa forte e unitaria, incrinata anche dalle lentezze e dalla incapacità delle leadership del continente. Nel 2017 si voterà in Francia e in Germania. Nel paese dei nostri cugini si annuncia che, se andrà bene, prevarrà una destra, quella di Fillon, che certo non ama l’Europa e, se andrà male, sarà al governo il partito di Marine le Pen. Nella stessa Germania le elezioni non hanno un esito scontato. Il terrorismo ha colpito recentemente lì, con l’evidente obiettivo di mettere in difficoltà la leadership di Angela Merkel. Se la Germania dovesse vedere un’ulteriore affermazione di Afd, la forza della destra estrema, tutta la costruzione europea sarebbe in crisi profonda. Al prossimo G8 siederanno Trump e Putin, la May della Brexit e forse la destra francese. Dopo l’insediamento, scopriremo la realtà della presidenza Trump. C’è da sperare che il ruolo attenui l’estremismo, ma non sono affatto sicuro che sarà così. Anzi, temo il contrario. Ultimo dato del 2016 è la crisi, quasi l’asfissia della sinistra. Non governa più in molti dei paesi in cui era al vertice nella seconda metà degli anni novanta. Allora Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, avevano dei primi ministri di sinistra. Ora? Ora la sinistra deve ripensarsi in un mondo senza classi sociali rigide, con processi violenti di disintermediazione sociale, con la mutazione antropologica delle categorie del pensiero e della relazione umana e sociale in atto, con il bisogno impellente di ridare forza e vigore alla democrazia inventando nuove forme di partecipazione che arginino il populismo barbaro del pollice in su o in giù, come al Colosseo. Non sarà rimpiangendo un passato che non tornerà o assumendo posizioni conservatrici che ciò accadrà. E non accadrà neanche se si cadrà nella tentazione del camuffamento in un indistinto senza identità e valori forti. Bisogna inventare una sinistra di questo tempo. Che sia sinistra, perché forza dei diritti e dell’equità sociale. Che sia dalle parte degli ultimi e di chi ha talento, che abbia voglia di futuro e non si pensi come minoranza balbettante. Che capisca la società, perché il suo corpo è immerso in essa e non lontano dal vivere comune. Un compito immenso, urgente e affascinante. Da vivere collettivamente. Sono parole amare a commento di un anno difficile. Non mi sembrava giusto edulcorare le mie preoccupazioni. Sento la responsabilità, scrivendo su questo giornale, di dire ai nostri lettori ciò che penso davvero. Solo noi, solo una sinistra coraggiosa e innovativa, solo una sinistra che non abbia paura di esserlo, può evitare che la società si strappi, che la rabbia sociale diventi miscela per il populismo antidemocratico. Solo la sinistra può farlo. È questo il mio augurio a chi, leggendo questo giornale, si sente parte di una comunità fatta di valori e di sogni comuni. Sia, il prossimo, un anno buono. Per una parte, dipenderà da ciascuno di noi. Da - http://www.unita.tv/opinioni/capire-il-proprio-tempo/ Titolo: Walter VELTRONI. - Democrazia: rivoluzione o ritorno? Inserito da: Arlecchino - Gennaio 17, 2017, 11:33:51 am Opinioni
Walter Veltroni - @veltroniwalter · 15 gennaio 2017 Democrazia: rivoluzione o ritorno? Oggi la democrazia è, per me, la grande ammalata, di questo nuovo secolo È in uscita, in libreria, La democrazia e i suoi limiti, un saggio di Sabino Cassese, certamente una delle persone più titolate, per profondità di studi ed esperienze, a stimolare una riflessione sul tema. Che è la questione cruciale di questo tempo confuso. Una rivoluzione, parola tante volte invocata, è in corso. Ma la stessa parola rivoluzione ha, letteralmente, un doppio significato: se dal punto di vista politico essa corrisponde al significato di rivolgimento dell’assetto politico e/o istituzionale, dal punto di vista astronomico indica, invece, il tempo che un astro impiega per tornare nello stesso posto tra le stelle. Persino la radice etimologica della parola, ci ricorda la Treccani, rimanda, dal latino, a un significato apparentemente contraddittorio: rivolgimento, ritorno. Stiamo vivendo, quasi inconsapevoli, la più grande rivoluzione degli ultimi cinquant’anni. Stanno mutando modelli di produzione, la definizione stessa di classe sociali, la distribuzione della ricchezza, l’assetto geopolitico del mondo (si pensi solo alla crisi dell’Europa). Stanno cambiando, molto velocemente, i modi di informarsi, di sapere, di comunicare, di stabilire relazioni umane, sentimentali, sessuali. Il parlamento europeo si prepara ad approvare un preoccupato documento sulle implicazioni etiche, giuridiche, sociali della massiccia e crescente introduzione della robotica nello svolgimento di prestazioni fino ad oggi affidate a funzioni umane. Non siamo a Blade Runner, certo, ma davvero già oggi ciascuno di noi potrebbe dire la frase con la quale inizia il monologo del replicante nel film di Ridley Scott: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginare…». E speriamo di non dover mai pronunciare la parte finale di quell’incipit. L’esito di una rivoluzione di questa portata è incerto. Essa può portare ad una società in cui l’essere umano potrà dispiegare le sue facoltà fino all’estremo, in cui non esisteranno limiti possibili ai diritti di vivere la vita in una condizione di piena libertà individuale e collettiva, in cui il sapere si diffonderà travolgendo le barriere sociali e ciascuno vivrà godendo delle opportunità per far valere il proprio talento. Può essere, chi ama la vita e non la morte, la libertà e non la dittatura, deve lavorare per questo. Le grandi rivoluzioni scientifiche richiedono una politica alta e geniale, capace di leggere il mutamento nella sua sconcertante profondità e di elaborare un nuovo lessico. Che sia figlio, però, di un sistema di valori, forte e appassionante. Cassese, nel suo saggio, ci ricorda come, nella sua storia, la democrazia abbia faticato a includere milioni di esseri umani nei suoi processi decisionali. Per lungo tempo milioni di neri, in sistemi detti democrazia, non avevano diritto al voto e in Italia e in Francia le donne hanno potuto partecipare alle consultazioni elettorali solo a partire dal dopoguerra. È un problema che abbiamo ancora oggi: ricorda Cassese che nel 1960 coloro che vivevano in un paese diverso da quello della loro nascita erano 77 milioni (e molti erano italiani, non dimentichiamolo mai). Oggi sono 244 milioni, 136 dei quali nei paesi sviluppati. Per la stragrande maggioranza questi esseri umani vivono subendo gli effetti di decisioni alle quali non hanno partecipato. Oggi la democrazia è, per me, la grande ammalata, di questo nuovo secolo. Non riesce a ritrovarsi e dopo aver demolito tutte le forme di mediazione del rapporto tra governati e governanti si trova sospesa tra la crescente tentazione di forme di potere autoritario che riducano la complessità processuale della democrazia e il suo contrario, la furba utopia di una finta democrazia diretta che in realtà è una nuova forma di partitismo assoluto. Ma la democrazia ha bisogno di essere ripensata, nel tempo di questa caotica rivoluzione. Si devono immaginare forme di democrazia dal basso, di sussidiarietà, che integrino il lavoro delle istituzioni e responsabilizzino i cittadini nella gestione di segmenti rilevanti della propria esistenza: il lavoro, il quartiere, la scuole dei figli. Una democrazia che delega potere, che diventa cabina di regia di grandi scelte, che agisce in trasparenza assoluta, che è rappresentata non, come accade sempre di più, dai pretoriani di correnti senza anima né politica, ma da cittadini che si formino nel fuoco di esperienze di cittadinanza e nei processi formativi di partiti chiamati a ripensarsi nella società, in orizzontale, aprendosi. Non ho mai usato la definizione di partito liquido – che non condivido, come considero assurdo il partito pesante e correntizio – ma ho sempre amato l’idea di un partito aperto, nemico dei capibastone di ogni rango e capace di formare, nel senso letterale del termine, generazioni di ragazzi appassionati di politica e non di potere. Partiti capaci di sentirsi una comunità, unita da un comune sentire e da una passione indefessa per il dibattito, per il senso critico, per il dubbio. Questo, luogo di una comunità e agorà della libera ricerca comune, è stata L’Unità. Spero continui ad esserlo, ce n’è bisogno. Tra qualche giorno negli Stati Uniti si svolgerà la cerimonia di insediamento del nuovo presidente. Credo chiunque capisca che, questa volta, sarà qualcosa di diverso. Sta nascendo qualcosa di assolutamente inedito e la cui portata, da queste colonne previsto in largo anticipo, sarà la storia a misurare. C’è ragione di forte inquietudine. L’America che Obama ha trovato era un paese sconvolto dall’esplosione della recessione. Dopo otto anni la disoccupazione è al 4,9 e si sono creati 15,5 milioni posti di lavoro. Ovviamente il bilancio della sua presidenza è più complesso e anche contraddittorio. Ma i risultati e la popolarità di Obama, al punto massimo in questi mesi, non hanno impedito la vittoria di Trump. Capita, in politica. E capita con radicalità estrema quando spira un vento di crisi della politica e della democrazia. Nel momento in cui Barack Obama esce dalla Casa Bianca vale la pena ricordare una sua breve frase: «Credo che saremo giudicati per come ci prendiamo cura del povero e del vulnerabile, del malato e dell’anziano, dell’immigra – to e del rifugiato, di tutti coloro che stanno cercando una seconda possibilità». Così, per ricordarci chi siamo. O chi dovremmo essere. Da - http://www.unita.tv/opinioni/veltroni-democrazia-rivoluzione-o-ritorno/ Titolo: Walter Veltroni sull'Unità: "Umiltà, unità e orgoglio per tornare a far emergere Inserito da: Arlecchino - Febbraio 07, 2017, 03:59:38 pm Walter Veltroni sull'Unità: "Umiltà, unità e orgoglio per tornare a far emergere la magnifica differenza della sinistra"
L'Huffington Post Pubblicato: 05/02/2017 11:32 CET Aggiornato: 2 ore fa "Cos’altro deve fare Donald Trump per far capire alla sinistra che è cominciato un nuovo tempo della storia? Cos’altro deve accadere perché la sinistra si accorga che il mondo occidentale sta slittando a destra? Lo dico così, in forma rozza e semplificata, perché mi rendo conto che forse non è più tempo di analisi strutturate, di riflessioni compiute". Comincia così la riflessione di Walter Veltroni sulle pagine dell'Unità, che parte dall'osservazione della realtà - a cominciare dall'analisi dell'ascesa di Donald Trump - per avvisare sui rischi che anche in Italia sia la destra a imporsi. "Nulla è come prima, lo vogliamo capire? Anche in Italia, si leggano i sondaggi, mentre a sinistra si pensa che la partita per il futuro governo sia tra il Pd e i 5 Stelle, basta fare la somma delle intenzioni di voto, crescenti, per i partiti della destra e si scoprirà che già ora la destra ha più consenso di tutti. E non ha un leader. Se lo trovasse, e rischia di farlo, sarà ancora più competitiva. E non si preoccuperà di coltivare ambiguità programmatiche fra le sue diverse forze". Un richiamo che l'Unità sposa nel titolo di apertura della sua edizione odierna: "Pd attento, la destra può vincere". Come la destra avanza su scala mondiale, osserva Veltroni. "Non basterà dire solo "cioè che non siamo, cioè che non vogliamo". Servirà molto di più. Un nuovo pensiero, una nuova capacità di condivisione dello smarrimento sociale. Serviranno umiltà e unità, due parole che fanno fatica a essere al primo posto nel vocabolario della sinistra. E servirà orgoglio di sé". Veltroni sottolinea proprio la "magnifica differenza" della sinistra e dei suoi valori, che "mai come oggi" deve emergere. "Siamo in un nuovo secolo e la destra che combattiamo è la più estrema e pericolosa che ci sia stata nel nostro tempo. La sinistra non deve essere quella del Novecento, perché il mondo è un altro mondo. Ma deve essere sinistra. Sinistra moderna, aperta, di popolo e forte di valori dei quali la società ha immensamente bisogno, prima che sia tardi". Da - http://www.huffingtonpost.it/2017/02/05/walter-veltroni-sinistra_n_14628980.html?utm_hp_ref=italy Titolo: Walter VELTRONI. - Un sogno da non spezzare Inserito da: Arlecchino - Febbraio 21, 2017, 12:27:08 am Opinioni
Walter Veltroni - @veltroniwalter · 19 febbraio 2017 Un sogno da non spezzare “Fare un’Italia nuova. È questa la ragione, la missione, il senso del Partito democratico” Le parole che seguono sono tratte dal discorso del Lingotto, dieci anni fa, con il quale prese le mosse la nascita del Pd. Il Pd nacque per fusione e non per scissione, come invece spesso è successo nella storia della sinistra. Nacque come forza di sinistra capace di pensarsi oltre le colonne d’Ercole di una funzione minoritaria. Nacque per riunire le culture riformiste e organizzarle in forma aperta in una forza nuova, per programmi e linguaggi. Mai, se non con Berlinguer, la sinistra ha raggiunto i livelli di consenso ottenuti, in due occasioni, con il partito democratico. Dopo dieci anni l’orologio sembra tornare bruscamente indietro. Sembra tornare allo schema tradizionale dei cattolici democratici e della sinistra ristretti in due formazioni separate e inevitabilmente conflittuali. «Fare un’Italia nuova. È questa la ragione, la missione, il senso del Partito democratico. Riunire l’Italia, farla sentire di nuovo una grande nazione, cosciente e orgogliosa di sé. Unire gli italiani, unire ciò che oggi viene contrapposto: Nord e Sud, giovani e anziani, operai e lavoratori autonomi. Ridare speranza ai nuovi italiani, ai ragazzi di questo Paese convinti, per la prima volta dal dopoguerra, che il futuro faccia paura, che il loro destino sia l’insicurezza sociale e personale. Per questo nasce il Partito democratico. Che si chiamerà così. A indicare un’identità che si definisce con la più grande conquista del Novecento: la coscienza che le comunità umane possono esistere e convivere solo con la libertà individuale e collettiva, con la piena libertà delle idee e la libertà di intraprendere. Con la libertà intrecciata alla giustizia sociale e all’irrinunciabile tensione all’uguaglianza degli individui, che oggi vuol dire garanzia delle stesse opportunità per ognuno. Il Partito democratico, il partito di chi crede che la crescita economica e l’equa ripartizione della ricchezza non siano obiettivi in conflitto, e che senza l’una non vi potrà essere l’altra. Il Partito democratico, il partito dell’innovazione, del cambiamento