LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Ottobre 02, 2007, 05:54:54 pm



Titolo: ENZO BETTIZA
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2007, 05:54:54 pm
2/10/2007
 
Le mani sull’Ucraina
 
ENZO BETTIZA

 
Il macigno che rotola proprio oggi da Mosca, con il presidente Putin che annuncia la sua candidatura a primo ministro nelle imminenti elezioni legislative del 2 dicembre, sembra non a caso diretto verso l'Ucraina che fu, dopo la Russia, la seconda più importante repubblica dell'Unione Sovietica. Putin, che così lascia intendere di volersi mantenere al potere anche dopo le presidenziali di primavera, sembra dire all'ucraino filorusso Viktor Yanukovich: tieni duro, io non mollo, insieme ce la faremo. La pressione putiniana sul filo di lana elettorale che si va strinando a Kiev non poteva essere psicologicamente più plateale. Ma, dati i conteggi elettorali ancora in corso, tutt'altro che catastrofici per gli amici di Mosca, avrebbe potuto farne anche a meno.

Per il Cremlino, soprattutto questo Cremlino alla ricerca dei pezzi perduti dell'impero, l'Ucraina spaccata a metà dalla riaggiornata contesa tra «occidentalisti» e «slavofili» resta un terreno di scontro comunque decisivo nell'opposizione alla Nato, agli scudi stellari, agli allargamenti a Est dell'Unione Europea. L'Ucraina, oltreché mezza russa per parentela etnica e linguistica, è inoltre la principale piattaforma di passaggio del gas e del petrolio russi verso l'Occidente europeo: l'80% del gas inviato dalla Russia all'Europa, Italia compresa, filtra per le tubature ucraine. Non si dimentichi l'ansia per i rifornimenti italiani di due anni fa; il disagio derivava dal fatto che Mosca teneva e tiene in mano il lucchetto degli oleodotti di Kiev.

Ecco perché Putin, in persona, ha sempre tenuto d'occhio i sondaggi, i protagonisti politici, gli oligarchi facoltosi, il funzionamento degli oleodotti, le tinte dell'arcobaleno elettorale nella vicina repubblica slava. Sa, perdipiù, che gli accadimenti ucraini possono riverberarsi per positivo o per negativo sulla Moldavia, la Bielorussia, la Georgia e l'intero frammentato mosaico del Caucaso. Nel 2004, quando stava montando la «rivoluzione arancione», egli piombò su Kiev per sostenere il pericolante Yanukovich, mentre i servizi segreti del Cremlino venivano sospettati di aver tentato di uccidere il filoccidentale Yushchenko con un veleno deturpante. Ma l'avversario, sfigurato nel volto, venne eletto presidente e Putin, per ripicca, ricorse al deterrente del gas aumentando il prezzo delle forniture destinate all'Ucraina. Una sequela di errori madornali che allora gli mise contro l'Europa dell'Ovest e, più ancora, quella dell'Est che aveva provato sulla pelle le tecniche micidiali del Kgb.

La rinnovata pressione del Cremlino su Kiev è questa volta d'ordine più politico e più psicologico. Lo stesso Viktor Yanukovich, in rimonta nelle ultime ore che lo vedono sopravanzare di qualche punto il robusto risultato arancione di Yulia Tymoshenko, ha accentuato da qualche tempo una certa cauta distanza dall'«aiuto fraterno» di Mosca: ha preferito circondarsi di consulenti americani e attingere alla generosa cornucopia del ricchissimo oligarca indigeno Rinat Ahmetov. Insomma, filorusso sì, ma con misura e metodi d'immagine e propaganda occidentalizzanti. La prudenza finora lo ha premiato. L'affermazione degli «occidentalisti», che nei primi scrutini appariva schiacciante, è poi diminuita attestandosi sotto il 50%. «Vittoria di Pirro», così avrebbe definito Yanukovich, in recupero di voti, il trionfo della pasionaria Yulia Tymoshenko che fino a ieri appariva assoluto e che nelle ultime ore è andato via via assottigliandosi. Si profila ora un'insidiosa situazione di stallo e di prolunga dell'ingovernabilità che già da marzo affligge il Paese. Il Partito delle Regioni del premier Yanukovich sta ormai sorpassando il 31,74 del Blocco Tymoshenko rendendo incerta la possibilità che esso, coalizzandosi con il 14,83 della Nostra Ucraina del presidente Yushchenko, possa formare una maggioranza chiara e invulnerabile: una maggioranza cioè capace di far uscire dalle secche della crisi, che è anche storica oltreché politica, una nazione promiscua, divisa, bilingue, priva di una tradizione statale autonoma e autentica.

L'esito delle urne è adesso contestato dalle due parti. Il Viktor delle regioni del Sud-Est russofono e russofilo, che vorrebbe restare alla guida del governo, sostiene che le urne manipolate non rispecchiano la verità del voto e minaccia, ricorrendo alla piazza, di perdere pazienza e prudenza. L'altro Viktor, lo sfregiato, parla già di brogli e minaccia di appellarsi all'Europa e alle Nazioni Unite. Più composta e forse più calcolatrice la dama con l'arcaica treccia slava che, per il momento, non alza la voce; si compiace fra gli intimi dell'ottimo incasso ottenuto sia contro l'avversario blu, sia contro l'alleato arancione. Al quale, in fondo in fondo, vorrebbe succedere ai vertici di uno Stato che di fatto ancora non c'è e che Putin farà del suo peggio perché non ci sia mai.

 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA La via francese all'Europa
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 12, 2007, 04:56:44 pm
12/10/2007
 
Gli armeni fra Bush e Turchia
 
ENZO BETTIZA
 

I due tormentoni che continuano a insidiare l’immagine e la stabilità della Turchia moderna, post-ottomana, nata 84 anni fa dalla rivoluzione kemalista, sono un passato che non passa e un presente che incombe e incalza. Il passato che ciclicamente ritorna, gettando la sua ombra sinistra su Ankara, è il massacro subito dalle nutrite minoranze armene durante la prima guerra mondiale. L’incalzante presente è legato invece alla ribelle e combattiva minoranza curda: da quando nel contiguo Iraq è sorto un Kurdistan pressoché autonomo, essa, rifornita di mezzi e protetta da santuari, ha alzato la cresta costituendo una minaccia diuturna ai confini meridionali turchi.

Quel truce passato e questo minaccioso presente tendono, come vedremo, a congiungersi, formando un focolaio di crisi tale da mettere a repentaglio anzitutto il tradizionale legame strategico della Turchia con l’America e la Nato. In linea subordinata, lo screzio in atto di Ankara con Washington, sommandosi ai contrasti con la Francia di Sarkozy, potrebbe interrompere disastrosamente il già difficoltoso cammino di Ankara verso l’Unione Europea.

Breve: tra l’Occidente e l’occidentalizzante Turchia, lambita dopo le recenti elezioni parlamentari e presidenziali da tentazioni islamiche e pulsioni nazionaliste, si va formando ormai un’esplosiva massa critica. A monte troviamo una parola, una sola parola, secondo i turchi impronunciabile e calunniosa. Genocidio. La tremenda parola è riecheggiata in questi giorni tal quale, per la prima volta, come un’irredimibile condanna storica, nel Parlamento americano a maggioranza democratica.

Ufficializzata in una proposta di legge dalla commissione Esteri della Camera dei deputati, essa si riferisce alle lugubri «marce della morte», dal Nordest anatolico ai deserti siriani, inflitte a centinaia di migliaia di armeni tra il 1915 e il 1918. Non vennero risparmiati bambini, donne, vecchi. Coronarono e spiegarono l’immane sterminio documenti storiografici, referti statistici, testimonianze di sopravvissuti, romanzi come quello famoso di Franz Werfel, film recentissimi come quello dei fratelli Taviani.

Per molti storici fu il primo genocidio di massa del Novecento. Ma di che natura era lo Stato turco che aveva programmato a freddo quella prima implacabile «pulizia etnica» novecentesca? Formalmente era uno Stato ottomano seppure in agonia, uno Stato ancora islamico, diverso e opposto alla cristianità delle vittime; però, nella sostanza, era già dominato dalla casta militare laica, ultranazionalista, dei «giovani turchi» dai quali, dopo la guerra perduta al fianco della Germania, sarebbe emerso Kemal Pascià, l’Ataturk «padre della patria».

Ecco forse perché uno sterminio che aveva coinvolto i «giovani turchi», riformatori radicali e patrioti, non è stato in seguito mai riconosciuto dai loro potenti eredi in grigioverde e dai governi secolari da essi controllati. Hanno sempre negato sia l’orrenda parola che l’agghiacciante cifra dei morti, circa un milione e ottocentomila secondo calcoli internazionali, soffermandosi tuttalpiù su una cifra minima di duecentomila attribuita ai disagi e alle confusioni del marasma bellico del tempo. A partire da allora il negazionismo di Stato è stato sempre applicato al calvario armeno da tutte le laicissime autorità turche. Non fanno differenza quelle islamiche attuali, che con Erdogan hanno in pugno il governo e con Gul la presidenza della repubblica.

Non a caso Abdullah Gul ha definito «inaccettabile» la risoluzione parlamentare americana sul «genocidio», e non a caso Tayyip Erdogan ha tempestato di telefonate bollenti il presidente George Bush. È insomma scoppiata fra la Turchia e la sua più stretta alleata occidentale una crisi che potrà ripercuotersi a breve, non solo in seno alla Nato, dove i turchi occupano una posizione di punta, ma anche sui vulnerabili confini iracheni. È qui che il passato armeno si salda al presente curdo, giacché Ankara indignata, ferita dall’accusa di «genocidio», minaccia «ritorsioni» serie contro Washington se le aule del Congresso dovessero approvare l’offesa che essa respinge con forza come sleale e ignominiosa. Il rischio per gli americani, soprattutto per Bush, che cerca di bloccare il percorso della proposta di legge verso l’aula, è che i turchi aprano per ripicca e pressione politica un nuovo fronte in Iraq attaccando la limitrofa regione autonoma dei curdi. Qui potrebbe verificarsi altresì la più pericolosa delle saldature immaginabili: una rappacificazione patriottarda, nel nome della dignità e dell’interesse nazionale, tra i militari laici e i governanti islamici.

In caso di una nuova guerra, che vedrebbe i turchi invadere il Kurdistan iracheno e chiudere basi e spazi aerei di cui finora si servono gli americani, il quadro mediorientale e mondiale cambierebbe di brutto. Assisteremmo alla deriva antioccidentale, dentro l’Iraq già in preda al terrorismo endemico, di quello che per numero e per forza era il secondo esercito dell’Alleanza atlantica.

 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA - Il Partito senza tessera
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2007, 03:04:19 pm
2/11/2007
 
Il Partito senza tessera
 
ENZO BETTIZA

 
E’ certo difficile prevedere quello che il Partito democratico riuscirà a essere nella sua veste ambiziosa e ancora virtuale di elemento portante della terza repubblica. Ma l’idea che dal convegno costituente di Milano, volutamente algido, privo di simboli liturgici, hanno lanciato i principali ostetrici del nascituro, è degna di essere valutata su uno sfondo non solo nazionale: l’idea cioè della decostruzione del classico Partito italiano con la maiuscola.

Il modello emerso dalle parole di Veltroni a Milano, quasi un antipartito di democrazia diretta, affidato all'impulso e allo slancio creativo di liberi elettori non catechizzati né timbrati dalla tessera, ha suscitato vari pareri da posizioni diverse. Giuliano Ferrara vi ha visto una trasfusione vitale degli umori antipolitici berlusconiani nell’organismo deperito dell’avversario. Eugenio Scalfari vi ha intravisto la definitiva sepoltura del Partito novecentesco. Andrea Romano, invece, ha constatato clinicamente in queste colonne che il vero guaio dell’Italia non sono stati i tradizionali partiti novecenteschi per se stessi, ma il loro stato di perenne cattiva salute e di «brutale agonia» negli ultimi vent’anni. Il che è anche vero. Quello che è venuto dopo Tangentopoli ha acuito in tanti casi, soprattutto negli eredi del comunismo e della Democrazia cristiana, vecchi mali e vizi originari che ora l’ex comunista Veltroni e l’ex democristiano Franceschini, congiunti, vorrebbero estirpare prim’ancora della nascita in carne e ossa del loro «partito americano».

A questo punto oserei tentare una domanda e una risposta audaci.

All’origine del Partito italiano, non solo comunista, ma di tutti i Partiti dell’arco costituzionale d’una volta, qual era la deformazione che li ha ammorbati fin dall’inizio e li ha fatti poi sopravvivere a lungo come valetudinari contagianti l’un l’altro? L’enzima, il baco se volete, era in Russia. Era nel Partito, maiuscolissimo, fondato da Lenin, originale quanto ambiguo apporto russo alla storia politica del Novecento. L’Italia, più d’ogni altra democrazia occidentale, ci ha offerto in merito un campionario completo e direi anzi inflazionato. Non solo grandi Partiti di massa come Pci e Dc e Psi, ma perfino quelli più esili come il socialdemocratico, il repubblicano e perfino liberale, si ispiravano per la cosiddetta «forma partito» al modello leninista, attenuandolo qua e là nel lessico. La gabbia gerarchica e organizzativa della Dc ricalcava quella del Pcus e del Pci. Al vertice il segretario generale prendeva il nome di «segretario politico nazionale», il polibjuro o ufficio politico si mutava in «ufficio esecutivo» o «giunta esecutiva», il comitato centrale diventava «consiglio nazionale», poi seguivano federazioni regionali, provinciali, sezioni, eccetera. La liturgia del Congresso filiava minicongressi a livello di regione e di provincia. La similitudine infine si ampliava e completava sul piano extra-nazionale, avendo la Dc alle spalle il Vaticano e il Pci il Cremlino. Il Psi fino a Craxi, che si faceva chiamare «segretario politico», aveva però conservato al comitato centrale il nome originario caro a Nenni. Il «segretario politico» e il «consiglio nazionale» rispuntavano fra socialdemocratici e repubblicani, riapparivano anche fra i liberali i quali fino a Zanone, pur considerato più aperto e meno confindustriale di Malagodi, continuarono, se ricordo bene, a conferire al loro leader il titolo di segretario generale. Il resto si riproduceva per genesi quasi spontanea in tutti i Partiti italici; congressi grandi e piccoli, tessere a pagamento, feste e diffusioni e abbonamenti in sostegno del quotidiano di partito.

Questa curiosa ricopiatura a catena, derivata, nonostante le differenze ideologiche, dal calco strutturale leninista, finiva per conferire fin da allora al panorama politico italiano l’omogeneità castale di una vera e propria nomenklatura sul piano dell’esercizio e dell’abuso materiale del potere. Tangentopoli, la catastrofe giudiziaria della prima repubblica, le starnazzanti anitre zoppe della seconda, avevano in quelle omogeneità e complicità corporative le loro profonde radici. Perché gli scandali, pur molti, perché le insurrezioni di banlieue, pur moltissime e temibili, non hanno mai travolto la Quinta Repubblica francese? Forse perché, in Francia, l’unico partito ad assimilare i modelli sovietici è stato quello comunista, ucciso da una lenta e poi galoppante anoressia elettorale. Frattanto la conflittuale frantumazione del gollismo in decine di sigle e di rivoli, le federalizzazioni tra socialisti e radicalsocialisti fino alla «gauche plurielle» e alla Confédération paysanne di Bové, impedivano alle diverse forze politiche di omogeneizzarsi in simbiosi epidemiche e paralizzanti. A Parigi ha prevalso nettamente e fisiologicamente il modello della grande rivoluzione nazionale: il fervoroso sminuzzamento dell’arena in club rivali, l’orgogliosa tradizione dei club giacobini, foglianti, girondini, montagnardi, ha messo sempre la Francia al riparo dal mito del Partito di mestiere novecentesco cui sono soggiaciuti invece la Russia ex leninista, la Germania ex hitleriana e, sia pure in tono minore, l’Italia ex mussoliniana. I francesi votavano e votano i grandi leader mediatici, ignorando i nomi dei «segretari» nascosti dietro le quinte di «unioni» o partiti mutanti.

Il pre-modello rivoluzionario era stata per Lenin la populista Narodnaja Volja. Nata per impulso estremistico nel 1879, essa presentava già, col suo «comitato esecutivo» e il suo spirito di corpo, quei connotati gesuitici ammodernati che poi Lenin travaserà nell’organizzazione bolscevica, perfezionandoli attraverso contatti con la socialdemocrazia tedesca di Kautsky e quella russa dominata dai menscevichi di Plechanov e Martov. A un certo punto, nel 1903, spinto dal dèmone scissionistico, ripudierà le esitazioni morali e gli scrupoli dottrinali dei menscevichi. Lenin diventerà Lenin opponendo, con ferocia mentale inaudita, il suo emergente manipolo di rivoluzionari ai vecchi gentiluomini socialdemocratici che gli erano stati alquanto affini, e vicini, per diversi anni. Nascerà allora il Partito: un’entità metapolitica intimamente diversa da tutto ciò che, fino a quel momento, era stato visto sulla scena pur variegata dei movimenti socialisti europei. Sarà un Partito tagliato a immagine e somiglianza del suo ideatore, e tre saranno le pietre basilari alle sue fondamenta: Organizzazione, Disciplina, Dottrina. «La vostra famosa disciplina - dirà un giorno un menscevico a Lenin - è simile a quella del reggimento della guardia di Sua Maestà, il Preobraženskij».

Ecco. È per così dire il fallito reggimento della guardia della prima e seconda repubblica, il Partito, che sembra soccombere, almeno nelle parole di Veltroni, il quale peraltro proviene dalla formazione più autenticamente leninista d’Italia. Peccato ch’egli si sia fatto nominare «segretario» invece che «speaker» come gli suggeriva Prodi. Peccato che si sia fatto circondare prematuramente da un gruppo dirigente ristretto, dinastico, evocante una solida sovrastruttura leninista al di sopra di una struttura partitica liquida e definita, per ora, enfaticamente, dai veltroniani come libera comunità di cittadini elettori. L’idea di un partito che non c’è essendoci è paradossale e interessante in un Paese avvezzo al sovrappeso di partiti che c’erano troppo e incombevano troppo. Ma basterà?
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA La via francese all'Europa
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2008, 11:19:34 am
17/5/2008
 
Terremoto, Pechino alla prova
 
 
 
 
 
ENZO BETTIZA
 
Più giorni passano più i numeri della tragedia aumentano. Migliaia di soccorritori continuano a frugare dentro le macerie dell'ecatombe e il registro delle vittime denunciate, 14 mila all'inizio della prima terribile scossa, continua a crescere d'ora in ora: la cifra ha già superato i 50 mila morti, mentre i senzatetto sarebbero 5 milioni. Ma se mettiamo nel conto la dichiarazione del capo del governo Wen Jiabao, presente nei luoghi più colpiti, secondo il quale il terremoto «è il più distruttivo che la Cina ha subìto dal 1949», allora il registro della catastrofe resta aperto alle peggiori previsioni. A partire dall'anno di fondazione della Cina comunista, il più devastante cataclisma tellurico, prima del sisma nel Sichuan, era considerato quello che nell'immaginario popolare preannunciò la scomparsa dell'ultimo imperatore: Mao morì in un anonimo edificio antisismico, alla fine di luglio del 1976, qualche settimana dopo il terremoto che aveva raso al suolo la città industriale di Tangshan e devastato alcuni quartieri di Pechino. Il grado della scala Richter fu esattamente lo stesso registrato lunedì 12 maggio nella regione del Sichuan: 7,8. Anche allora milioni di sopravvissuti dovettero dormire all'aperto. La cifra ufficiale delle vittime fu 240 mila, la stima non ufficiale salì a 600 mila. A quanto salirà la stima reale dei morti della recente calamità che, nella franca ammissione del premier Wen Jiabao, appare la più grave dal 1949?

La vastità apocalittica del disastro, che si proietta sull'anno delle Olimpiadi e del Tibet e degli ansiti di un miracolo economico sobbalzante a «salti di rana», non potrà non costituire un banco di prova per la tenuta e l'immagine del discusso regime capitalcomunista cinese.

Cominciamo dalla scala Richter del Sichuan, che nell'intensità tellurica risulta uguale a quella che precedette la fine di Mao nel 1976. Ma, al tempo stesso, è assai diversa nella sua ripercussione politica e psicologica. Nel '76, secondo la tradizione maoista, il regime occultò l'entità dello sconquasso, rifiutò gli aiuti stranieri, esortò i soccorritori a ergersi assurdamente sulle rovine dei crolli per denunciare le malefatte di Deng Xiaoping allora in disgrazia. Oggi, invece, i comportamenti del regime appaiono nettamente mutati. Sia il presidente Hu Jin-tao che il premier Wen Jiabao hanno deciso di dare, e stanno dando, un massimo di trasparenza alle visioni del disastro e alla sua gravità. Wen dopo le scosse iniziali è sceso in persona fra i disastrati, gli aiuti internazionali non sono rifiutati, i giornalisti stranieri non vengono ostacolati, la stampa e la televisione cinesi annunciano via via il numero dei deceduti e dei feriti, non si nasconde il pericolo che la colossale diga delle Tre Gole possa cedere e scatenare sullo Hubei le acque del Fiume Azzurro, si lanciano sferzanti allusioni contro i dirigenti locali del partito, sani e salvi nelle loro case intatte, mentre scuole e ospedali mal costruiti crollavano come cartapesta ai primi urti sismici.

Sarà forse, anche questo, un genere di propaganda alla rovescia, volta a sedare la diffidenza degli osservatori non cinesi e a placare l'irritazione dei cinesi spaventati e offesi dalle abborracciature delle imprese edili. Sarà un riflesso di prudenza e di apertura informativa nei confronti della comunità internazionale, in particolare occidentale, che ha sottoposto la Cina a critiche severe, talora eccessive, nelle giornate più incandescenti della crisi tibetana. Sarà per dare una spazzolata democratica e liberale all'immagine della Cina del miracolo in procinto di offrire al mondo, in agosto, lo spettacolo delle Olimpiadi di Pechino, in parte già minacciato da segnali di boicottaggio e di ripulsa. Eppure non si possono chiudere completamente gli occhi davanti a due fatti evidenti. Uno storico: la diversità d'approccio alla calamità del Sichuan e province limitrofe degli attuali governanti, approccio molto più nitido, nazionalmente e internazionalmente corretto, di quello tenebroso e assurdo impiegato a suo tempo dai maoisti per nascondere, nelle ultime ore di Mao, le piaghe del terremoto di Tangshan. Uno cronistico: la visibile differenza tra l'aperto comportamento dei dirigenti cinesi, che hanno reso trasparente il disastro e accettato il soccorso esterno, e il repellente atteggiamento xenofobo dei generali birmani che, rifiutando quasi ogni forma di aiuto, stanno portando al deperimento per fame e malattia centinaia di migliaia di sopravvissuti al ciclone del 2 maggio.

La Cina postmaoista, malgrado i suoi difetti autoritari, il nazionalismo ottocentesco, la modernizzazione aggressiva e spregiudicata, ha saputo dare una risposta comunque credibile e fulminea al più travolgente disastro della sua storia contemporanea. La Cina, nel momento dell'emergenza estrema, ha funzionato. Teniamone conto anche quando, dimenticando le atrocità tibetane della «rivoluzione culturale» di Mao, la critichiamo per gli oltraggi da mercato e da consumo imposti ai monasteri buddisti di Lhasa.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA La via francese all'Europa
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2008, 03:55:10 pm
26/6/2008
 
La via francese all'Europa
 
 
ENZO BETTIZA
 
Lo sparo echeggiato nell'aeroporto di Tel Aviv, che per alcuni minuti di panico ha interrotto la cerimonia di commiato di Nicolas Sarkozy dal capo di Stato Shimon Peres e dal premier Ehud Olmer, è costato la vita a un agente israeliano di frontiera colpito alla testa da un proiettile del suo stesso fucile. Scartata nella maniera più drastica l'ipotesi dell'attentato, le autorità hanno ripiegato su quella dell'incidente letale o del suicidio. L'episodio singolare, avvenuto in una regione purtroppo assuefatta a convivere con atti di violenza quotidiana, ha conferito comunque alla visita del presidente francese in Israele una cornice finale in sintonia allusiva con i drammatici argomenti da lui trattati: la sicurezza dello Stato ebraico, la nascita di una Palestina democratica tra le insidie di Hamas a Gaza e di Hezbollah in Libano, il tutto sovrastato dalle ambiguità siriane e dalla minaccia atomica di Teheran.

Il discorso pronunciato alla Knesset da Sarkozy, alla vigilia della presidenza francese dell'UE, ha dato alle sue parole anche una forte incisività europea suffragata, nel contempo, non a caso, dal nuovo pacchetto di sanzioni adottato da Bruxelles contro l'Iran. «Chi lancia appelli in modo scandaloso alla distruzione di Israele troverà sempre la Francia a sbarrargli la strada». E' stato questo non solo il primo intervento di peso davanti al parlamento israeliano di un capo di Stato francese, dai tempi di François Mitterrand nel 1982; è stato, anche, un chiaro segnale di discontinuità e anzi di rottura con la diplomazia francese dell'ultimo decennio chiracchiano. Al tempo stesso, in duplice concomitanza con la presidenza UE e con gli ultimi mesi dell'amministrazione Bush, Sarkozy sta cercando di ritagliarsi un ruolo di pacificatore mediorientale e di protagonista di un rilancio diplomatico della Francia e dell'Europa nell'area mediterranea. La strategia con cui egli sta varando l'idea, che a molti appare ancora nebulosa, di una Unione per il Mediterraneo, sembra mirata a smussare gli spigoli degli «scontri di civiltà»: indurre cioè gli israeliani a recedere dalla colonizzazione della Cisgiordania, accettare Gerusalemme come capitale di due Stati, avviare negoziati indiretti con la Siria e consolidare una possibilità di tregua durevole con Hamas. L'obiettivo finale dovrebbe essere quello di isolare l'Iran dai suoi alleati. Gli spazi che Sarkozy intende occupare, o meglio, i vuoti che intende riempire dopo un'eventuale riduzione dell'attivismo americano in Medio Oriente dopo Bush, egli sa che potrebbe farlo meglio parlando a nome non solo della Francia ma di un'Europa che purtroppo ancora non c'è: un'Europa con una costituzione accettata, un presidente non semestrale e un vero ministro degli esteri al posto di un diplomatico dimezzato tipo Solana. E magari, perché no, con un suo dispositivo militare autonomo dalla Nato.

La presidenza che Sarkozy si prepara ora ad assumere ai vertice di un'Unione Europea scontenta, diffidente di se stessa, sotto choc dopo il ripudio irlandese del trattato di Lisbona, sarà certo temporalmente semestrale secondo la tradizione intergovernativa sempre di rigore formale; ma, nello spirito se non nel tempo e nella lettera, potrebbe essere o diventare qualcosa di più che «semestrale» se il capo della più prestigiosa nazione continentale riuscirà a iniettarvi con successo l'umore delle sue ambizioni e il ritmo della sua dinamica vitalità. Senza una base istituzionale solida, dopo i referendum negativi della Francia e dell'Olanda nel 2005 e quello recentissimo dell'Irlanda, l'Europa non può darsi né un presidente quinquennale né un autentico ministro degli esteri. Ma un Semestre maiuscolo, forte, incisivo, come potenzialmente si presenta quello francese di Sarkozy, così ricco d'intenti internazionali e di buona volontà comunitaria, potrebbe spianare la strada al risanamento di quest'Europa azzoppata la cui storia peraltro, ormai cinquantennale, è stata da sempre un salto agli ostacoli e contro gli ostacoli.

La terza fase europea, dopo quella della fondazione storica e di Maastricht, dovrebbe privilegiare con maggiore nettezza l'approfondimento politico e istituzionale dell'Unione mettendo più rigorosi paletti al suo allargamento geografico. Sarkozy, col viaggio in Medio Oriente, si è mosso per tanti aspetti come un promotore della terza fase. Il fatto che abbia dato l'impressione di voler collegare, in una regione così delicata e rischiosa, il rilancio realistico della Francia col peso virtuale dell'Europa, è stato un segnale degno di nota e soprattutto d'attesa. Lui conosce e vede benissimo il traguardo tutt'altro che facile: vedremo se saprà muovere i primi passi indispensabili per raggiugerlo.
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA.
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2008, 12:19:27 pm
13/7/2008 (8:52) - UN CLASSICO IN CENTO RIGHE

Solženicyn il tuono su Mosca
 
1962, Kruscev autorizza il primo racconto dal Gulag

ENZO BETTIZA


Con il libro rivelazione di Aleksandr Solženicyn raccontato da Enzo Bettiza comincia la serie «un classico in cento righe». Gli editorialisti de La Stampa raccontano il «loro» classico: il contenuto,la storia, il senso e la loro personalissima lettura di un grande libro della letteratura mondiale.

Nel novembre del 1962, i cieli delle steppe furono d’improvviso attraversati da un tuono che si ripercosse, simile al preannuncio di una calamità travolgente ma positiva, sui recinti letterari, politici, psicologici, ideologici di Mosca. Lo stesso Kruscev, che aveva già dato in pasto ai cerberi l’inerme Pasternak, decise stavolta di non sprangare il Cremlino all’impatto del tuono Solženicyn. Autorizzando di persona la pubblicazione sulla rivista Novyj Mir di un racconto crudo e nudo, scritto da un ignoto redivivo dei gulag, Kruscev portava così a compimento su un terreno trasversale il terzo trauma antistalinista dopo le denunce del XX e XXII congresso.

La pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovic, opera basata in gran parte sulla dolorosa esperienza personale di Aleksandr Solženicyn, venne considerato un evento eccezionale e, da molti comunisti conservatori, addirittura scandaloso. Il testo in sé, meno sconvolgente del successivo Arcipelago Gulag e dei Racconti della Kolyma di Varlam Šalamov, non era una novità assoluta per gli occidentali: lo era invece l’inaudito imprimatur concessogli dal segretario generale del Pcus, che lo legittimò come un reportage fondamentale degli anni bui dell’Urss. Si trattava infatti del primo documento, autenticato dalla massima autorità sovietica, sulle disumane condizioni di vita nei campi di lavoro sovietici che, molto spesso, erano campi di sterminio omeopatico. Prima di allora non era mai giunta dalla Russia la conferma ufficiale dello schiavismo di Stato praticato fra taigà siberiane e tundre artiche.

Due parole, più che sulla trama (in genere scarsa nei gulag d’epoca), sulla scansione della giornata dell’alter ego contadino di Solženicyn che si presenta col nome di Ivan Denisovic Šuchov. La grigia poesia della narrazione scaturisce dalla ripetitività tediosa delle ore, dei gesti, delle fatiche, delle miserie, delle punizioni, delle brodaglie di un universo concentrazionario consegnato a uno squallore eterno. Quella descritta nel libro è una giornata come le altre, una delle 3653 giornate di prigionia cui Šuchov, come lo stesso Solženicyn, era stato ingiustamente condannato per alto tradimento durante la guerra. Della sua esistenza nel lager seguiamo, puntualmente, ossessivamente, tutti i «riti» quotidiani. Sveglia urlata alle cinque; punizione immediata per chi tarda ad alzarsi; repulsiva poltiglia d’orzo per colazione; perquisizione in cortile, durante l’appello dei detenuti paralizzati dal gelo; marcia nella steppa ghiacciata, coi piedi avvolti in corteccia d’albero, dove li attende il duro e spesso inutile lavoro al cantiere; breve parentesi al caldo della mensa anoressica; ancora freddo, lavoro forzato, stenti, insulti, percosse; poi il ritorno al campo, un altro appello, un’altra brodaglia per cena e, finalmente, il sonno liberatorio.

Ivan vive la sua giornata rassegnato, condensando tutte le sue anemiche energie nella lotta per sopravvivere, per difendersi dal freddo, conquistarsi una porzione in più di zuppa, una crosta di pane o un po’ di tabacco. Il fatto che nulla d’importante sia accaduto, che nulla accada, tranne la diuturna resistenza alla morte che plana innominata nell’aria algida, è la chiave di fondo esistenziale, la chiave antitrama, che apre qua e là nel racconto perfino intermezzi di triste comicità. Alla fin fine, a Ivan oggi gli è andata bene: non l’hanno sbattuto in cella, non si è ammalato, è anche riuscito a nascondere del pane sotto il materasso cencioso. Insomma, «una giornata quasi felice». Tristezza, fatalismo primordiale, accanita volontà di sopravvivenza: tutto ciò conferisce al breve racconto il tono elegiaco di una speranza non del tutto perduta e che sarà, un giorno, recuperata in senso patriottico nella Russia di Putin dallo stesso Solženicyn come lo fu da Dostoevskij nella Russia degli zar. Da deportati dissidenti a conservatori slavofili il passo per ambedue, sotto diversi aspetti, è stato quasi consimile. Ma è un discorso intricato che per ragioni di spazio non si può approfondire qui.

Mi resta qualche riga per ricordare, di passata, qualcosa del mio rapporto con quella lontana testimonianza narrativa che sanzionò la fama internazionale di un oscuro autore russo. Fra i diversi riconoscimenti, alcuni anche inutili o sbagliati, che ho ricevuto nel corso della mia attività, ce n’è uno a cui tengo in modo particolare: quello di Alberto Ronchey, conoscitore minuzioso di cose russe, che in un suo recente libro-intervista con Pierluigi Battista mi cita come il primo traduttore che ha rivelato il nome e l’opera di Solženicyn al pubblico italiano. Sono stato difatti il primo divulgatore in assoluto, in una lingua occidentale, della Giornata di Ivan Denisovic. Quando, in un frangente in cui la destalinizzazione sembrava in calo, apparve sulla prestigiosa rivista di Tvardovskij il referto di un ex ufficiale deportato dell’esercito sovietico, lo lessi d’un fiato e ne rimasi profondamente impressionato. Mi parve d’intuire che quel racconto chiaro, rivelatore, ancorché misurato, fosse l’avvisaglia antesignana dell’alluvione di verità che doveva poi dilagare, dall’«interno degli inferi», nelle opere maggiori dello stesso Solženicyn, di Šalamov, di Vasilij Grossman.

A quel tempo, oltre a coprire il servizio quotidiano di corrispondente della Stampa, collaboravo da Mosca con lo pseudonimo di Sarmatius anche all’Espresso. I grandi spazi dell’ebdomadario romano d’allora mi sembavano i più idonei ad ospitare, a puntate settimanali, i capitoli di un’operetta che aveva comunque dimensioni di un romanzo breve. Ne proposi una versione italiana alla direzione, sottolineando l’importanza dell’evento che, grazie alle caratteristiche del narratore e all’assenso di Kruscev, andava assai al dilà di un puro fatto letterario. Tuttavia il direttore dell’Espresso, il mitico Arrigo Benedetti, romanziere oltreché giornalista, lesse la prima puntata senza percepirne l’esplosivo significato politico e concentrando la sua attenzione soltanto sulla forma linguistica della traduzione. Io avevo cercato di restituire in un italiano rotto, sincopato, semplificato, un po’ plebeo ma comprensibile, le cadenze e sentenze popolari russe messe da Solženicyn nella bocca di un ruvido mugico rinchiuso in un gulag siberiano. Non potevo certo far parlare quell’Ivan remoto, perdipiù abbrutito in un campo gestito dagli sbirri dell’Nkvd, allo stesso modo di un borghese pariolino di Moravia. Benedetti evidentemente non la pensava così. Lo sentii sbuffare spazientito all’altro capo del filo: «Ma che mai è questa roba, chi è mai questo Soggizin o Ivan o come diavolo si chiami? Uno scrittore vernacolare? Un romanziere della domenica? Un goffo imitatore russo di Pavese?»

Di parere diverso fu invece il condirettore Eugenio Scalfari. Egli mostrò di fidarsi senza riserve non solo delle tonalità rustiche della mia traduzione ma, in particolare, della mia intuizione giornalistica. Al contrario di Benedetti, inchiodato alla valutazione estetica, Scalfari aveva afferrato appieno il senso politico, extraletterario, del primissimo colpo d’ariete sferrato in Russia, da un deportato russo, al muro di silenzio sugli arcipelaghi della schiavitù. M’incitò quindi a portare sino in fondo la mia fatica di traduttore e commentatore del racconto. Così, gli amari ricordi dello «zek» Ivan Denisovic, portavoce rude e attendibile del medesimo Solženicyn, comparvero per la prima volta in Occidente nella loro completa versione italiana sulle ampie pagine bianconere del vecchio Espresso. Fu la segnalazione dell’onda iniziale di una marea destinata a montare e a non fermarsi più.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA. Opposizione, ricorda la sinistra
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2008, 11:11:29 am
14/7/2008
 
Opposizione, ricorda la sinistra
 
 
 
 
 
ENZO BETTIZA
 
Forse non si è messa bene a fuoco la novità del significato, di quanto è avvenuto martedì scorso nella palestra pubblica di Piazza Navona. Il palleggio delle responsabilità, delle ipocrisie, delle coperture, dei pentimenti, dei giustificazionismi non è servito ad altro che a offuscare e a confondere il vero significato di una manifestazione di teppismo organizzato che non aveva e niente ha a che vedere con lo stile protestatario, le argomentazioni sociali e il linguaggio spesso sferzante ma controllato di sinistra e anche di estrema sinistra. L’antiberlusconismo, sia pur drastico, di un Bertinotti o di un Diliberto non si era mai mescolato a volgarità da talamo e anche quando essi abbordavano temi scottanti come il conflitto di interessi, i rapporti con la giustizia, lo strapotere mediatico del Cavaliere, mantenevano la critica nell’ambito di un contesto politico e antagonistico basato su ragionamenti e dati, talora opinabili, però mai offensivi o calunniosi sul piano personale.

Facevano politica, la loro politica, con la grinta di combattenti duri, irremovibili, ma capaci sempre di distinguere tra l'insulto gratuito e l’accusa circostanziata. Non facevano d'ogni erba un fascio grillesco. Sapevano separare le colpe vere o presunte di Berlusconi dagli interventi teologici del Papa, dalle cautele istituzionali del Presidente della Repubblica, perfino dalle mosse diplomatiche di certi alleati o collaboratori berlusconiani.

Dire perciò che la brutta e pericolosa manifestazione di Piazza Navona sia stata di sinistra, o di estrema sinistra, o soltanto di emergenza democratica, è un falso che non regge alla prova dei fatti consumati e delle parole scagliate indiscriminatamente contro tutti e tutto: dai membri del governo al capo dell'opposizione, dal Pontefice al Capo dello Stato. C'è stata, sì, un'emergenza democratica, ma nel senso che il sistema democratico in quanto tale, senza distinzione, in tutte le sue emergenti componenti esecutive e legislative, è stato pesantemente attaccato, svillaneggiato e di fatto ripudiato come un complesso di istituzioni sorde e grigie. Non a caso adopero due storici aggettivi mussoliniani. Chi ci ricordava, in forma caricaturale, il comico che non fa più ridere mentre lanciava il noto grido «italiani!» rivolgendosi da un video orwelliano alla folla consenziente? Quale balcone fatale evocavano le urla del comico che il demagogo principe del raduno, Antonio Di Pietro, ha nella sostanza ammesso di preferire al pavido Veltroni?

Altri partecipanti di prima fila del raduno, fingendosi pentiti, ma in realtà approvando in cuor loro i cabarettisti che gridavano chiaro quello che loro pensano e non hanno il coraggio di dire in pubblico, hanno tentato poi di cavarsela con qualche distinguo e qualche battuta scarsa. La satira non andrebbe confusa con la politica. Certe uscite improvvisate, certe allusioni oscene, certe deviazioni dal buon galateo di sinistra andrebbero attribuite tutt'al più a un'innocua e artistica trasgressione qualunquistica o populistica. La piazza ignara, innocente, sarebbe stata in qualche modo aggirata e colta di sorpresa dalle battute meno rispettose o più sconvenienti. Ma tali espedienti, soprattutto quelli della satira distinta dalla politica e della brava piazza presa di contropiede, sono stati subito smentiti da una confessione lucida, degna di lettura, tutt'altro che comica, firmata sul Corriere della Sera da Sabina Guzzanti. Eccone fra virgolette il passo essenziale: «Quello che hanno visto i presenti è una piazza ricolma di gente, rimasta in piedi per tre ore ad ascoltare e ad applaudire entusiasta. Gli interventi più criticati dai media sono quelli che hanno avuto indiscutibilmente più successo. Nel mio intervento, al contrario di quanto tanti bugiardoni hanno scritto, gli applausi più forti sono stati sulle critiche alla politica del Vaticano e le frasi più forti sono state applaudite ancora di più». Altro che satira da una parte e politica dall'altra. La Guzzanti, giustamente dal suo punto di vista, rivendica il ruolo eminentemente politico che gli organizzatori le hanno concesso di svolgere in quanto cittadina in piazza e non attrice in cabaret. Niente più nani e ballerine che ai tempi di Craxi sedevano ossequiosi e muti nelle platee dei congressi. Oggi i ruoli si sono rovesciati. Nani e ballerine sono saliti sul podio, dicendo ad alta voce la loro nell'ambito di un raduno organizzato da una parte dell'opposizione contro il governo e, più in particolare, contro la legittima opposizione parlamentare al governo. Galvanizzata dal successo di comici e pubblicisti forcaioli, la classe politica, o una fetta militante di essa, ha finito per arruolarli e dare loro in appalto tribune e spazi che di regola spettano ai rappresentanti dei partiti. Qualcosa che in definitiva sa di harakiri, di usurpazione astuta promossa nello stesso momento a proprio danno e vantaggio. Però, a guardar bene, il danno è maggiore del vantaggio. Il monologante Grillo, la scatenata Guzzanti hanno caratterizzato e dominato, con le loro invettive, lo spazio plaudente di Piazza Navona rendendo un pessimo servizio ai promotori politici e intellettuali dell'evento degenerato in disastro.

L’antiberlusconismo boccaccesco è stato un alibi, una foglia di fico, un velo, al cui riparo dare sfogo a un giustizialismo rapsodico che reca più male che bene alla stessa magistratura. I dipietristi hanno voluto occupare il vuoto lasciato dalle severe ma composte schiere del massimalismo postcomunista, e l'hanno occupato con una retorica anarcoide che, in definitiva, nel linguaggio e nel portamento, ricorda più le destre piazzaiole del secolo scorso che le sfortunate sinistre odierne. Berlusconi è passato in secondo ordine rispetto alla globale furia antisistema dell'evento, anche se in parte ne ha favorito l'innesco dando la precedenza, nelle prime manovre di governo, ai fatti giudiziari che lo riguardano anziché a quelli più urgenti che preoccupano i due uomini chiave dell'esecutivo: Bossi, che persegue l'idea di stipulare un patto federalistico con l'opposizione, e Tremonti che cerca di riparare i guasti e il declino di un'economia disastrata. Il seguito della storia non sarà allegro per nessuno degli attori in campo e soprattutto non lo sarà per gli italiani che, da quindici anni, non sanno più a che santo votarsi.
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA L'impero colpisce ancora
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2008, 10:45:00 pm
23/7/2008
 
La mente del male
 
 
 
 
 
ENZO BETTIZA
 
La più lunga, la più ambigua, la più protetta latitanza in contumacia dell’ultimo dopoguerra jugoslavo è giunta alla fine. Sarebbe infatti esagerato dire che Radovan Karadzic sia stato all’improvviso scoperto e arrestato dalla polizia di Belgrado. Il Nerone di Pale, il poeta e psichiatra per l’infanzia Radovan Karadzic, che declamando versi si godeva l’intermittente sparatoria dei cecchini sui bersagli umani di Sarajevo, è stato abbandonato al suo destino.

Lo hanno abbandonato i governanti serbi ormai logorati sul piano internazionale da una finzione durata al di là del sostenibile: lo hanno quindi semplicemente spogliato dell’immunità, assicuratagli per tredici anni dall’ex capo dello Stato Kostunica, in attesa di estradarlo come merce di baratto al tribunale per i crimini di guerra dell’Aja.

Il nuovo presidente occidentalista, Boris Tadic, dai cui uffici sarebbe partita la notizia dell’«arresto», ne ha ritmato la comunicazione sui passi che il ministro degli Esteri di Belgrado espletava intanto nelle principali capitali europee. Insomma, la testa del maggiore dei criminali serbi, il vero responsabile del genocidio di Srebrenica e dell’urbicidio di Sarajevo, in cambio di un'imminente apertura alla nuova Serbia da parte dell’Unione Europea. Non a caso siamo alla vigilia di un importante vertice intergovernativo a Bruxelles e non caso, in questi stessi giorni, gli ambasciatori serbi stanno rientrando nelle sedi occidentali abbandonate per protesta dopo la proclamazione d'indipendenza del Kosovo. L’isolamento internazionale cominciava a incidere troppo sulla già lacera borsa politica ed economica di Belgrado.

Però non tutta l’Europa sembra accingersi ad accettare a tempi unanimi e concordi le pratiche dell’estradizione. Il responsabile della diplomazia europea, Solana, pare incline a dare cauto ascolto alle eccezioni sollevate in merito dal gruppo dei Paesi nordici, schierati alle spalle dell’Olanda gravemente macchiata, all’epoca di Srebrenica, dall’indegna e quasi complice inerzia dei suoi caschi blu che prima dell’eccidio brindavano in divisa Onu col generale Ratko Mladic. C'è chi ricorda ancora la foto, scattata il 12 luglio 1995, in cui si vede il capo del corpo olandese, Ton Karremans, in procinto di avvicinare il bicchiere di sljivovica a quello del massacratore in tuta mimetica che agiva agli ordini del presidente Karadzic. Scandalo morale e crisi politica provocarono poi le 500 medaglie elargite dal governo dell’Aja ai soldati del contingente che non impedirono la strage di ottomila musulmani bosniaci. Ora molti temono che nuovo scandalo e nuova crisi, ai danni dell’Olanda, possano emergere proprio al tribunale dell’Aja dalla testimonianza di un personaggio pericoloso, incontrollato e ricattatorio come Karadzic. Sembra di capire che i nordici, perciò, cerchino di guadagnare tempo, sostenendo che non basta trascinare alla sbarra internazionale un solo responsabile, il solo mandante Karadzic, non accompagnato dall’esecutore militare e manuale del genocidio. Secondo taluni sarebbe addirittura Mladic il principale colpevole dell’orrore.

Ma si tratta di sofismi di lana caprina, che hanno poco valore storico e poca probabilità di realizzarsi subito nei fatti. Sarebbe come dire, con le dovute proporzioni s’intende, che era quasi più importante colpire Himmler prima di Hitler o Beria prima di Stalin. Nello specifico caso balcanico era Karadzic la mente e Mladic il braccio del male. Era il poetico e superlativo montenegrino Karadzic, interlocuore privilegiato di Mitterrand, del mediatore di Dayton Holbrooke, del ministro britannico Owen, perfino del Nobel Wiesel sopravvissuto ai lager nazisti, era lui lo stratega della morte sul viale dei cecchini nei 43 mesi d’assedio di Sarajevo. Era lui l’ideatore della mattanza di Srebrenica. Era lui che confidava agli amici che un «Turco», un islamico di Bosnia, vale assai più da morto che da vivo. Era insomma Radovan Karadzic, sostenuto dal defunto Milosevic e servito dal forse defunto Mladic, il promotore delle ecatombi più spietate che l’Europa ricordi dalla fine della seconda guerra mondiale.

L’uomo che oggi vediamo in sandali, con la lunga barba bianca da monaco ortodosso, non era comunque un criminale comune: citava a memoria i sonetti di Shakespeare, affascinava le donne, incantava i negoziatori occidentali col suo inglese fluente e impeccabile. Un mostro mellifluo, un attore sanguinario, un folle machiavellico mascherato di volta in volta da politico realista e da profeta? Addirittura un santo, se dobbiamo credere all’opinione di una certa Chiesa oltranzista serba. Diversi servizi occidentali hanno raccolto prove sufficienti per sostenere che, dal 2003, la Chiesa ortodossa avrebbe assunto l’onere di sostenerne la latitanza. La gerarchia religiosa avrebbe inviato a suo tempo questo messaggio alle docili autorità di Belgrado: «D’ora in poi dimenticatevi che esiste. Lo proteggeremo noi, nei nostri monasteri, fino all’estinzione dei suoi giorni. Allora gli costruiremo un mausoleo dove la gente potrà venire a venerarlo come eroe del popolo serbo». Nessuno ricorda più che il vero Karadzic degno di venerazione, al quale l’Encyclopaedia Britannica dedica mezza pagina, si chiamava Vuk: visse nella prima metà dell’Ottocento, fu filologo romantico, padre della letteratura serba, unificatore e semplificatore degli alfabeti serbi e croati, spirito d’unità culturale e non d'odio razziale fra i popoli jugoslavi.

Invece, il falso Karadzic, non si sa bene se da medico o da paziente, è finito sotto altro nome in una clinica secondaria per malati mentali, fino a ieri dimenticata dalle autorità serbe e ignota al mondo intero. Non è da escludere che potremo rivederlo presto alla sbarra dell’Aja, perfettamente sbarbato, in doppiopetto scuro, al posto del prigioniero Milosevic che lo temeva e lo nominava il meno possibile. Si capisce perché nell’attesa tanti olandesi tremino.
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA. Se la Cina supera gli Usa
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2008, 03:24:58 pm
2/8/2008
 
Se la Cina supera gli Usa
 
 
 
 
 
ENZO BETTIZA
 
Lo sport come scontro disarmato, come competizione cavalleresca tra grandi nazioni, in definitiva come metafora di una guerra mimetica, guerreggiata solo con muscoli, guantoni, palloni, canestri e attrezzi ginnici. Appariranno più che mai così le Olimpiadi che s'inizieranno l'8 agosto e che avranno, per massimi protagonisti e rivali, la Cina e gli Stati Uniti d'America. Due continenti, l'uno avviato alla riconquista della potenza perduta, l'altro potente e ricco fin dal primo giorno della sua indipendenza nazionale. Ridotto all'osso, il senso simbolico, epocale, delle imminenti gare di Pechino è tutto qui: nella singolar tenzone tra un colosso asiatico in crescita esplosiva e il supercolosso occidentale sempre più dubbioso di una supremazia arenata e minacciata dal declino. L'economia americana da qualche tempo ansima, i venerdì di Wall Street sono sempre più opachi, mentre sul futuro politico di Washington gravano le incognite di una svolta di potere affidata non si sa bene a quali mani e quale testa presidenziale.

L'Asia invece, in particolare l'Asia cinese, scalpita, corre ai grandi traguardi del secolo, non vede l'ora di primeggiare, dilà dai mercati, anche nelle Olimpiadi trasformandone cerchi e medaglie in un trofeo di riscossa storica degno di un millenario passato imperiale. Il contraccolpo d'immagine, non solo sportivo ma politico, sarebbe quindi enorme per l'America se i suoi atleti, abituati a stravincere, venissero battuti dai cinesi già definiti dal giovane Mao «flaccidi» e fisicamente inetti. Alcuni commentatori, dimenticando gli abissi di disumanità da cui è emersa la Cina postmaoista, hanno addirittura paragonato le Olimpiadi di Pechino 2008 a quelle naziste di Berlino 1936. Quei lontani giochi berlinesi andrebbero evocati, semmai, non per mortificare i governanti semicomunisti della Cina odierna, che nei loro limiti si sforzano di compilare nuovi codici di tolleranza, bensì per onorare la memoria dell'atleta Jesse Owens, figlio nero della democrazia americana, che con quattro titoli olimpionici seppe umiliare la prosopopea razzista di Hitler e di Rosenberg. L'atletica americana, a torto o a ragione, soprattutto negli anni fra le due guerre, è stata spesso nobilitata da un alone militante, democratizzante, d'avanguardia antitotalitaria; già nel 1933 aveva fatto crollare, sotto i pugni di Max Baer, il mito carnale dell'Italia fascista Primo Carnera. Poi, ci fu una guerra fredda sportiva. Molti trofei americani sono stati strappati all'epoca negli scontri con atleti russi, bulgari, ungheresi, o tedeschi orientali allevati come automi da torneo in laboratori d'ingegneria genetica con somministrazioni di sostanze chimiche alteranti. Il doping di Stato era pratica di routine nelle scuderie superomistiche dei Paesi ex comunisti. Ora non mancano dubbi e sospetti di chi, sottolineando l'origine comunista dei dirigenti cinesi, allude alla possibilità che i loro atleti vengano preparati ad affrontare fisicamente le gare con metodi artificiali e sleali. Certo non è facile penetrare fino in fondo i convolvoli dei cervelli asiatici. Tuttavia non credo che la Cina, già sotto tiro e monitoraggio permanente a causa dei costi oceanici delle Olimpiadi, dei deturpamenti urbani e ambientali legati alle costruzioni olimpiche, oserà mai esporsi al rischio di uno scandalo da doping che ne farebbe a pezzi la rispettabilità di Paese ospite e garante del grande evento. Alla Cina, seppure percorsa da orgogli e fremiti nazionalisti, non interessa forse neppure stravincere nelle Olimpiadi: le interessa soprattutto che esse si tengano per la prima volta a Pechino, che ne legittimino l'entrata a pieno titolo nell'universo globalizzato, che la pongano quasi allo stesso livello planetario dell'America e, magari, un poco più in alto del Giappone e dell'India. Il senso della sfida cinese è in massima parte concentrato sulla straordinaria potenza d'attrazione emblematica e magnetica dello spettacolo in se stesso, lo spettacolo in quanto tale. Il trionfo politico è già qui e vedremo se ad esso seguiranno pure i trionfi sportivi. Non a caso il presidente Hu Jintao ha voluto annunciare, proprio ieri, che la politica non s'arresterà ma completerà la vicenda olimpica con ulteriori schiusure e riforme. Intanto si registrano nuovi sblocchi su Internet e si garantisce ai giornalisti stranieri l'accesso ai siti di Amnesty International, sempre all'erta sulla repressione vera o virtuale dei diritti umani. Per gli americani il problema sportivo si salda invece più intimamente a quello politico. Essi ricordano benissimo il servizio già reso, dal 1972 al '73, dai tavoli di ping pong al successivo tavolo diplomatico su cui Nixon e Kissinger avviarono con Mao e Ciu Enlai la primissima e timida fase d'apertura. Ma oggi, per tanti americani, il gioco si è paradossalmente capovolto: non si tratta più di favorire l'apertura di una Cina veterocomunista ma, al contrario, di frenare e contenere l'eccessiva apertura al mondo di una Cina neocapitalista. Washington ne teme l'invadenza nei mercati, nelle finanze, nelle industrie statunitensi.

Teme, in maniera esagerata, un venerdì nerissimo provocato da un incontenibile espansionismo economico cinese. E' su tale sfondo di panico latente che gli americani si augurano di non uscire, dalle Olimpiadi, con un numero di medaglie inferiore a quello dei cinesi. Paventano soprattutto l'incidente nelle partite di basket in cui gli americani, anzi, in particolare gli afroamericani sono o erano per antica tradizione sempre i più forti. Come raccontarla al mondo se, nel momento in cui un nero si accinge a dare la scalata alla Casa Bianca, i famosi afroamericani del basket dovessero subire una cocente disfatta da parte dei «flaccidi» giocatori cinesi?

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA L'impero colpisce ancora
Inserito da: Admin - Agosto 10, 2008, 04:38:58 pm
10/8/2008
 
L'impero colpisce ancora
 
 
 
 
 
ENZO BETTIZA
 
Dei tre coacervi regionali in permanente stato d’infiammabilità e d’insidia agli equilibri mondiali, il Medio Oriente, i Balcani e il Caucaso, quest’ultimo è precipitato nel gorgo della catastrofe proprio nel giorno in cui il tripudio olimpico, celebrato a Pechino, avrebbe voluto lanciare all’umanità un invito simbolico alla pace universale. Altro che «one world one dream». Di colpo, alle grandiose visioni in technicolor confuciano osannanti l’armonia fra le nazioni e l’avvento di un mondo irenico, abbiamo visto sovrapporsi e contrapporsi, in un contrasto insieme beffardo e crudele, immagini di una guerra a tutto campo quali non si vedevano dai tempi malefici del Vietnam. Una guerra dura, completa, con razzi, aerei, carri armati, lanciafiamme, carneficine spaventose di cui non avevamo più memoria. Una guerra diretta, in carni ed ossa martoriate, non diluita e mimetizzata nei bagliori elettronici di un videogame televisivo. I militari georgiani hanno inflitto morte e distruzione alle popolazioni di una città ignota che si chiama Tskhinvali, mentre i bombardieri russi hanno decimato i civili di un’altra città molto più nota, l’antica e storica Tiflis, dal 1917 Tbilisi, capitale dello Stato caucasico più importante e drammatico e da ieri in dichiarato conflitto bellico con la Federazione di Putin-Medvedev. Le bombe russe non hanno risparmiato neppure la cittaduzza di Gori dove nel 1878, nella stamberga di un ciabattino violento e alcolizzato, nacque il futuro seminarista ortodosso e poi rivoluzionario Josip Stalin.

Già quella nascita d’eccezione ci dice che della Georgia gloriosa e duplice, colta e guerriera, cristiana e marxista, russa soltanto dal 1801, è molto più facile parlare che non dell'enclave capillarmente russificata Ossezia del Sud, casus belli dello scontro armato in corso. La mitica Colchide, patria di Medea e degli Argonauti, detentrice sacrale del vello d’oro, era presente fin dai tempi greci nella leggendaria storia europea. In seguito, dal principe Bagration, morto come generale russo nella Borodino di Guerra e Pace, ai grandi menscevichi del Febbraio 1917 e ai bolscevichi dell’Ottobre, fino al faraonico Stalin, all’industrializzatore Ordžonikidze, al feroce Beria, al riformatore Shevardnadze, la storia della Russia moderna sarà segnata in profondità, nel male e nel bene, da ogni sorta di personaggi emersi dalla Transcaucasia georgiana. Lenin vedrà in Stalin addirittura un «grande russo», ostile alla propria patria, nel momento in cui i socialdemocratici menscevichi e i leninisti nazionali di Tbilisi si opporranno con le armi alla bolscevizzazione di stampo russo della loro terra. Il georgiano Stalin, a cui taluni storici attribuiscono perfino un’oscura origine osseta o abkhaza, sarà lui a spezzare la spina dorsale ai rappresentanti del socialismo aperto ed europeizzante della combattiva repubblica caucasica fra il 1917 e il ‘21.

Molto più difficile è invece descrivere la minima repubblichetta autonoma di centomila anime chiamata Ossezia. Essa dal 1992 è divisa in due entità che aspirano a riunificarsi. L’appendice meridionale è incorporata nel territorio georgiano, quindi è formalmente georgiana; l’altra metà è integrata nel corpo federale della Russia la quale, al tempo stesso, è presente in forme subdole anche nell’entità Sud con rubli, passaporti, personale politico, servizi segreti e presidi militari camuffati da forze d’interposizione. Il piano di Putin, volto a riportare alla Russia molte componenti perdute dell’impero sovietico, è da anni determinato e lineare: staccare definitivamente l’Ossezia del Sud dalla Repubblica georgiana e agganciarla all’Ossezia del Nord completamente russificata. Pure la più cospicua repubblichetta d’Abkhazia è di fatto uncinata dalla Russia e in parte già staccata dalla Georgia. Non si contano le guerre civili poco note in Occidente, più o meno striscianti, più o meno per procura, ma continue, che dal 1991 hanno seguitato a opporre i russi ai georgiani nella tenzone, spesso violenta, per il possesso di questi sperduti territori eurasiatici. L’ultima tigre cavalcata da Putin è stato il Kosovo. Nell’impossibilità di bloccare la dichiarazione di sovranità kosovara sostenuta dagli occidentali, e di soccorrere una Belgrado delusa che si sta riorientando sull’Europa, egli ha messo in questi giorni in atto il ricatto preannunciato: all’indipendenza di Pristina ha risposto inviando in un blitz a sorpresa i blindati russi nell’Ossezia meridionale e scatenando i cacciabombardieri sulla capitale della Georgia.

Il pretesto gli è stato offerto dalle mosse sconsiderate e autolesioniste dell’ultimo presidente filoamericano di Tbilisi, Mikhail Saakashvili, che nel tentativo di forzare la mano all’amministrazione Bush ha lanciato la truppa all’attacco dei secessionisti di Tskhinvali. Contemporaneamente ha ribadito la volontà di Tbilisi di entrare nella Nato, ha invitato gli americani a riportare coi loro elicotteri dall’Iraq in Georgia il corpo di spedizione georgiano, duemila soldati ben addestrati da schierare contro l’assalto delle divisioni russe. Se ciò avvenisse si profilerebbe, addirittura, la possibilità di un nefasto contatto diretto tra mezzi aerei statunitensi e caccia russi. Oggi Saakashvili, che è stato uno dei responsabili della cacciata del moderato Shevardnadze dal potere e non gode più dell’appoggio incondizionato dei compatrioti, è scomparso in un bunker alla periferia della capitale. Fino a ieri si presentava alla televisione con alle spalle la bandiera stellata dell’Unione Europea di cui la Georgia, come tutti sanno, a cominciare da Putin, non fa parte.

Il discorso sul gas e sul petrolio, discorso che col famoso progetto «Nabucco» farebbe della Georgia un ponte di scavalcamento delle forniture energetiche russe destinate all’Europa, lo lasciamo agli specialisti della materia. La questione economica, comunque, non può che aggravare la già gravissima crisi politica e militare che sta mettendo in imbarazzo gli americani, in difficoltà gli europei, in disperazione cinque milioni di georgiani e in posizione di vantaggio soprattutto la strategia del recupero imperiale di Putin. È stato l'intemperante e sovreccitato Saakashvili a offrirgli il trampolino di lancio su sfondo olimpionico. Ora rieccolo, lo zar indefesso, col cannocchiale e la spada in pugno al centro di uno scenario selvaggio che evoca Lermotov e Tolstoj: a Vladikavkaz, capitale e avamposto di guerra della russificatissima Ossezia del Nord.

da lastampa.it


Titolo: Storia e politica - Il dramma degli osseti
Inserito da: Admin - Agosto 10, 2008, 05:01:24 pm
Storia e politica - Il dramma degli osseti

Dal gioco delle etnie di Stalin alla sfida della Georgia filo-Usa

Il dittatore usò l’odio tra i popoli come strumento di governo



I bollettini della guerra caucasica annunciano che una bomba osseta avrebbe colpito la piccola casa di Gori dove nacque nel 1879 il «meraviglioso georgiano» (così lo chiamò Lenin quando lo conobbe a Vienna nei primi anni del Novecento) che passò alla storia con il nome di Stalin. Mai bomba è stata altrettanto mirata e «intelligente». Nella guerra scoppiata in questi giorni fra Mosca e Tbilisi, l’ombra di Jozif Vissarionovic Dzhugashvili domina, come quella di Banquo nel Macbeth di Shakespeare, il tavolo dei negoziati e il campo di battaglia. La geografia politica delle etnie sovietiche fu il suo capolavoro. Quando Lenin, dopo la fine della guerra civile, lo incaricò di sciogliere l’imbrogliato nodo delle cento nazionalità che vivevano nell’impero degli zar, Stalin si dedicò anzitutto al Caucaso meridionale e mise fine con una spedizione militare all’indipendenza del Paese in cui era nato.

Era il 1921. Un anno dopo sottopose a Lenin il progetto di uno Stato federale bolscevico di cui avrebbero fatto parte quattro repubbliche: Russia, Ucraina, Bielorussia e una entità nuova, chiamata Transcaucasia, in cui vennero riunite l’Armenia, la Georgia e l’Azerbaigian. Quattordici anni dopo, nel 1936, una nuova costituzione staliniana rimaneggiò la carta geografica. La Repubblica Transcaucasica fu divisa nelle sue tre componenti e vennero istituite undici repubbliche (Russia, Ucraina, Bielorussia, Georgia, Armenia, Azerbaigian, Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan, Kazakistan e Kirghizistan) a cui furono aggiunti, dopo il patto tedesco- sovietico dell’agosto 1939, i tre gioielli del Baltico (Estonia, Lettonia, Lituania) e, con il nome di Moldavia, la Bessarabia romena.

Cambiavano i nomi e i confini, ma la strategia di Stalin era sempre la stessa. Per realizzare il «socialismo in un solo Paese» occorreva creare uno Stato pseudo-federale in cui tutte le repubbliche fossero eguali (ma una, la Russia, più eguale delle altre) e in cui i poteri fossero apparentemente decentrati, ma sostanzialmente concentrati nelle mani del partito comunista e del suo segretario generale. Per prevenire ciò che era accaduto dopo la rivoluzione bolscevica, quando molte regioni avevano proclamato la loro indipendenza, Stalin disegnò le repubbliche in modo da evitare che fossero etnicamente omogenee. Non bastava che il vero potere fosse soltanto a Mosca. Occorreva creare all’interno di ogni repubblica potenziali conflitti che avrebbero conferito al segretario generale del partito la funzione di arbitro supremo.

Il caso della Georgia è esemplare. La maggioranza del Paese è georgiana, ma entro i confini dello Stato esistono tre repubbliche autonome, create dal potere sovietico: Abkhazia, Agiaristan, Ossezia. E per evitare che le popolazioni musulmane sulla frontiera nord-orientale della Georgia divenissero troppo potenti, l’Ossezia fu divisa in due tronconi: quello meridionale fu «domiciliato » in Georgia e quello settentrionale assegnato alla Repubblica autonoma dei ceceni- ingusceti. Da allora le due Ossezie hanno svolto a nord e a sud della frontiera repubblicana lo stesso ruolo. Sono una quinta colonna fedele alla Russia in terre potenzialmente animate da spirito secessionista.

Il mio primo incontro con gli osseti fu a Mosca, nel settembre del 1991, dopo il fallimento del putsch con cui il «gruppo degli 8» cercò di estromettere Boris Eltsin dalla presidenza della Repubblica russa.

Attraversavo piazza Pushkin quando vidi, di fronte al monumento dello scrittore, un semicerchio di donne vestite di nero che mostravano ai passanti i ritratti dei figli, dei padri, dei fratelli e dei mariti. Qualche settimana prima, mentre il generale Dudaev s’impadroniva del potere a Grozny, capitale della Cecenia, i «cugini» ingusceti erano insorti per riprendersi le case che il potere sovietico aveva assegnato agli osseti del nord dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Punite dal potere sovietico per avere collaborato con gli occupanti tedeschi, le popolazioni musulmane dei ceceni e degli ingusceti approfittavano della disgregazione dell’impero per saldare il conto. Gli uomini ritratti in quelle fotografie erano le vittime dei massacri che avevano avuto luogo nell’Ossezia del nord. I russi intervennero e gli ingusceti vennero duramente cacciati dalle terre di cui erano riusciti a impadronirsi. Se il lettore vuole conoscere la storia romanzata di quegli avvenimenti può leggere un romanzo di John Le Carré (La passione del suo tempo) apparso presso Mondadori qualche anno fa.

Mentre gli osseti del nord ritornavano nelle loro case, gli osseti del sud insorgevano contro la Georgia. Non volevano far parte di uno Stato che aveva proclamato qualche mese prima la propria indipendenza e invocavano l’aiuto di Mosca. Lo ottennero, naturalmente, e godono da allora di una autonomia di fatto, garantita dalle truppe russe che vennero stanziate nella regione sotto l’egida dell’Osce (Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa) dopo la fine delle guerre (una stessa crisi scoppiò in Abkhazia) combattute durante gli anni Novanta.

Nonostante tensioni ricorrenti, la situazione rimase relativamente stabile sino a quando il presidente della Georgia fu Eduard Shevardnadze, ministro degli Esteri dell’Unione Sovietica all’epoca di Gorbaciov.

Shevardnadze era georgiano e patriota, ma aveva una vecchia familiarità con il potere russo e conosceva i limiti che la Georgia non poteva oltrepassare senza gravi rischi. La situazione cambiò nel 2004 quando un giovane georgiano si mise alla testa di una insurrezione popolare e cacciò ignominiosamente il vecchio Shevardnadze dall’aula tumultuante del parlamento di Tbilisi. Mikhail Saakashvili ha quarantuno anni, ha studiato alla Columbia University di New York, ha sposato una simpatica signora olandese, parla con l’accento americano il linguaggio della democrazia e ha lanciato segnali che gli Stati Uniti hanno prontamente raccolto. Dopo avere ricevuto trionfalmente Bush a Tbilisi nel maggio 2005, ha chiesto e ottenuto l’assistenza militare dell’America (un migliaio di istruttori), ha presentato la candidatura del suo Paese alla Nato, sa di essere appoggiato da Washington e quattro mesi fa ha restituito la visita del suo protettore mettendo piede nello studio ovale della Casa Bianca. Dopo essere tornato in patria ha innestato la pericolosa partita delle provocazioni reciproche. Non è necessario dire molto di più per capire la crisi che è scoppiata in questi giorni. È facile comprendere perché un ambizioso e spericolato giocatore d’azzardo georgiano abbia deciso, per meglio sottrarsi alla tutela moscovita, di buttare sul tavolo la carta dell’amicizia americana. È più difficile comprendere perché gli Stati Uniti gli abbiano permesso di farlo così rumorosamente.


10 agosto 2008

da corriere.it


Titolo: ENZO BETTIZA Zar Putin, la Crimea nel mirino
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2008, 08:38:04 am
17/9/2008
 
Zar Putin, la Crimea nel mirino
 
 
ENZO BETTIZA
 
Ma chi te lo ha fatto fare?». Con questa battuta, tra seria e stupefatta, terminava una telefonata del presidente Bush al neopresidente Medvedev nelle ore i cui gli irruenti blindati russi, sbaragliato il blitz georgiano in Ossezia, puntavano già i loro cingoli e cannoni verso Tbilisi. I primi cento giorni del «liberale» Dmitry Medvedev si concludevano così con un battesimo del fuoco che potremmo definire insieme avventuroso e storico. Avventuroso perché gli stati maggiori russi avevano teso una trappola all’imprevidente Saakashvili, sorprendendo le sue truppe con un contrattacco da tempo preparato e ben organizzato nella metà settentrionale dell’Ossezia; storico perché, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, è stata questa la prima sortita aggressiva dell’esercito della Federazione russa contro uno Stato, il più importante del Caucaso, riconosciuto a pieno titolo sovrano dalla comunità internazionale.

Non sappiamo quello che Medvedev abbia risposto alla provocatoria domanda del suo omologo americano.

Ma non si reca grande offesa alla realtà immaginando che avrebbe potuto replicargli: «La spinta all’intervento armato mi è stata suggerita da tre fattori concomitanti. Anzitutto il calcolo militare sbagliato del tuo servo di Tbilisi, poi lo scatto infallibile del mio capo di governo Putin, infine la paralisi della tua stessa presidenza, declinante in un’America che non ha saputo vincere fino in fondo le guerre in Iraq e Afghanistan e ora rischia di perderla perfino a Wall Street».

La Grande Russia, quella invocata e ricostruita dal 2000 in poi da un oscuro ufficiale del Kgb, ha mostrato insomma per la prima volta i denti all’Occidente ed esibito i suoi muscoli, non solo petroliferi, nel momento di maggiore precarietà e immobilità dell’amministrazione degli Stati Uniti. Non si possono fare paragoni tra il debole impatto internazionale della pur lunga crisi cecena, feroce guerriglia di polizia all’interno dei confini russi, e l’allarmante connotato di svolta e di ricaduta al di là dei confini russi della breve guerra d’agosto in Georgia. La sua brevità è stata inversamente proporzionale ai danni già prodotti e che potranno ripetersi a dimensioni più vaste e pericolose. Ne potranno infatti risentire, inasprendosi, i rapporti già tesi tra l’imperiale Russia putiniana e altre repubbliche ex sovietiche, come i Paesi baltici membri dell’Unione Europea, o un importante ex satellite come la Polonia oggi testa di ponte dell’Unione e della Nato verso l’Est.

Non a caso perfino la semindipendente Bielorussia, una volta saldamente integrata nell’Urss, tuttora legata per mille canali energetici e politici a Mosca, ha fatto giungere con imbarazzo un tardivo borbottio d’assenso al Cremlino per i colpi inflitti all’integrità delle esplosive frontiere caucasiche. In tal senso, la rapida guerra contro Tbilisi, culminata in due amputazioni di sovranità con l’Ossezia e l’Abkhazia militarmente occupate e annesse, è stata qualcosa di più d’un semplice conflitto armato: è stata anche una sorta di metafora segnaletica, una prefigurazione simbolica di quello che, un domani forse non lontano, potrebbe accadere all’Ucraina e poi, via via, con la tattica del salame, alla Bielorussia, alla Moldavia, all’Azerbaigian, all’Armenia, a una cinquina di repubbliche centroasiatiche. Pure qui le nutrite minoranze russe potrebbero giocare, in un analogo caso di Anschluss strisciante, un ruolo di quinte colonne come i collaborazionisti osseti o abkhazi russificati. Sarebbe la riconquista dei vecchi territori zaristi, ai quali Putin essenzialmente mira, e anche la fine della farsa di copertura, surrogata nel 1991 al posto dell’Urss, che venne rubricata come «Comunità degli Stati Indipendenti» di cui non si conobbe mai né il funzionamento istituzionale né l’utilità pratica.

Ma la preda più concupita, che da un momento all’altro potrebbe scatenare la caccia grossa da parte dei diarchi del Cremlino, resta l’Ucraina spaccata quasi a metà tra una fortissima minoranza di russi o russofoni orientali, e l’ondivaga maggioranza europeista degli ucraini occidentali. I georgiani per esempio non appartengono all’etnia slava, anzi oggi come ieri le si oppongono. Ma basta un solo cenno per centrare la vulnerabile storia di questo Stato d’antichissima e gloriosa slavità. La Russia le deve se stessa poiché nacque dalla medievale Rus’ di Kiev. L’Unione Sovietica, che ne sterminò la «razza contadina», tuttavia le deve l’alto contributo che essa diede alla nomenklatura dei diplomatici, dei militari, dei capi della Ghepeù, dei pianificatori dell’industria pesante, fino ai rilevanti nomi storici di un Kruscev o un Breznev. Ecco perché l’indipendenza ucraina non è mai stata accettata psicologicamente dai russi sul piano etnico e culturale. Il «moscovita» qui non è «di casa»: è in casa. Su 45 milioni di abitanti circa 10 sono di etnia russa, molti con passaporto russo. Da qualche tempo la pietra dello scandalo, la scintilla di una crisi non più occulta, è la penisola di Crimea, blasone letterario e bellico della Russia; ucraina dal 1954, la Crimea è non solo popolata in gran parte da russi, ma ospita a Sebastopoli la flotta russa del Mar Nero che dovrebbe restarvi «in affitto» sino al 2017.

