LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => L'ITALIA DEMOCRATICA e INDIPENDENTE è in PERICOLO. => Discussione aperta da: Admin - Giugno 15, 2007, 12:09:46 am



Titolo: MAFIA - MAFIE - CORRUZIONE
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2007, 12:09:46 am
Ma la mafia va intercettata

Gian Carlo Caselli


Legislazione d´emergenza! Decine di volte questo marchio negativo (con conseguente rigetto o presa di distanza) è stato appioppato ad interventi in tema di antiterrorismo o antimafia. Perché erano interventi del «giorno dopo», dopo che si era verificato un qualche fattaccio che costringeva ad intervenire: non in maniera meditata - si sosteneva - ma d´urgenza. E via a storcere il naso. Oggi, mi sembra ispirata alla stessa logica emergenziale la progettata riforma in tema di intercettazioni.

Ci si muove, o si accelera il movimento, soltanto il giorno dopo rispetto a qualche scandalo, fuga di notizie, polemica, strumentalizzazione. Ma questa volta non si tratta di reagire ad attentati terroristici o mafiosi. Più semplicemente, è in gioco la preoccupazione (comprensibilmente maggiore in chi più conta o più ha da perdere) di non essere indebitamente sbattuti in prima pagina. Richiamo questo profilo non per negare l´opportunità di una qualche riforma - compito del legislatore - ma per rimarcare quanto sia contraddittorio sventolare il cartellino rosso dell´emergenza solo in alcuni casi e non in altri.

Com´è noto, il 17 aprile scorso la Camera dei deputati ha approvato praticamente all´unanimità (nessun voto contrario e 7 astenuti) il ddl Mastella che rivoluziona la disciplina delle intercettazioni. La nuova legge è ora al Senato per la definitiva approvazione. Per l´impianto complessivo e per ciascuno dei molti articoli del ddl si possono formulare un´infinità di osservazioni. Mi limito, in questa sede, a due rilievi. Il primo in parte positivo (ma con forti riserve). Il secondo decisamente critico.

Va segnalata, innanzitutto, la nuova disciplina in materia di gestione degli atti relativi alle intercettazioni. Essa prevede che siano depositate (ciò che le rende non più segrete) esclusivamente le intercettazioni che si dimostrano, con provvedimenti motivati, rilevanti per il processo. Le altre conversazioni (non rilevanti o di per se stesse inutilizzabili) devono essere custodite in un «archivio riservato»: restano quindi segrete e sono destinate alla distruzione. Nello stesso tempo è vietata la trascrizione di ogni circostanza o fatto estraneo alle indagini. Devono comunque essere espunti i nomi dei soggetti estranei all´inchiesta.

Sono così fissati dei paletti rigorosi, che soddisfano l´esigenza di utilizzare lo strumento delle intercettazioni (irrinunciabile per i più gravi reati) senza oltrepassare la soglia di quanto è strettamente necessario per accertare la verità, cioè la colpevolezza o l´innocenza degli indagati.

A fronte di questi robusti paletti, risulta eccessivo il divieto - previsto dalla nuova legge - di pubblicare il contenuto delle intercettazioni, anche quando non siano più coperte dal segreto, fino alla conclusione delle indagini o addirittura (se si apre il dibattimento) fino alla sentenza di appello. Viene ad essere eccessivamente compresso, infatti, il diritto dei media di informare e dei cittadini di essere informati su vicende di interesse pubblico (oltre che sul funzionamento della giustizia), privilegiando oltre misura il pur importante diritto alla riservatezza. Il tutto sigillato con la previsione ( in caso di pubblicazione arbitraria) di sanzioni pesanti, in particolare l´ ammenda fino a centomila euro: una somma che poche testate potrebbero reggere, con possibili gravi ricadute sull´effettività del pluralismo dell´informazione.

L´altro rilievo, decisamente negativo, riguarda la durata delle intercettazioni( 90 giorni per quelle telefoniche; 45 per le ambientali) e la disciplina delle proroghe. Non si capisce, per cominciare, perché mai debbano durare di meno proprio le ambientali, soprattutto se si considera che sono quelle tipiche dei processi di mafia, dove le indagini sono sempre di speciale o eccezionale complessità. C´è poi il fatto che è sì possibile prorogare l´intercettazione oltre i 90 o 45 giorni, ma soltanto se sono emersi nuovi elementi investigativi.