realistico e radicale, della sfida ai conservatorismi, di destra e di sinistra, che paralizzano il nostro Paese. Il Partito democratico, il partito che dovrà dare l’ultima spallata a quel muro che per troppo tempo ha resistito e che ha ostacolato la piena irruzione della soggettività femminile nella decisione politica e nella vita del Paese. La rivoluzione delle donne ha affermato in tutte le culture politiche il principio del riconoscimento della differenza di genere come elemento costitutivo di una democrazia moderna. È questa esperienza che dovrà essere decisiva, fin dal momento della fondazione del nostro partito. Il Partito democratico, un partito che nasce dalla confluenza di grandi storie politiche, culturali, umane. Che nasce avendo dentro di sé l’eredità di quelle formazioni che hanno restituito la libertà agli italiani, di quelle donne e di quegli uomini che hanno pagato con il carcere e con la propria vita il sogno di dare ad altri la libertà perduta. Ma il Partito Democratico non è la pura conclusione di un cammino. Se lo fosse, o se si raccontasse così, inchioderebbe se stesso al passato. Invece, ciò di cui l’Italia ha bisogno è un partito del nuovo millennio. Una forza del cambiamento, libera da ideologismi, libera dall’obbligo di apparire, di volta in volta, moderata o estremista per legittimare o cancellare la propria storia. Un partito che non nasce dal nulla, e insieme un partito del tutto nuovo. È quello a cui ha pensato, a cui ha lavorato, per cui si è speso con coerenza e determinazione il fondatore dell’Ulivo, Romano Prodi. Il Partito democratico, un partito aperto che si propone, perché vuole e ne ha bisogno, di affascinare quei milioni di italiani che credono nei valori dell’innovazione, del talento, del merito, delle pari opportunità. Quei milioni di italiani che nelle imprese, negli uffici e nelle fabbriche dove lavorano, nelle scuole dove insegnano, sentono di voler fare qualcosa per il loro Paese, per i loro figli. Quei milioni di italiani che si impegnano nel volontariato, che fanno vivere esperienze quotidiane e concrete di solidarietà. Quei milioni di italiani che trovano la politica chiusa, e che se provano ad avvicinarsi ad essa è più facile che si imbattano nella richiesta di aderire ad una corrente o ad un gruppo di potere, piuttosto che a un’idea, ad un progetto. Sono convinto che il 14 ottobre sarà un giorno importante per la democrazia italiana. Nasce, in forma nuova, un partito nuovo. Nasce consentendo a chiunque creda in questo progetto di iscriversi, naturalmente e direttamente, e di candidarsi. Associazioni e gruppi, comitati e movimenti, singole persone potranno, nello stesso momento, formare un nuovo partito e decidere gli organi dirigenti e il leader nazionale. È un fatto mai accaduto prima. È stato sempre più facile che nuovi partiti nascessero da scissioni o da proiezioni personali di leader carismatici. Unire le culture e le forze riformiste del nostro Paese. Superare la parzialità e l’insufficienza di ognuna di essa, di ognuno di noi. Dar vita a una forza plurale attraverso non il semplice accostamento, ma una creazione nuova. Far nascere, finalmente, il Partito democratico, la grande forza riformista che l’Italia non ha mai avuto. Personalmente ho creduto alla prospettiva del Partito democratico anche quando pareva difficile, quando era considerata lontana e impossibile. Mi sembrava che con l’abbattimento del Muro, con la vittoria della libertà sulle dittature comuniste, potesse aprirsi un tempo nuovo. Un tempo di libertà, un tempo di ricerca fuori dai recinti ideologici, un tempo di curiosità intellettuale e di incontro con l’altro. Un tempo di ponti e non più di fili spinati. Mi sembrava che si aprisse la possibilità di costruire un campo ampio e pluralista, capace di comprendere chi pensava che con la fine degli “ismi” non fosse finito il bisogno di giustizia sociale, di riscatto degli ultimi, di difesa dei diritti umani e civili. Il bisogno di una sinistra moderna e innovativa, per chi ad essa sentiva di appartenere e vedeva aprirsi opportunità inedite per rispondere, in modo nuovo, ai propri compiti di sempre. Ora, dopo un percorso inevitabilmente travagliato, questo sogno si sta realizzando, e si sta facendo strada, credo non solo in Italia, l’idea che occorra far vivere un nuovo campo del pensiero democratico, delle idee di libertà, di giustizia sociale e di innovazione. L’Europa è andata a destra, in questi anni, perché la sinistra è apparsa imprigionata, salvo eccezioni, in schemi che l’hanno fatta apparire vecchia e conservatrice, ideologica e chiusa. Ad una società in movimento, veloce, portatrice di domande e bisogni del tutto inediti, si è risposto con la logica dei “blocchi sociali”e della pura tutela di conquiste la cui difesa immobile finiva con il privare di diritti fondamentali altri pezzi di società. Il Partito democratico dovrà saper corrispondere alle nuove domande. Al bisogno di libertà e di fluidità sociale di ceti sempre più mobili, coniugando queste esigenze con la ragione della sua stessa esistenza, e cioè la costruzione di una società in cui le capacità di ciascuno possano essere messe alla prova indipendentemente dalle condizioni di partenza. Di una società che “si prenda carico”, che non sia cinica o egoista, che si ponga il problema che l’Istat ci ha appena detto essere intatto: la distanza tra chi sta molto bene e chi sta molto male, in Italia, non accenna a diminuire. Una società dove la precarietà non sia la regola, dove non sia l’incertezza a segnare, a ferire, la vita delle persone. È la precarietà soprattutto dei giovani, dei nostri ragazzi, delle nostre ragazze. In un tempo fantastico della vita viene chiesto loro solo di “aspettare”. Aspettare di avere un lavoro certo, un mutuo per la casa e, con questi, la possibilità di mettere su famiglia e avere dei figli. La vita non può essere saltuaria. La vita non può essere part-time. Un imprenditore può assumere così, all’inizio, ma poi spetta alla comunità rendere certo l’incerto, per il ragazzo e per l’impresa. È la lotta alla precarietà, la grande frontiera che il Partito democratico ha davanti a sé. È più di una scelta. Deve essere nella natura del Partito democratico, fare questo. Dobbiamo saperlo: senza crescita, gli obiettivi di una grande forza dell’equità e delle opportunità sono destinati a soccombere. La battaglia da sostenere, diceva Olof Palme, «non è contro la ricchezza, è contro la povertà». Ricordiamole sempre, tutte e due le cose. Una nuova Italia richiede un cambiamento profondo, in molti casi radicale. Il Partito democratico, la sua stessa nascita, può contribuire ad accelerare, a introdurre un forte elemento di coesione politica e programmatica. Il Partito Democratico, ognuno lo intende, serve anche a “fissare“ i riformisti al principio del bipolarismo e della alternanza. Quel principio che in varie forme, e con vari modelli elettorali, vive in ogni paese europeo. Bipolarismo, in alcuni casi bipartitismo, appaiono il modo in cui, per virtù politiche e/o istituzionali, si succedono al governo forze diverse, in un clima di stabilità e di rappresentanza non frammentata. La democrazia invece è proprio questo: «decisione». È ascolto, è condivisione. Ma alla fine, è decisione. Un governo che abbia i poteri per essere tale, un Parlamento che controlli severamente e indirizzi l’azione dell’esecutivo, ma che non pretenda di essere, esso stesso, governo assembleare. La legge elettorale deve essere cambiata. Si trovi un meccanismo, non bisogna guardare lontano, che garantisca quattro obiettivi: contrasto della frammentazione, stabilità di legislatura, rappresentatività del pluralismo, scelta del governo da parte dei cittadini. Questa è la forza della democrazia, di una «democrazia che decide». Delega e responsabilità. Equilibrio tra potere di decisione e potere di controllo. Con lo scettro affidato a coloro ai quali spetta in democrazia: i cittadini, il popolo che vota e che dopo cinque anni approverà o boccerà l’op erato di chi li ha governati. È il sistema istituzionale, che in molti aspetti, deve cambiare. È ormai matura, sulla spinta della sollecitazione dell’opinione pubblica e della consapevolezza degli stessi gruppi parlamentari, una profonda riforma della politica. Perché se i parlamentari eletti direttamente sono 577 in Francia, 646 in Gran Bretagna, 614 in Germania e 435 negli Stati Uniti, in Italia ci devono essere mille tra deputati e senatori? Perché una legge deve passare, per essere approvata, una o due volte in due rami del Parlamento? Perché il governo non può vedere approvate o respinte le sue proposte di legge in un tempo certo? Perché il Presidente del Consiglio non ha il diritto di proporre lui al Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri? Perché non ridurre, a tutti i livelli, la numerosità di tutti gli organismi elettivi? Perché, una volta sviluppato tutto il necessario confronto nelle Commissioni, non approvare la legge finanziaria senza lo stillicidio degli emendamenti in Aula? Il Parlamento sta andando in questa direzione. Ma bisogna fare presto. La risposta alle domande retoriche che ho posto è una sola, purtroppo. Perché molti, in questo Paese, vogliono una democrazia debole, poteri istituzionali fragili, una politica al tempo stesso flebile e invadente. Non possono passare anni per una decisione. Non possono essere decine di organismi a dare pareri, mettere veti, condizionare scelte. Non ci possono essere decine di istituzioni da cui un cittadino, un imprenditore o un amministratore deve passare prima di vedere realizzato un progetto. L’Italia è diventata il Paese in cui tutti, a tutti i livelli, hanno il diritto di mettere veti e nessuno ha il diritto di decidere. Più è lunga e sfilacciata la filiera delle decisioni, più si fa strada il fenomeno, che temo riemergere, della corruzione. Uno Stato semplice, non barocco, è uno Stato moderno. Quello che la storia e la pratica ci consegnano è invece una eredità confusa e vecchia. Se di fronte ad ogni problema urgente gli amministratori e i cittadini sono costretti a chiedere poteri straordinari, è perché evidentemente quelli ordinari non funzionano. E torniamo al tema: senza poteri democratici funzionanti, è tutto il sistema che si allenta, si smaglia, apre la strada a poteri illegittimi. Un Paese può perdere la sua democrazia per “eccesso”di decisione, ma può anche perderla per “difetto “di decisione. Gli italiani vogliono che il governo che guida il Paese possa assumere su di sé decisioni e responsabilità, e che e ne risponda. E vogliono sceglierlo. Come in altre democrazie, che funzionano. È così, con un’alta capacità di risposta, che si combatterà l’antipolitica. Occorre qui distinguere: un cittadino che critica sprechi e irrazionalità, che chiede alla politica sobrietà e rigore, non coltiva l’antipolitica, dice qualcosa di giusto. Come qualcosa di giusto dice chi vuole siano sempre rispettati i paletti tra sfera della politica e autonomia della società. Chi invece indica qualunquisticamente la politica come il nemico, chi soffia demagogicamente sul fuoco dell’insoddisfazione, ha il dovere di dire cosa si dovrebbe sostituire alla politica e alle istituzioni... Io credo nella insostituibilità della politica come strumento di regolazione, come capacità di evitare che una società smarrisca il senso di sé e rifluisca in ogni possibile forma di particolarismo. Ma la politica, per far questo, deve sapere mostrare il suo volto migliore. Bisogna stare meno nei talk-show televisivi, non pensare di avere ogni giorno una cosa speciale da dire. Bisogna che le leadership politiche si misurino con la vita reale dei cittadini. Bisogna che il potere sia sobrio, che rinunci più che chiedere, che non si faccia corpo separato, lontano. Penso al senso dello Stato e all’impegno civile di uomini come Massimo D’Antona e come Marco Biagi, solo e senza scorta. Una politica che sappia condividere: la vita dei cittadini, la quotidianità di persone che iniziano la loro giornata senza leggere gli editoriali dei giornali né domandandosi a quale dei vecchi partiti italiani si sentono legati. No, non fanno e non si chiedono questo, l’anziana che fatica a pagare l’ultima bolletta del mese con quello che resta della sua pensione, l’operaio che deve mettere insieme un lavoro che non lo soddisfa e il dovere di mandare avanti una famiglia, l’imprenditore che sbatte la testa contro la burocrazia o l’artigiano e il commerciante che ha il dovere di pagare le tasse ma ha anche il diritto di avere uno Stato che gli renda più semplice la vita e lo consideri non un peso ma una risorsa. Una politica sincera, pragmatica, ancorata ai suoi valori, non ideologica. E che contribuisca a voltare pagina in Italia. La politica è, e deve essere, contrapposizione aperta, netta e trasparente tra programmi e soluzioni diverse. Ma c’è un confine di sobrietà e di rispetto dei problemi reali delle persone che non può consentire di proseguire oltre su una strada sbagliata. Sbagliato è che ogni nuovo governo si senta in diritto di smantellare sempre e comunque tutte le leggi varate dal governo precedente e in particolare le regole più importanti, quelle da cui dipende il funzionamento e lo sviluppo del Paese. Non è possibile che tutto ciò che è stato fatto da chi c’era prima di te, se era dello schieramento avverso, sia sempre sbagliato. E con questo voglio dire, per essere chiaro, che una cosa sono le leggi “ad personam”, che vanno cancellate, e una cosa è ad esempio una legge come quella sul risparmio, che non è stata negativa. Basta. Dobbiamo farla finita con lo scontro feroce e con i veleni, con le polemiche che diventano insulto. Il Paese di tutto questo è stanco, non ne può più. E da tempo non perde occasione per dirlo. Per dire che non vuole una politica avvolta dall’odio, dove l’altro è un nemico, dove i problemi reali finiscono in un angolo o vengono affrontati con soluzioni temporanee. Voltiamo pagina. Gettiamoci alle spalle un modo di intendere i rapporti tra maggioranza e opposizione che non porta a nulla. A nulla, se non a far male all’Italia. Voltiamo pagina. La politica può essere diversa. Non c’è niente, tranne la nostra volontà, che impedisca la costruzione di un modo di intendere i rapporti basato sulla civiltà, sul riconoscersi reciprocamente. Mi è stato più volte dato atto di non aver mai partecipato a questa degenerazione del confronto. In ogni caso continuerò così, anche