Qui è il punto più caldo di un contenzioso in parvenza contrattuale, in realtà politico, che coinvolge in prima persona il presidente ucraino Jushchenko. Egli, non osando per ora imporre brutalmente lo sfratto alla flotta, esige però da Mosca un aumento decuplicato in petrodollari dei costi d’affitto. E da Mosca gli hanno già risposto per le rime, nella maniera più dura e più sorniona, mettendogli contro un’alleata tradizionale: la famosa signora dalla treccia arrotolata, Julia Tymoshenko, la pasionaria della rivoluzione arancione, che dalla sua carica di primo ministro ha continuato, durante il dramma georgiano, a gettare sull’ex compagno di barricata l’accusa di corruzione e d’irresponsabilità populista. Ha addirittura bloccato una mozione parlamentare di condanna dell’aggressione russa alla Georgia; Jushchenko l’ha accusata a sua volta di «alto tradimento» quale agente al soldo del Cremlino.

La Crimea, combinata con la deviazione russofila della Tymoschenko, costituisce indubbiamente nelle mani di Putin un combustibile ad alto potenziale. L’ennesima crisi di governo, già in atto con probabili elezioni parlamentari, è al tempo stesso una cocente crisi dell’identità nazionale. La cosa peggiore, che poteva toccare ai patrioti ucraini, era quella di vedere l’eroina della rivoluzione indipendentista dare la mano, sotto o sopra il banco, agli irredentisti russi mobilitati dall’uomo di Mosca Viktor Janukovich. Il presidente Jushchenko in difficoltà, dopo essere andato a Tbilisi a sostenere l’amico Saakashvili, ha quasi implorato i ministri degli esteri europei di concedere all’Ucraina lo status di candidata all’Unione; ma gli europei lo hanno scoraggiato concedendogli soltanto, come al presidente serbo Tadic, la promessa di un vago associazionismo tecnico.

Tirando le somme, vediamo che mentre la crisi caucasica provocava da parte europea interventi notarili più che politici, inducendoli a calare sulla latente crisi ucraina una coltre d’attendismo, la Russia già covava, dopo il castigo inferto a Tbilisi, il pretesto o i pretesti per infliggerne uno forse più duro all’Ucraina. L’escalation alla riconquista dell’impero è adesso in pieno moto, e la forzata assenza elettorale dalla scena degli Stati Uniti non fa che accelerarne i tempi e affinarne i modi. Con ogni probabilità, non dovremo neppure aspettare il prossimo presidente americano per vedere su chi, dopo Saakashvili, piomberà il secondo colpo della diarchia moscovita ormai lanciata all’attacco con fiumi di perolio, orde di blindati e acquisti di alleati nuovi e spregiudicati all’Est come all’Ovest.
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Vuoto a sinistra
Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2008, 11:43:01 am
18/10/2008
 
Vuoto a sinistra
 
 
ENZO BETTIZA
 
Uno dei riflessi politici più interessanti, non solo sul piano pragmatico in questo momento di crisi, è la reviviscenza delle idee e dei metodi socialdemocratici in Germania, in Gran Bretagna e, parzialmente, anche nella Francia di Sarkozy che nella sua équipe di governo contiene diversi socialisti di stampo liberale. Più che mai invece, in Italia, si avverte l’assenza a sinistra di una grande formazione socialdemocratica, proprio nelle ore in cui le capitali del mondo avanzato stanno passando dalla teoria del libero mercato alla pratica dell’intervento pubblico.

La situazione italiana esibisce il paradosso che vede un ministro economico del centrodestra, il quasi colbertiano Giulio Tremonti, riempire quel vuoto appropriandosi di proposte e ricette che furono tipiche della socialdemocrazia classica e del keynesiano New Deal di Roosevelt. Sarà infatti Tremonti ad appoggiare in novembre, al vertice allargato del G8, una seconda Bretton Woods, quella che dal 1944 al 1971 stabilizzò un nuovo ordine monetario mondiale e accompagnò i «miracoli» dell’Europa distrutta dopo la fine della guerra; ed è sempre Tremonti il difensore impegnato da tempo nella difesa di un capitalismo etico.

Un capitalismo più vicino alla società e al mondo del lavoro, depurato delle giocate d’azzardo speculative e rovinose per le banche e per le Borse. Al tempo stesso, nel pieno della crisi che sconvolge l’Europa dopo l’America, vediamo salire quasi al 70% l’indice di gradimento del governo Berlusconi. Ma tutto questo non va attribuito unicamente ai meriti, alcuni autentici e altri esagerati, di una maggioranza che sarebbe più capace dell’opposizione nell’affrontare la bufera in corso. Va attribuito soprattutto al vuoto dietro le affastellate barricate dell’opposizione. In altre parole, alla paralisi, alla non credibilità di una sinistra monomaniaca la quale, oltre a polemizzare contro ogni misura dell’esecutivo, dal ridimensionamento dell’Alitalia al maestro unico nelle scuole, non sa proporre nulla di più concreto e più responsabile che possa dare al Paese il senso di una sua partecipazione costruttiva al contenimento dei tracolli. Sembrano più utili e tempestivi i fondi sovrani e ambigui di Gheddafi che le manifestazioni e le tirate di Rifondazione, di Italia dei valori e dei ministri ombra del Pd.

L’assenza, direi storica dopo le metamorfosi del 1989, di un vero e unico partito socialdemocratico italiano, collegato ai socialismi democratici europei, è stato il regalo più gratuito che la sinistra frastagliata, divisa, anacronistica, così spesso arrabbiata con se stessa, abbia potuto fare alla coalizione di destra. Mi collego qui agli ottimi articoli che sull’argomento hanno già scritto su queste colonne Emanuele Macaluso e Lucia Annunziata. Se ci fosse un’opposizione credibile, dice Macaluso, la destra potrebbe essere meglio ridimensionata dai fatti anziché dalle chiacchiere televisive.

E, criticando i rifondatori con falce e martello, giudicando lo stesso partito di Veltroni anomalo rispetto alla sinistra europea, conclude: «Fuori dai partiti socialisti europei non c’è altro, a sinistra, che possa dare voce ai lavoratori e al tempo stesso guardare l’interesse generale della collettività nazionale e internazionale». A Macaluso fa da sponda Annunziata: «Un corteo contro il governo (quello del 25 ottobre prossimo) è stato convocato proprio mentre la situazione di disastro è divenuta così grave da obbligare tutti a collaborare per fronteggiarla. Da dentro il Pd si chiede ora di cancellare il corteo o almeno di cambiarne le parole d’ordine. Se non la debolezza, la crisi ha certo accentuato la confusione del centrosinistra». Corollario: «Una sinistra, così presa dal dipanare torti e ragioni del proprio recente passato, avrà mai la capacità di divenire, come la nuova fase richiede, una parte delle istituzioni?».

La domanda implicita è secondo me: la sinistra italiana sarà mai capace di divenire, fra le macerie e le minacce di tracolli bancari e imprenditoriali, una parte responsabile e attiva della socialdemocrazia europea? Si potrebbe raccomandare alle sinistre massimaliste e in particolare all’équipe di Veltroni di osservare con attenzione le manovre d’urto anticrisi del leader laburista Gordon Brown che, intervenendo con energia nel caos finanziario londinese, ha saputo togliersi di dosso l’immagine sbiadita dello sconfitto. Si potrebbe inoltre invitarle a leggere un’intervista appena rilasciata allo Spiegel dal ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier. Il numero due del governo Merkel, candidato del partito socialdemocratico alle elezioni del prossimo anno, addirittura vede nel crollo dei mercati finanziari il più traumatico evento politico dopo la caduta del Muro berlinese.

Dall’autunno nero 2008, dice, il mondo non sarà più quello di prima. Il dominio di Wall Street sui mercati e del dollaro come valuta di riferimento verrà relativizzato mentre diverranno sempre più importanti i centri finanziari di Dubai, Singapore, Shanghai, Pechino. Assistiamo alla fine di un’epoca, quella del thatcherismo e della reaganomics, in cui la rapidità e l’accumulo delle rendite avevano la massima priorità, e da allora l’economia finanziaria ha dispiegato arbitrî e saccheggi rispetto all’economia reale. Non s’era mai vista dal 1990, incalza Steinmeier, affiorare «tanta socialdemocrazia» dai dibattiti al Bundestag. Perfino i liberali e i conservatori si sono messi a suonare la stessa musica di Lasalle, sostenitore fin dall’800 dell’intervento statale in economia. I tempi, così critici per i mercati, lo sono assai meno per i socialdemocratici che vedono rinascere le loro idee in Germania e si preparano a farle trionfare nelle elezioni del 2009. Essi si sono sempre battuti per assicurare alla Germania un’industria forte, una mano d’opera professionale, un ceto medio garantito. Devono al tempo stesso riconoscere che mai, come ora, si rendono conto di fare finalmente parte di una Grande Coalizione, che apre, nell’emergenza, tanti spazi di manovra per soluzioni rapide ed efficienti.

Si dirà che per Steinmeier è facile parlare così poiché è il deuteragonista dell’esecutivo di coalizione guidato con cautela da Angela Merkel. Ma non si potrà evitare di riconoscere che, a prescindere dall’alto incarico governativo, non trapeli dalle sue parole la tradizione culturale della socialdemocrazia tedesca che già nel 1959, a Bad Godesberg, «mise in soffitta» Karl Marx. È proprio quello che in fondo non hanno mai fatto con chiarezza in Italia i comunisti di Togliatti e nemmeno i postcomunisti da Occhetto in poi, confluiti nell’odierno partito democratico di cui la metà postdemocristiana detesta apertamente di essere confusa con i socialisti o la socialdemocrazia. L’altra metà, postcomunista, non lo dice ma lo pensa.

Tutti i movimenti politici e le culture della sinistra italiana, a parte il minore e non decisivo partito di Saragat, hanno sempre ostentato la loro ostilità nei confronti dei socialdemocratici che un tempo venivano bollati come «socialtraditori». Lo stesso Giorgio Amendola che, criticato dai suoi compagni, auspicava l’avvento di un «partito unico» della sinistra, non ha mai osato varcare con passo fermo la scissione di Livorno per dire che quel «partito unico» poteva essere soltanto un partito socialdemocratico. Ancora nel 1989, come ricorda Ugo Finetti nel recente libro Togliatti & Amendola (ed. Ares), il veterocomunista Tortorella lo ricordava così: «Appena eletto Luigi Longo segretario, Amendola gli mise davanti, in un articolo che fece scalpore, la proposta del superamento dell’esperienza socialdemocratica e di quella comunista in una formazione politica unificata». Si badi: superare i socialdemocratici, non raggiungerli, in una formazione unitaria. Era già il progetto del futuro partito democratico, soltanto democratico, ed erano parole che lo stesso Veltroni continua forse a pensare ancora oggi.
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA. Violenza e sviluppo, l'enigma indiano
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2008, 08:36:33 am
3/12/2008
 
Violenza e sviluppo, l'enigma indiano
 
ENZO BETTIZA
 

Dopo l’assalto a Bombay, oggi Mumbai, l’elementare idea gandhiana della «non violenza», alla quale comunemente si associa l’immagine dell’India, è stata smentita un’ennesima volta con inaudita e spettacolare ferocia. Non occorre riandare al 1947, anno della sanguinosa spartizione tra il Pakistan islamico e l’Unione Indiana a maggioranza indù, per ricordarci che il subcontinente sorto con due Stati nemici dallo smembramento dell’impero britannico era ed è in realtà uno dei luoghi più violenti del pianeta. Non occorre nemmeno rammentare che l’assassinio, mistico e politico insieme, ha distanziato sempre di più indiani e pachistani dall’irenica capretta del Mahatma Gandhi sacrificandola addirittura al letale possesso di due bombe atomiche contrapposte. Lo stesso Gandhi, predicatore di un pacifismo integrale perché consapevole della violenza che si sarebbe decuplicata con l’approdo caotico all’indipendenza, verrà assassinato nel 1948 da un fanatico indù. Indira Gandhi, figlia dell’orgoglioso e tollerante Pandit Nehru, bramino laburista educato a Cambridge, sarà uccisa da estremisti sikh nel 1984. A sua volta il figlio di Indira Rajiv, ex primo ministro e leader del partito laicizzante del Congresso, verrà trucidato nel 1991 da un terrorista tamil.

Ma la cronologia del terrore, già prima della grande operazione in stile militare di novembre, s’era fatta via via massiccia nel Kashmir e sempre più incalzante nella stessa Mumbai, simbolo e vivaio del «miracolo economico» della più popolosa democrazia asiatica. 1993: muoiono 250 persone in una serie di attacchi con bombe, interpretati quale rappresaglia per la demolizione di una moschea da parte di integralisti indù. 2003: producono più di 50 morti due autobombe, collocate all’esterno dell’hotel Taj Mahal, non lontano dall’arco monumentale chiamato «Gateway of India». 2006: causa oltre 180 vittime una sequela di esplosioni alla stazione centrale ed altre minori destinate al traffico dei pendolari.

Come si vede, la Bombay di allora aveva già vissuto e nell’insieme superato, per quantità di cadaveri, il massacro che ha appena colpito la Mumbai odierna.

L’elemento che però differenzia di netto il recente massacro da quelli precedenti è nella qualità strategica e politica dell’operazione attribuita, per la prima volta con insistenza, ad un gruppo non meglio identificato di «mujahideen indiani». L’assalto dei terroristi, convergenti per terra e per mare verso i grandi alberghi della metropoli, indirizzati precipuamente alla cattura e allo sterminio di ospiti americani, britannici ed ebrei, ha fatto sorgere il legittimo sospetto che dietro gli assalitori ci fosse la mano di due potenti organizzazioni: gli ambigui servizi segreti di Islamabad che notoriamente, nelle frange più militanti e antiamericane, collaborano sottobanco con Al Quaeda che a sua volta foraggia e aiuta i guerriglieri talebani nelle incontrollate zone di confine tra Pakistan e Afghanistan. Insomma una riedizione in chiave moderna e fondamentalista del «Grande Gioco», già descritto da Kipling, che fin dai tempi della regina Vittoria regolava scontri e intrighi fra potenze rivali in quelle regioni in perenne turbolenza.

Si aggiunge poi al tutto un’ulteriore e allarmante novità. Si è appurato che quasi tutti i terroristi, compreso l’ultimo sopravvissuto, parlavano hindi e urdu, lingue usate da molti musulmani indiani del Nord e dai vicini pachistani. In tali idiomi essi, nelle brevi pause dell’attacco, rivolgendosi alle televisioni locali chiedevano alle autorità di rimettere immediatamente in libertà i musulmani detenuti nelle carceri indiane, in particolare quelli del Kashmir. Finora i 150 milioni di islamici indiani erano ritenuti, perfino dal presidente Bush oltreché dal premier di Nuova Delhi Manmohan Singh, immuni al contagio terroristico. Dopo l’aggressione bellica al centro commerciale di Mumbai quell’opinione positiva è calata e i dubbi sono aumentati. L’«Economist», descrivendo lo stato di frustrazione sociale in cui versano gli islamici rispetto alla privilegiata maggioranza indù, conclude con un monito il suo principale editoriale: «Gli attacchi in corso (che si svolgono all’egida fondamentalista) potrebbero tornare utili ad Al Qaeda per alimentare e sfruttare il panico dell’assedio che cresce fra i musulmani isolati. Se ciò dovesse accadere in India, dove vive la più grande minoranza musulmana del mondo, le conseguenze per la lotta globale al terrorismo potrebbero rivelarsi catastrofiche». Le implicazioni potrebbero aggravarsi, anche di più, se ad un neoterrorismo islamista dovesse rispondere l’antagonismo armato di un neoterrorismo induista.

La nuova violenza, in tal caso, s’innesterebbe e trarrebbe detonatori scatenanti dalle violenze più ancestrali che covano da millenni fra l’Indo e il Gange funereo. Ritrovo nel recente libro memorialistico di Alberto Ronchey, Viaggi e paesaggi in terre lontane, la conferma di ricordi e impressioni che io stesso conservo dei miei viaggi nel subcontinente asiatico. Egli, attirato dagli orrori umani riemergenti dal Gange come da una «storia prechirurgica», rammenta la visione sotto il sole cocente di monaci «dal manto color ocra» intenti alla farneticazione ascetica: «E’ un disfacimento santificato che sa di violenza, sotto forma di passività inerme. Dovunque un delirio pietistico e superbo insieme, che celebra l’immolazione della persona all’assoluto cosmico». Ricordo anch’io la falsa «non violenza» di digiunatori estremi, suicidi mistici, santoni ignudi che fissavano il sole per accecarsi e rivolgevano così contro se stessi un’autoviolenza muta quanto implacata. Ricordo la strana sensazione che mi davano le folle inerti che, indifferenti al male fisico degli uomini, rispettavano invece la vita di milioni di scimmie, di vacche sacre, serpenti e ragni, nei quali sembravano vedere reincarnati i propri defunti. Ricordo il mondo dantesco e torbido di Calcutta, abbandonata durante la guerra con Pechino del 1962 dalla comunità cinese che ne curava l’igiene e l’assetto urbano: ne risento il caldo sui quaranta gradi, ne rifiuto l’afrore dolciastro di serra in decomposizione, ne rivedo le vaganti nubi di vapore bianco attraverso le quali apparivano e scomparivano, come in un incubo fissato dal bulino di Doré, mostri amputati rotolanti nella polvere, lebbrosi saltellanti, malati incurabili giunti a elemosinare e a morire nell’obitorio calcuttiano. In mezzo a tanta agonia svettavano le torri immacolate della seconda famiglia miliardaria dell’India, la dinastia Tata, racchiusa in un compound somigliante a un castello feudale circondato da guardie sikh in turbante armate fino ai denti. Ma il paradosso era che la vita si riproduceva con intensità anch’essa violenta fra le violenze mortali e, per modo di dire, non dava tregua alla morte. Le schiere urbane dilagavano a velocità sconvolgente in una vitalità d’acquitrino: oggi la sovrappopolazione indiana, malgrado le sterilizzazioni raccomandate e pianificate anni orsono dal governo, ha già superato la soglia di un miliardo e 100 milioni, su una superficie che è circa un terzo rispetto a quella della Cina.

Fino a che punto violenza e sviluppo, analfabetismo e software, preistoria e modernità, staticità castale e dinamismo pragmatico riusciranno a convivere nell’enigma indiano del terzo millennio? Quando il «karma capitalism» dei nuovi imprenditori Mittal, Mahindra, Ambani, non più feudali come i Tata e i Birla, riuscirà a raggiungere se non a superare i successi del «capitalismo confuciano» dei giganti del Pacifico? Benché considerata ormai una superpotenza economica, gli ostacoli che l’India di Manmohan Singh deve ancora aggirare o abbattere sono tanti: deficit di bilancio, debito estero, infrastrutture vulnerabili, turbolenze locali, penurie d’energia elettrica e di risorse idriche, analfabeti adulti oltre il 60 per cento, denutrizione di 400 milioni di cittadini sotto la soglia di povertà. Infine, il problema atavico di sempre. La violenza interetnica e interconfessionale su cui, dopo il lampo di guerra a Mumbai, aleggia l’ombra vicinissima di un Pakistan nucleare infiltrato dagli specialisti della jihad e del terrore.
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Il drago cinese ha i piedi d'argilla
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2008, 10:42:32 am
22/12/2008 - PECHINO E LA RECESSIONE GLOBALE
 
Il drago cinese ha i piedi d'argilla
 
ENZO BETTIZA
 
Il colosso americano e il drago cinese, sui quali i maggiori esperti tendono a focalizzare l’attenzione in questa disastrosa fine d’anno, sarebbero secondo loro i due bersagli più esposti ai virus della grande crisi innescata dai crolli finanziari del 2008. I termini di paragone, le prognosi analitiche, nonché le drastiche ipotesi terapeutiche sono allarmanti e inquietanti. Quale dei due giganti riuscirà a resistere meglio ai contraccolpi e ad affrontare con più inventiva il fosco futuro?

Fino a che punto la vitalità produttiva dell’America si sia inabissata, dopo il secondo venerdì nero della sua storia, si è ben visto nel momento in cui il presidente Bush, contrariando il Congresso, ha deciso di salvare dalla bancarotta totale la General Motors e la Chrysler con un’iniezione straordinaria di 17 miliardi e 400 milioni di dollari. Di fatto si tratta di un prestito ponte, una flebo di sopravvivenza, concessa in extremis e a tempo breve ai due maggiori simboli storici e d’immagine della potenza industriale americana. I due dinosauri dell’auto, che danno lavoro a milioni di persone, otterranno così il volatile carburante di una bancarotta protetta; se entro tre mesi non riusciranno a rimettersi in piedi, riducendo le loro dimensioni e accettando schemi contrattuali di tipo giapponese, dovranno restituire i soldi del prestito e trapassare dal coma assistito alla morte secca. Toccherà all’amministrazione Obama il compito, parimenti ingrato, di certificare il decesso o di puntellare la fragile convalescenza dei due grandi malati di Detroit il cui management, fallimentare, non è stato mai particolarmente vicino al cuore dei democratici. La crisi dell’auto non è che una delle punte più visibili, ancorché più impressionanti, di una generale situazione d’incertezza economica e disagio sociale che, nei prossimi anni, in America e di riflesso in Occidente potrebbe aggravarsi con ricadute incontrollabili.

Come si presentano, al confronto, le economie emergenti dell’Asia? Qui il discorso comparativo, più che sui chiaroscuri dell’India, deve in particolare incentrarsi sulle formidabili vampate e zampate del drago cinese.

Almeno fino al costosissimo spettacolo delle Olimpiadi d’agosto, che fu anche una dimostrazione tangibile di miracolo economico, la Cina neocapitalista, seconda potenza militare del pianeta, pareva avviata alla conquista anche del secondo posto nella gerarchia dei mercati. Appariva come l’astro guida della globalizzazione confuciana. Non a caso, proprio in questi giorni di crisi, dopo lo sfarzo e lo sforzo delle Olimpiadi il partito comunista ha voluto celebrare alla grande, con esibizioni artistiche, concerti, discorsi fluviali, il trentesimo anniversario delle «quattro modernizzazioni»: la famosissima svolta pragmatica e riformatrice con cui nel 1978 Deng Xiaoping liberò la Cina dal maoismo e aprì al mondo e al benessere un quinto recluso e misero dell’umanità.

Oggi l’economia cinese è quasi nove volte più cospicua di quella del 1978. Il reddito medio pro capite è cresciuto di otto volte. Migliaia di «comuni del popolo», di orwelliana matrice maoista, sono state smantellate e centinaia di milioni di contadini hanno ottenuto in concessione demaniale, con contratti di lungo periodo, la terra degli avi. Al tempo stesso 150 milioni di cinesi si sono trasferiti dalla campagna nelle prosperose città del Pacifico e già nel 2001, secondo stime attendibili, 400 milioni sono usciti dalla povertà. Di materia celebrativa, degna di paragone ai massimi livelli dopo tre decenni di riforme e di successi, ce n’era e ce n’è in verità ancora tanta. Basterà ricordare un eccezionale dato di confronto e di compenetrazione finanziaria con l’America. Le enormi eccedenze di bilancio della Cina, rispetto al massiccio deficit di Washington, sono tali da far dire al politologo Will Hutton che la Cina è il sostegno su cui si appoggia l’edificio della finanza americana: «Gli Usa non potrebbero sostenere un deficit di 800 miliardi l’anno se l’acquisto di obbligazioni e buoni del Tesoro americano da parte cinese non fosse così ingente».

Le ombre comunque non mancano. Proprio l’intreccio di forza e di debolezza è il contrassegno, tipico della Cina nel XXI secolo, che spinge gli osservatori obiettivi come Hutton a definirla «drago dai piedi d’argilla». Nonostante le feste celebranti le «quattro modernizzazioni» (cui manca ancora la quinta, democratica), i pericoli sempre più insidiosi e ravvicinati della crisi finanziaria, ormai intercontinentale, non potevano non occupare la mente dei dirigenti del partito unico già impegnati, d’altronde, a contenerne i primi guasti. Il colpo inferto dalla crisi alle esportazioni cinesi, circa il 70% del Pil, è rimbalzato su migliaia di piccole e medie imprese che costituiscono l’ossatura della più impressionante trasformazione economica della storia. Esse hanno dovuto ridurre l’enorme produzione per l’estero incrementando, con i licenziamenti, una disoccupazione che già ai tempi aurei del boom (10% di crescita l’anno) saliva a 170 milioni di lavoratori privi di protezione sindacale. La Banca Mondiale teme che la crescita per il 2009 potrà scendere al 7,5%: livello paventato dai superstiziosi controllori politici delle statistiche perché, sotto l’8%, potrebbe ingrossare ancor più l’esercito dei disoccupati, degli scontenti, dei derelitti arrabbiati, provocando frustrazioni e pregiudicando la pace sociale.

Scioperi, jacqueries contadine, proteste di piazza contro dirigenti regionali corrotti e arricchiti, frequenti fin dal 1994, potrebbero farsi più selvaggi nel 2009 che pure alla Cina promette non pochi disagi e difficoltà. Frattanto molte industrie, statali e private, cercano di sostituire il prosciugamento dei mercati esteri con il mercato interno, e le opzioni merceologiche si vanno adattando nella scelta e nella qualità alla domanda dei consumatori indigeni. Se, dopo il calo delle esportazioni, questa valvola di sfogo e di compensazione funzionerà in un mercato ad alto potenziale demografico, il più vasto del mondo, la Cina potrà contare su una cintura di sicurezza anticrisi di cui altri Paesi, in Occidente e in Asia, sono sprovvisti. Ma, da un altro lato, la cura di un gigantesco mercato interno rischia di trovare, proprio nel protezionismo, il nemico di quella politica d’apertura al mondo e alla globalizzazione su cui l’esplosiva Cina post-maoista ha costruito, in un crescente divario tra ricchi e poveri, tutte le sue fortune e il suo sviluppo nella modernità. Il protezionismo degenera spesso e fatalmente nel nazionalismo, nella chiusura, nell’ostilità xenofoba. La Grande Muraglia, che circonda Pechino, potrebbe acquistare al di là del valore archeologico un rinnovato e negativo significato ideologico.

La recessione, con le sue ripercussioni anche sulle aspettative democratiche della Cina, porterà facilmente l’acqua al molino delle fazioni più reazionarie e statolatriche del partito comunista. Fino a ieri esse si vantavano di aver favorito, controllando gli eccessi della libertà economica, un innesto ordinato di stimoli capitalisti nel corpo «socialista» del Paese. Domani potrebbero vantarsi di aver rafforzato le virtù endogene del mercato interno all’ombra di un sano nazionalismo. Si apre così davanti ai rischi d’arresto della crescita, con l’instabilità sociale e politica che ciò comporta, un ulteriore terreno di dissidio e di scontro tra conservatori e innovatori all’interno di un partito bicefalo e più che mai incerto sulla via da imboccare. Sarà insomma da vedere se i riformisti, che hanno ancora molte frecce al loro arco, saranno in grado di dare alla Cina nel vortice della crisi un’uscita di sicurezza tale da stupire un po’ tutti: gli americani, gli indiani, i giapponesi, gli europei e, in particolare, i colleghi veterocomunisti del loro stesso partito. Mai dimenticare che Pechino resta sempre la capitale più imprevedibile del pianeta.
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA L'Europa sbandata
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2009, 10:49:38 am
5/1/2009
 
L'Europa sbandata
 
ENZO BETTIZA
 
Sembra di essere tornati ai tempi dell’infinita crisi bellica nella ex Jugoslavia quando l’Onu non sapeva che fare, la Francia appoggiava i serbi, la Germania i croati, l’Italia navigava fra gli uni e gli altri e l’Unione Europea, nel complesso disunita, restava in attesa delle decisioni americane per sintonizzare le proprie bussole discordi sulla bussola maestra di Washington. Oggi, al cospetto di Gaza in fiamme, il Consiglio di sicurezza non riesce a produrre una risoluzione comune sulla guerra in corso, mentre l’Europa, in attesa del verbo di Obama, torna ad esibire lo spettacolo di un’entità sbandata in preda alla schizofrenia. Ancora una volta Francia e Germania si ritrovano su posizioni nettamente contrapposte: il presidente Sarkozy condanna con dura chiarezza l’offensiva terrestre di Israele, riservando in coda qualche critica formale a Hamas, nello stesso momento in cui la cancelliera Merkel ribadisce il diritto degli israeliani di difendersi dallo stillicidio di missili.

Peraltro missili non più così artigianali, lanciati da Hamas fino all’antica Beersheva, annidata nel deserto di Negev.
Possiamo notare poi una sequela di altri paradossi degni di nota. Il primo è il più impressionante. Sarkozy, fino a pochi giorni fa presidente semestrale europeo, è stato immediatamente smentito dal suo successore ai vertici dell’Ue, il presidente ceco Vaclav Klaus, che per bocca di un portavoce ha voluto definire «difensivo» e non «offensivo» l’attacco israeliano. Si è di nuovo profilata così, come nei giorni delle guerre jugoslave e più ancora della guerra in Iraq, una spaccatura tra le posizioni francesi e quelle di un Paese importante dell’Est filoamericano e, di conseguenza, anche filoisraeliano. Non a caso i giornali parigini, per sminuire il peso della Repubblica ceca alla guida dell’Unione, stanno sottolineando con insinuanti accenti negativi il notorio euroscetticismo di Klaus.

Il secondo paradosso è anche il più contraddittorio. In queste ore vediamo due separate missioni europee, una francese guidata da Sarkozy, l’altra dal ceco Karel Schwarzenberg, programmate entrambe a incontrare e discutere con gli stessi interlocutori mediorientali; ma il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouschner, membro della delegazione di Bruxelles e non di Parigi, quale linea è destinato a seguire? Quella del suo presidente Sarkozy, oppure quella del collega e ministro degli Esteri praghese Schwarzenberg? Non s’era ancora vista la diplomazia europea, affidata perlopiù alle parole riluttanti e convenzionali di Javier Solana, irretita in un simile pasticcio di contrapposizioni, diversità di giudizio, proposte disarmoniche, che nell’insieme conferiscono all’orchestra europea uno stridente timbro cacofonico.

Il terzo paradosso è costituito dalle oscillazioni amatoriali italiane. Da un lato vediamo il ministro degli Esteri, consapevole degli scenari mutati rispetto all’epoca di Andreotti, indicare la strada giusta puntando il dito sulle pesanti «responsabilità» terroristiche di Hamas; dall’altro lato, però, lo abbiamo visto incespicare, chissà come e perché, nell’annuncio errato e frettoloso che non vi sarebbero state operazioni terrestri da parte israeliana. Non sarebbe stato invece più giusto tacere, poche ore prima dell’attacco, senza sminuire con una previsione infondata la severità di giudizio espressa sulla rottura della tregua e il rilancio missilistico di Hamas?

Quanto all’opposizione, impegnata soprattutto a polemizzare con la politica estera del governo, non si capisce bene se essa intenda concedere a Israele il diritto all’autodifesa o suggerirgli il dovere di «dialogare» con chi per principio rifiuta ogni dialogo con l’ebreo satanico. Tutto ciò, proprio nel momento in cui l’Italia, la Francia, la Germania, la Repubblica ceca, l’Europa insomma, avrebbero più che mai bisogno di intervenire con una strategia concorde nella crisi, piena d’insidie, che sta esplodendo a un passo dalle porte di casa.

Peccato. Mai come in questo momento s’era intravista, sia pure per qualche attimo, la possibilità di una correzione d’opinione e di linea da parte europea su quella che seguitiamo dal 27 dicembre a chiamare guerra. Ma non è guerra vera, tra Stati sovrani. È una drastica e violentissima operazione di gendarmeria di un Paese minacciato di sterminio da una setta che ha giurato di estirparlo dalla faccia della Terra. Finora è sopravvissuta, fra stragi, autobombe, lanci di razzi, aiutata dai servizi siriani e dagli ayatollah iraniani. Non si sa fino a quando l’operazione, che sta provocando troppe vittime e troppo dolore, potrà durare. L’Europa, che con le sue divisioni mostra di non volerlo sapere, forse non potrà fare altro che aspettare il verbo ancora ignoto del prossimo presidente americano.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA L'Occidente e la bomba Af-Pak
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2009, 10:52:14 am
13/2/2009
 
L'Occidente e la bomba Af-Pak
 
ENZO BETTIZA
 

Nello stesso momento in cui l’America e la comunità occidentale stanno riguadagnando un Iraq placato, in mano a un governo credibile e ogni giorno più solido, vediamo profilarsi l’incubo di una perdita secca dell’Afghanistan. Non ha avuto bisogno di attendere una conferma l’allarme rosso, appena lanciato all’Occidente da Richard Holbrooke e dal generale Petraeus, già artefice del positivo «surge» iracheno, oggi massimo responsabile militare della svolta programmata d’urgenza da Barack Obama per salvare dal naufragio l’Afghanistan.

Quello che è avvenuto l’altroieri nel centro di Kabul, a un passo dal palazzo presidenziale di Hamid Karzai, è davvero senza precedenti. Non s’era visto un simile attacco terroristico nemmeno ai giorni dei più sanguinosi attentati jihadisti a Baghdad. Il commando dei sedici kamikaze talebani, armati fino ai denti, tutti imbottiti d’esplosivo, ha scatenato, in pochi minuti, una battaglia nel cuore di uno Stato ormai in balia d’una guerra più che di una guerriglia brigantesca. Una guerra vera, d’ampia portata regionale, che ha le sue infrastrutture organizzative nel Paese che lo stesso Obama definisce «il più pericoloso del mondo»: il vicino Pakistan atomico il quale, in molti valichi, non ha confini e si confonde e prolunga, con basi terroristiche ed etnie consimili, nei territori orientali dell’Afghanistan.

Un unico teatro in fiamme ribattezzato «Af-Pak» da Holbrooke, il superdiplomatico di Clinton e di Obama, promotore nel 1995 degli accordi interjugoslavi di Dayton, oggi a Kabul dopo un sopralluogo non casuale a Islamabad. L’eccidio istantaneo e i bersagli istituzionali colpiti dal blitz talebano - Giustizia, Carceri, Istruzione, sparatorie nel mucchio, suicidi devastanti, 27 morti, una cinquantina di feriti gravi - sono certo impressionanti di per sé. Ma ancora più impressionanti sono l’esecuzione premeditata e lo stile con cui sono stati compiuti, dai tratti più pachistani che arabi, nonché il significato simbolico e il monito strategico cui hanno voluto alludere alla vigilia dell’arrivo di Holbrooke. La tecnica dell’assalto a ventaglio, improvviso, massiccio, integrale, mirato alla devastazione del cervello politico di una capitale, è stata difatti simile a quella messa in atto a novembre contro Mumbai da una flottiglia organizzatissima di fondamentalisti pachistani.

L’ombra dei «martiri» di Al Qaeda si è qui combinata, alle spalle dei talebani del mullah Omar, con le trame dei servizi deviati del Pakistan denunciate e poi minuziosamente documentate dal governo indiano. Nel contempo l’allusione simbolica e strategica dell’operazione è stata chiara: il re di Kabul, l’inefficiente Karzai, è ormai nudo e a tiro di schioppo nonostante la presenza di 70 mila soldati stranieri che dovrebbero proteggerlo. La guerra del 2001, fanno capire i talebani, è stata vinta in apparenza per un attimo dagli americani, ma si è poi trasformata nella guerra dei 7 anni che i risorti ribelli, protetti da Allah, stanno ora vincendo contro gli americani e i loro collaborazionisti indigeni. Kabul, capitale momentanea di uno Stato fantoccio allo sbaraglio, risparmiata per qualche tempo, non lo è più come dimostrano gli attacchi islamisti sempre più frequenti e audaci. Il loro culmine, preannunciante la fine del nemico, è stato raggiunto nella battaglia dell’11 febbraio, il primo avvertimento serio, in grande stile, che noi jihadisti vittoriosi abbiamo lanciato al presidente degli Stati Uniti.

Il paradosso in tutto questo è che gli americani, in particolare i maggiori esponenti della nuova amministrazione, pensano quasi le stesse cose che i telebani annunciano coi loro atti di guerra e le loro dichiarazioni mediatiche. Per l’intelligente Holbrooke, specializzato com’è in conflitti regionali, il confronto con gli «insorgenti» in Afghanistan sarà «molto più duro che con i terroristi in Iraq». Per il lungimirante Petraeus sarà molto più esteso e sarà «la prova del fuoco per la stessa sopravvivenza della Nato». Per Obama, in faticoso rodaggio, è fin d’ora il problema prioritario della politica estera americana.

Il cambio di strategia, che il neopresidente e i suoi consiglieri stanno mettendo a punto, prevede un raddoppio dei contingenti statunitensi e un maggiore impegno in uomini e finanziamenti da parte degli europei impegnati sul campo. Obama l’ha già fatto capire per telefono a Berlusconi e lo ribadirà con forza, a tutti gli alleati, nel corso del decisivo vertice Nato che si terrà il 3 aprile a Strasburgo. Non solo. Ha lasciato chiaramente intendere che al mutamento della strategia militare dovrà coniugarsi, anche, un mutamento altrettanto radicale della strategia politica nei confronti dell’Afghanistan. Cioè, innanzi tutto, nei confronti del capo del vacillante Stato afghano. Il quale, una volta di più, ha perduto faccia e immagine a causa dell’assalto imprevisto e quindi tanto più incontenibile del commando ai palazzi governativi di Kabul.

Karzai, infatti, non gode più presso l’équipe di Obama, influenzata dal giudizio negativo di Holbrooke e del vicepresidente Joe Biden, del sostegno paternalistico che gli dava l’amico Bush. Lo ritengono un’anatra più morta che zoppa. Politicamente ambiguo, operativamente inefficace, moralmente succubo se non complice della corruzione dilagante. Sperano e, con ogni probabilità, cercheranno di promuovere un cambio di guardia puntando sulle elezioni presidenziali d’agosto. Cercheranno inoltre di negoziare, come ha fatto Petraeus in Iraq, accordi o compromessi con i capitribù feudali spesso legati, per interesse e traffici illeciti, ai guerriglieri islamici. Tenteranno infine, mediante investimenti e opere pubbliche, di bonificare l’economia disastrata e corrotta, incentrata soprattutto sulla monocoltura del papavero che produce oppio per molti e danaro per pochi.

In sostanza l’Afghanistan nell’incendio odierno è qualcosa di molto più di un’isolata ancorché dirompente questione afghana. Qualcosa che alla memoria collettiva degli americani riporta una rinnovata «sindrome Vietnam». Ne vanno di mezzo il successo o lo scacco della politica internazionale di Barack Obama, i rapporti con gli alleati del Patto atlantico, il miglioramento delle relazioni con la Francia, la concordanza diplomatica e logistica con Mosca nella lotta al terrorismo, la tenuta sotto controllo dell’atomica pachistana e quella potenziale dell’Iran. Mai si sarebbe immaginato che il fallimento della pax americana in Afghanistan avrebbe suscitato un tale puzzle di subordinate che però, tutt’insieme, concorrono alla durata della pace planetaria. E che concernono, più di quanto si pensi, il legame dell’Italia con l’America di Obama e l’impegno militare italiano in quella piaga (meglio così che plaga) lontana, solo in termini geografici, dall’Occidente non solo americano.
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Razzisti con i romeni?
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2009, 09:57:35 am
25/2/2009
 
Razzisti con i romeni?
 

ENZO BETTIZA
 

Secondo il presidente del Senato di Bucarest, Mircea Geoana, gli italiani sarebbero affetti da una vera e propria «romenofobia», cioè da xenofobia e razzismo ormai a senso unico: tutto diretto contro gli immigrati provenienti, con passaporto comunitario europeo, dal più popoloso dei Paesi balcanici.

L’obiezione ci sembra alquanto stonata, al limite offensiva, dopo le equilibrate e anche severe dichiarazioni congiunte fatte l’altroieri dal ministro degli Esteri Franco Frattini e dal suo omologo romeno Cristian Diaconescu. Il fatto che l’altroieri i due ministri abbiano deciso di affrontare pubblicamente insieme, a Roma, uno a fianco dell’altro, la più perniciosa piaga immigratoria di cui da un paio d’anni soffre l’Italia, dimostra per se stesso che né i governanti italiani né tanto meno quelli romeni possono più ignorare un problema divenuto ossessivo e, per tanti aspetti, spaventoso: lo stillicidio ininterrotto di crimini con stupro e ferocia spesso mortale perpetrati da cittadini romeni, crimini che, dopo lo scempio della signora Reggiani, sono purtroppo continuati senza esclusione di colpi e di scelta: coppie di fidanzati inermi, ragazze quattordicenni, ottuagenarie disabili.

Inutile nascondersi dietro un dito o alzarlo per accusare di xenofobia indiscriminata l’ospite, ovvero la società italiana e le sue istituzioni, che semmai dovrebbero venire rimproverate di eccessiva tolleranza legale e umanitaria. Basta un paragone. La Francia, che pure ha avuto il vantaggio di ospitare per decenni emeriti intellettuali e scienziati romeni nei suoi laboratori, nelle grandi università, nei migliori teatri parigini, nelle più prestigiose case editrici.

Ebbene, questa Francia, che ha saputo vivere per lunghi decenni in simbiosi linguistica e culturale con Ionesco, Mircea Eliade, Émile Cioran, non ha esitato a espellere soltanto nel 2008 oltre 7000 indesiderabili romeni. Nel corso dello stesso anno l’Italia ne ha espulsi circa 40, a titolo più che altro simbolico, perché macchiatisi di atti illegali visibili e spesso recidivi.

Quale xenofobia dunque? Chi scrive ha sempre cercato di nominare rispettosamente nei suoi articoli il romeno con la «o» e mai con la «u» inserita da tanti colleghi con sprezzo più o meno consapevole nella parola «rumeno». Ero io stesso un esule dell’Est adriatico, e ne sapevo qualcosa degli scafisti d’arrembaggio che nel primo dopoguerra traghettavano a prezzo salato, a prezzo di fuga, ebrei sopravvissuti e profughi detti «giuliani» verso le coste povere e non sempre accoglienti di un’Italia in ginocchio dopo la sconfitta. Tuttavia, pur consci di essere gettati dalla malasorte allo sbaraglio, si cercava di comprendere che anche la miseria e l’angoscia degli ospiti peninsulari, compatrioti simili e dissimili da noi, erano in quegli anni per tanti aspetti vicine alle nostre miserie e alle nostre angosce: cercavamo di non offendere, non pretendere l’impossibile, non soppesare e commisurare col bilancino le diversità nella disgrazia, cercando d’amalgamarci e adattarci con discrezione e lavori umili al poco che la seconda patria poteva allora offrirci.

Si dirà, altri tempi. Altri, risponderò, peggiori, durissimi per l’ospite e per l’ospitato, nei quali l’incertezza del domani avrebbe potuto fomentare facili istinti di scontro e di rapina e di violenza astratta. Il che, a memoria mia, non accadde quasi mai. Al contrario d’allora, oggi l’immigrato corretto, non solo comunitario, può trovare in Italia protezione sindacale, assistenza sanitaria, contratti di lavoro, tredicesime pagate, in un ambiente che nonostante la crisi è tuttora ricco e, nell’insieme, solidale per legge e per animo rispetto alla sua nullatenenza originaria. Quello che riesce più difficile da capire è come i fuochi fatui di un benessere non solo materiale, ma rotocalcato dalle televisioni, dalla densità animata e fumosa delle metropoli, hanno potuto scatenare nelle successive ondate migratorie dai Paesi europei ex comunisti (assai più che da quelli islamici) brame e pretese di possesso immediato, totale, di carne e di danaro, che evocano tempi di guerra più che di pace: le donne di Berlino o di Belgrado assaltate dai soldati russi, le terre bruciate dai tedeschi in fuga dalle nazioni occupate, le bravate crudeli e le sevizie inferte dai servizi segreti francesi in Algeria, da ultimo, dopo le foibe, le orrende e infamanti pulizie etniche interjugoslave in Bosnia, in Croazia, in Kosovo.

È tutto questo che sembra ritornare e noi sembriamo riscoprire nelle spietate scorribande e nei delitti efferati di una fascia di criminali e spostati balcanici. Certo, come ci dicono, essi rappresentano l’uno per cento su una comunità che conta un milione e che nella sua stragrande maggioranza è composta di persone oneste e operose. Ma quell’uno per cento, censito su un milione, raggiunge su per giù la cifra non indifferente di diecimila individui, prossima a quella rinviata drasticamente da Sarkozy al loro Paese. Si tratta quasi sempre di individui instabili, ubiqui, spesso clandestini, dediti allo spaccio di donne e di droga, fuggiti dalla Romania per malefatte impunite, giunti dal profondo del postcomunismo ceauceschiano, taluni già espulsi più volte dall’Italia e poi ritornati indenni in Italia attirati e rassicurati dall’incertezza della pena con cui sovente li condonano tribunali indulgenti. Sono le minoranze aggressive che purtroppo, talora ingiustamente, nella nostra epoca di nuove invasioni, danno il tono e il timbro alle maggioranze pulite di cui parlano la stessa lingua. Non a caso da noi si trova il 40 per cento di romeni ricercati con mandato internazionale. Non a caso ci sono 1773 romeni in attesa di processo e 953 condannati in via definitiva. Sono i restanti 990 mila, la più grossa compagine straniera in Italia, che ne subiscono controvoglia la pressione immorale e la coloritura etnica. È la minoranza corrotta a dare corpo alla «questione romena» ormai divenuta questione di Stato e perfino di Chiesa sia a Roma che a Bucarest. I prelati delle comunità romene ortodosse in Italia invocano «comprensione e fratellanza» per i correligionari perbene, paventando anch’essi il rischio di contraccolpi xenofobi, mentre la Chiesa cattolica di Romania tramite una lettera del vescovo di Bucarest Ian Robu al cardinale Bagnasco, in cui non si grida al razzismo, chiede scusa all’Italia per i «suoi» criminali e con chiarezza dice che «tutto il male fatto da loro ci mortifica e ci riempie di sdegno».

Come si vede, c’è anche nelle autorità morali di Bucarest un filo razionale che discerne l’orrore e, se vogliamo, distingue l’impotenza paralizzata della società italiana dalla supposta «romenofobia». Sarebbe augurabile che anche quelli che accusano l’Italia di razzismo vedessero un intensissimo film italiano, Cover Boy di Carmine Amoroso, in cui si racconta il sodalizio disperato di due precari solitari e disperati: un giovane romeno e un meno giovane italiano, che appassionatamente quanto vanamente cercano di soccorrersi fino al sacrificio suicida dell’italiano: non il dissidio di razza ma il vincolo nel dolore condiviso lega, fino al gesto estremo del poverissimo «ospite», un’amicizia priva di speranza e di futuro. Un omaggio dolente a due candidi sventurati dell’Ovest e dell’Est.

Quanto ai governi delle due parti, essi certo aspetteranno con comprensibile interesse la prossima prova del nove legittimante l’identità europea della cospicua comunità romena che sarà la prima a votare, in massa, per i candidati italiani al Parlamento di Strasburgo. Alemanno, il sindaco di Roma, la città più orrendamente martoriata dalle recenti nerissime cronache, ha inviato ai residenti romeni nella capitale il modulo di iscrizione alle liste elettorali aggiunte. Sarà la prima volta che gli immigrati dalla Romania verranno pienamente equiparati ai votanti italiani nell’esercizio dei loro doveri e diritti di cittadini dell’Unione Europea. Sarà, più che un orpello emblematico, un patto di rinnovata convivenza nell’ambito di una stessa nazione e nella cornice di uno stesso continente.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA La frattura tra due Europe
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2009, 11:35:32 am
2/3/2009
 
La frattura tra due Europe

 
ENZO BETTIZA
 
Fino a che punto i cittadini dei singoli Paesi dell’Unione Europea, italiani compresi, assordati come sono dalle rispettive controversie domestiche, possono essere in grado di percepire in tutta la sua estensione e gravità l’incombenza di una crisi continentale senza precedenti? Fino a che punto, insomma, riusciamo a comprendere che il vertice lampo dei 27 Capi di Stato e di governo dell’Unione, riuniti ieri a Bruxelles, è stato davvero «straordinario»? Straordinario per tante cose, certo, ma soprattutto perché svolto in una rovente atmosfera di ricatti, accuse, risentimenti che bollivano da un pezzo nella surriscaldata pentola comunitaria e che ormai nessuno, né all’Est né all’Ovest, può fingere di ignorare.

A Bruxelles, in realtà, si è verificata la spaccatura fra due Europe che si sono contese il campo di battaglia con due vertici contrapposti. Da un lato il vertice visibilmente ostentato e polemico di dieci Paesi dell’Europa centrorientale, di cui almeno sette al limite del disastro finanziario, promosso in separata sede addirittura dal presidente ceco dell’Unione Mirek Topolanek. Dall’altro l’incontro più discreto, ma nella sostanza altrettanto determinato, dei leader euroccidentali capitanati dal francese Nicolas Sarkozy col pretesto di difendere le industrie nazionali in generale e lo scopo di salvaguardare in particolare l’occupazione francese nell’industria dell’auto.

Secondo i governanti degli Stati ex comunisti, oggi tendenzialmente liberisti, i più polemici con la Francia accusata di dirigismo e nazionalismo economico, si tratterebbe d’un insieme di prevenzioni di sapore autarchico, antieuropeo, al limite protezionistico e contrario alla mobilità della manodopera dall’Est e alla localizzazione di attività produttive nell’Est dov’è minore il costo del lavoro.

Aleggia ovviamente sul tutto l’incubo delle recessione che, innescata dall’America, minaccia le società ancora solide e ricche della «vecchia Europa» e mette già in ginocchio i due terzi delle economie più fragili e vulnerabili dell’Europa centrorientale. I grandi d’Occidente, Inghilterra, Italia, Spagna, seguiti dall’Olanda e dal Belgio, sembrano propensi a non perdere il contatto con la linea di larvato neoprotezionismo imboccata da Sarkozy. La Germania con la sua doppia anima, per metà occidentale e per metà orientale, come lo è la biografia personale del cancelliere Merkel, sembra invece attestata su una posizione duttile e mediatrice tra i due fronti opposti.

Oramai è chiaro che la crisi europea è altrettanto politica, o forse senz’altro più politica che economica e finanziaria. Qui siamo al cospetto della più seria frattura che l’Europa di Maastricht, l’Europa della riunificazione tedesca, l’Europa dell’allargamento a Est, veda aprirsi nel proprio grembo dopo il crollo del Muro nel 1989. È in gioco qualcosa che va assai al di là delle comprensibili preoccupazioni della Francia, e dei Paesi in difficoltà che la sostengono, per la salvaguardia e l’intangibilità delle proprie industrie e dei propri mercati del lavoro. Una parte dei popoli e dei governanti dell’Est, i quali beninteso hanno anch’essi le loro colpe per la situazione spesso disperata in cui versano, rimproverano all’Ovest di voler erigere oggi una nuova «cortina di ferro» protezionistica al posto di quella ideologica e poliziesca caduta nell’89. Il presidente della Repubblica Ceca, di vocazione euroscettica, punta il dito sostenendo che la nave europea, sballottata qua e là dalla tempesta dei mercati internazionali, vorrebbe evitare il naufragio gettando a mare «la zavorra dei Paesi ex comunisti».

In queste accuse, ancorché esagerate, c’è tuttavia un fondo speculare di verità. Sono in gioco difatti il mercato unico europeo, la tenuta dell’euro nello sconquasso finanziario globale, il salvataggio di una metà d’Europa dalla bancarotta, il contenimento di tracolli di tipo argentino che s’affacciano sul Danubio, il recupero di membri comunitari giù adulti e importanti come l’Irlanda e la Grecia che oggi, dopo un decollo miracoloso, appaiono inclinati sullo stesso abisso che minaccia d’inghiottire i Paesi baltici e, più in là, perfino la Bielorussia e l’Ucraina. In definitiva, per la prima volta, è nell’occhio del ciclone non solo l’idea di un’Europa più unita e più ampia; è a rischio tutto ciò che, bene o meno bene, è stato già faticosamente e gradualmente costruito da oltre mezzo secolo. A prescindere dalle critiche che diversi europessimisti «vecchi» e «nuovi» esprimono sui labirinti della «burocrazia carolingia» di Bruxelles, paragonata da taluni perfino alla burocrazia sovietica, non è possibile non intravedere il danno storico che all’Europa odierna, all’Europa possibile, verrebbe dalla dissoluzione delle strutture giuridiche, dei propellenti monetari, degli strumenti d’intervento e di bonifica regionali già esistenti e operanti malgrado crisi minori di rigetto e conflittualità inevitabili in un organismo transnazionale di così eccezionale complessità.

La crisi in atto, purtroppo, non è per niente minore e passeggera. È una crisi che potrebbe trasformarsi, se non vi si pone per tempo rimedio, in un morbo terminale. Basta un piccolo spaccato periferico, la Lettonia, a testimoniare la profondità di un contagio che già lambisce Paesi molto più grandi come la Polonia e l’Ungheria. L’ex repubblica sovietica del Baltico aveva ricevuto un prestito di salvataggio di 7,5 miliardi di euro pilotato dal Fondo monetario internazionale, ma la cifra, troppo esigua, non era riuscita a contenere la deriva; il mese scorso erano scoppiate manifestazioni di protesta contro la corruzione e le insufficienti manovre economiche del governo; la crisi, fattasi politica, ha costretto il primo ministro e il suo esecutivo di centrodestra alle dimissioni sotto la pressione della piazza. Dopo quello islandese, è stato il secondo governo europeo a cadere per effetto del caos mondiale. Un caso in cui il rimedio si è rivelato peggiore del male. Il premier ungherese Ferenc Gyurcsany, indicando lo sfascio politico di Riga, ha colto la palla al balzo per contestare la recente cifra di 24,5 miliardi di euro, destinati dalla Banca Europea e dalla Banca Mondiale all’Europa dell’Est, esigendo un piano d'assistenza Ue da 180 miliardi nello stesso momento in cui il primo ministro polacco, Donald Tusk, richiedeva l’ingresso accelerato nella zona euro delle monete orientali. Come si sa, la richiesta di mutare le vecchie valute in euro è una delle più assillanti e più problematiche che arrivino alla Commissione di Bruxelles dall’Est, dove per ora fruiscono della moneta unica soltanto Slovenia e Slovacchia coi loro bilanci in regola con i parametri di Maastricht.

L’epidemia di dissesti nella metà più povera d’Europa, se dovesse tramutarsi in un incontenibile effetto domino paneuropeo, porrebbe scottanti problemi anche all’Italia impegnata con banche, prestiti e aziende (migliaia in Romania) in quelle nazioni ammalate. Così come li pone già alle banche austriache presenti nella Mitteleuropa, alle greche operanti nei Balcani, alle svedesi e finlandesi attive o invischiate fino al collo nei Paesi baltici. Ma, al di là di tante spine tecniche e pratiche, lo spettro che s’aggira per l’Europa è l’Europa stessa ormai in bilico tra malanni curabili e incurabili. La chiave d’uscita dalla crisi si trova sicuramente a Berlino. La buona salute economica, l’esperienza che le deriva dall’assorbimento dei tedeschi orientali, la sua atavica prossimità e sensibilità ai problemi dell’Est, fanno in questo momento della Germania la sola credibile nave di soccorso in mezzo alle acque procellose del Danubio e della Moldava. Non sappiamo ancora quali carte la signora Merkel giocherà per attenuare i colpi troppo duri di Sarkozy. Dovremo aspettare che le giochi e sperare che le giochi bene.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Finisce il tempo dei diritti umani
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2009, 03:31:14 pm
14/3/2009
 
Finisce il tempo dei diritti umani
 
 
ENZO BETTIZA
 
Non c’è giorno che la Cina non faccia notizia per una ragione o per l’altra o, meglio, per ragioni paradossalmente contrapposte. Se restringiamo il paradosso all’ottica italiana, vediamo da un lato la Camera censurare all’unanimità il governo cinese per la violazione dei diritti umani nel Tibet dove mezzo secolo fa, nel marzo 1959, fallì un’impetuosa rivolta anti-cinese costringendo il Dalai Lama alla fuga verso l’India. Ma da un altro lato vediamo però e sentiamo Gianfranco Fini, presidente della stessa Camera, aprire un seminario sulle relazioni tra il gigante asiatico e l’Europa con le seguenti parole: «La Cina, il cui ruolo è destinato ad accrescersi, ormai è un attore globale con il quale dobbiamo confrontarci in tutti i settori».

La censura, nell’auspicio realistico di Fini, sembra rivolgersi non tanto all’assenza dei diritti umani a Lhasa, quanto alla mancanza d’una più coesa e più perspicace politica europea nei confronti di una Cina che oggi, nella tempesta che minaccia le economie del mondo industriale, appare attestata su posizioni sensibilmente meno vulnerabili di quelle occidentali.

Quasi in simultanea la Camera di commercio di Milano ha reso noto che intende attivare al massimo con iniziative fieristiche e imprenditoriali la sua sede a Shanghai, dove dal 1° maggio 2010 si apriranno per 184 giorni i padiglioni di 185 Paesi partecipanti all’Expo.

Se poi allarghiamo l’ottica dall’Europa all’America rivediamo il paradosso ingrandirsi al pantografo. Qui il contrasto tra la difesa dei valori civili dell’Occidente, che la Cina violerebbe soprattutto nel Tibet, e la tutela degli interessi vitali della massima potenza occidentale che la Cina con le sue manovre anti-crisi potrebbe o agevolare o peggiorare, manda quasi un assurdo stridore cacofonico. Per l’America, maestra storica di democrazia, cosa deve prevalere nella bufera di una crisi che da Wall Street a Detroit ne sta colpendo i gangli strutturali più delicati ed essenziali? La battaglia morale con la Cina sui diritti del monaco tibetano? Oppure la cooperazione realistica con la Cina che detiene buoni del tesoro americani per 700 miliardi di dollari? La risposta l’ha già data una delle più note militanti per i diritti umani, Hillary Clinton, la quale, nella recente visita a Pechino in veste di segretario di Stato dell’amministrazione Obama, ha parlato di tante cose senza spendere una parola sul Tibet o sulla satrapia del Sudan protetta dai cinesi. Un’altra americana famosa, Bianca Jagger, membro del direttivo di Amnesty International, ex moglie del leader dei Rolling Stones, pur criticando la Clinton non ha potuto fare altro che prendere atto delle complesse ragioni della paralisi morale di Washington: «Non facciamoci illusioni. L’America dipende ormai finanziariamente da Pechino, che se la ride delle sue minacce, sapendo di avere la superpotenza in pugno. Gli Stati Uniti si sono indebitati fino al collo con la Cina e l’era in cui potevano dettare politica ad altri Paesi è finita».

Ma la Cina è diventata davvero così forte, una sorta d’usuraia ricattatrice a livello globale, da poter dettare lei, oggi, le sue leggi nel mondo? Nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, nello sfruttamento delle materie prime africane, nelle questioni nucleari della Corea del Nord, nei rapporti con le Borse mondiali, nelle relazioni con gli Usa, nei mercati finanziari europei? La Cina rappresenta davvero l’unico miracolo di resistenza alla crisi che da un pezzo scompagina l’America, lambisce già la Russia, devasta gran parte dell’Europa centrorientale, incombe su quella occidentale?

Bisogna stare attenti a non scambiare lucciole per lanterne. La Cina odierna, che proviene con la sua relativa solidità economica e sociale da tre decenni d’ininterrotta riforma capitalista, è tuttora nello slancio di una crescita che le consente di mantenersi a un tasso di sviluppo dell’8%. Nella scia del grande decollo, ha elaborato una capacità di ammortizzatori anti-crisi ignota all’Occidente, il quale ha esaurito, in parte, le sue risorse di resistenza non solo materiale ma anche psichica. La Cina non è più sana in assoluto dell’America, dell’Europa o della Russia; è soltanto meno malata e perciò anche meno minacciata dall’incubo di un disastro imminente. Con i forzieri bancari pieni di buoni americani e di valuta convertibile può destreggiarsi meglio di altri Paesi fra inflazione e deflazione, può dare perfino l’impressione ottica di una fuga in avanti premendo l’acceleratore sugli investimenti nella sanità pubblica, nel mercato interno, nelle spese militari, nelle esibizioni titaniche che dalle Olimpiadi di Pechino del 2008 si prolungheranno nell’Esposizione universale di Shanghai del 2010.

La crisi vera della Cina è d’una qualità diversa dalle crisi occidentali; sotto l’apparente mobilità, è una crisi di rallentamento, di terapia, tesa a raffreddare un’economia che correva il rischio di surriscaldarsi e di perdere la cadenza di una crescita ordinata. L’altra faccia del miracolo continuo, la faccia problematica, è difatti il crollo delle esportazioni e lo spettro della disoccupazione che, temperata a petto della potenza demografica del Paese, può toccare pur sempre decine di milioni di individui e fomentare il pericolo che il Partito comunista cinese teme più d’ogni altro: il disordine sociale e le jacqueries rurali e urbane. La rigidità sul Tibet, che preoccupa tanti democratici occidentali, che ignorano il passato di miseria a cui la teocrazia medievale dei preti buddisti sottoponeva una popolazione ignorante e sfruttata, non è di per sé un problema per il governo e tanto meno per la maggioranza Han che, dopo l’azzeramento maoista, si gode i frutti del «socialismo ricco» raccomandato da Deng e realizzato dai suoi eredi capital-comunisti; è il «cattivo esempio» indipendentista quello che più spaventa i governanti che sentono minacciata l’unità nazionale, non tanto dai tibetani, disponibili al compromesso autonomistico, quanto dalle ben più agguerrite, più popolose e più intransigenti minoranze islamiche del Sinkiang.

Continuare a insistere sui diritti civili, da parte occidentale, è un’inutile perdita di tempo alla quale, meno che mai oggi, i governanti cinesi possono dare una risposta. Quella che essi paventano è la ripercussione politica interna di una crisi economica esterna che, per ora, hanno deciso di tenere il più possibile lontana dalla Grande Muraglia. È tenendo conto di tali preoccupazioni essenzialmente politiche che l’Occidente, forse, anziché chiedere e aspettare l’impossibile, potrebbe ottenere qualche vantaggio dalla locomotiva cinese che, seppure rallentata, non desiste dal suo percorso. Bisognerebbe non ostacolarla ma facilitarle il punto di raccordo e d’incontro utile per tutti, per loro e per noi.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA La potenza virtuale
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2009, 11:11:55 am
4/4/2009
 
La potenza virtuale
 
ENZO BETTIZA
 
Ma qual è stato il significato vero, di fondo storico, dello straordinario raduno del G20 che ha visto raccolti per ventiquattr’ore a Londra i leader di venti Paesi che tutt’insieme detengono circa il 90 percento della ricchezza planetaria? Lo sfondo della grande crisi su cui si è stagliato il consesso è stato certamente economico, così come economici, o socioeconomici, sono stati anche linguaggio, preoccupazioni, alibi e perfino le ipocrisie diplomatiche dei partecipanti.

Tutti, alla vigilia del vertice, glorificavano il mito di Bretton Woods. Tutti invocavano la necessità di ridare al mondo un «nuovo ordine finanziario». Tutti s’inabissavano in labirintiche dissertazioni tecniche su due contrapposti modelli d’economie di mercato: l’uno anglosassone, basato sul «partito della spesa», sostenuto dalla coppia Obama-Brown; l’altro, il modello renano di Sarkozy e Merkel, basato invece sulla regolamentazione puritana e salvifica del capitalismo ammorbato dagli avventurieri di Wall Street e della City londinese. Giunti al compromesso, tutti hanno applaudito l’accordo sostenendo che esso non lasciava sul campo né vinti né vincitori.

In realtà, mediante un sottile gioco di deleghe e di perifrasi lessicali, gli «anglosassoni» si sono avvicinati con passo vellutato all’obbiettivo che ritenevano prioritario: tappare con profluvi multilaterali di denaro le crepe del disastro prodotto dai loro istituti di credito e dalle loro Borse. Washington e Londra sono riuscite a rafforzare il Fondo monetario internazionale, delegandolo ad amministrare oltre mille miliardi di dollari e impegnando i membri più facoltosi del G20 ad un esborso di ulteriori cinquemila miliardi entro il 2010.

Il presidente francese e la cancelliera tedesca, che avevano dato l’impressione di voler prevenire ipotetiche crisi future più che affrontare la crisi concreta in atto, hanno accettato il compromesso del documento finale che preannuncia la divulgazione di una lista nera di «paradisi fiscali» e garantisce pure la bonifica dei misteriosi «hedge funds» e «asset tossici». È stato il neopresidente americano in persona, Barack Obama, a placare gli animi di Sarkozy mediando e interrompendo al momento giusto una sua incipiente polemica con il cinese Hu Jintao ostile alla condanna generalizzata di Stati e enclavi offshore stilata dall’Ocse, organizzazione internazionale di cui la Cina non fa parte. Con ogni probabilità nella lista non figureranno Hong Kong e Macao.

Ma dietro questo gioco d’ombre, diciamo pure cinesi, sembrava nascondersi il vero significato di un evento che in realtà non era destinato né al fallimento né al successo: che era invece proiettato verso un piano alto, dove la grande economia sconfina nella grande politica. È stato proprio Obama, dopo i primi due mesi passati alla Casa Bianca, ad annunciare con le sue mosse e i suoi interventi apparentemente morbidi, ma sostanzialmente determinati, a lanciare al mondo il segnale di un cambiamento profondo nella struttura, nella strategia e nella ridistribuzione dei poteri mondiali. È stato lui a sottolineare che qualcosa era mutato tra l’America in crisi da una parte e gli alleati europei sulla difensiva dall’altra.

Con questo suo primo viaggio ufficiale nel Vecchio Continente, che dopo Londra lo porta a celebrare oggi il sessantesimo anniversario della Nato a Strasburgo e lo vedrà poi impegnato a Praga in un confronto diretto con l’Europa dei 27, Obama sta facendo comprendere agli europei che l’ecumenico G20 è ormai un’istituzione planetaria centrale che rispecchia, meglio del G8, la situazione reale del mondo contemporaneo. Non solo. Egli ha fatto intendere agli europei che quello che maggiormente conta all’interno del G20 è il rapporto privilegiato tra Washington e Pechino: cioè, il non tanto virtuale G2 che, d’ora in avanti, potrà diventare sempre più l’asse condizionante degli equilibri del pianeta. È stata proprio la crisi economica, indebolendo l’America, a indurre Obama a mettere la Cina al centro della sua politica asiatica (e mondiale) revisionata rispetto a quella assai più aggressiva di Bush.

La verità è che la Cina senza i consumi americani non riuscirà a favorire la sua crescita fondata sulle esportazioni, così come gli Stati Uniti senza i capitali cinesi, dirottati sulle obbligazioni del Tesoro americano, non potranno sostenere la ciclopica spesa necessaria al sostegno della ripresa economica globale. Il medesimo Hu Jintao, incontrando Obama, gli ha detto chiaramente: «Quando due persone si trovano sulla stessa barca devono remare assieme e di buona lena per arrivare all’approdo».

L’immagine della barca, con due soli vogatori ad affrontare i marosi, spiega bene perché Obama si sia mosso in una dimensione geopolitica che scavalca l’Europa, che va oltre i vecchi riti della «coesistenza pacifica» con una superpotenza comunista, instaurando in sostanza un dialogo strategico a lunga gittata con una Cina che ormai quasi ipnotizza gli americani debitori con la sua straordinaria solidità finanziaria. Il paradosso infine ha voluto che sia stato proprio un europeo anglosassone, il premier Gordon Brown, ex cancelliere delle Scacchiere, a fare da mentore e da spin doctor al più inesperto Obama indicandogli nei Paesi emergenti del G20 le sponde d’appoggio su cui puntellare una strategia di ripresa anticrisi.

Alla cena ufficiale in Downing Street, alla destra del padrone di casa Brown, sedeva non a caso Hu Jintao. Insomma, è iniziato in questi giorni per Obama un periplo diplomatico che, al di là della crisi, dovrebbe avere per meta ultima, più che la costruzione di un nuovo ordine economico, la ricostruzione realistica di un nuovo ordine politico. Una rinnovata trama multilaterale che privilegia la Cina, rispetta la Russia, attrae il Brasile, facendo dell’Europa una specie di Cenerentola avara ai margini della grandiosa trasformazione del mondo. Non a caso il primo ministro ceco Topolanek, presidente semestrale dell’Unione europea, ha bollato i progetti anticrisi dell’amministrazione Obama come «una via per l’inferno».

Perfino l’Economist, punta di diamante dell’opinione britannica, critica nel suo ultimo numero Obama come un uomo di buona volontà, incalzato da idee audaci, che però si muove sulla scena nazionale e internazionale con un notevole tasso d'incompetenza e di leggerezza amatoriale. Darebbe addirittura l’impressione di cavalcare ancora una campagna elettorale infinita. «Sta facendo troppe cose troppo in fretta». Rischierebbe così di mettere a repentaglio i buoni rapporti internazionali dell’America con gli alleati europei i quali, però, non farebbero molto per meritarsi più rispetto e più attenzione con le loro manovre inclini al moralismo e ai teoremi anziché alla pratica terapeutica. In definitiva, il vertice di Londra è stato un test utile per mettere la nuova presidenza americana alla prova diretta con il mondo e con l’Europa in particolare.

Al tempo stesso si è rivelato un test non molto positivo per l’Europa stessa. Se fosse lecito tentare una graduatoria dei poteri mondiali, testati al tavolo londinese, si dovrebbe dare accanto all’America di Obama un posto di primo piano alla Cina di Hu la quale si è perfino permessa di reclamare la fine dell’egemonia del dollaro sui mercati e prospettare l’avvento negli scambi internazionali di una valuta artificiale che lo sostituisca. Dopo la Cina, la Russia ha ottenuto anch’essa da parte di Obama un trattamento speciale nell’incontro cordiale e appartato ch’egli ha riservato al russo Medvedev.

 L’Europa invece è stata blandita con vaghe promesse sui paradisi artificiali e sulla purificazione delle trasgressioni capitalistiche che, con ogni probabilità, lasceranno il tempo che trovano. Si sa che l’Ue nel suo insieme costituisce la potenza economica più forte del mondo. Ma si sa, anche, che si tratta di una potenza virtuale, disorganica, tarlata da particolarismi regionalistici, la quale oggi stenta a soccorrere come dovrebbe i Paesi membri dell’Est destabilizzati e taluni devastati dalla crisi.

Privata della centralità planetaria del G8, ridotta a forziere supplementare delle risorse per l’uscita dalla crisi, ormai diluita nel gigantesco G20, l’Europa avrebbe una sola possibilità per occupare il posto che le spetta nella ridistribuzione dei rapporti di forza: salvare dall’abisso il proprio Est, allargare la zona dell’euro, darsi una politica estera e di difesa degna di quella grande potenza che essa è in fieri e non ancora nella realtà.
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Chi ha paura del fantasma turco
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2009, 06:52:33 pm
7/4/2009
 
Chi ha paura del fantasma turco
 

ENZO BETTIZA
 
L’ombra della Turchia si è inserita, con tutto il suo peso enigmatico, nel primo incontro del neopresidente americano con i 27 leader dell’Unione europea. Il suo fantasma erratico si è profilato come un improvviso convitato di pietra al gran banchetto di Praga, rovinando l’atmosfera di festa e di apparente concordia tra la nuova amministrazione di Washington e il nucleo duro europeo, l’asse Sarkozy-Merkel, che aveva già preso le distanze da Obama nel corso del G20 di Londra.

La contrapposizione tra una Casa Bianca che invita gli europei ad aprire le porte ad Ankara e l’Eliseo che rifiuta di schiuderle ha fatto riemergere, di colpo, un nodo tradizionale e mai chiaramente sciolto delle politiche occidentali: nello scontro sulla questione turca tra Obama e Sarkozy si è ripetuto, pari pari, lo stesso dissidio già a suo tempo acuto tra Bush e Chirac. Il presidente francese ha ribadito per l’ennesima volta, con inequivocabile chiarezza, il veto di Parigi, mentre l’americano tornava a ribattere che l’unico modo di ancorare la Turchia all’Occidente era quello di farla entrare a pieno titolo nel concerto europeo. La cancelliera Merkel, pur appoggiando nella sostanza Sarkozy, nella forma è stata più levigata ricordando che l’Ue sta valutando tempi e modi di una trattativa graduale, che potrebbe garantire ai turchi una «partnership privilegiata» in alternativa all’adesione piena. Il presidente del Consiglio italiano, che vanta un’amicizia personale con il premier turco Erdogan, si è inserito una volta di più da mediatore nel gioco dei grandi ventilando il progetto di un compromesso di non facile attuazione: accettare l’ingresso di Ankara, rinviando però a data indeterminata l’alluvione dei migranti anatolici sui mercati di lavoro europei.

Tutti discorsi a lunga gittata politica e tecnica. Basti pensare che la scadenza di una possibile affiliazione della Turchia all’Europa, come partner o di socia, potrebbe scattare appena tra il 2015 e il 2017. Comunque, a parte il calendario, il problema resta serio e spinoso. La situazione interna in area anatolica è tutt’altro che chiara. Il partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdogan (Akp) è uscito severamente limato dal voto delle elezioni amministrative del 29 marzo, al quale il primo ministro dava un valore di referendum sul suo operato. Non battuto dai rivali, l’Akp è però sceso al 39% dal 47 raggiunto alle elezioni politiche del 2007, con la perdita di 12 città, tra cui due importanti centri urbani curdi nel Sud-Est del Paese.

Alle spalle di questa sottrazione elettorale, di sensibile valore simbolico e psicologico, rimangono tre problemi pesanti e sempre irrisolti: il rapporto del governo con l’incombente irredentismo dei partiti curdi, il rafforzamento dei gruppi fondamentalisti più aggressivi e, in particolare, la tensione mai spenta tra il partito dominante e il contropotere rappresentato dalle forze armate che si ritengono garanti del laicismo kemalista e non vedono di buon occhio né il capo del governo Erdogan né il presidente della Repubblica Abdullah Gul. I generali antireligiosi continuano in sostanza a diffidare dell’uno e dell’altro, sospettati di voler imporre con manovre morbide la legge della sharia e del velo banditi dal fondatore della Repubblica secolare, Atatürk.