unilateralmente. Continuerò a pensare che non c’è un titolo di giornale che valga più del rispetto di un avversario. Non una battuta volgare che possa essere accettata come normale da un paese non volgare. Voltiamo pagina. Facciamo in modo, per la prima volta da quindici anni, che non si formino più schieramenti “contro” qualcuno, ma schieramenti “per ” affrontare le grandi sfide dell’Italia moderna. Il Partito democratico deve avere in sé un’ambizione, al tempo stesso, non autosufficiente ma maggioritaria. Deve sapere che il suo messaggio di innovazione e di comunità può motivare il suo campo e conquistare consensi anche diversi. L’elettorato è razionale, mobile, orientato a scegliere la migliore proposta programmatica e la migliore visione. Il Partito democratico al quale pensiamo, voglio dirlo ancora una volta, è uno strumento per i nuovi italiani. C’è una generazione che rischia di subire il furto più terribile, quello del futuro, e di essere catturata dal sentimento più negativo e paralizzante che ci sia, la paura. Ed è un paradosso inaccettabile che questo avvenga in un tempo che come mai è proiettato nel domani, che come mai è ricco di opportunità, che offre possibilità di conoscenza, di formazione, di comunicazione e di scambi una volta impensabili, di relazioni umane e culturali una volta impossibili. E se qualcuno dice che c’è chi vuole «rendere uguali il figlio del professionista e il figlio dell’operaio», noi rispondiamo sì: vogliamo che siano uguali. Uguali non nel punto di arrivo. Ma in quello di partenza. Vogliamo che il figlio dell’operaio abbia tutte le opportunità cui ha diritto. Vogliamo che siano le sue capacità, i suoi sacrifici, la sua intelligenza a dire dove arriverà, e non che il suo posto nella società di domani sia stabilito a priori dal salario che suo padre porta a casa dopo una giornata passata davanti a una pressa. Vogliamo che il figlio del professionista non debba trovare più comodo o più realistico seguire il sentiero già tracciato, che possa scommettere su se stesso e seguire ciò che lo affascina, e diventare un ricercatore, uno scienziato, se è questo che desidera. Da - http://www.unita.tv/opinioni/veltroni-un-sogno-da-non-spezzare/ Titolo: Walter VELTRONI. - Il pericolo della post verità Inserito da: Arlecchino - Marzo 01, 2017, 04:59:21 pm Opinioni
Walter Veltroni - @veltroniwalter · 26 novembre 2016 Il pericolo della post verità Oggi è facile semplificare fino a distorcere. Queste righe solo per richiamare tutti noi alla bellezza dello spirito critico, alla capacità di leggere la realtà nella sua complessità Ha fatto bene, anzi benissimo, Laura Boldrini a rendere noti, con nomi e cognomi, i messaggi offensivi e sessisti da lei ricevuti nel tempo. Bisogna leggerli, per capire la spirale di orrore nella quale si rischia di precipitare. E l’idea della donna che sopravvive, come una bestia immortale, al modificarsi del tempo. Al trivio reso discorso pubblico si unisce il desiderio del dolore e della morte atroce di chi ha idee diverse dalla propria. Si insulta, si aggredisce, si minaccia. Tutto impunemente. Le parole diventano violente ed è questa, da sempre, l’anticamera della violenza. Ma tutto il circuito comunicativo oggi è sottoposto a fenomeni morbosi, per usare un’espressione gramsciana. Oggi, ad esempio, si fa strada semplicemente, come fosse ovvia, l’idea che circolino ampiamente, tra l’opinione pubblica, informazioni false, costruite ad arte per interessi di varie natura. Nobilitando quelle che potrebbero essere altrimenti dette delle insulse menzogne, questo dileggio della realtà è stato gentilmente definito la “post verità”. Se ne parla come fosse una frivola moda del tempo, come il Pokemon Go, che per tre settimane è stato il fesso protagonista della stampa mondiale e ora giace, goffo, nella polverosa soffitta dei ricordi inutili. A me non viene da scherzare o da sottovalutare questo fenomeno nuovo e inquietante. Lo prendo sul serio e mi fa orrore, come il clima infernale che la nuova dimensione del discorso pubblico sta prendendo. Urla e balle, odio e certezze assolute, ce n’è abbastanza per aspettarsi il peggio. Trovo, in questo, conferma della necessità di monitorare bene le grandi mutazioni che stanno intervenendo nei processi di selezione e diffusione della conoscenza nel mondo nuovo. Quando ci renderemo conto che quella in corso è una rivoluzione tecnologica paragonabile a quella che portò, nella seconda metà dell’ottocento alla nascita della società moderna, delle città, delle classi sociali e di forti idee politiche? Oggi sta succedendo qualcosa di persino più grande, perché più invasivo, anche perché avviene non in una fase espansiva dell’economia. La immensa e affascinante trasformazione di ogni modalità del vivere sta cambiando tutti i codici, tutte le relazioni tra sé e il tempo, tra sé e gli altri. E, poi, tra sé e il lavoro, precario e incerto, e tra sé e la democrazia. Cose grandi, passaggi di fase storica di cui i singoli frammenti non possono essere capiti senza uno sguardo d’insieme. La vittoria di Trump non può essere spiegata con analisi ordinarie, come la Brexit, quello che avviene in Turchia, l’affermazione del populismo su scala mondiale… Leggere, in proposito, l’articolo di George Monbiot sul Guardian a proposito delle tredici crisi che l’umanità ha di fronte. Ma soffermiamoci sulla coda della cometa, sulla cosiddetta post verità. Un sito internazionale ha raccolto, nel 2015, la prova che almeno 76 fotografie, divenute virali in rete, erano false, manipolate. La notte del Bataclan circolò la notizia che, nelle stesse ore, un terribile terremoto aveva provocato migliaia di vittime in Giappone. La campagna sulla Brexit è stata alimentata dalla notizia, inventata, che la Gran Bretagna pagava 350 milioni di sterline a settimana per l’Europa. Dopo gli attentati di Parigi è circolata la foto di uno dei presunti attentatori, solo che era in realtà un pacifico critico di videogiochi impegnato in un selfie nel bagno con un Ipad, prontamente trasformato graficamente in libro del Corano, e a cui era stato, con il Photoshop, aggiunta una cintura esplosiva al fianco. Circola, in questi giorni, un video che raccoglie dichiarazioni di dirigenti della sinistra contro le proposte di riforma della Costituzione di Berlusconi. E lo si usa per mostrare una palese contraddizione con il sostegno che le stesse persone hanno dichiarato al sì nel referendum del 4 dicembre. Non lo sarebbero state neanche se si fossero riferite a quando, nel 2006, Berlusconi approvò una riforma nella quale il premier aveva il potere di scioglimento delle camere e di nomina e revoca dei ministri, qualcosa evidentemente di molto diverso da ciò di cui discutiamo oggi. Ma quelle dichiarazioni si riferiscono invece a una manifestazione che il Pd promosse nel 2009 quando Berlusconi dichiarò, da presidente del consiglio, che la Costituzione era filocomunista e che si proponeva interventi sulla carta per limitare l’autonomia dei giudici e per far avanzare il presidenzialismo. Di questo si trattava. Non del superamento del bicameralismo perfetto o dello scioglimento del Cnel. In quella occasione Scalfaro, che parlò per tutti noi, chiarì: «Non abbiamo mai detto che non si può toccare la Costituzione – ha proseguito – vogliamo aggiornarla, ma non si può stravolgerla. Non si possono toccare i valori di fondo, la libertà, la giustizia, i diritti primari delle persone». Affermazione che condivido in toto. Dunque ciò che è diverso, in quel video, non è l’opinione delle persone ma l’oggetto del loro giudizio. Propaganda per ingannare i cittadini, alimentata da una manipolazione, gravissima, nella quale è caduta onestamente anche una persona dabbene come Maurizio Crozza. Ciascuno di noi dovrebbe cercare di dire la verità, essere sempre attraversato dalla meraviglia del dubbio, e accettare la complessità. Oggi invece è più facile fermarsi al titolo che entrare nei contenuti. Semplificare fino a distorcere, che volete che sia. Molto sulla rete è così, ma la colpa non è solo della rete, sottratta alla mediazione responsabile del giornalista. Come ha dimostrato Luca Sofri nel suo bel volume Notizie che non lo erano, ormai anche i giornali, per inseguire lo spirito del tempo, costruiscono o ospitano deliberate, non casuali, fandonie. Queste righe solo per richiamare tutti noi alla bellezza dello spirito critico, alla capacità di leggere la realtà nella sua complessità, al guardarsi dalla emotività che vogliono indurre fabbricanti, consapevoli o no, della post verità. Altrimenti si potrà finire col credere davvero che le camere a gas di Birkenau non siano mai esistite ma che, cito da uno dei testi dei negazionisti, «quei mucchi di cadaveri furono il prodotto di una epidemia di tifo prodotta dai bombardamenti alleati». Il mio amico Shlomo Venezia, uno dei meravigliosi sopravvissuti allo sterminio degli ebrei, mi raccontava sempre che quando tornò da Auschwitz la sua pena maggiore stava nel non essere creduto quando raccontava ciò che aveva vissuto e visto. Degli ebrei, per sostenerne l’eliminazione, era stato detto di tutto, inventato di tutto. Non dimentichiamolo, mai. Da - http://www.unita.tv/opinioni/il-pericolo-della-post-verita/ Titolo: Walter VELTRONI. - Il rischio più grande Inserito da: Arlecchino - Marzo 05, 2017, 10:58:23 pm Opinioni
Walter Veltroni - @veltroniwalter · 5 marzo 2017 Il rischio più grande Tutti lo sanno, con il proporzionale puro, il paese va verso la totale ingovernabilità Cosa accadrebbe se alle prossime elezioni, non mi interessa la data, non ci fosse nessuna maggioranza possibile di governo? Tutti si affannano a discutere del quando e nessuno parla del come. Nessuno sembra occuparsene, tutto è silenzio. Nel 2013 ci fu un risultato elettorale che vide tre blocchi quasi equivalersi. Ma c’era una legge elettorale, oggi giustamente cassata dalla Corte, che trasformò una minoranza in una maggioranza. Che ha prodotto quattro governi non scelti dagli elettori. Paradosso di un maggioritario sui generis. Oggi non c’è neppure quella clausola di salvaguardia che, comunque, ha fatto procedere una legislatura che pure ha prodotto decisioni importanti. Oggi si è tornati, tra la gioia incontenibile di molti, a un sistema proporzionale puro. Quel sistema non funzionò quando c’erano partiti forti, fortissimi. Si arrivò al paradosso politico istituzionale di cinquantasei governi in cinquanta anni. Tutti con lo stesso partito al centro del governo. Furono inventati i governi balneari e quelli di decantazione. Ora, che i partiti sono una galassia di marmellata, davvero si pensa di tornare a un sistema per il quale i governi si fanno attraverso le trattative e le mediazioni di potere tra partiti o coalizioni, per di più della stessa dimensione elettorale? Non siamo in Germania e neanche in Spagna, non raccontiamoci frottole. Che coalizioni si potrebbero creare tra due coalizioni delle tre che sono in gara? Un governo con la destra che comprende la Lega e il Pd? Uno dei Cinque stelle della Lega? Ipotesi fantascientifiche e, comunque, raggelanti. Allora la si smetta di pensare solo al proprio scranno, meglio garantito da una frammentazione esasperata, e si pensi al paese. Ma davvero nessuno, in questa momento drammatico, sta pensando a cosa potrà succedere se l’Italia si troverà, ancora una volta, senza nessun governo possibile? Potremo precipitare in una crisi drammatica della nostra democrazia. Questa è la posta in gioco. Bisogna essere ciechi per non vederla I l giorno delle elezioni si deve sapere chi governa. E chi governa deve essere stato scelto dai cittadini. Ci vuole un mix di proporzionale e maggioritario. Non spetta a me fare ipotesi, non ne ho più titolo né ruolo. Personalmente sono sempre legato al doppio turno di collegio alla francese ma considero il Mattarellum una soluzione adeguata, come può esserlo un premio di coalizione a chi superi un tetto, come indicato dalla Corte. Ma, tutti lo sanno, con il proporzionale puro il paese va verso la totale ingovernabilità. Lo dico chiaramente: preferisco che vincano altri al rischio che non vinca nessuno e si debba tornare a votare in un clima drammatico. Una seconda cosa, della quale ho parlato all’Assemblea nazionale. Sia evitato l’obbrobrio delle preferenze. Possibile che non si veda come e quanto sia oggi debole la politica e forte la pressione di poteri criminali e non solo? Quanto questi siano capaci di condizionare la scelta del personale politico? I collegi uninominali, per il rapporto che stabiliscono tra cittadini e eletti, mi sembrano la soluzione più opportuna. Infine penso sarebbe utile mettere un freno, nel rispetto della Costituzione, al proliferare in Parlamento del fenomeno del trasformismo e della migrazione costante di eletti tra partiti e schieramenti opposti. Quanti gruppi con nomi assurdi si sono formati in questa legislatura? La politica è una cosa bellissima, serve a un paese a migliorare se stesso. La politica è necessaria e la demagogia, diventata retorica facile, contro le istituzioni è un veleno pericoloso. Ma la politica è bella quando mostra di occuparsi degli altri, più che di se stessa. Il paese, prima di tutto. Da - http://www.unita.tv/opinioni/il-rischio-piu-grande/ Titolo: Walter VELTRONI. - Arcobaleno contro il nero Inserito da: Arlecchino - Marzo 16, 2017, 05:02:46 pm Opinioni