Sul piano economico la Turchia di Erdogan, importante piattaforma di passaggio energetico per l’Europa, aperta all’economia di mercato, intenta agli scambi commerciali anche in questo periodo di crisi, è un Paese in sviluppo che merita attenzione e collaborazione dall’Ue. Ma la sua schizofrenia d’identità, oscillante tra costumi islamici di ritorno e codici democratici non sempre rispettati, suscita nella metà degli Stati europei impulsi di precauzione profilattica se non di rigetto. Si aggiunga la polveriera di Cipro, col divieto turco di aprire porti e scali a navi e aerei ciprioti greci, e si avrà un quadro d’insieme quanto mai problematico. Ecco perché i negoziati per l’associazione turca all’Europa, avviati tra mille cavilli e perplessità nel 2005, tendono ad allungarsi all’infinito.

In verità Erdogan e Gul, pur imponendo il velo alle rispettive mogli, hanno appianato diversi ostacoli per sgombrare la strada che un giorno potrebbe condurre 70 milioni di musulmani nell’ambito di Bruxelles. Purtroppo, sull’argomento che permane scottante, non c’è più oggi in Turchia l’unanimità d’una volta. Almeno un terzo di turchi, delusi dalle lungaggini del negoziato, urtati dai persistenti monitoraggi europei sui diritti civili delle minoranze etniche e religiose, non considerano più l’approdo comunitario come qualcosa d’inevitabile. Altresì mezza Europa non considera auspicabile l’aggregazione della Turchia, e il fronte del rifiuto assomma al «no» secco della Francia il «ni» ambiguo della Germania, le due locomotive di punta del recalcitrante convoglio europeo. Insomma, nonostante le molte e clamorose affermazioni di Erdogan, un tempo lodato come efficiente liberista dalla grande stampa anglosassone, il dubbio dopo le recenti elezioni amministrative è tornato a dilagare di là e di qua dai Dardanelli.

Intanto il dilemma che, da Bush a Obama, continua ad assillare gli americani, resta essenzialmente strategico e connesso all’incubo del terrorismo. Washington teme che la Turchia, abbandonata dall’Europa, possa sprofondare interamente nell’Asia minacciando di diventare con il suo notevole peso demografico e militare una delle più importanti e insidiose componenti dell’Islam contemporaneo. Già l’islamologo americano Daniel Pipes ammoniva: «Il fatto che un pezzetto del territorio turco sia in Europa non rende completamente europea la Turchia».
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA La ritirata di Obama
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:14:39 am
16/5/2009

La ritirata di Obama
   
ENZO BETTIZA


I primi passi di Barack Obama sui campi minati della politica estera stanno suscitando una miscela di consensi, di perplessità e di delusioni. Il lato negativo, nell’ottica di tanti sostenitori e oggi censori del Presidente, sembra guadagnare terreno soprattutto nel delicato settore dei diritti civili, dove la politica estera americana stinge e si confonde con quella interna. Ora, al divieto di Obama di pubblicare le foto dei prigionieri iracheni torturati da militari statunitensi, si aggiunge la clamorosa notizia della sua intenzione di mantenere in piedi i tribunali speciali istituiti per giudicare i detenuti di Guantanamo. Obama dichiara che gli imputati potranno godere di alcuni diritti di difesa; però i suoi critici liberal già ritengono che si tratti di una foglia di fico garantista, destinata a coprire la vecchia linea punitiva dell’amministrazione Bush contro i militanti o supposti terroristi islamici.

Le contraddizioni di Obama meritano comunque una disanima più ampia e più attenta. Ai governi e alle opposizioni europei erano piaciute le aperture del Presidente: la decisione di chiudere Guantanamo, la mano tesa all’Islam e all’Iran prima e dopo la liberazione di Roxana Saberi, le promesse ai palestinesi, l’indulgente attendismo verso il gabinetto di destra israeliano, la diplomazia di riguardo accennata nei confronti dell’America Latina e in particolare di Cuba.

Tutto questo, ammucchiato d’impeto sul fuoco dal nuovo inquilino della Casa Bianca, aveva rassicurato gran parte d’Europa, soprattutto occidentale, che ha voluto vedervi i sintomi di un profondo cambiamento rispetto all’unilateralismo imperiale di Bush. Al tempo stesso, in maniera apparentemente contraddittoria, non è dispiaciuto ai governi europei neppure il risvolto interventista della diplomazia obamiana che, per esempio in Afghanistan, si presenta oggi simile a una doccia scozzese in due versioni. Una morbida e politica, ispirata al «surge» iracheno del generale David Petraeus, volta a evitare troppe vittime civili e conquistare il sostegno psicologico e armato delle tribù offese dagli eccessi dei mullah; l’altra invece più dura, più gendarmeresca, consegnata al pugno di ferro del generale Stanley McChrystal, nuovo comandante Usa sullo scacchiere afghano, esperto di controguerriglia che a suo tempo aveva eseguito la cattura di Saddam Hussein e organizzato l’uccisione del capo qaedista Musab al Zarkawi. Queste mosse più inflessibili, derivate dal vecchio Pentagono del repubblicano Robert Gates, tuttora in carica, a cui s’aggiunge ora il clamore destato dall’affare di Guantanamo, sembrano però tornare anch’esse utili agli europei. Fa comodo a tutti l’Obama che con una mano mette su un fuoco tante castagne promettenti, mentre, con l’altra, su un secondo fuoco, mette quelle più compromettenti.

Le cose si collocano in una prospettiva diversa se guardiamo alla pubblica opinione americana, al Congresso, alle incrinature trasversali nella maggioranza democratica e nel partito repubblicano. Qui, alle notevoli speranze suscitate dagli interventi del presidente in politica estera, si mescolando dubbi, domande, apprensioni, incertezze. L’Europa, che deve vedersela essenzialmente con la sola crisi economica, non conosce l’esponenzialità di una crisi doppia e simultanea come quella che sta vivendo e affrontando l’America di Obama. Roosevelt, all’epoca del New Deal, doveva combattere con pacifiche armi keynesiane disoccupazione e povertà all’interno dei confini americani; non doveva combattere contemporaneamente, mille miglia fuori dei confini nazionali, una guerra erratica con milizie islamiste e terroriste. Oggi invece, al peggiore dei crolli finanziari mai attraversati dagli Stati Uniti dal 1929, si uniscono l’impatto di due guerre interminabili in Afghanistan e in Iraq, il pericolo di una guerra latente ancorché evitabile con l’Iran, e la gravissima minaccia di un coinvolgimento diretto nella guerra civile che sta dilaniando il più inafferrabile dei Paesi musulmani: il Pakistan.

Etnicamente frastagliato in etnie e clan simili e dissimili, unito misticamente dall'Islam, privo di frontiere reali con l'Afghanistan, perdipiù in possesso di un moderno arsenale atomico, questo Stato artificiale e instabile era da tempo una venefica spina nel fianco della strategia antiterroristica degli Stati Uniti. Dall'inizio di maggio esso è diventato l'incubo centrale dell'amministrazione Obama. Da quando è divampata l'ultima e, almeno in apparenza, la più vigorosa offensiva dell'esercito governativo contro i paramilitari talebanizzati nella «valle incantata» di Swat, tutti gli altri pur complessi problemi sul tavolo di Obama sono diventati meno urgenti e meno ossessionanti.

Basti pensare che il circondario di Swat, dopo una tregua effimera stipulata in febbraio dal governo con i ribelli ultrafondamentalisti, s'era configurato come uno Stato nello Stato: una prolunga della miccia talebana dal vicino Afghanistan verso la santabarbara nucleare del Pakistan. Vi regnava la legge coranica, la sharia, concessa dal governo ai tribunali islamici locali, che decretavano decapitazioni pubbliche, mentre le scuole integraliste istruivano, reclutavano e addestravano kamikaze minorenni. Le donne cacciate dagli istituti scolastici e dagli uffici e private d'ogni movimento autonomo per le strade. Si scopriva, nel frattempo, che importanti territori limitrofi erano di fatto controllati da militanti talebani, pronti a riaprire azioni di rappresaglia e di guerriglia contro le demoralizzate e spesso equivoche forze dell'ordine. Le paralizzavano atavici istinti di comunanza tribale e religiosa con i guerriglieri, nonché la tolleranza arrendevole di tanti comandanti. Quello strano e labile armistizio tra le autorità legali e l’autogoverno fondamentalista cessò il mese scorso, quando nutriti reparti ribelli, tornati sul sentiero di guerra, scesero dalla vallata e raggiunsero la città di Buner che dista 100 chilometri dalla capitale Islamabad. L’esercito ufficiale li attaccò solo dopo che gli americani, allarmati, avevano accusato il ministero della Difesa e la presidenza di Islamabad di «abdicare» davanti all’avanzata dei talebani.

Il Pakistan è ora nel caos. Mentre la guerra civile imperversa nella provincia di Swat, e oltre un milione di profughi, due terzi della popolazione regionale, scendono dalla vallata in fiamme in cerca di riparo e di cibo, la stampa americana denuncia la corruzione e l’inettitudine ambigua del governo del presidente Asif Zardari. Questi era giunto non a caso a Washington il 6 maggio, chiedendo ancora armi e ancora dollari, proprio nelle ore in cui le sue forze armate iniziavano la violenta battaglia di Swat. Appena ripartito, i giornali hanno cominciato a chiedersi dove sono finiti i tanti miliardi che l'America getta da anni nel vuoto pakistano ottenendo, in cambio, il dilagare dei talebani e del talebanismo. Time e Newsweek hanno scritto che Islamabad, più di Kabul, più di Teheran, più di Gerusalemme, è ormai «la sfida maggiore alla politica estera di Obama».

Il 4 giugno Obama sbarcherà al Cairo con l’annuncio, che si dà per certo, di un suo originale piano di pace per il Medio Oriente. Lancerà parole nuove e stimolanti agli israeliani, ai palestinesi, ai sauditi, ai giordani, ai siriani, probabilmente anche agli iraniani. Ma il suo pensiero più intimo resterà senz’altro concentrato sul Pakistan. Questo spiega oggi tante cose, anche la retromarcia su Guantanamo.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Dietro la follia coreana
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2009, 09:50:54 am
28/5/2009
 
Dietro la follia coreana

 
ENZO BETTIZA
 
Raramente si era visto un paradosso del genere nelle vicende politiche contemporanee. Da un lato un Paese remoto e isolato, un paranoico residuo del comunismo asiatico, terrorizzato da un tiranno simile nelle ultime foto a un malato terminale, con una popolazione ridotta alla schiavitù e alla fame, che nel giro di un mese fa esplodere un ordigno nucleare potente come quello che distrusse Hiroshima e scatena una grandinata di missili a lunga e media gittata.

Dall’altro lato la condanna unanime della follia atomica di Pyongyang, condanna firmata non solo dagli Stati Uniti ma, per la prima volta, anche dalla Russia e dalla Cina fino a ieri ambigue sostenitrici negoziali della Corea del Nord.

Si tratta di un caso senza precedenti che mette a dura prova la politica della mano tesa di Barack Obama a quei Paesi già definiti dall’amministrazione Bush «Stati canaglia». Alla mano aperta il dittatore Kim Jong-il ha risposto col pugno atomico. Egli inoltre asserisce che nulla è cambiato con Obama nella politica aggressiva di Washington e che la Repubblica popolare di Corea sarebbe pronta, in caso di pericolo, ad affrontare anche una «battaglia» frontale con la superpotenza imperialista.

Non ci sarebbe di che preoccuparsi se le arroganti parole di Pyongyang fossero soltanto parole, non sostenute da prove ed esperimenti distruttivi che, in questo momento, allarmano soprattutto la Corea del Sud e il Giappone, i due principali alleati asiatici dell’America. Dopo che Pyongyang ha dichiarato nullo l’armistizio del 1953, che pose fine alla guerra di Corea, la possibilità di incidenti anche gravi rientra nel calcolo delle ipotesi strategiche regionali. Il governo di Seul, al quale Washington dichiara il proprio «impegno inequivocabile» a difendere il Paese minacciato dal Nord, fa sapere di voler aderire alla Proliferation Security Initiative (Psi) che consentirebbe alle sue forze navali di intercettare navigli con carichi sospetti. Il regime di Kim Jong-il risponde a sua volta che userà «forti misure militari» ad ogni operazione del Sud volta a fermare e ispezionare imbarcazioni nordcoreane: potrebbe essere la scintilla di una pericolosa deflagrazione a catena nel Pacifico.

Sono note la propensione e l’abilità ricattatoria di Kim nell’usare minacce per estorcere aiuti, vettovaglie, medicinali e dollari con cui lenire la miseria che attanaglia il popolo da lui affamato e oppresso. Può anche darsi che quest’alzata di scudi nucleari da parte del tiranno malato rientri in una torbida lotta di successione per aprire la strada del potere al prediletto dei suoi tre figli, Kim Jong-un. Comunque, le incognite che circondano le mosse dello scandaloso Davide sono infinite quanto lo è l’impotenza dei Golia e della comunità internazionale a decrittarle e prevenirle. La soluzione del quesito coreano è ora affidata soprattutto alla coesione dell’America, della Cina e della Russia nell’affrontare i ricatti e la sindrome da accerchiamento di un regime nevrotico che ha elevato l’atomo al toccasana di tutti i suoi mali.

Per quanto riguarda il noviziato presidenziale di Obama, si può ben dire che la questione atomica si colloca oramai al centro della sua politica estera. Allo scandalo coreano, che per ora è una minaccia simbolica più che reale, si aggiungono, in un contesto ben più incandescente, il Pakistan con l’arsenale nucleare minacciato dai talebani e l’Iran con la cocciuta ricerca di uno status di potenza nucleare. La politica della mano tesa non sembra funzionare quando ci sono di mezzo il plutonio e l’uranio.
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA L'anima perduta dell'Europa
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2009, 07:57:39 pm
7/6/2009
 
L'anima perduta dell'Europa
 
ENZO BETTIZA
 
E’facile e nello stesso tempo difficile spiegare la pressoché totale caduta d’interesse per l’Europarlamento, non solo in Italia, ma in tutti i 27 Paesi dell’Unione. C’è del giusto e dell’ingiusto in questo radicale mutamento d’umore da parte di 375 milioni di potenziali elettori.

Sono stato deputato europeo per tre legislature. Mi torna oggi per contrasto a mente il lontano 1979, quando fu insediato, a Strasburgo, il primo Parlamento a suffragio diretto e sorretto da una percentuale di voti mai più eguagliata. Predominava nella maggioranza dei parlamentari, anche se politicamente divisi, l’entusiasmo dei pionieri. Non tutto però convinceva, nel modernismo labirintico e trionfalistico del palazzo, meno accogliente della vellutata bomboniera di Palazzo Madama da cui provenivo. Al ronzìo dei motori per l’aria condizionata s’aggiungeva quello, meno attutito, di parlate danesi, fiamminghe, lussemburghesi, affettate con prepotenza identitaria e isolazionista. S’avvertiva l’assenza di quella forza di gravità lessicale, di mastice accentratore tra razze e culture eterogenee, esercitati per esempio dall’inglese nella concrezione dei giganteschi coaguli statali e imperiali anglosassoni.

Ricordo la seduta in cui re Baldovino, sovrano di uno Stato bilingue, ci ammannì un discorso grigio, cronometrato a singhiozzo su un doppio spartito: tanti minuti per ogni periodo in fiammingo destinato ai fiamminghi, altrettanti minuti esatti per ogni frase in francese destinata ai valloni.

Per fortuna, in quell’assemblea eletta per prefigurare una Federazione di popoli, si palesavano anche anticorpi correttivi. Molti alti funzionari, come il segretario generale del Parlamento Enrico Vinci, si sforzavano di restituire al francese il ruolo e la dignità che esso aveva avuto nell’ambito delle grandi diplomazie dei secoli passati. C’era poi un elemento di visibile rottura storica col passato, in cui l’Europa dei vecchi antagonismi si ripresentava nelle vesti di un’Europa rinnovata e rappacificata. Spiccavano gli epigoni emblematici di tre gloriose dinastie coinvolte nelle trascorse guerre civili europee. Nel sofisticato settore dei conservatori britannici, dirimpetto alla marea dei laboristi, c’era un ingualcibile Lord Douro discendente del duca di Wellington. Marcava il seggio sedendovi eretto, azzimato, imperturbabile, catafratto in un doppiopetto blasonato da un’arrogante cravatta color salmone. Più in là, nel settore dei popolari, cioè democristiani, si poteva scorgere Otto d’Absburgo. Mobilissimo, arguto, poliglotta, talora abbigliato in giacchettone tirolese con bottoni d’osso di cervo, il deputato Otto sembrava guizzare come un pesce nell’acqua in un ambiente che alla sua mente di studioso riportava, in maniera certo imperfetta, il ricordo dei parlamenti multinazionali della Vienna di Francesco Giuseppe: i quali, secondo lui, erano stati la vera anticamera dell’Europa unita. Poco più in là, sempre nel settore dei popolari, si ergeva la figura più ieratica, allampanata, la schiena incurvata all’indietro, di un von Bismarck parco di parole e di gesti.

Nelle primissime quarantott’ore dell’inaugurazione il mio gruppo liberaldemocratico s’era trovato al centro dei riflettori. Il medesimo gruppo, di dimensioni contenute, una trentina di membri circa, fra i quali Susanna Agnelli, Sergio Pininfarina, Bruno Visentini, albergava i due principali candidati in lizza per la conquista della presidenza parlamentare: la francese Simone Veil e il lussemburghese Gaston Thorn. Il maître della situazione, in quelle ore decisive, era il principe Michel Poniatowski detto Ponià, spregiudicato ex ministro degli Interni, pronipote di un generale polacco nominato da Napoleone granduca di Varsavia.

Il corpulento, roseo e allusivo Poniatowski, giscardiano di stretta osservanza, organizzò la battaglia con disinvoltura avvolgente. Alla spalle del «florentin», come lo chiamavano per le sue arti sottili e taglienti, c’erano un patto di ferro concluso fra il presidente Giscard e il cancelliere Kohl: costringere il folto gruppo dei democristiani tedeschi, sostenitori di Thorn, a togliere il veto alla nomina della scandalosa Veil, ex ministro della Giustizia, che aveva promulgato una legge favorevole all’aborto. Il capo dell’Eliseo intendeva raggiungere, con il voltafaccia tedesco a Strasburgo, due obiettivi in un colpo solo: assegnare da un lato alla Francia la prestigiosa carica europea, e dall’altro allontanare la popolare Veil dall’arena politica francese.

L’abile plenipotenziario di Giscard riuscì ad ammorbidire i popolari germanici e a privare Thorn del loro appoggio. Quando la candidatura della Veil uscì vincente, prima dal gruppo liberale e poi dalla votazione generale dell’assemblea, nessuno avrebbe saputo dire se il risultato l’avesse davvero soddisfatta. Sull’alto podio della presidenza ella salì, piuttosto accigliata, nel suo impeccabile tailleur Chanel. Non era cosa da poco vedere al vertice della prima istituzione rappresentativa europea un’orfana di Auschwitz, una che aveva visto incenerire l’intera sua famiglia e portava impresso sul polso il tatuaggio in cifre di deportata.

Dopo tre decenni, l’acqua non è passata sotto i ponti, ma li ha corrosi e demoliti. Non ci sono gli Amendola, i Pajetta, i Berlinguer che proprio lì, in Alsazia, tessevano con Willy Brandt la fragile ma sintomatica tela di Penelope dell’eurocomunismo: una sorta di Westpolitik delle Botteghe Oscure, faccia speculare e quasi atlantica della Ostpolitik socialdemocratica tedesca. Non ci sono più Altiero Spinelli e Bruno Visentini, fondatori del «Club Coccodrillo», dal nome del famoso ristorante strasburghese, dove fra una belon e una escargot alla provenzale già si preannunciavano la Costituzione europea, i parametri di Maastricht, la moneta unica. Marco Pannella ed Emma Bonino, che avevano dato lustro mondiale alla loro insolente transnazionalità radicale, rischiano di scomparire, ormai «à bout de souffle», sotto la tagliola del 4%. Anche l’ipotetica ma pur sempre attraente superpresidenza europea di Tony Blair minaccia di perdersi nel disastro elettorale del New Labour.

La più grossa tornata elettorale del mondo libero e abbiente rischia ora di naufragare in una sorta di masochistica autodelegittimazione: gli ultimi sondaggi indicano che alle urne andrà probabilmente meno del 40% di votanti. Perché mai, se il Parlamento ha comunque conquistato più poteri legislativi dal 1979 in poi? Perché mai, se l’euro si è dimostrato come la più stabile delle valute a petto della grande crisi?

La risposta investe la sostanza etica del problema. Il Parlamento anzitutto ha rinunciato alla sua grande premessa fondante, quella che più aveva attratto gli elettori di nove nazioni nel ’79, cioè la Federazione; essi, votando, vagheggiavano uno Stato unico prima ancora del mercato unico. Il Parlamento è peggiorato poi a livello perfino antropologico, diventando una sorta di ospizio dorato per i falliti delle politiche nazionali, di «talking-shop» per xenofobi paranoici, o addirittura antieuropeisti dichiarati. Infine, con l’allargamento galoppante dopo il 1989, ha dato l’impressione di esplodere sopprimendo le affinità elettive dei deputati a tutto vantaggio delle loro diversità idiomatiche e nazionalistiche. Una Babele intricata e costosa, una fabbrica d’incomunicabilità, un deposito di quintali di carta in venti lingue che nessuno legge e digerisce. L’Europa ha perduto così l’anima riducendosi a un consiglio d’amministrazione per il quale, a seconda degli interessi contingenti, si può votare per avere qualche azione di più in tasca, o astenersi per non mettere a rischio quelle già avute.

Non è detto che tutto sia crollato o stia per crollare. La metà della costruzione eurocratica resta sempre in piedi, ma è una metà che con le sue ordinanze di stile aziendale, anche quando non sono disutili, indispettisce e indispone l’elettore. Quella che manca è la metà politica. Manca l’anima federale, senza la quale l’Europa, per la maggioranza degli europei odierni, non è Europa ma una multinazionale neutra, anonima, immane e remota come tante. Remota: è l’aggettivo forse più proprio.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA A destra le ricette socialiste
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2009, 09:32:50 am
13/6/2009
 
A destra le ricette socialiste
 
 
ENZO BETTIZA
 
Il voto europeo, appena concluso, è stato qualcosa di più serio di una sequela di plebisciti nazionali centrati su alcuni personaggi politici di primo piano. Un Berlusconi personalmente ridotto in Italia, uno Zapatero lievemente retrocesso in Spagna, un Socrates severamente punito in Portogallo, un Brown disastrosamente bocciato nel Regno Unito e umiliato perfino nella nativa Scozia, un Sarkozy splendidamente riconfermato ai vertici di gradimento in Francia, una Merkel misuratamente premiata in Germania: non tutto lo scrutinio elettorale, diluito e trasferito dall’Europa ai singoli Paesi che la compongono, si è risolto comunque e soltanto nella pagella inviata dai votanti ai sopra citati leader di governo e di partito.

Il plebiscito è andato assai al di là di un giudizio popolare sulle singole persone. Ha investito in blocco i grandi schieramenti politici europei decretando la sconfitta, sul piano continentale, dello schieramento che si richiama sostanzialmente alla tradizione socialista e che, in Italia, si è dato la cifra più fluida di «partito democratico» o di «centrosinistra». Il gruppo socialista al Parlamento Europeo ha perduto un quarto dei seggi, lasciando al centrodestra, rappresentato dal Partito popolare, il predominio pressoché incontrastato dell’assemblea di Strasburgo.

Il conto è presto fatto ed è, sotto ogni aspetto, cocente per le maggiori sinistre europee. Il naufragio laburista in Inghilterra è stato un colpo letale inferto dagli elettori non solo al partito di Blair e di Brown, sceso per la prima volta al terzo posto, ma anche al sistema selettivo britannico basato fino a ieri sul bipartitismo perfetto. Non migliore la sorte toccata ai socialdemocratici tedeschi, incapsulati con i cristiano-sociali nella grande coalizione guidata da Angela Merkel e precipitati al minimo storico dopo la seconda guerra mondiale. Nel contempo i socialisti spagnoli e portoghesi subiscono uno scossone preannunciante, con ogni probabilità, la loro prossima sostituzione da parte dei conservatori.

Il quadro peggiora se dalle sinistre di governo passiamo a quelle di opposizione. I socialisti francesi con lo scarso 16 per cento sono allo sbando, schiacciati fra il martello trionfante di Sarkozy e l’incudine dei verdi incalzanti di Cohn-Bendit. La piena misura della liquefazione del Partito democratico italiano, più che dall’insoddisfacente risultato europeo la si può trarre da quello catastrofico delle elezioni amministrative. Molti osservatori, a cominciare dall’entourage dello stesso Franceschini, hanno concentrato l’attenzione sulla potatura del carisma personale di Berlusconi, perdendo di vista la dilatazione del partito di Berlusconi e della Lega sempre più fortunata di Bossi nelle province una volta «rosse». La profondità dello scacco, subito soprattutto dalle sinistre storiche, è stata messa in lucida quanto allarmata evidenza dall’intervista concessa l’11 giugno alla Stampa da Fausto Bertinotti: «Queste elezioni, in Europa e in Italia, sanciscono la fine della sinistra novecentesca. La destra è forte perché la sua cultura è penetrata nella società e tra la nostra gente. Come fa il Pd a sentirsi rassicurato con 4 milioni di voti persi in un anno?».

Non è facile dare una risposta pertinente alle più che pertinenti domande di Bertinotti. C’è in effetti qualcosa d’inspiegabile, di enigmatico, in questo drastico tracollo dei socialisti e affini nell’ambito dell’Unione Europea. Molte cose sembravano favorirli nella competizione con le destre. La grande crisi in corso, la recessione, la disoccupazione, la crisi del capitalismo: non era, tutto ciò, il terreno più adatto al rafforzamento dei partiti di sinistra e alla diffusione delle loro ricette economiche e sociali? Si è avuta invece la sensazione, e poi la certezza, che i leader di centrodestra, per esempio Sarkozy e Merkel, abbiano avuto la capacità di sostituirsi alle sinistre cavalcando meglio e più svelti la crisi con politiche d’intervento, diciamo pure dirigistico, quasi sottratte al tradizionale ricettario d’ispirazione socialista. Al tempo stesso i conservatori hanno saputo dare risposte operative, apparentemente impopolari, quindi ideologicamente trascurate dalle sinistre, a questioni d’emergenza come l’immigrazione clandestina, la sicurezza nelle strade, all’autodifesa identitaria e regionalistica di cui in Italia ha saputo farsi portavoce la Lega presso i ceti artigianali e operai.

Temi, questi, che la destra più dinamica e spregiudicata, cioè francese, ha saputo affrontare e coniugare con la lotta alla disoccupazione, la difesa dei posti di lavoro, l'incentivazione e quindi la permanenza di tante industrie in territorio nazionale. Quello che in definitiva è sembrato mancare alle forze di sinistra è il contatto con la realtà. Certi leader velleitari hanno dato più ascolto ai salotti che alle fabbriche, più spazio alle visioni universalistiche e meno attenzione al cortile di casa, usando senza costrutto parole ovvie e luoghi comuni come «solidarietà», «dialogo», «amore per il prossimo», «tolleranza multiculturale» eccetera. Mai una scelta audace, innovativa, rapportata al duro e insidioso mondo reale in cui viviamo. L’arsenale intellettuale dei centrosinistra, nelle loro varie metamorfosi europee, è apparso così alla maggioranza dell’elettorato dell’Unione come una miscela fra antiquariato e modernariato ideologico senza presa sui più concreti fatti del giorno. La crisi di rigetto non poteva non arrivare. Ed è arrivata, per dirla con Bertinotti, in maniera purtroppo eccessiva, privando l’Europa e l’Italia di quel necessario contrappeso democratico o, meglio, socialdemocratico che vorremmo chiamare responsabile quando è al governo e correttivo quando è all’opposizione.
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA La profezia dello Scià
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2009, 10:28:09 am
26/6/2009
 
La profezia dello Scià
 

ENZO BETTIZA
 

Fu a Teheran, nella reggia di Niavaran, che in compagnia dello Scià di Persia passai uno dei più strani Natali della mia vita. Era il 25 dicembre del già tormentato e insidioso 1978. S’avvertiva da tanti segni che la lunga meteora dinastica di Reza Pahlavi, iniziata nel 1941 quando aveva soltanto 22 anni, era in apparente discesa. Dico «apparente» perché in realtà era già in caduta libera; e lo era quasi all’insaputa del diretto interessato che, con ogni probabilità, non prevedeva che la fine del suo regno era prossima più di quanto lui stesso e i suoi consiglieri potessero immaginare.

Lo scenario di una piazza dapprima inquieta, poi movimentata, infine di colpo violenta, doveva esplodere il 7 gennaio 1979 nella drammatica rivolta di massa che di lì a pochi giorni, il 16 gennaio, avrebbe costretto lo Scià alla fuga dall’Iran. Il grande vincitore dalla fluente barba bianca, gli occhi fiammeggianti, il turbante nero degli sciiti sulla testa, l’ayatollah RuhollahKhomeini, rientrava il 1° febbraio a Teheran per instaurarvi, dopo unesilio di 16 anni, la «Repubblica islamica» di cui lui sarebbe diventato il padre e la guida religiosa assoluta. Quell’imprevedibile, quasi improvviso cambio totale di regime e di clima s’era svolto in un crescendo di premonizioni psicologiche e di violenze fisiche che nei velocissimi ritmi di piazza, reiterati, incalzanti, inarrestabili, ricordavano alla rovescia per tanti aspetti lemanifestazioni di rigetto e gli orrori repressivi cheda due settimane insanguinano Teheran.

Le folle del ’79, anche allora in gran parte giovanili, s’avventavano contro la dura autocrazia laicizzante dei Pahlavi; oggi, dopo un trentennio di teocrazia fondamentalista, spietata quanto ambigua, sembra risuonare nei cieli foschi dell’Iran la sveglia del contrappasso; le irate folle giovanili odierne prendono di mira non solo i brogli elettorali, che hanno ridato la presidenza a Mahmud Ahmadinejad sottraendola al moderato Hossein Mousavi, ma in senso lato fanno capire al mondo che la democrazia di facciata, manovrata da vecchi preti inturbantati, è un imbroglio anacronistico che non risponde più alle esigenze di un società iraniana avida di progresso e di modernità.

Mi ritorna di riflesso in mente l’atmosfera d’insoddisfazione e di protesta che serpeggiava per la capitale iraniana negli ultimi giorni del potere, ormai scalfito e usurato, di Shahanshah Aryamehr Mohammad Reza Pahlavi. Pure lui, con il suo realismo ingegneristico e poliziesco, come dopo di lui gli ayatollah e i pasdaran, pensava che la forza d’urto e di ricatto del petrolio avrebbe potuto sanare i molti mali del regno che la politica, da sola, non riusciva a risolvere. Pure lui appariva in ritardo sulle esigenze e le aspettative di costituzionalità, di modernità democratica, che gl’indirizzavano i ceti istruiti ed evoluti di una società mediorientale tutt’altro che primitiva. Riteneva di poter mettere le cose a posto con una megalomaniaca e stonata combinazione di elementi disparati, a cui concorrevano, sul piano ideologico, il pugno di ferro di un kemalismo di riporto, poi sul piano d’immagine un classicismo anch’esso di riporto, imperniato in funzione antireligiosa sul mito di Ciro il Grande, infine sul piano della potenza una polizia segreta spietata e un esercito alimentato dai ricavi del petrolio.

La questione del nucleare era già nell’aria. Ma lui mi disse: «Non vogliamo, almeno per ilmomento, l’atomica, vogliamo invece un esercito tanto forte che, per batterlo, sarebbe necessaria l’atomica: quindi imbattibile». Intuivo di trovarmi al cospetto di un uomo di sofisticata e controllata brutalità, un misto d’archeologo astuto e uomo d’affari spregiudicato, che esprimeva i suoi concetti realistici nell’ottimo francese appreso nei collegi svizzeri. Sulla faccia pergamenacea, già offuscata dal male, spiccavano le inconfondibili labbra violette, enigmatiche, quasi tirate da un elastico da una guancia all’altra. Una faccia occidentalizzante più che occidentale. Sarebbe bastato liberarla degli occhiali, metterle un paio di baffi, ridurne l’ampiezza della fronte, per renderla del tutto simile a quella del masnadiero caucasico che era stato suo padre, Reza Khan, il fondatore semianalfabeta della posticcia monarchia.

Altro che Ciro, Dario, Serse. Erede vulnerabile di un usurpatore forestiero privo di scrupoli e di religione, seduto sul Trono del Pavone vagheggiando di congiungere gli oleodotti dell’Iran energetico al glorioso impero di Persepoli, egli ignorava quasi tutto dell’atavica anima islamica e sciita dell’Iran. Conosceva il calcolo infinitesimale, la chimica, la merceologia industriale, le lingue occidentali, ma non capiva i bottegai del bazar musulmano, che a loro volta non capivano il despota orientale che si dava le arie dell’ingegnere petrolifero.

I bazar, che avevo visitato, apparivano abbandonati da quella segreta poesia del baratto, quasi staccata dal valore intrinseco degli oggetti, che in genere gli conferisce una posizione emblematica e arcana al centro dell’universo coranico. I quotidiani locali, intanto, esibivano in prima pagina notizie sempre più allarmanti. Arresti, bombe, sequestri, sparatorie tra gendarmi e terroristi. Moschee affollate e minacciose. Morti, feriti, dispersi: un quadro che sembra ripetersi oggi su altri versanti. Ricordo le ultime parole, forse le più centrate e antevedenti, che lo Scià con un filo di rassegnazione mi disse in quelle sue ultime ore di regno: «Io, non a caso, ho cercato, nei limiti delle mie forze, di legare lo spirito riformatore e modernizzatore della dinastia iranica che rappresento al passato della Persia classica. Se il mio regno dovesse finire in maniera traumatica, a sostituirlo non sarà il comunismo del partito Tudeh, che dà una mano suicida ai terroristi, bensì qualcosa di assai peggio: sarà il più tetro Medioevo islamico».

Poco più d’un mese dopo, in una Teheran imbandierata di stendardi verdi, almomento del rientro dall’esilio il Khomeini creatore della teocrazia sciita avrebbe annunciato alle folle acclamanti: «La legge appartiene al popolo e nessun governo ha il diritto di mantenerlo sotto la sua tutela: ma fino a oggi il nostro popolo è stato trattato così dal governo dello Scià, in violazione d’ogni sacrosanto diritto internazionale. È per questo che noi non riconosciamo più la sua legittimità». Sono passati trent’anni. Oggi, quelle stesse parole delegittimanti rivolte contro la tirannia laicista dello Scià, vengono rivolte almeno dalla metà degli iraniani contro la tirannica teocrazia degli eredi clericali di Khomeini.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA L'Italia che non vedremo
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2009, 02:46:05 pm
2/8/2009
 
L'Italia che non vedremo
 
ENZO BETTIZA
 

Quando si celebrerà, fra un anno e mezzo, il 150° anniversario dell’Unità, non potremo fare a meno di constatare la fragilità e la vulnerabilità di un panorama politico che fin da oggi si presenta purtroppo scisso, segnato più dalla disunione e che dall’unione nazionale. L’annosa «questione meridionale», acuitasi in questi giorni, graverà probabilmente a ridosso delle celebrazioni come il grande problema rimasto irrisolto (e perdipiù complicato dalla «questione romana») dopo la breccia piemontese di Porta Pia. La fiacchezza del consenso patriottico e storico all’anniversario, la quasi ostile indifferenza alla pericolante eredità unitaria, il «vuoto di idee» opportunamente lamentato dall’articolo di Ernesto Galli della Loggia che ha aperto un ampio dibattito sul passato e il presente dello Stato italiano, mettono radici nella faglia anche psicologica e perfino antropologica che la crisi in atto tra Sud e Nord pone ai gruppi dirigenti del Paese.

I molti silenzi e balbettii sull’anniversario originano da qui. Dalla non facile soluzione di un enigma, come quello del Mezzogiorno, mai compiutamente risolto, anzi esacerbato nelle sue oscurità dall’insorgenza protestataria di una contrapposta «questione settentrionale» che, tramite i megafoni di Bossi, esige più giustizia fiscale, più autogoverno, più autonomia amministrativa da Roma. Al lamento patriottico di Galli della Loggia, replica un uomo di sinistra pragmatica e molto nordica come Massimo Cacciari: «Commemorare l’Unità d’Italia? Meglio usare soldi per fare altro. Una festa per festeggiare in astratto l’unità nazionale è quanto di più inutile e retorico si possa immaginare. È giunto il momento d’imboccare una strada federalista». I concetti, come si vede, non sono molto lontani da quelli di Bossi. Per quanto riguarda il Sud, dove sarebbe in corso «una lotta per la sopravvivenza», il sindaco di Venezia sembra ispirarsi alle parole già pronunciate da Alberto Ronchey nei taglienti aforismi di Fin di secolo in fax minore: «Prima la mafia e la camorra potevano reclutare manovalanza e prosperare perché nel Mezzogiorno l’industria non c’era, oggi l’industria non c’è perché ricattata o taglieggiabile da mafia e camorra».

Come riuscirà Berlusconi, su un simile sfondo, a onorare decentemente il duplice e contraddittorio patto che aveva stretto, prima delle elezioni, con la Padania di Bossi e la Sicilia di Lombardo? Riuscirà davvero, nel momento in cui la recessione obbliga Tremonti a stringere i cordoni della borsa, a evitare il parto, per ora soltanto rinviato, di una Lega milazzista e movimentista del Sud opposta a una Lega ormai consolidata e sempre più influente ed egemone nel Nord? Insomma, Berlusconi arriverà al 2011 con un’eredità risorgimentale ricucita alla meno peggio o pericolosamente lacerata? Tutti, maggioranza incrinata e opposizione larvale, sudisti piagnoni e nordisti arroganti, in questi mesi di dibattito, di polemica, di pallida vigilia risorgimentalista, dovrebbero forse rileggere un temibile monito di Gregorovius: «Così com’era, l’Italia non poteva restare. Così com’è, non resterà. Così come dovrebbe essere, purtroppo, non diverrà». Era il 1860: anno d’attesa positiva per gli unitaristi dell’epoca, e negativa per quelli che la pensavano come il titanico e pessimistico storico tedesco.

Erano comunque, già allora, tempi difficili, problematici, travagliati, anche per uomini di grande erudizione e grandissimo fervore risorgimentale come un Niccolò Tommaseo. Il dalmata, che si riconosceva italiano nella cultura e slavo nel sangue, era stato al fianco di Daniele Manin, ch’egli detestava, durante i due anni dell’assedio austriaco di Venezia (1848-49). Era l’ideologo e, di fatto, il ministro degli Esteri della ribelle Repubblica di San Marco la quale aveva messo in scena una drammatica prova generale dei successivi moti del Risorgimento. Tommaseo fu contrario fino all’ultimo alla resa agli austriaci; tuttavia dissentì violentemente da Manin quando questi propugnò e riuscì a far proclamare l’annessione di Venezia al Piemonte. Non solo massimo filologo e lessicografo della lingua italiana, ma autore di una monumentale storia dell’Italia in cinque volumi, suo testamento civile e politico, il Tommaseo però non approvava la strategia unitarista di Cavour e, a mezza strada tra Mazzini e Gioberti, si dichiarava cristiano, repubblicano e federalista; cattolicissimo, perfino nelle cadute e nei rimorsi carnali, gli ripugnava il potere temporale della Chiesa e asseriva che «il destino d’Italia è purtroppo in mano ai preti». Provava un’irriducibile avversione per gli «avvocaticchi» che si erigevano, ignorando le masse, a protagonisti di prima fila dell’impresa risorgimentale. Amava l’Italia, come faro di civiltà e depositaria di un patrimonio universale, ma diffidava dei singoli italiani ritenendoli incapaci di costruire un’entità nazionale su scala europea. Dal nuovo regno italiano rifiutò ogni onore, anche quello di un seggio in senato, per conservare intatto e libero l’uso di una parola che gli usciva spesso velenosa e maldicente di bocca. Nelle opere, nelle passioni politiche, nei malumori, nelle viscerali contraddizioni del Tommaseo si riflettevano, in gran parte, le rose e le spine che l’idea dell’Unità italiana ha continuato a trascinare con sé dall’eroica rivolta antiaustriaca di Venezia fino a oggi. Ricordate il verso dolente degli assediati veneziani? «Il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca».

Dovremo forse, assediati da noi stessi, ripeterlo ancora?

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Varsavia non capisce
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2009, 11:56:32 am
18/9/2009

Varsavia non capisce
   
ENZO BETTIZA


Barack Obama ha bocciato uno dei progetti strategici e politici più controversi del predecessore George W. Bush.

Opponendosi al dispiegamento delle basi per uno scudo spaziale in Europa centrorientale, il Presidente darà inevitabilmente la stura all’intreccio di consensi e dissensi di varia natura e diversa intensità sia all’Ovest sia all’Est.

Piacerà anzitutto al Cremlino, da sempre avverso all’eccessivo avvicinamento delle postazioni occidentali ai confini russi: in particolare, l’installazione nei territori ceco e polacco di batterie e di radar antimissile americani veniva considerata a Mosca, con qualche ragione, come una minaccia all’arsenale nucleare e quindi alla sicurezza militare della Russia. La tesi avanzata a suo tempo da Bush, secondo cui il progetto non avrebbe avuto un carattere offensivo contro la Russia, bensì dissuasivo contro i potenziali missili intercontinentali del lontano Iran, sembrava a molti una scusa cervellotica poco credibile. Ora l’amministrazione Obama ha trovato anch’essa, non si sa con quanta credibilità agli occhi dell’opinione conservatrice del Congresso, una sorta di controscusa tecnica e diplomatica: dai rapporti della Cia risulterebbe che l’Iran starebbe mirando solo alla costruzione di missili a corto e medio raggio, incapaci di raggiungere gli Stati Uniti e le capitali europee.

Il brusco dietrofront rispetto allo scudo in Polonia e in Repubblica Ceca è un’ulteriore tessera che egli inserisce nel mosaico già fitto delle inversioni e correzioni spesso demolitrici delle politiche di Bush. Probabile o improbabile che sia l’ipotesi d’intelligence sul ritardo estensivo degli armamenti atomici di Teheran, Obama dà l’impressione di voler scavalcare il dilemma tecnologico per attenersi strettamente alla strategia della mano tesa verso due Paesi, l’Iran di Ahmadinejad e la Russia di Putin, che da un pezzo si oppongono e contestano con crescente asprezza l’America. Insomma, accantonando il progetto Bush, Obama forse spera di poter cogliere con una fava vistosa due insidiosi sparvieri d’Oriente.

Però il gioco al rilancio positivo presenta qualche preoccupante risvolto negativo. Già il Wall Street Journal, che ha lanciato per primo la notizia, sottolinea che la manovra di Washington sarà «prevedibilmente destinata a placare la Russia ma, anche, a inasprire il dibattito sulla sicurezza in Europa». Ufficialmente il segretario generale della Nato Rasmussen, che interpreta peraltro il condiscendente parere di circoli politici euroccidentali, si è affrettato ad annunciare che il congedo dal piano Bush è un fatto in armonia con «l’indivisibilità della sicurezza di tutti gli alleati». Ma non è così. Non proprio tutti gli alleati atlantici - in particolare quelli dell’Est più coinvolti nell’installazione dello scudo, più vicini alla Russia, più esposti ai ricatti petroliferi e politici russi, ancora memori dei soprusi patiti sotto il giogo sovietico - la pensano come Rasmussen.

Voci sibilline si sono già levate dal ministero degli Esteri di Praga, dove per ora il riserbo sul passo di Obama prevale nettamente sull’applauso. Altre voci, invece più acute, storicamente più autorevoli, nazionalmente più critiche, stanno già alzandosi dalla Polonia che, insieme con la Repubblica Ceca, avrebbe dovuto e probabilmente desiderato ospitare le infrastrutture più cospicue dello scudo statunitense. Da Varsavia l’ex presidente polacco Lech Walesa, mitico leader di Solidarnosc e Nobel per la Pace, interpretando il disagio di tanti compatrioti, ha attaccato con ruvida energia la decisione di Obama invitando la Polonia a rivedere dalle fondamenta i suoi rapporti con gli Stati Uniti. Non v’è dubbio che molti polacchi, euroscettici e ultrapatrioti, avevano fino a ieri dello scudo americano una visione agli antipodi di quella di molti russi: se a Mosca lo percepivano come un latente strumento di offesa, a Varsavia per contro lo sentivano e lo aspettavano come una corazza difensiva.

Non si dimentichi che la Polonia è il più importante degli acquisti orientali dell’Occidente. Quaranta milioni di abitanti, una minoranza di circa sette milioni elettoralmente influenti in America, una Chiesa potente, un’economia in moto nonostante la crisi, un’industria automobilistica (Fiat, Volkswagen, Peugeot) all’avanguardia nell’Europa centrorientale. È la terra di dislocazione di servizi di altre grandi imprese come Philips e Lufthansa. Dai tempi del crollo del Muro di Berlino, il cui ventennale si festeggerà anche a Varsavia, i polacchi hanno sempre avuto nell’America, a prescindere dai presidenti americani, un saldo punto di riferimento, spesso in contrasto con le tendenze politiche e psicologiche degli europei occidentali.

Oggi Obama, volendo «placare» i russi, rischia di alienarsi la simpatia e l’appoggio della nazione più incisiva della nuova Europa, per la quale ricorre non solo l’anniversario liberatorio della caduta del comunismo nei Paesi ex satelliti. La ricorrenza indimenticabile, fra le più tragiche della sua storia, è quella dei settant’anni passati dal 1939, quando la loro patria venne aggredita frontalmente dai tedeschi, e assalita subdolamente alle spalle dai russi. Non sappiamo bene a cosa avrebbe potuto servire in uno scenario strategico reale lo scudo di Bush. Comprendiamo che potesse irritare i russi come un’ipotesi di minaccia. Ma comprendiamo, altresì, che dopo la spartizione della Polonia fra tedeschi e russi, e dopo le fosse di Katyn, la memoria storica potesse portare numerosi polacchi a vedere nello scudo, se non altro in chiave psicologica, almeno un simbolo di difesa.

Il rischio è che le due Europe si dividano sul tema del difficile rapporto con la Russia e, contemporaneamente, su quello ambiguo con gli Stati Uniti. Il massimo che Obama potrebbe fare, dopo l’annuncio clamoroso, è di trattare la cancellazione dello scudo non come un negoziato bilaterale tra americani e russi, ma come una proposta da discutere assieme a tutti gli alleati europei della Nato. Non esclusi, naturalmente, quelli dell’Est, i più turbati e più interessati alla questione.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Westerwelle liberale oltre i cliché
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 05:42:55 pm
29/9/2009

Westerwelle liberale oltre i cliché
   
ENZO BETTIZA


La sintesi di un risultato per tanti aspetti inedito e travolgente l’ha data in due colpi precisi un giornale di Berlino: «Guido Westerwelle trionfa, Angela Merkel governa».

Lo tsunami Westerwelle, nome che in italiano potremmo tradurre «Onda dell’Occidente», è difatti la novità di punta di un’elezione che assegna al giovanile e spregiudicato leader liberale la medaglia del vincitore reale.

Mentre riconferma alla Merkel, togliendo punti ai due partiti democristiani che la spalleggiano, lo scontato bis personale alla Cancelleria e decreta, con la sconfitta di Steinmeier, la catastrofe storica della più antica socialdemocrazia europea. Completa il quadro, estremamente mosso, la notevole ma pur sempre marginale avanzata della Linke di Oskar Lafontaine e Gregor Gysi, figure di testimonianza di una «sinistra delle sinistre» che ha rastrellato voti di protesta fra gli elettori insoddisfatti dell’Ovest e quelli nostalgici dello scomparso Stato assistenziale dell’Est.

La vittoria netta di Westerwelle e del suo partito, la Fdp, Freie Demokratische Partei, emarginata per undici anni all’opposizione, ma ora balzata dal 9,8% al 15, ha tanti significati non solo sul piano politico, ma anche su quello del costume e direi perfino dell’estetica politica. Vediamo il liberalismo tedesco occidentale, che dall’epoca di Adenauer e di Erhard fino ai tempi di Brandt e di Kohl aveva esercitato la funzione dirimente dell’ago della bilancia nelle formule di governo, lo vediamo uscire da un mezzo coma e rompere a galoppo su una scena in crisi cavalcato da un personaggio anomalo, che fino all’altroieri veniva dileggiato dagli avversari come una scheggia mondana impazzita o applaudito dai seguaci ipnotizzati come un attore trasgressivo e dissacrante.

Lo ricordo nei depressi convegni liberali di fine secolo in Renania. Tentava di rivitalizzare con spericolate battute di spirito il terzo partito germanico in calo di consenso, annunciando alle platee, non so se allibite o fiocamente rallegrate, che la Fdp per rinascere avrebbe dovuto nientemeno che mimetizzarsi in una «Spasspartei»: partito dello spasso e del divertimento. S’attagliavano perfettamente all’annuncio, considerato da molti profanatorio, l’aspetto esibizionistico e il portamento pubblico anticonvenzionale del giovane segretario generale. Nell’omosessuale dichiarato, nei suoi abiti eccentrici e raffinati, nella prestanza ginnica, nelle battute ricalcate sugli aforismi di Wilde, già allora non c’era quasi nulla dell’aplomb severo dei grandi borghesi liberali come il presidente della Repubblica Walter Scheel e il pressoché inamovibile ministro degli Esteri Dietrich Genscher, che certo disdegnavano Wilde e certamente leggevano Max Weber.

Definire quindi uomo di destra un imprevedibile picaro della politica postmoderna (così direbbe lui), classificare la sua estroversa entrata nella Piccola Coalizione accanto alla materna Angela come una «svolta a destra» dell’asse politico tedesco, mi sembra alla fin fine improprio. Applicare i soliti cliché di un lessico topografico antiquato a un corridore stravagante, proteiforme e inafferrabile come Westerwelle, appare approssimativo o quantomeno prematuro. Si mescolano, in lui, un radical chic politicamente scorretto, un liberista estremo, un oppositore del fisco punitivo, un fautore dello Stato magro, attentissimo però alla questione dei diritti civili, all’ecologia ragionata, alla libertà individuale, alla protezione perfino esaltata della diversità che egli stesso non occulta e pratica apertamente, a fianco del suo compagno, nella vita privata. Lo si direbbe un miscuglio asimmetrico, radicalizzato alla tedesca, tra il miscredente Zapatero e lo spregiudicato conservatore Cameron. Per qualche altro lato può evocare più il liberalismo radicale di un Pannella che quello tradizionale di Malagodi. Se diverrà vicecancelliere e ministro degli Esteri, su certi argomenti civili, per usare il vecchio vocabolario, potrà scavalcare a sinistra la stessa Merkel, parzialmente contagiata e socialdemocratizzata dal suo ex vice Steinmeier.

Oggi appoggiano l’animale di successo la grande industria, le dame da salotto abbienti e influenti, il ceto medio benestante che deplora la tassazione eccessiva subita durante i quattro anni semiassistenzialisti del connubio cristiano-socialista. Ma l’inattesa ondata Westerwelle ha lambito e inghiottito anche il voto di ecologisti urtati dall’incontinenza ideologica dei Verdi, di molti metalmeccanici e perfino di tanti disoccupati delusi dal cerchiobottismo caritatevole della Grande Coalizione. Il sorprendente personaggio ha ribaltato le regole del compromesso storico germanico, che aveva visto fidanzarsi in senso politico, durante la campagna elettorale, la cautissima candidata Merkel e il prudentissimo candidato Steinmeier, non più rivali ma quasi complici navigati e astuti.

La punizione reattiva da parte dell’elettorato è stata esemplare e molto mirata. Hanno imbalsamato per una seconda legislatura la Merkel, hanno limato però lo zoccolo duro Cdu-Csu che la sosteneva, hanno inabissato la Spd e scartato il mito o, se vogliamo, il placebo del perfetto bipartitismo di governo. Hanno in definitiva premiato l’outsider imperfetto ma velocissimo che, da domani in poi, dovrà vedersela coi duri fatti di una crisi che continua ad attanagliare e destabilizzare con tre milioni di disoccupati il Paese più importante dell’Unione Europea.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA La borghesia milanese, mito e realtà
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2009, 05:47:55 pm
12/10/2009 - IDEE
 
La borghesia milanese, mito e realtà
 
 
ENZO BETTIZA
 
Il mito, rispuntato nelle recenti critiche rivolte da Silvio Berlusconi a Ferruccio de Bortoli, di un Corriere della Sera non più difensore e rappresentante di una scomparsa borghesia «buona» e «conservatrice» è per l’appunto, oggi, più mito che credibile verità sociologica.

Neppure si capisce bene a quale Corriere d’antan il Cavaliere intendesse alludere.

A quello carismatico dei tempi di Albertini che schierò le batterie della storica testata prima a favore di Mussolini e poi contro? A quello democristianeggiante e filogovernativo di Missiroli che usciva negli anni in cui il giovane Berlusconi, più che giornali, leggeva spartiti musicali su navi da crociera? O quello grintoso di Alfio Russo, che non risparmiava né borghesi né proletari, oppure quello paludato di Spadolini, il quale oscillando tra Moro e Saragat attendeva di spiccare il gran volo da Via Solferino a Palazzo Chigi? Non credo infine che Berlusconi, già fortunato impresario appoggiato da Craxi e già in procinto di idolatrare Montanelli, potesse rimpiangere la virata a sinistra del Corriere di Piero Ottone sostenuto dalla borghesia cosiddetta «illuminata», incline al compromesso con i comunisti in piena avanzata ovunque. Anche in tanti giornali apparentemente legati al mondo borghese.

Di Corrieri con relativi suggeritori e in seguito editori puri e impuri ce ne sono stati tanti e diversi almeno dal 1923, anno in cui Mussolini, con il consenso o quantomeno l’omertà della grande borghesia, milanese e non, abolì la libertà di stampa che verrà riconquistata dagli italiani appena nel 1945. La data della grande svolta, che mette a soqquadro la piazza giornalistica di Milano, sarà il 1974. Segneranno l’anno fatale da un lato il declino della dinastia Crespi, proprietaria del maggiore quotidiano nazionale, e dall’altro lo scisma di Via Solferino che mi vide insieme con Montanelli e con Guido Piovene tra i fondatori del Giornale nuovo.

Da che parte stava la grande e più influente borghesia milanese di allora? Certo non con gli scismatici liberali, circa una quarantina, che avevano deciso di dissociarsi, dopo la direzione Spadolini, dalla deriva zodiacale e sessantottina del «Soviet Solferino» secondo la definizione dell’ex redattore Eugenio Montale. Se di una borghesia si poteva ancora parlare in termini di casta e di danaro, essa appariva schierata al fianco dell’affabulatore Ottone, che si dava toni demiurgici nei salotti, e dell’ultima Crespi, Giulia Maria, che di quei salotti era diventata una sorta d’icona ispiratrice e imperiosa. In realtà, non si trattava nemmeno di veri salotti, improntati alla civiltà mondana del Settecento e Ottocento parigini, aperti come l’antica agorà al confronto di idee e opinioni diverse. Nulla di simile, fra gli Anni 60 e 70 del secolo scorso, in certe sontuose dimore della borghesia milanese à la page. Più che salotti erano clan esoterici, confraternite quasi tribali chiuse intorno allo scettro del padrone o, meglio, della padrona.

In quei luoghi intellettualmente settari e asfittici, che si pretendevano ariosi e liberi, era d’obbligo pensare, parlare, vestire, talvolta perfino mangiare alla stessa maniera. Vi erano rappresentati l’imprenditore sociale e progressista, l’ecologo preoccupato, il sociologo d’assalto, la giornalista di costume, lo scrittore wildiano, lo psichiatra spregiudicato e antipunitivo. Il conformismo che vi regnava era monotono come lo sono le mode, e come le mode era esigente, esclusivo, di fondo autoritario; chi non accettava le convenzioni del gruppo, o le trasgrediva, si poneva automaticamente al bando da solo. Si depositava qui l’essenza ossimorica, insieme rigida e molle, della grande borghesia che si richiamava a valori inventati di sana pianta ma disponibili e utili al baratto politico col partito vincente o ritenuto tale. È qui che si facevano e disfacevano, tra lazzi ideologizzanti e talora scampagnate ecologiche, i direttori del Corriere nonché i cambi di proprietà. È qui che si faceva e disfaceva una certa Italia stampata. O, più semplicemente, si disfaceva una certa Italia. È infatti da qui, da questi intrecci d’azzardo tra politica e affari, nobilitati dalla magniloquenza sulla completezza d’informazione e la libertà di pensiero, che il Corriere dalla gestione ideologica di Ottone sarebbe precipitato nelle follie di Tassan Din e nello scandalo travolgente della P2.

È però doveroso fare una netta distinzione tra le velleità progressiste e spesso strumentali di una certa borghesia e i valori civili borghesi, i valori di libertà e di civiltà senza aggettivi. La distinzione tra chi firmava e chi non firmava petizioni assassine durante gli anni di piombo. Andrebbe detto e alfine riconosciuto in sede storica (si veda, in proposito, il documentatissimo libro L’anarchico borghese di Gerbi e Liucci pubblicato da Einaudi) che gli scismatici minoritari di Via Solferino, rispettati dall’editore Berlusconi che per anni non osò contraddire d’una virgola Montanelli, erano riusciti, nonostante attacchi terroristi non solo cartacei, a raccogliere nelle pagine vilipese del Giornale nuovo il meglio della cultura di dissenso liberale italiana, francese, russa, centroeuropea. Da Rosario Romeo a Renzo De Felice, da Fejtö a Sacharov, da Aron a Ionesco. Andrebbe anche ricordato che sono stati dedicati tanti scritti e persino un film all’«eroe borghese» Giorgio Ambrosoli, l’avvocato milanese ucciso da un killer di mafia, ignorando, però, ch’egli non fu soltanto l’irreprensibile commissario liquidatore della banca Sindona: fu anche il legale amico del gruppo del Giornale, sempre presente al loro tavolo, coi suoi pareri e consigli giuridici, nei giorni lunghi e febbrili della fondazione.

Ma fino a che punto è lecito dire che un quotidiano è «borghese» o non «borghese», espressione o non espressione della «borghesia»? E poi quale «borghesia»? Di quale epoca, quale orientamento politico, o quale smarrimento ideologico? Credo che spesso si esageri nel voler tracciare un rapporto di stretta e meccanica interdipendenza tra un quotidiano d’informazione e un determinato ceto sociale. Certo, come abbiamo visto, possono esserci sbandamenti d’epoca, casi d’inquinamento sociologico temporaneo di un quotidiano tradizionalmente destinato alla vastità del pubblico e non asservito a una parte di esso. Il giornalismo vero, in regime di democrazia, deve o dovrebbe rappresentare un sistema di valori autonomi dagli interessi immanenti dell’editore o della categoria cui l’editore appartiene. Quando Montanelli, dopo il fallimento della Voce, si ricongiunse alla matrice del vecchio Corriere, lo fece più per censurare che per favorire il politico che fino al 1993 era stato suo rispettoso editore. Il diritto all’autonomia giornalistica prevalse una volta di più in lui, così come oggi prevale nell’equanimità e pluralità di voci del Corriere di Ferruccio de Bortoli, attaccato simultaneamente da Berlusconi borghese di destra e da Scalfari borghese di sinistra.
 
da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Gorbaciov e Kohl portano a teatro la storia del Muro
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2009, 09:34:31 am
6/11/2009 (7:19)  - REPORTAGE - VENT'ANNI DOPO

Gorbaciov e Kohl portano a teatro la storia del Muro

Un'immagine del 13 agosto 1961 mostra l'inizio della costruzione del Muro di Berlino, simbolo della Guerra Fredda e della divisione della Germania.

Fu demolito il 9 novembre 1989.
   
Berlino in festa per il grande show della memoria. I protagonisti del crollo ricordano la frenesia di quei giorni


ENZO BETTIZA
BERLINO

Mi ritrovo dopo anni in una Berlino frastornata dalla vigilia del 20° anniversario della caduta del Muro. La città sta rievocando in manifestazioni, nelle televisioni, nei giornali, il duplice mistero dell’inatteso crollo del 9 novembre 1989 e della fulminea riunificazione del 3 ottobre 1990 fra le due Germanie fino a quel giorno separate.

Tutto quel che vedo, rivedo, ascolto, che stento a riconoscere, che in certi momenti fatico perfino a capire e decifrare, mi comunica un senso di angoscia festosa e di surrealtà scenografica. La storia e la cronaca che due decenni orsono l'hanno impastata si confondono, in questi giorni d'attesa e di turbamenti oscuri, davanti agli occhi dello spettatore ipnotizzato e insieme quasi imbarazzato.

Per esempio, si è potuto assistere sabato, 31 ottobre, a un passo dall’austero Berliner Ensemble di Brecht, nel vecchio settore orientale della megalopoli ricongiunta, alla più strana delle recite allestita chissà perché in un frivolo teatro d'operetta e di cancan: circa duemila persone vi hanno ascoltato in religioso silenzio tre protagonisti di punta dell’Evento Ottantanove, un disinibito Michail Gorbaciov, un divertito George Bush senior, un ex cancelliere Helmut Kohl in sedia a rotelle, i quali, attori alacri di se stessi, hanno replicato parole e mimato gesti con cui 20 anni prima avevano o avrebbero preparato il terreno per l'abbattimento del Muro e l'integrazione tedesca. In disparte si poteva notare un'Angela Merkel muta, pensierosa, forse un po’seccata dall’eccessiva enfasi della rievocazione storica; all'epoca la futura cancelliera della Germania riunita era una giovane signora ignota che, nelle ore fatali in cui la Ddr stava evaporando, faceva la sauna in uno stabilimento dell’Est.

Non è cosa consueta assistere all'anniversario di una svolta epocale d'un secolo passato a nutrirsi ancora di cronaca per il tramite di ex protagonisti viventi e parlanti. Dà un certo brivido alla memoria rivedere in una sala pubblica, o in video, coloro che hanno sostenuto con fermezza il terremoto come Bush padre, che l'hanno subìto con rassegnato realismo come Gorbaciov, che l'hanno agguantato con scaltra prontezza come Kohl; oppure coloro che l'hanno ostacolato come Andreotti e la Thatcher; o infine coloro, come certi personaggi governativi di secondo piano di Berlino Est, che lo hanno involontariamente accelerato con errori d'interpretazione degli ordini superiori.

Nella ricorrenza della data, la stampa tedesca continua a farsi un esame di memoria, più che di coscienza, seguitando giorno dopo giorno a domandarsi: il Muro, nella sera del 9 novembre, cominciò a crollare per l'errore di comunicazione mediatica di un portavoce delle autorità comuniste, Günther Schwabowski, che nel corso di un'agitata conferenza stampa dichiarò forse prematuramente che i cittadini della Ddr potevano recarsi «da sùbito» all'estero: cioè a Berlino Ovest. O crollò invece per caso, o calcolo, o addirittura per un tacito accordo triangolare fra il segretario del Pcus Gorbaciov, il presidente americano Bush e il cancelliere tedesco Kohl?

Interrogarsi minuziosamente e senza requie sul proprio passato è una specialità analitica molto tedesca. L'ultima risposta che si fa strada fra tante domande è anche la più romantica e la più eroica: fu l'istinto insieme libertario e umiliato delle masse tedesche che, in quelle ore decisive, contò più della volontà politica di alcuni singoli capi di Stato. Tutte le grandi rivoluzioni sono germinate dal basso, dal popolo, trovando la loro saldatura esplosiva nel momento in cui i soldati e i poliziotti, anziché reprimere il sollevamento dei ribelli, si alleavano a questi. Così, hanno concluso diversi autorevoli rievocatori, è avvenuto nel 1989 anche nella Germania comunista e in particolare a Berlino. La strana rivoluzione passiva degli «Ossis», o tedeschi orientali, si è realizzata non tanto nello scontro di una minoranza agguerrita con il potere quanto, piuttosto, nella fuga in massa di un popolo intero da uno Stato totalitario. Un fenomeno, fino allora mai visto, di dissociazione massiccia, di disobbedienza civile, di fuggitivo sciopero generale di una quasi nazione nei confronti di uno Stato ormai considerato dai più oppressivo, artificiale e illegittimo. In estate, la grande fuga verso l'Austria attraverso l'Ungheria e la Cecoslovacchia; nel tardo autunno, dopo il «via» forse erroneo di Schwabowski, la valanga umana dei berlinesi a ridosso del Checkpoint Charlie. Un tempo per i Vopos, le guardie di frontiera comuniste, era doveroso e facile sparare su isolati fuggiaschi. Ma che dovevano o potevano fare una cinquantina o anche un centinaio di poliziotti esterrefatti al cospetto di quell'oceanico esodo biblico? Provocare, dopo la sanguinosa insurrezione del 1953, un altro massacro in una Berlino che si andava d'altronde sfaldando e desovietizzando sotto i loro occhi? Si saldava in quel momento, sul filo del rasoio di una carneficina evitata quasi per miracolo, una sorta di alleanza passiva tra i Vopos in stato di paralisi e un popolo in fuga. Uno scatto rivoluzionario alla rovescia, se vogliamo alla tedesca, ma pur sempre rivoluzionario. In questi giorni appare spesso sui teleschermi berlinesi la faccia bonaria di un pensionato che dice agli intervistatori e agli spettatori: «Potevo forse dare ai miei uomini tedeschi l'ordine di sparare contro tutti quei tedeschi? Certamente no». Il pensionato, che vive a Berlino occidentale, era a quel tempo un colonnello della Stasi da cui, nei pressi del leggendario checkpoint americano, oggi ridotto a malinconica attrazione folcloristica, dipendeva il più importante dispositivo di sicurezza intorno al Muro.

Dalla grandiosa capitale, sfiorata da raffiche di nevischio, urbanisticamente unita ma psicologicamente meno, mi dicono che spiri già da qualche tempo un'aria di struggente curiosità turistica. Nella mia vita, prima del Muro e subito dopo, ho visto e visitato molte Berlino, ogni volta una città nuova, ogni volta diversa. Mai però come in questo viaggio, dopo un'assenza prolungata, ho avuto l'impressione di ritrovarmi in una città irriconoscibile. Camminando non so più in quale settore delle due Berlino mi trovo. Se sto nei pressi della Porta di Brandeburgo so quel che devo fare. Devo alzare lo sguardo in alto, fino alla famosa quadriga verde muschio che ne sovrasta il colonnato; se ho i cavalli di fronte, vuol dire che sono nel settore Est; se li ho di coda significa che sono a Ovest. Ambedue i settori infliggono una sublime e arcana indigestione architettonica. Nei lenti anni di trasloco politico e amministrativo da Bonn a Berlino, è stata data mano libera, come in nessuna parte del mondo, alla più sfrenata fantasia creativa dei maggiori architetti internazionali, fra cui spiccano le firme di Renzo Piano, Helmut Jahn, Norman Foster, Richard Rogers, Arata Isozaki. Gli innesti, gli accostamenti, talora violenti, che rimbalzano dal trionfale edificio ocra prussiano ai più stupefacenti illusionismi ottici della Potsdamer Platz, suscitano in chi guarda sensazioni di ubiquità e di rincorse dal passato al futuro con effetti da vertigine atemporale. Immense gru arancione ruotano e incombono su terreni in costruzione perenne. Squarci da Disneyland costeggiano i grigi e luttuosi parallelepipedi del monumento alle vittime dell'Olocausto, mentre brandelli di muro, volutamente non abbattuto, esibiscono i graffiti più arditi e sfacciati, autentici affreschi pop a cielo aperto. Il lugubre, l'allegro, l'infantile si rimescolano ad ogni passo, e può capitare che, andando e girando, non sappiamo di aver appena calpestato la spianata che seppellisce il bunker di Hitler. Infine, quella che le insegne designano come la «Topografia dell'Orrore», cioè il perimetro che conteneva le sedi della Gestapo e delle SS, ultima ed estrema attrazione turistica di una metropoli in balìa delle sue contraddizioni storiche.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Gattopardi d'Europa
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2009, 11:32:34 am
19/12/2009

Gattopardi d'Europa
   
ENZO BETTIZA


Ha perfettamente ragione il presidente Napolitano quando dice, come ha detto due giorni fa, che l'Europa in quanto tale «è destinata all’irrilevanza e al declino se non riesce ad operare come soggetto unitario nello scenario internazionale». Egli certamente non si riferiva soltanto ai crampi di violenza che nelle ultime settimane hanno sconvolto l’Italia e la Grecia, matrici millenarie della civiltà europea e oggi traballanti pilastri mediterranei dell’Unione continentale. Si riferiva, indubbiamente, anche ai disordini di Copenhagen che hanno fatto da sfondo all’irrilevanza del «soggetto Europa» nella grande e confusa conferenza mondiale sul clima: conferenza gestita in maniera caotica dai padroni di casa e dominata, di fatto, dal dialogo sordo e rivale tra le due maggiori potenze inquinanti, America e Cina, che insieme producono il 50 percento delle emissioni planetarie. Si potrebbe dire che la minacciosa formula CO2 si sia quasi convertita in una sorta di disarmonico e tuttavia egemonico G2 tra Wahington e Pechino. Neppure l’intervento tanto atteso del Nobel Obama è riuscito a diradare il senso di fallimento, che gravava fin dall’inizio sul tumultuoso consesso, ma lo ha semmai accentuato.

Tante nobili parole e belle promesse in dollari ai Paesi più bisognosi d’aiuto, riuniti in una sorta di G77 dei poveri, demagogicamente appoggiato dalla Cina; sennonché gli impegni per ora verbali del presidente americano dovranno passare poi, chissà quando e come, al vaglio e all’approvazione del Congresso già messo a durissima prova dalla catena di crisi domestiche, automobili, banche, sanità, spese militari in Iraq e Afghanistan. All’Europa sono stati chiesti soltanto sacrifici, somme esorbitanti di euro e scadenze ecologiche quasi punitive. Ma nessuna delle sparpagliate proposte europee sul taglio alle emissioni, sul riequilibrio razionale mediante tecnologie pulite tra sviluppo e inquinamento, è stata presa molto sul serio: si è avuta la netta impressione che a Copenhagen l’Europa venisse presa in considerazione tutt’al più come un istituto di credito, non certo come una coesa e dirimente entità politica. La Russia s’è tenuta con prudenza in disparte, con un presidente incerto se rappresentare un Paese emergente o un impero decaduto. La passerella è stata confiscata, più che dalle parole, dall’immagine di Obama a tutto scapito del grigio Gordon Brown, dell’irrequieto Nicolas Sarkozy, dell’imbarazzata Angela Merkel che ha dovuto sobbarcarsi anche il ruolo di rappresentare l’assente Silvio Berlusconi. L’Europa, titubante su una grandiosa scena internazionale, dove non poteva presentarsi unita nella persona di un presidente ignoto come Herman Van Rompuy, è apparsa più che mai frantumata, ferita, poco attrezzata a misurarsi con le sfide della globalizzazione di cui, piaccia o non piaccia, lo scontro vero o verosimile con i gas da ipersviluppo è divenuto un simbolo onnipervasivo. Dietro il simbolo climatico si nasconde, in realtà, una competizione ai ferri corti che non ha molto a che vedere col clima, ma con l’esito da cui dipenderà in gran parte il comando dell’economia mondiale nel XXI secolo. L’America resiste per mantenere i ritmi del suo sviluppo industriale, la Cina per promuoverli a velocità travolgente; l’una e l’altra si guardano bene dall’aderire alle raccomandazioni di Kyoto, d’altronde già accantonate e considerate obsolete anche da chi le aveva controfirmate.

È l’Europa nel suo insieme a fare le spese del comprimario debole. L’impatto con l’assediato supersummit in Danimarca, in cui si sono visti tanti Amleti europei oscillanti tra l’essere e il non essere al rimorchio dell’America, che neppure li vede impegnata com’è a negoziare la pace fredda con la Cina, è stato il primo negativo banco di prova delle scadenti e invisibili promozioni ai vertici di rappresentanza dell’Unione Europea. La paralisi di fatto della conferenza sul clima mondiale ha coinciso con l’offuscamento dell’immagine internazionale dell’Europa, peraltro in crisi di piazza in Italia e sul ciglio della bancarotta nazionale in Grecia. Copenhagen ha aggiunto il resto. Poco prima che tutto ciò accadesse l’Economist, in un saggio mordente e quasi coincidente con il monito di Napolitano, ha paragonato il declino dell’Europa a quello sia pure minore e più remoto della Sicilia del Gattopardo: il famoso romanzo insegna che vivere nel declino può essere una scelta suggestiva. Non è poi così terribile essere un continente vecchio, pacifico e prospero. Però, non è da dimenticare che i rivali dell’Europa sono giovani e affamati. Saprà il vecchio continente resistere al fascino di una resa gentile?

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Obama, sogni e realtà
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2010, 05:02:13 pm
7/1/2010
 
Obama, sogni e realtà
 
ENZO BETTIZA
 
Con la fine dei cosiddetti «anni zero» il primo decennio del XXI secolo ci appare segnato in profondità, quasi dall’inizio alla fine, dall’incubo e timor panico scatenati dal terrorismo islamico principalmente in America e poi nel mondo che, in ampio senso storico, potremmo definire occidentale o cristiano. Ma vorrei circoscrivere il discorso ai fatti incalzanti che, dagli ultimi giorni di dicembre, irretiscono il governo e la società degli Stati Uniti.

La grande paura, che paralizzò l’America nel fatidico 11 settembre, spingendo l’amministrazione Bush alla guerra di ritorsione in Afghanistan e alla disastrata guerra preventiva in Iraq, è tornata a flagellare il Natale del 2009 provocando, all’incirca, lo stesso scenario di psicosi che seguì il tragico e riuscito attentato del 2001. Paralisi e blocchi degli aeroporti, fuorvianti allarmi bomba dalla East Coast e perfino dalla California, panico negli stati maggiori dell’amministrazione Obama, messa in cantiere di misure straordinarie di sicurezza e di controllo tecnologico, come i «full body scanners», mai adottati fino ad oggi. Le immagini arrivate da Newark, le riunioni d’emergenza nella Situation Room della Casa Bianca, il linguaggio eccezionalmente alterato e incupito del presidente, ci hanno trasmesso l’atmosfera di un Paese spaventato. Un Paese non si sa se in stato d’assedio o di guerra.

Per di più, non tanto sullo sfondo, il fantasma di un possibile coinvolgimento bellico nei deserti rocciosi dello Yemen, santuari inviolati di Al Qaeda, non più guidata dal guerrafondaio Bush ma minacciata addirittura da un Nobel per la pace. Nel frattempo, indicati dalle allusioni dello stesso Obama o dalle parole dei suoi consiglieri e ministri, la lista dei Paesi «in sospetto», i cui cittadini in volo per gli Usa verranno sottoposti a controlli rigidissmi, si è allungata dall’Iran al Sudan, dalla Siria allo Yemen, dal Pakistan alla Nigeria.
Tutte queste contromisure sono state inoltre appesantite, sul piano psicologico, dal fatto di essere state prese dopo un attentato virtuale, non consumato, che avrebbe potuto provocare la tragedia se il marchingegno distruttivo, nascosto negli indumenti intimi del mancato suicida nigeriano, fosse effettivamente esploso. Niente di lontanamente simile a quanto accadde con il crollo delle due torri di New York. Ma il temibile disvalore aggiunto, se vogliamo chiamarlo così, delle guerre asimmetriche escogitate dalla strategia nichilista di Al Qaeda, è che esse funzionano anche nei casi in cui materialmente falliscono: non producono strage, ma, rasentandola, provocano la ripetizione di una nevrosi di massa evocante stragi già patite e mai dimenticate. Nel recentissimo caso, come vediamo, non s’è ripetuta per fortuna sull’aereo in discesa sul suolo americano una replica minore dell’11 settembre; si è ripetuto, invece, un rilancio maggiore e più esteso delle difese immunitarie di una superpotenza che si sente in guerra con un nemico inafferrabile.

È iniziata così la giostra delle opinioni, fra coloro che approvano le misure più dure dell’amministrazione democratica e quelli che le disapprovano perché lesive dei diritti civili e, quindi, contrarie alle speranze suscitate dallo stesso Obama al principio del mandato presidenziale. Sia gli uni che gli altri hanno cominciato a domandarsi se già esista o non esista ancora, dopo un anno di politica estera ondivaga, piena di colpi alterni o simultanei al cerchio e alla botte, una credibile «dottrina Obama» in campo internazionale. Per molti, la prova del nove delle intenzioni del neopresidente avrebbe dovuto essere Guantanamo. Obama non ha soddisfatto né i sostenitori liberal, che ne aspettavano la chiusura definitiva, né tanto meno i critici conservatori che non hanno approvato le sporadiche liberazioni, con il contagocce, dei prigionieri qaedisti. Oramai Guantanamo, chiusa per due terzi e semiaperta per un terzo, resta una spina nel fianco della diplomazia ammiccante di Obama e quasi un simbolo tangibile delle incertezze della sua poco efficace politica estera. Quando egli afferma: «Colpiremo al Qaeda ovunque, ma anche svuoteremo Guantanamo», fa venire a mente, per modo di dire, la nota circonlocuzione veltroniana elevata all’ennesima potenza. Fatto è che ora, meno che mai, Obama sarà in grado di poter mantenere, entro la scadenza annunciata del 22 gennaio, la più diffusa e proclamata delle sue promesse: i qaedisti yemeniti, liberati dal carcere e rientrati in patria, si sono rimessi subito al servizio delle piazze d’armi terroristiche proliferanti in basi che sfuggono alla presa di un governo «filoamericano» nepotistico e corrotto. Gli stessi che forse hanno addestrato, senza molto profitto, il kamikaze in volo da Amsterdam a Detroit.

La verità è che la forza ostinata e insieme imprevedibile degli eventi, a cominciare dalle nevrosi che la guerra asimmetrica produce nelle nazioni più esposte all’odio dei fondamentalisti, sta imponendo a Obama una graduale revisione delle sue buone ma spesso semplicistiche opinioni sulla complessità del mondo contemporaneo. Egli non può essere più quello che avrebbe desiderato essere: un riformatore liberal della repubblica imperiale degli Stati Uniti. Ne è anche l’erede. Per ora una «dottrina Obama» non esiste. È in corso semmai, forzata dagli eventi, la ricerca da parte di Obama di un compromesso possibile tra sue idee originarie e le sue tremende responsabilità di curatore di una vulnerabile eredità imperiale.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA I due volti dell'Europa slava
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2010, 09:53:59 am
25/1/2010

I due volti dell'Europa slava
   
ENZO BETTIZA

Due Paesi chiave dell’Europa slava, Ucraina e Croazia, hanno cambiato volto attraverso un mutamento elettorale e politico svoltosi secondo incontestabili regole democratiche. Gli ucraini hanno di fatto destituito col voto il presidente Viktor Jushchenko, leader della deludente «rivoluzione arancione» del 2004, bocciato al primo turno con un magro 5,5 percento, lasciando in lizza per il ballottaggio del 7 febbraio due candidati assai noti: l’energica ex pasionaria dalla treccia bionda, Julia Timoshenko, attuale primo ministro, la quale rincorre con un sostanzioso 25 percento il capo dell’opposizione, Viktor Janukovic, appoggiato a suo tempo dal Cremlino, che ha raccolto un altissimo 35 percento nelle regioni dell’Est russe o russificate nella lingua, nella cultura e nella mentalità.

Il voto croato si è invece già concluso definitivamente il 10 gennaio, in un quadro di rinnovamento più lineare e meno drammatico di quello ucraino ancora in piena combustione. La terza presidenza della Croazia, dopo il nazionalista Franjo Tudjman e il moderato Stipe Mesic, è stata conquistata non a caso da un personaggio poco noto, del tutto sconosciuto all’estero, il giurista e compositore Ivo Josipovic che non aveva mai occupato una carica istituzionale di rilievo.

A Zagabria, al contrario che a Kiev, la grande novità non s’è palesata nello spessore carismatico dei contendenti, bensì nel significato squisitamente politico della contesa e del suo esito: è la socialdemocrazia, la sinistra europeista, rappresentata da un candidato laterale come Josipovic, quella che esce vincente dalla gara contro la storica e onnipervasiva Unione democratica croata (Hdz) fondata dal presidente soldato Tudjman e incarnata nella candidatura perdente del sindaco zagabrese Milan Bandic. Si spera che un simile cambio della guardia, anche emblematico, ai vertici dello Stato, potenzialmente il più ricco dei Balcani occidentali, ma ridotto in precarie condizioni da clan disonesti spesso collegati alle tresche della dominante Hdz, possa favorire e dare finalmente avvìo alle riforme di cui l’economia inceppata e la società frustrata della Croazia hanno urgente bisogno. Il traguardo europeo, dal quale tanti croati si sentono ingiustamente esclusi, dopo l’ingresso nell’Ue di Bucarest e di Sofia, si farà indubbiamente più vicino a Zagabria. Non solo. Ma più vicino, per la cosiddetta «legge del traino», anche a Belgrado, che cerca di uscire dall’isolamento dopo le guerre interjugoslave innescate dalla megalomania aggressiva di Milosevic.

È invece più problematico dire che cosa, in attesa del secondo turno, l’Ucraina possa sperare di ottenere dall’Europa e l’Europa dall’Ucraina. Qui, tutte le carte del gioco appaiono ribaltate, o addirittura sconvolte, rispetto a quelle esibite cinque anni fa dai vincitori «arancione» oggi duramente sconfitti come Yushenko o sorprendentemente modificati come la Timoshenko. Non solo la lotta condotta a colpi spietati, subito dopo la conquista del potere, dall’uno contro l’altra, cioé dal capo dello Stato contro il capo del governo, ha finito per dissolvere la coesione e distruggere la credibilità del gruppo dirigente antirusso, occidentalista e patriottico, emerso dalla rivoluzione morbida di Kiev. Non solo la corruzione è dilagata, non solo gli oligarchi del petrolio e dell’acciaio hanno alzato la voce e le pretese, non solo le casse dello Stato sono andate in malora svuotate da una spesa pubblica mirata ad alimentare nepotismi e favoritismi, non solo buona parte dei seggi parlamentari è stata svenduta al miglior offerente, non solo il Fondo monetario internazionale ha di colpo interrotto l’anno scorso i cospicui sussidi concessi a Kiev, in definitiva non solo la duplice nazione ucraina nel suo complesso, occidentalista o slavofila che fosse, si è trova sull’orlo della bancarotta all’inizio della campagna per la nomina del nuovo presidente.

Come se tutto ciò non bastasse, i due candidati rimasti sul campo, la Timoshenko ultranazionalista d’una volta e il Janukovich filorusso d’un tempo, hanno dato agli elettori confusi l’impressione di aver invertito le parti e scambiato le loro alleanze: lei non più avversaria ma interlocutrice di Putin, lui non più zimbello nelle mani di Putin ma interlocutore di influenti ambienti politici ed economici occidentali. Non si dimentichi la strategica posizione energetica dell’Ucraina tra Est e Ovest, l’enorme potenziale di mediazione petrolifera concentrato nelle pipelines che l’attraversano, e si capirà meglio perché la Russia putiniana cerchi oggi di favorire colei che, già chiamata «principessa del gas», molti sondaggi danno per vincente al prossimo ballottaggio. Si capirà altrettanto bene perché Janukovich, snobbato e quasi abbandonato dall’amico Putin, che nel 2004 gli stringeva la mano a Kiev, cerchi oggi di ricostituirsi agli occhi dell’Occidente una sorta di verginità neutrale e negoziabile. Ne vedremo di belle quando sapremo chi fra i due, ormai più concorrenti in affari che nemici in politica, sarà eletto presidente il 7 febbraio.

Scartata comunque non solo dai politici, ma dalla maggioranza degli ucraini, l’ipotesi di un ingresso nella Nato, resterà aperta la più commerciabile e più commestibile opzione europea. Dal suo canto Bruxelles non potrà ignorare che i futuri orientamenti dell’Ucraina, incapsulata con 46 milioni di abitanti fra l’Unione Europea e la Russia, eserciteranno una profonda influenza sul grande e irrequieto spazio postsovietico. L’associazione all’Europa della piccola Croazia di 6 milioni di abitanti, abituata da sempre agli usi e costumi europei, non oppressa né ricattata dalla Russia, sarà certamente più facile e scorrevole. Il nuovo uomo di Zagabria si sa come e dove guarderà. Non si sa invece chi sarà e dove guarderà il nuovo presidente di Kiev.

da lstampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Grecia un malanno balcanico
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2010, 10:05:14 am
8/2/2010

Grecia un malanno balcanico
   
ENZO BETTIZA

Finora la bancarotta greca è stata interpretata e spiegata soprattutto in termini economicistici, in chiave europeistica o europea, prescindendo dal quadro balcanico in cui la Grecia, con la sua turbolenta storia moderna, era e resta profondamente inserita almeno da un secolo e passa. Della sua doppia anima, occidentale e orientale, si è continuato in questi giorni a parlare della prima ignorando la seconda che, invece, è presentissima in una crisi assai più complessa del solo tracollo finanziario. Al tremendo deficit del Pil, che ormai sfiora il 13% e rischia di escludere Atene dai 16 dell’Eurozona, s’appaia già da tempo una tormenta d’ordine sociale, morale, psicoideologica mai vista in proporzioni così devastanti in altre nazioni dell’Ue.

La verità è che la Grecia è diventata non solo un Paese finanziariamente disastrato, ma anche truffaldino nei confronti della contabilità comunitaria oltreché aggressivo e violento con se stesso. Da una parte le falsificazioni ottimistiche su un deficit in fuga quadrupla dai parametri di Maastricht; dall’altra un’amministrazione pubblica clientelare, corrotta in profondità, tipicamente balcanica, che invece di sanare il disastro lo ha aggravato manipolandolo con statistiche alterate nell’interesse esclusivo della corporazione. A tutto ciò si aggiungono gli assegni scoperti per due miliardi di euro nella prima metà del 2009, le ininterrotte occupazioni di scuole, l’ondata di scioperi a catena nei settori dell’agricoltura, del terziario, della cantieristica, della sanità.

Infine lo scoppio di sommosse di studenti anarchici che, come si ricorderà, hanno messo a ferro e fuoco il cuore di Atene. Altri scontri durissimi tra manifestanti e agenti si sono verificati a Salonicco, Patrasso, Rodi, Creta, Ioannina. Ancora nel gennaio di quest’anno s’è visto uno schieramento di mille trattori bloccare, per tre settimane, in protesta ai tagli dei sussidi agricoli, strade e valichi di frontiera con Bulgaria e Turchia disertati dai doganieri anch’essi in sciopero.

Diversi osservatori, analizzando l’immane disagio che sta mettendo in ginocchio la Grecia e spingendola fuori dall’Europa, parlano già di una crisi talmente generalizzata da richiedere la «rifondazione dello Stato». Il morbo andrebbe, insomma, ben al di là dei buchi neri del Pil e del debito con l’estero per investire e intaccare alla radice la società greca nel suo insieme. Non ne escono bene, dal tutto, nemmeno le due storiche dinastie politiche dei Karamanlis (conservatori) e dei Papandreu (socialisti) che si sono alternati al potere democratico dopo la fine della dittatura dei colonnelli. Gli uni e gli altri hanno tollerato troppo a lungo nepotismi, corruttele, evasioni fiscali, sotterfugi e imbrogli con le casse comunitarie. Soltanto adesso, sotto la minaccia di una stringente sorveglianza contabile che la Commissione di Bruxelles inizierà il 16 marzo, l’ultimo dei Papandreu, odierno primo ministro, ha annunciato che la nazione potrà salvarsi dal baratro soltanto con una cura churchilliana di «lacrime e sudore». Speriamo non sia troppo tardi, rispetto alla gravità dei danni originari avviati già nei lontani Anni Ottanta, che videro la Grecia entrare nella Comunità europea, dalla finanza allegra di Papandreu padre definita «baldoria» dagli storici meno indulgenti.

L’alternativa che la crisi pone oggi a Bruxelles è drastica: trattenere la Grecia in Europa o restituirla ai Balcani? L’alternativa nonché drastica, e ovviamente costosa, è anche paradossale. I greci, all’epoca dell’ultima tragedia balcanica, davano l’impressione di gustare la vita su un’oasi occidentalizzata, pacifica e benestante ai margini dell’inferno jugoslavo. Grazie ai «fondi strutturali» elargiti dalla Comunità agli Stati più bisognosi, perdipiù grazie alle popolose stagioni turistiche che portavano denaro e benessere, essi certamente vivevano già al disopra dei loro mezzi; ma davano comunque l’impressione di vivere tranquilli in un Paese che stava uscendo, con risultati apprezzabili, dal sottosviluppo e dal brutto ricordo di una lunga guerra civile e di una nefasta tirannia militare. Il grande malato dei Balcani era allora l’ex Jugoslavia. Tuttavia, gli orrori che divampavano subito a ridosso del confine greco, in Macedonia, in Bosnia, in Croazia, alla fine nel Kosovo, sembravano distanti anni luce ai turisti che trascorrevano le vacanze sulle solari isole elleniche. Sembrava così agli stessi greci.

Poi, appena finite le crudeli e più visibili ostilità, che avevano decimato slavi e albanesi, tutti hanno cominciato a domandarsi quale santabarbara tornerà a scoppiare a breve termine dopo la «fragile» tregua imposta dai bombardamenti Nato alla Serbia. Domande rimaste non solo senza risposta, ma anche smentite dai fatti. Il Kosovo, proclamata l’indipendenza, non s’è trasformato in una nuova polveriera. Il Montenegro carezza l’idea di diventare con spiagge e casinò una Costa Azzurra adriatica. La Croazia, recente scoperta del turismo di massa, tesse la tela per associarsi all’Unione Europea. Sarajevo, cessati da tempo i massacri in Bosnia-Erzegovina, è rinata poco per volta. I governanti serbi, dimenticato Milosevic e sbarazzatisi di Karadzic, si apprestano a seguire i cugini croati sulla via che porta a Bruxelles. La Slovenia, prima della classe fra le nazioni postcomuniste entrate in Europa, è stata già accolta nell’Eurozona ed ha già esercitato una presidenza semestrale dell’Ue. La tregua, in altre parole, è diventata pace e speranza, a dispetto dei gufi che tra Bosnia e Kosovo vedevano fino a ieri solo bombe ad orologeria.

Nessuno invece intravedeva il pericolo nella lussuosa punta meridionale dei Balcani. Quasi nessuno, insomma, se l’aspettava che la Grecia comunitaria, proprio la Grecia, largamente beneficata dall’Europa fin dal 1981, sarebbe diventata oggi la grande malata della penisola balcanica.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Per Obama il Tibet può aspettare
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2010, 11:09:58 am
20/2/2010

Per Obama il Tibet può aspettare
   
ENZO BETTIZA

Una lettura più attenta dell’incontro tra il presidente Obama e il Dalai Lama ci rivela in controluce, come una cartina al tornasole, quanto mutati siano oggi i rapporti di forza tra Stati Uniti e Cina e, in senso lato, tra un Occidente in crisi e un Oriente dominato dall’espansione economica e politica cinese.

Da quando Pechino ha conquistato lo status di seconda superpotenza mondiale, il leader spirituale del Tibet, con le sue visite che propalano più imbarazzo diplomatico che gaudio politico, viene ormai percepito dalla maggioranza dei governi occidentali come una carismatica mina vagante. Quasi nessuno osa respingerla, ma tutti, per non irritare gli irritabilissimi cinesi, trattano la prestigiosa mina sublimata dal Nobel in punta di dita, blandendola con cauti sorrisi e vaghe promesse di sostegno ai diritti civili e alla libertà religiosa e culturale del popolo tibetano. Più in là non ci si spinge. La questione politica più spinosa, l’autonomia del Tibet, quella che sta più a cuore al Dalai Lama, non viene mai affrontata di petto. Anzi, quasi tutti gli ospiti occidentali, improvvisandosi artificieri delicati e solerti, s’affrettano a disinnescare e concludere la visita esplosiva, che raramente dura più di tre quarti d’ora, con un auspicio sedativo: l’impegno dei tibetani buddisti, osservanti della non violenza, alla «ricerca del dialogo costruttivo con il governo della Repubblica popolare cinese».

E’ questo il copione da disinnesco che il Nobel della Casa Bianca, nel suo colloquio riservatissimo con il Nobel del Tibet, ha seguito accompagnandolo con una circospezione simbolica che è andata ben al di là di quelle riservate, fin dal 1991, al Dalai Lama dai precedenti capi di Stato americani. Il presidente Bush, per esempio, pur non ricevendolo ufficialmente nello Studio Ovale, era stato però presente nel 2007 alla solenne cerimonia della consegna al capo religioso tibetano della Medaglia del Congresso. Obama invece ha voluto dare all’incontro l’aspetto di una visita blindata. Il rituale simbolico, al cui formalismo i governanti cinesi sono sensibilissimi, è stato tenuto al minimo indispensabile. Niente riflettori, telecamere, giornalisti. L’evento, se così lo si può chiamare, si è svolto pudicamente dietro le porte chiuse di una saletta periferica della Casa Bianca. In pasto al pubblico è stata data soltanto una fotografia in cui si vedeva il primo monaco del Tibet, avvolto nella sua tonaca rossiccia di fronte al presidente americano, con una tazza di tè e un magro biscotto sotto gli occhi titubanti. Lo si è visto poi sbucare da un’uscita di sicurezza e sfiorare sorridente, con i sandali penitenziali, cumuli di rifiuti impacchettati in cerata nera.

Per placare l’animosità dei cinesi, che considerano il pontefice in esilio del Tibet «un lupo travestito da monaco», Obama non poteva fare di più. Il solo passo più grave, che l’America non gli avrebbe perdonato, era di non ricevere l’imbarazzante visitatore, smentendo totalmente le ardite e promettenti opinioni sulla libertà autonomistica del Tibet declamate in campagna elettorale. Blindando l’incontro e sminuendone così l’impatto politico il presidente ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte: da un lato ha inteso non alienarsi del tutto le simpatie in calo dei sostenitori liberal, che già lo accusano di eccessiva tiepidezza nella difesa dei diritti civili da Guantanamo al Tibet, dall’altro ha offerto alla Cina la visione di un incontro assai più cauto e perfino più avaro del previsto.

Naturalmente i signori di Pechino, per i quali ogni contatto con il vispo Dalai Lama è assimilato ad un atto d’ingerenza indebita negli affari cinesi, hanno seguitato in questi giorni a minacciare a vuoto il governo americano indebitato fino al collo con la Cina. Il ministero degli Esteri ha convocato l’ambasciatore statunitense ostentando indignazione e stupore, e parlando di «grossolana violazione delle norme che regolano i buoni e corretti rapporti internazionali». Ma, se si leggono con una certa attenzione le cronache da Pechino e da Washington, non si può sfuggire al dubbio o, meglio, al sospetto che, sotto sotto, ci sia stata fra le due capitali un’intesa diplomatica volta a ridurre al minimo il danno d’immagine inflitto alla Cina dalla stretta di mano fra il presidente americano e il «pericoloso secessionista» Dalai Lama. Si direbbe quasi che la strana sceneggiatura dell’incontro, così schivo, così chiuso al pubblico, così parco nelle dichiarazioni ufficiali, sia stata concepita e scritta non soltanto da mani americane. Come valutare, a proposito, la vistosa ospitalità concessa dalle autorità cinesi, un giorno prima dell’incontro incriminato, all’approdo a Hong Kong della portaerei Nimitz, considerata oggi tra le più grandi del mondo?

Tutto questo potrebbe autorizzarci a pensare che Obama, nei suoi difficili e altalenanti rapporti con la Cina, si stia sottoponendo a una severa dieta a base di Realpolitik. Certo è che governare è più duro e più complicato che promettere cose che, governando, non si possono mantenere. Il G2, con i suoi chiaroscuri tra Washington e Pechino, si dimostra più faticoso del G8 ormai accantonato se non superato. Con la Cina, in pieno dinamismo di potenza, l’America si vede costretta a trattare e negoziare al più presto, ad ogni passo, rischi e pericoli: la paralizzante dipendenza finanziaria, la bassa quota dello yuan che ne favorisce le esportazioni selvagge, Taiwan che chiede armi perché si sente minacciata, il veto al Consiglio di Sicurezza da cui dipende in buona parte l’enigma nucleare dell’Iran. Bastano questi pochi accenni per evidenziare quanto conflittuale è e sarà la diarchia globale prefigurata nella cifra semplificatrice G2. Il Tibet può aspettare. Se è una spina nel fianco imperiale della Cina, è una goccia nei marosi che assediano l’America.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Ma non sarà un bis francese
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2010, 11:02:30 am
25/3/2010

Ma non sarà un bis francese
   
ENZO BETTIZA

Dalla Francia all’Italia non s’era ancora vista un’iperbole del genere. Era noto il tradizionale disinteresse giacobino dei francesi per il frazionamento e quindi per il voto regionalistico. Altrettanto nota la predisposizione degli italiani a considerare il voto regionale una specie di «optional», politicamente poco impegnativo, con cui, a prescindere dal partito del cuore, si poteva gratificare anche
l’avversario.

Avversario capace di gestire correttamente il bene provinciale: l’amministrazione dei municipi, la sanità, l’assistenza, il turismo, il tasso d’occupazione. L’Emilia perennemente rossa, ma benestante, era stata il prototipo di un voto trasversale che badava più ai fatti che all’ideologia. La storica tiepidezza in Francia, la calcolata neutralità in Italia, davano alle elezioni regionali in entrambi i paesi un diffuso timbro apolitico.

Questa volta invece, di qua e di là dalle Alpi, la gara per la conquista delle regioni ha assunto il carattere iperbolico di un’ordalìa plebiscitaria, a fortissima carica ideologica, pro o contro il leader carismatico al potere. Sarkozy è stato già condannato, in Francia, alla sconfitta se non alla disfatta, che ne mette ormai a rischio il ritorno all’Eliseo nel 2012. Non sappiamo né pretendiamo di anticipare, in termini numerici, quello che potrà accadere con Berlusconi tra domenica e lunedì. Possiamo tutt’al più ritenere che il premier italiano resisterà meglio del presidente francese all’urto plebiscitario; il pericolo vero per lui è la vittoria apparente, una vittoria di Pirro insidiata, più che dagli oppositori frontali, da alleati ambiziosi come Fini o ambigui come Bossi. Qui non sono più in gioco le Regioni. È in gioco, per così dire, il carapace biologico del Cavaliere in un referendum estremamente centrato, anche per volontà sua, sull’immagine personale, che non ha più nulla a che vedere con le finalità e i limiti gestionali di una consueta competizione provinciale.

Fino a che punto il risultato elettorale francese potrà riverberarsi su quello italiano? Non vedo, al di là della comune spinta referendaria, altre similitudini più concrete o probabili. L’affermazione delle tre sinistre parigine, in particolare quella socialista guidata da Martine Aubry, non credo riuscirà a influire in maniera diretta sul Pd, i cui tentativi di rilancio seguono logiche nazionali diverse dalle francesi. In Italia, dove da 20 anni s’ingorgano su se stessi sempre i medesimi vortici istituzionali, tutto appare oggi fermo e problematico sia per Berlusconi sia per Bersani. Per quanto stonata, la composizione del centrodestra italiano, grazie alla tenuta della Lega, unico partito autentico rimasto sulla scena, non potrà subire, in termini di percentuale, un tracollo paragonabile a quello subito in Francia dall’isolato e mutante Ump post-gollista: ovvero, dal fallimentare superattivismo di Sarkozy. Dire che lo hanno battuto i socialisti, riemersi dall’orrido 16% delle Europee, mi pare comunque esagerato se teniamo conto che metà dell’elettorato non è andata alle urne. La «sinistra solidale», non più «plurale», ha incassato una vittoria vistosa ma sostanzialmente passiva, dovuta in buona parte all’ondata astensionista e in parte alla riscossa anti-sarkozyana della destra estrema dei Le Pen (padre e figlia) che insieme hanno confiscato il 17%. In un’Italia generalmente parca con l’astensionismo, un esito del genere sarebbe difficilmente immaginabile.

Colpisce piuttosto, considerando in senso lato il quadro europeo, il più incredibile dei paradossi che oggi, anziché assimilare, distingue gli italiani dai francesi. L’Italia, sgovernata, sta assurdamente meglio nella sua rissosa impotenza della Francia fino a ieri supergovernata. Lo dicono dati e statistiche che hanno qualcosa di stravagante e quasi di misterioso. Il deficit di cassa francese in Europa sopravanza l’italiano, il tedesco e l’inglese. Il debito, per abitante, è superiore in Francia che nella Grecia sull’orlo del baratro. La disoccupazione, a livelli altissimi, sta creando una massa di poveri e disadattati che potrebbe provocare nuovi e indomabili incendi nelle banlieue multietniche. Si può capire che una situazione così esplosiva abbia finito con l’infliggere, di per sé, il disco rosso al Sarkozy demiurgo della «grande rottura» promessa nel 2007 e poi dimenticata negli anni successivi. Si capisce la durissima tendenza di un André Glucksmann che gli aveva dato il voto per l’Eliseo: «Il presidente non sa più cosa sta facendo, non sa più cosa fare, non sa più chi è».

Non si sa più, in definitiva, cosa sia peggio o meglio: sgovernare cronicamente o pretendere di governare troppo. Per carità di patria, una volta assodato ciò che in questi giorni avvicina l’Italia ai francesi e ciò che la separa da essi, sarà bene non spingerci più in là con i paragoni e con le previsioni.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Putin-Medvedev ha due teste l'enigma russo
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2010, 11:03:02 am
6/4/2010

Putin-Medvedev ha due teste l'enigma russo

ENZO BETTIZA

Alberto Ronchey aveva dedicato uno dei suoi ultimi editoriali sul Corriere della Sera al grande enigma del grandissimo Bicontinente che egli aveva amato e scavato, con pari intensità e competenza insuperata, durante una vita di viaggi e di studi in cui la «questione russa» occupava un posto d’onore. L’enigma in questione era ed è l'ambiguo contesto diarchico che la Russia, postsovietica da due decenni, esibisce al vertice del potere nelle persone di Vladimir Putin e Dmitri Medvedev.

Ronchey, sottilmente e cautamente, metteva a confronto i momenti in cui il liberaleggiante capo dello Stato, Medvedev, diceva una cosa con i momenti in cui l’autoritario capo del governo, Putin, ne diceva invece un’altra e contraria. Metteva altresì in evidenza i passaggi, più rari, in cui l’uno e l’altro sembravano dire la stessa cosa. La lunga esperienza del mondo aveva insegnato a Ronchey a diffidare dei giudizi perentori e definitivi. Egli chiudeva il suo articolo, misurato su osservazioni e dati millimetricamente esatti, con due domande implicite ma allusive. La diarchia, che guida la Federazione russa, è armoniosa nella strategia di fondo e disarmonica nella calcolata apparenza tattica? Oppure, col passare del tempo, con l’addensarsi dei problemi, la diarchia in quanto tale, sebbene programmata e varata da Putin, sarà comunque destinata a farsi per forza conflittuale? Insomma: le mosse divergenti e per ora indecifrabili dei due personaggi sono studiate a tavolino, o piuttosto sintomi di un dissidio fisiologico sempre meno latente?

La rincorsa dei fatti accaduti dalla fine di marzo ai giorni pre-pasquali (attentato nella metropolitana di Mosca, accordo telefonico tra Medvedev e Obama sul disarmo nucleare, incontro a Caracas tra Putin e Hugo Chávez) torna a metterci di colpo, sotto gli occhi, una sequela di contraddizioni «diarchiche» cui non è possibile dare un’interpretazione immediata e convincente. Più che spiegare i fatti, dovremo contentarci, per adesso, di analizzarne in breve i contrasti. Cosa prevede il clamoroso accordo concluso per telefono dai presidenti russo e americano? Essi, o chi per loro, dovranno firmare a Praga, l'8 aprile, un rinnovo del trattato Start sulla riduzione reciproca delle testate nucleari, portandole al limite di 1550 per gli arsenali tanto di Mosca quanto di Washington. Ma la vera sostanza politica, più che strategica, del nuovo compromesso tra le due superpotenze, dovrà o dovrebbe contenere un chiaro monito contro la proliferazione atomica che oggi ha il suo più allarmante trasgressore nell’Iran. Se l’uranio arricchito darà la bomba a Teheran sarà ben difficile arrestare l’ondata del nucleare bellico in tanti Paesi, non solo islamici, che ambiscono a impossessarsene. Medvedev dovrà o dovrebbe essere il garante russo dell’antiproliferazione garantita a sua volta, sul versante americano, da Obama.

Ma ecco la sorpresa che ha dell’inverosimile. Non molti giorni dopo l'attentato terroristico di Mosca, e pochissimi giorni prima della firma sul disarmo a Praga, vediamo il primo ministro Putin fare una mossa antiamericana in netto contrasto, per non dire netto disaccordo, con il clima di distensione favorito dal presidente Medvedev nei confronti dell’America mediante l'intesa telefonica con Obama. Putin approda come uno zio miliardario nella bollente capitale del dittatore Chávez. Qui stipula una trentina d’accordi privilegiati. Fonda una joint venture petrolifera, che assicurerà almeno sulla carta al Venezuela il 60 per cento degli utili ricavati, con l’aiuto di Gazprom e affini, dalla produzione di 450 mila barili giornalieri di greggio provenienti dal ricchissimo bacino dell’Orinoco. Se Chávez, unico capo di Stato al fianco di Mosca nel 2008 contro la Georgia, sembra aspirare alla successione ideologica ed emblematica di Castro, il suo amico Putin dà in questi giorni l’impressione di ripercorre le orme filocastriste di Kruscev nel temibile 1962. La frase più sintomatica, che non si ritrova nei documenti ufficiali, l’ha pronunciata Chávez nella conferenza stampa celebrativa dell'incontro: «Non faremo la bomba atomica, ma svilupperemo con l’ausilio di Mosca l’energia nucleare per fini pacifici». Parole che paiono tratte dal lessico capovolto del presidente iraniano Ahmadinejad, sodale antiamericano di Chávez, dove il «non faremo» e i «fini pacifici» significano l'esatto opposto. Così, via Chávez, Putin si congiunge incomprensibilmente, dopo l'attentato di Mosca, perfino ad Ahmadinejad prossimo alla bomba e non certo ostile ai martiri di matrice islamista.

Da che parte sta intanto Medvedev? E’ una colomba di carta oppure una tigre occulta anche lui? A questo punto, ammesso che Putin lo lasci andare a Praga, come potrà spiegare o giustificare i ribaltoni della politica russa al cospetto del candido e utopico Barack Obama?

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA La maledizione di Katyn
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2010, 11:17:00 am
11/4/2010

La maledizione di Katyn

ENZO BETTIZA

Secondo Lech Walesa questa tragedia equivale a una «seconda Katyn», una «seconda decapitazione», un «secondo annientamento delle élite polacche». Si potrebbe anche aggiungere che equivalga all’ennesima maledizione che l’antica e nobile nazione slava ha continuato a subire fin dal 1772, l’anno della prima spartizione fra Russia, Prussia e Austria. I tentativi, compiuti dai potenti vicini, di eliminare la Polonia dalla faccia dell’Europa sono stati permanenti e spesso atroci per oltre due secoli. La verità sull’eccidio perpetrato dai russi nel 1940, di cui le fosche foreste di Katyn sono diventate il simbolo estremo, è riemersa in un’eco esponenziale da un ambiguo silenzio attraverso il cortocircuito tra due fatti accaduti, questa settimana, l’uno dopo l’altro.

Giovedì: l’incontro clamoroso a Katyn fra il primo ministro Putin e quello polacco Tusk, in cui abbiamo visto l’erede dei carnefici e l’erede delle vittime rendere omaggio, insieme, alla memoria di ventiduemila polacchi trucidati soltanto perché polacchi. Sabato: il funesto disastro aereo che nei pressi di Katyn uccide il presidente polacco, Lech Kaczynski, insieme con la moglie e un seguito di 94 personaggi di forte rilievo, ministri, economisti, militari, prelati, figli e nipoti delle vittime. Insomma il bulbo o quasi dell’attuale classe dirigente di Varsavia. Ha detto il fondatore di Solidarnosc ed ex presidente Walesa: «Una pesante perdita per la nazione: è morta ancora una volta la sua élite». Ed è morta fatalmente, come in un magico paradigma d’eterno ritorno, nella stessa provincia russa in cui fu sterminata la prima.

Non a caso a Varsavia, a prescindere dal giudizio ideologico sui deceduti, l’impatto della sciagura sta provocando sulle masse una commozione viscerale profonda, da catastrofe nazionale, con assembramenti carichi di tensione psicologica attonita e nervosa. Appaiono qua e là cartelli segnati da un paragone disperato: «Katyn 1940 - Katyn 2010». Se dalle due tragedie polacche, dalla passata e dalla presente, si può trarre una qualche consolazione, essa soprattutto risiede nel fatto che il nome e la verità di Katin, di cui le ultime generazioni europee non sapevano nulla, stanno facendo in queste ore il giro del mondo. Su uno dei più malefici crimini del Grande Terrore dell’era staliniana, negato e mistificato per mezzo secolo dai russi, addossato alle truppe tedesche, rimosso ostinatamente dalle sinistre europee, il mondo e in particolare i giovani ignari non possono più chiudere gli occhi.

Fino alla caduta del comunismo, i sovietici avevano tentato di confondere le carte asserendo che il massacro era stato consumato dai nazisti in una località bielorussa chiamata Hatyn pressoché omonima di Katyn. No. Adesso, più che mai, anche quelli che non volevano sapere sanno che di Katyn ce n’è una sola. Su un piano strettamente politico, meno fatalistico ed emotivo, restano però in piedi alcune domande cui non si può fare a meno di tentare una prima risposta. Perché mai, per la commemorazione in territorio russo di un evento così grave, coinvolgente la memoria collettiva di un popolo perseguitato dalla storia, è stata presa a Varsavia la strana decisione di inviare sul luogo due separate delegazioni ufficiali e non una sola? Perché, in una circostanza storica così incisiva e dolente per la Polonia, il capo dello Stato e il capo del governo, con i rispettivi seguiti, non sono partiti insieme alla volta di Smolensk e di Katyn? Oppure, perché si sono incontrati per primi i capi dei due esecutivi, Tusk e Putin, e non i due presidenti Kaczynski e Medvedev? Le risposte che si possono dare sono multiple e tutt’altro che semplici.

Anzitutto, chi era il defunto Kaczynski? A suo tempo sindaco popolare di Varsavia, anticomunista di ferro, filoamericano profondamente ostile ai russi, gemello dell’ex primo ministro Jaroslaw, leader del partito populista di destra Diritto e Giustizia, egli non amava né il conservatore pragmatico Tusk né tanto meno il gelido «uomo della forza» Putin. Essi, a loro volta, non lo amavano per niente. La Piattaforma Civica di Donald Tusk, movimento di destra moderata, era, è e sarà nelle prossime anticipate elezioni presidenziali il principale rivale del partito estremista di Jaroslaw Kaczynski. È possibile che questi, assomigliando fra l’altro come un clone da laboratorio al defunto gemello, ponga la propria candidatura di successore biologico nonché ideologico alla suprema carica. Si sa, d’altronde, che alla destra più nazionalista non è mai andato a genio il pragmatismo con cui Tusk persegue una normalizzazione realistica nei rapporti con la Russia; molti, forse lo stesso presidente perito nel disastro, ne hanno criticato il cauto comportamento di giovedì a Katyn, al fianco di un Putin che non chiedeva perdono alla Polonia e metteva sullo stesso piano le vittime polacche e russe di Stalin.

Si sa anche che i russi, in particolare Putin che non desiderava incontrare Lech Kaczynski, avevano posto diversi ostacoli diplomatici alla sua richiesta di recarsi a Katyn, in quanto capo di Stato polacco. Alla fine avrebbero dato l’assenso a una visita separata e posteriore a quella del premier Tusk. Per fatalità il ritardo, causando la decimazione dell’establishment al potere in Polonia, ha sùbito rievocato fra i polacchi lo spettro quasi di un secondo genocidio d’élite. Putin ha fiutato i rischi, anche internazionali, di una situazione incandescente, ed è per questo probabilmente che ha voluto assumere la guida in persona della commissione d’inchiesta sulla sciagura. Cercherà ora di coronare il ruolo e l’immagine del pompiere rincontrando, sempre a Smolensk, l’omologo Tusk.

da lastampa.it


Titolo: E Bettiza confessò: voto Lega L’eredità asburgica è sua (sarà la senilità?).
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2010, 11:34:38 am
Il personaggio - «Considerati a lungo dei buzzurri, ora sono un partito serio»

Lo scrittore: Bossi ha un grandissimo fiuto politico, il suo carisma si è molto rafforzato dopo la malattia

E Bettiza confessò: voto Lega L’eredità asburgica è sua


«Se sogno la mia balia Mare, sogno in serbocroato. Se sogno le Poljakove, madre e figlia, che mi ospitarono a Mosca quando Giulio De Benedetti mi licenziò dalla Stampa e mi tolse casa, sogno in russo. Se sogno Simone Veil, cui fui molto vicino all’Europarlamento, sogno in francese. Ma se sogno mio padre, sogno in dialetto veneto».

Enzo Bettiza ricorre a una metafora onirica per confidare al Corriere una cosa che non aveva mai detto: il giornalista più raffinato d’Italia, lo scrittore mitteleuropeo, vota Lega. La Lega di Bossi, con il Carroccio, Alberto da Giussano, lo spadone e tutto. «Ma Pontida è un mito immaginario, come i druidi, i celti e le bevute dell’acqua del Po. La Lega non è figlia della battaglia di Legnano, condotta dai lombardi contro un imperatore germanico. Al contrario: la Lega discende dal Lombardo-Veneto asburgico. Gli antenati di Bossi sono Maria Teresa, Giuseppe II, il lato umano di Radetzky. Il suo antecedente è la buona amministrazione austriaca».

«So che la Lega è stata considerata a lungo buzzurra e folkloristica. E in parte lo era, per necessità politica, per distanziarsi in maniera popolaresca e dialettale dal Sud, per marcare un’identità culturale e antropologica che, spinta all’iperbole, diventava differenziazione etnica. Ma eravamo ai primordi: Roma ladrona, la secessione, il separatismo. Una strada percorsa da altri gruppi regionali in Europa: baschi, catalani, irlandesi, prima ancora i sudtirolesi e anche i bavaresi, che si ritengono uno Stato nello Stato, come il Texas negli Usa. È in questa fase rozza, romantica, pittoresca che la Lega si balocca con riti inventati, zodiacali. Ora la Lega è un partito serio, solidificato. La sua grande forza è la correttezza amministrativa, la cura del Rathaus, il Comune. Detesto la parola "territorio", mi fa venire in mente la mafia. Non esistono partiti territoriali né partiti cosmici. Ora la Lega si insedia a Bologna, penetra negli Appennini, schiera in Toscana un’avanguardia che evoca il Granducato. È un partito nazionale, costruito su grandi temi come l’immigrazione e la difesa delle tasse lombarde, venete, piemontesi. Non a caso i duemigliori ministri sono Maroni, uomo della Lega, e Tremonti, che alla Lega è molto vicino. E presto nascerà anche la Lega del Sud».

Dice Bettiza di non essere spaventato dal rischio di una disgregazione del paese. «L’Italia era abituata a essere divisa. Una splendida divisione, da cui viene la sua grandezza. Ducati, comuni, persino un impero: Venezia era la Gran Bretagna del Mediterraneo. Se Mantova non fosse stata una capitale non avremmo Mantegna e la Camera degli Sposi, se non lo fosse stata Ferrara non ci sarebbe il Palazzo dei Diamanti».

«Il carisma di Bossi, sempre esistito per il suo popolo, si è molto rafforzato dopo la malattia. Ha assunto una ruvidezza un po’ immobile e statuaria, una loquela condensata e tagliata che fa delle sue apparizioni in pubblico un’icona popolare (Bettiza dice ìcona, con l’accento sulla “i”, alla greca). Non farà il sindaco di Milano, perché non ha la salute né l’interesse a sobbarcarsi il lavoro e le arrabbiature di un sindaco. Il piccolo de Gaulle popolaresco padano che diventa podestà: no, non lo vedo. Bossi ha un grandissimo fiuto politico. Sa bene dove va il boccino e fin dove lo può spingere. Non è certo lui che aizza Berlusconi, anzi, quando lui esagera con la sua attitudine megalomanica è Bossi a tirarlo per la manica, a esercitare una pressione sedativa. È evidente che il dopo- Cavaliere è la Lega».

Come finirà Berlusconi? «Berlusconi durerà. Non so se realizzerà il sogno di salire al Quirinale eletto dal popolo. Ma durerà, perché non c’è nessuno nel partito pronto a sostituirlo. Non vedo elezioni anticipate: tutti hanno paura, molti anche di perdere l’indennità. Non vedo grandi prospettive neppure per Fini, uomo di partito rimasto senza partito: resterà nel Pdl solo perché non ne ha un altro. Al centro non nascerà il "partito della nazione", ma un partitino cattolico con Casini, Rutelli e Pisanu, satellite ora del Pdl, in futuro della Lega che tanto contesta». E la sinistra? «Il vero leader, D’Alema, è offuscato. Vendola è fenomeno folkloristico e provinciale. Bersani mi pare all’ultimo giro. Rappresenta lo stadio finale del comunismo emiliano; e, come nota da vecchio animale comunista Giuliano Ferrara, nel Pci mai si sarebbero sognati di affidare la leadership agli emiliani. Bravi sindaci, generosi cassieri; ma i capi del Pci dovevano essere nati nel Regno di Sardegna, o nelle grandi famiglie liberali napoletane. La sinistra paga l’errore mortale di aver dato la caccia a un grande uomo di sinistra come Bettino Craxi. Berlusconi è la nemesi storica di Craxi». Che cos’hanno in comune? «Entrambi hanno fatto crescere alla loro ombra molti uomini da nulla, che a Craxi sono stati fatali. Berlusconi si è salvato perché ha armi che Craxi non aveva. Ha impresso una svolta storica a un’Italia terrorizzata da Mani Pulite; ma l’ha impressa con metodi stravaganti per un paese sottilmente articolato sul piano politico. Il suo carisma sta nel suo stile depoliticizzato: è quel che piace alla gente, ma è anche il suo limite. Le élites lo detestano, i radical-chic vedono in lui un radical-kitsch; ma è proprio per il kitsch, per il suo coté brianzolo, che l’Italia del week-end fuori porta si riconosce in lui».

Bettiza ha una vicenda in comune con Berlusconi, che nel dicembre 1996 gli offrì la direzione del Giornale: rifiutata. Perché? «Ho conosciuto Berlusconi negli anni in cui salvò il Giornale abbandonato da Cefis e da Petrilli. Aveva un’adorazione speciale per Montanelli e molta simpatia per me, una volta in tv raccontò di indossare un impermeabile copiato dai miei. Come uomo d’affari era di un dinamismo eccezionale, e non individuava mai con chiarezza i limiti tra dire il vero e il non vero: come adesso, quando dice che venderà il Giornale, mentre non ci pensa neppure. Quando mi offrì la direzione, per prima cosa mi consultai con Montanelli: avevamo appena fatto la pace dopo che non ci eravamo parlati per tredici anni, non volevo perderlo di nuovo. Indro mi consigliò di accettare. Con Berlusconi ne parlammo in una cena ad Arcore. C’erano Letta, Confalonieri, Massari che era l’amministratore, Biazzi Vergani e Belpietro, che avrebbe dovuto essere il mio condirettore o vicedirettore, a garanzia del lato popolaresco e digrignante: dopo l’innegabile successo della direzione Feltri, c’era il timore che io facessi un giornale troppo elitario. Proposi di far scrivere il primo fondo a Montanelli. Letta disse subito di sì.
Berlusconi rimase in silenzio, ma il suo istinto di venditore ambulante lo induceva ad accettare, per pure ragioni pubblicitarie. Tutti gli altri si opposero».

«Il giorno dopo ci vedemmo a pranzo con Belpietro da Savini. Gli esposi il mio programma, a cominciare dal ritorno di Francesco Damato e di François Fejto, che aveva portato al Giornale l’intellighentsia liberale parigina: Aron, Ionesco, Morin, Furet. Belpietro mi interruppe, spiegandomi che lui non sarebbe stato il mio vice ma direttore come me, sia pure non responsabile. A me le querele, a lui il potere, per conto di Berlusconi. Ovviamente, rinunciai. Il Cavaliere telefonò per rilanciare; e offriva davvero un sacco di soldi. Ma con Montanelli e Piovene avevo cofondato il Giornale nell’alveo del Mondo di Pannunzio e di Tempo presente di Chiaromonte. Non avrei mai potuto fare un foglio sotto padrone».

Aldo Cazzullo
26 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it


Titolo: ENZO BETTIZA La Turchia più lontana dall'Europa
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2010, 04:38:58 pm
2/6/2010

La Turchia più lontana dall'Europa
   
ENZO BETTIZA

Non v’è dubbio che la flottiglia che puntava su Gaza era qualcosa di più d’una semplice spedizione destinata a portare soccorso umanitario ai civili palestinesi che vivono, in condizioni spesso disperate, nella soffocante striscia invasa e colpita dagli israeliani nel 2008. I pacifisti erano in realtà attivisti filopalestinesi, legati per tanti fili all’organizzazione terroristica di Hamas. Lo scopo vero della loro traversata era dichiaratamente provocatorio: forzare l’embargo e il severo blocco marittimo imposto da Israele lungo la striscia per ostacolare l’arrivo clandestino di armi e materiali balistici ai guerriglieri locali, sostenuti soprattutto dalla Siria e dall’Iran.

Non v’è dubbio, altresì, che la reazione delle forze navali israeliane è stata eccessiva, nevrastenica, mal guidata e mal controllata. La frettolosità tecnica con cui l’hanno eseguita ha provocato un eccidio di grave danno per l’immagine di Gerusalemme già logorata nel mondo.

In sostanza, le forze speciali d’Israele hanno risposto maldestramente alla provocazione, causando un disastro di proporzioni umane e politiche che daranno facile gioco propagandistico ai pacifici alleati di Teheran, di Hamas, di Hezbollah. Al tutto si aggiunge l’isolamento del governo di Netanyahu dall’amministrazione Obama e dai Paesi dell’Unione europea, in particola-re mediterranei, lambiti dal caos alle porte di casa.

Ma al centro della situazione, estremamente complessa dopo la catastrofe, non si trovano soltanto le mosse difensive intemperanti e sbagliate di un combattivo governo di destra israeliano. Al centro direi storico, più che contingentemente politico, si trova la Turchia, il più cospicuo e potente Paese islamico del Medio Oriente. La flottiglia degli attivisti era salpata in gran parte dalle coste turche e da Cipro. Era stata progettata e finanziata principalmente dall’Ong turca «Ihh», organizzazione radicale islamica fondata nel 1992 e legata al network dei Fratelli musulmani. La nave ammiraglia della spedizione, Mavi Marmara, batteva bandiera turca, erano turchi molte centinaia di attivisti, infine erano turche tutte o quasi le nove vittime uccise dalle truppe speciali israeliane.

Si è quindi detto che è scoppiato un esordio di guerra tra Israele e la Turchia dopo circa sessant’anni d’alleanza sul piano economico, politico e perfino militare. Ma, in realtà, non è stato un esordio. E’ stato piuttosto il culmine più visibile e più clamoroso, ancorché indiretto, di una parabola da tempo negativa nei rapporti generali di Ankara, non solo col vicino Stato israeliano, ma con l’Occidente nel suo complesso. Dallo scontro letale nelle acque internazionali intorno a Gaza s’è visto emergere e prendere quasi corpo uno spostamento massiccio, un rivolgimento geopolitico, un novum pericoloso perché dilagante in uno degli scacchieri più infiammabili del globo. In definitiva stiamo assistendo al distacco dal mondo atlantico di un Paese forte e vitale di 80 milioni che costituì, per decenni, il baluardo orientale della Nato con un esercito ritenuto secondo soltanto a quello americano.

La lenta metamorfosi e il ritorno all’islam della nazione turca, tecnicamente europeizzata e laicizzata da Kemal Ataturk dopo la Grande Guerra, sono iniziati nel 1989 con il crollo del comunismo e la fine della guerra fredda. Lo scioglimento dei blocchi contrapposti hanno dato inattese e insieme ancestrali prospettive alla penetrazione egemonica di Ankara nel Caucaso, nell’Azerbaigian, nelle ex repubbliche islamiche dell’Urss. Il riavvicinamento alla Siria e i legami prima cauti, quindi palesi con l’Iran, hanno poi completato questa specie di anabasi psicologica, politica e religiosa dall’europeizzazione incompiuta alle ataviche radici dell’Asia. Il gioco si è fatto più stretto, anche se cauto e sommerso, con l’arrivo al potere nel 2002 del partito islamico moderato Akp (targato «Giustizia e Sviluppo») guidato dall’abile e arrogante Recep Tayyip Erdogan e dal suo sodale Abdullah Gül, rispettivamente capi in carica del governo e dello Stato.

Erdogan ha subito avviato una lunga e difficile trattativa per l’ingresso della Turchia nell’Unione europea che gli americani, più di tanti europei, vedevano di buon occhio e favorivano come vincolo di continuità con la Nato. Ma qui iniziava un baratto quasi contabile e assai ambiguo fra il dare e l’avere. Non si capiva bene dove Erdogan e il suo partito volessero portare la Turchia pseudomoderna. Mentre le masse anatoliche, spesso fanatizzate, davano ascolto alle sirene anche fondamentaliste, il machiavellico Erdogan concedeva a Bruxelles alcuni punti e molte promesse sulle questioni dei diritti civili in contrasto con la tradizione nazionale e nazionalista: abolizione della pena di morte, sospensione del reato d’adulterio, mano ammorbidita nei confronti dei curdi, mano tesa ai cristiani armeni memori del genocidio.

L’impressione era che Erdogan e Gül, che esibivano in pubblico le loro mogli rigorosamente velate, più che desiderare l’avvicinamento all’Europa usassero l’Europa per stroncare, mediante clausole ed esigenze europee, l’incombenza dello storico potere parallelo kemalista presente fin dagli Anni Venti nelle istituzioni e nella società turche. Commissari e deputati di Bruxelles, spesso strabici esportatori di eccessivo democratismo moralistico, erano portati a scorgere soltanto una casta di golpisti nei militari e nei magistrati che nel 1960, 1971, 1980 avevano interrotto con colpi di Stato confuse e insidiose derive parlamentari istituendo governi militari di durata sempre breve e transeunte. Per Erdogan era indispensabile colpire e dimezzare con pugno di ferro il loro ruolo di garanti e custodi del lascito laico di Kemal per capovolgere e riasiatizzare, in parte, una Turchia ricollocata magari in prima fila tra i Paesi islamici della regione. Egli ha usato sovente con astuzia le regole europee per emasculare l’europeismo dalla giunta secolare. Non a caso ha fatto arrestare il 22 febbraio oltre 40 esponenti militari, fra cui 14 di altissimo rango.

A questo punto Erdogan non ha potuto che schierarsi dalla parte degli attivisti imbarcati sull’ammiraglia pacifista che esibiva soltanto due bandiere, la turca e la palestinese, condannando duramente l’attacco israeliano come «atto di pirateria» e come «terrorismo di Stato». Sarà Ankara a ricorrere per prima al Consiglio di sicurezza dell’Onu per mettere una volta di più al bando dell’ordine internazionale le azioni di Israele. Ma il vero dramma della storia in atto va ben al di là della fine del tradizionale rapporto d’amicizia tra Ankara e Gerusalemme. La verità è che siamo in presenza della più profonda crisi nelle relazioni, un tempo solide e proficue, della Turchia con l’Occidente in quanto tale. Una Turchia riallineata con forza, e perfino con pulsioni egemoniche panislamiche, ai più militanti Paesi musulmani arabi e non arabi.

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Titolo: ENZO BETTIZA L'Europa e il mito del riscatto
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2010, 10:51:56 pm
24/6/2010

L'Europa e il mito del riscatto

ENZO BETTIZA

Paolo Mastrolilli, commentando le sconfitte europee di Johannesburg, ha scritto efficacemente: vediamo una popolazione che «non cresce, non crea, non rischia», ma si riversa però in massa negli stadi veri o televisivi, come se il culto gladatorio del pallone potesse sostituire la vitalità in declino del Vecchio Continente.

Insomma, per noi, nemmeno il culto sostitutivo e visionario di calcistiche battaglie mondiali funziona più. Non fa che restituire dall’Africa a quattro grandi nazioni europee - Francia, Inghilterra, Germania, Italia in coda - la verità e l’immagine della loro improvvisa fragilità nello sport più popolare, lo sport assoluto per antonomasia, in cui fino a poco tempo fa eccellevano quasi alla pari con predominanti plotoni dell’America Latina.
Era con le vittorie negli stadi che francesi, inglesi, tedeschi, italiani riuscivano in qualche modo a compensare, almeno artificialmente, il calo del loro reale peso politico, economico, militare e culturale negli affari internazionali. Eccoci al punto. Al mito del calcio come elemento di riscatto simbolico, di recupero del perduto predominio nella storia per mezzo di guerre immaginarie, guidate per procura da comandanti in doppiopetto duri, grintosi, alla testa d’una dozzina di soldati in maglietta sostenuti da eserciti di tifosi con trombe, bandiere, talora armi improprie e striscioni inneggianti allo sterminio del nemico organizzato, per parte sua, con identici strumenti di combattimento mimetici ed emblematici. È su questo piano astorico, simile a una playstation abnorme, tutta immagine, tutta compensazione psicologica, alimentata dal tifo globalizzato come ultimo «oppio dei popoli», incrementata da un mastodontico e spesso scandaloso giro d’affari, che gli ex grandi occidentali d’Europa stanno perdendo la faccia e uno spicchio della Coppa del Mondo. Strapperà forse un tardivo pezzetto di gloria, nonostante le esclusioni finali, soltanto l’Europa minore degli sloveni, dei serbi, degli slovacchi.

Ma il vero crollo europeo si è identificato, purtroppo, nel vergognoso crollo della Francia, vicecampione mondiale, uscita come un paria per la porta di servizio del maggiore evento atletico dell’anno. Essere francesi e venire battuti sia pure sul piano della mimesi militare, della recita bellica inscenata su pochi metri quadrati di prato, non poteva non apparire a Parigi e addirittura all’Eliseo come un vero e proprio disastro nazionale. Osservatori d’alta classe intellettuale, non specializzati in cronache sportive, come lo storico Gallo biografo di Napoleone, hanno evocato la Beresina e perfino Waterloo. Si è gridato allo smacco dell’antipatico Domenech, agli insulti scagliati dal ribelle Anelka contro Domenech, all’ammutinamento della squadra in sciopero, alla diserzione nel pieno dei combattimenti. In realtà la compagnia multinazionale dei giocatori francesi, quasi una copia in sedicesimo della legione straniera, più che da quello nemico è stata duramente colpita dal fuoco amico: non una guerra frontale perduta, piuttosto una suicidaria guerra civile in miniatura. Il filosofo Finkielkraut ha bollato il gruppo francese come un’accolita di «teppisti», di «huligani», di «mascalzoni arricchiti». Non si vedeva da decenni un rovescio sportivo, per quanto increscioso e incredibile, paragonato a una calamità della storia nazionale.

Al confronto, le trame politiche che si sono mescolate ai modesti risultati in Sudafrica della nazionale italiana, appaiono non solo minori ma ridicole o tutt’al più bizzarre. Bossi poteva risparmiarsela la battuta sull’«Italia di Lippi che si comprerà la partita con la Slovacchia». Avrebbe potuto ripetere, senza spingersi in là, l’uscita per metà velenosa e per metà giusta del leghista Calderoli sugli azzurri, colpevoli d’incassare «stipendi troppo alti» e offensivi in tempi in cui troppi pensionati non raggiungono i mille euro mensili. Speriamo che i virtuali calciatori padani, se avranno un giorno una loro squadra super-regionale, terranno i cordoni della borsa dimostrativamente più stretti.

Un’ultima considerazione pittoresca, umanamente calorosa, l’ho potuta cogliere una di queste sere al piccolo cenacolo che l’amico Ottavio Missoni, uomo colto e a suo tempo notevolissimo atleta olimpico, usa radunare a metà settimana all’antico ristorante milanese Boecc. Sedeva al tavolo rotondo un interessante gruppo di tifosi moderati, un giurista ed ex ministro, un sociologo, un critico d’arte, un pittore, un sondaggista, un manager sportivo, tutti comunque molto più informati di me (non faccio nomi per discrezione e per non escludere, involontariamente, qualcuno dei convenuti). Non sono mancate le critiche sulla fiacchezza dei Mondiali in corso. Ma il punto di luce, che ha dominato e illuminato la serata, è stato il miracolo Maradona, il «pibe de oro» che ne sta lanciando un altro (Messi, come dire il Dio risorto e il suo Messia venturo) nell’empireo dei calciatori sudamericani. Missoni ha riassunto, così, il senso delle convergenti opinioni sul Maradona rinato nello stadio di Johannesburg: «Dalla morte alla resurrezione, dalla resurrezione all’ascensione».

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Titolo: ENZO BETTIZA Polonia al voto per rinascere
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2010, 04:28:24 pm
3/7/2010

   Polonia al voto per rinascere

ENZO BETTIZA

Il primo round del 20 giugno delle presidenziali in Polonia è stato vinto per cinque punti risicati da Bronislaw Komorowski, l’aristocratico presidente della camera bassa del parlamento, candidato del partito moderato Piattaforma Civica, il cui vero leader è il pragmatico primo ministro Donald Tusk. Il rivale, l’ultraconservatore Jaroslaw Kaczynski, già capo del governo e fratello gemello del presidente della Repubblica perito nel tragico incidente aereo nei pressi di Katyn, ha ottenuto dalle urne un consenso personale più alto di quello che la maggioranza degli osservatori s’aspettavano. Katyn, cuore di tenebra pulsante da tre generazioni nei visceri della storia polacca, ha sicuramente influenzato tanti elettori che, in un contesto psicologico ulcerato dal ripetersi della maledizione, hanno finito col dare al loro voto uno sbocco emotivo più che ragionato.

L’immagine del gemello sopravvissuto è stata sostenuta ed elettoralmente alimentata dal ricordo del gemello caduto con la moglie e il seguito, in una sorta di fatale sacrificio collettivo, quasi a ridosso delle fosse dell’indimenticabile eccidio perpetrato nel 1940 dagli organi sovietici su ordine di Stalin. Il ballottaggio di domani, 4 luglio, di uno scrutinio drammaticamente anticipato dalla sventura, per non dire dal sortilegio, deciderà non solo della persona che occuperà il palazzo della vacante presidenza di Varsavia. Deciderà, almeno in parte, anche dei futuri orientamenti della più importante nazione emersa dai cambi di regime dei Paesi una volta colonizzati dall’Urss. E’ un’elezione che in definitiva tocca e interessa da vicino, sul piano politico oltreché economico, tutta l’Europa unita nella crisi e nello sforzo di superarla. Negli ultimi tempi sono avvenuti molti mutamenti, degni di nota, in quello che chiamerei il Centro europeo onde evitare l’ormai anacronistica e svalutativa definizione «Est» che ricorda muri, spie, prigioni, forche, deportazioni e invasioni militari.

Questo mobilissimo Centro del continente (Praga è più a Ovest di Vienna) è oggi percorso da un’ondata di novità, di metabolismi profondi del personale dirigente in politica, in economia, nelle istituzioni culturali; in molte capitali, scosse da sismi elettorali, vediamo salire ai posti di comando degli outsider, mentre vengono allontanati e puniti i candidati corrotti e incompetenti. In particolare gli elettori delle classi medie in ascesa paiono decisi a combattere l’apatia politica e a liberarsi dei troppi politicanti che, dopo la caduta del Muro, avevano dato grama vita a governi confusionari, rissosi e dispendiosi. La grande questione che ora si pone alla nazione polacca, la più cospicua per numero di abitanti e ambizioni legittime ma tuttora virtuali in seno all’Unione Europea, è di riuscire a sincronizzare il proprio passo con quello dei vicini che riemergono, rinnovandosi una seconda volta, da un medesimo passato di sciagure e frustrazioni storiche. La Polonia ha continuato a sopravvivere per anni nel labirinto di contrasti paradossali.

Da un lato l’impeto libertario, antitotalitario, venato di religiosità non bigotta, dei sindacalisti e degli intellettuali di Solidarnosc i quali, finito il comunismo, hanno favorito la nascita e la crescita di una classe media colta, laicizzante, abile negli affari, ancorché non apprezzata del tutto su scala internazionale. Ma dall’altro lato, purtroppo, la palla al piede di governi illiberali, inefficienti, ipernazionalisti, antieuropei, al limite reazionari e oscurantisti, dove un indiscriminato anticomunismo postumo si confondeva con venature di antisemitismo indigeno: in altre parole, malgoverni che dovevano raggiungere il colmo dell’assurdo e del ridicolo proprio nella gemellocrazia dei gemelli Kaczynski, l’uno clone dell’altro, al punto che non si riusciva a distinguere somaticamente il capo dello Stato Lech dal capo del governo Jaroslaw. Fu il punto più stravagante, per non dire più basso, toccato dalla Polonia postcomunista. Se il candidato Komorowski, guidato dall’equilibrato e cauto premier Tusk, uscirà vincente anche dal ballottaggio, l’Europa e la Polonia europeista trarranno senz’altro un respiro di sollievo.

Il Paese potrà avviare sia pure in ritardo le riforme sempre ostacolate o frenate dal defunto presidente: taglio alla demagogica spesa pubblica, snellimento dell’intasato mercato del lavoro, sfoltimento di una burocrazia asfissiante e onnipervasiva. In politica estera migliori rapporti con Bruxelles, con Berlino e, soprattutto, con Mosca. Ma se dovesse farcela il sopravvissuto gemello Kaczynski, con un risultato a sorpresa, Varsavia, già declassata dalla Banca Mondiale al 72° posto nell’affidabilità commerciale, potrebbe ritrovarsi per altri cinque anni incagliata in uno stallo pericoloso. Il vero rischio di domani sarà nell’affluenza alle urne. Jaroslaw Kaczynski otterrà di sicuro il voto populista dei vecchi, dei poveri e dei contadini che non si muovono da casa. Più rarefatte potrebbero risultare invece le schede dell’abbiente classe media, sostenitrice di Bronislaw Komorowski, ma sparpagliata in vacanza fra mari e monti. Gli imprevisti numerici della democrazia vanno messi nel conto ancora aperto fino a domani sera.

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Titolo: ENZO BETTIZA Ora la Polonia aspetta il voto della Chiesa
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2010, 11:27:17 pm
6/7/2010

Ora la Polonia aspetta il voto della Chiesa
   
ENZO BETTIZA

Il risicatissimo risultato emerso nelle prime ore del mattino dalle urne, che porterà al vertice della repubblica con uno stentato 52 percento il liberale Bronislaw Komorowski, sarà, nonostante tutto, rassicurante per l'Europa la quale nel 2011 vedrà la Polonia alla presidenza di turno dell'Unione. Sarà invece meno rassicurante e più insidioso per la Polonia in quanto tale.

Inutile fasciarsi gli occhi per non scorgere, fra una luce ancora scarsa, le ombre di un esito che sottolinea la spaccatura emotiva del Paese e non pone una fine chiara, netta, auspicata dallo stesso Komorowski, della «guerra polacco-polacca».

La sua è stata sotto ogni aspetto una vittoria promettente. Una vittoria, fra l'altro, del partito governativo Piattaforma civica, che rilegittima e dà una copertura all'esecutivo moderato e riformatore di Donald Tusk, già ostacolato dai veti del defunto presidente Kaczynski che, con ogni probabilità, si sarebbero ripetuti a scatto omozigotico se il gemello, Jaroslaw, fosse riuscito a mantenere il sottile vantaggio strappato nel cuore della notte.

Ma è pur sempre, e purtroppo, una vittoria che evoca Pirro. Jaroslaw Kaczynski non è stato sconfitto. E' stato superato sul filo di lana per due punti, incerti fino all'ultimo. Così ha conservato e forse rafforzato, col suo quoziente altissimo, l'immagine di un combattente coriaceo mediata anche dal fatto di somigliare in tutto, nel volto, nel gesto, nella parola sciolta e popolaresca al gemello perito in aprile nel fosco cielo di Katyn. Alla moltitudine degli elettori più rustici, legati alla terra, ai miti della Polonia nazionalcattolica, assuefatti a votare la coppia dei gemelli, s'è aggiunto anche il voto di elettori travolti dall'emozione dopo la sciagura di Katyn: ai loro occhi il Kaczynski vivo è apparso, al tempo stesso, quasi la reincarnazione parlante del Kaczynski morto e sepolto tra gli eroi nazionali della cattedrale di Wavel.

Un simile schieramento, alimentato dalla ferita storica che l'infausto nome di Katyn, dal massacro del 1940 a tutt'oggi, continua a tenere aperta nel corpo della Polonia, non poteva che favorire la rimonta del rivale di un candidato asciutto e privo di carisma piazzaiolo come Komorowski. Si dirà che il rivale aveva ammorbidito durante la campagna elettorale i toni solitamente aggressivi, eurofobici, ipernazionalisti; si aggiungerà che aveva cercato di rincorrere o neutralizzare, con allusioni progressiste, il voto della sinistra raccolta sotto le bandiere del partito postcomunista di Grzegorz Napieralski. Ma, a scrutinio ancora caldo, il gemello sopravvissuto ha fatto subito capire di considerare Komorowsi un vincitore effimero e se stesso un perdente solo temporaneo. Ha tirato fuori la grinta e, accennando alle elezioni politiche del prossimo anno, ha citato un personaggio leggendario, il maresciallo e padre della patria Jozef Pilsudski: «Essere sconfitti ma non cedere: questa è la vittoria».

La citazione, per quanto demagogica, al limite banale, non appare tuttavia basata sul vuoto, in un Paese di tormentata identità nazionale che oggi ci rivela due anime più che mai in contrasto. Jaroslaw Kaczynski sa di avere dietro di sé metà dell'elettorato polacco, sa come toccare le corde più ancestrali e misoneistiche del proprio popolo, sa di poter usufruire la lubrificata macchina organizzativa del partito di famiglia Legge e Giustizia. Ma sa, soprattutto, di poter contare sui settori fondamentalisti della Chiesa, radunati intorno a Radio Marija, un'istituzione propagandistica xenofoba, specializzata nella caccia alle streghe, un'arma d'appoggio influentissima nella lotta politica che non ha eguali in altre nazioni cattoliche.

Qui, veniamo al punto più delicato di una situazione per tanti aspetti enigmatica e indecifrabile. Da quale parte sta veramente la Chiesa, in un Paese monoreligioso come la Polonia, dove essa costituisce, anche sul piano politico e storico, l'unico potere costante che si autodetermina e non subisce traumi elettorali? Sappiamo dove stava ai tempi del cardinale e poi papa Wojtyla e della resistenza al comunismo. Ma, oggi, dove si colloca la Chiesa? Quante anime occulta? Come reagisce allo scontro fra partiti in un contesto democratico non più dominato da un partito unico e, per sua natura, anticlericale? Fino a che punto e in che modo la gerarchia cattolica, che indubbiamente non è tutta retriva, ha tenuto conto del fatto che i principali antagonisti della competizione presidenziale, contrapposti sul piano politico, si dichiarano però entrambi cattolici ferventi e praticanti? A quale cardinale fa capo l'ala più chiusa e oltranzista? A quale invece la corrente più consapevole o più favorevole al ruolo della Polonia in Europa? Fintanto che queste domande resteranno inevase, verrà a mancare, a tutte le opinioni sui dilemmi di Varsavia, l'elemento di giudizio essenziale e dirimente.

Per ora dobbiamo contentarci della risposta provvisoria e minore a cui induce la cronaca. L'elezione di Komorowski ai vertici dello Stato garantisce perlomeno una promessa di relativa continuità al tentativo del premier Tusk, l'autentico vincitore della difficile gara, di dare alla Polonia lo spazio che merita nell'arena europea. La politica del consenso istituzionale sostituirà quella del veto sistematico. In questo senso il no, sia pure blando, inflitto dai polacchi a Kaczynski, appare più decisivo e quasi più degno di nota del sì altrettanto blando riscosso da Komorowski.

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Titolo: ENZO BETTIZA L'atto finale della questione adriatica
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2010, 10:36:21 pm
15/7/2010

L'atto finale della questione adriatica
   
ENZO BETTIZA

Non è stato semplice mettere insieme, attorno al podio dell’orchestra multietnica diretta dal maestro Muti nella più famosa piazza di Trieste, i tre Capi di Stato dell’Italia, della Slovenia e della Croazia. Si è detto che ci sono voluti più di nove anni di trattative e tensioni diplomatiche per giungere finalmente, sulle note arcane di Cherubini, al vertice della riconciliazione fra l’italiano Giorgio Napolitano, lo sloveno Danilo Turk e il croato Ivo Josipovic. Il rito dell’amicizia è poi culminato nella visita con deposizione di corone, da parte dei tre presidenti, a due luoghi simbolo delle reciproche ferite: il palazzo dell’ex Hotel Balkan, centro culturale sloveno dato alle fiamme nel 1920 dai nazionalisti italiani, e il monumento in ricordo dei 350 mila esuli istriani, quarnerini e dalmati costretti all’esodo dopo la fine, per loro drammatica, della seconda guerra civile europea. L’evento, indubbiamente di grande significato emblematico, nonostante qualche dimenticanza politica di cui dirò più avanti, è stato accolto e seguito con favore da gran parte della popolazione triestina che, come sappiamo, non è di sentimenti e di gusti facili.

La data citata (l’incendio del 1920) e l’altra allusa (l’esodo dal 1945 in poi) dicono comunque, di per sé, che alle spalle del celebrativo evento di Trieste, al di là dei nove anni spesi per promuoverlo, si apre in realtà lo spessore di un dossier storico fra i più tormentati e complessi del Novecento europeo. Si apre l’abisso della «questione adriatica».

Questione che, al suo inizio, vide una nazione giovane e caotica, l’Italia esasperata dalla «vittoria mutilata», l’Italia di D’Annunzio, dell’impresa di Fiume, degli interventisti delusi già inclini al fascismo, contrapporsi a una nuova entità multinazionale mai esistita prima del 1919: la Jugoslavia dei serbi, dei croati e degli sloveni, composta in parte a sforbiciate con scampoli cospicui del dissolto impero austroungarico.

Le radici dell’incendio triestino dell’Hotel Balkan, per esempio, affondano nel marasma esponenziale delle «questioni» nazionali scatenate come un verminaio dalla decomposizione del cadavere absburgico. La «questione adriatica», prima di esplodere vistosamente tra italiani e sloveni a Trieste, era cominciata a fucilate tra italiani e croati o neojugoslavi nella città di Spalato. Il clima politico vi era da tempo incandescente. Traumatizzava già il capoluogo della Dalmazia, a maggioranza slava, l’opportunità concessa da Versailles ai dalmati di lingua italiana di poter optare, se lo desideravano, per la cittadinanza italiana. L’11 luglio 1920 Tommaso Gulli, comandante della nave Puglia, ancorata nel porto a monitorare le clausole armistiziali, venne ferito a morte dai gendarmi jugoslavi in uno scontro in cui perì anche il motorista Aldo Rossi. Due giorni dopo, il 13 luglio, esattamente novant’anni orsono, i nazionalisti italiani per ritorsione assaltavano il «covo sloveno» dell’Hotel Balkan. Il tragico episodio, che provocò morti e feriti, doveva passare poi alla storia come una sorta di prova generale dello squadrismo fascista.