Walter Veltroni - @veltroniwalter · 12 marzo 2017 Arcobaleno contro il nero Ormai le mete non si vedono più, nel gran polverone di questo tempo frettoloso e caotico E se il Pd proponesse alle forze democratiche e di sinistra di promuovere, tutti insieme, una grande manifestazione sul tema dell’accoglienza? Qualcosa di simile alla bellissima iniziativa di Barcellona che è stata, nella cupezza di questo tempo, un raggio di sole? Credo che l’appello del Pd dovrebbe, senza protagonismi, essere rivolto, direi in primo luogo, a quel fantastico e diffuso mondo di associazioni, organizzazioni, enti locali, persone che si muovono nel mondo del volontariato, dei diritti, della battaglia culturale e civile sui temi dell’integrazione. Una manifestazione su uno dei valori fondamentali dell’esistenza umana. Come era quando cattolici e sinistra si trovavano insieme per la pace. Forse non erano d’accordo sulle strade per raggiungerla, ma erano d’accordo sulla meta. Ormai le mete non si vedono più, nel gran polverone di questo tempo frettoloso e caotico. Io credo invece che una società aperta, multiculturale e capace di garantire, insieme, diritti e sicurezza, sia una meta. Una meta essenziale se non vorremo essere travolti da intolleranza e, alla fine, violenza. La sinistra deve stare rannicchiata e silente di fronte all’imperversare del sovranismo, di fronte ai nuovi fondamentalismi, alle nuove discriminazioni? La sinistra deve accettare passivamente che si affermi l’idea che una persona diversa per religione o colore della pelle sia un nemico? La sinistra può tacere di fronte ai bandi di Trump o di fronte al silenzio disumano con il quale si guardano le macerie fisiche e umane di Aleppo e si ritiene i poveri umani che fuggono da quel disastro come un pericolo? La sinistra può lasciare l’esigenza della sicurezza dei cittadini in mano a chi la usa strumentalmente, facendo credere che più armi in circolazione siano garanzia di maggiore tranquillità per le famiglie? Si è sicuri solo se si è capaci di integrare, questa è la verità. E se si chiama ciascuno a rispettare le leggi del paese in cui si è accolti. La vita di ciascuno di noi, nella sua dimensione individuale e collettiva, si dipana lungo due irrinunciabili direttrici: l’identità e l’apertura. Se queste due condizioni di armonia della condizione e delle relazioni tra gli uomini si separano, fino a farsi avversarie, il rischio di conflitti devastanti si fa drammaticamente reale. Non si vive senza identità, che è valore irrinunciabile. Non si vive insieme senza una società aperta, capace di metterci sempre in condizione di convivere con l’altro da noi. Ma questa armonia oggi è fortemente minacciata. Ci rendiamo conto dei veleni che circolano : le battute della Le Pen sugli ebrei, il tweet di un leader italiano che inneggia a chi chiude in un container due nomadi, le posizioni xenofobe del candidato della destra olandese per il quale si prevede un grande successo? Non ci si deve meravigliare se cresce il consenso per queste posizioni, foriere di pericoli immensi per il futuro. Se non le si combatte a viso aperto, se non si fa vedere e sentire la forza di un’altra cultura, resteranno in campo solo i valori del “sovranismo”, antieuropeo e intollerante. Potremo non essere d’accordo, tutti, sulle strade. Ma siamo uniti sulla meta. Condividere un valore non è poco. È molto. I valori, nella politica, sono importanti. Si è vinto il razzismo e l’apartheid con una battaglia di valori. Facciamola oggi con la stessa energia, a viso aperto. Facciamola con coraggio e orgoglio. Con allegria. Facciamola unendoci tutti in nome di un valore che è intrecciato alla democrazia e alla libertà. Manifestiamo, diversi e uniti, perché il mondo non precipiti indietro. Portiamo di nuovo in piazza le bandiere arcobaleno. Se vogliamo evitare che torni un mondo di un colore solo. Il nero. Da - http://www.unita.tv/opinioni/arcobaleno-contro-il-nero/ Titolo: Walter VELTRONI. - Quattro pezzi facili Inserito da: Arlecchino - Marzo 20, 2017, 11:03:18 am Opinioni
Walter Veltroni - @veltroniwalter · 19 marzo 2017 Quattro pezzi facili Elezioni in Olanda, manovre di Salvini, opinabili scelte a 5stelle e manifestazione di Milano Vivo entusiasmo ha destato il risultato delle elezioni olandesi. I populisti xenofobi di Wilders non hanno avuto il successo atteso. Sono cresciuti ancora, ma sembra esserci un invisibile tetto di cristallo che ne contiene l’espansione, almeno in un’Olanda in cui l’immigrazione cala e il Pil cresce. Ma il motivo di soddisfazione, pur rilevante, è davvero solo quello. Per il resto va registrata la vittoria di un partito di destra, non certo filo europeo, che ha, per contenere, i populisti, rafforzato oltremodo la sua linea critica verso l’Unione europea. *** Ma ciò che più dovrebbe far riflettere è il fatto che , grazie ad una scriteriata legge elettorale – fondata sul tanto celebrato proporzionale, per di più senza soglie – sarà molto difficile costituire un governo. O, per farlo, si dovrà mettere insieme tutto e il contrario di tutto. Materia di riflessione per noi italiani che, come il capitano Smith del Titanic, ci avviamo verso un esito elettorale simile. Con tre blocchi quasi alla pari l’ingovernabilità è alle porte. E con il nostro debito pubblico, la divisione tra nord e sud, l’emotività diffusa, si può creare una situazione davvero molto pericolosa. Ma sembra che nessuno si stia preoccupando di questo. Se non ci saranno correzioni che favoriscano la governabilità, il paese si avviterà in una spirale carica di rischi. Tutti sono preoccupati dai Cinque stelle e immaginano grandi e confuse alleanze per contenere una loro possibile vittoria. Io vorrei che fossimo tutti un po’più attenti alla destra. Lo ripeto ancora una volta: se si sommano, nei sondaggi, le percentuali dei vari partiti di destra si scoprirà che quello schieramento è, già oggi, il più forte del campo. Non ha ancora un leader, Salvini, per esempio, si è già, parlando a Napoli, ricollocato nel ruolo di ministro dell’Interno. Se Berlusconi dovesse poter tornare in campo cambierebbero molte cose. Rivolgerei un invito a non sorridere e non sottovalutare la forza di questa possibilità. Per paradosso oggi il Cavaliere può apparire, in questo caos, un moderato, persino rassicurante. E se la destra dovesse trovare un nuovo leader, un tipo alla Del Debbio, allora apparirebbe persino «nuova». E, nella società italiana, si agitano, non dimentichiamolo, pulsioni profonde che hanno un segno di destra. *** Mi colpisce l’uso che i pentastellati fanno dei loro stessi principi. Lo streaming vale per gli altri, i disonesti sono tutti gli altri e tutti si devono dimettere, salvo i loro eletti. Decine di parlamentari eletti hanno cambiato casacca. Emergono, direi inevitabilmente, litigi e divisioni non dissimili da quelli di altri partiti. La rete è un totem indiscutibile ma se poi, come a Genova, sceglie un candidato che non piace a un leader autonominato allora non va bene e si ritira simbolo, nome e si convocano altre elezioni. La rete è indiscutibile solo se conferma quello che il leader ha deciso. Credo di essere stato tra i più attenti e i meno semplicisti nel giudicare un movimento che per me resta più eterogeneo e complesso di altri populismi. Nel voto dei Cinque stelle c’è anche, non dimentichiamolo mai, una parte di quel sogno di una Italia pulita che, nel 2008, venne al Pd. Proprio perché li rispetto e li analizzo, avverto però che il contatto con il potere sta agendo nel profondo del movimento, alterandone dinamiche e procedure. Un processo che riguarda un soggetto importante della vita politica italiana. Bisogna osservarlo con intelligenza e senza essere mossi solo da spirito di propaganda. *** Mi fa piacere che la proposta di una manifestazione sul tema dell’inclusione abbia avuto tante condivisioni. Questo giornale e il suo direttore l’hanno fatta propria e hanno ospitato, ciò che è più importante, posizioni di associazioni e organizzazioni che sostengono la necessità che l’opinione pubblica faccia sentire la sua voce, su un tema così delicato. Nel mio articolo suggerivo di non ritenere in opposizione inclusione e sicurezza. C’è qualche sventurato senza cuore né ragione che ritenga che solo cacciando i profughi della guerra in Siria si possa vivere in un mondo beato senza violenza, furti, femminicidi? O, al contrario, c’è qualcuno che non si voglia far carico della domanda, spesso forte nelle zone popolari, di sicurezza personale, lasciando così questo tema alla destra xenofoba? La sinistra è per l’inclusione e per la sicurezza, le ritiene possibili e lavora per costruire l’armonia tra questi due insostituibili valori della democrazia moderna. Per il 20 Maggio è stata programmata una manifestazione a Milano, indetta da associazioni e dal Comune di quella città. Non avrebbe senso duplicare e indebolire i singoli appuntamenti. Sia quella la data e il luogo in cui ci si ritrova. E mi auguro, superate le primarie, che ci sia, come deve, tutto il Pd. Da - http://www.unita.tv/opinioni/quattro-pezzi-facili/ Titolo: Walter VELTRONI. - La guerra e la politica Inserito da: Arlecchino - Aprile 09, 2017, 04:47:09 pm Opinioni
Walter Veltroni @veltroniwalter · 9 aprile 2017 La guerra e la politica In poche ore Trump ha voltato le spalle a Putin, ad Assad, all’isolazionismo degli Stati Uniti «Mi guardo intorno e non riesco a dirmi se siamo in pace o all’erta sui bastioni; se ho sul capo il celeste dipinto nel cielo dei teatri e delle chiese, o l’acciaio che fa le prove per il giorno dei morti, e aggiungerne di nuovi» Questa bellissima poesia di Sergio Zavoli, tratta dal volume La strategia dell’ombra appena uscito per Mondadori, mi pare possa dare voce al sentimento che attraversa molti di noi in questi giorni sorprendenti e caotici. Il bombardamento che Trump ha deciso è, per usare la formula di Paolo Gentiloni, una «risposta motivata» all’orrore scatenato da Assad con i bombardamenti attraverso i quali ha ucciso dei bambini con l’uso di armi chimiche. Ma quella guerra dura da anni e i morti si contano a centinaia di migliaia, come milioni sono i profughi. Il mondo si indigna e reagisce solo di fronte alle punte di maggiore emotività, solo di fronte alla barbarie evidente dell’uso dei gas nervini, la più orribile delle prove di guerra. Ma nel corso del tempo, nel disinteresse generale, sono centinaia di migliaia i bimbi che hanno perso la casa, i genitori, sono costretti a vivere in tende o al freddo, non hanno da mangiare. L’Unicef stima che circa 8,4 milioni di bambini – oltre l’80 per cento della popolazione infantile della Siria – siano ora colpite dal conflitto, sia all’interno del paese che come rifugiati nei paesi vicini. 151.000 bambini sono nati già nella condizione di rifugiati e un terzo dei ragazzi morti è stato ucciso da bombardamenti dentro le scuole, che ora non esistono più. C’era materia per indignarsi e reagire ben prima dell’ultimo crimine perpetrato dal regime di Assad. Ma la comunità internazionale, ineffabile figura dall’andamento lento, ha stilato documenti, prodotto una messe di tweet e di parole ma non ha fatto nulla che fosse capace di mettere fine a quel genocidio: 470.000 morti, 1,9 milioni di feriti, un’aspettativa di vita passata dai 70 ai 55 anni. Non bastano le bombe, non basta la reazione emotiva a un orrore. Trump fino a poche ore fa aveva un altro giudizio su Assad: durante la campagna elettorale sembrava orientato a lavorare con i Russi per stabilizzare il regime siriano in funzione anti Isis. Ora, nel motivare l’attacco, ha detto che ciò che è accaduto lo ha portato a mutare giudizio su Assad. Va detto che anche i democratici non avevano trovato la giusta misura di contenimento delle violazione del regime siriano e la contempo dell’espansionismo di Daesh. Dunque in poche ore Trump ha voltato le spalle a Putin, ad Assad, all’idea dell’isolazionismo Usa. Ci sarebbe da essere contenti. O disperati come paiono i sovranisti. Ma la diplomazia non è roba per “l’asilo Mariuccia” che è diventata la politica italiana, ben rappresentato da Razzi o da qualche scheggia dei cinque stelle che si fa ritrarre in foto sorridenti o difende Assad. Con quale disegno strategico è avvenuto l’attacco? Ricordiamo cosa fu la reazione di Bush dopo l’undici settembre. Il mondo ebbe, giustamente, la stessa risposta emotiva di oggi. Ma quelle scelte, fatte di muscoli e non di cervello, hanno limitato la forza del terrorismo islamico? Quell’area è una polveriera e bisogna unire sempre la forza a una visione. Sono sincero: non sfuggo all’ide a che, nella inversione di marcia brusca di Trump, abbiano agito importanti aspetti di politica interna. In questi mesi non ne è andata una bene. Dal rifiuto della sua maggioranza di stracciare l’Obamacare alla difficoltà di operare il radicale tax cut annunciato, dalle dimissioni ripetute di membri del governo e dello staff alle gaffes come quella, una sfortunata preveggenza, sull’attentato in Svezia. Oggi Trump ha il gradimento più basso tra i Presidenti che abbiamo conosciuto. Vale quello che ha scritto Lucio Caracciolo commentando la motivata reazione Usa: «L’obiettivo suo, come di qualsiasi altro presidente in carica, è di essere rieletto. Se le fragili fondamenta della sua amministrazione fossero ulteriormente minate dalla resistenza dello “Stato profondo” americano (intelligence e Pentagono in testa) e di buona parte degli stessi repubblicani- che al di là delle forme non sono il suo partito- la tentazione di una guerra vera potrebbe rivelarsi irresistibile». Per questo oggi dobbiamo responsabilmente dire, con Zavoli, «non riesco a dirmi/se siamo in pace/ o all’erta sui bastioni». Da - http://www.unita.tv/opinioni/la-guerra-e-la-politica/ Titolo: Walter VELTRONI. - Migliori dell’odio Informazione fake-news Inserito da: Arlecchino - Maggio 28, 2017, 11:14:26 pm Opinioni