La «questione adriatica», inasprendosi politicamente e razzisticamente con Mussolini, degenerò in seguito, con l’aggressivo fascismo di frontiera, nella guerriglia civile contro sloveni e croati dell’Istria e sfociò infine nella guerra vera contro la Jugoslavia monarchica. Il resto ci è più noto perché più vicino nel calendario storico. All’occupazione italiana della Slovenia, della Dalmazia e parte del Montenegro, che non fu priva di misfatti sanguinosi, seguirono a catena le vendette dei partigiani di Tito con i 40 giorni infernali di Trieste e di Gorizia, le foibe in Istria, l’esodo di massa delle popolazioni istriane e dalmate di lingua italiana. Zara, per una ventina d’anni porto franco italiano sulla costa jugoslava, venne rasa al suolo da oltre cinquanta bombardamenti alleati come nessun’altra città della penisola: il cumulo di macerie suggeriva la visione spettrale di una Dresda sull’Adriatico. Zara ancora aspetta un riconoscimento ufficiale italiano, e un giorno speriamo anche croato ed europeo, di quel terrificante quanto inutile e ingiustificato massacro aereo.

Ed eccoci al punto. L’incontro fra i capi dei tre limitrofi Stati adriatici acquista, in definitiva, un senso pieno soprattutto se lo percepiamo come un decisivo atto terminale della «questione adriatica». Gli antagonisti dell’annosa «questione» furono due Stati, di cui uno, la Jugoslavia, non c’è più. Ci sono oggi al suo posto due Stati europei, la Slovenia in ottimo decollo e la Croazia in positiva attesa, con l’Italia che può costituire per l’una e per l’altra una sponda intima, direi più che amica, nell’arena di Bruxelles. Speriamo sia giunto davvero, come hanno detto i tre presidenti, il momento di dimenticare un passato fra i più pesanti e spietati lungo le frastagliate frontiere europee.

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Titolo: ENZO BETTIZA L'America disamorata ha sorpassato Obama
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2010, 10:40:35 am
8/8/2010 (7:48)  - RITORNO NEGLI STATES/1

L'America disamorata ha sorpassato Obama


Si era affidata al Presidente nero per sconfiggere le paure e la crisi.

Ma il Paese reale corre troppo rapido per fermarsi ai suoi sogni da outsider

ENZO BETTIZA

Di Americhe ne ho viste tante, a cominciare da quella remota di Eisenhower, ma l’impatto con questa America di Obama, che corre velocissima scavalcando crisi e ostacoli d’ogni genere verso le elezioni di medio termine di novembre, è per me davvero sorprendente e anche sconcertante. Ho la strana impressione di aver sbagliato volo.

Di essere atterrato su un continente che non è l’America che conoscevo e immaginavo di ritrovare modificata, sì, ma non cancellata e rigenerata al punto di presentarmi il volto d’un Paese pressoché sconosciuto: una popolazione spesso bilingue, intensamente amalgamata nella diversità, con infiniti travasi di tinte epidermiche in un vivace tripudio del non apartheid. In sostanza, uno sfondo antropologico in tattile sintonia con la pelle, le idee, il sorriso, gli scatti elastici del primo presidente nero degli Stati Uniti.

A prima vista si direbbe che il tradizionale melting pot, il crogiuolo che una volta rimescolava a fuoco lento le diverse etnie e religioni, sia esploso e tracimato con forza inaudita dal Ground Zero, dopo la tragedia dell’11 settembre. Come se l’oltraggio subìto da tutti, neri e bianchi, avesse abbattuto o quantomeno spostato vecchi pregiudizi razziali, parametri psicosomatici, steccati culturali e linguistici dell’America anglosassone. Non a caso il primo gesto simbolico di Obama presidente è stato di togliere dalla Casa Bianca un troneggiante busto di Winston Churchill e di rispedirlo con i complimenti d’obbligo a Londra.

l resto l’hanno fatto i dieci anni d’inarrestabile ondata migratoria dall’America latina, in particolare dal Messico, ancorché duramente contrastata da diversi Stati del Sud capeggiati dall’Arizona.

L’evoluzione esplosiva del classico melting pot, trasmutato, grazie ad elettori non solo neri e ispanici, in un grado superiore di compagine nazionale multietnica, aveva trovato il suo momento sublimante nella conquista della Casa Bianca da parte di Barack Obama. L’America dei grandi traumi - i flagelli terroristici, i venerdì neri, gli tsunami pertoliferi, la guerra irrisolta in Iraq e impotente in Afghanistan - si era affidata con ottimismo insieme entusiastico e disperato al giovane outsider vedendo in lui l’uomo della provvidenza, il salvatore, il taumaturgo, quasi un mago benefico.

Per molti americani Obama è stato un sogno di speranza e di redenzione. Lo avevano votato per la sua visione del mondo, le sue parole suadenti, le sue promesse utopiche, non ancora messe alla prova dalla dura replica dei fatti. Poi, quando lo scontro coi fatti è cominciato ad arrivare a valanga da Wall Street e Detroit, da Guantanamo e dal Golfo del Messico, da Kabul e da Teheran, da Gaza e dal Libano, il presidente ha dato l’impressione di non riuscire a mantenere tutto ciò che aveva promesso in campagna elettorale.

Allora il «sogno Obama» ha preso ad attenuarsi. E’ iniziata la seconda fase, quella del disamoramento, che in genere ogni nuova presidenza americana registra a metà mandato, ma che nel caso eccezionale e mitizzato di Obama tende ora a palesarsi esponenzialmente come un calo fisiologico e ideologico insieme. Oggi i sondaggi sulla sua popolarità appaiono sostenuti intorno al 75 percento presso l’elettorato nero, mentre scendono al 50 nel bacino ispanico e al 25 in quello bianco. Le prossime elezioni di medio termine, che prevedono una forte rimonta dei repubblicani nelle due camere del Congresso, si profilano già come un referendum sull’operato personale del presidente dal gennaio 2009 in poi.

Avrò modo di tornare in seguito, con più particolari, sulle ombre e le luci che ne circondano l’amministrazione. Vorrei però sottolineare, fin da ora, che le pulsioni di velocità con cui gli europei giudicano il fenomeno Obama sono in notevole ritardo rispetto a quelle degli americani. Noi stiamo ancora digerendo ammaliati il fenomeno. Invece tanti americani d’ogni ceto con cui ho parlato, imprenditori, intellettuali, militari, barbieri, impiegati, pur giustificando e non spregiando il sogno, pur criticando l’eredità e gli errori interventisti di Bush, mi hanno dato la sensazione di aver già digerito la novità del fenomeno.

Non tutti si dichiararono delusi o disillusi; non censurano malevolmente le frenate realistiche dell’uomo di governo, spesso contrastanti con le promesse del tribuno elettorale; riconoscono il fascino e la bravura oratoria del personaggio che dà il meglio di sé quando parla a un pubblico di giovani. Ma quasi tutti fanno capire che l’America ha già superato la bella fase onirica, che il peso della realtà, aggirando l’idillio, già la costringe a prescindere da Obama, a pensare e proiettarsi oltre Obama. Parlano dell’America come di un «laboratorio in profonda trasformazione», dove la velocità frantuma il tempo, travolge miti e sogni, non consentendo più a nessuno di correre fra le nuvole con la testa voltata all’indietro.

Non si vede comunque, per adesso, tra le file repubblicane, il profilo di un leader e successore latente di Obama degno di nota. Si vedono invece ingrossare e ufficializzarsi le schiere infervorate del movimento conservatore dei «tea party», animato da una sorta di qualunquismo costruttivo, che si richiama alla leggendaria rivolta del 1773 dei coloni americani contro le imposte britanniche sul tè; sotto la guida di una luterana di origini democratiche, Michele Bachmann, considerata più colta e più agguerrita dell’impresentabile Sarah Palin, il movimento anti-tasse è riuscito a formare addirittura un gruppo parlamentare separato al Congresso. Ma è sulla donna politica più in vista del momento, l’attuale segretario di Stato Hillary Clinton, ex rivale sconfitta alle primarie da Obama, che diversi analisti tornano a intravedere un possibile aspirante futuro alla massima carica. In altre parole, una possibile riscossa vendicativa dall’interno dello stesso partito dei liberal.

Alle informazioni politiche apprensive, allusive, quasi divinatorie, che raccolgo in ambienti chiusi, fa da riscontro quello che osservo per le strade di New York. Già all’aeroporto di Newark, al primo contatto con questa America nuovissima, severa, piena di regole occhiute e di leggi complicate, mi aveva colpito il misto di multietnicità e di rigore nel comportamento dei molti uomini e donne di colore, neri, mulatti, ispanici, perfettamente addestrati ai servizi di polizia e di filtro dei passeggeri in arrivo. Gesti muti e precisi, padronanza istantanea e assoluta dei dispositivi tecnologici, cortesia e freddezza nell’ispezione dei documenti e delle facce soprattutto straniere. Nel timido brusìo bisbigliato dai passeggeri avviati ai banchi di controllo, interrotto dal rumore delle televisioni e dalle voci dei megafoni, sentivo che ogni minima deviazione dal rettilineo in fila indiana sarebbe stata immediatamente percepita e repressa dagli agenti che ci scrutavano uno per uno con calma attenzione.

Il clima generale, se posso esprimermi così, era quello di una scenografia orwelliana placida e difensiva. Avvertivo una singolare sovrapposizione, o combinazione, nello sguardo dei poliziotti che era scuro nella tinta e nordico nella fermezza. Tornavano alla mente le parole che mi diceva Guido Piovene all’epoca in cui scriveva il suo superbo «De America»: «Non si capisce nulla di questo continente se non si coglie il sottofondo tedesco della sua macchina organizzativa». Mi stupisce la sicura fretta burocratica con cui al banco di controllo una poliziotta nera, grassa, dall’aria materna, liquida il mio passaggio senza obbligarmi a schiacciare i polpastrelli sul piccolo schermo, illuminato da un bagliore fosforescente verdognolo e adibito alle impronte digitali. Prima di lasciarmi passare aveva messo a confronto i dati anagrafici del mio passaporto con quelli riportati in un suo computer: evidentemente vi ero registrato come persona grata e immune da ogni sospetto.

Questo elemento d’ordine tedesco, se vogliamo prussiano, che già Piovene negli anni Cinquanta fiutava nella società americana, è emerso con più forza dal «sottofondo» in superficie dopo l’attentato alle Torri Gemelle. E’ curioso constatare come esso attecchisca e aderisca ad una società multietnica che al primo colpo d’occhio sembra quasi brasiliana, quasi indolente e insofferente alle famose «regole» americane derivate dal luteranesimo anglosassone oggi forse più «sassone» che «anglo».

Tale prussianità americanizzata può manifestarsi in diverse versioni e occasioni. Dalla severità e dalla disciplina dell’aeroporto di Newark può travasarsi in forme contrastanti nel miscuglio d’ordine e disordine che regna per l’eterna movida di Times Square, lungo gli ingressi sovraffollati dei ristoranti e famosi teatri di Broadway. Qui, nel cuore di un’America attanagliata dalla crisi economica e dalla paura del terrorismo, capita di vedere di tutto. Giovani disoccupati, anche bianchi dall’aspetto wasp, che s’industriano a sbarcare il lunario pedalando a cavallo di ampi risciò carichi di turisti.

Pupazzi sgargianti e semoventi di Walt Disney frammisti a giovani biondi o neri che invocano un dollaro per gli homeless, i senzatetto. Oppure, all’incrocio centrale fra l’ottava e la trentasettesima strada, un bianco sulla quarantina, vestito decorosamente, che mostra ai viandanti un cartello di cartone scritto a mano: «Ho perduto ogni cosa in questo disastro finanziario. Vi prego, aiutatemi». Poi, di colpo, alzando lo sguardo, si può scorgere un enorme poster con faccia in gigantografia del presidente iraniano Ahmadinejad, appeso ad un grattacielo fra un pannello pubblicitario dei jeans Levi’s e un altro della bevanda Ginger Ale. Non lascia dubbi la scritta che l’accompagna: «Egli non è benvenuto qui. Dovete fare qualcosa contro di lui. Tutti uniti contro l’Iran nucleare».

Alla fine della passeggiata, rigurgitante di folle e di sorprese, sono sceso per violente scale mobili fino al sotterraneo dove, fra hamburger piramidali e bevande dolciastre per obesi, si commemora mangiando e ascoltando ritmi frastornanti l’epopea dei Beatles e del Hard Rock. Un autentico museo musicale e gastronomico anni Sessanta. Anche qui, d’un tratto, è scattata la morsa d’ordine germanica. Avevo prenotato per quattro, ma eravamo scesi soltanto in tre. Una giovane hostess nera, la cui grazia e avvenenza apparivano come irrigidite in un amido militare, mi ha subito bloccato annunciando: «Dovrete aspettare qui, in piedi, o al bar. Potrete occupare il vostro tavolo soltanto quando arriverà la quarta persona».

Intanto la musica, erompendo scatenata da ogni dove, intonava via via le melodie provocatorie e anarcoidi della gloriosa e ormai preistorica epoca Rock. Nessuno, però, ha saputo spiegarmi il perché della misteriosa ingiunzione proibitiva impostami dalla hostess nel locale in parvenza più permissivo di Times Square.
(CONTINUA-1)

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/201008articoli/57440girata.asp


Titolo: ENZO BETTIZA La Turchia di Erdogan volta pagina
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2010, 04:09:52 pm
13/9/2010

La Turchia di Erdogan volta pagina

ENZO BETTIZA

Al di là delle previsioni, che anticipavano per Recep Tayyp Erdogan e il suo partito di centrodestra un'affermazione piuttosto risicata, i primi risultati del referendum e dell'affluenza alle urne danno il quadro di un successo per diversi aspetti inatteso. Anzi, sorprendente, per il clima incandescente e da scontro civile in cui si è verificato. Tenuto conto della spaccatura profonda del Paese, si può ben dire che Erdogan è uscito sostanzialmente premiato da una prova plebiscitaria che per tema centrale aveva il giudizio popolare sui suoi movimentati otto anni di governo.

Anni a pagella ottima nell'economia che ha continuato a crescere a ritmi «cinesi». Ma, al tempo stesso, molto travagliati nell'ondivago rapporto della Turchia erdoganiana con l'Europa incerta da una parte e le attraenti sirene islamiche dall'altra. Per quanto riguarda l'immediato futuro, si può aggiungere che il contraddittorio personaggio, cautamente maomettano nei costumi, ma liberista all'occidentale nella pratica, si prepara fin d'ora a raccogliere quasi con certezza la terza investitura alle elezioni del 2011.

Quale però è il vero significato, non solo politico ma storico, di questo che possiamo definire come il più delicato e rischioso contenzioso istituzionale della Turchia moderna? Quali incognite stanno per emergere ora da una simile contesa ai ferri corti tra il governo di Tayyp Erdogan, impegnato a emendare una Costituzione varata dopo il colpo di Stato militare del 1980, e le opposizioni laiche impegnate invece a difenderla vedendovi un ultimo baluardo del retaggio kemalista della repubblica turca? Chi analizzi con attenzione le proposte di cambiamento dei 22 articoli della Carta costituzionale, sostenute dal partito islamico moderato Giustizia e Sviluppo, l'Akp capeggiato da Erdogan, s'accorgerà che esse compongono un duplice e non sempre coerente quadro d'intervento. Da un lato una serie di misure intese a perfezionare l'immagine europea della Turchia, con provvedimenti civili favorevoli all'emancipazione della donna, alle cure dell'infanzia, all'istruzione dei giovani. Da un altro lato invece scorgerà l'intenzione di Erdogan e dei suoi d'infliggere un colpo decisivo, storicamente il più duro, al potere congiunto di magistrati e di militari che si ergono insieme, fin dal lontano 1923, a custodi integerrimi della tradizione secolare e anticlericale imposta con un misto d'autoritarismo illuminato e spietato ai turchi musulmani dal loro «padre» Kemal Atatürk Mustafa. E' al pugno e alla volontà di Kemal che la Turchia, europeizzata con metodi asiatici, deve tutto ciò che oggi la propone alla candidatura, sia pure sempre discussa e discutibile, di socia eccezionale dell'Unione di Bruxelles: fu la travolgente mareggiata del kemalismo a laicizzare dopo il califfato lo Stato ex ottomano, a istituire il suffragio universale, a introdurre l'alfabeto latino, il calendario gregoriano, il sistema decimale.

Uno dei dogmi secolari inappellabili fu la netta separazione tra Stato e Chiesa. La religione venne dichiarata «affare privato». Il borsalino sostitui il fez. Il velo islamico sparì dalle scuole. Ismet Inönü, primo ministro e stretto collaboratore del presidente a vita Atatürk, nascondeva in una tasca un Corano tascabile e lo leggeva bisbigliando al figlio nelle ore serali. Dopo la scomparsa del grande presidente della Repubblica laica e del sottomesso capo dell'esecutivo, le vestali di questo secolarismo in grigioverde, duro, occhiuto, europeizzante nei fini ma meno nei metodi, divennero i generali e i giudici della Corte costituzionale. Eredi dello spirito kemalista, s'improvvisavano spesso golpisti controvoglia, dittatori cincinnateschi per così dire ogni volta che, a torto o a ragione, ritenevano di dover arginare con un colpo da caserma la deriva corrotta o, secondo loro, antisecolare e quindi antikemalista di un governo infido. Se necessaria, la ferocia anatolica rientrava nell'uso di queste profilassi golpiste a tempo determinato. Lo stesso premier Erdogan e il suo partito Akp, già allora sospettati di islamismo strisciante, rischiarono nel 2008 di essere spazzati via da un colpo di mano castrense.

Sono cose non del tutto ignote a chi ne sa qualcosa di turchi e di Turchia. Ma oggi, dopo lo scontro concluso con la vittoria plebisciatria di Erdogan, mi sembra si debba ripeterle e rimetterle meglio a fuoco per comprendere che la Turchia ormai non è più quella che conoscevamo fino a ieri. E' avvenuta una svolta, una scissura, in qualche modo è avvenuta dopo quasi un secolo la fine della rivoluzione culturale kemalista, la fine della modernizzazione forzata del solo Paese islamico che impediva ai muezzin d'invitare i fedeli alla preghiera in lingua araba. I militari, il cui superpotere Erdogan da tempo aveva contrastato e limato con metodi non meno duri dei loro, stavolta non hanno alzato la cresta né le baionette. Decimati negli stati maggiori, molti incarcerati, gli epigoni rimasti hanno delegato al perdente partito repubblicano, fondato da Atatürk, il compito di affrontare invano elettoralmente lo straripante Akp islamico; frattanto, con le nuove misure approvate dai «sì» referendari, la Corte costituzionale e il Consiglio di sicurezza nazionale, organismo con cui i militari partecipavano alla vita dello Stato, verranno diluiti con l'immissione di magistrati d'estrazione religiosa. I tribunali militari non potranno più processare civili e, a loro volta i militari, se processati, dovranno subire il verdetto di tibunali ordinari. Non sono quisquilie. Sono eventi di grande portata emblemetica che marcano il crepuscolo del kemalismo e danno inizio a una sorta di controrivoluzione islamica che, del resto, sembra accordarsi alle nuove mosse ideologiche e diplomatiche di Erdogan: sempre più vicino all'Iran, più lontano da Israele, più neutro con l'Occidente in quanto tale e più indifferente o insofferente al ruolo turco una volta importantissimo nell'ambito della difesa atlantica.

Due punti chiave però aspettano sempre una risposta. Uno è l'Europa, in cui non si sa se questa imprevedibile Turchia riuscirà mai a entrare, ma di cui finora si è sempre servita per smantellare nel nome dei diritti civili europei l'europeismo storico e programmatico dei militari e dei magistrati kemalisti. L'altro sono i curdi. Questi, in maggioranza, non hanno votato perché Erdogan non si è pronunciato con chiarezza sullo sbarramento del 10 percento imposto già dai militari (Bruxelles in proposito tace). I curdi vedono qui un'arma costituzionale rimasta quale era, la sentono mirata a escluderli dal gioco parlamentare, e ora minacciano di riprendere il sentiero della guerriglia e degli attentati. Non facile dilemma per Erdogan. Contentare i curdi abbassando lo sbarramento e irritando le masse nazionaliste turche? Oppure ricorrere ai militari, da lui stesso depotenziati, per far fronte all'insorgenza di quella temibile minoranza ribelle?

La storia turca ha voltato pagina. Ma, come si vede, restano ancora tante da voltare, non si sa come, non si sa quando, non si sa con chi.

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Titolo: ENZO BETTIZA L'Europa e il contagio della paura
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2010, 05:13:45 pm
21/9/2010

L'Europa e il contagio della paura
   
ENZO BETTIZA

Il risultato del voto svedese assume un significato che fa della Svezia il campione dei profondi mutamenti che, da qualche anno, stanno sconvolgendo il panorama politico dell'Europa nordica un tempo immune da tempeste, nevrosi e paure endemicamente diffuse nelle regioni meridionali e orientali del Vecchio Continente. Il significato storico ed emblematico di quanto è emerso dalle urne scandinave va ben al di là di un semplice regolamento o spostamento di conti elettorali da sinistra e destra.

Gli svedesi, assuefatti da quasi un secolo a vivere in un clima di welfare blindato, abbiente, pressoché infinito, hanno determinato col loro voto una sorta d'eutanasia rivoluzionaria: hanno staccato la presa dell'ossigeno al già indebolito partito socialdemocratico, infliggendogli, per la prima volta in ottant'anni, un catastrofico calo di oltre il 4 per cento. Sempre per la prima volta una coalizione moderata di centrodestra, guidata con accortezza dal premier Fredrik Reinfeldt ed elevata alla notevole percentuale del 49,1 (un passo dalla maggioranza assoluta), è riuscita non solo a portare a termine il mandato governativo, ma potrà e dovrà impegnarsi sia pure con qualche spinosa difficoltà nella formazione di un secondo esecutivo.

Nella lineare e neutrale vicenda della Svezia contemporanea, sostanzialmente modellata e condizionata dal predominio socialdemocratico, non era ancora successo dalla fine della guerra che i conservatori crescessero al punto di conquistare due mandati di seguito.

Il primo dato impressionante emerso dalle urne è infatti la conferma di quella che l'Economist, con icasticità clinica, definisce oggi «la strana morte della socialdemocrazia svedese». Basti pensare che solo cinque anni prima il severo Guardian, influente negli ambienti laburisti, vedeva nella Svezia forgiata dai governi di Olof Palme «la migliore delle società che il mondo avesse mai conosciuto». Per anni i socialisti europei, e non solo europei, avevano ammirato e contemplato nella nazione guida della Scandinavia un socialismo democratico austero e generoso insieme, capace di combinare un fisco esigentissimo e una spesa pubblica massiccia con un'economia robusta e un'alta qualità della vita. I Paesi vicini e consimili, Finlandia, Danimarca, Norvegia, perfino l'Olanda, cercavano d'imitarne con successo la lezione che conteneva in sé anche una notevole e talora ardita tolleranza nel settore dei diritti civili, concessi sia ai concittadini sia agli stranieri immigrati.

Dopo l'enigmatico assassinio di Palme nel 1986, mai chiarito fino in fondo, le prime ombre cominciarono a oscurare il paradiso socialdemocratico di Stoccolma. Iniziò a turbarsi la sostanziale stabilità politica, presero ad aprirsi parentesi governative gestite dai conservatori, la Svezia nel 1994 siglò gli accordi per l'ingresso nell'Unione Europea. Con il progressivo allargamento verso l'Europa orientale postcomunista si profilarono, anche per gli svedesi, ormai stanchi del modello socialista, troppo fiscale con i compatrioti e troppo indulgente con gli stranieri, i due problemi insidiosi che l'Europa intera conosce da alcuni anni: la crisi economica combinata con la crisi dell'immigrazione incontrollata. Sul piano economico il governo dei conservatori moderati, eletto nel 2006, capeggiato dal primo ministro Reinfeldt e amministrato dal responsabile delle Finanze Borg, ha saputo affrontare con sagacia e competenza la crisi, senza smantellare le fondamenta del sistema socialdemocratico ma correggendone gli eccessi ideologici e ammorbidendo con interventi liberisti e maggiore elasticità gli spazi operativi dell'industria privata. Il compromesso è riuscito, il prodotto lordo è aumentato, la disoccupazione è calata. Oggi la Svezia occupa un posto d'avanguardia nell'economia mondiale. Il contrasto con la situazione stentata di non pochi Paesi europei è più che notevole: è quasi schiacciante.

Alla fine, anche su questa Svezia economicamente risanata e ristabilizzata incombe lo stesso pericolo che oggi travaglia, assieme alle regioni scandinave, tanti altri Paesi europei. Esso incombe però con forza particolarmente nevrotica a Stoccolma, a Helsinki, a Copenaghen, ad Amsterdam, nelle parti fiamminghe del Belgio: cioè proprio nei vivai delle civiltà nordiche più evolute, fino all'altroieri culturalmente più aperte alla tolleranza e alla convivenza con il diverso, con l'esule, con l'immigrato in cerca di pane e di protezione. Il retaggio di tolleranza, di carità umana, depositato in quelle gelide terre settentrionali dal protestantesimo e dalle socialdemocrazie, si è come rovesciato nella grande paura dei diversi che oggi vagano e premono a tutte le porte del continente. Il cortocircuito prodotto dalla paura per la calata in massa dei dissimili, paura ancestrale, che per facile retorica definiamo troppo sbrigativamente «xenofobia», sta fomentando perfino nella civilissima Svezia una contropartita politica. Qui, difatti, si è verificata un'ennesima «prima volta» con la rottura dello sbarramento elettorale del 4 per cento e l'entrata imbarazzante in scena dell'estrema destra del giovanissimo Jimmie Akesson. Esorcizzati non solo dai perdenti socialdemocratici di Mona Sahlin, ma anche dal vincente conservatore Reinfeldt, i «Democratici svedesi» capitanati da Akesson hanno raggiunto, pare, più del 6,5 percento dei voti al grido «restituiamo la Svezia alla Svezia». La situazione è poco piacevole soprattutto per Reinfeldt che, dopo aver annunciato che non toccherà Akesson «neppure con le pinze», potrebbe vedersi costretto a trattare una scandalosa coalizione proprio con l'intoccabile. La vittoria del centrodestra moderato è stata purtroppo incompleta: alla coalizione manca una manciata di voti per formare un esecutivo da soli.

Non sappiamo quello che potrà succedere a giorni a Stoccolma. Sappiamo invece che la paura sta dilagando per il Nord. In Finlandia stanno correndo forte i cosiddetti «Veri finlandesi» che esaltano la «dignità delle tradizioni silvane». In Danimarca sta crescendo il «Partito del popolo» che basa la sua campagna sul «pericolo immigrati». In Olanda il «Partito della libertà» di Geert Wilders ha già 24 seggi in Parlamento e intrattiene contatti sempre più stretti con i consanguinei nazionalisti fiamminghi di Vlaams Belang. Tutti, compresi i nazionalradicali di Budapest e di Bucarest, si riuniranno a fine ottobre ad Amsterdam per festeggiare l'ormai leggendario Wilders.

Si vede, insomma, che il caso svedese è tutt'altro che isolato. L'Europa si è fatta più piccola, mentre la paura, che andrebbe studiata e non solo respinta con anemica «correttezza politica», si va facendo sempre più grande e più ubiqua. Non basta condannare alla rinfusa i «cattivi». Bisognerebbe anche sforzarsi di spiegare come e capire perché sono diventati tali dal Baltico fino al Danubio.
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Titolo: ENZO BETTIZA Cenerentola ora siede tra le Grandi
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2010, 12:07:32 pm
4/10/2010 - POLONIA

Cenerentola ora siede tra le Grandi

ENZO BETTIZA

Ricordate la derelitta Cenerentola postcomunista del 2004? Quella, entrata per la porta di servizio nel Palazzo europeo, che scaraventava i primi lavavetri sotto i semafori di Roma, quella che ossessionava Parigi con lo spettro dell’idraulico crumiro, che spaventava gli agricoltori tedeschi con ortaggi a prezzo stracciato, che si presentava agli americani come una labile zona cuscinetto tra la Nato e la Russia.

Ebbene: chi avrebbe potuto immaginare che, nonostante le sue infinite metamorfosi e sventure, la Polonia del 2010 sarebbe diventata dopo la Germania, anzi a fianco della Germania, una delle nazioni europee oggi economicamente più sane ed emergenti? Chi avrebbe mai supposto che con il suo tasso di crescita, registrato dalla Commissione di Bruxelles al 3,4 percento, avrebbe pareggiato quello tedesco diventando il secondo Paese europeo uscito quasi indenne dalla crisi che ha stroncato la Grecia, sfiancato la Spagna, impoverito il Portogallo, paralizzato l’Irlanda? Fatto sta che il «miracolo sulle sponde della Vistola», come già lo definiscono gli esperti, non è più un effimero trompe-l’oeil: è ormai realtà consolidata e perfino emblematicamente sottolineata dalle fastose inaugurazioni degli stadi di calcio che ospiteranno in terra polacca i Campionati europei 2012. La futura miniolimpiade calcistica dovrebbe fra l’altro restituire alla Polonia, dopo la notte totalitaria infranta dai carpentieri di Danzica, il marchio geopolitico centrale (non più «orientale») che storia e civiltà le assegnano di pieno diritto nel grembo della vecchia e nuova Europa.

Come spiega l’articolo rivelatore di Pierluigi Mennitti, il 2010, anziché anno del miracolo, avrebbe potuto essere per la Polonia un ennesimo annus horribilis. La tragedia d’aprile, il tremendo choc della caduta dell’aereo che trasportava al sacrario di Katyn il presidente della repubblica Lech Kaczinski e novanta personalità dell’élite dirigente, aveva scatenato tra le masse molte e incognite pulsioni politiche.

Per tre mesi d’incertezza, dominati dalla maledizione di Katyn, abbiamo visto aggrovigliarsi un gran nodo di emozioni e passioni confuse che minacciavano di frenare, o addirittura vanificare, l’opera di stimolo riformistico avviata con notevolissimi risultati dal governo moderato di Donald Tusk. Il rischio maggiore era che il vuoto, lasciato dalla morte di Kaczinski al vertice dello Stato, venisse riempito, nell’emergenza caotica delle presidenziali anticipate, dal gemello Jaroslaw, ex premier e leader del partito d’estrema destra Diritto e Giustizia. Era, costui, l’anima nera della gemellocrazia che i due indistinguibili omozigotici, l’uno capo dell’esecutivo e l’altro dello Stato, avevano imposto per un biennio a Varsavia fino alla svolta liberale del 2007. Fu il livello fantapolitico più basso, più stravagante sul piano internazionale, toccato dalla Polonia dopo la rottamazione del comunismo. Quel regime familistico e ultraconservatore era stato contrassegnato, in particolare, dalla retorica di un populismo negativo declamata dall’incontenibile Jaroslaw: egli si professava non solo ideologicamente anticomunista, ma xenofobicamente antieuropeo, antigermanico, antirusso, antitutto, raccogliendo plausi e voti dalla Polonia clericalsciovinista più retriva e più rustica.

Infine, a luglio, la sconfitta del secondo gemello e la vittoria risicata del candidato Bronislaw Komorowski, uomo della scuderia liberale di Tusk, doveva ridare slancio e credibilità alla pericolante strategia riformista riconquistando il favore degli investitori stranieri e dei contabili della Commissione europea. L’ascesa alla presidenza di Komorowski è stata immediatamente percepita come la fine conclusiva dei veti, dei ricatti demagogici, dell’autarchia oscurantista dell’era Kaczinski. Un mercato interno di 40 milioni d’abitanti si è immediatamente risvegliato, i consumi sono cresciuti, le esportazioni aumentate: non più ortaggi bensì migliaia di autobus, prodotti in joint venture con imprese tedesche, poi sofisticati strumenti hightech elaborati a Cracovia, navigli costruiti negli storici e ammodernati cantieri di Danzica.

Certamente non tutto è stato risanato. Permane ancora la palla al piede di una campagna povera, popolata da masse contadine chiuse e misoneiste, bacino elettorale sempre ostile al riformismo oggi più che mai rafforzato dal binomio Tusk-Komorowski. I sei anni trascorsi nell’ambito Ue, non sono stati comunque spesi invano. Un recente rapporto della Commissione testimonia che nel 2009 la Polonia è stata beneficiaria di un «extra» di 6,5 miliardi di euro e che la Germania, al solito, è stata il maggior contribuente. Premio volto ad accelerare un decollo già avanzato. Difatti l’economia urbana polacca, incrementata dai fondi comunitari, si è velocemente rialzata sulle proprie gambe grazie a un ceto medio operoso e ad un governo di centrodestra razionale e dinamico. La Polonia intelligente che ne segue e sostiene la linea aperta all’Europa, molto stretta alla Germania, in distensione con la Russia, sta ora chiudendo l’anno in ottima salute; conti in regola; industrie in moto; con in più la pagella di uno dei rari Paesi europei che ha saputo evitare scogli e marosi della recessione. Non dimentichiamo che la Polonia è da sempre terra di tragedie e di sorprese, di ricadute e riscatti e sfide imprevedibili. L’ultima è la più sorprendente. Diventare una nazione di punta, nazione leader di un’Europa allargata e mutata, che vive il crepuscolo dell’asse franco-tedesco e vede Berlino avvicinarsi sempre più alle capitali postcomuniste.

Le vicende storte del mondo contemporaneo costringono generalmente, coloro che scrivono sui giornali, a farsi il callo all’idea che solo la cattiva notizia fa notizia. Finalmente da Varsavia ci viene suggerito che anche una buona notizia può andare in prima pagina.

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Titolo: ENZO BETTIZA Il grimaldello dello scrittore
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2010, 12:54:32 pm
8/10/2010

Il grimaldello dello scrittore

ENZO BETTIZA

Letteratura e politica insieme, oppure letteratura come preludio alla politica, oppure ancora letteratura come correttivo, come antidoto o addirittura fuga dalla politica aspra e approdo all’utopia liberale? Tutte domande sottili, in parte contrastanti, che si addicono quasi simultaneamente alla complessa e nomade personalità intellettuale di Mario Vargas Llosa.

Romanziere prolifico, drammaturgo visionario, saggista provocatorio, giornalista asciutto, al tempo stesso sfortunato e battagliero candidato nel 1990 alla presidenza del nativo Perù, l’infaticabile Llosa ha aggiunto sovente al grimaldello dello scrittore che sviscera la politica la grinta del militante che fa politica. Gli accademici del Nobel, premiandolo dopo la tedesca Herta Müller, vittima solitaria dell’Est comunista, hanno messo per la seconda volta il dito su uno dei tasti più delicati, in perenne attesa di chiarezza, del mondo contemporaneo: il rapporto irrisolto tra «nobiltà dello spirito», come Thomas Mann chiamava la cultura, e trivialità drammatica nelle svolte rivoluzionarie o empirica e più statica in circostanze democratiche. Insomma il legame mutevole e spesso strinato del poeta, del filosofo, dell’intellò novecentesco di stampo europeo, in senso lato occidentale, col ruvido pragmatismo dell’azione politica.

I valori aggiunti all’originaria americanità latina di Llosa sono europei: cittadinanza spagnola, formazione parigina, residenza londinese. Ma non tutta l’intelligencija occidentale riconosce in lui uno scrittore e soprattutto un analista impegnato civilmente e socialmente. L’Italia, dove gran parte della sua opera romanzesca è pubblicata da Einaudi e da Rizzoli, lo riconosce e lo celebra principalmente (parole sue) «come uno schiavo volontario e felice della letteratura». Tanto schiavo da esserne alla fin fine stufo e quasi infelice. Rileggo una ricca intervista, concessa al Corriere della Sera nel 2008, in cui il Llosa «politico» confidava a Dario Fertilio il suo disappunto di venire considerato dagli italiani soltanto come un «romanziere». Diceva alquanto deluso: «Nessuno si prende la briga di pubblicare i miei saggi sulla situazione sudamericana. Ancora oggi un certo conformismo di sinistra passa sotto silenzio il saggista liberale, dando spazio al solo narratore. Invece che vedermi dipinto come un uccello esotico, preferirei mi si considerasse un uomo del nostro tempo che pensa e guarda, senza paraocchi, la realtà che lo circonda».

L’esatta collocazione ideologica dell’odierno Nobel continua a essere ignorata o, peggio, equivocata per calcolo o disinteressata corrività. Diversi, dimenticando il suo distacco critico dall’«illusione italiana», cioè dal populismo berlusconiano, tendono a percepire in Llosa un liberalconservatore, un cantore di centrodestra, mentre secondo me egli inclina a un certo radicalismo e purismo liberale. Non a caso un suo capolavoro intriso di sdegno politico, «La fiesta del chivo» ovvero «festa del caprone», pubblicato nel 2000, è una sublime requisitoria a mezza via tra realtà e surrealtà contro le tirannidi caraibiche. Vi si narra la storia non remota di San Domingo, quella più sudicia, dominata dal generalissimo Rafael Leónidas Trujillo, il despota caprigno al quale i notabili della spaventata repubblica delle banane portavano in dono figlie e fidanzate per il consumo dello jus primae noctis. Lo spietato ritratto al fosforo del priapesco caudillo, che risente il contagio dei demoniaci personaggi di Borges e di García Márquez, è uno dei mostri più impressionanti che ci siano arrivati dalle nebbie insondabili dell’universo letterario sudamericano. Il crudo pamphlet qui si congiunge alla maestà di una fiaba nera e atemporale. La nemesi giungerà dopo un implacabile trentennio criminale (1930-1961), quando Trujillo, padrone della vita e della morte di un popolo perduto, verrà trucidato in un attentato ordito dai suoi collaboratori e da agenti occulti della Cia.

Llosa conosceva bene, e di persona, anche i feroci caudilli di sinistra con la coorte di menestrelli da Márquez a Sartre. In gioventù il bellissimo scrittore, dai tratti aristocratici, aveva esaltato Cuba, stimato Castro, amato Guevara, frequentato bettole e bordelli con Márquez. Ma l’infatuazione finì con la comunistizzazione dell’Avana e l’arrivo dei missili sovietici a Cuba. L’insofferenza politica riprese il sopravvento. Il suo castrismo si stroncò, pressoché fisiologicamente, in una epica rissa a pugni con l’amico Márquez. Dopodiché, nel suo immaginario ideologico la Parigi di Aron sostituì la Rive Gauche di Sartre e il liberalismo puro, più intransigente che dubitativo, conquistò definitivamente l’animo europeizzato del futuro Nobel.

La grande svolta non impedì tuttavia, anzi, favorì la riconciliazione con il geniale compagno colombiano Márquez al quale, in omaggio armistiziale, il peruviano neoliberale volle dedicare nel 1971 l’effervescente «Historia de un deicidio». Effervescente certo. Ma forse non priva di squarci d’ambiguità, quanto meno di bivalenza, giacché i due famosi amici-nemici hanno rappresentato e indicano pur sempre due diverse vie d’uscita storica al travagliato subcontinente dell’America Latina. Oggi per Márquez è Chávez il successore legittimo di Castro; per Llosa, forse, è Llosa stesso.

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Titolo: ENZO BETTIZA Lo scarto balcanico
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2010, 11:57:50 am
14/10/2010

Lo scarto balcanico

ENZO BETTIZA

Ormai gli stadi del mondo stanno diventando un pretesto teppistico che ha sempre meno a che fare con la nobiltà originaria dello sport, con il codice d’onore fra squadre e nazioni in rivalità ludica ma leale fra loro. Stanno diventando sempre più arene di violenza pura o, peggio, non soltanto gratuita. In realtà stanno perfino degenerando, come a Genova, in terrificanti rappresentazioni teatrali di massa, a sottofondo metastorico o mitologico in cui si celebrano e ribadiscono, in aggressiva parodia, tristi memorie di guerra del passato prossimo, guerriglie e pulizie etniche più recenti, o addirittura battaglie perdute e rivendicate dopo secoli in strabica rivisitazione omerica. S’è per esempio visto, sull’avambraccio di un gigantesco ultrà belgradese, la fatale data del 1389, evocante la tragedia degli eserciti slavi guidati dai serbi contro i turchi nella sfortunata battaglia del Kosovo Polje. Ai duemila guerriglieri serbi, perché tali e non tifosi erano per davvero, interessava assai poco parteggiare sia pure energicamente per la loro squadra e gufare per quella italiana.

Interessava molto più agli epigoni e fanatici della Stella Rossa di Belgrado sottolineare con brutalità, in un grande emporio europeo come Genova, che essi provenivano dai battaglioni paramilitari dediti a suo tempo a perpetrare in Bosnia, Croazia e Kosovo i più orrendi massacri compiuti in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Gli energumeni in tuta mortuaria, passamontagna terroristico sul volto, teschio gessoso con ossa incrociate sul petto, solo in parvenza evocavano i Gozzilla tratti da qualche film o videogame dell’orrore; in realtà s’è trattato di veterani ben agguerriti, provenienti in gran parte dalle temibili «Tigri di Arkan», lanzichenecchi ipernazionalisti che avevano il loro vivaio nella Stella Rossa di Belgrado il cui gestore milionario, durante e dopo le ultime guerre interjugoslave, era stato per l’appunto Željko Ražnatovic, detto Arkan. Abbiamo visto nella gabbia dello stadio genovese un caporione, calmo, trapezistico, meticoloso, mentre spicinava le vetrate intorno e tagliava le reti divisorie con la perizia tecnica e gli strumenti di un autentico guastatore da combattimento.

Che ai duemila ultrà scaraventatisi con tanto d’arsenale a Genova importasse poco o niente la vittoria della nazionale serba, lo si è capito bene dalla letale aggressione scagliata contro il portiere Stojkovic, preso a bersaglio come un fellone per aver tradito il covo della Stella Rossa e scelto di giocare per la rivale squadra indigena del Partizan. Che si sia trattato, inoltre, di una vera e propria performance paramilitare, lo dimostrava anche la quintessenza insieme leggendaria e politica che animava i veterani decisi a distruggere lo stadio Marassi con lancio di razzi, fumogeni, bombe di carta, cesoie, coltelli e spranghe d’ogni genere: la distruzione doveva essere un ammonimento non alla nazionale italiana, ma all’Italia in quanto tale, che aveva partecipato alla guerra antiserba nel Kosovo e riconosciuto, insieme con altre sessantuno nazioni, l’indipendenza kosovara nel febbraio 2008. Il momento culminante del raptus mitico lo si è visto nel momento in cui hanno dispiegato la bandiera albanese, con l’aquila bicipite, dandola alle fiamme e tracciando minacciosamente nell’aria il segno ortodosso delle tre dita: «Serbia divina», «Montenegro sacro», «Bosnia fedele». Purtroppo quel sacro gesto cristiano, pervertito dai cetnici delle milizie più estremiste, è stato contraccambiato dal campo di gioco, non si sa se per condivisione o per paura dal capitano Dejan Stankovic. C’è chi dice volesse avvertire i connazionali, almeno i più ragionevoli, che l’interruzione della partita avrebbe favorito gli italiani con un tre a zero a tavolino. Sarà.

In termini calcistici è stato questo uno dei più pesanti autogol sferrati dalla Serbia contro se stessa nel momento in cui un governo responsabile, guidato dal presidente moderato Boris Tadic, si prepara a ricevere il 25 ottobre dal Consiglio europeo il via libera della domanda d’adesione di Belgrado all’Ue. Gli ultrà, politicamente confusi e trasversali, non solo di destra estrema, certo non rappresentano la Serbia attuale nella sua interezza e nella sua resipiscente rinascita europeista. Costituiscono lo scarto balcanico, irrazionale e passionario, lasciato alla maggioranza dei serbi pensanti dal nazionalcomunista Miloševic, dal poeta pazzo Karadžic e dal criminale di Srebrenica Mladic, tuttora in contumacia protetta. Sono stati costoro i veri responsabili della perdita di tutto ciò che una nazione eroica come la Serbia, nerbo storico della defunta Jugoslavia, aveva conquistato a fianco degli alleati occidentali dopo il primo conflitto mondiale e riconsolidato, dopo il secondo, in un contesto federativo, con il comunista riformatore Tito: cioè l’intero Kosovo, l’intera Macedonia, due terzi della Bosnia, tutta la Croazia e tutta la Slovenia. È contro i loro padrini scomparsi e sconfitti che gli ultrà di Belgrado avrebbero dovuto scagliare il segno trinitario dell’antichissima e gloriosa croce serba e ortodossa.

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Titolo: ENZO BETTIZA. La rivoluzione accidentale di Mr Cameron
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 09:11:40 am
5/12/2010

La rivoluzione accidentale di Mr Cameron

ENZO BETTIZA

I festoni natalizi volatili e sgargianti non riescono ad attenuare del tutto un senso di opacità turbata. Un’opacità un po’ spettrale che, tra folate di gelo polare, assedia sottilmente la capitale britannica in queste giornate d’inattesa protesta studentesca, di spietati rigori fiscali, di taglienti misure d’austerità in netto contrasto con sfilze di vetrine ingombre di beni di lusso eccessivi e inaccessibili. Come se non bastasse, l’atmosfera si è perdipiù appesantita dopo che dalle segrete fluviali di Wikileaks è emerso il giudizio negativo dei cugini americani sui due giovani leader della coalizione di maggio, il conservatore David Cameron e il liberaldemocratico Nick Clegg, definiti «deboli e destinati a non durare a lungo».

Giudizio se non altro affrettato. Può darsi che i dioscuri affini ma non identici, costretti dall’aritmetica elettorale a coalizzarsi, non ce la faranno a rispettare il patto di governare insieme per l’intero quinquennio della legislatura. Ma l’insinuazione, che li vorrebbe «deboli», non sembra reggere in queste settimane d’imposte triplicate sulla retta universitaria e di cancellazioni ancor più spietate inflitte a 500 mila posti di lavoro nel pubblico impiego. L’aria rigorista che si respira è quella, già travolgente nella vicina Irlanda, di un drastico ridimensionamento per non dire scorticamento dell’elastico Welfare all’inglese. Il liberal Clegg, sfidando l’ala socialdemocratica del suo stesso partito, fa almeno per adesso da scudo ideologico o, se vogliamo, da temeraria testa di turco al più radicale taglio della spesa pubblica operato da una coalizione a guida Tory dalla fine della seconda guerra mondiale.

E’ soprattutto lui, il vicepremier Clegg, il quale dall’opposizione diceva una cosa mentre dal governo ne dice un’altra, è lui che oggi paga, in termini di sondaggio e d’immagine, il conto della salatissima anoressia di Stato. Anoressia comminata al Paese dal premier Cameron che, prima e dopo l’elezione, preannunciava al contrario di Clegg sempre la stessa cosa: l’inevitabilità di un’asfittica stretta di cinghia.

Si sa che i conservatori in Gran Bretagna sono storicamente mitridatizzati all’odio rassegnato delle masse. Stavolta però hanno un jolly d’eccezione nella manica. Hanno la copertura morale da sinistra, in parte obbligata in parte calcolata, offertagli dall’abbraccio del vertice liberaldemocratico per ora docile e collaborativo. Si sentono perciò le mani più sciolte che mai per affrontare la grande svolta, la perigliosa operazione di salvataggio che il declino della nazione, il logorio del Welfare e la recessione mondiale impongono obiettivamente agli inglesi. Il loro duplice vantaggio isolano, che li rendeva insieme distanti e partecipi ai vortici della globalizzazione, ha finito per portarli al capolinea di un itinerario di colpo crepuscolare. Basta una visita breve alla City a farci percepire il malessere, per non dire la sindrome emiplegica, che sotto l’agitato traffico della metropoli paralizza ancora in buona parte quello che fu, a fianco di Wall Street, il più creativo e avventuroso vivaio del capitalismo finanziario mondiale.

Gli aspri successi liberisti di Margaret Thatcher, quelli morbidi e più edonistici di Tony Blair, infine il triennio di compromessi fallimentari tra stimoli capitalisti e sogni socialisti di Gordon Brown sono ormai archeologia politica. L’«era della coalizione», come la chiamano, è un’era di rottura brusca, di amputazioni impensabili in Francia o in Italia, smantellamenti, interventi profilattici restrittivi e arrischiati che, sotto molti aspetti, fanno apparire smussata perfino la scure della tagliatrice di teste Thatcher. I rari governi di coalizione evocano non a caso, nella storia britannica, momenti cruciali d’emergenza riassunti nel motto churchilliano di «lacrime e sangue».

E’ difficile etichettare la coalizione che cavalca l’attuale stato d’emergenza; nell’ottica dei Tories si presenta come un governo di centrodestra, in quella dei liberaldemocratici come un esperimento inedito di centrosinistra. Ma, più dell’etichetta, quello che pragmaticamente prevale oggi è il dirompente novum di una ricetta a suo modo rivoluzionaria, mirata non solo a sconvolgere il tradizionale sistema bipartitico, a disarticolare la rigida diarchia fra conservatori e laburisti, immettendo nell’arena una terza forza liberale e promettendo un referendum inteso a modificare l’avara legge elettorale basata sul gioco e il giogo di due soli partiti. Sul tavolo c’è molto di più.

C’è la decisione di dimezzare i costi della politica svuotando l’apparato burocratico, riducendo il numero dei deputati ai Comuni, prosciugando l’affastellamento congestionato e sclerotico di troppi Lord alla Camera Alta del Regno. C’è, infine, l’intento, che potremmo definire smitizzante, di ridurre il peso e la memoria del passato imperiale. Il che significa consegnare definitivamente all’oblìo il fascino romantico di Kipling, dimenticare le succursali del Commonwealth, dare una sforbiciata anche alla «relazione speciale» con l’America e riportare l’Inghilterra alla sua reale misura odierna di potenza media europea.

Stanno entrando difatti nel tritacarne non solo i ministeri che si svuotano, le ambasciate che si sfoltiscono, i leggendari consolati che si chiudono, le scuole d’elite che protestano, i servizi di sanità che d’altronde languono da un pezzo. La mannaia sta per abbattersi pure sulle forze armate, simbolo residuo e fino a ieri efficiente del retaggio imperiale, i cui comandanti d’ogni epoca, dal Nelson con feluca al Montgomery con basco, costellano con le loro impassibili statue in bronzo e in marmo le principali piazze di Londra.

Il «clean break», la rottura detta pudicamente «pulita», ridurrà dell’otto percento il bilancio della difesa per i prossimi quattro anni; ma diversi osservatori, taluni preoccupati, altri soddisfatti, ritengono che il depotenziamento dell’arsenale militare andrà ben oltre nel tempo. Il Regno Unito conserverà il simbolo deterrente dell’atomica, mentre la regina dei mari, la mitica flotta, l’orgoglio d’Albione che diede la sua ultima prova di forza nella guerra lampo delle Falkland, dovrà accontentarsi di collaborare e condividere con la Francia la produzione cantieristica delle corazzate.

L’«era della coalizione» coinciderà così con l’ultimo e definitivo tramonto degli emblemi e della grandeur imperiali. La stessa collocazione dell’Inghilterra sulla scena internazionale non potrà non subire spostamenti e contraccolpi, per ora imprevedibili, forse non tutti negativi. La sola prospettiva che possiamo intanto immaginare è che l’Atlantico si farà per gli inglesi probabilmente più largo e la striscia della Manica più stretta. Poi si vedrà fino a che punto l’isola superba e ubiqua di Sua Maestà, costretta alle sue vere dimensioni, riuscirà più o meno a «europeizzarsi».

Forse nessuno, né a Londra né altrove, s’aspettava che a sei mesi dal suo titubante insediamento la coalizione Cameron-Clegg si sarebbe lanciata d’un tratto in una sfida tanto radicale da coinvolgere e stravolgere, al di là di un’ingessata costruzione politica, almeno due secoli di storia nazionale e planetaria. Sfida definita anche «rivoluzione accidentale», nel senso che non è stata imposta dalla volontà degli uomini alle cose, ma dalla forza superiore delle cose agli uomini. Il Financial Times l’ha descritta ricorrendo a una paradossale battuta castrense del maresciallo francese Foch: «Il mio fianco destro è sotto pressione. Il centro sta per cedere. La manovra mi è impedita. Situazione eccellente. Io attacco».

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Titolo: ENZO BETTIZA Demoni d'America
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2011, 03:42:31 pm
10/1/2011

Demoni d'America


ENZO BETTIZZA

Ricordo quello che mi diceva Montanelli, che, da giovane recluta del mestiere, aveva lavorato per qualche tempo un po’ da Parigi e un po’ da New York per una agenzia di stampa americana: «Ogni volta che andrai negli Usa non dovrai dimenticare che loro, anche se non lo dicono, credono soprattutto in tre cose. Bibbia, pistola e sedia elettrica». Era una generalizzazione lampo, che, come altre iperboli di Montanelli, condensava in pillole le verità che ritroviamo in genere stemperate o pudicamente ignorate nei libri di storia dedicati alla tumultuosa società democratica e multietnica d’Oltreoceano. Già i Padri Fondatori, con la loro scarna e poco indulgente religiosità luterana, capivano che l’universo incognito che andavano estendendo dall’Atlantico al Pacifico non avrebbe potuto fare a meno di tre strumenti essenziali. La Scrittura a portata degli occhi, la pistola a portata di mano, la corda giustiziera a portata del collo dei trasgressori.

È su questo ruvido sfondo di delitto e castigo che in America si sono consumati i più gravi omicidi politici da Lincoln ai fratelli Kennedy. Ed è su tale ancestrale sfondo di follia nichilistica, simile a un contrappunto nero nei confronti del luminoso ottimismo del «sogno americano», che esplodono troppo spesso casi tragici in cui vediamo un pistolero scaricare l’arma all’impazzata nei campus, nei dormitori delle caserme, nelle sfilate e nei raduni politici. Arma, si badi bene, sovente personalissima, acquistata con un centinaio di dollari in un negozio non lontano da casa.

Il massacro compiuto in Arizona da un giovane ignoto, apparentemente un povero squilibrato, muto e pietrificato davanti ai magistrati, non può essere interpretato come novità assoluta. L’orrore che suscita, per quanto immenso, rientra purtroppo nella casistica delle cronache nere e degli attentati americani. La vera novità è un’altra. È nel clima politico di divisione sempre più radicalizzata, da guerra civile bianca, dilagata col movimento del tea party, culminata nel recente trionfo parlamentare dei repubblicani e provocata, principalmente, dall’insediamento nella Casa Bianca di un anomalo presidente liberal: ormai considerato da molti elettori, anche democratici delusi, «socialista», «europeo», «poco americano». Sarebbe certamente eccessivo evocare l’America lacerata tra sudisti e nordisti, oppure l’America delle lettere scarlatte di Hawthorne, delle pannocchie stupratrici di Faulkner, dei film spietati dei fratelli Coen e di Eastwood. In termini politici non siamo ancora a tanto. Siamo però a un punto che è, insieme, di stallo e di svolta insidiosa: le misure anticrisi che boccheggiano, spesa pubblica e disoccupazione che crescono, l’assistenza medica per tutti che non tutti desiderano e che i repubblicani si preparano a svuotare al Congresso dove hanno conquistato la maggioranza.

È da un simile quadro politicamente teso, pieno d’astio e di vetriolo, scrivono i giornali, che la madrina carismatica del tea party, Sarah Palin, ha tratto lo spunto per stilare una «target list». Una minacciosa lista nera, in cui spiccavano, come in un tiro al bersaglio, i nomi di tanti personaggi «da abbattere»: al terzo posto figurava la vittima democratica Gabrielle Giffords. Non a caso nel marzo dell’anno scorso, in vista della rovente riforma sanitaria, l’ufficio della deputata, già considerata idonea alla carica di governatrice dell’Arizona, Stato del Sud in polemica xenofoba con Washington, era stato attaccato a Tucson da vandali notturni. L’Arizona ha varato, nel 2010, una poliziesca legge antimmigrazione ed oggi è uno dei luoghi più inospitali degli Usa. Di notte si è al limite del coprifuoco. Lo sceriffo di Tucson, Clarence Dupnik, ne ha definito senza mezzi termini l’atmosfera: «Siamo diventati La Mecca del pregiudizio e del fanatismo».

Ecco, insomma, il colore e la temperatura della buia città sudista. Qui, durante un comizio, è stata colpita alla testa Gabrielle Giffords, sono morte sei persone, tra cui una bambina e un giudice federale, e ne sono state ferite altre dodici. È l’incidente senz’altro più tetro abbattutosi sul già travagliato percorso nazionale del presidente Obama. Ma chiedersi ora se l’attentatore, il ventiduenne Jared Loughner, sia un pazzo isolato o membro di un gruppo di congiurati antidemocratici, pare una di quelle domande destinate a non ottenere mai una risposta. In genere i grandi attentati, come l’oscuro assassinio di Kennedy a Dallas, restano in America privi di un identificabile sigillo politico.

L’unica cosa che per ora possiamo dire con certezza è questa. Che anche il lupo solitario, come le sue prede, appare per qualche aspetto una vittima invasata, una vittima orrenda, un relitto psicolabile travolto dal clima di sovreccitazione ideologica e contrapposizione oltranzista che si respira negli Stati Uniti dopo le elezioni di medio termine. Auguriamoci che gli anticorpi, che all’America non sono mai mancati, riescano a eliminare i dèmoni dal suo futuro prossimo.

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Titolo: ENZO BETTIZA La Russia e le radici dell'odio
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2011, 12:06:27 am
26/1/2011 - LA STRAGE DI MOSCA

La Russia e le radici dell'odio


ENZO BETTIZA

Il terrorismo non è certo fenomeno nuovo nella storia della Russia, così come non sono affatto nuove le guerre e le guerriglie o gli atti di brigantaggio politico nei labirinti etnici e religiosi del Caucaso. Le statistiche storiche grondano di sangue, atrocità d’ogni genere, doppi giochi ambigui e pressoché permanenti. Dagli squadroni criminali a cavallo dell’Opricninà personale del veterozar Ivan il Terribile, dai metodi brutali della Preobraženskij Prikaz dell’illuminato Pietro il Grande, dalla spietata Terza Sezione del conte Bekendorf fino ai dipartimenti speciali e delittuosi dell’Okhrana del tardo zarismo si vide rigenerarsi sistematicamente, in Russia, un singolare quanto paradossale metabolismo: in sostanza si vide saldarsi, fuori d’ogni regola morale e d’ogni controllo legale, uno scellerato connubio tra il personale segreto addetto alla sicurezza dello Stato e gli uomini più in vista di organizzazioni eversive, populisti utopici, socialrivoluzionari dinamitardi, anche bolscevichi doppiogiochisti, intenzionati ad annientare personalità e settori dello stesso Stato che sovente li sovvenzionava, li copriva e perfino se ne serviva.

Non a caso l’esempio più clamoroso di un agente doppio assoldato dall’Okhrana fu quello di Evno Azef, il capo dell’organizzazione combattente socialista rivoluzionaria, uno dei maggiori precursori dell’impiego negli attentati di terroristi suicidi. Nei primissimi anni del Novecento Azev, mentre tramava l’assassinio di due ministri dell’Interno e di un granduca, riceveva somme imponenti dai servizi zaristi. Ad un certo punto, quel patologico genio della doppiezza e della provocazione non seppe davvero più per chi stesse lanciando bombe e uomini destinati all’autosacrificio: per lo zar o contro lo zar?

Qualcosa di simile si potrebbe dire per lo stesso Lenin che, al pari di Stalin, aveva tratto diverse ispirazioni tecniche dai labirinti dell’Okhrana. Negò fino all’ultimo la verità denunciata dai menscevichi a proposito di Roman Malinovskij, operaio e capogruppo dei sei parlamentari bolscevichi alla Duma, definendolo «dirigente proletario portatore di grandi speranze». Quando la triste verità venne inesorabilmente a galla, si seppe che Beletskij, direttore della polizia ai tempi di Nicola II, nei rapporti descriveva Malinovskij come «l’orgoglio dell’Okhrana».

Oggi, dopo il devastante e spettacolare massacro compiuto da uno o due kamikaze all’aeroporto moscovita di Domodedovo, si parla con sufficienti ragioni cronachistiche di un ennesimo atto terroristico «di matrice caucasica e islamica». Ma il terrorismo nel Caucaso, che non comprende solo ceceni, daghestani, ingusci, eccetera, aveva conosciuto pure radici non islamiche. Prima della rivoluzione uno dei più terribili attentati di brigantaggio terroristico fu compiuto da un ex seminarista ortodosso, il ventinovenne Josif Džugašvili, in seguito noto come Stalin, che il 13 giugno 1907 mise a ferro e fuoco il centro di Tiflis, capitale della Georgia. Scopo del vasto e organizzatissimo assalto, che si prolungò per un giorno e una notte, era un carro blindato che trasportava quintali di rubli, destinati secondo il piano a foraggiare il partito bolscevico dal capobanda e dai suoi uomini di mano: malavitosi comuni, fuorilegge disperati, preti spretati, principi romantici e chisciotteschi ridotti in miseria. Luogotenente del futuro Stalin era il leggendario armeno Kamo, temerario rapinatore di banche, maestro di evasioni, un quasi matto incline ad una violenza crudele e senza freni. Erano tutti, in qualche modo, fondamentalisti del terrore. Li dipinge così Simon Sebag Montefiore, documentato biografo del giovane Stalin: «Le loro azioni erano criminali, ma non gli importava nulla del denaro; erano devoti a Lenin, al partito e al loro burattinaio di Tiflis: Stalin». Qualche giorno prima Lenin e Stalin s’erano incontrati segretamente a Berlino, per mettere a punto il colpo nonostante il partito socialdemocratico, di cui i bolscevichi facevano ancora parte, avesse rigorosamente vietato i cosiddetti «espropri proletari» (cioè rapine bancarie). Gli avvenimenti di quella giornata di sangue scossero dalle fondamenta Tiflis e il Caucaso e polverizzarono il già spezzato partito socialdemocratico nella violenta fazione leninista e in quella più intellettuale dei menscevichi di Martov e Plechanov. Comunque, agli occhi di Lenin, le gesta banditesche di Stalin, sempre meticolose, segrete, perfezioniste, dovevano fare di lui il «principale finanziatore del Centro bolscevico».

Come si vede, il terrorismo russo, già agli inizi del secolo scorso militarmente e ideologicamente radicato nel Caucaso, era un fenomeno a suo modo ancestrale, trasversale, equivoco, a doppia lama. Si avvinghiava da ogni lato alla complessa storia russa, allo Stato russo, alle polizie russe e, infine, alla stessa rivoluzione russa, alla guerra civile russa, alla collettivizzazione forzata contro i contadini e all’arcipelago Gulag. Le stesse fortune e sfortune di Putin ci appaiono oggi, per più aspetti, legate per calcolata reazione ad un terrorismo islamico che ha trovato comunque nell’odiata Russia un terreno fertile e perfino qualche maestro cattivo da cui assorbire la lezione. Fra le notizie nei giornali mi ha particolarmente colpito, per esempio, il fatto che un siberiano slavo, Alexander Tikhomirov, sia diventato un istruttore di giovani kamikaze ceceni, uomini e donne; fino alla sua morte, avvenuta l’anno scorso durante un conflitto a fuoco, ha preparato plotoni di fanatici suicidi curandone personalmente l’addestramento. Quanto a Putin, sarà bene non dimenticare che la lotta al terrorismo è stata il trampolino di lancio nella sua straordinaria ascesa al potere. Era appena diventato Presidente nel 2000 quando, di lì a poco, scoppiarono gravi attentati alla periferia di Mosca che lo spinsero a sobbarcare l’esercito russo alla seconda guerra cecena e a chiudere con toni gelidi una memorabile trasmissione televisiva: «Darò la caccia ai terroristi fino ai cessi più profondi».

Poi Grozny è stata rasa al suolo dai blindati e dai cannoni russi. Dopodiché è stata ricostruita e «pacificata» sotto il knut di Kadyrov: un pascià collaborazionista crudele, corrotto e privo di scrupoli che, coperto dal Cremlino, ha continuato a governare la Cecenia con brutalità terroristica nel nome della Russia cristiana.

da lastampa.it


Titolo: ENZO BETTIZA Angelica Balabanoff La leggenda della santa socialista
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2011, 06:47:04 pm
Cultura

27/02/2011 -

La leggenda della santa socialista

Angelica Balabanoff, la piccola rivoluzionaria "mai tranquilla": una biografia di Amedeo La Mattina

ENZO BETTIZA

La prima pagina del libro (Amedeo La Mattina, Mai sono stata tranquilla, Einaudi 2011) comincia con la descrizione di un’alba d’inquietante agonia del 25 novembre 1965. «Una vecchietta sta morendo in un appartamento romano di Montesacro. Bacia nell’aria un volto che aleggia sulla sua testa canuta» sospirando, nel più accorato dei diminutivi russi, mamuška mamuška… La morente, di cui nessuno sarebbe in grado di precisare l’età inoltratissima, esala l’ultimo mormorio quasi ignota, dimenticata da tutti. È passato più di mezzo secolo dal giorno in cui, mentre abbandonava gli odiati privilegi della tenuta patrizia dov’era nata, venne colpita dallo struggente urlo di malaugurio che la mamuška, la madre padrona, una ricca vedova ebrea di Cernigov in Ucraina, le aveva scagliato addosso: «Tu sarai maledetta per tutta la vita e quando morirai mi chiederai scusa».

Non si sa bene se quella fuga dai territori zaristi verso il Belgio, dove allora si davano convegno illustri «sovversivi» e dottori di marxismo, avvenne negli ultimi due anni dell’Ottocento o ai primi del Novecento. Neppure si sa con certezza se la fuggitiva ribelle, la mezza russa Angelica Balabanova, con desinenza prussificata in Balabanoff, avesse meno o più di vent’anni nel momento della rottura con la facoltosa famiglia i cui beni e vantaggi la riempivano di vergogna e sensi di colpa. La sua vera data di nascita è rimasta sempre avvolta nel mistero. «Qualcuno - scrisse Montanelli in un raro “coccodrillo” dedicato dalla stampa italiana alla scomparsa - gliene attribuiva novanta, altri novantacinque. Forse li aveva dimenticati anche lei e comunque non le pesavano». La Mattina, biografo appassionato della vegliarda un tempo famosa, poi condannata da gran parte della cultura progressista alla damnatio memoriae, conclude così l’ultima delle sue ricche 370 pagine: «Questo libro è il merito che spetta a una donna che ruppe con Mussolini e con Lenin. Una “santa del socialismo” che diventò anticomunista e implacabile fustigatrice delle debolezze umane e politiche della sinistra italiana».

Il riscatto di memoria, che La Mattina dedica alla Balabanoff con lo scrupolo dello storico e il distacco descrittivo del giornalista, è basato non solo su una ricerca spregiudicata accuratissima, stipata di testi e documenti sottratti all’oblio e alla polvere degli archivi. Egli puntella il suo scavo certosino anche su incontri con personaggi che conobbero in presa diretta quella stranissima errabonda, mai placata, «mai tranquilla», spesso affamata e denutrita, sempre in fuga da se stessa e dalle sue molte patrie: la nativa Ucraina, la culturale Germania, l’insidiosa Francia, l’ospitale America, l’adottiva e amatissima Italia. Fra gli intervistati dall’autore primeggia un vecchio giornalista dell’Avanti!, Giorgio Giannelli, «unico erede testamentario ancora in vita» e piuttosto incredulo o agnostico, come lo era Renzo De Felice, a proposito della diffusa vulgata che voleva o vorrebbe tuttora vedere in Angelica una delle tante concubine del giovane socialista Mussolini.

Eppure, uno dei nodi di questa biografia a più strati, che come un mare gonfio e profondo ne coinvolge altre maggiori e minori, è proprio nel rapporto complesso, pedagogico, umano, sentimentale, perfino logistico, tra la rivoluzionaria ucraina e l’irrequieto rivoluzionario romagnolo. Una buona metà, se non di più, della narrazione è incentrata infatti sull’incrocio biografico tra il giovanissimo esule in Svizzera, poi direttore dell’Avanti!, quindi leader dell’ala rivoluzionaria del Partito socialista, e la meno giovane ma certamente più dotta Balabanoff che aveva letto moltissimo e parlava almeno cinque lingue. De Felice, sempre attento a frenare pettegolezzi e vulgate, non ha concesso spazio nel suo Mussolini il rivoluzionario alla probabilissima relazione anche erotica tra l’allievo autodidatta e la prolifica maestra ucraina di marxismo, la quale, nella scia delle mode più estremiste dell’epoca, teorizzava e praticava l’amore libero.

Lo stesso De Felice aveva invece messo bene a fuoco, sul piano storiografico, l’incisiva e determinante influenza ideologica esercitata sulla formazione di Mussolini, oltreché dall’onesto Giacinto Menotti Serrati, dall’incalzante Balabanoff, che cercherà di sospingere l’ambizioso pupillo sulla strada di un maggiore approfondimento dottrinario del socialismo. Va detto che, per molti aspetti, l’aristocratica rivoluzionaria era una idealista tanto colta quanto ingenua. Sembrava non accorgersi, forse mentalmente confusa da sentimenti e istinti poco libreschi, che soprattutto Sorel era per Mussolini assai più importante di un Marx già contestato da Bernstein e limato dal grande Kautsky; sembrava non avvertire che le riflessioni sulla violenza, sullo sciopero generale, in una parola il sindacalismo rivoluzionario erano a lui, ideatore del primo fascismo che nasce come tronco deviato dalla sinistra anarchica e massimalista, assai più congeniali del materialismo storico e dialettico predicati dal profeta del Capitale. Non a caso Mussolini aveva ammirato Bakunin e tradotto dal francese qualche pagina di Kropotkin.

Ancora più tardi, negli anni antecedenti la Prima guerra, quando gli farà da spalla nella direzione dell’Avanti! e lo appoggerà nella conquista delle principali leve del Partito socialista, la medesima Balabanoff, alleata ostinata e cieca, stenterà ad afferrare gli scatti della metamorfosi mannara di un Mussolini ormai maturo e sicuro di sé. Non intravederà l’ombra nera di Hyde accovacciata nel grembo del suo caro Jekyll d’estrema sinistra. Non capirà che il demiurgo moderno, narcisistico, di penna perentoria, d’oratoria tonitruante, di gestualità melodrammatica, in scaltra sintonia con l’infantilismo belluino delle masse stava ormai prevaricando e sbeffeggiando l’idealismo ottocentesco di lei educata agli slanci del populismo russo e alle certezze storicistiche del marxismo tedesco.

La «santa atea», come la chiamavano, non riuscirà in definitiva a comprendere che il Mussolini rampante, il Mussolini «milanese» dopo l’esilio svizzero, si era sempre servito di lei come di una comoda facciata massimalista nella lotta per il potere all’interno del socialismo italiano contro la destra riformista e salottiera dei Turati, delle Kuliscioff, dei Treves. Alla vigilia della guerra, allorché l’ultrasocialista si convertirà dal neutralismo all’interventismo e lascerà la guida dell’Avanti! per fondare da un giorno all’altro Il popolo d’Italia, la Balabanoff si sentirà sconvolta e come travolta da un disastro esistenziale. Il primo numero del Popolo uscirà il 15 novembre 1914, qualificandosi per breve tempo «giornale socialista», ma esibendo sotto la testata una citazione napoleonica che sembra già covare in nuce il germe dei futuri Fasci di combattimento: «La rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette». La rottura con l’ex maestra antimilitarista è netta e definitiva. «Se non l’avessi incontrata», aveva confessato una volta Mussolini, «sarei rimasto un rivoluzionario della domenica». Per lei, invece, il transfuga è ormai il peggio del peggio: è un Grande Giuda, un Caino, un «Traditore» maiuscolo, come dirà il titolo di uno dei suoi libri più noti.

Fra i tanti meriti di questo sfaccettato saggio multibiografico di La Mattina ce n’è uno, in particolare, che attira l’attenzione del lettore: l’aver rivestito di carne viva, con interventi in proprio e citazioni calzanti, le sagome di personaggi che gli storici professionali ci presentano in genere anemici e ingessati. Nelle sue pagine, per esempio, acquista sangue e nervi il fascino misterioso che una donna come la Balabanoff, di sgradevole aspetto, alta un metro e mezzo, riusciva tuttavia a esercitare sui singoli che la frequentavano e sulle folle che ipnotizzate ne ascoltavano l’eloquio travolgente. A spiegare l’enigma basterà la descrizione a chiaroscuri violenti che, dopo la Seconda guerra, ne dava una cinica signora altoborghese che non le fu amica ma rivale, l’ebrea veneziana Margherita Sarfatti, già amante confessa del giovane direttore dell’Avanti! e poi devota biografa del Dux Anni Trenta. «Angelica era persona uterina, di piatta e sudicia bruttezza calmucca e di corpo deforme»; ma al tempo stesso «era una rivoluzionaria meravigliosamente eloquente in sei o sette lingue diverse. Quando parlava, l’anima saliva a divorarle il volto. Non si vedevano più che due occhi accesi da fiamme, sia d’entusiasmo, sia d’indignazione. Non esistevano per lei vie di mezzo». La lucida e pentita Sarfatti, già amareggiata dall’antisemitismo hitleriano del suo Dux, riconosceva infine di essere stata «miope» nel sottovalutare le risorse e il coraggio della Balabanoff.

Chi non la sottovaluta affatto, anzi se ne serve per un paio d’anni come portavoce da Stoccolma e come segretaria tuttofare della Terza Internazionale a Mosca, è il nuovo padrone bolscevico del Cremlino. La violenza impersonale di Lenin al potere dopo l’ottobre del 1917 rappresenterà, dopo la svolta di Mussolini nel 1915, il secondo trauma fallimentare nella vita tempestata di ideali eccessivi e innocenti dell’eterna fuggiasca senzapatria di Cernigov. Lei, socialista adamantina, naïve, lei che paradossalmente aveva praticato con abbandono sacrificale e impolitico gli inferni politici del secolo scorso, non fu in grado, proprio per questo, di percepire fino in fondo la natura dei due protagonisti esemplari della storia novecentesca che aveva tuttavia «visti di vicino». L’esperienza svizzera non l’aveva aiutata. Nell’esagitato Mussolini, in perenne mutazione d’umori e d’intrighi, non aveva percepito nulla del fascista venturo. Così come nell’appartato Lenin, che lei stessa definiva «scialbo e incolore», non aveva avvertito l’embrionale terrorista di Stato che nei primi tempi della rivoluzione bolscevica l’avrebbe affascinata, arruolata nelle sue schiere e cinicamente utilizzata come rispettabile militante del comunismo internazionale. Al comunismo di guerra risponderà, dopo averlo attraversato, con un anticomunismo di ferro che non le sarà mai perdonato.