Walter Veltroni @VeltroniWalter · 28 maggio 2017 Migliori dell’odio Informazione fake-news Il mondo dell’informazione appare oggi soggiogato, intimidito, dipendente dagli urlatori della rete Non servono molte parole per lanciare un allarme. Serio e da troppi sottovalutato. Lo hanno fatto, finora inascoltati, Massimo Gramellini sul Corriere dì venerdì e Michele Serra su La Repubblica di sabato. A chi fossero sfuggiti questi due articoli ricordo il contenuto. La saracinesca di un bar di Pioltello, la settimana scorsa, va a fuoco, l’incendio è doloso. Di cosa si tratta? Racket, estorsione? No, l’attentato è stato il gesto di qualche sconsiderato che ha creduto a una informazione falsa. Sulla rete e poi in televisione è corsa la notizia che in quel bar, la sera dell’attentato a Manchester, un gruppo di immigrati avrebbe brindato per festeggiare l’assassinio di quei ragazzi innocenti. La verità è che gli avventori di quel bar stavano, prima della strage, festeggiando qualcosa di loro. Forse un compleanno, un matrimonio, un lavoro trovato. Non certo la strage, avvenuta dopo. Leggendo questa notizia falsa sul web qualcuno si è sentito autorizzato a bruciare una saracinesca. Era successo negli Usa, durante la campagna elettorale. Un bello spirito armato di un fucile AR-15 e di una pistola calibro 38 era entrato nella pizzeria Comet Ping pong di Salisbury e aveva cominciato a perquisirla, sparando anche un colpo. Cercava un centro di sfruttamento della prostituzione minorile gestito da persone vicine a Hillary Clinton. Lo aveva detto la rete e lui ci aveva creduto. Si era armato e aveva persino sparato. In Italia abbiamo visto le foto di u n’attrice spacciata per la sorella di Laura Boldrini. Si diceva che la sorella della Presidente della camera gestisse cooperative di assistenza agli immigrati. Ma purtroppo la sorella di Laura è morta da tempo e solo lo spirito da sciacalli di persone spietate ha potuto ordire un simile inganno. Qualcuno ha pagato per questo? La casistica di invenzioni create ad arte e diffuse per scopi vari è infinita. La falsa verità è un crimine. Diffondendo falsità, nella storia, si sono create le peggiori discriminazioni e tragedie. Sarebbe il caso che i decisori pubblici si fermassero a pensare che internet è un luogo di comoda propaganda ma può diventare anche il logorìo moderno della democrazia. Internet è libertà, bisogna ricordarlo. Ma per esprimersi pienamente la libertà ha bisogno, da sempre, di regole che difendano diritti, altrimenti esposti ad essere violati. Aggiungo una considerazione, per il mondo dell’informazione. Che appare oggi soggiogato, intimidito, dipendente dagli urlatori della rete. Prendo lo spunto dal coraggioso e sensibile messaggio che Claudio Marchisio, giocatore della Juventus, ha voluto pubblicare per ricordare la tragedia dei bambini immigrati morti in mare. Un gesto da padre. Qualcuno lo ha insultato, per questo. I soliti, quella schiera di professionisti dell’odio che passano la loro vita a rovesciare odio sul prossimo. Ma il problema non sono loro. È la ripresa che i giornali ne fanno, con sempre lo stesso titolo: «La rete esplode». Scambiando quei pochi, cento o mille in un paese di sessanta milioni di abitanti, per il tutto. E trasformando una minoranza nel “senso comune”. Un errore gigantesco e pericoloso. Il mondo è migliore degli haters. A me piace perciò segnalare invece le migliaia e migliaia di condivisioni che ha avuto il messaggio di Marchisio. E, in particolare, un messaggio di solidarietà di un tifoso romanista. Se la si legge così, come si dovrebbe fare, la notizia vera è che sì, la rete è esplosa. Ma in un grande applauso per una persona, non solo un giocatore di calcio, sensibile. Buona notizia, di questi tempi. Da - http://www.unita.tv/opinioni/migliori-dellodio/ Titolo: Walter Veltroni: "Renzi deve cambiare passo. Ormai il mio Lingotto è lontano... Inserito da: Arlecchino - Giugno 29, 2017, 12:36:29 pm Walter Veltroni: "Renzi deve cambiare passo. Ormai il mio Lingotto è lontano, il Pd non ha più un'identità"
L'ex segretario del Partito Democratico a 10 anni dal suo discorso del Lingotto: "Oggi il partito non è più la forza innovativa e di sinistra che avevamo immaginato. Sembra la Margherita" Di STEFANO CAPPELLINI 27 giugno 2017 ROMA - Esattamente dieci anni fa, in un albergo di Torino, Walter Veltroni era impegnato a limare gli ultimi dettagli del discorso che avrebbe pronunciato la sera del 27 giugno 2017 al Lingotto di Torino. Per molti, il vero atto fondativo del Pd di cui Veltroni si avviava a prendere la leadership. Due lustri dopo, i dem e la sinistra tutta fanno i conti con una delle peggiori tornate amministrative di ogni tempo. Veltroni è amareggiato ma non sorpreso: "Da anni la sinistra ha perso, persino nel calore delle parole, la capacità di condividere il disagio e l'insicurezza, che ormai ha tratti quasi antropologici, degli strati più deboli della società. Qualcuno si meraviglia del successo del centrodestra. Io no, perché ho sempre avuto la consapevolezza che nel Paese è maggioritario. Può non esserlo solo se c'è dall'altra parte una grande sinistra riformista, aperta e innovativa. Era questa la sfida del Lingotto". Una sinistra così innovativa da aver perso una sua identità? "Il Pd nacque anche per evitare che la sinistra italiana facesse la fine dei socialisti greci o francesi. Serviva a non limitarsi alla conquista del consenso in casa propria, ma senza perdere un incardinamento identitario forte. Una forza innovativa, non un indistinto. Non minoritaria, ma di sinistra ". Il Pd non è più di sinistra? "L'idea che entusiasmò tanti giovani stava nella costruzione di un soggetto che non voleva essere né l'ampliamento dei Ds, come qualcuno ha preteso poi di fare, né la prosecuzione della Margherita, come invece sembra essere oggi". I risultati dicono che la sinistra non attrae voti altrui e intanto perde i propri. "I dati elettorali vanno presi nella loro essenzialità. L'errore peggiore oggi sarebbe quello di aggrapparsi a giustificazioni e confronti del genere "ma abbiamo un avanzamento sui risultati del 1968". Il problema più drammatico si chiama astensione. Abbiamo sindaci eletti con il sostegno del 20 per cento del corpo elettorale. Milioni di cittadini che non sono andati a votare e tra questi una grande parte di elettori di centrosinistra". Eppure in tante città la sinistra si presentava unita in coalizione, come chiedono molti critici di Renzi. "Le coalizioni funzionano se sono vere. Se sembrano costrizioni hanno poca forza espansiva. Invece di discutere di equilibri e assetti, bisognerebbe andare a cercare gli scontenti e gli astenuti uno per uno, casa per casa e bisognerebbe unirsi su un programma di riformismo davvero radicale socialmente. Perché un altro errore sarebbe pensare che li si recupera tornando a una offerta di sinistra tradizionale". La leadership di Renzi era stata letta come l'inveramento dei principi del Lingotto. "A Renzi ho sempre riconosciuto che la sua ispirazione di fondo somigliava a quella del Lingotto. Ma ora, e gliel'ho detto con sincerità, faccia a faccia, gli consiglio di cambiare passo, serve una nuova stagione. Resta una grande risorsa e non possiamo permetterci di aprire una fase di discussione sulla leadership, ma questo comporta che la leadership mostri la sua dimensione programmatica e che dimostri di aver capito che questa è la fase dell'inclusione ". Renzi non ne vuol sapere degli scissionisti. "Andai all'assemblea nazionale del Pd perché sentivo che la scissione sarebbe stata foriera di guai. Per chi se ne è andato, e ha sbagliato a farlo, e per chi forse non ha fatto tutto il possibile per evitarlo. Le mie parole furono molto applaudite, ma evidentemente non tutti quelli che applaudivano erano d'accordo". Dieci anni fa lei disse che il Pd nasceva per i "nuovi italiani". Abbiamo imparato a chiamarli millennials: sembrano i più distanti dalla sinistra. "Si è rotto qualcosa tra la democrazia e i giovani. Parte degli astenuti sono ragazzi che pensano la politica come orrore o strumento inutile. Dissi allora che la priorità per la sinistra moderna era la lotta alla precarietà. Lo penso ancora". Il Pd ha trascorso anni a battagliare contro il M5S. Salvo scoprire poi che il vero avversario è, parole dell'altra notte, "la destra a trazione leghista". "Una grande forza riformista non dovrebbe mai proporsi "contro", ma sempre "per". Con l'anti- politica di chi non vota più perché non ti ritiene capace di produrre nuova politica, occorre saper ritrovare un dialogo. Ma serve pure contrastare con la necessaria durezza - e non è stato fatto - le campagne qualunquistiche contro la politica, perché sono regressive. Se perdi la bussola del cammino, gli eventi ti travolgono. L'alternatività alla destra deve essere fatta sentire. Sempre. Trump ci ricorda quanto sciocco sia pensare che i confini destra-sinistra siano obsoleti su ambiente, lavoro, sanità". La stagione renziana è cominciata con la rottamazione del vecchio gruppo dirigente. Rischia di finire con la rottamazione di una intera area. "Il primo a usare l'espressione fu Berlusconi. "Lei era stato rottamato, è stato richiamato", disse a Prodi durante un duello tv. Si rottamano le carcasse di auto, non le persone. Altro conto è il rinnovamento, la selezione non sulla base delle appartenenze correntizie. Mi dimisi da segretario del Pd non certo per la sconfitta alle elezioni sarde, ma contro la logica del correntismo. Quando il Circo Massimo si riempì in quel modo fantastico molti dirigenti sembravano infastiditi. La situazione non è molto migliorata. Vedo troppi capicorrente e capibastone che danno le carte e giocano al "taglia fuori"". Chi non vuole una coalizione plurale di centrosinistra si appella alla vocazione maggioritaria del suo Pd. "Attenzione, al Lingotto dicemmo: vocazione maggioritaria ma non autosufficienza. Mi auguro che sia possibile costruire un campo largo. Per questo il mio appello a Pisapia è evitare che la soluzione del suo agire sia la nascita di una forza antitetica al Pd. Ci faremmo del male". La legge elettorale non favorisce questa soluzione. "Il mio modello è sempre stato il sistema francese. Ma nelle condizione date mi batterei per una legge elettorale che introduca un premio di coalizione al 40 per cento e permetta di individuare un vincitore chiaro che dal giorno dopo garantisca stabilità e riforme al Paese". Intanto è in carica un governo di cui è perno il Pd. Può contribuire a invertire la tendenza? "Sulla sicurezza sta facendo bene, in equilibrio tra integrazione multiculturale e garanzia dei cittadini, tutti. Ora faccia due o tre cose importanti contro precarietà e disuguaglianza". La destra dice di aver vinto anche raccogliendo l'ostilità allo Ius soli. Teme che la riforma possa saltare? "Spero di no. Perderemmo ancora più consenso. Non bisogna aver paura del riformismo". Il Pd può ripartire o è vicino al capolinea? "La sinistra ha vissuto a lungo di automatismi, fondati su una società ordinata in classi sociali rigide. In questa gigantesca fluidità sociale di oggi, non ha trovato elementi ideali che parlassero trasversalmente ai nuovi bisogni di sicurezza e protezione. Mio padre è morto a 37 anni di una malattia oggi curabile, mio nonno fu torturato dai nazisti a via Tasso. Io non ho diritto di dirmi più infelice di loro, eppure quelle generazioni avevano la certezza che i loro figli avrebbero vissuto meglio di loro. Questa certezza si è persa. Recuperarla, per la sinistra, è la priorità assoluta". © Riproduzione riservata 27 giugno 2017 Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/27/news/veltroni_renzi_cambi_passo_il_pd_non_ha_piu_un_identita_-169234720/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P1-S2.6-T1 Titolo: TOMMASO CIRIACO. Veltroni: "Avanti sullo Ius soli, non è battaglia di partito... Inserito da: Arlecchino - Ottobre 09, 2017, 06:27:16 pm Veltroni: "Avanti sullo Ius soli, non è battaglia di partito: spero nei cattolici e nei grillini"
L’ex leader Pd: “Con la legge sarà un’Italia più giusta. Se il Parlamento voterà secondo coscienza si può trovare il consenso necessario” Di TOMMASO CIRIACO 08 ottobre 2017 ROMA - "Lo Ius soli non è un tema di partito, né deve diventarlo. Non può essere una bandiera elettorale. Sia piuttosto al centro di una grande campagna culturale e civile. Vorrei che ogni singolo parlamentare fosse chiamato a rispondere alla propria coscienza su un'idea di società. E a un quesito: il bambino cinese o senegalese che va a scuola con i tuoi figli deve essere considerato cittadino italiano? Può sentirsi parte di un universo di valori o deve essere respinto?". Walter Veltroni pensa che sia ancora il momento giusto. Che lo Ius soli possa diventare legge in questa legislatura. E che forse la strada migliore è davvero quella più diretta, quella di un appello semplice al Parlamento e ai suoi rappresentanti. "Quel bambino dobbiamo accoglierlo, integrarlo, conquistarlo al nostro sistema di valori, oppure dobbiamo fare in modo che si senta straniero, estraneo, respinto? Straniero parlando la stessa lingua degli altri, indossando le stesse magliette di calcio degli altri, parlando magari anche un italiano migliore degli altri? Deve essere parte del nostro mondo o ai margini?". Non è una bandiera di partito. Eppure la legge procede con la zavorra nello zaino. Chi, se non il Pd, può prendere questa battaglia sulle spalle? "Penso che non debba diventare una battaglia di un solo partito. Lo Ius soli è un atto elementare di giustizia sociale, per questo prevalga la libertà di coscienza. Certo, il Pd ha il dovere di provarci fino in fondo. Ma in questa storia non devono esserci sconfitti, né vincitori, né bandiere da sventolare in campagna elettorale. Vince lo Ius soli, non un partito. Per questo bisogna appellarsi a tutti i parlamentari. Non mancano le buone ragioni per approvare la legge che prevede filtri adeguati, equilibrata. Pragmaticamente, l'aspetto demografico, del Pil e del welfare. E poi i valori di una società dell'inclusione". Fuori dal Parlamento molto si muove, con seicento adesioni allo sciopero della fame a staffetta (ieri quella del priore di Bose Enzo Bianchi). Ma nelle Camere a chi rivolgersi, a sei mesi dal voto? "Ci sono tanti parlamentari di centrodestra sensibili al tema dei diritti. E tanti nel Movimento 5 stelle che non riesco a immaginare sulle posizioni della Lega, almeno per come li conosco". Il problema arriva prima ancora dal veto di Ap. "Fatico a pensare che molti dei parlamentari di Ap, una volta superata una preoccupazione politica, non siano interpellati nelle loro coscienze di cittadini e cattolici. Bisogna provarci". Anche a costo di non farcela? "Tra provare e non farcela oppure comunque non farcela, non ho dubbi. Provarci, accompagnando il tentativo con una sincera campagna civile e culturale. Penso alle parole di papa Francesco, a come si è esposta la Chiesa, la Cei, le associazioni. È materia per uomini di buona volontà. Sia chiaro, non voglio che appaia soltanto come una battaglia di principio. È importante difendere la nostra identità e garantire la sicurezza, come sta facendo in modo equilibrato ed efficace il ministro Minniti. E per fare tutto questo occorrono anche autentiche politiche di integrazione". L'appello alle altre forze, dunque. Ma il Pd? A giugno lei chiedeva un riformismo più coraggioso. Più coraggio serve adesso al partito che ha fondato per portare a casa la legge? "Penso che siamo alle radici della identità profonda di un pensiero democratico. Ciò che ha sempre distinto il nostro sistema di valori è scommettere sull'integrazione contro la discriminazione e confidare sul valore dell'equità e della cultura delle opportunità. Esiste nella società di oggi un bisogno di sicurezza, fisiologico quando le crisi economiche sono drammatiche. La sicurezza moderna, per tutti, richiede non solo rigore, anche inclusione". Ma c'è la destra e il populismo di chi mette assieme barconi e Ius soli, terrorismo e integrazione: non è destinato a prevalere chi parla il linguaggio semplice, diretto alla pancia? "Quando qualcuno parla al fegato, la sinistra deve parlare al cuore e al cervello. I peggiori disastri della storia si verificano se di fronte a chi parla al fegato si reagisce imitandolo o nascondendosi. Contro la politica fondata sulla paura esiste solo quella che agisce sulla speranza. Se non si è Obama, vince Trump". Si perdono le elezioni, però. I sondaggi dicono che non conviene insistere. "Capisco il tema del consenso, i sondaggi non favorevoli. Ma credo che solo una campagna persuasiva possa cambiare il corso delle cose. E poi c'è la politica". Che consiglia di provarci comunque? "La politica deve collocarsi più avanti del sentimento comune. Se Roosevelt avesse chiesto con un referendum agli americani di mandare i loro figli a morire per sconfiggere Hitler e Mussolini, avrebbe visto prevalere il 'no'. E se Kennedy avesse lanciato un referendum per chiedere se aprire ai ragazzi neri le università dei bianchi, cosa gli avrebbero risposto? La grandezza della politica sta nel seguire un progetto, un'idea del mondo e delle relazioni tra le persone". La politica si sente poco, a dire il vero. "Sta perdendo peso e ruolo. Il risultato è che si mostra conservatrice o impaurita dal sentiment dell'opinione pubblica. La convivenza umana è legata all'equilibrio tra identità e apertura. Sa, io non sono affatto sordo al tema dell'identità, della nazione e delle radici. Ma se tutto questo si contrappone all'apertura, se ci si fa 'piccola patria' in un mondo globalizzato, se prevale la paura dell'altro - di qualsiasi altro - allora lastrichiamo la strada verso il conflitto e la violenza. È sempre successo così, nella storia". Veltroni si ferma. Cerca un libro. Legge un passaggio di 'Cari fanatici' di Amos Oz: "'Nessun uomo è un'isola, ma ognuno di noi è una penisola, una mezza isola'. Tutti noi siamo per metà connessi a quella terraferma che è la famiglia, la lingua madre, la società, l'arte e la conoscenza, lo stato e la nazionalità e via di seguito, mentre per l'altra metà ognuno di noi volge le spalle a tutto ciò e guarda verso il mare, le montagne, gli elementi eterni, i desideri reconditi, la solitudine, i sogni, le paure e la morte". Identità e apertura? "Ho coscienza della mia storia, ma mi apro agli altri. È il gesto semplice di aprire la porta di una classe, come quando da bambini arrivava un nuovo compagno. A me, negli anni sessanta, capitò uno di Ascoli, e noi a pensare 'caspita, viene dalle Marche, come sarà?'. Non possiamo pensare che la globalizzazione sia solo Instagram e sia solo per ricchi. Se il mondo non accetterà la meraviglia della libertà e dell'arcobaleno, finirà che torneremo tutti vestiti dello stesso colore". © Riproduzione riservata 08 ottobre 2017 Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/08/news/veltroni_avanti_sullo_ius_soli_non_e_battaglia_di_partito_spero_nei_cattolici_e_nei_grillini_-177658072/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T1 Titolo: Veltroni alla festa per 10 anni Pd: Ulivo abbattuto da massimalismo e divisioni Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2017, 12:23:04 pm Veltroni alla festa per 10 anni Pd: "Ulivo abbattuto da massimalismo e divisioni"
14 ottobre 2017 ROMA - Un'ovazione ha accolto sul palco del Teatro Eliseo, che ospita la convention per i 10 anni del Partito Democratico, Walter Veltroni, tra i primi a prendere la parola. Ed è stato il ricordo del governo Prodi, secondo l'ex sindaco di Roma il migliore della storia Repubblica, al centro del suo intervento. "Il Pd nacque con 10 anni di ritardo - ha detto di fronte alla platea, che ha visto in prima fila tra gli altri, i ministri Giuliano Poletti, Graziano Delrio, Valeria Fedeli, Dario Franceschini, Roberta Pinotti, Marco Minniti e la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi - doveva essere la naturale prosecuzione della storia dell'Ulivo. Con l'Ulivo tutta la sinistra governava l'Italia. Quel governo è stato il migliore della storia repubblicana, prima di tutto per l'autorevolezza di chi lo guidava, Romano Prodi. Quella esperienza però dopo due anni finì, abbattuta dai due mali storici della sinistra, il massimalismo e le divisioni", ha aggiunto. E ha lanciato un appello a superare, appunto, quelle divisioni interne, che impediscono di rivolgere lo sguardo al futuro: "Il passato è passato. Non ci resta che il futuro. Vorrei che il nostro sguardo si alzasse sulla polvere delle baruffe quotidiane". Per Veltroni "l'elettore di sinistra aspetta questa notizia: un giorno, anche solo 24 ore, senza una scissione o una divisione, che rendono più deboli noia e più forti gli altri". "Il riformismo può essere maggioranza in questo Paese - ha proseguito -: il Pd nacque per raccontare una nuova storia al Paese: finalmente ci si unisce e non ci si tirano i piatti alla prima occasione". Non si deve avere paura, ha proseguito Veltroni, "della parola Sinistra, è un'idea del mondo e della giustizia, cambiata nel tempo come è dovere farlo, la sinistra ci ha messo troppo a capire che libertà e giustizia non sono separate. Sinistra è libertà, per me sinistra era quel ragazzo cinese con le buste della spesa e non il carro armato". "Non dobbiamo aver paura di essere sinistra riformista, democratica, di governo", ha aggiunto. Poi, rivolto al presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e al segretario del Pd, Matteo Renzi, li ha esortati a fare tutto il possibile per approvare la legge sullo ius soli: "Vorrei che la legislatura si concludesse con l'approvazione dello ius soli. Paolo e Matteo fate ciò che è necessario". Appello a cui Gentiloni ha risposto: "Abbiamo introdotto le unioni civili in questo Paese e ne siamo orgogliosi. E spero che saremo orgogliosi di poter dire che un altro diritto, quello dei bambini che frequentano le nostre scuole, che sono nei nostri quartieri e giocano nelle squadre di calcio, ma che sono nati da genitori stranieri, possano avere il diritto alla cittadinanza". Veltroni si augura, poi, che il Partito democratico stringa alleanze: "Le alleanze si fanno prima e ci si presenta ai cittadini, alleanze che spero il Pd faccia. Il Pd nasce con l'idea dello spirito maggioritario e dell'alternanza" e l’Italia "non può più conoscere maggioranze spurie", ha aggiunto. "Il puro anti-berlusconismo - ha detto ancora - è stato il più gigantesco mallevadore del berlusconismo. Oggi serve un'alternativa programmatica e di valori che sia chiara". Per quanto riguarda la sua scelta di vita, dice che "è e resterà diversa dal passato. Si può fare questa scelta senza fare male alle persone con cui condividi un ideale...Sono intervenuto durante l'assemblea nazionale per evitare una scissione", ha ricordato: "La mia vita è e sarà diversa, ma non sarà altrove". © Riproduzione riservata 14 ottobre 2017 Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/14/news/pd_veltroni_ulivo_abbattuto_da_massimalismo_e_divisioni_-178239195/?ref=RHPPLF-BL-I0-C8-P1-S1.8-T1 Titolo: Walter VELTRONI. - Pd, Veltroni: "Divisione irresponsabile, è autostrada dest Inserito da: Arlecchino - Novembre 18, 2017, 05:46:45 pm Pd, Veltroni: "Divisione irresponsabile, è autostrada destra".
"Contro Renzi troppa acrimonia" Il fondatore del Partito democratico: "Il segretario dem deve saper includere e accettare critiche. Mi colpisce però anche acrimonia verso di lui" 12 novembre 2017 ROMA - Nuovo appello all'unità della sinistra di Walter Veltroni che esorta i leader di partiti grandi e piccoli a mettere da parte rivalità e aspirazioni egemoniche. "La sinistra - ha detto a 'Mezzora in più' su Raitre - ha il dovere, in questa fase della storia italiana, di trovare la capacità, l'umiltà responsabile, per ricomporre le proprie diversità". Veltroni, a proposito di un suo eventuale ritorno in politica, chiarisce: "Da anni ho fatto una scelta molto radicale di vivere una nuova fase e l'ho fatto, ma questo non comporta che non dica le mie opinioni pur non avendo ruoli in politica". Il su appello arriva dopo quello fatto da Giuliano Pisapia per l'unità del centrosinistra. "Bisogna voltare lo sguardo - esorta Veltroni - smetterla di stare dietro a Twitter e Facebook", o meglio "va bene usare tutto, ma poi c'è la vita reale, il dolore delle persone, c'è la precarietà". "Dividersi - ha ribadito - è da irresponsabile, apre un'autostrada per la vittoria del centrodestra. Faccio un appello ai partiti, alle persone con le quali ho lavorato e con le quali ho militato per tanti anni: non fate l'errore di separarvi, di combattervi, perché sarebbe un errore storico incalcolabile. A forza di cercare quelli più omogenei a se stessi, si finirà con il diventare sempre più piccoli". "La prima cosa che mi piacerebbe sentir dire da Renzi - ha affermato Veltroni riferendosi alla riunione della direzione Pd, in programma domani - é che prima della fine della legislatura, si portino a conclusione lo ius culturae e il biotestamento. Questo sarebbe già un segnale di apertura molto importante, insieme alla ricerca di politiche sociali ed economiche innovative di lotta alla precarietà e alla povertà". "Se si dicesse questo - ha continuato - se si mettessero intorno a un tavolo il presidente Grasso e le altre forze politiche della sinistra che si vanno componendo, sarebbe un enorme passo avanti. Se non ci si prova c'è un rischio di tornare indietro ai Ds e alla Margherita ma in dimensione bonsai". "Io mi auguro che Renzi abbia questa capacità ma che anche tutti gli altri si rendano conto della serietà del momento che ci sta passando davanti. Come mi auguro che Mdp cambi idea e che si accorga che la loro posizione 'se c'è Renzi, non ci siamo noi, è sbagliata perché non offre nessuno sbocco e quindi va cambiata. Si può stare in una coalizione nella quale ci sono diverse leadership. Saranno le elezioni a decidere chi debba prevalere. Insisto: ma perché non parlano dei contenuti?", domanda infine Veltroni. "Io che ho inventato la vocazione maggioritaria - ha poi sottolineato - dico che si può e si deve cercare costruire alleanze sia al centro che a sinistra. Lo abbiamo sempre fatto. Altrimenti vincerà la destra, o meglio non vincerà nessuno". Quanto al fronte Mdp, "conosco bene - ha detto Vetroni - D'Alema e Bersani: non sono estremisti. Devono smetterla di dire no ad alleanze con il Pd se c'è Renzi. È sbagliato. In giro contro Renzi c'è un'acrimonia esagerata e sbagliata. Mancano pochi mesi alle elezioni. Bisogna lavorare per realizzare un'alleanza democratica larga senza preclusioni". "In passato - ricorda - se ne sono fatte anche con Mastella...". "C'è il rischio - ha spiegato Veltroni - in questo processo di messa in discussione della democrazia in Europa, che la sinistra si divida, spacchi il capello in quattro e ci si odi gli uni con gli altri". Lo ha detto Walter Veltroni a In Mezz'ora in più, su Rai 3. "Non è che arriva Tejero o Mussolini - ha aggiunto - ma arrivano nuove forme di assolutismo". "Io - ha aggiunto - ho inventato l'espressione 'vocazione maggioritaria'. Ma la vocazione maggioritaria del Pd per me non è mai stata isolamento. Ma vuol dire che l'orizzonte non è il 25 per cento. È conquistare un consenso maggioritario costruendo a sinistra e al centro uno schieramento capace di vincere". "Se una cosa posso fare da osservatore appassionato è dire non fate una cosa che nella storia verrà ricordata: la divisione della sinistra". "La sinistra è stata abituata a strutturarsi in una società strutturata: gli incontri, la fabbrica. Ora che non ci sono più elementi strutturanti sembra aver perso il suo cuore, e non solo in Italia. Il vero tema di oggi è cosa sarà della democrazia, che è una parentesi nella storia della società umana tra Auschwitz e i gulag". Per Veltroni "il vero tema dei nostri tempi è la messa in discussione della democrazia". "Ho l'impressione - ha osservato - che la sinistra in Europa non veda l'effetto anni '30. Ho in mente l'immagine del corteo che c'è stato in Polonia ieri: 3 chilometri, pieno di gente, all'insegna di parole d'ordine come 'cacciamo gli ebrei e gli immigrati'. In Polonia si sta affermando una destra nazionalista - continua Veltroni - In Italia questi movimenti li abbiamo visti a Ostia: è il segno che si sta facendo strada un populismo di destra intollerante, base su cui si sta costruendo la destra europea". "Se la sinistra perde la sua forza sociale lascia spazio a forze che cavalcano la rabbia". "Non esiste sinistra che non faccia i conti con le situazioni di emarginazione, precarietà, dolore. La sinistra è questo. E' la sua funzione storica", "La sinistra sbaglia quando decide troppo poco, non quando decide", ammonisce il fondatore del Pd. "Se c'è un momento in cui la sinistra avrebbe il dovere di comporre le diversità è in questo momento. Fare ora una campagna elettorale in polemica è aprire un'autostrada alla destra. Sono divisioni irresponsabili in questo momento storico". Si tratta di una "destra eterogenea - ha sottolineato - perchè stanno insieme è complicato da comprendere". "Ma la sinistra è stata abituata a organizzarsi in una società strutturata. Le fabbriche, i luoghi di lavoro, le sezioni, ora che la società si è disaggregata la sinistra sembra avere perso le parole giuste. Il vero tema di oggi è cosa sarà della democrazia". "A Renzi gliel'ho sempre detto: cerca di includere, accogliere, anche coloro che sono più lontani. Accetta le critiche e le osservazioni perchè si dirige un partito, una comunità". Però "mi colpisce anche l'acrimonia verso Renzi dall'esterno. C'è un'esagerazione e tutti dovrebbero capire che c'è un limite, limite che riguarda il nostro popolo". "Domani - ha detto ancora Veltroni - mi piacerebbe che Renzi dicesse 'noi chiudiamo questa legislatura con lo ius soli e il biotestamento'. Poi incontrare Grasso e le altre forze di sinistra perchè sennò il rischio è di tornare a Ds e Margherita, due bonsai". "Convivere con le diversità è una capacità politica che anche Renzi deve imparare. Se si continua a cercare chi è uguale a se stessi si diventa piccoli piccoli". Altrimenti, dice Veltroni, "vince la destra o non vince nessuno". © Riproduzione riservata 12 novembre 2017 Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/12/news/pd_veltroni_sinistra_sembra_aver_perso_le_parole_giuste_-180906116/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1 Titolo: Veltroni: "Se è regolamento di conti, a sinistra solo macerie". Inserito da: Arlecchino - Novembre 20, 2017, 05:32:21 pm Veltroni: "Se è regolamento di conti, a sinistra solo macerie".