La maledizione solenne, proferita dalla mamuška all’inizio dei vagabondaggi di Angelica, avrebbe scandito senza remore, di delusione in delusione, la sua esistenza votata alla purezza dell’ideale assoluto. Un ideale di giustizia, di speranza per i «dannati della terra», sempre intralciata da inganni, tradimenti, delazioni, illusioni e disillusioni: costituiscono questi, tutt’insieme, il filo rosso della trama redentrice sapientemente dedicata da Amedeo La Mattina alle mille vite della piccola grande signora del socialismo italiano ed europeo.

da - lastampa.it/cultura


Titolo: ENZO BETTIZA Gheddafi spiazza l'Occidente
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2011, 12:26:00 pm
14/3/2011 - LA RESISTENZA DEL RAISS

Gheddafi spiazza l'Occidente

ENZO BETTIZA

La riconquista di Brega, porta d’ingresso alla Cirenaica isolata, ultimo caposaldo degli insorti disorganizzati e allo sbaraglio, segna il decisivo punto di svolta a favore delle truppe di Gheddafi nell’avanzata verso la metà secessionista della Libia. Ogni ora che passa accresce sempre più il riconsolidamento del regime repressivo del Colonnello, dei suoi accoliti e soprattutto dei suoi figli addestrati al comando militare e alle pubbliche relazioni. Un’occhiata alla carta geografica basta a darci l’istantanea della situazione. Bengasi, roccaforte dei ribelli, è nel mirino. Dopo la caduta di Ras Lanuf, centro petrolifero da cui i ribelli intendevano lanciare un attacco simbolico contro Sirte, città natale di Gheddafi, soltanto l’intervento unanime della comunità internazionale avrebbe potuto arrestare questa riscossa implacabile del raiss.

Ma l’unanimità non c’è stata, non c’è, ed è azzardato sperare che ci sarà nei prossimi giorni. Lo stesso concetto di «comunità internazionale» si sta rivelando vacuo e quasi sinonimo del nulla di fatto. Quelli che davano per certa o imminente la fine della dittatura libica, a cominciare dal presidente Obama, dovranno rivedere il loro affrettato pronostico e fare i conti, come ai tempi di Miloševic e del Kosovo, con la paralisi dell’Onu e l’inusitata tenuta di potere di un dittatore spietato e caparbio. L’Occidente appare diviso in tre blocchi.

Uno interventista costituito dalla Francia e dalla Gran Bretagna, il secondo più neutralista formato dall’Italia e dalla Germania, il terzo attendista rappresentato dagli Stati Uniti. Le loro posizioni diversificate si elidono a vicenda e il risultato finale, che abbiamo sotto gli occhi, è la mancanza di un’azione salvifica nei confronti dei rivoltosi e bellica contro i blindati e i cacciabombardieri di Tripoli. Si prenda a esempio la questione, certo delicata, della «no fly zone» che, attuata sul serio, comporterebbe vere azioni di guerra e quindi di protezione del governo provvisorio di Bengasi: attacchi dal cielo e dal mare agli arsenali, ai porti, alle caserme, alle piste di decollo in mano ai soldati del regime. Tantissimi politici e strateghi occidentali ne parlano quotidianamente, ma nessuno finora ha agito, nessuno dà l’impressione di voler agire davvero.

All’inerzia oratoria dell’Occidente si sommano, giustificandola, le solite e ormai storiche fibrillazioni di cui danno spettacolo le Nazioni Unite durante le crisi planetarie. Scomuniche, minaccia di sanzioni, embarghi, ingerenze umanitarie. Stati Uniti, gran parte dell’Unione europea, Germania in testa, s’appellano di continuo, come ai tempi della crisi jugoslava, al salvacondotto internazionale dell’Onu quale giustificativo per operazioni d’intervento concreto in Libia. Ma si tratta di comoda finzione diplomatica. Tutti sanno benissimo che il problema della «no fly zone», quando e se sarà portato al Consiglio di sicurezza - quello dei cinque, il solo che conta - verrà con ogni probabilità bocciato dai veti o aggirato dai sofismi della Cina e della Russia. L’una e l’altra tifano per la controffensiva lealista e si direbbe non vedano l’ora di usurpare il posto, per esempio, dell’Italia nei grandi commerci petroliferi con una Tripoli vittoriosa.

Già il figlio più politicizzato del raiss, Saìf al Islam, in una recente intervista al «Corriere della Sera» ha evocato la possibilità di un’opzione energetica in favore dei cinesi, minacciando gravi ritorsioni contro governanti e investitori italiani accusati di «tradimento» e «complicità con i terroristi cirenaici». Minacce mirate che, assieme a quella di sommergere la Penisola con migliaia di fuggiaschi africani, non si dovrebbero prendere tanto alla leggera. Un Muammar Gheddafi condannato come criminale in Occidente ma inaspettatamente resuscitato, grazie ai veti di Pechino e di Mosca, alla sommità di tonnellate d’oro nero porrà grossi e tremendi quesiti all’Italia e all’Europa nel suo insieme. Come ha scritto sul «Foglio» Carlo Panella, correremo il rischio di avere alle porte di casa uno «Stato pirata» governato da «un imprenditore del terrorismo».

Si capisce meglio, anche se duole capirlo, la prudenza con cui i governi di Roma e di Berlino hanno cercato di trattare, fin dall’inizio, una crisi che non definirei «rivoluzionaria» ma, piuttosto, un condensato spontaneo di collere tribali contro una tirannide tribale e personale insieme. Il tutto, com’era in parte prevedibile, non poteva che insabbiarsi in una rivolta disperata e abbandonata a se stessa. Una rivolta non ad armi pari. Il clan di potere che, aggredito, sembrava destinato al collasso corre invece armatissimo verso Bengasi e Tobruk alla riconquista del tempo e dello spazio perduto. Nelle prossime ore comprenderemo se i giochi resteranno aperti o se si sono già chiusi.

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Titolo: ENZO BETTIZA Se prevale l'egoismo dei più forti
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2011, 08:45:34 pm
11/4/2011

Se prevale l'egoismo dei più forti

ENZO BETTIZA

Oggi al concilio di Lussemburgo dei 27 ministri europei dell’Interno, l’Italia, rappresentata da Roberto Maroni, farà la figura dell’accusatrice o dell’accusata? Sulla lettura più o meno estensiva degli accordi di Schengen il concilio darà ragione a Roma, oppure subirà e approverà l’interpretazione restrittiva della potente diarchia di Parigi e Berlino sostenuta dal satellite di Londra? È probabile che avranno la meglio le tesi, sostanzialmente egoistiche e antieuropee, dei francesi e dei tedeschi. Lo fa già immaginare la lettera inviata a Maroni dalla commissaria europea Cecilia Malmström, in cui si sostiene che il discusso decreto del governo italiano «non fa scattare automaticamente la libera circolazione dei migranti nei territori comunitari». Quindi è altrettanto probabile che nella grande crisi mediterranea, che vede la Libia esposta ad una guerra mal congegnata e l’Italia aperta all’invasione selvaggia di migliaia di tunisini, etiopi, somali, eritrei, toccherà alla Penisola la parte della vittima e del principale capro espiatorio occidentale.

Il mito delle «primavere arabe», che nella Libia in stallo di guerriglia cronica ha il suo nodo più soffocante, è stato confiscato a giustificazione dell’intervento armato franco-britannico e ne ha rivelato subito, fin dall’inizio, la natura disastrosa. L’alba dell’«Odyssey Dawn» è già al crepuscolo. L’imposizione di una «no fly zone» contro gli eserciti di Gheddafi, legittimata moralmente dall’Onu, si è purtroppo risolta in una serie di bombardamenti aerei disordinati, privi di coordinamento e di coerenza sul piano strategico e nella struttura delle alleanze. L’immagine degli occidentali nel loro insieme ne è uscita danneggiata.

Si è avuta l’impressione che, in seguito al colpo di testa del presidente Sarkozy, pressato da tensioni elettoralistiche sul piano interno, tutte le maggiori istituzioni politiche e militari dell’Occidente, la Nato, l’Unione europea, l’alleanza storica fra europei e americani, siano entrate in una sorta di panne semianarchica. La Gran Bretagna si è agganciata per prima all’azione francese, come ai tempi di Suez nel 1956; i canadesi si sono mossi di malavoglia, mentre la Germania deplorava e si tirava indietro. Ognuno ha preso a bombardare per conto proprio le poco visibili e mimetiche truppe di Gheddafi, colpendo qua e là, per eccesso di «fuoco amico», gli stessi ribelli che l’intervento avrebbe dovuto aiutare e proteggere.

La Casa Bianca di Obama, non ascoltando il saggio parere contrario del Pentagono di Robert Gates, ha fatto una magra figura. Gli americani, in obbedienza plateale alla risoluzione Onu, hanno sparato un paio di missili, dopodiché, pentendosi, hanno ritirato i novanta jet da combattimento destinati alle operazioni sulla Libia. La Nato ha allora tentato di riprendere in mano il filo della matassa imbrogliata dai francesi, imponendo tardivamente ai belligeranti europei e canadesi un minimo di coordinamento almeno formale; ma oramai senza traino americano la Nato non poteva avere, come infatti non ha, che un peso assai relativo.

La politica del governo italiano, completamente privata della solidarietà europea e in particolare francese, ha fatto quello che poteva fare in un quadro che vede complessivamente l’Italia in difficoltà delinearsi come l’unica perdente europea: dagli accordi petroliferi in crisi, stipulati con una Libia che non c’è più, all’immane problema dei migranti africani che Maroni porrà oggi, speriamo con la chiarezza di sempre, sul tavolo delle discussioni a Lussemburgo. Pur non osteggiando, per spirito di lealtà, le vane azioni della Nato, Roma ha rifiutato di partecipare ai bombardamenti, ha riconosciuto il provvisorio comitato governativo di Bengasi, ha mantenuto tuttavia aperta una porta al dialogo con i lealisti di Tripoli. La possibilità di un compromesso è difatti più che mai nell’aria. Da un lato, come si vede nel tira e molla fra Misurata e Brega, abbiamo lo stallo sul terreno tra gli insorti, disordinatamente guidati, e gli organizzati e meglio addestrati fedeli di Gheddafi; dall’altro abbiamo lo scacco strisciante dell’intervento militare, già rallentato, già disertato dagli Stati Uniti, già criticato per la sua inefficienza e i suoi errori dagli stessi rivoltosi libici. La situazione potrebbe sbloccarsi sfociando sia in un’uscita di scena negoziata del Colonnello e dei suoi figli, sia nei preparativi di una spartizione della vecchia Libia in due nuovi Stati: la Cirenaica ad Est, la Tripolitania ad Ovest.

Comunque vadano a finire le cose, la storia non potrà non ricordare la pessima riuscita dell’intervento neocolonialista in Libia, ammantata dalla fraseologia del Tigellino buonista dell’Eliseo, Bernard-Henri Lévy, gran stimolatore in ogni senso di «bombe umanitarie». Già il precedente intervento franco-britannico a Suez nel 1956 era stato controproducente, rafforzando il panarabista Nasser, fornendo a Kruscev un ottimo alibi per stroncare in parallelo con le armi la rivoluzione ungherese e favorendo in sostanza l’insediamento sovietico nel Medio Oriente. Limitò l’entità dei danni il drastico alt imposto a Parigi e a Londra dal presidente Eisenhower. Obama ha fatto l’opposto: è intervenuto, si è ritirato, non ha fiatato. Sul piatto politico dei «danni collaterali» potremmo mettere il relativo rafforzamento del Gheddafi che si voleva abbattere e il sicuro indebolimento dei rivoltosi che si voleva appoggiare. Ma chi presenterà mai il conto a Sarkozy?

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Titolo: ENZO BETTIZA L'ora della verità per l'Europa
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2011, 06:38:56 pm
19/4/2011 - DOPO IL VOTO IN FINLANDIA

L'ora della verità per l'Europa

ENZO BETTIZA

L’ultimo colpo alla botte sempre più vuota dell’Unione europea lo ha sferrato la Finlandia, con un risultato elettorale non solo esiziale in sé, ma anche spia paradigmatica della brutta aria che tira su quasi tutti i Paesi comunitari.

I «Veri Finlandesi» dell’euroscettico e nazionalpopulista Timo Soini sono stati i veri trionfatori di una gara che, in convenzionali e vaghi termini statistici, li mette al «terzo posto». Ma se analizziamo più da vicino il risultato, vediamo che la sostanza politica della classifica è quanto mai opinabile. L’impressionante marea di voti ha posto in realtà il partito dell’antieuropeista Soini quasi al secondo posto e non lontano dal primo, con un 19,6 per cento contro il 19,8 dei socialdemocratici e forse il 20 dei conservatori: ai quali, dopo il tracollo del partito centrista della premier uscente Kiviniemi, spetterà l’onere spinoso di formare la nuova coalizione di governo.

Ma non basta. I dati del recente passato ci dicono che il trionfo di Soini è stato altrettanto schiacciante quanto imprevedibile. Il suo partito xenofobo ha spiccato infatti un balzo gigantesco dallo scarno 4 per cento del 2007, quintuplicando i seggi da 6 a 38, mentre i conservatori con la loro vittoria di Pirro ne perdono 6 e i socialdemocratici 2.

È possibile quindi che i «Veri Finlandesi» possano entrare nella futura coalizione, ottenendo qualche ministero pesante nei settori dell’economia e dell’immigrazione. Però, se ne restassero esclusi, la loro prepotenza anche numerica dai banchi d’opposizione si farebbe sentire comunque su uno dei nodi più delicati della politica europea del prossimo governo di Helsinki: il salvataggio finanziario del Portogallo, che richiede l’unanimità dei 17 membri dell’Eurozona, e già da tempo suscita il crescente malumore della maggioranza dei finlandesi. «Quale Portogallo?», obietta Soini. «Si è già visto che il pacchetto di aiuti alla Grecia e all’Irlanda non ha funzionato».

Se poi spostiamo lo sguardo su altri territori scandinavi e dell’Europa nordica, che sta diventando sempre più nordista, ci accorgiamo che la musica non cambia e anzi si fa più minacciosa. In Svezia, i cosiddetti «democratici», che rappresentano l’estrema destra, sono riusciti lo scorso settembre a entrare per la prima volta nella Camera dei deputati superando la soglia di sbarramento; un partito analogo è presente nel parlamento danese; in Olanda gli ultranazionalisti di Geert Wilders, nonostante la campagna ostile all’aiuto ai Paesi europei in bancarotta, sono stati accettati come forza di sostegno dal governo di minoranza; in Belgio il populismo regionalista di Bart De Wewer paralizza da circa dodici mesi la formazione di un nuovo esecutivo. Un anno senza governo: caso limite fra le democrazie europee.

Che dire inoltre dell’affondamento di tutte le regole antidoganali di Schengen, voluto e imposto dalla Francia all’Italia, con colpi bassi di polizia intesi a impedire l’arrivo da Ventimiglia o da Bardonecchia di migranti tunisini di lingua francese? Forse non ci si rende del tutto conto che si tratta di un affondamento delle stesse basi di libertà e di convivenza civile su cui, dai tempi della Ceca, ormai leggendari, avevamo cercato di creare un continente transnazionale che oggi chiamiamo Unione Europea con parole vuote e fatti che la contraddicono alla radice. Oggi la linea storta di Sarkozy in crisi elettorale, incalzato da Marine Le Pen in testa ai sondaggi per il primo turno delle presidenziali 2012, non appare altro che una replica esasperata e isolazionista della politica della «sedia vuota» di De Gaulle. Non ritroviamo qualcosa del Generale che abbandonò la Nato, che sognò un’Antieuropa carolingia, nel modo con cui il suo ultimo erede si è lanciato quasi da solo, o malamente scortato, nella guerra calda in Libia e nella guerra fredda con l’Italia? Non sappiamo ancora se tutto questo basterà a Sarkozy per soffocare il canto della sirena Marine, la quale, per batterlo in curva, promette ai moltissimi francesi che la ascoltano addirittura un referendum sull’uscita dall’Unione europea. Di certo sappiamo che Sarkozy sta già rispondendo alla rivale con le sue personalissime e implicite azioni poco europee, per non dire antieuropee. Un grande e sincero europeista come Robert Schuman, autore del «piano S» da cui nacque la Ceca, si rivolterà nella tomba.

La verità amara è che nulla, purtroppo quasi nulla, dell’Europa immaginata dai «padri fondatori» alla Schuman ha attecchito in profondità. L’Europa ha sempre affossato gli strumenti che avrebbero potuto darle il prestigio e la forza di competere con le maggiori potenze del mondo. Ha bocciato l’idea di un esercito comune, di una politica estera comune, di un vero presidente eletto e riconosciuto da tutti gli europei. Non è andata al di là dell’euro, dando al presidente della Banca Centrale di Francoforte quasi la supplenza di un capo di Stato; ma ora, con l’euro pure in crisi, si vede che da Francoforte potevano e possono partire solo impulsi per salvare banche e banchieri, ma assai meno i cittadini impoveriti di Atene, di Dublino, di Lisbona. Meno ancora per fronteggiare le sfide delle potenze emergenti o già emerse da secoli come la Cina, la Russia, gli Stati Uniti.

Si direbbe che l’attuale Europa divisa, autolesionista, acefala, dove è di moda celebrare in primissimo luogo il glorioso passato nazionale, sia giunta al momento della verità: andare avanti, o indietreggiare e sfasciare quel poco che s’è fatto? La cosa peggiore sarebbe, in ogni caso, che tutti quanti gli europei diventassero prima o poi «veri finlandesi».

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Titolo: ENZO BETTIZA La seconda rifondazione dell'Europa
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2011, 11:25:14 am
16/5/2011 - CONTRO LA CRISI DELL'UE

La seconda rifondazione dell'Europa

ENZO BETTIZA

Il «secondo miracolo tedesco», come già lo chiamano, si staglia in tutta la sua potenza e solitaria ambiguità sullo sfondo di un’Europa sempre più disunita e attratta da una sorta di magniloquente cupio dissolvi. Mentre la Germania celebra i suoi trionfi economici e sociali - crescita del 5 per cento su base annua, due volte più dell’America, salari e domanda in salita, disoccupazione in calo, rilancio della produzione automobilistica, fortissimo incremento dell’export con la Cina - vediamo altri smarriti Paesi dell’Unione sferrare un colpo dopo l’altro contro i pilastri della costruzione comunitaria: contro le regole di Maastricht, la stabilità dell’euro, la solidarietà con i soci periferici, soprattutto Grecia e Portogallo, che languono in sala rianimazione senza sapere ancora se li aspetta la rinascita o l’eutanasia.

Sull’onda dei movimenti euronegazionisti di estrema destra, onda che si diceva lunga ed è oggi veloce e corta, si sbaraccano con picconate gli accordi di Schengen. Erano accordi, fra l’altro, di profondo valore simbolico. Avrebbero dovuto rappresentare, con la libera circolazione dei beni e delle persone, un continente alfine rappacificato con la propria storia. Senza dogane, senza dazi, garitte, guardie di frontiera; in una parola, senza linee Maginot e Sigfrido.

Tutto è iniziato con la giusta decisione dell’Italia, coinvolta nell’infinita guerra libica voluta dalla Francia, di concedere un permesso di soggiorno europeo a ventimila migranti tunisini. Il grazie dei francesi, nonché dei loro accoliti belgi e danesi, premurosamente sostenuti dalla Commissione di Bruxelles, è stata la scorretta demolizione dei codici di Schengen. Nel blocco di Ventimiglia è risorto qualcosa che riporta alla memoria lo spirito isolazionista della Maginot mai sopito nei ministeri pesanti di Parigi. Sarà istruttivo anche ricordare che la «guerra umanitaria» in Libia, da cui si è dissociata la Germania non più carolingia, è stata lanciata da un Sarkozy il quale cercava, a suo tempo, di vendere a Gheddafi gli stessi aerei Rafale che oggi bombardano le casematte del Colonnello in Tripolitania.

Le reazioni a catena, innescate dagli eventi nordafricani con rivolte indecifrabili e invasioni di massa inarrestabili, stanno di fatto portando alla chiusura dell’Europa senza frontiere. I populisti antieuropei francesi, fiamminghi, olandesi, danesi, finlandesi, svedesi incalzano e ricattano i rispettivi governi moderati, spaventati dall’ombra di cupe ghigliottine elettorali. Basti pensare all’immagine che dell’Europa dà al mondo l’Ungheria che, da gennaio, ne rappresenta la presidenza. Da Budapest la voce dell’autoritario premier Victor Orbàn, presidente di turno, ha annunciato inequivocabilmente: «Noi non crediamo nell’Unione Europea, crediamo nell’Ungheria. Il nostro lavoro nell’Unione varrà soltanto se l’Ungheria ne trarrà un tornaconto».

Dubito che la Germania arricchita, che pure ha tratto tanti benefici dall’integrazione europea, voglia o possa fare da locomotiva salvifica di un’Unione che fa acqua da ogni parte: che compie ogni giorno un salto all’indietro, verso il passato degli Stati-nazione, piuttosto che verso il declamato futuro di una Confederazione transnazionale. La locomotiva è a suo modo timida, incerta, priva di un’incisiva bussola continentale, e preferisce scorrere sui binari sicuri del commercio estero più che affrontare i marosi della politica estera. Le bastano per ora come alleati e seguaci i polacchi, con crescita al 4 per cento prossima a quella di Berlino, poi i lituani, gli estoni, i lettoni, i cechi e gli slovacchi. Insomma un «Sonderweg», o «cammino speciale», che in termini aggiornati e non aggressivi potrebbe evocare quello del Reich prussificato da Bismarck. La cautissima cancelliera Merkel, che in Germania è ritenuta un primus inter pares, viene invece considerata come un’imperatrice nei Paesi dell’Est: pacifica e facoltosa sovrana di un rinnovato «Drang nach Osten», la corsa all’Oriente. Oggi si usa dire che esiste un’Europa a quattro velocità. Forse sarebbe più esatto specificare a ventisette. Un bel numero, idoneo a segnalare qualcosa di troppo, che rischia di paralizzarsi e soccombere per eccesso di frazionamento. La verità è che l’Europa che conosciamo ed esaltiamo a parole da mezzo secolo, l’Europa che proviene dalla Ceca di Schuman e Adenauer, poi da Roma con De Gasperi e Martino, poi da Maastricht, infine da Lisbona, non funziona più. Ormai s’avverte che una sua fase lunga e travagliata è finita sull’orlo dell’autodissolvimento. Nelle più ambiziose edificazioni storiche le ombre purtroppo fanno parte integrante dello spartito.

Superarle, dissolverle come? Accettando passivamente un anacronistico ritorno al vecchiume del passato? Oppure cessare di contemplare e di contare ipnotizzati i grandi numeri del miracolo tedesco, e cominciare a pensare a un secondo miracolo europeo: oramai, chi ha occhi per vedere non vedrà altra via d’uscita se non quella di una seconda rifondazione dell’Unione Europea, dopo l’inevitabile e forse imminente estinzione della prima. Magari invertendo le piste di decollo e partendo non più dall’economia ma soprattutto dalla politica.



Titolo: ENZO BETTIZA La fragile democrazia di Ankara
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2011, 05:21:43 pm
11/6/2011

La fragile democrazia di Ankara

ENZO BETTIZA

Cinquanta milioni di elettori turchi si preparano a consegnare per la terza volta alle urne il loro giudizio sulla situazione politica del più grande e importante Paese mediorientale, a cavallo tra Asia ed Europa, amministrato con successo dai governi monocolori dell’Akp, il Partito islamico moderato per la Giustizia e lo Sviluppo. Non v’è dubbio che anche questa volta, la terza dopo il 2002 e il 2007, il voto si risolverà con una probabile percentuale fra il 43 e il 48 a favore del premier uscente e leader dell’Akp, Erdogan. La Turchia sotto la sua guida abile, spregiudicata, sovente aggressiva e sottile al tempo stesso, si è sviluppata nel corso di un decennio a ritmi di crescita simili a quelli cinesi e indiani.

Ha evitato le crisi finanziarie, che hanno scosso l’Occidente, conquistando il sedicesimo posto fra le nazioni più avanzate del mondo. Oggi è una potenza economica, politica e anche militare, col suo storico posto d’onore nella Nato, che va ben al di là dei confini regionali del Medio Oriente e batte con insistenza alle porte dell’Unione Europea. Non è più il Paese dei disastri economici, delle banche fallite, dell’instabilità cronicizzata, tra effimeri governi di coalizione e minacce di colpi di Stato da parte dell’esercito custode della tradizione laica e kemalista. Per molti arabi evoluti Istanbul e Ankara rappresentano un simbolo di rara democrazia musulmana e di efficiente modernità.

Tuttavia l’esito di questa tornata elettorale, dopo una campagna nevrotica colma di scandali, ostacoli, pesanti imboscate, si preannuncia oberato e inquinato da sospetti che gettano molte ombre sulle intenzioni dell’Akp e del suo padrone assoluto: il sempre più autoritario e più intollerante Recep Erdogan. Il voto turco è diventato materia di una tempestosa polemica internazionale dopo che l’Economist, mandando su tutte le furie Erdogan, ha osato invitare gli elettori a voltargli le spalle e privilegiare il Partito Repubblicano del Popolo (Chp), fondato da Atatürk e oggi guidato dal sessantenne Kemal Kilicdaroglu. Questi, che si richiama insieme alla severità laica di Atatürk e alla pacatezza umana di Gandhi, è di fatto l’unico credibile capo dell’opposizione, il più pericoloso dei rivali politici di Erdogan. «One for the opposition», cioè un voto per il repubblicano Chp: l’endorsement del prestigioso settimanale britannico, contrario all’islamico conservatore Akp, non mira di certo a impedire la vittoria di Erdogan che nessuno mette in dubbio: mira, essenzialmente, a limitarne un trionfo eccessivo che potrebbe portarlo a conquistare i due terzi dei 550 seggi dell’Assemblea. La portata di un simile dilagante risultato consentirebbe a Erdogan di realizzare il suo progetto di riscrivere la Costituzione, trasformando la Turchia in una repubblica di tipo presidenziale francese e concedendo a se stesso, al momento opportuno, gli amplissimi poteri di un presidente di tipo gollista.

C’è chi dice e teme che se il piano di Erdogan andasse in porto, egli, manipolando una Costituzione riscritta sulla misura delle sue ambizioni, metterebbe in serio pericolo la già vulnerata e magra democrazia turca. Si parla di un «ottomanesimo di ritorno». L’intolleranza del partito dominante alle critiche, l’insofferenza del leader per la libertà d’opinione, il numero dei giornalisti, più di cinquanta, che da tempo languiscono senza processo nelle dure carceri anatoliche, i complotti inventati contro partiti non islamici, magistrati indipendenti, alti gradi delle forze armate: è questo purtroppo il quadro politico che la Turchia pur ricca, industrialmente e finanziariamente emancipata, ci presenta alla vigilia di un voto che Erdogan vorrebbe personalizzare al massimo. Lo sbarramento incredibile del 10 per cento mette fra l’altro a rischio la coesistenza etnica, lasciando nell’incerto la sorte dei candidati curdi, mentre nel Sud-Est del Paese i rappresentanti della cospicua minoranza curda minacciano rivolte disperate contro la recrudescenza del nazionalismo turco. Alla quasi sepoltura della tradizionale collaborazione con Israele, accusato da Erdogan di aver addirittura foraggiato l’endorsement dell’Economist, si aggiungono le ambiguità dei rapporti di Ankara con l'Iran e la Siria.

Oggi come oggi, non è tanto o soltanto il pericolo di una radicale svolta islamista quello che dovrebbe preoccupare di più Bruxelles negli impervi negoziati per la candidatura turca all’Ue. La vera urgente preoccupazione che dovrebbe allarmare l’Europa è, soprattutto, lo stato di fragilità in cui versa la salute democratica della Turchia. Kilicdaroglu ha detto bene: «Gli arabi ammirano la nostra democrazia, ma questo governo vorrebbe fare di noi un Paese arabo».

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/


Titolo: ENZO BETTIZA L'errore di trasformare l'oratoria in politica reale
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2011, 09:55:59 am
4/8/2011 - OBAMA - LA STRATEGIA

L'errore di trasformare l'oratoria in politica reale

ENZO BETTIZA

Credo non sia mai successo negli Stati Uniti d’America quello che è capitato al presidente Barack Obama. Egli è precipitato dal tetto di un consenso elettorale travolgente, uno dei più elevati nella corsa verso la Casa Bianca, alla solitudine di un isolamento da cui non gli sarà tanto facile risalire per un’eventuale rielezione nel 2012. Quest’ultima ricucitura di un compromesso bipartisan, per evitare in extremis il disastro dell’insolvenza, non ha soddisfatto nessuno: né la destra repubblicana, incalzata dagli estremisti del Tea Party, né la sinistra liberal che a suo tempo aveva riposto speranze epocali nella seducente figura del primo presidente nero. Oramai si parla di una «leadership diminuita», mentre lo stesso Obama dava l’impressione di partecipare più da spettatore che da attore alla dolorosa soluzione congressuale della crisi di stallo tra i due partiti.

Certo non si può dire che, già prima di essere eletto, non sapesse che avrebbe dovuto affrontare la più grave situazione d’emergenza globale degli ultimi 80 anni; ma l'ha affrontata col piede sbagliato, credendo di poter trasformare in politica reale la sua oratoria carismatica. Ha soprattutto illuso e deluso i liberal più idealisti, che costituivano la sua base di lancio, rispolverando la retorica kennediana della «nuova frontiera» in tempi che già vedevano l’America massacrata dalle Borse, ricattata dai mercati, indebitata con la Cina, in difficoltà o in ritirata dai fronti della politica estera. Insomma: è l’isolamento, con relativa perdita d'autorevolezza, la torta amara che lo ha aspettato ieri a Chicago per la festa non allegrissima del suo cinquantesimo compleanno.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9059


Titolo: ENZO BETTIZA L'apparente declino dell'America
Inserito da: Admin - Agosto 15, 2011, 06:27:16 pm
15/8/2011

L'apparente declino dell'America

ENZO BETTIZA

Dopo gli implacabili giorni neri in Borsa e la pagina nerissima dell’estenuante trattativa sul debito pubblico tra repubblicani e democratici, aggravati dalla dura stangata inflitta da Standard&Poor’s all’amministrazione Obama, diversi osservatori hanno cominciato a parlare in termini allarmati del crepuscolo a cui starebbero avviandosi gli Stati Uniti. Hanno puntato il dito sullo spettro apocalittico del «default», che ha battuto colpi sinistri alle porte della Casa Bianca e del Congresso. Vi hanno visto una sorta di preannuncio macabro dell’abisso con partecipazione, sul fondale, di altre astrazioni opache e non meno fantomatiche: società di rating inaffidabili, hedge funds enigmatici, banche ombra misteriose e così via.

Ma ciò che impressiona, di queste analisi negative, non è solo l’indicazione delle inarrestabili conseguenze di una crisi a scadenza ignota, innescata fin dal 2008 dalle due maggiori piazze finanziarie del mondo, Wall Street e la City di Londra. Impressiona ancor più un certo pessimismo generalizzato che sembra riecheggiare, in versione aggiornata, le vecchie profezie spengleriane sul tramonto dell’Occidente. Un pessimismo autolesionista, tous azimuts. Il quale, andando al di là del dissesto economico, finisce con l’appannare l’immagine politica, militare, sociale, culturale dell’America in quanto tale: Paese guida dell’Occidente e, almeno fino all’altroieri, anche modello di riferimento paradigmatico per emergenti potenze non occidentali come Cina e India o non anglosassoni come il Brasile.

In questi giorni è facile arrivare alla frettolosa conclusione che gli Stati Uniti si trovano in un disastroso vicolo cieco e che non potranno più continuare a considerarsi e comportarsi come la prima superpotenza del mondo.

Detto questo, dovremmo però separare una concreta realtà storica, il continente nordamericano nella sua contraddittoria complessità, dall’immagine offuscata che oggi proietta di sé «la Repubblica imperiale» come la definiva Aron. Ai valori finanziari in caduta libera dagli altari di Wall Street ha corrisposto, indubbiamente, una forte caduta dei valori d’immagine, direi ideologici, della tradizione idealista cara all’America anglosassone.
I segni particolari e gli impulsi interventisti di tale anglosassonità s’erano rivelati con energia crescente, sul piano planetario, durante e dopo le due guerre mondiali. Prima con i famosi «14 punti» di Wilson, quindi con Roosevelt in stretta alleanza con l’Inghilterra assediata dai tedeschi, infine con Truman e col supporto dell’Europa occidentale, ricostruita dal Piano Marshall e integrata nella Nato, l’America era diventata portatrice e la garante globale di quel retaggio etico di fondo protestante che doveva distinguerla anche nella Guerra fredda contro l’espansionismo sovietico.

I rigori bellici e postbellici con risvolto umanitario, promossi in campo internazionale, dovevano prolungarsi per tre quarti di secolo: dalla wilsoniana autodeterminazione dei popoli al ponte aereo per il salvataggio di Berlino, fino all’intervento di Clinton contro la Serbia a favore degli albanesi del Kosovo. Perfino gli interventi armati più discussi - il Vietnam di Kennedy e Johnson, i due Iraq di Bush padre e figlio, l’eterno Afghanistan pesantemente ereditato da Barack Obama - si sono svolti bene o male, talora in maniera manichea, all’insegna comunque dei valori anglosassoni in difesa della democrazia e della liberazione degli oppressi. Ma l’America odierna, l’America neo-isolazionista di Obama, dà l’impressione di una graduale ritirata dalla grande politica estera, affidando quel che ne resta ai droni senza pilota e ad isolate e spettacolari azioni punitive come l’uccisione di Bin Laden.

Lo smalto scrostato o, peggio, il sospetto d’abbandono da parte dell’America dei suoi tradizionali valori morali non è una buona notizia per i maggiori Paesi europei in difficoltà, che stanno perdendo sempre più di vista l’altra sponda atlantica, a cominciare dalla cugina Inghilterra. Non lo è nemmeno per l’Occidente nel suo composito allargamento postcomunista, né per quella parte occidentalizzata e sofferente del globo, come il Giappone, che nella diffusa onnipresenza americana vedeva una rassicurante protezione strategica e uno stimolo emulativo per i settori avanzati della tecnica e dell’economia.

La delusione, accompagnata da una sensazione di vuoto e di smarrimento esistenziale, s’è fatta sentire con forza ovviamente più intensa e angosciata in America che altrove. Certi valori domestici più solidaristi, anch’essi a loro modo d’impronta anglosassone, rooseveltiana e keynesiana, stroncati come «socialisti» dai predicatori vetero-puritani del Tea Party, non sono stati realizzati che per un fluttuante decimo dal presidente Obama: egli ha deluso troppi americani che l’avevano votato, in tempi di grande crisi, intravedendo o stravedendo in lui un erede naturale del New Deal di Roosevelt. Il risanamento in extremis del capitalismo sfibrato, minacciato d’infarto dalla violenta depressione del 1929, risanamento operato da Roosevelt con un vasto programma di lavori pubblici e interventi di assistenza sociale, aveva finito per dimezzare la disoccupazione e produrre una sorprendente ripresa economica; era iniziata l’era moderna di un puritanesimo nuovo, più popolare, meno elitario, meno wasp: quella del Welfare anglosassone.

Con Obama purtroppo non s’è ripetuto il miracolo teorizzato da Keynes e attuato dal più grande presidente americano del secolo scorso. I cantieri per lavori pubblici si vedono qua e là, in diversi Stati, ma funzionano a rilento. La disoccupazione aumenta. La decantata assistenza sanitaria è da un pezzo bloccata. Quel che stenta malamente in piedi è soltanto un compromesso al ribasso dei parlamentari democratici, disprezzati dalla sinistra liberal, con quelli repubblicani, incalzati e ricattati dalla destra populista. Mai la classe politica americana era apparsa così lacerata, polarizzata, intossicata da simili rancori e rivalità personali; mai nelle vicende del Congresso i due partiti s’erano mostrati così incapaci di mobilitarsi, sulla nave in pericolo, attorno a un comandante che sembra vivere la tempesta più da spettatore che da combattente e pensare soprattutto alla propria rielezione nel novembre 2012.

Ma la realtà profonda del colosso a stelle e strisce, quella a cui molti osservatori costernati guardano oggi di meno, o solo superficialmente, è tuttavia diversa dall’immagine di declino che ci offrono i valori tradizionali più noti della storia e della mentalità americane. Vale la pena di citare, in proposito, un interessante articolo controcorrente che il politologo Moisés Naìm ha pubblicato sul «Sole - 24 Ore».

«La Borsa è crollata e ci saranno tagli che colpiranno il bilancio di settori importanti come le forze armate. Ma, anche così, il vantaggio di cui godono gli Stati Uniti sui propri rivali è talmente ampio da non far perdere al Paese la prima posizione. La sola flotta della guardia costiera possiede più mezzi navali di tutti quelli delle dodici marine da guerra più imponenti a livello mondiale». C’è poi l’incremento demografico, che negli Stati Uniti continua ad aumentare, mentre in quasi tutti i Paesi ricchi è in stallo o diminuisce. Inoltre la nazione di Obama seguita a essere la più potente calamita di talenti scientifici internazionali e a favorire la più rapida integrazione dei flussi migratori. Negli strati sempre mobili del ceto medio risparmiatore la vitalità e l’istinto di conservazione assumono forme spesso più incisive della disperazione.

Talora anche sorprendenti e direi perfino ossimoriche nella loro calcolata imprevedibilità: per esempio, chi avrebbe detto che, mentre dilaga il panico e le Borse crollano, la fame di titoli del Tesoro americano avrebbe superato tutti i record? Chi avrebbe immaginato che sarebbero andati a ruba, pur offrendo tassi minimi, proprio i titoli messi a disposizione da un governo la cui solvibilità viene posta in discussione dagli influenti indovini e giocolieri delle agenzie di rating? Neppure il declassamento del debito cosiddetto sovrano ha provocato una fuga di capitali. Coloro che conoscono il danaro, che sanno come maneggiarlo e dove collocarlo, non ne hanno tenuto minimamente conto. Il maggiore dei paradossi è che l’America, data da molti sull’orlo del baratro, continui nonostante tutto a rappresentare uno dei porti finanziari più sicuri e affidabili.

Luci e ombre s’intrecciano e s’accompagnano a questo apparente tramonto spengleriano della superpotenza, ferita sì nell’immagine, ma ancora resistente nelle sue più profonde radici biologiche. Non è certo la prima volta che il gigante si presenta al mondo con un volto malato e febbricitante. Ma ce ne vuole a darlo già per spacciato o soltanto degradato al secondo o terzo posto, dopo la Cina, nel gran concerto della globalizzazione.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9097


Titolo: ENZO BETTIZA Il bluff umanitario di Sarkozy
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2011, 05:04:09 pm
28/8/2011

Il bluff umanitario di Sarkozy

ENZO BETTIZA

Quello che più colpisce delle «primavere arabe», così chiamate soltanto dagli occidentali, è il loro autunno grigio e insondabile in Tunisia, trasformistico e immobilistico in Egitto, blindato e disperato in Siria. Infine, caotico e incerto in una Libia dove, scomparso Gheddafi, la scena che vediamo non è certo delle più rassicuranti. Tripoli, in parte liberata, ma in gran parte anche devastata e saccheggiata; l’aeroporto bombardato da gheddafiani estremi e vendicativi; fiumane di detenuti d’ogni sorta in libera uscita dalle prigioni; bande di ribelli tribali, non tutti in sintonia fra loro, spesso infiltrate dai voltagabbana dell’ultima ora; cecchini sui tetti e sacche di fedelissini lealisti in azione fra gli squarci delle rovine. Sarebbe un errore sottovalutare la popolarità di cui la figura sconfitta del Colonnello, per noi satrapica, gode tuttora fra i membri del suo clan e della sua Sirte natale. Intanto nelle gracili istituzioni di Bengasi, capitale improvvisata di un governo in cerca di se stesso, che da mesi «transita» e non coagula mai, si affollano molti ex ministri e funzionari del regime rapidamente riciclati. Del presidente di un cosiddetto «consiglio di transizione», Abdul Jalil, si sa che è legato essenzialmente a logiche tribali, sorde ad ogni richiamo democratico, mentre il premier Mahmud Jibril è persona rispettabile, però modesta e incolore. Quanto sia ancora precaria la situazione lo si è capito, nella notte tra venerdì e sabato, allorché importanti esponenti del «consiglio» si sono riuniti in un albergo di Tripoli sotto il tiro di cecchini lealisti appostati in un edificio vicino.

Se saranno questi i futuri reggitori di un governo consolidato e meno fantomatico, se diverranno essi gli interlocutori accreditati presso l’Occidente e il mondo arabo, possiamo essere sicuri che avranno un occhio di riguardo speciale per due Paesi. La Francia anzitutto, che li ha legittimati sul piano internazionale, poi l’emirato del Qatar, ispiratore anti-Gheddafi della Lega araba, il quale ha sostenuto la «rivoluzione» con denaro, invio di armi e la formidabile copertura mediatica di al Jazeera. Per l’Italia, radicata con i suoi interessi petroliferi da mezzo secolo in Libia, quindi esitante ai margini di un intervento «esterno», idealistico soprattutto a parole, il discorso proprio per quest’insieme di fattori delicati si farà più difficile. Difficile su due fronti: da un lato con l’ostile e insidioso alleato francese, dall’altro con i diffidenti neogovernanti libici che all’Italia, a prescindere dalle basi concesse alla Nato, non perdonano e non perdoneranno facilmente la prudenza e la quasi totale astinenza operativa a fianco dei bombardieri di Parigi e di Londra. La dice già lunga il comportamento riservato dal premier Jibril al capo del governo italiano, incontrato di corsa nella prefettura di Milano, dopo il prioritario e caloroso abbraccio all'Eliseo col presidente Sarkozy. Neppure lo sblocco dei fondi libici, congelati presso il sistema bancario italiano, con una prima tranche decretata da Berlusconi di 350 milioni di euro, ha suscitato eccessivo entusiasmo a Bengasi. Non si può escludere che venga al pettine anche qualche incognita sul gasdotto Greenstream, poderoso cordone metanifero che lega la Tripolitania alla Sicilia e che l’Eni giustamente, in questi giorni opachi di svolta e di ricatti, tiene a definire «strutturalmente italiano». Vale a dire intoccabile.

Il caso libico, ancora lontano da un esito chiaro, che potrebbe riservarci sorprese poco gradevoli, merita perciò da parte della diplomazia e dell’informazione italiane una disamina sobria e scrupolosa. Certo va preso in debita considerazione l’impeto vitale benché disordinato delle masse, prive di una leadership omogenea, contro la quarantennale e teatrale tirannia paranoica del raiss di Sirte: il quale, forte pure lui di un suo sostegno di massa, ha continuato fino all’ultimo a disprezzare la resa davanti ai colpi sul terreno degli insorti indigeni e sotto le bombe degli aerei francobritannici che lo inseguivano dal cielo. Ma sarebbe eccessivo far passare questa composita matassa di eventi bifidi, talora indecifrabili, spesso esaltati con devianti entusiasmi umanitaristici, come una classica lotta di liberazione. La chiave di quanto è successo e succede andrebbe cercata, piuttosto, nella combinazione o giustapposizione, su una spontanea esplosione di rivolta popolare, dei calcoli ambiziosi di un leader in difficoltà come Sarkozy: un leader ossessionato dalla rielezione e dall’urgenza di ridare quindi ai connazionali, con le proprie mani, l’immagine di una grandeur francese ritrovata per mezzo di una guerra pulita, democratica e vittoriosa.

La durata frustrante e i molti errori dell’intervento, da cui il poco convinto Obama si è ritirato quasi subito, non gli sono stati comunque del tutto favorevoli. Neanche l’appoggio incondizionato del satellite Cameron, che ha il fiato corto in patria, gli è stato di grande aiuto, mentre la neutralità netta della cancelliera Merkel gli ha fatto mancare la copertura del più rispettato e solido Paese europeo. Una discutibile guerra aerea, imposta senza corrette consultazioni da Parigi a mezza Europa, alla Nato, alle Nazioni Unite, si è prolungata affannosamente per sei mesi e alla fine si è quasi ridotta, come in un surreale gioco da playstation, alla caccia ripetitiva e puntigliosa di un mostro invisibile.

È a questo punto, anche se per ora non possiamo evocare Pirro, che il bluff umanitario di Sarkozy inizia a mostrare l’occulta corda colonialista. Stanno venendo alla luce i fini materiali della sua impresa che rivela i tratti cosmetici di un postgollismo di riporto: protezioni indulgenti e oscillanti concesse, dopo il colonialismo storico, ora ai dittatori miliardari ora ai popoli derelitti del Terzo mondo. Indubbiamente Sarkozy esce dal caos libico con lo scudo dell’unico vincitore; ma è per l’appunto unico perché isolato, abbandonato dagli americani preoccupati soltanto dagli arsenali chimici di Gheddafi, inascoltato dai tedeschi che non vogliono più esportare guerre e investimenti privi di garanzie adeguate. Il solo alleato sicuro sul quale Sarkozy potrà contare sarà, come abbiamo visto, l’appartato ma influentissimo Mida del Golfo, lo sceicco del Qatar, che trasforma in oro ogni granello di sabbia estratto dal deserto. Quello che oggi resta al centro del Grande Gioco nordafricano (termine maiuscolato dagli storici delle rivalità coloniali) è l’instabilità di una Libia devastata eppur in possesso di un’immensa eredità energetica e di un patrimonio di vincoli economici con diversi Paesi ricchi del mondo. Praticamente, un grande mercato di risorse aperto, anzi più che mai aperto fra cumuli di macerie, all’offerente e protettore insieme più scaltro e più deciso. Qui Sarkozy reciterà la parte del leone rivoluzionario dopo aver fatto una magra figura in Tunisia, dove, prima di scaricarlo, aveva dato manforte al corrotto Ben Ali nella repressione dei giovani rivoltosi. Qui, dopo una guerra spesso cruenta per le popolazioni libiche, ma anemica per i francesi che non vi hanno perduto una goccia di sangue, egli cercherà di vincere la pace contro il solo semiperdente rimasto vivo e ammaccato in piedi: l’Italia.

Non più stormi di Mirage, di Rafale, di portaerei nucleari come la Charles De Gaulle. Ma ingegneri, tecnici, geologi, manager, in caccia di greggio nei deserti e in guerra fredda per impedire alle imprese italiane il recupero delle loro posizioni prioritarie nella rete dei pozzi curata e attrezzata dai discendenti di Mattei. Non si dimentichi che la «partita Libia» valeva per l’Italia almeno 12 miliardi l’anno di giro d’affari. Il conflitto dei francesi con il Colonnello, per molti aspetti demagogico e pretestuoso, si trasformerà, come ha scritto venerdì Paolo Baroni, «in un conflitto di tutt’altro tipo»? Probabilmente sì. La continuazione, con altri mezzi, di una guerra in parte incompiuta si estenderà insomma ai campi di battaglia dell’economia? L’infame nemico Gheddafi sarà rimpiazzato come avversario, agli occhi di Parigi, dall’indebolito ed elusivo alleato Berlusconi o chi per lui? L’attivismo della nuova grandeur si scaricherà sulla sponda settentrionale del Mediterraneo? Sono domande che aspettano una risposta, magari una smentita, oppure, al peggio, una conferma allarmante.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9136


Titolo: ENZO BETTIZA La catena del Novecento
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2011, 03:37:22 pm
11/9/2011

La catena del Novecento

ENZO BETTIZA

E’ un anniversario troppo complesso per meritare solo immagini d’archivio tv, parole gonfie di retorica, amnesie calcolate di soloni strabici che da un decennio continuano a versare sentenze e lacrime su più piatti della bilancia. Convincono poco le celebrazioni quando i celebranti le proclamano correttamente «condivise», «inclusive», «aperte al dialogo» non si sa bene con chi.

Non convincono neppure le «istruzioni» suggerite agli ambasciatori da Obama, che sembra voler chiedere scusa al mondo di essere il Presidente della nazione più colpita dai terroristi islamici. La ricorrenza di un simile tragico anniversario, che per estensione è anche anniversario di un decennio di crolli globali, merita qualche incursione fuori dal coro. Sobria e, nei limiti del possibile, disincantata.

Anzitutto bisognerebbe chiarire che cosa s’intende quando, di un evento o periodo storico, si dice che «ha cambiato il mondo». Qui si rischia di cadere nell’accattivante superficialità dello slogan giornalistico o addirittura del plagio più o meno subliminale. Ho per esempio letto, nella congerie di locuzioni esaltative, un paio che annunciavano: «Ecco la storia dei dieci anni che sconvolsero il mondo». L’annuncio rifaceva il verso al famoso titolo del libro di John Reed: «I dieci giorni che sconvolsero il mondo». Ovvero i giorni che, nello scenario disastrato di Pietrogrado 1917, videro svolgersi il colpo di mano bolscevico contro un governo provvisorio allo stremo e contro un’assemblea costituente sotto la mira dei fucilieri lettoni indottrinati dal partito di Lenin e Trockij in minoranza.

Da quel golpe guarnito di qualche sparo finto, nacque il mito della Rivoluzione d’Ottobre: la quale, anziché il mondo, sconvolse la Russia e il leninismo, portandoli alle tenebre dello stalinismo. Lo sconvolgimento più inaudito fu la decimazione, voluta da Stalin, della vecchia guardia bolscevica e dei vertici dell’Armata Rossa. Dopodiché, spianata la strada, arriverà il patto con Hitler.

Attribuire quindi ad eventi storici, per quanto grandiosi e traumatici, una sconvolgente portata universale, un’unicità senza precedenti, è un esercizio non immune dal rischio di esagerazioni o previsioni falsanti. L’unicità di un grande evento, la quale si unisce perlopiù al senso del tragico, dura fino a quando un altro evento, altrettanto o più tragico, non la scavalca. Per la stessa America l’attacco contro le Torri e il Pentagono non è stato l’unico assalto nemico al suo territorio.

L’esercito britannico mise a ferro e fuoco Washington nel 1814. L’aviazione giapponese, con i suoi kamikaze, distrusse nel 1941 la flotta americana a Pearl Harbor, base militare nell’arcipelago delle Hawaii. L’unicità oltraggiosa dell’11 settembre non consiste perciò, come si è scritto, nell’attacco in sé a un territorio americano. Consisteva, semmai, nei modi dell’attacco e nell’indole insieme arcaica e postmoderna degli attaccanti.

Il kamikaze nipponico della seconda guerra mondiale partiva, solitario, da basi conosciute e aveva alle spalle una bandiera, un imperatore, uno stato maggiore e una struttura bellica visibile. Invece il kamikaze di nuova generazione, il kamikaze islamista, ha alle spalle una sorta di vuoto operativo: una galassia mistica invisibile, fluida, guidata da centrali occulte, operante per cellule autonome largamente finanziate e sparpagliate all’interno di Stati non solo arabi.

Una volatile multinazionale del terrore, il cui supremo imprenditore, il defunto Bin Laden, si manifestava solo in brevi prediche televisive o in messaggi online, reclutando così proseliti anelanti al martirio per Allah e alla morte degli infedeli. Un’armata senza Stato, senza stendardi, senza generali, tranne un’accolita di spettri radunati, fra grotte o tendaggi lisi, attorno al fantasma di Bin Laden. Alberto Ronchey, in un memorabile articolo del 17 settembre 2001, aveva parlato con lucidità di «un’endemia diffusa, che stravolge la stessa nozione antica di guerra».

Tornando con la memoria alla visione dei grattacieli di New York trasformati in immensi vulcani urbani, si potrebbe forse accennare al tentativo jihadista, in gran parte fallito, di tenere sotto scacco l’America e l’Occidente con la minaccia di una guerra santa tecnologica e perenne. La nozione di guerra, antica o nuovissima, resta in qualche misura legata all’idea fissa quanto effimera di un «mutamento del mondo».

Se frughiamo nel pensiero di coloro che raccontavano la Storia in presa diretta, o altri che l’hanno reinterpretata a posteriori, storiografi, filosofi, romanzieri, poeti, vediamo spesso congiungersi nelle loro pagine l’idea della violenza con quella del cambiamento. Il cambiamento in quanto tale, non importa se positivo o negativo, è dato per certo ed è quasi sempre combinato al nome di una risolutiva battaglia navale o campale (Salamina, Zama, Lepanto, Trafalgar, Austerlitz, Borodino, Waterloo, Sedan, Verdun, Stalingrado eccetera).

Sembra riecheggiarvi ossessivo fra le righe, quale auspicio di un mutamento purchessia, il motto «Cartago delenda est». Lo sterminio del nemico, il massacro, il sangue versato appaiono sublimati come inevitabili motori di uno strappo senza ritorno da un’epoca all’altra. Ma quante volte noi occidentali, i nostri nonni, i nostri padri, infine noi stessi, avevamo già detto con enfasi pessimistica che «nulla sarà più come prima»?

Lo si disse ogni volta che un avvenimento distruttivo, una guerra, una rivoluzione, una catastrofe economica, una calamità naturale o, in tempi più moderni, perfino un semplice ricatto petrolifero sembravano stravolgere le nostre consuetudini e farci percepire il futuro come un incubo senza fine. Prendiamo però il caso paradossale delle due massime potenze europee. La Francia sanculotta, dopo le ghigliottinate giacobine, non ha visto risorgere nei suoi fasti una larga fascia della vecchia aristocrazia e decollare un potente ceto imprenditoriale, l’una e l’altro protette da due imperatori Buonaparte e da restaurati «monarchi borghesi»? La Germania, nel 1945 precipitata dentro l’abisso di un Ground Zero che sembrava averla inghiottita, non era diventata già all’epoca di Adenauer e di Erhard la nazione più ricca del vecchio continente?

Certo, l’attacco contro New York e Washington conteneva in sé molti elementi capaci di scatenare nel mondo, non solo in America, uno tsunami d’orrore metafisico e di angoscia collettiva. Quel nuovo tipo di guerra subdola e mostruosa, insieme suicida e omicida, scagliata con mezzi impropri contro gli Stati Uniti che non avevano mai subìto tante vittime in così poche ore, doveva purtroppo immergere l’inizio del terzo millennio in una tetra atmosfera da «Apocalypse now».

Gli americani si sono mobilitati istantaneamente non solo nella mastodontica impresa di soccorso ai sopravvissuti, ma, anche nell’organizazzione di una risposta immediata contro un nemico privo di volto. Nei giornali si è subito parlato dello scoppio di una «terza guerra mondiale contro ignoti». La replica dell’Amministrazione Bush, sostenuta con impeto di cuginanza dal governo Blair, si preparava ad essere durissima sia con i talebani che nelle caverne afghane proteggevano i capi di Al Qaeda, sia con Saddam Hussein che usava foraggiare e ospitare a Baghdad terroristi non solo mediorientali.

La sorte dell’Afghanistan e dell’Iraq era ormai segnata. L’Occidente o, meglio, una sua parte, entrata in fibrillazione, ha cominciato allora a prendere le distanze dall’America ferita e a domandarsi: che genere di conflitto anomalo sarà mai questo, quali saranno le armate che vi si affronteranno, dove, come, per quanto tempo dovranno combattere? Oggi possiamo dire che l’eco del grido di solidarietà lanciato dai francesi il 12 settembre - «Siamo tutti americani!» - si spense dopo quarantott’ore. La Francia tornò di colpo francesissima, antiamericana, filoaraba; Chirac promosse e inflisse alla coalizione atlantica, con incursioni diplomatiche all’Onu coordinate e aggressive, la più profonda spaccatura da essa patita dopo la fine della guerra fredda.

L’agghiacciante spettacolarità dei fumiganti crolli di Manhattan, a cui tutti abbiamo assistito in diretta tv, non dovrebbe farci dimenticare che, nonostante le sue tremende novità, non era stato l’avvìo di una presunta «terza guerra americana» destinata a trasformare, per il meglio o per il peggio, il mondo. Una trasformazione violenta o, se vogliamo ricorrere a termini meno iperbolici, una certa commutazione armata nei rapporti etnici, religiosi, nazionali in diverse regioni del mondo era già iniziata nei paraggi del 1989. Per molti aspetti una «terza guerra» a macchia di leopardo era già all’opera, nell’Europa balcanica e nella Russia meridionale, dopo o durante il crollo del comunismo.

In altre parole: dovremmo tenere a mente tutti i conflitti di civiltà (considero presuntuoso scialo culturale gettare l’intero Huntington in soffitta) che precedettero e, in modo sia pure obliquo, preannunciarono l’apocalisse newyorchese. Azeri contro armeni nel Caucaso, serbi ortodossi contro slavi islamizzati in Bosnia, ancora serbi contro albanesi musulmani nel Kosovo, quindi russi contro guerriglieri fondamentalisti in Cecenia e nel Daghestan. Lo stesso carattere di genocidio indiscriminato, che ha connotato la strage inflitta da Al Qaeda all’inerme popolazione delle Torri Gemelle, non s’era già profilato in termini rovesciati e ambigui (slavi cristiani contro slavi islamici) nel più esecrando degli olocausti perpetrati in Europa, a Srebrenica, dopo l’ultima guerra mondiale?

Non mi sembra possibile, né sul piano logico né su quello storico, separare gli anelli di questa mobile catena di catastrofi regionali che infine, allungandosi sempre più, sono diventati intercontinentali. Alla pace negativa, ma pur sempre pace, basata sull’equilibrio del terrore garantito per mezzo secolo dagli Usa e dall’Urss, è subentrato fra il 1989 e il 2000 lo squilibrio del terrore globalizzato: del caos in libertà. Il pianeta, che da quando esiste cambia in continuazione, sta già incorporando, assorbendo e forse sterilizzando tale incognita eccezionale e asimmetrica.

Fatto è che neppure l’11 settembre è riuscito o riuscirà a cambiare un universo che si cambia da solo, come gli pare e piace, nel bene e nel male. Non è un universo astratto, l’universo in generale caro agli astronomi e ai filosofi, che una discrasia storica per quanto temibile può ribaltare d’un tratto recidendone la radice oscura e irraggiungibile. Quello che invece è mutato, che sempre più sta mutando, è la percezione del mondo in cui viviamo. Volendoci vivere il più a lungo possibile, dovremo affrontarne le insidie e combatterle con i valori di fondo, non solo di superficie, della nostra civiltà tanto detestata da tutti quelli che la imitano per distruggerla.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9183


Titolo: ENZO BETTIZA Putin sogna di resuscitare l'Urss
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 04:48:31 pm
5/10/2011 - UN NUOVO PATTO

Putin sogna di resuscitare l'Urss

ENZO BETTIZA

Due sorprese nel giro di trenta giorni. Dopo essersi ricandidato a riprendersi il posto di presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin già rende noto al suo popolo e al mondo intero quale sarà il grandioso progetto che egli promuoverà subito dopo la vittoria elettorale di marzo, data da tutti per sicura: la ricostituzione, con progressivo e parziale allargamento, di una parte dello spazio geografico che fino al 1991 si chiamava Unione Sovietica. Lo annuncia lo stesso Putin, in attesa di spiccare il salto dal governo alla terza presidenza, firmando nelle «Izvestia» un articolo dal linguaggio morbido, invitante, non allarmante, in cui i termini economicisti del progetto attutiscono accortamente quelli di significato più politico. Eccone il passo essenziale: «Proponiamo il modello di una potente unione sovrannazionale, in grado di diventare uno dei poli del mondo moderno e di svolgere un ruolo di efficace legame tra l’Europa e la dinamica regione Asia-Pacifico».

Non si capisce bene di quale legame con quale Europa Putin parli con un piglio che risente già d’autorevolezza presidenziale.
L’Europa comunitaria del Reno e del Danubio oppure l’Europa ex sovietica del Volga e degli Urali? Propenderei per la seconda versione eurasiatica. Infatti il modello geopolitico e geoeconomico, illustrato da Putin, esclude l’europea e riluttante Ucraina, per tacere dell’ostile Georgia e delle irrecuperabili repubbliche baltiche, basandosi precipuamente sull’unione doganale in atto tra Russia, Bielorussia e Kazakistan. Un bulbo di schietta e quasi leggendaria Eurasia.

Dal primo gennaio 2012 la triade, che formava suppergiù un terzo dell’Unione Sovietica, costituirà, rispetto ai 27 Paesi e ai 500 milioni dell’Unione Europea, un mercato comune di 165 milioni di «consumatori» (non più «proletari») definiti così secondo una vecchia terminologia fiorita a Belgrado e a Zagabria ai tempi dell’eclettico riformismo titoista.

Accentuerà la componente non europea e non slava il probabile ingresso nell’unione putiniana, che già accoglie il semistalinista bielorusso Lukašenko, di due minori democrature islamiche dell’Asia centrale, Kirghizistan e Tagikistan.

Questa sorta di riviviscenza o di «copia e incolla», con espedienti e finzioni interdoganali, di uno spazio storico dissolto dai crolli comunisti suggerisce il dubbio che il premier Putin stia cercando di surrogare l’Unione Sovietica pesante d’una volta con una sorta di «Urss leggera»: non più basata sull’ideologia delle tonnellate, sul mito e l’incubo dell’acciaio, bensì sugli oleodotti energetici, gli investimenti stranieri, la mobilità del lavoro, il benessere anziché la miseria e spesso la quasi schiavitù degli operai. Sarà.

Ma, al tempo stesso, non va dimenticato che l’enigmatico Putin definì il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Quell’accento così drammatico sulla «catastrofe geopolitica» può aiutarci a comprendere, fino ad un certo punto, i suoi sforzi mirati a ricomporre oggi pezzo per pezzo, con la mezza finzione di un mercato o bazar comune, un’entità che almeno in parte possa evocare gli spazi «geopolitici» dell’impero perduto.

Del resto, si vede ormai benissimo che l’esercizio diuturno della finzione è stato e resta più che mai uno dei motori vitali dell’ambiziosa quanto straordinaria carriera politica di Putin. Fino a ieri molti credevano che il presidente Dmitry Medvedev, dimissionario in anticipo sui tempi legislativi, non fosse un fantoccio nelle mani del suo mèntore e padrone. Lo si dipingeva come un liberale in salita, uomo di riforme, in procinto di emanciparsi dal suo principe elettore e, in certi casi, perfino di opporglisi. Solo chiacchiere.

Il controllo sulla stampa e sulle televisioni si è assolutizzato; il partito putiniano «Russia Unita» è divenuto di fatto un partito unico circondato e sostenuto da simulacri pseudodemocratici; contemporaneamente la popolarità del presidente reale, che fingeva di fare il primo ministro, è cresciuta a balzi esponenziali. Oggi il volto sorridente e rassicurante del presidente Medvedev ci appare simile alla faccia intensamente dipinta di una matrioska che al proprio interno conteneva da sempre, fin dall’inizio, dal 2008, la grinta gelida dello zar autentico di tutte le Russie.

Il gioco delle parti, lo scambio fisiologico delle consegne tra burattinaio e burattino, è affare concluso da tempo e da tempo accettato dalla maggioranza dei «consumatori» votanti. Al terzo mandato al Cremlino di Putin potrà seguire il quarto e la durata prolungarsi fino al 2024. Praticamente presidente a vita. Una simile longevità politica ricorda solo quella di Stalin. Così come il rimpianto, più o meno segreto, della grandezza di Stalin sembra riflettersi in chiave minore nell’«Urss leggera» che Putin sta pianificando e già realizzando da Minsk al cuore dell’Asia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9283


Titolo: ENZO BETTIZA Lo psicodramma della diarchia franco-tedesca
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2011, 10:07:25 am
8/11/2011

Lo psicodramma della diarchia franco-tedesca

ENZO BETTIZA

Sono in molti a parlare oggi di psicodramma. Si riferiscono ai malori dell’euro, al disastro della Grecia, alla quarantena internazionale imposta all’Italia, alla quasi deriva dell’Unione Europea sottoposta alle carote e alle bastonate dell’ondivaga diarchia franco-tedesca. «Psicodramma» è una locuzione vuota, priva di senso, risalente al lessico parapolitico della seconda metà del Novecento. Quello che in realtà si sta svolgendo sotto i nostri occhi in questi giorni fatali, con la Grecia prossima allo harakiri e l'Italia sospesa al filo di un ignoto mutamento epocale, è un dramma vero, senza «psico»; un dramma eminentemente politico, crudo, e ancora incompiuto.

E’ certo innegabile che l’economia, come tutti vedono senza capirne fino in fondo il linguaggio cifrato, abbia un suo ruolo in apparenza addirittura dominante nello svolgimento del dramma. La situazione reale però è intricata e più complessa. L’economia postmoderna, chiamiamola così, sembra giocarvi una parte prioritaria con le sue formule enigmatiche, tratte dal gergo finanziario della City e di Wall Street, o con i verdetti delle agenzie di spionaggio mercantilistico chiamato «rating» che indagano e denunciano, spesso sbagliando, la fragilità di resistenza alla crisi di aziende, istituti bancari e spesso di nazioni intere. In questo universo di minacciose astrazioni primeggia il culto pressoché eleusino dei «mercati», trasformati dai media in una sorta di umorali creature extraterrestri definite, a seconda dei casi, con aggettivi antropomorfi: «emotivi», «reattivi», «prudenti», «diffidenti», «aggressivi», «punitivi» e via dicendo.

Oramai le aperture dei telegiornali, con conduttori che farfugliano di corsa termini e dati incomprensibili a loro stessi nonché al pubblico che li ascolta, sembrano mimare in sintesi la lezione di una Bocconi dei poveri. Grandi quotidiani d’informazione paiono ridotti, in certe giornate di crollo delle Borse, a opuscoli economicisti di ardua e tetra lettura. Mai il pubblico non solo italiano, bensì europeo e occidentale, aveva avuto la sensazione di essere assediato da una catastrofe altrettanto incombente quanto inesplicabile, indecifrabile. Una specie di minaccia di guerra senza volto, senza un nemico dichiarato, non più fredda ma bianca e intestina: misteriosamente fomentata da incurabili «debiti sovrani», da forbici di «spread» che si allargano, da invasivi «Bund tedeschi» che spingono al baratro gracili «Btp decennali italiani», con l’appendice di un’avara trincea di protezione. Un Fondo europeo siglato dall’astruso acronimo «Efsf», che dovrebbe salvare dalla bancarotta o «default» gli Stati dell’Unione più sventurati o più vulnerabili.

Gli europei un tempo si sentivano minacciati da fatti concreti e chiaramente percepibili. I missili sovietici, il Muro di Berlino, la crisi di Cuba del ‘62 a carica atomica. Infine si sentirono sollevati o stupefatti o magari affranti, se erano comunisti, dalla caduta del Muro e dall’implosione dei regimi totalitari dell’Est. Dopodiché moltissimi, postcomunisti compresi, hanno invano sperato nella buona sorte dell’Europa di Maastricht e dell’euro. Non pensavamo che dagli assedi della Storia visibile saremmo precipitati, sulla fine del primo decennio del 2000, nell’assedio invisibile di una storia minore priva d’immagini e ingarbugliata, almeno all’apparenza, soltanto da numeri impazziti. Mai, insomma, avremmo potuto immaginare che un nuovo pericolo si sarebbe presentato ai nostri occhi in forma algebrica, nell’ambito stesso della promettente Unione di Maastricht, con un sordo bombardamento quotidiano di cifre, percentuali, statistiche, parametri e rendiconti punitivi. Il trasloco dai rischi della Storia autentica agli incubi di astrazioni per così dire astoriche, in continua mutazione, spesso inafferrabili, non poteva non ingenerare in coloro che avevano creduto all’unità europea una forte dose di disaffezione nei confronti degli istituti europei: istituti oggi intensamente condizionati e in gran parte confiscati dal direttorio franco-tedesco. Qui, dietro l’astrazione dei numeri in primo piano, si toccano le radici di questa grave paralisi europea che sono politiche e anche storiche.

L’ossessione della Germania per la propria stabilità e per quella dell’Europa, alla quale resta e resterà comunque legato il suo destino, si spiega meglio ricordando il retaggio negativo della Repubblica di Weimar: la vertiginosa svalutazione del marco, la vasta disoccupazione, la perpetua rissa tra partiti, fazioni, aristocrazie militari, il tutto culminato nell’ascesa al potere dei nazionalsocialisti e di Hitler. Lo stesso Hitler, che detestava interessarsi di economia, divenuto cancelliere, dovette affrontare d’urgenza il problema della stabilità affidando al conservatore Hjalmar Schacht, esperto banchiere e geniale uomo d’affari, il compito di rimettere «la casa in ordine». La ripresa impressa da Schacht riconsolidò il marco, ridusse la disoccupazione da sei milioni a un milione, il reddito nazionale raddoppiò. Scrive il testimone oculare Shirer nella sua «Storia del Terzo Reich» pubblicata da Einaudi: «Negli anni intorno al 1935 la Germania sembrava un grande alveare: le ruote dell’industria ronzavano e ognuno era affaccendato come un’ape». Buona parte dell’alveare ronzava nelle industrie belliche: il riarmo, voluto da Hitler e secondato con abilità e opportunismo da Schacht, fu per la Germania quello che, dopo il caos del 1929, furono per il Roosevelt keynesiano del New Deal i grandi e talora artificiali lavori pubblici. Comunque, la corsa nevrotica alla stabilità dopo il «default» di Weimar ha segnato nel bene e nel male l’animo dei politici tedeschi. Non è un caso se la cancelliera Merkel vede nella Banca centrale europea quasi una mezza banca tedesca e se ora difende, come se si trattasse del marco defunto, la solidità dell’euro a scapito del soccorso alla Grecia e di una cooperazione più sensibile con l'Italia.

Quanto alla Francia, con un Sarkozy che fa da portavoce alla signora Merkel, dicendo questo si è detto quasi tutto. Se ride e strilla contro l’Italia, che certo non naviga in acque serene, probabilmente lo fa per non piangere sul suo Paese che in tempi di elezioni presidenziali rischia di perdere le tre «A». A prescindere da altre fragilità, come il debito altissimo e la difficile ricapitalizzazione delle banche, sono queste le tre lettere indorate che tengono in piedi, non si sa fino a quando, la parvenza di una parità francese con la potente Germania. Sarà bene ripeterlo: soltanto la parvenza.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9409


Titolo: ENZO BETTIZA La "Gioconda nordica" salvi l'euro
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2011, 06:09:40 pm
30/11/2011

La "Gioconda nordica" salvi l'euro

ENZO BETTIZA

Il Financial Times concede al vascello dell’euro alla deriva non più d’una decina di giorni prima di affondare. Ne sapremo qualcosa, per il meglio o il peggio, entro nove giorni, allorché a Bruxelles si riunirà il vertice dei capi di Stato e di governo per discutere, secondo il presidente dell’Ue Van Rompuy, il progetto di «una vera e propria road map» di salvataggio della moneta comune.

Il timore diffuso è che Angela Merkel non cerchi, anche in questa occasione, d’imprimere alla mappa una strategia conforme agli interessi nazionali tedeschi o ai suoi personalissimi calcoli elettorali.

Sinora infatti nella sala macchine dell’Eurozona, coi motori fermi, si è sentito solo il rimbombo dei veti della cancelliera, il cui pugno di ferro emerge sempre più scoperto fuori dal guanto di velluto. Il repertorio è noto. No durissimi alla Grecia disprezzata; mezzi no all’Italia prima incalzata, poi blandita con l’arrivo di Monti, infine apparentemente promossa con la partecipazione, assieme alla Germania e alla Francia, al progetto di una «unione della stabilità» che non si sa bene come funzionerà; assoluti no al lancio nella burrasca di salvagenti d’emergenza, chiamati eurobond. E soprattutto no ad un intervento autonomo e risolutivo, sulle operazioni di salvataggio, della Banca centrale europea che dà invece l’impressione di agire come una semifiliale della vetocratica Bundesbank tedesca.

Ma chi è, in fondo in fondo, da dove spunta, dove si è plasmata, con quali ideali o ambizioni è cresciuta Angela Dorothea Kasner (Merkel è nome preso dal primo marito) che veniva dal freddo e che, dopo la caduta del Muro, era conosciuta solo da pochi notabili dei partiti cristiani Cdu e Csu che ne determineranno la fulminea ascesa ai vertici della Germania riunificata? Quando nel 2005 diventa il primo cancelliere donna della storia tedesca, «Der Spiegel» la presenta al pubblico occidentale come una massaia conservatrice, di tradizione luterana, dal «sorriso enigmatico di una Gioconda nordica». Ma alle spalle della cancelliera cinquantenne, se non «la vita degli altri» in senso deleterio e cinematografico, c’era stata la vita di un’altra Angela, un’altra persona, la quale mai avrebbe potuto immaginare di essere destinata - lei, partorita quasi per caso in un oscuro villaggio della Ddr - a rappresentare un giorno sulla scena mondiale ottanta milioni di tedeschi riuniti.

Suo padre, il pastore protestante Horst Kasner, detto da qualcuno «il prete rosso», si spostava spesso tra le due Germanie intrattenendo buoni rapporti, in quella comunista, sia con gli antichi insediamenti evangelici che con le nuove autorità ulbrichtiane. La penuria di pastori spingeva prelati volenterosi alle missioni nell’Est; ma non sempre la cosa veniva vista di buon occhio da Ovest, anche perché l’epoca era già segnata dalle fughe in direzione opposta, verso la Repubblica federale, di milioni e milioni di tedeschi orientali. Angela Kasner era nata in quell’epoca e aveva continuato a vivere «di là» senza troppe inquietudini ideologiche o bovaristiche, sempre in tranquilla o apparente pace con tutti. Con se stessa, con la religione del padre, con lealtà neutrale nei confronti del regime, perfino con le organizzazioni giovanili comuniste di cui, pur cristiana osservante, fece per qualche tempo parte attiva. Da noi si usava una volta il termine «cattocomunista»; forse, per la giovane Angela, scaltra, attenta, duplice, sfuggente, si sarebbe potuto adoperare con dovuta cautela quello di «luterocomunista». Imparò alla perfezione il russo, ammirando in particolare la superzarina, Caterina la Grande, nata come lei in Germania orientale. Studiò con profitto fisica all’università di Lipsia e, più tardi, operò anche all’Istituto per la chimica fisica dell’Accademia delle scienze di Berlino Est. Insomma, una studiosa capace, integrata nel sistema, alla quale mai sarebbe venuto in mente di rompere le righe e rischiare il salto del Muro per raggiungere la libertà nel settore occidentale dell’ex capitale. Non a caso dice di se stessa: «Ho bisogno di tempi lunghi e cerco quanto più possibile di riflettere prima di agire».