Bonino: "Per ora niente accordi con il Pd" L'ex segretario del Pd invita i bersaniani a ripensarci: "Torniamo ad essere una comunità". La leader radicale: "Distanti dai dem su giustizia e migranti". Pisapia: "Nulla è scontato, necessari segnali di discontinuità" 20 novembre 2017 ROMA - "Se il problema è regolare i conti a sinistra, resteranno solo le macerie". Il giorno dopo la rottura definitiva tra Mdp e Pd, il "padre nobile" Walter Veltroni interviene a Skytg24 con un ultimo appello: “Il Pd per la prima volta nella storia della sinistra è nato per fusione e non per scissione. La divisione è un demone della sinistra che porta al tanto peggio tanto meglio. Ma penso sia un errore". A Pier Luigi Bersani l'ex segretario del Pd risponde: “Prendo atto, bisogna rispettare le posizioni degli altri, la risposta di ieri, dopo tanti appelli, è secca e netta. Non vedo cosa possa portare di positivo alla sinistra italiana, se per effetto di questa divisione dovesse vincere il centrodestra ci sarebbero da fare considerazioni amare. Il centrosinistra deve tornare ad essere una comunità". E, rispetto all'opposizione di Mdp al segretario dem Matteo Renzi, considerato "un ostacolo", afferma: "Se è solo questo, è sbagliato. È stato il segretario del loro partito fino a qualche mese fa, adesso è diventato il problema? Certo Renzi deve essere capace di includere e aprire, ma che a sinistra il nemico sia la sinistra è grave". Intanto, sul fronte della coalizione in via di costruzione del Pd, Emma Bonino per ora sconfessa l'ipotesi di alleanze con i dem: "Giovedì presentiamo Più Europa, il simbolo della nostra lista europeista - spiega a Circo Massimo su Radio Capital, condotto da Massimo Giannini e Jean Paul Bellotto - ma per ora non abbiamo accordi con nessuno". Centrosinistra, Bonino: "Non ho preclusioni, ma nessun accordo con il Pd" La leader dei Radicali italiani precisa: "Siamo lontani sui temi della giustizia, sul tema migratorio". E aggiunge: "Noi siamo al lavoro per l'agibilità politica degli italiani. Non ho preclusioni, ma non ho accordi, puntiamo a sconfiggere l'astensione, il disamore per la politica". Poi conclude: "Allo stato attuale non c'è però neanche nessuna possibilità che si possa presentare la nostra lista alle elezioni per il problema delle firme che sarà impossibile raccogliere, visto che ne servono 900 per ognuna delle 70 circoscrizioni previste". Anche il leader di Campo progressista Giuliano Pisapia è prudente sull'ipotesi di alleanza con i dem: "Fare un programma condiviso è importante e fondamentale, ma se guardo al futuro, al dopo elezioni, dico che bisogna prima vincerle le elezioni. E per vincere le elezioni bisogna dare un segnale immediato di discontinuità e di cambiamento, fin dalla legge di bilancio", afferma a "6 Su Radio 1". E conclude: "Nulla è scontato, ma certo che intervenire sui superticket per il diritto alla salute, sulla dignità del lavoro e sul precariato, con un maggior impegno sulle diseguaglianze, sarebbero segnali di svolta, decisivi per il futuro". © Riproduzione riservata 20 novembre 2017 Da http://www.repubblica.it/politica/2017/11/20/news/centrosinistra_veltroni_bonino-181597347/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_20-11-2017 Titolo: Veltroni: La sinistra ritrovi se stessa e torni dove c’è il popolo (Ma quale?) Inserito da: Arlecchino - Marzo 19, 2018, 10:44:05 am Veltroni: «La sinistra ritrovi se stessa e torni dove c’è il popolo»
Intervista al fondatore del Pd: “Senza l’idea di partecipare a qualcosa di grande, la politica si riduce a pura macchina di potere, fredda e repellente”, di Aldo Cazzullo, Corriere della Sera Pubblicato il 18 marzo 2018 in News Veltroni, la sinistra italiana è al minimo storico. «È abbastanza incredibile la rapidità con cui si è passati sopra la più grande sconfitta della sinistra nella storia del dopoguerra, per ricominciare la consueta danza degli hashtag e dei tweet, per dibattere su cosa fare domani mattina; che è sicuramente un problema, ma prima ancora occorre capire perché siamo al bipolarismo tra 5 Stelle e Lega, e il Pd ha perso metà dei 12 milioni di voti che prese nel 2008». Che fare? «Sottrarci al presentismo assoluto che domina ormai ogni segmento del nostro discorso pubblico. Gramsci definiva il partito come intellettuale collettivo. Pare un ossimoro: l’intellettuale è pensato come un individuo solo con le sue speculazioni. Per me significa la meraviglia del capire insieme. Insieme si capisce molto di più che da soli». Lei cos’ha capito? «Questa sconfitta non nasce per caso. Non è un accidente. La sinistra non ha colto la trasformazione della società. È stata forte quando la società era strutturata, organizzata per classi, con forti elementi unificanti. Nella società liquida la sinistra si è persa. Ha perso la sua capacità di essere se stessa, di rappresentare dentro il tempo della precarietà e della coriandolizzazione dell’esperienza umana il proprio punto di vista. Ha perso quel che la sinistra non può perdere: il rapporto con il popolo. Senza il popolo non esiste la sinistra». Il Pd ha vinto nei centri storici ed è stato travolto in periferia. «Invece dovrebbe stare dove c’è più disagio, più povertà, più disperazione, più angoscia. La vera questione oggi è questa: come si interpreta il punto di vista della sinistra, che è sempre esistito? La sinistra non è nata con i parlamenti; è nata con la rivolta degli schiavi. C’è sempre stato nella storia umana un sentimento, un punto di vista della sinistra: sempre dalla parte dei più deboli, nei suoi momenti migliori armonizzando libertà e giustizia sociale, nei momenti peggiori separandoli. Oggi il sentimento della sinistra deve rispondere alla grande inquietudine del nostro tempo, alla sensazione di solitudine dell’esistenza. Mi ha colpito che in campagna elettorale il Pd sia stato impegnato a dire quanto era stato bravo nei mille giorni di governo; sideralmente lontano dallo stato d’animo di un Paese uscito da questi anni di crisi profondamente stordito». Stordito? «Il 40% delle famiglie è composto da una sola persona. Il 23% vive con meno di 830 euro almese; tra gli under 45 la percentuale sale al 30%, al Sud al 40%. Il reddito medio delle famiglie italiane è 11 punti sotto l’inizio della crisi. Si aggiunga il mutamento della condizione di vita degli esseri umani, segnato dalla precarizzazione di ogni aspetto dell’esistenza: il lavoro, le relazioni tra le persone, il tempo successivo al lavoro; tutto è dominato dalla precarietà e dalla paura». Il Pd rivendica che l’Italia si sia rimessa in moto. «Vero. Ma la preoccupazione per il futuro dei figli è fortissima. Ricordo una trasmissione degli anni 60: Enzo Biagi intervistava un contadino con la camicia a scacchi che parlava dialetto. Dietro c’era il figlio, tutto elegante, con gli occhiali alla Gino Paoli. Il padre diceva: gli ho fatto prendere la licenza superiore. C’era in quella frase il senso di una vita: io mi sono spaccato la schiena nei campi, ma mio figlio starà meglio di me. La rottura di questa certezza è qualcosa che cambia l’esistenza umana». Non accade solo in Italia. «Infatti la sinistra è sconfitta in tutto l’Occidente. Ora deve trovare le politiche che consentano di dare nuova stabilità e nuove garanzie, per far sì che la vita non sia una giungla: se un ragazzo sta in un call-center e guadagna 33 centesimi all’ora è roba da schiavismo. E la sinistra deve immaginare forme di democrazia più robuste di quelle che abbiamo conosciuto. L’errore drammatico è stato togliere alla nostra comunità le emozioni e la memoria». Cosa c’entrano le emozioni? «Le emozioni sono molto importanti in politica, e sono il principale antidoto alla paura. Senza l’idea di partecipare a qualcosa di grande, la politica si riduce a pura macchina di potere, fredda e repellente». E la memoria? «Togliendo la memoria, la sinistra ha tolto alla sua comunità il desiderio di futuro. Ma non possiamo vivere al ritmo concitato di tweet che si contraddicono, senza la consapevolezza che la storia non comincia con te; comincia con Spartaco, ed è una storia fatta di sangue, di generosità, di sacrifici, di libertà negate, di persone che ci hanno rimesso la vita. Noi siamo il prodotto di tutto questo, delle contraddizioni e delle tragedie. La nostra forza, diversamente da “Noi con l’Italia” o consimili, è essere un elemento permanente della storia». A dire il vero sembrate sull’orlo di sparire. «L’altro giorno per gioco ho chiesto a Siri, voce del cellulare: tu sei di destra o di sinistra? Mi ha risposto: “Francamente me ne infischio”». Lei pensa invece che destra e sinistra esistano ancora? «La sinistra non può non esserci. La storia ha bisogno che ci sia qualcuno dalla parte degli ultimi e dei diritti: il mondo è andato avanti grazie a questo. Lo dimostra in queste ore il sacrificio di Marielle Franco in Brasile. E lo dimostrano, per converso, i dazi e i muri». Concretamente cosa dovreste fare? «Ho visto quei circoli Pd chiusi in un tristissimo e bel servizio di «Piazzapulita»; si riaprissero subito, per convocare migliaia di persone a discutere. Ricordo quando Berlinguer propose il compromesso storico: milioni di persone si trovarono in luoghi fisici per parlarsi; il calore, lo scambio meraviglioso, l’incontro di punti di vista diversi. A me piacerebbe che il Pd ora avesse l’ambizione di capire, più che di dire». Cos’è cambiato rispetto al 2008? «Il Pd è stato il Pd per un breve periodo. Poi è somigliato troppo ai Ds, quindi troppo alla Margherita. Il Pd ha bisogno di apparire ciò che è: una forza della sinistra con ambizioni maggioritarie. Ha bisogno di partecipare al dolore delle persone, di un sogno, di un’idea della democrazia oltre la disintermediazione». Il Pd non è finito secondo lei? «No. Al contrario: è l’unica soluzione possibile. Non possiamo rimettere in discussione un’idea che abbiamo impiegato dieci anni di troppo a fare, ma abbiamo fatto dieci anni prima degli altri. Sarebbe un errore gigantesco. L’esito di Leu dimostra che la soluzione non è tornare al passato; è fare il Pd come l’abbiamo immaginato, portandolo al 34%». Con Berlusconi sopra il 38. Quelle elezioni le avete perse, non vinte. «Nessuno poteva seriamente pensare di vincerle. Fu un miracolo: partivamo dal 22%. Lo disse Gentiloni: non confondiamo il sogno dell’Ulivo con l’incubo dell’Unione; e noi venivamo dall’incubo dell’Unione. Bisognerebbe recuperarla, quell’idea che poi fu giustiziata dal potere interno». Cosa pensa di Renzi? «A Renzi non riserverò nessuna delle parole che furono riservate da Renzi alle persone che in altri momenti avevano avuto responsabilità di guida della sinistra. Rispetto il suo lavoro, lo rispetto come persona. Il problema non è lui; è molto più serio, più profondo, più sconvolgente. La sinistra ha perso tutte le elezioni dal 2o14. È come il conte Ugolino, ha divorato i suoi figli uno dopo l’altro; e ciascuno che arrivava pensava che tutto cominciasse con lui. È il momento di ricostruire una comunità che si è perduta, fatta anche dalla pluralità dei punti di vista e dal confronto con chi la pensa diversamente». II Pd deve stare all’opposizione? «All’opposizione sì. Ma deve esserci un governo. È giusto che a fare proposte siano altri, chi ha avuto un successo elettorale». Una maggioranza Lega – 5 Stelle? «Non la auspico, non ho mai condiviso la logica del tanto peggio tanto meglio. Il Pd sia un interlocutore non degli altri partiti, ma del presidente della Repubblica. Sarebbe sbagliato, per evitare le elezioni, rispondere di sì a chiunque chieda al Pd, dopo averlo insultato, di sostenere il proprio governo. Ma può darsi si creino le condizioni, attorno a un’iniziativa del presidente, per dare al Paese un governo che eviti il ricorso alle urne e affronti la legge elettorale e la questione sociale». Dialogo con i 5 Stelle? «Dipende se i 5 Stelle insistono nel pretendere l’appoggio al governo scritto prima del voto, oppure concordano che non è tempo d’imposizioni. Se a fine crisi, sotto la regia del capo dello Stato, emergesse un’ipotesi a certe condizioni programmatiche – adesione chiara all’Europa, politiche sociali, ius soli, qualità e indipendenza dell’esecutivo -, il Pd farebbe bene a discuterne». Meglio i 5 Stelle della Lega? «Una parte del nostro elettorato è finita ai 5 Stelle; una piccola nella Lega, il resto, tanto, nell’astensione. Il Pd fa bene per ora a stare dov’è. All’opposizione». Ogni tanto si evoca il suo ritorno. Potrebbe essere lei il nuovo leader? «Vale quello che ci siamo sempre detti: ho fatto una scelta di vita diversa. Quel Pd fu impedito da gran parte dei maggiorenti del partito: un errore di cui paghiamo ancora il prezzo. La mia passione politica si può esercitare senza potere; e io avrò passione politica fino a quando avrò gli occhi aperti. E sbagliata l’idea che la passione politica e il potere siano la stessa cosa. Milioni di italiani hanno cambiato questo Paese senza essere consiglieri regionali». Da - https://www.partitodemocratico.it/news/veltroni-sinistra-popolo/ Titolo: Walter VELTRONI. Non chiamiamoli populisti: contro questa destra estrema è ... Inserito da: Arlecchino - Settembre 02, 2018, 10:48:04 pm Non chiamiamoli populisti: contro questa destra estrema è l'ora di una nuova sinistra
L'ex segretario del Pd interviene nel dibattito sulla costruzione dell'alternativa: "Il momento è pericoloso, non si ha la percezione dei rischi che corre la democrazia" Di WALTER VELTRONI Luciano Gallino, intellettuale di sinistra - definizioni che sembrano diventate brutte parole - scrisse più di venti anni fa l'introduzione a un libro nella quale diceva "la distruzione di una comunità politica, la fine della democrazia, è sempre possibile... Oggi come allora gli avversari della democrazia circolano numerosi tra noi, ma stanno anche dentro di noi, nel perenne conflitto, che è a un tempo sociale e psichico, tra bisogno di sicurezza e desiderio di libertà". Il volume era Come si diventa nazisti di William Allen, uno storico che si incaricò di raccontare come una piccola comunità dell'Hannover si trasformò da città storicamente di sinistra a feudo del nazismo, in cinque anni passato dal 5 per cento al 62,3. Allen scrive che "il problema del nazismo fu prima di tutto un problema di percezione". Non esiste evidentemente in Italia e altrove un pericolo nazista, anche perché la storia non si ripete mai nello stesso modo. Ma la mia angoscia, l'angoscia di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita a ideali di democrazia e progresso, è che non si abbia la "percezione" di quello che sta accadendo. Che non ci si accorga che parole un tempo impronunciabili stanno diventando normali. Non mi interessa qui la miseria della polemica politica quotidiana che ha perso la dignità minima. Sembrano tutti il Malvolio di La dodicesima notte di Shakespeare che dice, tronfio, "Su tutti voialtri prenderò la mia vendetta". Credo si debba uscire dal presentismo che domina il nostro tempo, che toglie respiro, serietà, credibilità alle parole e ai gesti. Guardare il mondo e interpretare i segni che ci pervengono. Fu quello che nell'estate del 1939 non si fu capaci di fare, mentre l'umanità precipitava in una guerra terribile. Guerra come quella che solo vent'anni prima aveva fatto diciassette milioni di vittime. Mentre sulle spiagge si prendeva ignari il sole e nei cuori si inneggiava al duce e al fuhrer, si stava preparando un conflitto che avrebbe prodotto 68 milioni di morti e la tragedia della Shoah. Papa Francesco ha parlato più volte, inascoltato, di una terza guerra mondiale. Per molti nostri coevi la guerra non è un deposito della storia o un monumento alla memoria. È la vita quotidiana, il dolore quotidiano in un mondo sordo e cieco. È lo stupore del bambino di Aleppo che seduto in un'ambulanza si tocca il viso scoprendolo pieno di sangue, è il corpo di Alan con la sua maglietta rossa sulla spiaggia turca e quello di suo fratello Galip, cinque anni, inghiottito dal mare. Ma noi, l'Occidente che ha attraversato la seconda guerra mondiale e l'orrore dei regimi autoritari, dell'hitlerismo e dello stalinismo, noi dove stiamo