Aspettò che il comunismo e il Muro cadessero, o implodessero da soli, prima di tuffarsi con un piccolo ma influente movimento, «Risveglio democratico», nell’arena politica di una Germania in parte sconvolta e in gran parte esaltata dall’imminente riunificazione nazionale. Fu in quel clima di cambi della guardia, di fusioni monetarie, di processi volatili, di assoluzioni facili, d’embrassons-nous, che l’aspirante scienziata Kasner si mutò d’un colpo nell’aspirante cancelliera Merkel e compì, nel giro di quindici anni, la più inattesa e straordinaria carriera politica del Duemila. Si potrebbe evocare lo scatto metamorfico di una folgore fredda. Porta il suo movimento dell’Est ad allearsi e fondersi nella Cdu, entra nelle grazie di Helmut Kohl, che presiede lo storico partito democristiano e già prepara il cambio del marco orientale e la riunificazione; dopodiché passerà indifferente sopra il cadavere politico di Kohl, celebrato dal mondo intero, ma travolto da uno scandalo finanziario. Dirà senza batter ciglio: «E’ ora che se ne vada». E’ lei, das Mädchen, «la ragazza», come bonariamente o ipocritamente la chiamano seguaci e rivali all’interno della Cdu, che non intende andarsene più via; è lei, non più ostacolata dalla mole protettiva e dai meriti storici di Kohl, che si accinge alla conquista di due cancellierati uno dopo l’altro, coalizzandosi prima con i socialdemocratici e in seguito alleandosi da posizioni di forza con i liberali; è lei, già esperta di chimica, che adesso comincia a trattare come «molecole» problemi e personaggi coinvolti nel gioco politico.

A questo punto si sarà forse capito con che razza di animale politico imprevedibile, inafferrabile, caparbio, avranno a che fare il 9 dicembre soprattutto quei capi di governo più interessati a salvare dal naufragio l’euro e l’Europa comunitaria in quanto tale. Kohl, l’ultimo dei cancellieri europeisti di cui Adenauer fu il primo, un Kohl pressoché dimenticato, sulla sedia a rotelle, col fantasma di una moglie suicida dietro le spalle, si è già preso una rivincita attaccando l’ex pupilla scavalcatrice sul giornale «Der Tagesspiegel»: «La cancelliera, con la sua linea molto pericolosa nei confronti dell’euro, sta distruggendo la mia Europa». Voleva dire l’Europa occidentale dei renani, cattolica dei bavaresi, vicina a uomini di frontiera come l’alsaziano Schuman o il trentino De Gasperi; un’Europa che probabilmente non ha mai ispirato, ma piuttosto ingessato, le mosse di una protestante, una puntigliosa nordica, una quasi prussiana, cresciuta in scuole d’impianto scientifico e manicheo, culturalmente sensibile ai mondi e agli idiomi slavi. Kohl ha poi smentito di averlo detto, ma si sa che le smentite, in sede di giornalismo politico, equivalgono spesso a una riconferma rafforzata. Vedremo a giorni, nella capitale virtuale dell’Ue, se Angela Merkel si comporterà allo stesso modo con cui, ancora bambina o quasi, affrontava le prove di nuoto ai margini della piscina. Una sua biografa ufficiale, Margaret Heckel, scrive che la piccola scolara poteva passare un’intera lezione accovacciata e immota sul trampolino. Solo quando le giungeva dalla palestra lo squillo finale del campanello, riusciva a trovare il coraggio di fare il salto nell’acqua.

Tanti oggi sperano che la zarina dell’Unione, che sulla scrivania tiene un ritratto settecentesco di Caterina la Grande, trovi il coraggio di tuffarsi in extremis fra i marosi per trarre in salvo l’euro. Basterebbe, per esempio, che cessasse di opporsi a quello che i politici più responsabili e gli osservatori più acuti chiedono da tempo: concedere alla Banca di Francoforte il ruolo di prestatore di ultima istanza ai Paesi indebitati. Anche in termini fonetici quel drammatico ruolo può evocare l’ultima bombola d’ossigeno in una stanza di rianimazione: basta talora il ritardo di un minuto secondo, uno solo, a spegnere il rantolo del malato grave e farlo morire.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9498


Titolo: ENZO BETTIZA Vasilij Grossman, nessun miracolo a Stalingrado
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2011, 06:55:37 pm
Cultura

03/06/2010 - L'INEDITO DA MOSCA: «STO SCRIVENDO UN LIBRO...»

Vasilij Grossman, nessun miracolo a Stalingrado

Sovietici e nazisti accomunati nel male: una nota dello scrittore svela l'impulso di verità totale con cui concepì "Vita e destino"

ENZO BETTIZA

Un foglio di carta ritagliata scritto a penna stilografica scura, senza data, conservato presso Rossijskij Gosudarstvennyj Archiv Literatury i Isskustva di Mosca, con una nota inedita di Vasilij Grossman: l'ha scoperta lo studioso Pietro Tosco, che la pubblica sulla rivista La Nuova Europa in uscita questo fine settimana, con un'ampia analisi del documento. Qui anticipiamo il testo di Grossman.


Sto scrivendo un libro su Stalingrado. Il libro, se riuscirò a finirlo, consterà di tre parti. In un anno e mezzo ho steso l'abbozzo della prima parte, ora sto lavorando alla seconda. Il lavoro sul libro mi riesce a spizzichi e non posso dire quando lo finirò, per il semplice fatto che io stesso non lo so. Stalingrado è la catastrofe del male nel mondo.
La vittoria di Stalingrado non è un miracolo, né una felice casualità. Stalingrado risponde a una grande legge nel movimento del flusso della storia. La vittoria di Stalingrado è un risultato che equivale alla somma di forze diverse, delle quali la forza materiale non è che una delle poderose componenti. Il destino di Stalingrado l'hanno deciso gli uomini, ma anche Stalingrado ha determinato il destino degli uomini e del popolo.
Vorrei che il mio lavoro, almeno in minima parte, fosse degno di quella sofferenza che la guerra ha portato nel mondo, di quelle forze della storia dello spirito del popolo, di quei caratteri umani, di cui mi sto sforzando di scrivere. Voglio che il mio lavoro, almeno in minima parte, sia degno di quei soldati senza nome che hanno combattuto col male, dei quali non ci si deve dimenticare.
Questo desiderio ambizioso e probabilmente irrealizzabile mi costringe ad affrontare il mio lavoro con la più grande severità di cui sono capace.

Vas. Grossman



E' molto più di una «nota inedita», priva di data, scritta oltre mezzo secolo fa dallo scrittore che l'aveva firmata quasi di corsa «Vas. Grossman». È di fatto la confessione segreta, essenziale come un distillato di verità, che il romanziere, già molestato dalla censura, consegnò con la penna a un ritaglio di carta nei giorni in cui s'addentrava nella stesura di «un libro su Stalingrado». Vasilij Grossman era allora immerso nella sua sfida narrativa finale, Vita e destino, che fin dal tolstoiano binomio dichiarava l'ambizione di diventare il Guerra e pace del Novecento. Un romanzo, secondo George Steiner, destinato a «eclissare tutti i romanzi che in Occidente vengono presi sul serio».

Simile e una cartina di tornasole, emersa per caso dalle profondità più tenebrose della storia, non solo russa ma europea, la «nota» ora ci svela l'impulso di verità totale e abrasiva con cui Grossman aveva concepito fin dall'inizio la sua massima opera. Il concetto centrale, da cui dovevano partire e a cui dovevano approdare le 800 pagine del romanzo, era questo: «Stalingrado è la catastrofe del male nel mondo». Nella coscienza ulcerata e nella memoria informata dello scrittore, che come giornalista di prima linea aveva attraversato tutti i fronti bellici, i termini «catastrofe» e «male» sostituivano e annullavano quelli di «vittoria» e di «guerra patriottica» esaltati dalla retorica ipernazionalista sovietica.

Il nome Stalin appare nella nota soltanto perché Stalingrado si chiamava Stalingrado. Per il resto Grossman ignora il generalissimo, non gli attribuisce alcun merito militare, non cita la gloriosa Armata Rossa ma soltanto «quei soldati senza nome che hanno combattuto col male». Così come, con simmetria allusiva, non cita Hitler e ignora del tutto l'esercito nemico. Anzi, tacendoli, egli dà l'impressione di collegare nazionalcomunisti e nazionalsocialisti nell'indistinto «male» del secolo inquinato dalla Gestapo e dalla Ghepeù, dai Lager e dai Gulag, che nei capitoli polifonici del grande romanzo s'alternano e quasi si confondono.

Non a caso François Furet, alla fine della sua disamina delle illusioni comuniste, aveva dato rilievo emblematico al momento più scabroso e inquietante di Vita e destinO, in cui assistiamo al rispettoso colloquio tra un ufficiale delle SS e un commissario politico russo: i simulacri della lotta di razza e della lotta di classe sembrano avvicinare, al di là dell'odio convenzionale, rendendoli quasi complici ideologici, l'imbarazzato comunista e lo spregiudicato nazionalsocialista.

La radicale metamorfosi dello scrittore russo israelita, che aveva iniziato la carriera nella scia della narrativa ispirata al realismo socialista, non poteva non esporlo alla rappresaglia di un potere confusamente e ottusamente totalitario anche dopo la morte di Stalin. Gli occhiuti e insieme strabici censori sovietici, che pur tollerando il primo Solženicyn avevano già massacrato Pasternak, riconobbero subito in Vita e destino un testo ben più temibile del Dottor Živago. Doveva allarmarli profondamente quell'onnipervasiva riflessione sul male a ridosso dell'epopea nuda, cruda, non oleografica di Stalingrado: una Stalingrado conosciuta e vissuta in prima persona dal rievocatore Grossman come luogo dantesco di dolore, di purificazione, più che di glorificazione encomiastica dell'avvilito popolo russo.

Quando negli anni Cinquanta, al principio del disgelo dopo la scomparsa di Stalin, le edizioni di Stato rifiuteranno di pubblicare la seconda metà del libro, la più importante e politicamente più ingombrante, Grossman scriverà una lettera personale a Krusciov chiedendo comprensione e libertà per il suo lavoro di narratore. Gli risponderà dopo qualche settimana il politburo del Pcus con una sferzata breve e sarcastica: «Prima che il suo romanzo venga pubblicato dovranno passare almeno trecento anni».

Intorno al 1960 gli agenti del Kgb faranno irruzione nell'appartamento di Grossman, considerato traditore del regime e della patria; sequestreranno il manoscritto del romanzo, gli appunti, la copia carbone, il nastro della macchina per scrivere e la stessa macchina. Per fortuna, il fisico dissidente Andrej Sacharov riuscirà a recuperare un secondo manoscritto facendolo giungere di sotterfugio in Svizzera. Grossman morirà per cancro nel 1964. La sua opera sarà pubblicata postuma nel 1980, a Ginevra, presso le Editions d'Age d'Homme.

Io lasciai Mosca nel '64, senza aver mai saputo che nella stessa città era vissuto uno dei più grandi scrittori russi. Nessuno me ne aveva parlato. Nessuno dei tanti letterati da me incontrati m'aveva fatto il suo nome. Stento ancora oggi a convincermi di averne ignorato per quattro anni l'esistenza. Grossman, molto più di Pasternak, era stato davvero cancellato dalla faccia della terra e ridotto al nulla della «non persona» nel senso più orwelliano del termine. La fama d'eroe di guerra, insigne come la sua firma giornalistica durante gli anni Quaranta, era riuscita a evitargli la deportazione in Siberia, ma non la morte civile in qualche oscuro e remoto appartamento moscovita.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/241262/


Titolo: ENZO BETTIZA L'Europa cerca in Croazia un nuovo futuro
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2012, 10:27:31 am
22/1/2012

L'Europa cerca in Croazia un nuovo futuro

ENZO BETTIZA

Oggi sapremo se un nuovo Stato si aggiungerà ai Ventisette di questa Europa in crisi, paradossalmente disunita fra tante difficoltà ma unita nei vischiosi tentativi di risolverle non si sa come. Lo sapremo dal risultato che uscirà stasera in Croazia dalle urne del referendum. La maggioranza dei sondaggi, salvo sorprese dell'ultima ora, conferiscono al «sì» una vittoria di calore medio, intorno al 55 per cento, contro un «no» che non dovrebbe superare il 25 per cento.

Se verrà confermato il pronostico sul consenso popolare al trattato di adesione, già firmato a Bruxelles dal nuovo governo di centrosinistra, la Croazia diventerà nel luglio 2013 non solo il Ventottesimo Stato membro dell'Unione. Rappresenterà anche, al fianco della Slovenia, la fusione con le istituzioni comunitarie di una seconda nazione ex jugoslava, la più coinvolta negli scontri armati con la Serbia dopo la dichiarazione d'indipendenza del 1991. Insomma, se il referendum riuscirà, costituirà un attestato di eloquente fiducia nella terapia europeistica da parte di una provata regione dei Balcani occidentali, proprio nel momento in cui l'Europa appare più incline a disintegrarsi che ad allargarsi.

Molte ombre, che s'intravedono nello sfondo dietro la prova referendaria croata, possono indurre comunque a considerazioni di prudenza e anche di perplessità. Spesso non vediamo le contraddizioni infinite nella deriva greca.

Tendiamo, per esempio, a dimenticare che la Grecia non è soltanto un pezzo disastrato dell'entità comunitaria europea, ma parte cospicua e irrequietissima della Penisola balcanica. Dimentichiamo che la sua politica estera, in contrasto per disperazione finanziaria con Berlino e Bruxelles, confligge al tempo stesso per ragioni storiche e mitiche con la Macedonia, di cui non riconosce il nome «usurpato», oppure con l'Albania, alla quale rimprovera di fomentare pulsioni nazionaliste nelle minoranze albanesi dell'Epiro.

Ora tantissimi greci - politici, intellettuali, popolani che siano - puntano il dito contro un'Europa che vorrebbe, dicono, espellere Atene dalla zona euro strizzando nello stesso istante l'occhio ai macedoni, agli albanesi, ai montenegrini e perfino ai kosovari. Ma è nel caso della Croazia, alla quale Bruxelles spalanca le porte europee che invece intenderebbe chiudere alla Grecia e mai aprire alla Serbia, che i greci nazionalisti e in genere filoserbi vedono il colmo dell'insulto.

I critici, non solo greci, contrari alla «europeizzazione» di quattro milioni e passa di croati, esibiscono con cifre alla mano diversi argomenti negativi d'ordine economico e sociale. Osservano che su quel Paese pesano una lunga recessione, un debito straniero di 48 miliardi di euro e una disoccupazione elevata al 17 per cento. Nel contempo gli stessi europessimisti croati, perlopiù estremisti di destra che non perdonano alle autorità indigene di aver estradato il generale Ante Gotovina, condannato per crimini di guerra a 24 anni di carcere dal tribunale dell'Aia, sottolineano che la Croazia perderebbe la sua antica identità nazionale in un'Europa dominata dalla Germania e dalla Francia. C'è anche chi sostiene, indignato e allarmato, che non esiste più una banca di proprietà croata poiché tutti gli istituti di credito sarebbero stati svenduti a voraci banche italiane, austriache, tedesche e francesi.

Argomenti certamente seri, ancorché non tutti comprovati, sovente alterati da una buona dose di demagogia. Però destinati ad attecchire sempre meno, in seguito alla catena di scandali e sconfitte che ha finito col travolgere il tradizionale partito conservatore Hdz, Unione democratica croata, fondato e guidato nelle battaglie contro i serbi e negli anni della ricostruzione dal defunto «padre della patria» Frano Tudjman. Il crollo senza riscatto della Hdz avviene sul termine del 2011, con l'arresto per corruzione del suo ultimo leader ed ex primo ministro Ivo Sanader; dopodiché in dicembre si celebra il trionfo elettorale di una coalizione di centrosinistra che consegna la guida del governo al socialdemocratico Zoran Milanovic. La presidenza della Repubblica era già nelle mani di un socialdemocratico colto e stimato, il musicologo Ivo Josipovic.

Il nuovo governo, ispirato dal presidente occidentalista, mette da parte le incertezze e ambiguità diplomatiche della logora Hdz e, sostenuto sul piano esterno da Bruxelles e dall'influente Chiesa cattolica su quello interno, accelera le ultime battute tecniche per l'ingresso della Croazia nell'Ue. L'odierno referendum, in cui sicuramente voteranno «sì» gli elettori che hanno appena votato per il centrosinistra, costituisce il corollario dell'operazione. Secondo l'intento degli attuali vertici di potere, gestiti e garantiti dalla socialdemocrazia, la valutazione squisitamente politica dell'evento, ovvero l'uscita definitiva dall'isolamento balcanico, deve ad ogni costo prevalere sulle valutazioni economicistiche, materialistiche e nazionalistiche.

La stabilità finalmente raggiunta, dopo gli scandali, a livello governativo e parlamentare, la chiarezza etica nei confronti del tribunale internazionale dell'Aia, l'aggancio ai costumi dell'Europa contemporanea mediante il portentoso decollo turistico avviato nel 2000, nessuna bandiera europea bruciata come nelle piazze di Atene e di Budapest: questi i temi che da qualche settimana prevalgono nei giornali e nelle televisioni di Zagabria. Non lascia dubbi in proposito neppure l'incitamento lanciato ai votanti dall'uomo di cultura Josipovic: «Oggi la Croazia sta entrando in Europa, ma soprattutto l'Europa sta entrando in Croazia. Non dobbiamo perdere la grande occasione. Dobbiamo completare l'ondata del sesto allargamento nella storia dell'Unione».

Da tempo non si udivano parole così alte e sincere indirizzate da una capitale europea all'idea, purtroppo vacillante, di un'Europa unita. Il «sesto allargamento» si riferisce a quello che ha vincolato all'Europa democratica i Paesi dell'Est una volta comunisti. Dal fatidico 2004 in poi, dopo la caduta del Muro e la riunificazione tedesca, la metà centrorientale del continente ne ha viste di cose: miracoli come in Polonia e Slovenia, smembramenti come in Cecoslovacchia, fallimenti e rigurgiti ancestrali e sospetti come in Ungheria. Se il referendum croato passerà, speriamo che almeno esso porti, da Zagabria, una ventata d'ossigeno corroborante alla vasta casa comune che minaccia di svuotarsi e sprofondare su se stessa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9677


Titolo: ENZO BETTIZA Lo zar Putin e l'incognita di una vittoria
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2012, 11:13:30 am
4/3/2012

Lo zar Putin e l'incognita di una vittoria

ENZO BETTIZA

Primo o secondo turno, ballottaggio o meno, quasi nessuno in Russia o in Occidente dubita che l’intramontabile Vladimir Putin porterà comunque in porto il suo piano di scambio pattuito con l’uscente e ossequiente capo di Stato Dimitri Medvedev. A scanso di sorprese, poco probabili, dovremo rivedere per la terza volta al vertice del Cremlino un Putin in prodigioso rilancio, al quale gli ultimi e più attendibili sondaggi accreditano ormai il 66 per cento del voto. Qualche broglio sommato all’assenza di un concorrente alternativo potrebbero elevarlo al 70.

Di fatto, l’uomo aspro ed enigmatico che da una dozzina d’anni domina la scena russa del Duemila si presenta oggi come unico candidato sicuro di riconquistare o, se preferite, usurpare la massima carica: l’opposizione composita e proteiforme, che continua a osteggiarlo dalle elezioni parlamentari di dicembre, si è sfogata nelle piazze, divertita negli spot Internet, dispersa nei girotondi chilometrici, senza riuscire però ad esprimere un leader capace di fronteggiarlo o metterlo in seria difficoltà. Il punto della questione, secondo osservatori attenti, non è più quello di sapere se Putin vincerà, ma di prevedere quanto potrà durare e come vorrà usare questa sua terza presidenza.

Non è un mistero che, abituato a stravincere, egli guardi addirittura al traguardo del 2024. L’Economist, che gli dedica la copertina, lo mostra incappottato di spalle sotto il titolo «Il principio della fine». Sarà poi vero? La cosa più certa è che la Russia è profondamente cambiata dall’epoca di caos e di collasso di dodici anni fa. Putin, salito al potere, avviò allora nel bene e nel male la Federazione orfana dell’Urss a un periodo di stabilità autoritaria: democrazia censurata, potere cosiddetto «verticale», guerriglia permanente contro i rivali di «Russia Unita», liberalizzazioni confuse imperniate per due terzi attorno alla potenza non solo economica di gas e petrolio.

Seppe affrontare e risolvere cinicamente le guerre cecene, seppe stabilire un buon rapporto antiterroristico con l’America attaccata da Al Qaeda, seppe blandire e ricattare l’Europa con le forniture dei gasdotti siberiani. La popolarità del rude salvatore e garante della resurrezione della Santa Russia crebbe di anno in anno, anche con il sostegno dell’influente clero ortodosso, coronato dalla stima dimostratagli, poco prima di morire, dall’ultimo profeta della letteratura russa Solzenicyn. Ma nel frattempo, proprio in virtù delle prosperose operazioni di salvataggio messe in atto, operazioni spesso spregiudicate, al limite della legalità democratica, come l’incarcerazione inflitta all’oligarca Kodorkovskij, doveva farsi strada nella scia della stabilità una società che mutava pelle rivoltandosi contro colui che paradossalmente ne aveva favorito la nascita.

Quello che stava emergendo e protestando, soprattutto a Mosca, fulcro politico e mediatico dell’immenso Paese, era un nuovo ceto medio, abbiente, vociante, che ora vede la Russia ammorbata - dice con sarcasmo l’Economist - da una forma onnipervasiva di «cleptocrazia». Capofila di questa insolita classe urbana è una gioventù allegra, sfottente, ben vestita, armata dei più moderni strumenti tecnologici, la quale prende a contestare il putinismo dal settembre scorso, allorché Putin e Medvedev svelano come bari confessi il trucco delle due carte di scambio. Io (maiuscolo) di nuovo presidente, tu nuovamente (minuscolo) primo ministro.

Da quel momento le marce, le musiche, le tirate via Web, che Putin astutamente mostra di tollerare, diventano manifestazioni di giubilo critico pressoché quotidiano. Al coro si uniscono nei kalzò moscoviti anche ceti meno abbienti, pensionati, impiegati, vecchi comunisti e nazionalisti frustrati e impoveriti: tutti puntano il dito sulla corruzione, sulle riforme mancate, sui poteri ingiusti, sulle televisioni e i giornali intimoriti o asserviti. Che paesaggio stranito e rovesciato dal punto di vista storico e iconografico! Quelli che vediamo non sono rivoluzionari come lo erano i marinai di Kronstadt o i fucilieri lettoni di Pietrogrado 1917. Sono uno strano miscuglio riformista di giovani colti, sofisticati, educati all’occidentale, e di povera gente russa che non sa più perché e per chi votare.

È quasi sicuro che tale contestazione promiscua, concentrata soprattutto a Mosca, continuerà anche dopo la rielezione di Putin alla presidenza. Secondo i calcoli dei suoi analisti e consiglieri l’ondata di scontento, mirata a sostituire la «democratura» della stabilità con un’autentica democrazia di opinioni e partiti liberi, coinvolgerebbe dal 20 al 30 per cento dell’elettorato; il resto, maggioritario, esterno e refrattario agli umori della piazza moscovita, sarebbe tutto a favore del pugno solido dell’ex funzionario del Kgb. Finora Putin ha evitato il ricorso alla forza contro la piazza che lo insultava e derideva. Sottilmente ha adoperato il guanto di velluto. Ha promesso riforme; ha lasciato parlare in televisione pseudocandidati di secondo rango; ha assicurato di voler decentralizzare il potere restituendo ai governatori delle regioni la nomina per voto popolare.

Al tempo stesso, ha annunciato un fortissimo incremento delle spese militari prendendosela con l’America e, in particolare, con l’ambasciatore americano accusato di fomentare l’agitazione di contestatori e globber insolenti. Infine, pochi giorni or sono, ha radunato in un grande stadio più di centomila sostenitori evocando il Kutuzov delle guerre napoleoniche e gridando: «Noi siamo una nazione di vincitori. L’impulso a vincere è nel nostro codice genetico!». Evidentemente pensava a se stesso, senza svelare, ovviamente, che cosa farà dopo l’ennesima vittoria. Ignorare la risoluta richiesta di cambiamento che sale dagli avamposti della nuova borghesia russa, da lui medesimo creata, oppure dar manforte alla repressione e metterli a tacere? Sarà, qui, la scelta dirimente del terzo mandato di Putin. Non sarà facile imporre il silenzio alla Russia più evoluta e più esigente; ma lasciarla parlare, per lui che intanto invecchia, sarà ancora più temibile.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9841


Titolo: ENZO BETTIZA La rivolta siriana, Assad l'assassino tollerato
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2012, 10:11:46 am
18/3/2012

La rivolta siriana, Assad l'assassino tollerato

ENZO BETTIZA

Dopo un anno di sangue, orrori indicibili, scontri impari tra un esercito potente e una popolazione armata soltanto della propria vastità e disponibilità al sacrificio, assistiamo alla fine della disperata insurrezione siriana. Il carnefice Bashar al Assad, epigono minore del defunto presidente Hafiz, ma altrettanto determinato nell' uso della più ignobile spietatezza, sta infliggendo gli ultimi colpi agli oppositori ormai praticamente inermi e abbandonati a se stessi. Homs, centro della rivolta e postazione di punta dei giornalisti occidentali, è caduta sotto l'accanito bombardamento dell'artiglieria governativa che ne ha raso al suolo i due terzi. Più a Nord, Idlib, tenuta fino all'altroieri in vita da qualche magro rifornimento di viveri e munizioni dalla vicina Turchia, è stata costretta alla resa. I ribelli e i loro familiari braccati ovunque, massacrati, sottoposti a una delle feroci «trenta torture» minuziosamente classificate e descritte dai siriani in esilio.

E' il momento di tirare le somme di questa inaudita catena di violenze, prolungata nel tempo, definita col termine improprio di guerra civile che dovrebbe implicare qualcosa che in Siria non c'è stato: cioè uno scontro, più o meno paritario, anche su un piano organizzativo e militare. L'Armata libera siriana, di cui s'è scritto nei giornali, non ha mai assunto una fisionomia né una consistenza operativa sul terreno. I disertori dell' esercito, che avrebbero dovuto costituirne il nerbo, si sono dispersi tra fazioni opposte del movimento. Il governo dissidente in esilio, chiamato «Consiglio», lacerato tra sostenitori e negatori dell'utilità di un intervento internazionale, non è riuscito a esprimere un leader credibile né una politica di resistenza unitaria. L'Arabia Saudita e il Qatar strillano, minacciano, ma riluttano a dare alle parole il seguito dei fatti. La stessa esplosione delle due autobombe di ieri, che ha provocato circa trenta morti e un centinaio di feriti a Damasco, sembra testimoniare, più che un episodio da guerra civile, un atto di congedo vendicativo dopo il deperimento della rivolta popolare: il canto del cigno morente inviato, in pretto stile terroristico sunnita, al vittorioso regime minoritario alauita che le maggioranze veteroislamiche del Paese considerano «eretico» e «ateo». Esse certo non dimenticano, anzi, dopo l'attuale riduzione in macerie di Homs, ricordano con maggiore intensità il massacro già inflitto dal padre di Bashar nel 1982 ai fondamentalisti sunniti asserragliati nella roccaforte di Hama. Si parlò allora (anche se non si saprà mai il numero esatto) di quasi cinquantamila vittime sterminate a colpi di cannone e di baionetta in poco più di tre settimane. Una catastrofe, per i Fratelli Musulmani di Siria, che venne condannata come «l'atto singolo più letale perpetrato da un governo arabo contro il suo stesso popolo».

Altra considerazione, non meno impropria, è stata quella di voler mettere o, meglio, costringere pure i sanguinosi avvenimenti siriani nel novero delle cosiddette «primavere arabe». Il loro prototipo, rivelatosi poi deludente, si era manifestato con innegabile forza emblematica in una piazza del Cairo; l'insurrezione, in parte laica e giovanile, in parte integralista e antiquata, si svolse in un paradossale intreccio tra la massa degli insorti, i soldati ammutinati e gli uomini in divisa del Palazzo; questi ultimi profittarono dell'occasione per liberarsi anzitutto di un logoro Mubarak e, subito dopo, per sedare la massa protestataria e indisciplinata con ingannevoli promesse di democrazia e libertà. In Libia, sotto la pressione delle masse cirenaiche foraggiate dal Qatar e fornite di armi occidentali, ci fu un riciclo o travaso di dirigenti «pentiti» dal governo in ginocchio di Tripoli al Consiglio di liberazione di Bengasi; l'intervento europeo, privato dell'appoggio americano, si riduceva infine alla caccia all'uomo scatenata all'impazzata dai soli bombardieri francesi e britannici.

Nulla di consimile in Siria. Qui la cricca familistica dei governanti alauiti, stretta attorno al presidente Bashar, profondamente radicata nelle gerarchie militari, non ha patito defezioni degne di nota. Il collante mafioso del potere non s'è mai incrinato. Le brigate d'élite, specializzate in operazioni antisommossa, sostenute da forze di polizia e dal più implacabile dei servizi segreti arabi, hanno risposto alla ribellione nelle principali città con una escalation sempre più crudele e di mese in mese sempre più indiscriminata. Le piazze insorgenti, prive di speranza, soprattutto prive di leader e di un comando politico unitario, hanno continuato nonostante tutto a resistere e ad immolarsi disperatamente per dodici mesi.

Le ragioni che hanno condannato alla solitudine la rivolta delle folle siriane, tiranneggiate fin dal 1970 da una piccola setta che incide, sì e no, con un dieci per cento sull'intera popolazione, si possono spiegare con motivi diversi quanto complessi. Da un lato la Siria, Paese senza petrolio, non suscita nelle potenze occidentali, già rivali per la spartizione del sottosuolo libico, appetiti tali da spingerle al rischio di un secondo intervento «umanitario» dall'esito più che mai incerto.

Da un altro lato si profila il rischio strategico. Era molto più facile, per americani ed europei, prestare negli Anni 90 un soccorso armato alle popolazioni balcaniche minacciate dall' espansionismo serbo in Bosnia e nel Kosovo. Ma il Medio Oriente, in particolare oggi, è un allarmante bacino esplosivo e Damasco, nel Medio Oriente, occupa una posizione geopolitica assai delicata. La Siria è nel mezzo di un crocevia colmo di tensioni, di contrasti e interessi d'ogni genere. E' coinvolta da sempre nei torbidi intrighi libanesi, è nemica storica di Israele, è protettrice degli sciiti di Hezbollah ma diffidente dei palestinesi, è ostile alla Turchia e incerta sulle relazioni con il nuovo Iraq dopo la scomparsa dell'odiato Saddam Hussein. Inoltre è legata alla Russia e alla Cina, che seguitano a proteggerla, e resta al tempo stesso attentissima ai consigli politici e all'influsso religioso dell'Iran, laboratorio nucleare in chiave di monopolio sciita. Il codice, che le grandi potenze rispettano e praticano in politica estera, s'ispira in genere al realismo e al calcolo dei possibili passi falsi: interferire nel caos siriano sarebbe stato, per i più, come infilare la mano fra gli esplosivi di una santabarbara mediorientale.

Ecco perché gli americani, e i loro più stretti alleati, hanno deciso che la cosa migliore era non fare nulla sul piano militare affidando alle sanzioni economiche e al gelo diplomatico il ruolo punitivo, ma non distruttivo, nei confronti di Bashar al Assad. Nemmeno è da escludere che, non sapendo come e con chi sostituirlo, abbiano pensato che nell'interesse della stabilità regionale fosse meglio lasciarlo per ora al suo posto. Del resto, anche le minoranze religiose ed etniche della Siria, i cristiani, i drusi, i curdi, si sono mantenuti neutrali nei confronti di Bashar e del partito di governo Baath dominato dagli alauiti. Non hanno dato mano agli insorti, ritenendo che, se avessero vinto, avrebbero instaurato una sorta di teocrazia sunnita.

L'ultimo degli Assad, che con il collo lungo da rettile raggiunge l'altezza di un metro e novanta, ricordando la figura del padre riflessa da uno specchio deformante, è diventato così un assassino tollerato e quasi intoccabile. Può darsi che il disastro economico, inflitto dalle sanzioni, imponga di per sé un mutamento a medio termine di rotta e di persone al vertice del potere. Può darsi. Intanto non si conosce neppure il numero approssimativo delle vittime della repressione. Si dice diecimila; ma, se il massacro di Hama ne produsse assai di più in tre settimane, quale potrà essere mai la cifra, probabilmente altissima, dei lutti provocati dai massacri di un anno intero?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9896


Titolo: ENZO BETTIZA La missione cruciale del Pontefice
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2012, 05:14:34 pm
29/3/2012

La missione cruciale del Pontefice

ENZO BETTIZA

Ciò che, dopo tre lustri, colpisce è il contrasto più che la similitudine nel paragone tra i due incontri papali di Fidel Castro. Nel 1998 il pontefice polacco, promotore della caduta del comunismo, vide un Fidel ancora in piena forma, cordiale, aitante, sicuro di sé e miracolosamente invulnerato dal collasso dei regimi di cui egli e la sua isola apparivano gli estremi caposaldi sopravvissuti nel mare dei Caraibi.

Fu un evento di portentosa solennità mediatica, con al centro due robusti protagonisti del secolo scorso, due insuperabili artisti della comunicazione di massa; il loro abbraccio da sponde opposte, davanti gli occhi del mondo intero, sembrò segnare la fase conclusiva di un’epoca che nella caduta del muro di Berlino aveva avuto la spinta iniziale favorita da Wojtyla.

Ma, per quanto riguarda Cuba in sé, l’evento non andò al di là del grande impatto mediatico. Nulla di significativo accadde all’Avana, non vi si produsse alcun cambiamento degno di nota sul piano politico; anzi, quattro anni dopo, nel 2003, si abbattè sui cubani una sorta d’infausta «primavera nera». Retate di dissidenti, purghe crudeli come ai tempi di Che Guevara, fughe a catena verso la vicina Florida. La salute di ferro del Comandante era sembrata trasmettersi al pugno duro del regime contro coloro che osavano alzare la testa e opporsi.

Ben diverso è invece il clima che ha circondato ieri l’incontro alla Nunziatura apostolica tra un Fidel Castro ottantacinquenne, malato, sostenuto da guardie del corpo, e il papa tedesco della stessa età. Un papa cauto quanto allusivo nella parola, lento e come frenato nel gesto, quasi preoccupato delle conseguenze che ogni suo passo può produrre sul futuro ruolo della Chiesa a Cuba, sul destino dei cubani dentro e fuori dell’isola, sulle scelte politiche di un’America Latina e cattolica dove spesso il cattolicesimo si è venato, per opera degli stessi prelati, di tinte estremiste. Se per l’estroverso Giovanni Paolo II il soggiorno all’Avana fu una specie di sfida allegra, giocata sul richiamo televisivo, ritenuta da lui medesimo di limitato effetto politico, per l’introverso Benedetto XVI il viaggio cubano è stata forse la missione più delicata e difficile che abbia compiuto negli anni del suo papato. Lo si è capito benissimo dalla densa e ponderata omelia, inviata al presidente Raul Castro e ai cubani dall’altare in Piazza della Rivoluzione, prima del brevissimo faccia a faccia con il massimo e ormai crepuscolare leader e suggeritore Fidel. L’uomo di religione e di cultura Ratzinger si è rivolto alla folla dei fedeli in raccoglimento, chiamandoli non a caso «credenti e cittadini», ed esortando le autorità a vedere nella Chiesa indigena una forza non di contrasto, ma uno strumento di mediazione nella fase di apertura che l’isola caraibica sta cominciando ad attraversare.

A dire il vero, aperture e novità vanno molto a rilento. Gli arresti eseguiti dalla polizia durante la visita apostolica, aggravati dalla riluttanza del pontefice all’incontro con le Damas de Blanco che da sette anni manifestano per il rilascio dei mariti dal carcere, non ha giovato all’immagine né del pontefice né del suo ospite Raul Castro: per il quale il governo «farà riforme ma non politiche». C’è il rischio che i dissidenti, come l’audace Yoani Sanchez, finiscano per assumere un atteggiamento sempre più critico nei confronti di una Chiesa troppo prudente, troppo paga del patto di non aggressione con il regime, dimentica delle speranze suscitate a suo tempo da Giovanni Paolo II. Al tempo stesso la Sanchez riconosce che la venuta dell’attuale pontefice coincide con il decollo di «un’economia più flessibile» e con l’aspettativa popolare di concessioni democratiche e più rispetto per i diritti umani.

Secondo l’ Economist , Cuba, una volta all’avanguardia dei fermenti rivoluzionari dell’America Latina, oggi è messa nell’angolo e sopravvive soprattutto grazie al precario sussidio petrolifero assicuratole dal Venezuela di Chavez afflitto da un morbo grave. Dati i fallimenti dell’utopia rivoluzionaria in ritirata, al presidente Raul Castro, più pragmatico del fratello visionario, non resterebbe che imboccare la via cinese del «socialismo di mercato», metafora con cui le nomenclature comuniste intendono aprirsi al capitalismo conservando però la dittatura del partito unico. Le privatizzazioni già introdotte nel settore agricolo, le libertà di traffico già concesse a piccoli e medi commercianti, sarebbero ormai irreversibili. Ma il grande sblocco, la vera apertura alle dinamiche capitaliste e a quelle liberali della democrazia, potrà compiersi solo con la fine di due freni storici che, nel contrasto, si sostengono a vicenda da mezzo secolo: l’estinzione politica della famiglia Castro e il ritiro, magari graduale, dell’ormai insensato embargo, politico più che economico, mantenuto tuttora dagli Stati Uniti nei confronti di Cuba.

Non si sa quanto potrà durare il presidente Raul che nonostante gli anni, molti anche per lui, sembra comunque reggere con pacata energia all’erosione del tempo che ha reso invece spettrale e pressoché infermo Fidel. (Più che interrogare il papa su cose spirituali, come diversi osservatori s’aspettavano, l’ex leader gli ha posto una domanda fisica: «Ma lei, santità, come fa a mantenersi così bene?») Non si sa nemmeno cosa sarà in grado di fare il presidente americano, o il suo eventuale successore dopo le elezioni, poiché l’uno o l’altro non potranno ignorare le reazioni alla levata dell’embargo delle potenti lobby cubane in Florida e a Washington. La sola certezza che abbiamo è che il pontefice, ragionando per secoli lunghi come la Chiesa, ha potuto constatare in presa diretta che il comunismo a Cuba si è consumato nella stessa persona di Fidel in mezzo secolo: tutto ciò che avverrà da ora in poi sarà diverso e forse imprevedibile.

da - http://www.lastampa.it/


Titolo: ENZO BETTIZA Un tifone elettorale sull'Europa
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2012, 11:30:50 am
29/4/2012

Un tifone elettorale sull'Europa

ENZO BETTIZA

Ci sarà poco da scherzare il 6 maggio. La data batte ormai alle porte della travagliata Unione Europea, non più con i toni trionfali della Nona di Beethoven, ma con quelli fatidici e minacciosamente interrogativi della Quinta. Dopo l’inno alla Gioia, che risuonava nel 1979 all’inaugurazione a Strasburgo della prima assemblea europea eletta a suffragio universale, ci verranno piuttosto in mente, domenica prossima, le note incalzanti di una Quinta molto severa e ostinata, molto germanica, dalla quale sembrano erompere e crescere senza posa l’austerità e l’enigma di un destino sempre più oscuro.

Domenica si abbatterà da ogni parte d’Europa, anche non comunitaria, un vero e proprio tornado elettorale. In un’atmosfera di crisi rivelata e di irritazione quasi psicotica i francesi torneranno alle urne per il secondo turno. I greci vi andranno sfiduciati e stizzosi per eleggere un nuovo Parlamento. I serbi, che aspiravano all’Europa e oggi ne osservano con perplessità i guasti, dovranno in una sola volta nominare un presidente, scegliere un nuovo Parlamento e nuove assemblee provinciali e regionali. I tedeschi affronteranno le regionali nello Schleswig-Holstein e più in là quelle nel Nord-Reno-Vestfalia. Perfino i votanti italiani andranno a tastarsi il polso con provinciali a scartamento ridotto. Seguiranno a settembre le inattese quanto difficili votazioni in un’Olanda denudata, di sorpresa, sotto l’apparente virtuosità calvinista, nelle sue tre vulnerabilità. La falsità economica, l’instabilità politica, l’ambiguità ideologica.

Non è possibile sottrarsi alle ombre di una situazione eccezionale e piena, per tanti aspetti, di insidie rischiose. Il clima, le emozioni, i risentimenti, le delusioni, i calcoli, dopo la giornata di un voto così diffuso, saranno destinati a marcare in profondità la sorte di un continente che, unito a parole, non è poi riuscito ad unirsi per affrontare nella realtà la globalizzazione e i baratri della recessione occidentale. In quale specie di «casa comune» ci ritroviamo ad abitare oggi? Anche se costa una certa fatica ammetterlo, ci ritroviamo ammucchiati o stretti in una sorta di conglomerato di 27 Stati (talora 26, o 25, se consideriamo l’assenza valutaria e spesso politica dell’Inghilterra con qualche corifeo).

Fino all’altroieri i 25 avevano almeno una bussola puntata ad un approdo ormai divenuto miraggio lontano e forse evanescente: dalla moneta unica europea ad una politica di unità europea, competitiva all’Ovest con l’America e all’Est con giganti consolidati come il Giappone o emergenti come la Cina e l’India. Quel che vediamo invece è un insieme di Stati in procinto di slegarsi dalla matrice europea degli Anni 50, Ceca, Euratom, Mec, Cee, trattato di Roma eccetera. La cupola di questo paziente work in progress federatore, non privo di prestigio internazionale e di successi straordinari (basti pensare agli anni d’oro dell’Irlanda), doveva diventare infine un’eurozona inserita al centro della Comunità trasformata e proclamata Unione Europea nel 1993.

Certo, gli Stati che compongono l’entità sovranazionale si dichiarano ancora sempre, con buone ragioni storiche, membri di un’Unione che però, alla vigilia del tifone elettorale in arrivo, vediamo uscire sfinita, divisa e delusa dalla belle époque semifederalista svoltasi all’egida del suffragio diretto, dei trattati di Maastricht e dell’allargamento ai Paesi ex comunisti. L’impressione odierna è che grandi Stati come la Francia, o minori come la Grecia, continuino per materiali necessità di sostegno o di sussidio a definirsi membri dell’Unione, mentre le opposizioni estremiste di destra e di sinistra, in continuo vantaggio, rifiutano tutto ciò che odora di sovranazionalità: l’euro considerato contagioso untore pestifero, la Commissione di Bruxelles rinnegata come usurpatrice, le frontiere aperte criticate come inviti all’immigrazione selvaggia.

Un nascente neonazionalismo posteuropeista, che ha già inquinato le urne francesi del primo turno con l’abnorme riconferma del voto lepenista, si sta diffondendo e rafforzando ben al di là della Senna. Gli euronegazionisti non francesi, anarchici, fascistoidi, postcomunisti, danno quasi tutti l’impressione di volersi lasciare influenzare dalla deriva dell’imminente ballottaggio francese, tra un Sarkozy che rincorre ansimante i cani sciolti dell’ultradestra nazionalista e un Hollande sicuro di recuperare per intero il 10 per cento della gauche di Mélenchon e una buona fetta del voto di protesta operaio confluito sul Front National.

L’antieuropeismo, che per ragioni di cassetta ormai accomuna negli ultimi discorsi Sarkozy e Hollande, ha già provocato la caduta della coalizione governativa di centrodestra in Olanda; già mette in pericolo la rielezione del presidente serbo Tadic, che ha esaltato nel suo programma l’ingresso in Europa; si fa sentire con forza crescente in Belgio e in Danimarca e non risparmia neppure il nordismo leghista in Italia. Il grande rischio, incrementato dalle sferzate d’austerità del cancelliere Merkel perfino nell’Olanda filotedesca, umiliata da un deficit pubblico pari al 4,7 del prodotto interno (più alto di quello italiano del 3,9), è che il voto di maggio sfoci in una sorta di referendum più o meno velato sul rimanere o non rimanere nella zona euro o, in senso più lato, nell’Unione europea in quanto tale.

Non piace più a nessuno, neanche ai governanti francesi in carica che l’avevano approvato, il temibile «Compact» fiscale che la Germania, la sola ricca fra troppi poveri, ha imposto un po’ a tutti: dalla Spagna in bolletta, con un esercito esplosivo di disoccupati, alla Grecia in rovina dove la maggioranza degli elettori potrebbe decidere di uscire dall’euro e tornare alla dracma. Anche un’altra sorpresa potrebbe verificarsi ad Atene. All’interno dei due partiti maggiori - la conservatrice Nuova democrazia e il Pasok socialista, destinati a rimettersi insieme al governo - potrebbero rafforzarsi con l’aiuto di formazioni estremiste le correnti antieuropee che vedono il salvatore in Vladimir Putin: il Gazprom al posto dell’ente petrolifero nazionale, un terzo e più del debito sovrano coperto dall’oro di Mosca, il tutto provvidenzialmente benedetto dall’antico abbraccio ortodosso fra prelati greci e russi.

Intanto, se Atene piange, Sparta non ride. Per la prussiana Merkel il 6 maggio sarà l’inizio di una settimana di fuoco che si concluderà il 13 con il voto nel Nord-Reno-Vestfalia: un Land da 18 milioni di abitanti, determinante sul piano elettorale, dove il possibile crollo degli alleati liberali della cancelliera cristianodemocratica potrebbe mandare all’aria il governo di coalizione a Berlino. Una deviazione di rotta non da poco, per la punitiva politica di rigore inflitta dalla Germania merkeliana soprattutto agli europei del Sud: per i quali la solidarietà dovrebbe contare più dell’austerità da Kriegswirtschaft, o economia di guerra, che da tempo sembra prevalere per volontà tedesca fra i banchieri di Francoforte e gli eurocrati di Bruxelles.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10043


Titolo: ENZO BETTIZA Un'uscita di sicurezza per l'Europa
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2012, 11:46:37 pm
10/5/2012 - COME SALVARE L'UE

Un'uscita di sicurezza per l'Europa

ENZO BETTIZA

Non saprei cosa potrebbe scrivere oggi dell’Europa, se fosse ancora vivo, Oswald Spengler, il discusso filosofo tedesco della storia che fin dal 1917 prevedeva come inevitabile «il tramonto dell’Occidente».

Nella sua visione biologica e quasi zoologica delle grandi civiltà, vedeva già allora l’Europa, matrice nativa dell’Occidente, dilaniata dalla prima guerra, avviarsi fatalmente all’ultimo tratto della sua discesa crepuscolare verso la fine.

In quest’ultimo tratto, durato fra altre guerre e rivoluzioni circa un secolo, Spengler, col suo sguardo impietoso, avrebbe forse intravisto la sagoma di un pachiderma che caracolla solo e vetusto verso un cimitero ignoto.

Il futuro dopo la superdomenica elettorale del 6 maggio ci appare, in effetti, allarmante o fosco persino nel liturgico «embrassons-nous» messo in scena dai contendenti sulla ribalta parigina. Le ipocrisie trionfalistiche celebrate dopo il duello sotto l’Arco di Trionfo dal modesto Hollande e dallo smarrito Sarkozy, epigoni di un passato segnato dalla cerea maschera di Mitterrand e dal gesto di De Gaulle, non possono ingannare nessuno. Non è stato un confronto all’altezza della grandeur francese, grandeur che né l’uno né l’altro ha saputo reinterpretare al secondo turno; non c’è stato né un candidato davvero vittorioso, né uno davvero sconfitto; c’è stato soltanto un timido socialista vincente affiancato a uno pseudoconservatore perdente. Pirro ha dato l’impressione di attraversare con la sua ombra in lungo e in largo, da sinistra a destra, i gloriosi Campi Elisi.

Nella Francia metà divisa e metà riunita dal confronto tra due candidati indulgenti, che hanno rincorso l’ultimo voto quasi con le stesse parole, non abbiamo più ritrovato la Francia europea di Schuman ed europeista di Delors. Sull’antieuropeismo finale, sia di Sarkozy sia di Hollande, hanno pesato allo scocco del ballottaggio i voti in libera uscita dei nazionalisti di destra e degli estremisti di sinistra: lepenisti o trockisti, fervidamente congiunti in un comune risentimento contro le regole di Bruxelles e la frusta di Berlino. Il candidato conservatore ha caricato a fondo contro gli immigrati, quello socialista ha attaccato con più tatto, di lato, l’euro punitivo e i ricatti di bilancio sostenuti dalla cancelliera Merkel. Meno Francia carolingia da una parte, più Francia giacobina dall’altra. In altre parole: poca o scarsa Europa da ambedue.

Ma è nel sempre più grave dissesto greco che la maggioranza degli europei, tranne la ricca e severa Germania merkeliana, sembra vedere prefigurarsi la triste fine che potrebbe abbattersi poco a poco, o da un giorno all’altro, sull’insieme dell’Unione. Ad Atene sembra infatti riflettersi, come in un microcosmo a specchi deformanti, una specie di violenta svolta antieuropea che lì, fra i greci impoveriti e infuriati, si manifesta en plein air , mentre in Italia, in Spagna, in Portogallo il disagio per ora striscia e serpeggia in mezzo a tracolli periferici e vuoti dibattiti televisivi. I governi corrono ai ripari, puntano il dito sulla democrazia invalida e lo scandaloso deficit di Atene, annunciando una sequela di vertici «sanitari» a Bruxelles; ma in Grecia è già crepuscolo e metastasi avanzata. Cinque anni di recessione, disoccupazione alle stelle, code di risparmiatori disperati davanti alle banche, con il defenestrato socialista Papandreou che accusa: «L’Europa ci ha usato come cavia da laboratorio». I due partiti tradizionali, Nuova Democrazia e Pasók, che da quarant’anni condividevano il potere, sono di fatto crollati il 6 maggio. I loro due ultimi esponenti, il conservatore Samaras e il socialista Venizelos, non contano più nulla e non riescono a rimettere in piedi né un esecutivo di coalizione né un blocco d’emergenza anticrisi, di unità nazionale, capaci di salvare dalla bancarotta il Paese indebitato. Arranca sulla scena delle consultazioni il giovane Alexis Tsipras, scaltro, ambizioso, neppure quarantenne, che ha piazzato la coalizione di sinistra, Syriza, al secondo posto dell’arco un tempo occupato dai navigati socialisti del Pasók. Tsipras ha ancora 24 ore da consumare, credo vanamente, per indurre altri partiti antieuropei a seguirlo in un gabinetto che non ci sarà. Con ogni probabilità i greci, che a Salonicco già usano monete alternative al posto dell’euro, dovranno tornare a nuove elezioni nel mese di giugno. Intanto, il leader di Syriza ha già fatto sapere che un suo governo cancellerà i memorandum firmati, per risanare il bilancio, dai governi precedenti con la troika Ue, Bce, Fondo monetario, da lui definita «usuraia e famigerata».

Non oso addentrarmi nelle lunghe, reiterate, spesso incomprensibili locuzioni algebriche e speranze utopiche attribuite al rigore contro la crescita, alla disciplina di bilancio contro lo sviluppo degli investimenti, all’oscillazione degli spread e al continuo rilancio dei vari bond, che quasi nessuno sa spiegare con adamantina chiarezza al pubblico. Ma una cosa andrebbe sottolineata. E cioè che i conti, i libri mastri di Bruxelles, il dare e l’avere fra i membri della Comunità, non sono riusciti a impedire che l’euro, dopo dieci anni di vita, degenerasse in una moneta d’impaccio e d’immiserimento per tanti europei: solo per i tedeschi, che duramente lo gestiscono a detrimento degli altri soci, la moneta unica è diventata una specie di supplente intoccabile del marco d’una volta.

Se vogliamo che il 6 maggio non venga ricordato, dalla Francia alla Grecia, come la data di un rovinoso plebiscito contro le istituzioni europee, dobbiamo o dovremmo fare in modo che l’Ue si trasformi alfine in un’autentica Unione sovrannazionale. L’economia da sola, mitizzata nel bene e nel male, senza un’uscita di sicurezza politica, ovvero federalistica, non può portarci che ad una speciale forma di eutanasia: l’eutanasia passiva e oscura degli elefanti spengleriani, avviati, con tutta la loro mole ormai cadente, ad una morte solitaria e quasi vergognosa.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10084


Titolo: ENZO BETTIZA Finalmente i medici si occupano del malato grave
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2012, 10:59:34 pm
20/5/2012

Finalmente i medici si occupano del malato grave

ENZO BETTIZA

Se i mali non vengono solo per nuocere, si potrebbe ben dire che il disastro greco, giunto al suo atto finale, si manifesta proprio per questo come il momento della verità che finora tutti in Europa e in parte in America cercavano di evitare.

Offuscava il quadro della crisi, che era e resta soprattutto una crisi epocale dell’Occidente, una caterva di questioni economiche e finanziarie indubbiamente reali e credibili; ma spesso anche astruse, esagerate, teleguidate dalla mano invisibile dei mercati, dai giochi speculativi delle agenzie di rating, dalla disinformazione calcolatamente mirata alla diffusione del caos e del panico nelle Borse, nelle banche, nelle aziende, perfino nei governi e nelle masse e di nazioni periferiche più colpite dal grande dissesto.

L’unico fatto che in maniera incombente è apparso sospeso, come una spada di Damocle, sopra le teste dei partecipanti al G8 di Camp David, è stato il default ormai senza scampo della Grecia con tutto ciò che potrà conseguirne in tempi strettissimi: subito dopo, o anche prima, della prossime e reiterate elezioni del 17 giugno. La fuga di Atene dal tempio sconsacrato dell’Euro, il ritorno degli ateniesi alla mitica dracma d’argento che per primo protettore ebbe Apollo, insomma l’uscita non priva di paradosso storico e d’incubo dei greci da un’Unione che deriva l’appellativo di «europea» da una bellissima figlia del fenicio Agenore rapita dall’onnipotente Zeus.

Non sottovaluterei il senso simbolico, o se vogliamo il contraccolpo psicologico che non possiamo non avvertire all’idea di un’Europa già da anni travagliata, sempre più divisa, che ora sta per separarsi, in maniera caotica e forse definitiva, da una delle matrici più antiche e germinali della propria storia e cultura. Senza la lingua greca con tutti i suoi etimi sparpagliati fra le radici dei nostri idiomi indoeuropei, senza la Grecia classica, ellenica o ellenistica, o anche quella bizantina che durò dieci secoli cristianizzando slavi e asiatici, noi non saremmo ciò che siamo stati e che siamo ancora oggi.

Negli Anni 70, quando la Comunità europea d’allora inglobò nelle sue istituzioni la Grecia, fummo in molti a pensare, a sentire che il nuovo socio, accolto nell’impresa volta all’unità del continente, rappresentava per noi qualcosa di ben più significativo dell’acquisto di una semplice nazione balcanica. Avevamo la sensazione non solo di portare a termine un ineluttabile trattato politico ed economico; avevamo bensì la certezza di concludere, nel medesimo istante, con una tessera d’insostituibile rilievo ancestrale, il disegno di un mosaico culturale di cui noi stessi con la nostra attitudine all’arte, alla scienza, alla letteratura, alla filosofia, facevamo e facciamo geneticamente parte.

Tutto questo non va ovviamente confuso con una distorta visione parastorica basata su ricordi scolastici approssimativi, su facili stereotipi cinematografici e luoghi comuni da bassa letteratura. Non erano tutte rose quelle che fiorivano nella polis di Atene che «democraticamente» condannava Socrate alla cicuta, che avaramente conferiva il rango di legittimi «cittadini» a una minoranza oligarchica, periclea, riservando alle donne e agli schiavi un’esistenza umiliante di seconda mano. Non vanno poi dimenticate le guerre spesso inutili e suicide tra le varie polis, che faciliteranno la discesa imperialistica delle legioni macedoni, né gli intrighi levantini e le crudeltà spesso mostruose che molto più tardi perpetreranno i teocrati bizantini.

Ricorderemo certo con ammirazione lo scatto risorgimentale, che avverrà ancora più tardi, nel primo Ottocento, e avrà per protagonisti i combattivi patrioti greci cantati da Byron: greci autentici, non più «greculi», come si compiacevano di considerarli con sprezzo i diplomatici occidentali e i pascià ottomani.
Ma torniamo al presente. O, meglio, al passato prossimo e triste, segnato dagli Anni 90 in poi dall’avvento dell’euro, in cui tanti cittadini grandi e piccoli, ministri e uscieri, socialisti e conservatori dinastici, sono tornati a comportarsi da «greculi». Hanno cominciato a guardare alle casse di Bruxelles, troppo indulgenti o distratte, come a forzieri in libertà cui era possibile attingere presentando conti sfalsati; hanno preso a vivere al disopra delle loro possibilità e a giustificare la loro condotta con argomenti spesso indecenti.

Il caso della Olimpiadi ateniesi del 2004 ha fatto scuola come la più scandalosa esibizione di scialo collettivo: «Una perfetta lezione» - è stato scritto - «su come si possa tracciare e percorrere a gambe levate una via nazionale alla miseria». Il titolo di un recente bestseller di Stavros Lygeros, editorialista di punta del quotidiano Kathimerini, la dice tutta in quattro parole: «Dalla cleptocrazia alla bancarotta». Ma sarebbe eccessivo e subdolo sostenere, come si sostiene oggi a Berlino, che i greci indistintamente sono tutti cleptocrati o cleptomani.

La cura di rigore imposta dalla cancelliere Merkel ai debitori ha un aspetto, più che terapeutico, gelidamente punitivo: una sorta di ordalia gotica che impone ai falliti di Atene il suicidio e ai mezzi falliti della Spagna la lenta narcosi prima della morte. Incalza il censore Lygeros: «Ci si chiede di ridurre il settore pubblico, licenziare 150 mila statali, mentre il problema è di riorganizzarlo. Abbiamo una preoccupante ondata di criminalità e un’invasione di clandestini, eppure ci chiedono di diminuire i poliziotti. Quello che invece chiediamo noi all’Europa non è solo questione di danaro; le chiediamo di darci una mano anche per liberarci dal giogo dei truffatori e delle clientele. Purtroppo la troika (Bruxelles, Francoforte, Fondo monetario) si è impuntata a imporre l’abolizione delle professioni chiuse che in Grecia non esistono. Un delirio. Ora siamo nella fase del saccheggio pubblico». Nonostante tutto Lygeros, europeista convinto, sostiene che l’Europa non sarà in grado di reggere l’impatto dell’espulsione di Atene dall’Eurozona.

La stessa cosa l’ha sostenuta con fermezza l’ospite di Camp David, il presidente Obama, il quale domanda agli europei, anche tedeschi, meno austerità e più investimenti per la crescita. L’ultimo atto del dramma greco ha visto da una parte uniti l’americano Obama, l’italiano Monti, il francese Holland. Più che mai isolata e imbarazzata una Merkel, oltretutto segnata dai recenti lividi elettorali, con i socialdemocratici e gli stessi alleati liberali che ne contestano la durezza antiellenica. La brezza di svolta, di novità fra le sponde dell’Atlantico, è nell’aria. Forse ci voleva una malato grave nello sfondo. Non si sa quello che potranno fare i medici che si sono mossi: si sono comunque mobilitati e non è da escludere che, con un farmaco dolce, riescano a rimetterlo in piedi. Vedremo più chiaro dopo il 17 giugno.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10125


Titolo: ENZO BETTIZA Anche Dublino si piega a Frau Angela
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2012, 09:36:52 am
3/6/2012

Anche Dublino si piega a Frau Angela

ENZO BETTIZA

Strano, stranissimo, questo gelido sì referendario di Dublino. Sino all’ultimo era stato difficile prevedere se gli elettori irlandesi, noti per i loro plebisciti contrari a regole e raccomandazioni della Commissione europea, avrebbero accettato o ripudiato il patto di austerità che i virtuosi notai di Berlino preferiscono connotare col termine «trattato di stabilità fiscale».

L’amara medicina, già imposta alla Grecia e sospesa ora anche sulla Spagna, è stata ingoiata a denti stretti dall’Irlanda per poter accedere ai fondi destinati da Bruxelles al salvataggio delle sue banche disastrate. Stavolta la «tigre celtica», che negli anni passati aveva goduto di un privilegiato status economico in seno all’Ue, non ha tirato fuori gli artigli: si è piegata al giogo di una crisi generalizzata.

Proprio venerdì, giorno del referendum, la crisi ha toccato il culmine con il crollo delle Borse europee, lo sconquasso di Wall Street, le statistiche sulla disoccupazione, l’ira del Presidente americano che rischierebbe di perdere la rielezione a causa del contagio che un’Europa malata e inane diffonde nel mondo.

Su questo sfondo generale, alterato dal panico, che ormai coinvolge l’intero Occidente, americani compresi, l’esito del sì di Dublino alla camicia di forza dell’austerità è apparso simile a una sconfitta piuttosto che alla «vittoria» solennemente declamata dal governo di Dublino.

La vera vincitrice è apparsa Angela Merkel, criticata da molti, ma non dal primo ministro dublinese Enda Kenny il quale, a urne appena chiuse, si è precipitato a comunicare per telefono alla cancelliera il consenso ottenuto dalla prova referendaria. Si potrebbe dire, esagerando ma non troppo, che una sostanziosa quota di sovranità irlandese è finita così in mani tedesche. Non si esagera invece sostenendo che il risultato del voto, nonostante la comparsa di un 60 per cento maggioritario, non è stato affatto nitido e men che meno entusiastico; l'Irlanda ne è uscita spaccata a metà; più che entusiasmo c'è stata rassegnazione per le strade. I quartieri operai e impoveriti dalla crisi hanno votato per il più solido partito d’opposizione, contrario alla politica del rigore, cioè lo storico Sinn Fein, un tempo braccio politico dell’Ira e guidato tuttora dal suo capo storico Gerry Adams.

«Il governo ossequiente a Bruxelles - ha commentato Adams - si è speso in termini impegnativi sul salvataggio delle banche, sulla crescita e la promessa di alleggerire la pressione delle politiche di austerità. Noi continueremo a batterci perché queste promesse siano puntualmente rispettate, non dimenticando che parte dei voti a favore sono stati dati con animo fiacco e molto riluttante». Il ceto medio avrebbe votato, non certo per la contabilità punitiva alla tedesca, ma essenzialmente per i fondi europei centellinati ai Paesi in dissesto.

In questo senso il referendum dell’Irlanda, Paese uso a sottoporre al voto popolare ogni importante decisione di Bruxelles, offre, più che mai oggi, una spia visibile o quanto meno uno spaccato trasversale su umori e travagli di altri Stati europei. Taluni in difficoltà catastrofica, come la Grecia, praticamente priva di un governo legittimo; altri assillati da minacciosi chiaroscuri come la Spagna del laconico Rajoy che non sa più che fare; altri ancora come la Francia del trapezista Hollande, che s’aggrappa con una mano incerta alla Germania e insieme tende una sinistra cooperativa all’Italia in faticosa risalita.

Fra un paio di settimane il voto di Atene ci dirà se l’esecutivo di sinistra, dominato dall’enigmatico partito Syriza, deciderà di soccombere con la vecchia dracma o sopravvivere con l’euro detestato. Fra pochi giorni, il 10 giugno, sapremo invece che tipo di esecutivo si darà la Francia dopo il voto per la nuova Assemblea nazionale. Non è da escludere che il partito socialista possa perdere la maggioranza, il che costringerebbe Hollande a scegliere tra due opzioni difficili per non dire egualmente insostenibili: o l’incubo di una coabitazione con l’Ump gollista, che finirebbe per paralizzare prima o poi il governo, oppure l’azzardo di una coalizione ambigua con il Front de Gauche, che porterebbe il governo a scontrarsi fatalmente con molte proposte di Bruxelles. Insomma, una Francia quasi impotente in un caso come nell’altro, e ciò proprio nel momento in cui Hollande starà cercando di riequilibrarne il peso e il prestigio rispetto al preponderante dinamismo della Germania.

Quale futuro, in definitiva, può aspettarsi una simile Europa disunita, dilaniata dagli strappi della moneta unica, incapace di considerare le potenzialità unitarie che nessuno, tranne alcuni personaggi di punta del mondo economico, sembra più in grado di scorgere? Rassegnarsi al peggio? Prendere sul serio il monito di un qualificato esponente della Commissione di Bruxelles, Olli Rehn, che agita lo spettro di una possibile «disintegrazione» dell’eurozona? Penso sarebbe meglio e saggio dare più ascolto alle parole di due banchieri colti quali Ignazio Visco e Mario Draghi. Nei loro ultimi interventi pubblici hanno voluto far capire che, nel suo insieme, la zona euro è ancora la più ricca del mondo con 300 milioni di abitanti e 20 milioni di imprese. Un’area che potrà riscattarsi dalla crisi solo se riuscirà a compattarsi in uno Stato vero. Uno Stato federale. Uno Stato alfine in grado di mutualizzare i debiti, superare i deficit, scarnificare la contabilità da Pil, capace di creare politiche fiscali comuni e non da codice penale. Lo ha detto bene Visco: «Dobbiamo definire un percorso che abbia nell’unione politica il suo traguardo finale».

È importante che a ribadirlo sia un uomo di banca, non un cantore dell’europeismo di maniera. Il percorso, se lo si farà, andrà fatto aggirando gli ostacoli che al suo svolgimento porrà la temporanea presenza a Berlino di una luterana complessata, proveniente dalla Germania dell’Est, euroscettica più o meno involontaria la quale, secondo l’ex ministro Fischer e l’ex cancelliere Schroeder, vorrebbe distruggere per la terza volta il vecchio continente: non più con le armi, ma con i callidi libri mastri e pentecostali della Bundesbank.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10180


Titolo: ENZO BETTIZA Il passaggio obbligato dell'Unione
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2012, 11:18:32 pm
19/6/2012

Il passaggio obbligato dell'Unione

ENZO BETTIZA

Certo, non sarà tutto oro quello che colerà dalle urne appena chiuse di Atene. Mentre si svolge il G20 nel Messico, dove il risultato non negativo delle elezioni elleniche verrà esaminato in tutte le sue possibili conseguenze e incognite, sarebbe tuttavia opportuno mettere da parte, una volta tanto, il consueto pessimismo di maniera che da alcuni anni accompagna le tensioni e le diatribe tra Paesi fortunati e sfortunati della zona euro. Spenta, almeno per il momento, la miccia della polveriera in Grecia, con la relativa sconfitta della sinistra antieuropea di Syriza e l’impegno di Antonis Samaras, leader conservatore di Nuova democrazia, di costituire in tre giorni un governo di coalizione, quale sarà l’Europa che si presenta a Los Cabos al giudizio dei grandi e diffidenti protagonisti della globalizzazione - Stati Uniti, Russia, Cina, India, Brasile? Una sorvegliata speciale? Una logora entità sovrannazionale prossima allo sfacelo? Una contagiosa malata, sottoposta ad una nefasta cura da cavallo da un gruppo di medici in parte germanici e in parte germanizzati?

Quanto meno così si diceva e soprattutto si pensava, da Washington a Pechino, fino a pochi giorni fa.

Tanti ritenevano, con un misto di panico e di «Schadenfreude», parola tedesca che significa compiacimento per i mali altrui, che la ghigliottina finanziaria stesse per vibrare sul collo degli europei «un colpo alla Lehman Brothers» mentre il Wall Street Journal evocava «derive e venti che soffiano dalla vecchia Europa». Quasi tutti s’aspettavano l’inizio della fine della declinante Unione Europea nel gran rifiuto elettorale di circa dieci milioni di greci. Li si considerava chiamati a esprimere dopo il 6 maggio, in una sorta di referendum ordalico, la loro desolata avversità alla moneta unica, all’austerità di Berlino, agli impegni di rigore e di bilancio contrattati in cambio di aiuti con l’Ue, con la Banca europea, col Fondo monetario internazionale.

È avvenuto invece il contrario. La maggioranza degli elettori greci, pur lasciando spazio all’altissimo quoziente della confusa coalizione di sinistra del giovane Alexis Tsipras, ha rafforzato e privilegiato il tradizionale partito dell’euro, Nuova democrazia, fautore da sempre del negoziato e non dello scontro con le regole della Commissione di Bruxelles. Non solo. In felice coincidenza con l’esito delle urne elleniche s’è verificato il ballottaggio delle urne francesi che, confermando la maggioranza assoluta al partito socialista, mette ora nelle mani del presidente Hollande un potere nitido, lineare, non ricattabile né da commistioni nazionali né da pressioni internazionali. La naturale e direi fisiologica alleata della Francia hollandaina, al G20 di Los Cabos, non potrà essere che l’Italia di Monti: un’Italia per ora immune da contagi ravvicinati, stimata dal presidente Obama, priva di vincoli creditizi con Bruxelles, intenta a rispettare le scadenze pattuite per il risanamento del debito. Non va dimenticato inoltre che le istituzioni europee hanno concesso, proprio alla vigilia del G20, un prestito di 100 miliardi alle banche spagnole in crisi, ma non al governo di Madrid che in quanto tale è sempre sotto osservazione, anche nell’ottica dei mercati. I venti cattivi, che spiravano dalla vecchia Europa, sembrano potersi placare. Si avverte nell’aria una svolta, al tempo stesso europea e globale, che non potrà lasciare indifferente la maggiore accusata o quantomeno indiziata al tavolo messicano: la ridente e serpeggiante signora del rigore tedesco. Le cui ali di falca non stanno però calando quanto americani ed europei avrebbero desiderato. Non a caso il suo ministro degli Esteri, Westerwelle, è stato in qualche modo sottilmente da lei corretto nell’aver concesso in queste ore delicate, di transizione e di novità, messaggi di rassicurazione ai greci.

Vedremo se il momento della verità politica, dopo quella emotiva elettorale e quella rudemente economica, riuscirà a scattare o prendere almeno una prima forma gestibile, in senso operativo, durante il vertice dei capi di stato e di governo di fine mese. La tregua intrisa d’imprevedibilità, anche se ottimistiche, resta pur sempre fragile come tutte le tregue. Oramai l’agenda europea, aggirato il baratro greco, non potrà esimersi dal puntare realisticamente su obiettivi e scadenze anticrisi: non potrà ignorare la richiesta, che si leva da più voci martellanti e competenti, favorevoli alla messa in opera di garanzie europee sui depositi bancari, il che presuppone una spinta al processo di unificazione fiscale. Si tratta di un processo che in definitiva, mediante gestioni condivise dei debiti sovrani dei singoli Paesi, implicano di fatto l’avvio di un meccanismo federativo con relative cessioni di sovranità nazionale. Sarà qui il punto in cui la tregua, se Merkel e Hollande saranno in grado di consolidarla nel loro stesso interesse, potrà darsi la stabilità di una pace sovrannazionale e sfociare, alfine, in un rinnovato «contratto sociale» europeo: in parole semplici in una vera Federazione con una sua adeguata Costituzione.

Ha ben detto in proposito, sul Sole 24 Ore, Guido Rossi: «Se l’alternativa di uno Stato federale sul modello americano può ancora essere lontana, per le diverse tradizioni istituzionali dei singoli Paesi dell’Unione, non v’è dubbio tuttavia che rimane pur aperta l’opportunità di una Costituzione europea di diritto internazionale». Credo anch’io che dopo tante risse futili, tenebrose, spesso determinate da calcoli di bottega circoscritta e meschina, riusciremo o magari riusciremmo a garantire, con la rinuncia a mummificati pregiudizi di sovranità, il futuro che dovrebbe starci più a cuore: «La sopravvivenza del popolo europeo e della sua grande civiltà che non può essere distrutta da fallaci apparenze di egoismi nazionali».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10243


Titolo: ENZO BETTIZA I moderati e la casa introvabile
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2012, 05:14:49 pm
15/7/2012

I moderati e la casa introvabile

ENZO BETTIZA

Siamo in molti come in attesa dello scoppio di una bomba a orologeria. La politica, ammesso che in Italia ne esista ancora una degna di questo nome, dà ogni giorno di più l’impressione non di avanzare, bensì di retrocedere a sussulti verso i terreni incogniti e minati del 2013.

A prescindere dall’economia asfittica, mai il panorama della seconda repubblica, che con Monti già stinge nella terza, era apparso altrettanto confuso, ibrido, stremato e squilibrato. Squilibrato, in primo luogo, per la dissoluzione o meglio l’inesistenza di partiti credibili, seriamente contrapposti, simili per qualità e solidità a quelli che operano e competono per il potere nelle maggiori democrazie. In Italia la retrocessione e il degrado hanno prevalso sull’evoluzione. Le scomparse pressoché simultanee del dilagante partito comunista e dell’onnivora democrazia cristiana sono state seguite dalla nascita, non di autentici partiti moderni, d’impianto occidentale, il che sarebbe stato, oltreché auspicabile, idoneo a rafforzare la presenza dell’Italia in Europa. Il vuoto, prodotto dall’epopea giustizialista di «mani pulite», venne riempito alla rinfusa da uno sciame di movimenti che Benedetto Croce avrebbe senz’altro bollato come «ircocervi»: agglomerati di tipo aziendale e paternalistico, fusioni chiamate ulivi tra ex democristiani e postcomunisti, leghe populiste e regionalistiche, effimeri carriaggi d’appoggio con nomi e spostamenti mutevoli e così via.

Una fiera promiscua, somma, nella quale c’era e c’è ancora tutto e di più, tranne la preminenza delle due forze essenziali che caratterizzano una democrazia compiuta: cioè una vera destra moderata, liberale, e una sinistra autenticamente riformista. Al loro posto oggi abbiamo invece la «strana maggioranza», come la definisce Monti, formata dalla volatilità di un Pdl allo sbando, frastornato dalle sortite estemporanee di Berlusconi, e dall’ambiguità ondivaga di un Pd ricattato dai censori di ultrasinistra e intimorito dai successi del neoqualunquismo grillista.

Tutto questo mi spinge a scrivere, più che un semplice articolo, quasi una lettera personale al direttore e ai lettori, con qualche inevitabile considerazione autobiografica a mezza via tra l’opinione ideologica e il ricordo storico. Per scrupolo non posso fare a meno di avvertire che quello che dirò sarà, buona o cattiva, farina soltanto del mio sacco. Il tema centrale, cui ho già accennato sopra, sarà dedicato alla presenza spesso effimera, dispersiva, talvolta per breve tempo incisiva di un’area moderata e laica che in Italia, al contrario per esempio che in Francia, non è mai riuscita a darsi una veste politica e culturale omogenea.

Fermiamoci un attimo al primo dopoguerra. Si videro allora molte personalità di spicco dell’ambizioso e laicissimo partito d’azione, come La Malfa e Lombardi, emigrare verso altri partiti. Da quell’istante la grande anomalia italiana, contrassegnata dal peso esorbitante e già consociativo dei cattolici e dei comunisti, ha impedito la crescita di un’area moderata unitaria, occidentalista, liberale. Si è assistito, piuttosto che all’unione, alla frantumazione, alla trasformazione, alla contrapposizione di tanti laici democratici divenuti repubblicani, neoliberali, socialisti nenniani, socialdemocratici saragattiani, radicali pannelliani.

Ci fu un momento negli anni Sessanta in cui il partito repubblicano, che costituiva un piccolo partito di massa nella fortezza romagnola, vide espandersi nelle regioni centrosettentrionali un concorrente movimento di massa neoliberale e neoliberista sotto l’impulso autorevole e autoritario di Giovanni Malagodi. Affrontando le folle con i comizi in piazza gli era riuscito di mutare un club di notabili sedentari in un partito del ceto medio modernamente organizzato: una sessantina di deputati, un segretario generale, un comitato centrale chiamato consiglio nazionale. Ma né a Malagodi né a La Malfa, che pur in seguito avrebbero riunito i loro deputati nello stesso gruppo liberaldemocratico del Parlamento europeo, venne allora l’idea di congiungersi per dare all’Italia quello che più le mancava: un ampio spazio moderato di cui i liberali avrebbero, per così dire, potuto rappresentare la continuità con la destra storica postrisorgimentale, e i repubblicani la tradizione della sinistra mazziniana. Purtroppo i due uomini, entrambi di temperamento vanitoso, duro e irascibile, non si amavano, anzi si detestavano. Rammento un loro dibattito, ipocritamente civile, ospitato in quegli anni in via Solferino dalla direzione del «Corriere». Il tema era dei più delicati. Come costituire un’alleanza laica fra i prestigiosi repubblicani e i rinati liberali malagodiani e come contrapporla all’invadenza del bipartitismo «imperfetto» di una Dc di fondo confessionale e un Pci nell’essenza totalitario? I giornalisti e il pubblico ammirarono la gelida e ricca cultura di Malagodi, banchiere letterato, uomo di mondo poliglotta, che sapeva contornare numeri e statistiche con citazioni erudite e apodittiche. Quasi tutti però simpatizzarono per le battute affabili, cattivanti, che il più astuto La Malfa snocciolava con levità tra un sorriso e l’altro. Quanto al tema principale, la possibile federazione tra i due partiti simili e dissimili, non se ne cavò assolutamente nulla di concreto: sia gli ammiratori dell’algido liberale, sia i simpatizzanti del ridente e inafferrabile repubblicano capirono benissimo che, da quel loro incontro-scontro, non sarebbe emersa nessuna alleanza laica allargata. Fu Indro Montanelli a ritentare invano, soprattutto stringendosi all’amico La Malfa, la strada che avrebbe potuto tramutare i lettori del «Giornale nuovo» in elettori e promotori di una prestigiosa fusione tra repubblicani, liberali e socialdemocratici. Eravamo però già al 1974, al centro della grande deriva, ovvero alla metà del fatale decennio 1968-1978. Era l’epoca dei salti sul carro del vincitore. Il partito di Malagodi, passato alla direzione di Valerio Zanone, appariva con un misero due per cento ormai prossimo all’estinzione. Grandi giornali, timorosi editori, callidi industriali, intellettuali esaltati si sentivano attratti, come da un’implacabile calamita, dal canto delle sirene cattocomunista che invocavano il compromesso storico. Incantavano fabbriche, salotti e parrocchie i crescenti successi d’immagine e di voti del Pci di Berlinguer, successi cui lo stesso La Malfa, barcamenandosi tra Montanelli e detrattori di Montanelli, non era affatto insensibile. Indro, che lo sentiva incline alla resa, che gli telefonava spesso frenandolo e litigando, poi sbatteva la cornetta e continuava a fremere con le sue sottili gambe di locusta sotto il tavolo dirimpetto al mio. Di colpo mi fissava con gli occhi rotondi sbarrati nell’ira e nell’insofferenza. Mi diceva: «Certo, abbiamo arricchito il giornale di grandi firme laiche, da Abbagnano a Pampaloni, da Laurenzi e Cancogni, da Fejto ad Aron e Revel. Però è più facile vedere il demonio che un votante davvero laico pronto a sbarrare il passo ai fautori del compromesso storico». Si poteva già presentire nella frase la stoica disperazione di chi, deluso dal fallimento di mettere insieme una terza forza, inviterà a votare Dc col naso turato. L’invito scatterà nel 1976, dopo due anni spesi nel vano tentativo di creare l’increabile diga dei moderati. Nel frattempo le masse demenziali dei sabati rossi continuavano a inveire contro lo scismatico, che aveva osato spaccare il «Corriere» assembleare di Ottone, con una tetra frase evocante piazzale Loreto: «Ci piace di più Montanelli a testa in giù». L’opporsi con le idee ormai equivaleva all’esporsi con la pelle.

Non vorrei che le parole appena scritte venissero prese, maliziosamente ed esageratamente, solo dal lato gogoliano del «naso». La mia vera intenzione, nonostante il contenzioso che nel 1983 ci portò al divorzio, era e resta un’altra. Ho sempre cercato di spostare il busto di Montanelli dal piedestallo encomiastico, sul quale l’hanno elevato perfino i più accaniti calunniatori di ieri, per rimetterlo coi piedi sulla terra in tutta la sua persona in carne ed ossa. Finora, di lui, abbiamo avuto troppi marmi o caricature museali; insomma dei falsi. Al conservatore anarchico, al moderato spesso privo di moderazione, possiamo rendere piena giustizia restituendogli la grandezza naturale al chiaroscuro. La sua statura non è stata solo quella, ovvia, del giornalista sovrano, ma quella altresì del soldato di prima linea che, nel decennio della deriva, sfiorò la tomba difendendo perfino la libertà e la dignità dei liberticidi.

A questo punto non posso tacere l’amicizia personale che mi ha legato per anni a Bettino Craxi. Egli, a mio parere, staccando il Psi dai comunisti, limando le unghie ai democristiani, aveva incarnato e sostituito in versione socialista l’impalcatura di una terza forza moderata mancante al Paese. All’epoca in cui lo conobbi all’Hotel Raphaël, nessuno avrebbe potuto immaginare che quell’orco occhialuto, in jeans e maglietta, ruvido e zoologico, che camminava sempre con la testa un po’ voltata per scoprire l’ombra di qualche pedinatore sospetto, avrebbe un giorno collezionato una serie di strepitose e folgoranti vittorie politiche. Nessuno sarebbe stato in grado di scorgere in lui il futuro principe elettore di un presidente socialista al Quirinale, o il conquistatore corsaro del governo più duraturo della prima repubblica. Nessuno tranne Spartaco Vannoni: l’acuto ex comunista fiorentino, proprietario e animatore politico del Raphaël, ammaestratore dell’orso che nell’albergo aveva trovato il suo covo naturale. Vannoni non alzava mai la voce. Mi tirava ogni tanto in disparte sussurrando: «Teniamolo d’occhio. Ne vedremo delle belle. Le sue imprese non avranno eguali, così come non avrà fondo l’odio che attizzeranno nei comunisti e nei cattolici».

Penso di essere stato fra i pochi che in quegli anni remoti diedero un qualche credito alla profezia. Era fra l’altro, lì, il punto della mia rottura con Montanelli, il quale non voleva o non riusciva a vedere nella politica di Craxi la novità che vedevo io: cioè lo spostamento più in avanti, più a sinistra, della linea di resistenza al compromesso storico, linea che era stata la frontiera ideologica su cui avevamo fondato insieme il «Giornale». I miei articoli filosocialisti non andavano più a genio al direttore, che non poteva soffrire né i modi né le parole né i silenzi arroganti di Craxi. Divenni infine, nella veste di parlamentare liberale in Italia e in Europa, alleato esterno dei craxiani nella strategia del «lib-lab». Si trattava di una formula cifrata, di matrice britannica, che risaliva al tempo delle audaci riforme sociali forgiate da Lord Beveridge nell’incontro ravvicinato fra liberali e laburisti. Non a caso sarà il liberale Beveridge a dare vita all’ufficio progetti del partito laburista; non a caso il revisionista Bernstein definirà il socialismo come un «liberalismo organizzatore»; non a caso non si saprà mai con chiarezza se Keynes era un fabiano o un liberale oppure le due cose insieme. Nascerà di qui in Inghilterra, per paradossale impulso liberale, un famoso piano volto alla redistribuzione della ricchezza che resterà uno dei pilastri delle politiche sociali del Labour.

Il «lib-lab» avrà anche in Italia, sotto altri nomi, un suo nobile retroterra culturale: da Gobetti attraverso Rosselli fino a Bobbio e al liberalsocialista Calogero. Più del buon governo, giustamente caro ai liberali conservatori come Croce ed Einaudi, il momento sociale sembra prevalere nella complessa personalità culturale di Gobetti, stimolato dalla dirompente realtà industriale torinese e dall’«Ordine Nuovo» di Gramsci. Vedremo in seguito, a partire dagli anni Venti, il liberalismo di punta, il radicalismo di Giustizia e Libertà, l’avanguardismo azionista e il socialismo democratico confluire in un’eclettica sintesi derivata dal pensiero politico nazionale degli inizi di secolo. Tutto sembrava pronto per l’espansione, diciamo fisica, di una vasta e composita area laica la cui crescita fu purtroppo via via bloccata dal fascismo, ignorata dal comunismo e svalutata dal cattolicesimo politico. Craxi fu il solo dei cavalli di razza del dopoguerra a percepire appieno il significato sostitutivo del «lib-lab» - sigla di rottura e di anticipazione provocatrice – in un’Italia impoverita dall’assenza di una compatta area moderata, o se vogliamo di destra moderna e costruttiva. La confisca del gioco politico da parte di subculture intolleranti e dogmatiche lo sospingeva, in qualche modo obliquo, a trapiantare i germi dispersi di una tradizione laica dimenticata nel corpo di un partito socialista riformato e autonomo. Gli è riuscito, diceva bene Ronchey, di impedire ai due battenti del compromesso catto-comunista di chiudersi infilando nella commessura il suo «scarpone chiodato». Dopodiché, i comunisti e i democristiani, inviperiti, hanno impedito all’orco rompiscatole di andare oltre e se ne sono liberati per via giudiziaria.

Adesso il Paese è più che mai orfano di un centrodestra serio ma introvabile. Quel che resta sulla piazza è un Pdl sfasciato, muto di proposte, avvilito da rivalità personali, con un Berlusconi che seguita a tamponare con l’allegria di trovate improbabili il carisma consunto. Se avessimo una destra vera, coadiuvata nell’appoggio a Monti da una sinistra meno ambigua, allora sì che il governo dei tecnici si sentirebbe più protetto nelle perigliose manovre anticrisi e la situazione apparirebbe più aperta ad una uscita di sicurezza. La storia, come abbiamo visto, non ci ha dato né aiuto né conforto. La cronaca ci allarma e in certi casi disgusta. Non resta in definitiva che rimetterci a una speranza dura: cioè che gli urti persistenti della crisi economica sblocchino, prima o poi, la paralisi politica.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10334


Titolo: ENZO BETTIZA Ora ci vuole un'Europa federale
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2012, 04:54:48 pm
19/9/2012

Ora ci vuole un'Europa federale

ENZO BETTIZA

La visita di due giorni a Bruxelles di Enzo Moavero, ministro degli Affari Europei, è stata motivata dalla necessità di preparare l’esecutivo italiano al vertice dei capi di Stato e di governo che si terrà il 18 ottobre. Moavero ha tenuto a dichiarare di aver discusso a livello di Commissione e di Consiglio europeo il progetto di un’unione bancaria, sostenuto dall’Italia, aggiungendo nel linguaggio in uso negli ambienti eurocratici: «Ho sottolineato la grande importanza che il nostro governo attribuisce alla legittimità democratica del percorso in atto».

Come a dire che i colloqui, svolti all’interno di istituzioni transnazionali note per il loro «deficit di democrazia», si sono in realtà esauriti in dettagli soprattutto tecnici. Hanno girato cioè al largo delle più incandescenti questioni che agitano il mondo odierno, senza suscitare una risposta unanime da parte dell’Europa, una risposta decisa e degna, mi si perdoni la retorica, della gravità dell’ora. La questione che vorrei sollevare va al di là delle parole del ministro che, nei limiti impostigli da un dicastero considerato purtroppo «minore», ha fatto del suo meglio per rappresentare l’Italia negli incontri di Bruxelles.

La questione investe le indecisioni, le sterili rivalità, le perdite di tempo di un’Europa quasi apolitica, che bada più alle regole e ai vincoli di bilancio che al proprio rilancio politico e peso specifico sulla scena internazionale.

Eppure, potrebbe essere questo per i governi dell’Ue, in particolare per quelli irretiti nei lacci insidiosi della zona euro, il momento più opportuno per alzare lo sguardo dalle beghe intestine e volgerlo sulle tensioni che stanno esplodendo tutt’intorno. Anzi: dovrebbe essere proprio questo il momento giusto in cui renderci lucidamente conto della nostra estrema vulnerabilità al cospetto delle tensioni e violenze che percorrono «l’arco islamico» dai talebani afghani sino ai fondamentalisti salafiti della Tunisia.

Non s’era mai visto, prima, qualcosa del genere. Non s’era mai assistito ad una simile dilagante e devastante furia di jihadismo antiamericano, in senso lato antioccidentale, con morti e feriti sotto ambasciate e consolati presi d’assalto da masse infuriate a Kabul, Islamabad, Bengasi, Beirut, Cairo, Tunisi, per citare solo alcune delle capitali musulmane note o più vicine alle coste europee e italiane.

Le deludenti svolte «democratiche» delle cosiddette «primavere arabe» stanno rivelandosi nient’altro che veicoli di comodo per un’islamizzazione a tappe ora morbide ora forzate e, in definitiva, le une e le altre disordinate e distruttive. Mentre gli ajatollah iraniani aumentano il prezzo sulla vita in pericolo di Salman Rushdie, le folle integraliste tunisine gridano a ritmo di tamburo: «Obama, Obama, siamo tutti i nuovi Osama». Grido mirato a disturbare o turbare il risultato delle elezioni presidenziali che si terranno in America fra soli 48 giorni. Fra l’altro è qui un elemento d’attesa e di notevole incertezza per l’immediato futuro che i politici europei più responsabili, a cominciare dagli italiani, rappresentanti di una Penisola immersa nel Mediterraneo in fiamme, non possono non prendere in seria considerazione. Con Obama rieletto, l’Europa sa che potrà quasi sicuramente conservare o, se non altro, rinegoziare un suo posto di nobile secondo nell’universo atlantico; ma, con un Obama bocciato, non sa bene cosa potrà succederle: forse un ulteriore downgrading sul piano internazionale?

Frattanto, anziché pensare a tener botta all’incalzare degli eventi, una parte d’Europa e molti europei danno l’impressione di voler affogare nelle miserie di un presente senza gloria ed evadere da un futuro di imminenti e severe responsabilità. Danno la sensazione di lasciarsi vivere alla giornata in una clinica di risanamento staminale controllata, di volta in volta, da un primario tedesco, uno olandese o uno finlandese. Il decesso rinviato della Grecia, l’emiplegia mai risolta della Spagna, il crepuscolo nebuloso che avvolge il profilo oceanico del Portogallo, le incertezze incalzanti in un’Italia spesso lodata e mai accettata alla pari dalla Germania e dalla Francia, insomma il trauma di fiducia tra Paesi austeri e punitivi del Nord e Paesi indebitati del Sud ci fanno avvertire un’atmosfera di disagio e crisi d’ordine generale. Tanti mali, esorcizzati e cacciati una volta fuori dalla porta, sembrano rientrare oggi in casa dalla finestra. Non ci accorgiamo che stiamo ottenendo quello che dicevamo di non voler mai ottenere? L’Europa a più velocità, l’Europe à la carte, l’Europa delle sedie vuote, l’Europa a diarchia carolingia, eccetera, paiono infatti alternarsi di settimana in settimana negli uffici di Bruxelles rumorosi e rigurgitanti di parole vacue. Quest’Europa fragile con la sua Commissione ossequiosa delle regole e dei rigori vincolanti, con il suo Parlamento privo di poteri reali, i suoi vertici ripetitivi e fulminei di cui nessuno ricorda nulla, è un’Europa incapace di fare la sola cosa che dovrebbe fare in un momento d’emergenza come questo: darsi un colpo di reni, percepirsi come un’incompiuta ancorché latente superpotenza globale, puntare decisamente alla Federazione sostituendo i decrepiti stati nazione, di vecchissimo stampo francese, con un’entità politica pari alla sua forza economica e alla sua multiforme tradizione di civiltà.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10544


Titolo: ENZO BETTIZA Helmut Kohl prigioniero della storia
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2012, 02:19:40 pm
26/9/2012

Helmut Kohl prigioniero della storia

ENZO BETTIZA

L’ultima volta che vidi Helmut Kohl fu in un nevoso pomeriggio del novembre 2009, nei giorni in cui Berlino in festa commemorava il ventennale del crollo del Muro. Mi trovavo in un punto della grande capitale riunificata che ai tempi della guerra fredda era stato ideologicamente e pericolosamente strategico.

L’area della Porta di Brandeburgo, area del confine occidentale del Muro, quella da cui Kennedy nel 1961 aveva lanciato ai tedeschi e al mondo il leggendario: «Ich bin ein Berliner!».

Ero penetrato quasi per caso, spinto da curiosità storica, all’interno di un bianchissimo edificio dedicato, proprio lì, alla memoria e al grido del presidente americano. Non m’aspettavo però di ritrovarmi, dopo una breve scalinata, in una saletta quasi in penombra riempita da uno sparuto pubblico di giornalisti, fotografi, operatori televisivi: tutti rivolti, con i loro strumenti tecnologici, verso un lungo tavolo basso, occupato da alcuni uomini in abito scuro fra i quali spiccava il busto di un ottuagenario corpulento, dallo sguardo mite e vago, costretto e come rassegnato con una certa rigida allegria all’infermità su una sedia a rotelle.

Nonostante la scarsa luminosità riconobbi quasi subito, in quel torso maestoso e in quella faccia carnosa, le sembianze di Helmut Kohl. Con una voce già afona e parole incespicate stava presentando ai giornalisti un paio di libri, tra cui una breve autobiografia, mentre con stupore io mi domandavo perché, oltre ai giornalisti e ad alcuni funzionari editoriali, non fosse presente in sala nessun qualificato esponente delle istituzioni governative. Pochi giorni prima lo stesso Michail Gorbaciov, che nell’89 negoziò personalmente con Kohl la fine del Muro e della Germania comunista, aveva dichiarato in un dibattito nell’ex settore Est di Berlino: «Noi abbiamo avuto con Helmut Kohl, cancelliere federale tedesco, l’uomo giusto al posto giusto nel momento storicamente giusto».

La verità è che già nei frastornanti giorni di festa del 2009 l’Altkanzler, «il vecchio cancelliere», il protagonista della riunificazione, il presidente e leader indiscusso della Cdu, era un grande assente, un grande innominato. Oserei dire un grande ripudiato. Come non pensare all’ingrato comportamento di Angela Merkel, proveniente dall’Est comunista, nei confronti di chi le aprì la strada nella Germania libera e riunita, la portò ai vertici del primo partito tedesco, e di fatto operò contro se stesso favorendone l’ascesa al cancellierato? Non a caso la protetta verrà accusata di «parricidio politico» allorché, nel momento più acuto della tangentopoli sul finanziamento dei partiti che colpì in pieno il suo protettore, sentenzierà calma e glaciale: «Basta, oramai deve andarsene».

Quando nel 2005 Merkel diventerà il primo cancelliere donna della storia tedesca, circonderà l’evento un obliquo sentore d’usurpazione e d’inganno. «Der Spiegel» la presenterà al pubblico come «una massaia conservatrice, di tradizione luterana, dal sorriso enigmatico di una Gioconda nordica». Chi mai poteva comunque immaginare, all’epoca diciamo del primo Muro e di Ulbricht, che la figlia di un pastore evangelico, nata quasi per caso in un oscuro villaggio della Germania orientale, avrebbe rappresentato un giorno sulla scena mondiale ottanta milioni di tedeschi riuniti?

Ma torniamo a Kohl che sicuramente, per tanti aspetti, ha incarnato un tipo di civiltà tedesca agli antipodi di quella più chiusa, o più «barbarica» della Merkel, per dirla con Goethe che non amava i prussiani né in generale i tedeschi dell’Est e del Nord. Si sente alle spalle di Kohl l’ampio respiro europeo della civiltà renana: si sentono Adenauer e Erhard. Non sapremo mai con precisione ciò che l’Altkanzler, il quale non riesce più a parlare, il quale vive ormai murato dentro se stesso, pensa della sua vicenda così straordinaria sul piano della storia e così sventurata sul piano personale e familiare. Nel momento in cui il Bundestag ne celebra gli esordi di cancelliere, che datano all’ottobre del 1982, lo «Spiegel», puntuale e spietatamente veritiero come sempre, c’informa che la tragedia anche familiare di Kohl s’è purtroppo compiuta fino in fondo. Dopo la prima moglie suicida, la seconda, Frau Maike Richter, non ancora cinquantenne, lo terrebbe di fatto prigioniero» in combutta con altri familiari privi di scrupoli. Il titolo di copertina, dedicato alla «tragedia» di uno dei più significativi e decisivi uomini della storia politica tedesca ed europea del Novecento, sostiene che egli ormai sopravviva a se stesso in uno stato d’inganno e d’isolamento programmato dal mondo.

Mai, dal 1945 ad oggi, s’era scritto e stampato qualcosa del genere in maniera così visibile e così perentoria su uno dei più importanti e più letti giornali liberali tedeschi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10569


Titolo: ENZO BETTIZA - Non basta un premio a fare l’Europa
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2012, 04:13:35 pm
Editoriali
14/10/2012

Non basta un premio a fare l’Europa

Enzo Bettiza

L’Europa, in questi ultimi dieci giorni, ha dato l’impressione di essersi arenata al culmine di una crisi generale in cui abbiamo visto rincorrersi, contraddirsi e confondersi enigmatici dati negativi con complicati conati d’emergenza terapeutica. 

Sul piano mediatico ha acquistato fortissimo rilievo l’entrata in vigore del Fondo salva-Stati, il tanto atteso e mitizzato Esm, dotato d’una capacità di prestito da 500 miliardi. 

 

Ma tale macchinoso laboratorio di riparazione per banche e Paesi in panne, vantato come «storica barriera antincendio finanziario», dovrebbe raggiungere pieno regime operativo appena nel 2014, mentre s’alza già la voce di chi si domanda se l’euro riuscirà a vivere fino all’autunno 2013. 

Paradossalmente, proprio nelle «storiche» ore di nascita del Fondo, abbiamo potuto vedere la cancelliera Merkel precipitarsi affannosamente come un medico consolatore, privo di medicinali risolutivi, in un’Atene blindata sotto l’ondata di urlanti e violente turbe antitedesche. 

 

Visita, quella della Merkel, spettacolarmente emblematica al capezzale del grande malato, ma dilatoria nella sostanza e placebica dal punto di vista clinico. 

Accanto all’abisso greco si sta approfondendo, poi, quello spagnolo provocato da dissesti bancari e marcato da una disoccupazione che supera il venti per cento.

 

Incalzato fra l’altro dalla minaccia di una possibile e perfino ravvicinata secessione della Catalogna, soffocata dai debiti, il governo Rajoy non sa bene come rispondere alle offerte di credito che giungono da Bruxelles e dalla Banca europea. La Francia consiglia il rifiuto, la Germania l’accettazione. Mariano Rajoy seguita quindi a barcamenarsi agevolmente tra il sì di un giorno e il no del giorno dopo (i galiziani sono noti in Spagna come maestri nell’arte della «retranca» o tergiversazione).

 

Qui sarebbe errato sorvolare e non mettere a fuoco il critico distacco dell’Inghilterra dai disagi che incrinano la coesione dell’Ue. L’insieme di un panorama continentale così saturo di fatti e di contrasti, evidenziati con risalto dalle cronache, rischia infatti di velare e nascondere su un piano secondario l’intervento che invece è stato, più d’ogni altro, il più importante delle ultime ore. Mi riferisco al rifiuto britannico, annunciato da David Cameron, di considerare il bilancio comunitario come un blocco finanziario inalienabile, impegnativo per tutti gli Stati membri dell’Unione. In sostanza ha dichiarato che il suo governo si opporrà, anche col veto, al contributo britannico al budget unitario di mille miliardi per il settennio 2014-20. Ha precisato: il Regno Unito si ritiene «esterno» alle clausole in vigore fra i 17 Paesi dell’Eurozona. Decisione, se attuata, gravissima. Senza più un bilancio comune difficilmente potrebbe continuare a sopravvivere l’attuale mercato unico dell’Ue; alla lunga, difficilmente potrebbe sopravvivere la stessa Unione così come la conosciamo e concepiamo oggi. 

 

In un diluvio di interviste a giornali e televisioni, scatenato nel primo giorno del congresso conservatore a Birmingham, Cameron ha rinverdito con energici echi thatcheriani la vecchia minaccia anticontinentale cara agli euroscettici inglesi: l’uso del veto a sostegno di un contributo ridotto della Gran Bretagna nelle negoziazioni intergovernative sul budget comunitario. La Thatcher, da brava ma accorta populista insulare, usava agitare più che adoperare lo spettro del veto. La situazione odierna offre invece a Cameron l’appiglio giustificativo, che la Thatcher ai suoi tempi non aveva, di una realtà europea intimamente mutata, effettivamente duplice e perdipiù in crisi profonda: da un lato l’Europa dei Diciassette, malamente uniti attorno all’ostia avvelenata dell’euro, dall’altra l’Europa dei Dieci più che mai soddisfatti di trovarsi fuori dai miasmi inquinanti dell’Eurozona. 

 

Se ci mettiamo nella pelle di un inglese tradizionale come Cameron, tipico rappresentante elitario della cosiddetta «Eton mess», potremo o potremmo anche capire le ragioni che, giustamente dal suo punto di vista, lo inducono a profittare oggi delle divisioni europee per allargare lo stretto di mare che separa l’Inghilterra protetta dalla sterlina dal Continente inguaiato dall’euro. Non solo. Altri punti di separazione si vanno facendo, quasi senza che ce ne accorgiamo, sempre più numerosi e più insidiosi. L’europeista liberaldemocratico Nick Glegg si è di fatto eclissato dalla coalizione, dominata da un Cameron aggressivo che non lo nomina più e insiste a gonfiare l’acqua della Manica trasformata in un linea di disgiungimento e divorzio: già incombe l’assenza del visto di Sua Maestà sui passaporti dei migranti europei, mentre Londra, seconda piazza finanziaria al mondo, rifiuta di aderire alla Tobin Tax sui movimenti di capitale che proprio nella City dovrebbero trovare il loro capolinea fisiologico. 

 

Non si possono ignorare le ambiguità storiche che, da sempre, hanno caratterizzato il difficile e travagliato rapporto tra Gran Bretagna e costruzione di un’Europa unita. Benché patrocinata idealmente da Churchill già nel 1946, la Comunità europea, appena cominciò a prendere peso economica e forma istituzionale, non piacque agli inglesi che fecero di tutto per osteggiarne la crescita. Si ricorderà che Londra inventò nel 1960 in risposta alla Cee una sorta di pseudocomunità parallela, chiamata Efta, European Free Trade Association, che non ebbe grande fortuna e durò fino al 1973: anno in cui l’Inghilterra, con uno spettacolare salto della quaglia, decise di entrare essa stessa nella Cee nell’intento, certo non dichiarato, di continuare dall’interno le manovre di freno o disturbo che almeno in parte ci sono note. Non a caso aderirono all’Efta, e poi seguirono l’ammiraglia britannica nella Cee, alcuni Paesi come Danimarca, Svezia, Finlandia, che oggi costituiscono, con un piede a Berlino e mezzo a Londra, il nucleo duro dei falchi del Nord contrapposto a quello morbido e indebitato del Sud mediterraneo. Ora la sensazione è che
l’Inghilterra, prendendo le distanze da un’Europa che si autofrantuma da sola, cerchi di ricostituire con i falchi nordici un quasi doppione
dell’Efta fra le pieghe strinate della decadente Unione Europea.

 

Ma la Germania, a questo punto? Forse un utile ago della bilancia? In effetti la potente e autonoma Germania potrà al massimo tollerare, con molte cautele, nel reciproco rispetto delle regole del gioco, la sottile politica isolazionista e disfattista di Londra; ma non potrà mai assecondarla del tutto per mille ragioni non solo politiche. La riabilitazione etica della Germania nel mondo e la riunificazione tedesca nel cuore del continente hanno avuto il loro fondativo vincolo storico e culturale nell’idea d’Europa. La stabilità dell’Europa, la convivenza fra i diversi popoli d’Europa non sarebbero state immaginabili né possibili se all’origine non ci fosse stato il lavacro europeo della Germania, legittimato dal patto di cooperazione e di pace permanente con la Francia nemica. 

 

Il Nobel giunto inatteso da Oslo all’Europa avvalora qualcosa che riconosce questo e va al di là di tutto questo: ci dice che nonostante le crepe, i fallimenti, gli anacronistici sbandamenti nazionalisti, l’Unione Europea è considerata da un Paese che non ne fa ancora parte come un’entità unitaria e indivisibile della nostra epoca turbolenta.

da - http://lastampa.it/2012/10/14/cultura/opinioni/editoriali/non-basta-un-premio-a-fare-l-europa-KoqKKGQOLwiVODJC3iGihK/pagina.html


Titolo: ENZO BETTIZA La Cina al bivio del futuro
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2012, 10:44:08 am
Editoriali
28/10/2012

La Cina al bivio del futuro

Enzo Bettiza

Fra poco più di una settimana si vota in America, dove verrà democraticamente eletto il nuovo presidente degli Stati Uniti che resterà in carica per quattro anni. Due giorni dopo, 8 novembre, si aprirà a Pechino il diciottesimo Congresso del partito comunista che imporrà e legittimerà dall’alto il nuovo presidente Xi Jinping - successore e vice dell’attuale Hu Jintao - prescelto fin dal 2002 a governare la seconda potenza del pianeta per i prossimi dieci anni. Due eventi destinati a incidere in profondità sulle relazioni fra Stati Uniti e Cina, e quindi sugli assetti mondiali, che nel decennio che verrà vedranno le spinte della globalizzazione spostarsi sempre più dall’Atlantico al Pacifico. 

 

L’Europa da un pezzo non è più una priorità per Washington. Non è stata quasi nominata nel dibattito elettorale, che sta per chiudersi, tra il Presidente democratico e lo sfidante repubblicano: sia l’uno che l’altro hanno lasciato intendere, con il loro silenzio sprezzante, di considerare quantité négligeable l’Unione Europea, inaffidabile alleata in declino, irrilevante per gli interessi strategici di una superpotenza globale. 

 

Se il presidente Obama verrà rieletto, l’Asia in generale e la Cina in particolare, che ne ha criticato con asprezza l’incontro col Dalai Lama e la fornitura di missili a Taiwan, resteranno più di prima il suo principale quanto irto punto di riferimento diplomatico. Se invece vincerà Romney, il dialogo con i nuovi interlocutori cinesi, che in queste ore delicatissime tifano per lui, si svolgerà ancora più diretto e più scorrevole. Non a caso un noto americanista di Shanghai, l’accademico Dingli Shen, ha osservato recentemente: «Purtroppo il democratico Obama non ha capito che Pechino per Washington può essere un’opportunità più che un ostacolo o un concorrente. Del resto, dall’epoca di Nixon e Kissinger, la Cina si è trovata sempre meglio con i repubblicani alla Casa Bianca. Anch’essi, come noi oggi, sono da sempre a favore del libero commercio, di poche regolamentazioni negli scambi e della libertà d’impresa». Tutti princìpi che si ritrovano nella «filosofia dello sviluppo», filosofia che la Cina comunista ha attuato con strepitosi successi pratici e paradossi ideologici, sospesi da almeno un ventennio tra la libertà economica e la non libertà politica. 

 

L’Economist ha voluto ricordare in proposito certi saggi spregiudicati e capricciosi di Milton Friedman. Il patrono della scuola dei Nobel liberisti di Chicago, compiuto un primo viaggio in Cina nel 1980, al ritorno scrisse un articolo in cui osservava che la cosa che più l’aveva colpito era l’assenza o ignoranza del «diritto alla mancia» negli alberghi e nei ristoranti. Per lui il «tip», il «diritto di mancia», era la percentuale politica che per esempio in America, patria del liberismo anche spicciolo, s’aggiungeva agli scambi e ai prezzi correnti dell’economia quotidiana. Dal che dedusse una legge generale, che sembrava attagliarsi benissimo già ai prodromi del socialcapitalismo alla cinese: sentenziò che non sempre e non dovunque la libertà economica debba forzatamente apparentarsi al tip della sua «cugina politica». 

 

La sentenza doveva restare valida non solo per la Cina, ma per tutte le consimili economie di mercato «confuciane», da Singapore alla Taiwan del Kuomintang, dove capitalismo e autoritarismo seguitano a convivere da più di mezzo secolo in relativa e talora spinosa «armonia». Per accorgersi delle «disarmonie» non era necessario aspettare l’entrata in scena nel 2002 e l’uscita nel 2012 degli epigoni inguaiati del liberismo denghista. Ci basta spulciare la lista ogni giorno più lunga e più drammatica di coloro che, saliti ai vertici del partito e dello Stato, hanno o avrebbero profittato del prolungato miracolo economico per lucro personale e di clan. L’uscente capo di Stato Hu Jintao appare come congelato al centro di uno scenario da crepuscolo degli dèi, mentre il suo popolare primo ministro Wen Jiabao viene schiacciato dalla denuncia internazionale di uno scandalo di smisurata corruzione familistica, nello stesso momento in cui il leader della sinistra neomaoista Bo Xilai, defenestrato dal politburo, perduta l’immunità parlamentare, la moglie condannata all’ergastolo per assassinio dell’amante, rischia addirittura una condanna alla pena capitale.

 

La storia millenaria delle transizioni cinesi da una dinastia all’altra è stata quasi sempre costellata di crolli apocalittici, corruzioni capillari, omicidi enigmatici; i mutamenti epocali sono stati spesso accompagnati o assimilati, nelle narrazioni dei cronisti, a immani catastrofi naturali. Anche le vicende dell’impero comunista, da Mao fino a Deng e dopo Deng, si sono sviluppate a balzi e severi strappi dinastici. Ricordo il XXIV congresso comunista di vent’anni fa, il congresso dell’ottobre 1992, dedicato alla transizione e alla celebrazione del primo artefice del miracolo economico, dell’apertura della Cina al mondo, il «piccolo timoniere» Deng Xiaoping ormai quasi nonagenario. Anche allora, come in altra forma oggi, si chiudeva solennemente e duramente un’epoca e se ne spalancava una nuova: si chiudeva biologicamente la carriera degli ultimi veterani della Lunga Marcia che, dopo il massacro di Tienanmen, avevano invano sperato di bloccare la riforma economica da essi ritenuta in gran parte responsabile dei moti e tumulti studenteschi del 1989. Una «commissione dei consiglieri», nido dell’ostruzionismo gerontocratico, era stata disciolta. Fra i grandi vecchi costretti alle dimissioni v’era il capo dello Stato, Yang Shangun, 84 anni, il più insidioso degli antagonisti conservatori ostili al vecchissimo Deng. 

 

Spesso si dimentica che il «miracolo» aveva messo radici già profonde nella Cina del tempo, dove diversi dirigenti odierni, che si accingono a darsi il cambio, erano giovani e ambiziosi e forse smarriti funzionari di seconda fila. Quel congresso sanciva e legittimava una situazione di svolta storica. La vittoria di Deng s’incarnava già, al di là del comunismo, nelle cose reali: nel benessere diffuso, nei consumi crescenti, negli investimenti che affluivano in massa a Canton, a Shanghai, nella zona di sperimentazione capitalista di Shenzhen. Oggi si tende a dimenticare che l’economia era più che raddoppiata rispetto a quella del 1978, anno di rottura con la povertà e le carestie maoiste e d’avvio della rivoluzione liberista. Si dimentica che l’aumento del prodotto lordo aveva già raggiunto il tasso del 14 per cento, che Pechino aveva già un suo posto d’onore fra le maggiori entità commerciali del mondo, che la Cina in metamorfosi già si presentava sui mercati internazionali come un continente immenso finanziariamente sano e solvibile.

 

Ora assistiamo alla fine di questa prima e lunga fase del miracolo. Mentre dilaga la corruzione da ricchezza dei capi comunisti, divenuti manager miliardari, dilagano anche sulle reti iperinformate del web lo scontento popolare, lo smascheramento degli abusi di potere, la denuncia dei clan di partito e di parentela che hanno mandato in malora gli ultimi e falsi miti dell’ideologia comunista. Non si tributa più nei comunicati ufficiali la citazione d’obbligo al pensiero di Mao. Al tempo stesso l’autoritarismo comunista, sposato alla libertà spesso selvaggia della sola economia, non regge più; il cosiddetto «capitalismo confuciano», unito al burocratismo di regime, rischia di perdere i pezzi per strada. Verso quali riforme o controriforme ignote andrà la Cina, quasi destabilizzata da una ricchezza abnorme ma politicamente squilibrata, che si prepara ad essere governata per dieci anni da un alto quanto grigio funzionario del partito? Cosa farà, cosa dirà, quali vie di risanamento o di ritirata sceglierà il paffuto Xi Jinping, così somigliante a Mao, di cui sappiamo solo di non sapere nulla?

Una certa maggioranza avida, ruvida, formata da fasce di una nuova e cinica classe media, dice di preferire l’odore del danaro alla libertà d’opinione. Insomma meglio ricchi che liberi. Intanto i conservatori arricchiti del partito sostengono di voler privilegiare la stabilità del regime, rispondendo con parole vaghe e sfuggenti alla domanda di riforme che giungono sempre più urgenti e insistenti, via internet, alle stanze di un potere in parte ancora forte e in parte già traballante. 

 

L’unica cosa per ora certa è che una Cina forte, risanata, politicamente aperta agli innesti democratici, costituirà una garanzia per il mondo. Sarebbe invece assai più pericolosa per tutti una Cina debole, priva di contrappesi politici, dilaniata dalle lotte intestine per il potere e il possesso tribale delle abnormi piramidi economiche ereditate dal grande miracolo denghista.

da - http://lastampa.it/2012/10/28/cultura/opinioni/editoriali/il-bivio-che-attende-la-cina-AruaslCVAJyXf2WY9qHGFJ/pagina.html


Titolo: ENZO BETTIZA Il rebus cinese che aspetta la soluzione
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2012, 09:19:15 pm
Editoriali
17/11/2012

Il rebus cinese che aspetta la soluzione

Enzo Bettiza


Sono essenzialmente due i risultati emersi con notevole e già storica incisività politica dalle porte socchiuse, ma non dischiuse, del Diciottesimo Congresso, attraverso cui sono sgusciati i sette nuovi esponenti della quinta generazione del potere comunista cinese. Sembravano camminare a tentoni, come pinguini su vulnerabili uova d’anatra, a prima vista quasi tutti eguali negli abiti scuri, le camicie bianche, i capelli tinti di nero, la scriminatura a sinistra. Eguali perfino nel sorriso fisso, cauto e incoraggiante che esibivano, dopo mesi e settimane di feroci risse intestine, davanti ai 2268 delegati accorsi da ogni angolo dello sterminato Paese nella grandiosa Sala del Popolo di Pechino.

 

Primo dato da segnalare. L’organigramma ridotto da nove a sette membri del Comitato permanente del Politburo, che costituisce la misteriosa quanto tempestosa capsula di comando di una ristrettissima oligarchia su un partito unico di ottanta milioni di iscritti e un subcontinente, ormai seconda potenza mondiale, di quasi un miliardo e mezzo d’abitanti. Il secondo dato è più individuale, direi anzi individualissimo. Il personaggio, il cinquantanovenne Xi Jinping con cui Cina, America, Europa e il resto del mondo avranno a che fare per una diecina d’anni, è riuscito ad afferrare i quattro poteri che nessun altro capo postmaoista e postdenghista aveva mai concentrato in un colpo solo nelle proprie mani: segretario generale del partito, primus inter pares nel supercomitato dei sette, presidente della potente commissione militare, infine designato presidente per il marzo 2013 della Repubblica popolare. 

 

E’ apparsa così totale la sconfitta della fazione dell’uscente segretario e capo di Stato Hu Jintao, che sperava di mantenere almeno per altri due anni la guida della commissione militare. Tale sconfitta, per ora morbidamente confinata al solo piano gerarchico, si staglia comunque su uno sfondo di implacabili lotte per il potere che hanno portato alla cacciata dal partito, con infamanti implicazioni giudiziarie, del potentissimo Bo Xilai ras «neomaoista» di Chongqing. Non solo. Un grave crollo d’immagine, per corruttela e arricchimenti illeciti, denunciati da autorevoli giornali occidentali, sta mettendo in difficoltà perfino l’uscente primo ministro Wen Jiabao: dopo un decennio, apparentemente incensurabile, verrà sostituito nell’incarico dall’avvocato ed economista Li Keqiang destinato ad affiancare ai vertici il quasi coetaneo Xi Jinping. Dietro le quinte del cambio insieme istituzionale e generazionale si sarebbe insomma svolta, secondo l’opinione di tanti osservatori anche cinesi, una delle più spietate rese dei conti che la Cina abbia subito dai tempi della rivoluzione culturale maoista. Non a caso si attribuisce a un personaggio intramontabile, l’ex presidente Jiang Zemin, grande esperto di interventi censori e repressivi, il ruolo del burattinaio che opponendosi alla fazione di Hu e compagni avrebbe favorito la promozione e l’ascesa dei cinquantenni e sessantenni: quasi dei «giovani» nell’ottica gerontocratica della «vecchia guardia» di cui l’ottantaseienne Jiang è un tipico e vitale rappresentante.

 

A questo punto sono in molti a chiedersi cosa vorrà o potrà fare la nuova nomenclatura, ipnotizzata dal mito della «stabilità», e consapevole tuttavia che senza una serie di riforme politiche la Cina rischia il peggio: la rivolta civile dei derelitti, l’aumento dei suicidi incendiari nel Tibet, l’irrequietudine delle etnie islamiche nei territori del Nordovest confinanti con la Russia e la Mongolia. Sono in molti a domandarsi chi sia davvero il misterioso uomo che si chiama Xi Jinping, marito di una fascinosa cantante d’opera, nonché figlio di un dirigente comunista perseguitato da Mao, riabilitato da Deng Xiaoping, impegnato a suo tempo nelle prime sperimentazioni capitaliste nelle «zone speciali» istituite dallo spregiudicato Deng nella Cina costiera e meridionale. Xi sarà soltanto una sorridente marionetta fra le mani della vecchia guardia conservatrice? Oppure diventerà poco per volta un riformatore, una specie di Gorbaciov alla cinese, un guastatore liberaleggiante in fuga dal mito della coriacea «stabilità»? Darà corda ai falchi del socialcapitalismo autoritario, ostili allo spirito riformatore, o presterà invece ascolto alle idee del più flessibile membro del comitato permanente dei sette, Wang Qishan, attuale vice primo ministro, che col suo fluido inglese rappresenta degnamente la Cina nei colloqui economici con l’America e l’Europa?

 

La prudenza, la retorica, l’ovvietà demagogica hanno purtroppo caratterizzato il discorso inaugurale di Xi. Ha ripetuto le frasi ormai consuete sul bisogno di «avvicinarsi al popolo», di combattere la corruzione sempre più diffusa, di sanare le profonde diseguaglianze economiche; ma non ha detto nulla di preciso e di efficace sulle possibilità di uno slancio riformatore a breve termine. Silenzio assoluto sulle autoimmolazioni di protesta nel Tibet, nient’altro che le solite tirate convenzionali sul «successo cinese nel creare una nazione multietnica». Il tutto condito da un inquietante tocco nazionalistico, con reiterate allusioni alla «rinascita cinese», espressione destinata a intimorire i vicini del gigante che da qualche tempo si mostra sempre più minaccioso nei confronti del Giappone, delle Filippine, e diversi altri Paesi del Sudest asiatico.

 

Ma qui, proprio qui, nelle ambigue acque del Pacifico, si erge, al di là delle reciproche relazioni economiche, l’ombra dello scontro politico con gli Stati Uniti di Obama. In quell’oceano tormentato, spaventato dall’espansionismo geopolitico di una Cina irritabile, il Presidente americano desidera non solo rafforzare il sostegno agli alleati storici come Giappone, Taiwan, Corea del Sud; desidera anche incoraggiare, con gesti concreti e parole nuove, uno spirito d’apertura verso Paesi meno calorosi come Vietnam, Cambogia, Birmania. Non a caso Barack Obama ha scelto il Sudest asiatico come primo itinerario diplomatico del suo secondo mandato presidenziale. Dicono alla Casa Bianca che questo viaggio, a soli dieci giorni dopo la rielezione, «è qualcosa di più di un semplice tour celebrativo: andiamo a rafforzare i legami con una parte del mondo sulla quale il Presidente ha investito massicciamente». Washington ha già tolto le sanzioni e riallacciato i rapporti con Rangoon, dove Obama incontrerà, quale segnale di libertà per l’Asia intera, il Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Ma ignorare la Cina, più che mai irritata, non sarà certo possibile: nell’agenda degli incontri è infatti previsto un vertice particolare, in margine ai lavori dell’East Asia Summit, tra Obama e il primo ministro di Pechino tuttora in carica Wen Jiabao. Sarà da vedere se il precario Wen, criticato con moglie compresa dal New York Times per il patrimonio miliardario accumulato all’ombra del potere, accetterà o meno di stringere la mano al Presidente tanto caro al libero e sferzante quotidiano americano.

da - http://lastampa.it/2012/11/17/cultura/opinioni/editoriali/il-rebus-cinese-che-aspetta-la-soluzione-VtZOGXgjza9Hh0O0WPx2sL/pagina.html


Titolo: ENZO BETTIZA Helmut Kohl prigioniero della storia
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2013, 11:21:35 pm
26/9/2012

Helmut Kohl prigioniero della storia

ENZO BETTIZA

L’ultima volta che vidi Helmut Kohl fu in un nevoso pomeriggio del novembre 2009, nei giorni in cui Berlino in festa commemorava il ventennale del crollo del Muro. Mi trovavo in un punto della grande capitale riunificata che ai tempi della guerra fredda era stato ideologicamente e pericolosamente strategico.

L’area della Porta di Brandeburgo, area del confine occidentale del Muro, quella da cui Kennedy nel 1961 aveva lanciato ai tedeschi e al mondo il leggendario: «Ich bin ein Berliner!».

Ero penetrato quasi per caso, spinto da curiosità storica, all’interno di un bianchissimo edificio dedicato, proprio lì, alla memoria e al grido del presidente americano. Non m’aspettavo però di ritrovarmi, dopo una breve scalinata, in una saletta quasi in penombra riempita da uno sparuto pubblico di giornalisti, fotografi, operatori televisivi: tutti rivolti, con i loro strumenti tecnologici, verso un lungo tavolo basso, occupato da alcuni uomini in abito scuro fra i quali spiccava il busto di un ottuagenario corpulento, dallo sguardo mite e vago, costretto e come rassegnato con una certa rigida allegria all’infermità su una sedia a rotelle.

Nonostante la scarsa luminosità riconobbi quasi subito, in quel torso maestoso e in quella faccia carnosa, le sembianze di Helmut Kohl. Con una voce già afona e parole incespicate stava presentando ai giornalisti un paio di libri, tra cui una breve autobiografia, mentre con stupore io mi domandavo perché, oltre ai giornalisti e ad alcuni funzionari editoriali, non fosse presente in sala nessun qualificato esponente delle istituzioni governative. Pochi giorni prima lo stesso Michail Gorbaciov, che nell’89 negoziò personalmente con Kohl la fine del Muro e della Germania comunista, aveva dichiarato in un dibattito nell’ex settore Est di Berlino: «Noi abbiamo avuto con Helmut Kohl, cancelliere federale tedesco, l’uomo giusto al posto giusto nel momento storicamente giusto».

La verità è che già nei frastornanti giorni di festa del 2009 l’Altkanzler, «il vecchio cancelliere», il protagonista della riunificazione, il presidente e leader indiscusso della Cdu, era un grande assente, un grande innominato. Oserei dire un grande ripudiato. Come non pensare all’ingrato comportamento di Angela Merkel, proveniente dall’Est comunista, nei confronti di chi le aprì la strada nella Germania libera e riunita, la portò ai vertici del primo partito tedesco, e di fatto operò contro se stesso favorendone l’ascesa al cancellierato? Non a caso la protetta verrà accusata di «parricidio politico» allorché, nel momento più acuto della tangentopoli sul finanziamento dei partiti che colpì in pieno il suo protettore, sentenzierà calma e glaciale: «Basta, oramai deve andarsene».

Quando nel 2005 Merkel diventerà il primo cancelliere donna della storia tedesca, circonderà l’evento un obliquo sentore d’usurpazione e d’inganno. «Der Spiegel» la presenterà al pubblico come «una massaia conservatrice, di tradizione luterana, dal sorriso enigmatico di una Gioconda nordica». Chi mai poteva comunque immaginare, all’epoca diciamo del primo Muro e di Ulbricht, che la figlia di un pastore evangelico, nata quasi per caso in un oscuro villaggio della Germania orientale, avrebbe rappresentato un giorno sulla scena mondiale ottanta milioni di tedeschi riuniti?

Ma torniamo a Kohl che sicuramente, per tanti aspetti, ha incarnato un tipo di civiltà tedesca agli antipodi di quella più chiusa, o più «barbarica» della Merkel, per dirla con Goethe che non amava i prussiani né in generale i tedeschi dell’Est e del Nord. Si sente alle spalle di Kohl l’ampio respiro europeo della civiltà renana: si sentono Adenauer e Erhard. Non sapremo mai con precisione ciò che l’Altkanzler, il quale non riesce più a parlare, il quale vive ormai murato dentro se stesso, pensa della sua vicenda così straordinaria sul piano della storia e così sventurata sul piano personale e familiare. Nel momento in cui il Bundestag ne celebra gli esordi di cancelliere, che datano all’ottobre del 1982, lo «Spiegel», puntuale e spietatamente veritiero come sempre, c’informa che la tragedia anche familiare di Kohl s’è purtroppo compiuta fino in fondo. Dopo la prima moglie suicida, la seconda, Frau Maike Richter, non ancora cinquantenne, lo terrebbe di fatto prigioniero» in combutta con altri familiari privi di scrupoli. Il titolo di copertina, dedicato alla «tragedia» di uno dei più significativi e decisivi uomini della storia politica tedesca ed europea del Novecento, sostiene che egli ormai sopravviva a se stesso in uno stato d’inganno e d’isolamento programmato dal mondo.

Mai, dal 1945 ad oggi, s’era scritto e stampato qualcosa del genere in maniera così visibile e così perentoria su uno dei più importanti e più letti giornali liberali tedeschi.


da - http://www1.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10569


Titolo: ENZO BETTIZA Il ricatto atomico del dittatore
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2013, 06:14:24 pm
Editoriali
04/04/2013

Il ricatto atomico del dittatore

Enzo Bettiza


L’ultima minaccia lanciata ieri sera agli Stati Uniti dalla Corea del Nord apre uno scenario imprevedibile. E dopo il test atomico, esploso con successo a febbraio dai guerrafondai di Pyongyang, il 38° parallelo è diventato più incandescente che mai. La Corea del Nord, che il parallelo separa dalla Corea del Sud, sembra aver deciso di dichiarare una guerra a risvolto nucleare non solo contro i fratelli nemici meridionali, ma proprio anche contro l’America che li arma e li protegge. Lo stravagante dittatore nordcoreano, il terzo Kim della monarchia comunista di Pyongyang, una specie di zombie in giubba maoista emerso dai bassifondi della guerra fredda, avrebbe dato addirittura ai soldati l’ordine di «non sparare il primo colpo» contro le forze sudcoreane e americane dispiegate lungo la frontiera.

 

Una frontiera, a prima vista, pronta all’esplosione. Su di essa preme infatti dal Nord uno dei più grandi eserciti del mondo, mentre centinaia di migliaia di militari si allineano, rafforzati da aerei e navi americane, lungo una striscia larga quattro e lunga 243 chilometri, che dal mar Giallo al mar del Giappone divide la penisola. 

L’ultimo colpo è stato tirato dai generali settentrionali che ieri hanno impedito ai dipendenti sudcoreani l’ingresso alla zona industriale mista di Kaesong, a ridosso del confine rovente, dove lavorano centinaia di operai del Sud e ben 53mila operai del Nord. Tale zona era fra l’altro un simbolo indirizzato ad una possibile riunificazione del Paese, squartato in due da una guerra di oltre mezzo secolo fa, che non è mai riuscita a trovare una pace vera e definitiva. Pyongyang ha fatto sapere che «se il gruppo di traditori di Seul continuerà a parlare della zona di Kaesong come di un fatto contrario alla nostra dignità, allora il distretto verrà irreparabilmente smantellato e chiuso». Anche qui, una delle tante contraddizioni dell’imprevedibile regime comandato oggi da un dittatore, neppure trentenne, che sta alzando la voce per rafforzare agli occhi dei propri sudditi e generali un prestigio personale non sufficientemente consolidato: basterà dire che dalle attività e dai salari di Kaesong fluiscono ogni anno nelle casse nordcoreane milioni e milioni di dollari. Si tratta con ogni evidenza di salari quasi confiscati dal regime.

 

La preoccupazione per un simile comportamento provocatorio sta suscitando reazioni in ogni parte del mondo. La Russia si dice preoccupata. «Non ci tranquillizza affatto una situazione così esplosiva nelle immediate vicinanze dei nostri confini in Estremo Oriente», ha detto il viceministro degli esteri Mogulov. Intanto il ministro della Difesa sudcoreano ha annunciato un piano speciale, che prevede un possibile ricorso alla forza per garantire la sicurezza e l’attività nel complesso industriale. La Francia addirittura non esclude che un tiranno inesperto e imprevedibile come Kim Jong-un possa ricorrere all’utilizzo di armi nucleari contro Seul. Il ministro degli Esteri Laurent Fabius, che si prepara a raggiungere Pechino, ha già fatto sapere che Parigi ha richiesto una riunione d’emergenza del ristretto Consiglio di Sicurezza dove la Cina conta quanto l’America. Appare chiaro che gli occidentali intendono premere, soprattutto sulla Cina, come su una forza autorevole e moderatrice nei confronti della Corea settentrionale. 

 

In una situazione così tesa, così confusa, dai rischi così incalcolabili, molti temono che l’errore umano o un banale disguido tecnico possa scatenare un’improvvisa catastrofe. Anche il segretario di Stato americano John Kerry, definendo gli atteggiamenti di Kim Jong-un «pericolosi e irresponsabili», ha lasciato intendere di contare su Pechino per il raffreddamento delle acque. La Cina, in effetti, è l’unico alleato di peso della Corea del Nord. Ma si tratta di un’alleanza che il comportamento di Pyongyang sta mettendo a dura prova: sui siti Internet cinesi la maggior parte dei commenti all’attuale tensione restano estremamente critici, mentre il confine tra Cina e Corea settentrionale è stato rafforzato da un ulteriore spiegamento militare. Si direbbe che Pechino non escluda la possibilità di un brusco crollo del regime nordcoreano e che tema, quindi, il pericolo di un’alluvione di profughi indesiderati.

 

La cosa più sconcertante del quadro ci rivela l’incredibile impatto e la forza di ricatto di cui sembra disporre un regime fra i più militarizzati e, nello stesso tempo, più poveri del mondo. Carestie omicide hanno falcidiato almeno 3 milioni di persone negli ultimi anni. Ma il regime monarchico-comunista, fondato da Kim Il Sung, nonno di Kim Jong-un, appare nonostante tutto ancora solido e immutabile. Le varie organizzazioni umanitarie, gli aiuti inviati a quelle disagiate popolazioni dalle istituzioni comunitarie d’Europa, finiscono quasi sempre nelle mani dei generali, preoccupati soprattutto della sussistenza alimentare delle loro truppe. 

 

Il ricatto finora ha pagato. E’ col ricatto atomico che Pyongyang è riuscita, paradossalmente, nonostante il livello di miseria in cui versa la società schiavizzata, a mantenere in piedi un esercito gigantesco, a promuovere il rafforzamento delle strutture nucleari e a tessere, di fatto, una strategia da guerra fredda nei confronti del «grande nemico di Seul» protetto dagli Stati Uniti. La perfezione dell’isolamento, con cui la dinastia dei Kim ha trasformato il Nord in una caserma sorda, disinformata, priva di contatti con l’esterno, ha conferito a quel sinistro regime una forza di resistenza e una durata pressoché inverosimili. 

 

Non a caso uno dei Paesi con cui, tramite la complicità nucleare, la Corea dei Kim intrattiene ottimi rapporti è proprio l’Iran, che investe gran parte del suo Pil nella ricerca atomica. La sacralizzazione della tirannide totalitaria dà oramai al regime di Pyongyang una fisionomia truce e senza precedenti di paragone nel mondo contemporaneo. Le sanzioni decretate dall’Onu sono servite a ben poco. Semmai, hanno contribuito a rendere ancora più profonda la povertà di una popolazione già stremata e immiserita da un regime stalinisticamente ispirato a un comunismo di guerra.

da - http://lastampa.it/2013/04/04/cultura/opinioni/editoriali/il-ricatto-atomico-del-dittatore-0P97uctsTCZF7ExQZd3LtO/pagina.html


Titolo: ENZO BETTIZA Gli inutili moniti al Cremlino
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2014, 08:10:55 am
Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 22/02/2014.
Gli inutili moniti al Cremlino

La tetra atmosfera da guerra civile che dopo i massacri grava sull’Ucraina, in particolare su Kiev dove i morti salgono ormai a centinaia, segnala agli europei l’ultima implosione del mondo slavo. 

L’ultima, cioè, dopo quella che negli Anni Novanta del secolo scorso travolse, frantumò e distrusse la rabbiosa Jugoslavia post-titoista. 

Definire l’Ucraina attuale non è facile. Molti se la cavano bollandola correntemente e, aggiungerei, corrivamente come «l’inferno di Putin». Già dal suo nome, che potremmo tradurre come «luogo di confine», sembrano emergere elementi assai complicati e intersecati fra loro: eccentricità geografica, dualità plurietnica e, in definitiva, ambiguità storica di una terra sfuggente e di un popolo centrifugo che racchiude in sé più di una identità. Tutto, qui, è fisiologicamente duplice, talora perfino triplice: vi si parla certo l’ucraino, ma in abbondanza anche il russo e, ai margini occidentali, anche il polacco o quello che una volta si definiva chissà perché «ruteno», una sorta di misteriosa lingua franca dei Carpazi. Questa molteplicità idiomatica e ovviamente etnica era stata, nei secoli, uno dei principali strumenti che doveva facilitare l’espansione territoriale e culturale del Granducato di Kiev soprattutto a oriente, verso la Russia. Si sarebbe portati a dire, paradossalmente, che senza l’Ucraina non vi sarebbe stata nemmeno la Russia.

Dunque, una di quelle nazioni generose destinate dalla storia a spargere semi tutto all’intorno: a spogliarsi delle proprie vesti arricchendo quelle altrui, a fondare nuove nazioni per diluirsi e specchiarvisi come in una infinita galleria di specchi. Qualcosa di simile, se vogliamo, capitava all’antica Grecia quando i suoi navigatori e mercanti creavano colonie, empori, porti d’appoggio e sbarchi di traffico lungo le cose del Mediterraneo e del Mar Nero. L’Ucraina, soprattutto quelle mobilissima e rinascimentale del Granducato kieviano, era stata alla sua maniera una specie di Grecia continentale per i Paesi baltici e orientali dell’Europa più nascosta. Ma è stata anche, dopo il Seicento, un tormentato lacerto di frontiera insanguinato da guerre, da brigantaggio cronico, da faide d’etnia e di religione: insomma un tipico territorio di sconto, o d’incontro burrascoso, tra Occidente e Oriente.

Oggi l’Ucraina sembra riaffondare nell’atmosfera dei suoi secoli più bui, diciamo più eurasiatici che europei. Mentre vediamo insorgere una folla alquanto numerosa, che vorrebbe più Europa e meno Putin e Yanukovich, scorgiamo altresì fra le quinte dei tumulti le ombre agitate di gruppi e gruppuscoli armati e di varia provenienza: schiera al soldo di Mosca, milizie nazionalpatriottiche, milizie armate di estrema destra e, per dirla all’ingrosso, chi più ne ha più ne metta. Yanukovich ora dà la sensazione di volersi tirare indietro. Forse sta paventando che il giocatore Putin, non sapendo bene quale asso tirare fuori dalla manica, possa abbandonarlo da un istante all’altro cambiando tavolo e rimescolando un nuovo mazzo di carte. Il caos, l’opacità, l’incertezza, purtroppo già causa di troppe vittime, sembrano prevalere anche in questo momento di tregua. Tregua apparente? Per ora sì: piuttosto apparente.

 

Non si intravede, al di là del fragile armistizio odierno, il traguardo di ricomposizione finale di una situazione ancora incontrollabile e difficilmente governabile. Non riusciamo a scorgere, con la necessaria chiarezza, il binario salvifico attraverso cui questa grande nazione europea potrebbe alfine sottrarsi al caos che l’ha sommersa e che minaccia di estinguerla. Speriamo che l’incerta Unione Europea possa allungare almeno una mano verso Kiev, al di là della linea della vecchia cortile di ferro che Putin, forse, vorrebbe ripristinare in forma rinnovate fra l’Europa dell’Est e dell’Ovest. Insomma. Almeno un cenno chiaro venga da Bruxelles, da Parigi o da Berlino, per citare quelli che contano ancora qualcosa in Europa: un cenno, se non altro di buona volontà, indirizzato ai patrioti nazionali di un antico Paese dell’Est che da anni aspetta invano l’arrivo di Godot.

Putin, in genere, parla, si muove e fa quel che deve fare. Monsieur Hollande e Frau Merkel danno invece l’impressione di parlare soltanto, di parlare senza muoversi, soprattutto quando indirizzano da lontano un vago e infruttuoso monito all’indirizzo del Cremlino.

Enzo Bettiza

Da - http://www.lastampa.it/2014/02/22/cultura/opinioni/editoriali/gli-inutili-moniti-al-cremlino-CyWHsffMZxXmY9pZH1JPGN/premium.html


Titolo: ENZO BETTIZA La parola Crimea evoca subito la parola guerra.
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2014, 11:35:38 am
Editoriali

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 28/02/2014.

Dai soldati di Cavour a Jalta Qui si intrecciano i destini del mondo
La Crimea terra in cui si decidevano, e si decidono ancora i destini dei popoli

La parola Crimea evoca subito la parola guerra. Il pensiero corre al conflitto che dal 1853 al ’56 vide la Russia scontrarsi con un malandato impero ottomano, sostenuto a fatica dalla Francia e dalla Gran Bretagna, al cui fianco il conte di Cavour aveva inviato un corpo di spedizione piemontese di quindicimila soldati al comando del generale La Marmora.  

Perno e simbolo dello scontro fu il lungo assedio di Sebastopoli, durato tre anni e descritto con toni ora mesti ora trionfali da Tolstoj in uno dei suoi più noti racconti. La guerra mietè un numero altissimo di vittime: almeno 250 mila furono i morti sui due fronti, dovuti anche al colera.

Quasi più isola che penisola del Mar Nero, con Sebastopoli caposaldo meridionale della flotta russa, la Crimea doveva diventare il campo di battaglia e l’oggetto di una trattativa di pace destinati a mutare il volto storico e politico dell’Europa ottocentesca. Quella guerra vide il decadente impero ottomano, sostenuto con straordinaria energia dagli anglo-francesi, impegnarsi in uno sforzo estremo di contenimento del proprio declino. Per le forze franco-britanniche che inflissero alla Russia il crollo di Sebastopoli fu un trionfo memorabile; ma per l’impero della Sublime Porta non fu altro che una vantaggiosa sosta militare lungo il suo inarrestabile tramonto. Per Cavour e il suo piccolo Stato l’occasione invece per sedersi al tavolo dei Grandi da vincitore.

Terra in cui si decidevano, e si decidono ancora i destini dei popoli, la Crimea evoca anche la Conferenza di Jalta che vide riuniti, mentre Hitler volgeva alla fine, uno Stalin trionfale, un Churchill gran mediatore e un Roosevelt vicinissimo alla morte. Quell’incontro fatale avrebbe marcato la spartizione dell’Europa postbellica in contrapposte sfere di influenza: fu proprio Jalta a segnare il preludio della guerra fredda, quindi la lacerazione del nostro continente e la nascita della cortina di ferro. Un’aureola tetra da allora la circonda. Fu a Jalta che Palmiro Togliatti morì durante una breve vacanza dopo la sua ultima missione a Mosca, lasciando un enigmatico «memoriale» che ha segnato per anni il dibattito interno al Pci.  

Enzo Bettiza

Da - http://lastampa.it/2014/02/28/cultura/opinioni/editoriali/dai-soldati-di-cavour-a-jalta-qui-si-intrecciano-i-destini-del-mondo-cKw9KrM5BaaB9P1G2qcyOI/premium.html


Titolo: ENZO BETTIZA Così torna di moda la sovranità limitata
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2014, 05:54:20 pm
Editoriali
07/03/2014

Così torna di moda la sovranità limitata

Enzo Bettiza

Sembra tornare di moda l’anacronistico termine brezneviano di «sovranità limitata» già destinato a marcare, alla sua epoca, il perimetro di dipendenza da Mosca dei Paesi europei detti satelliti.

Era quella, nelle regioni oscure dietro il Muro ancora in piedi, un’epoca militarizzata, asfissiante, a tratti spietata come dovevano dimostrare le crisi tragiche di Budapest e di Praga.

Conosciamo quel brutto passato. Rammentiamo che sulle questioni di fondo, potere e comando, la Mosca comunista di allora non tollerava scherzi né a Praga, né a Budapest, e neppure a Varsavia. Ma che dire dei comportamenti e dei gradi di tolleranza riservati, oggi, dalla più disordinata e disinibita Mosca capitalista nelle sue relazioni con gli ex satelliti? Ecco. Si direbbe che, cambiati in senso democratico soprattutto i metodi del rapporto, non si sia però interrotta mai una certa continuità fisiologica, ancorché sommersa, fra il comunismo di potere d’una volta e il confuso postcomunismo neocapitalismo odierno. Lo Stato guida non c’è più. Non c’è soprattutto a parole. E’ fortemente diminuita, o resa meno visibile e meno sensibile, la sua infiltrazione poliziesca nelle amministrazioni dei Paesi ex satelliti. La Russia postcomunista dà spesso l’impressione, in parvenza non secondaria, di essere mutata nei gesti e nei moniti, divenuti consigli e bisbìgli, verso gli ex satelliti. 

Le mosse e le parole ambigue di Putin da un lato, la declamata e ostentata autonomia dell’Ucraina dall’altro, conferiscono qualche tinta non del tutto fosca al quadro d’insieme. Ma il punto è qui. Fin dove è possibile credere, dopo la fuga da Kiev dell’ex presidente ucraino, un servo disprezzato di Putin, che esista davvero la possibile rinascita di una Ucraina rappresentata da Julia Timoshenko? La quale, pur seguitando a parlare con la solita decisione, è apparsa fisicamente stanca, prostrata e come rassegnata dopo la prolungata prigionia. 

A questo punto, le domande realistiche che possiamo ancora azzardare non sembrano concedere molto spazio alle illusioni. Esiste davvero la possibilità o almeno la probabilità di un’alzata di testa contro la Russia di un’Ucraina, fra l’altro, intensamente popolata di russofoni inquieti e incolleriti? Come sorvolare poi sul fatto che la Russia postcomunista è lungi dal rassegnarsi a subire una vicinanza paritaria con repubbliche emerse indipendenti e alquanto esigenti dal crollo dell’Unione Sovietica? Come esimersi dal constatare che la Russia continua a considerare queste repubbliche, di cui l’Ucraina è la maggiore, un semplice prolungamento geografico, ma non geopolitico, della propria estensione matriarcale? Si direbbe quasi che la vecchia Urss sia divenuta la nuova Russia solo nei rapporti politici ed economici con l’Europa occidentale e con l’America; ma che nei suoi contatti con i Paesi ex sovietici essa sia rimasta sempre e soltanto l’Urss dei tempi ruggenti.

 
Si direbbe che, per la grande Russia, la prossima Bielorussia e i Paesi baltici quasi non esistano. Si direbbe infine che la cospicua Ucraina esista più che altro come un ingombro fastidioso, magari utilizzabile quale richiamo per aiuti materiali e miliardi di dollari da Washington e da Bruxelles. E’ questa la sostanza di una situazione in bilico permanente fra un europeismo velleitario e quello che, con un termine non troppo gradevole, potremmo definire come avventurismo «putiniano». 

Putiniano s’intende da Putin. Il nome dell’ormai quasi intramontabile presidente russo è diventato, per molti, sinonimo di qualcosa d’ambiguo, di inafferrabile e, al tempo stesso, quasi di perenne. Continuità o discontinuità dal sovietismo di vecchia memoria? Direi, paradossalmente, l’una e l’altra: continuità e discontinuità parallele. In definitiva Putin non ha incarnato, anzi non ha mai voluto incarnare la rottura, la scissura netta, il salto morfologico dal comunismo al postcomunismo. Ormai da anni, troppi anni, ha continuato a incarnare nella persona bifida, nelle parole duplici, nelle belle pose mediatiche di interlocutore e di ammonitore, un bicontinente eurasiatico che noi, al contrario di lui, stentiamo ad afferrare in tutta la paurosa e mutevole vastità del suo passato e del suo futuro.

Da - http://lastampa.it/2014/03/07/cultura/opinioni/editoriali/cos-torna-di-moda-la-sovranit-limitata-UL2flyD23liDtoAPE3oPEI/pagina.html


Titolo: ENZO BETTIZA Giovanni Paolo II Il pontefice venuto dal freddo che demolì il muro
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2014, 06:14:29 pm
Cronache

27/04/2014 - Giovanni Paolo II Il pontefice venuto dal freddo che demolì il muro tra Est e Ovest
Non si arrese mai ai totalitarismi e ai nichilismi del XX secolo

Enzo Bettiza

La santificazione di oggi evocherà insieme la presenza terrestre e la sacra testimonianza della eccezionale figura pontificale di Karol Wojtyla. L’evento avrà indubbiamente un peso religioso di grande portata per i cristiani credenti. Tuttavia, una buona parte anche di non credenti, polacchi ed europei, ma altresì americani, non potrà che inchinarsi evocando l’incisività storica, non solo teologica, del grande papa polacco che per 27 anni ha guidato con rara potenza di polso e di pensiero la Chiesa e le comunità cristiane sia d’Oriente che d’Occidente. 

Per molti aspetti, anche autobiografici, egli fu tutt’altro che un papa banalmente “buono”; fu anzi un papa piuttosto duro: un maestro di fede, custode e dispensatore severo del culto cristiano, venuto dal freddo senza arrendersi o rassegnarsi mai alla sopraffazione degli “ismi” totalitari e nichilisti del XX secolo. 

Nessuna delle sirene d’epoca riuscì mai a incantarlo o ingannarlo. Da giovane prete patriota sprezzò il nazionalsocialismo tedesco, da cardinale in Polonia non cedette un palmo di terreno al comunismo, e infine da papa condannò con le sue encicliche le malversazioni e i paradisi perduti, falsificati o falsificanti, del capitalismo selvaggio. Nei giorni in cui i porporati si accingevano ad elevarlo al vertice della Santa Sede, i dirigenti comunisti russi e filorussi, conoscendone la tempra d’acciaio, s’inquietavano domandandosi preoccupati: cosa succederà in Polonia e negli altri Paesi dell’Europa centrorientale se non riusciremo a mettergli il bavaglio? Decisero perciò di calarlo anzitempo nella tomba affidando l’attentato alle mani di un funesto quanto maldestro estremista fascistoide turco. L’attentato si compì; però riuscì solo a metà, ferendo il papa senza ucciderlo; si riprodusse allora l’enigmatico paradosso di una solidale e alquanto anomala complicità tra il papa, vittima scampata, e il carnefice mancato. Quasi un classico da romanzo a tesi, un po’ dostoevskiano e un po’ conradiano. 

Di Wojtyla, oggi prepotentemente più vivo che mai, meno defunto che mai, si dovrebbe parlare come di un santo ancor sempre presente tra noi: un santo non sotterrato, appena scalfito dall’ombra di un decesso fisico tanto tormentato quanto glorioso. Qualcosa di misterioso, forse di sacro, ci costringe quasi a pensarlo e a nominarlo con verbi fissati al tempo presente e non dispersi nel passato remoto. Qui, per sceverare i paradossi che convivevano e convivono nella personalità di Wojtyla, bisognerebbe per modo di dire contarli, dispiegarli e sottrarli alla fuga verso il finito o, meglio, l’infinito di una morte che non muore perché beatificata dalla sacra famiglia che per lui era ed è la Chiesa. Bisognerebbe bloccarli, quei paradossi, simili a fulmini dispersi nei mobilissimi cieli di un Michelangelo trionfale e un po’ sinistro: bisognerebbe squarciarli, dispiegarli, decrittarli senza però distruggerne l’ultimo e nascosto senso esistenziale. Qui il mistero di chiama Wojtyla, Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II. Un santo, che in un certo senso sembra accettare con un sorriso leggero il cilicio della sua pesante santità.

DA - http://lastampa.it/2014/04/27/italia/cronache/il-pontefice-venuto-dal-freddo-che-demol-il-muro-tra-est-e-ovest-czXlTbtRwzbo7erPDgMHQO/pagina.html