andando? Intervenendo al Festival delle idee di Repubblica, mesi fa, sono tornato sul paragone con Weimar. Non sono pessimista, non lo sono per carattere. Ma non voglio assuefarmi alla legge del "politicamente corretto" per cui si finisce con l'omettere o l'umettare la sostanza delle proprie ragioni. Guardiamoci intorno. Cito due macrofenomeni: i dazi e la messa in discussione dell'Europa. Nella storia l'apposizione dei dazi è sempre stata la premessa per conflitti sanguinosi. Nel tempo della globalizzazione, fenomeno oggettivo, è impensabile agire lo strumento del protezionismo esasperato. Il conflitto tra Usa e Cina e tra Usa ed Europa, segnato dalle politiche di Trump, potrà avere effetti rilevanti sulla distensione internazionale. Ma il secondo dato è il più grave. Quando Spinelli pensò l'Europa unita, il nostro continente era in fiamme. È stata la più grande conquista di pace della storia umana, in questa parte del mondo. Ma ora tutto sta crollando. Logorato prima dalle timidezze dei governi democratici e ora dalla esplicita volontà antieuropea di un numero crescente di Stati. La Gran Bretagna è uscita, con il voto degli inglesi, e il gruppo di Visegrad si propone un'Europa minima, senza principi, valori, strategie comuni. Il nostro Paese, fondatore dell'unità europea, improvvisamente ha come riferimento Orban e la sua "democrazia autoritaria". Un modello che tende ad affermarsi, dalla Russia alla Turchia. Si fanno strada regimi che tendono a concentrare nelle mani di pochi il potere, che limitano la libertà di stampa e di pensiero, che incarcerano gli oppositori. Qui, in Europa. La "fine della democrazia è sempre possibile", anche in forme storicamente inedite. Come ai tempi di Weimar, quando la crisi delle istituzioni e dei partiti, spesso divorati dalla corruzione, si intreccia con la recessione economica, si genera un bisogno di sicurezza che può essere più forte del bisogno di libertà. Il populismo, espressione comoda per indicare una politica che a questo disagio si rivolge, è, per tutto questo, una definizione sbagliata. È destra, la peggiore destra. Quella contro la quale un galantuomo come John McCain ha combattuto fino all'ultimo. Definirla populista è farle un favore. Chiamiamo le cose con il loro nome. Chi sostiene il sovranismo in una società globale, chi postula una società chiusa, chi si fa beffe del pensiero degli altri e lo demonizza, chi anima spiriti guerrieri contro ogni minoranza, chi mette in discussione il valore della democrazia rappresentativa, altro non fa che dare voce alle ragioni storiche della destra più estrema. Altro che populismo. Qualcosa di molto più pericoloso. Ma ciò che la sinistra, impegnata a dividersi e rimirarsi allo specchio, non ha capito è che in questi anni è andata avanti una gigantesca riorganizzazione della intera struttura sociale. Qualcosa di paragonabile agli effetti della rivoluzione industriale. Il lavoro ha cambiato natura, facendosi aleatorio e precario. E se la macchina a vapore ha creato l'industria moderna e con essa le classi sociali e le città, così la nuova rivoluzione tecnologica, ancora agli inizi, finisce con il sostituire tendenzialmente l'uomo con la macchina e con il mutare tutti i codici cognitivi e comunicativi. La società è segnata da una sensazione di precarietà che la domina, che ne mina la fiducia sociale nel futuro. Non si può pensare che un tempo in cui le famiglie italiane hanno perso undici punti di reddito rispetto alla fase precrisi, in cui la differenza tra ricchi e poveri è aumentata, non sia carico di un drammatico disagio. Un disagio che fa sì che prevalga la paura sulla speranza. La società, come un corpo contratto, si ritrae in una posizione orizzontale. Rifiuta ogni delega, anima della vera democrazia. Non vuole sapere la verità dai giornali, non accetta il parere degli scienziati, contesta persino fisicamente professori e medici, nega il valore della competenza politica fino a mettere in discussione il parlamento, per il quale si ipotizza una estrazione a sorte dei suoi membri. Ma la società orizzontale finisce col postulare un potere verticale. La sinistra non ha capito che quando si è posto, da Calamandrei in poi, il problema della trasparenza e della velocità della democrazia si cercava esattamente di rispondere a questo bisogno. In una società veloce una democrazia lenta e debole finisce con l'essere travolta. Più la democrazia decide, più resterà la democrazia. Meno decide e più sarà esposta alla pantomima di questa estate allucinante, con un governo che le spara grosse su tutto. Che arriva a sequestrare una nave militare italiana in un porto italiano, a giocare spregiudicatamente la vita di esseri umani per qualche voto esacerbato. Che minaccia l'Europa con un misto di arroganza e incompetenza. Che annuncia cose che non può fare, non sa fare, non farà. Ma nel presentismo assoluto resta nell'aria solo il grido acuto dell'intemerata. Trump in campagna elettorale disse che, se anche avesse preso un fucile e fosse andato sulla Quinta strada a sparare, non avrebbe perso un voto. Temo fosse vero. E così un ministro dell'Interno indagato per abuso d'ufficio si deve dimettere se è di centrosinistra e uno di destra, indagato per sequestro di persona, deve restare al suo posto. Non discuto il merito, noto la differenza. E se un deputato della maggioranza dice, come un vero fascista, che "se i magistrati attaccano il capo, li andiamo a prendere casa per casa" nessuno nella stessa maggioranza dice nemmeno poffarbacco. Ma nei confronti dei cinquestelle la sinistra ha compiuto gravi errori. Ha cambiato mille volte atteggiamento, ha demonizzato e cercato alleanze organiche o viceversa, senza capire che molti di quei voti sono di elettori di sinistra. Che molti dei sei milioni di cittadini che avevano votato per il Pd nel 2008 hanno finito con lo scegliere i pentastellati o sono restati a casa. Un dolore profondo, un malessere che meritava molto di più delle piccole risse quotidiane o dei corteggiamenti subalterni. Molti di quegli elettori oggi sono certamente in sofferenza per il dominio della Lega sul governo e ad essi, e a chi non ha votato, senza spocchia da maestrino, la sinistra deve rivolgersi. Come? Sia chiaro: la crisi della sinistra non è un fenomeno esclusivamente italiano, è mondiale. Solo Obama, come immaginammo nel 2008, è restato vivido nella memoria come esempio universale di coerenza programmatica e valoriale. Ma poi ha vinto Trump. Perché la sinistra o accende un sogno o non è. Perché la sinistra o è popolo o non è. Ma io non condivido i discorsi che sento fare sulla fine della sinistra o delle idee dei democratici. È la sinistra, nella storia, che ha cambiato il mondo. Sono state le lotte contro lo schiavismo, per la liberazione delle donne, contro l'alienazione e lo sfruttamento, per i diritti civili e umani, contro le discriminazioni. È questo sistema di valori che ha reso la vita di ognuno sulla terra più libera e migliore. La sinistra lo ha saputo fare quando ha parlato al cuore delle persone, quando ha interpretato i bisogni di giustizia sociale, quando ha scelto la libertà. Cosa che non ha sempre fatto. Cinquant'anni fa la sinistra, per come la intendo, era nel sacrificio di Ian Palach e non nei carri armati con la falce e il martello. Sogno e popolo, ciò che è stato perduto. Due cose semplici e difficili insieme. Sono più chiaro ancora: o la sinistra definirà una proposta in grado di assicurare sicurezza sociale nel tempo della precarietà degli umani o sparirà. O la sinistra la smetterà di rimpiangere un passato che non tornerà e si preoccuperà di portare in questo tempo i suoi valori o sparirà. O la sinistra immaginerà nuove forme di partecipazione popolare alla decisione pubblica, una nuova stagione della diffusione della democrazia, o prevarranno i modelli autoritari. Nelle future esperienze di governo della sinistra ci dovrà essere una più marcata radicalità di innovazione. Allo stesso tempo, la sinistra non deve dimenticare chi è, ne deve anzi avere orgoglio. Non sarà inseguendo la destra o, in questo caso, il populismo che si eviterà il peggio. La sinistra non può avere paura di dire che è per una società dell'accoglienza, dire che è nella sua natura - oltre che in quella che dell'essere umano - la solidarietà, la condivisione del dolore, l'aiuto nel bisogno. La sinistra non deve aver paura di dire che non si deve mai deflettere dal rigoroso presidio della sicurezza dei cittadini imponendo a tutti il rispetto delle regole che ci siamo dati. La sinistra non deve inseguire nessuno sul tema dell'Europa immaginandone una versione bonsai ma, al contrario, deve rilanciare con forza l'idea degli Stati Uniti d'Europa, meravigliosa utopia realizzabile. Deve riscoprire, dopo averlo dimenticato, il tema dello sviluppo compatibile, vera incognita sul futuro della specie umana. E non deve assuefarsi alla barbarie del linguaggio semplificato, della rissa permanente, dell'insulto all'avversario. Anche in questo deve essere se stessa, non fare come Zelig. Deve coltivare la scuola, la ricerca, la cultura, l'identità profonda di un Paese che è sempre stato aperto al mondo. Non deve aver paura di unire anche quando la diffusione dell'odio sembra prevalere. Deve innovare la sua identità e avere rispetto della sua storia. Si possono, ed è giusto, sostituire generazioni di dirigenti. Io mi sono presto fatto da parte per mia scelta e ho iniziato una nuova vita, come era corretto facessi. Ma non è giusto cancellare la storia collettiva, le battaglie, i sacrifici, il senso di quella cosa enorme che nella storia italiana è stata la sinistra, è stato il pensiero democratico. Ha scritto, sul tema della memoria, il priore di Bose Enzo Bianchi: "Per ogni cultura, la memoria dei momenti e delle forze che l'hanno generata è essenziale; è proprio nella memoria degli eventi fondatori che la democrazia si afferma e si manifesta come valore". Un esempio: la parola rottamazione fu usata, la prima volta, da Berlusconi in tv per attaccare Romano Prodi. Non è una nostra parola, figlia della nostra cultura. Neanche gli avversari si "rottamano", perché un essere umano e le sue idee non sono mai da cancellare, se espresse per e con la libertà. Quando - è successo varie volte - in Italia si sono prese sbandate per il demagogo di turno, alla sinistra democratica è toccato poi salvare il Paese. Per essere all'altezza di questa responsabilità la sinistra e i democratici devono unirsi e smetterla con la prassi esasperante delle divisioni e delle scissioni testimoniali. Anche quella è un'abitudine spesso coincisa con tragiche sconfitte. Il Pd che io immaginavo è durato pochi mesi, raggiunse il 34 per cento in condizioni terribili e si trovò, orgoglioso e emozionato, in un Circo Massimo oggi inimmaginabile per chiunque. Era l'idea di un partito orizzontale, fatto di cittadini e movimenti, di associazioni e autonome organizzazioni. Un partito a vocazione maggioritaria perché aperto, che usava le primarie come cemento per unire questo arcobaleno. Il contrario di un "partito liquido", come poi si è purtroppo rivelato essere, per paradosso, quando ha prevalso il rimpianto per forme partito che non sono più date in questo tempo. Quel partito è stato in questi anni, per responsabilità di tutti, dominato dalle correnti e dai gruppi organizzati e il suo spazio vitale si è ristretto, come la stanza del funzionario Rai di La Terrazza di Ettore Scola. Quei muri vanno tirati giù e il Pd deve apparire un luogo aperto, plurale, fondato sui valori e non sul potere. Bisogna inventare una forma originale di movimento politico del nuovo millennio. Forse quella idea era sbagliata, forse troppo avanti. Ne ho preso atto, credo con misura, senza cessare mai di dare una mano alle ragioni che hanno ispirato la mia vita. Per questo ho scritto oggi. Perché non smetto di credere alla sinistra, perché temo per il futuro della vita democratica e dell'Europa, perché penso che l'idea di un soggetto politico aperto del campo democratico sia più che mai necessaria. Nessuno perda tempo a strologare sulla ragione di questo scritto. È solo amore per la propria comunità e per il proprio Paese. Tutto qui. © Riproduzione riservata 29 agosto 2018 Da - https://www.repubblica.it/politica/2018/08/29/news/non_chiamiamoli_populisti_contro_questa_destra_estrema_e_l_ora_di_una_nuova_sinistra-205148687/ Titolo: Walter Veltroni contro le correnti del Pd: “State uniti, vi prego” Inserito da: Arlecchino - Ottobre 29, 2018, 11:28:39 am Walter Veltroni contro le correnti del Pd: “State uniti, vi prego”
Nella due giorni dem a Milano l’ovazione è per il premier spagnolo Pedro Sanchez: «Lottate come state lottando. Non siete soli» Pubblicato il 27/10/2018 - Ultima modifica il 27/10/2018 alle ore 22:42 FABIO POLETTI MILANO La sferzata finale arriva da Walter Veltroni: «State uniti, vi prego. Ma il Pd deve aprirsi e non arroccarsi nelle sue correnti. Quindi vi dico: fate meno riunioni di corrente e più riunioni nella nostra comunità». Sono passati 11 anni dal discorso del Lingotto. Il Pd non è più quello. Nel Mall, lo spazio sotterraneo sotto la zona dei grattacieli di Porta Nuova a Milano, va in onda la voglia di rivincita dei dem. Se l’ex segretario del Pd, con un discorso scritto, cerca di toccare le corde giuste, questa platea non troppo affollata più di quadri di partito che di gente comune, ha già in mente cosa vuole per quello che deve essere il nuovo corso: «Unità nel partito, classe dirigente vicina alla gente». I big non ci sono tutti. Matteo Renzi è in Cina per affari suoi. Nessuno lo chiama per nome. Ma è chiaro che è alla ex segreteria e ai suoi sbagli che vengono indirizzati la maggioranza dei discorsi. Walter Veltroni sottolinea la questione: «Sono stupito che non si sia riflettuto dopo la sconfitta storica delle politiche. Che non si sia aperta una riflessione circolo per circolo». In platea ci sono tutti i candidati e i possibili candidati alla segreteria. Nicola Zingaretti è tra i primi ad arrivare: «Se vogliamo risalire la china dobbiamo dire agli italiani che abbiamo capito e che cambiamo. La nostra missione deve essere “salviamo l’Italia”. Questi che hanno vinto hanno preso voti con delle promesse e poi fanno l’opposto». Nel pomeriggio arriva pure Marco Minniti. Maurizio Martina che fa gli onori di casa giura di non aver ancora sciolto la riserva. Ma domenica mattina toccherà a lui chiudere la kermesse. Ad infiammare la platea dem ci pensa il premier spagnolo Pedro Sanchez che alla fine del suo discorso sottotitolato si prende la standing ovation: «Lottate come state lottando. Non siete i soli. In molti vi appoggiamo. E preparatevi perchè presto, molto presto, guiderete la grande trasformazione di cui ha bisogno l’Italia. Alzate con orgoglio la vostra bandiera che è anche la nostra: giustizia sociale». Gli attacchi al governo sono declinati in tutte la salse da questo palco. Federica Mogherini Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri guarda all’Europa che potrebbe venire: «Chi dice che vuole cambiare l’Europa in realtà vuole solo distruggerla. Ma per andare dove?». L’Europa, o meglio le elezioni di maggio, diventano pure terreno di scontro politico dentro il partito. Debora Serracchiani giura che il ritardo rischia di farsi incolmabile: «Loro si sono già mossi. Sono in campagna elettorale da tempo. E noi? Mi verrebbe da dire: e allora il Pd?». Sfide elettorali europee ma pure quelle interne al partito. Tra palco e platea ci si muove su due piani. Il capogruppo alla camera Graziano Del Rio giura che i candidati sono tutti bravi: «Ma noi abbiamo più bisogno di una direzione che di un candidato. A noi interessa trovare le parole giuste in un momento in cui si sentono grida sbagliate». Alla fine tocca a Walter Veltroni usare parole che sembrano così inusuali, 11 anni dopo il Lingotto: «Non smetto di credere nel Pd e nella sinistra riformista. La sinistra e il Pd non sono un panda in estinzione». Licenza Creative Commons Da - http://www.lastampa.it/2018/10/27/italia/walter-veltroni-contro-le-correnti-del-pd-state-uniti-vi-prego-e8BnXQBhLs1wtHdJx4HTXN/pagina.html |