Ancora con riferimento specifico ai processi di mafia, l´esperienza insegna che le organizzazioni criminali ragionano con tempi lunghi, non hanno quasi mai fretta.

Gli inquirenti perciò devono armarsi di tenacia e pazienza. Se concrete e precise risultanze probatorie (per esempio le rivelazioni di un pentito attendibile e «riscontrato») portano a ritenere «sensibile» un certo luogo, perché vi sono state ed è ben probabile che vi si ripetano attività di sicuro interesse per le indagini, gli inquirenti cercheranno di piazzare «una cimice» in quel luogo (di pertinenza di un boss o di persone a lui strettamente legate: perciò, piazzarvi una «cimice» significa affrontare enormi rischi e superare sempre difficoltà estreme, di assoluta evidenza).

Se poi ci riescono, gli inquirenti devono rimanere in ascolto h 24. Per giorni, magari per mesi e mesi, le conversazioni possono essere insignificanti, finchè non arriva l´interlocutore giusto o il momento buono. Un fatto nuovo, un imprevisto, una visita, una riunione d´affari o un summit (non è che i mafiosi ne tengano uno alla settimana...), qualcosa che induce i presenti a «sbottonarsi» nei loro colloqui.

Ma se ciò non accade nei primi giorni, stop, più niente da fare. Le «cimici» piazzate con tanta fatica, scavalcando pericoli micidiali, diventano inutili. E anche la più promettente pista d´indagine - ancora capace di «produrre» risultati - deve essere abbandonata, chiusa. Francamente, una mannaia irragionevole. Un lusso che non possiamo concederci. Meno che mai nella lotta alla mafia.

Pubblicato il: 14.06.07
Modificato il: 14.06.07 alle ore 14.40  
© l'Unità.


Titolo: Orlando: "257 urne manomesse"
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2007, 12:15:10 am
POLITICA

Il candidato sconfitto nella corsa a sindaco di Palermo continua a lanciare pesanti accuse

E annuncia di avere anche scritto lettere a Napolitano, Prodi, Amato e Mastella

Orlando: "257 urne manomesse"

Consegnato un dossier alla Digos

 

PALERMO - Ancora una volta, Leoluca Orlando - sconfitto nella corsa a sindaco dal suo avversario Diego Cammarata - lancia pesanti accuse, sulle elezioni per il comune di Palermo. In un comunicato diffuso dal suo ufficio stampa, si sostiene che "257 urne elettorali (pari a quasi la metà degli elettori) contenenti le schede per le elezioni del Sindaco di Palermo sono state sostituite o manomesse durante o subito prima dello scrutinio avvenuto il 14 maggio".

"Lo staff di Leoluca Orlando - prosegue la nota - consegnerà oggi alla Digos e domattina alla Procura della Repubblica le prove di tale fatto, chiedendo l'immediato sequestro di tutto il materiale elettorale compresi verbali e schede relative alle 257 sezioni in cui i fatti si sono verificati".

Ieri una decina di candidati alla carica di consiglieri del centrosinistra aveva annunciato di avere scritto una lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al presidente del Consiglio Romano Prodi e ai ministri dell'Interno, Giuliano Amato e della Giustizia, Clemente Mastella, denunciando presunte irregolarità.

In una conferenza stampa i promotori dell'iniziativa avevano sostenuto che su seicento verbali delle sezioni elettorali, depositati nell'apposito ufficio del comune, "solo cinquanta possono considerarsi formalmente e totalmente regolari".

(14 giugno 2007) 

da repubblica.it


Titolo: E i capi mafia dissero "L'indulto ci rovina"
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2007, 04:18:49 pm
CRONACA

Cosa Nostra contraria al provvedimento di clemenza: la scarcerazione di decine e decine di cani sciolti era vista con preoccupazione

E i capi mafia dissero "L'indulto ci rovina"

di FRANCESCO VIVIANO


PALERMO - Anche Cosa nostra era contraria all'indulto. La scarcerazione di decine e decine di cani sciolti che hanno beneficiato dell'indulto mettendosi subito all'opera compiendo furti, rapine, scippi e tentando anche di soppiantare alcuni boss in carcere per incassare il pizzo da commercianti ed imprenditori, avrebbe provocato la reazione dei boss della mafia che avevano stilato una lista di "scappati di casa" (picciotti senza regole) che dovevano essere ammazzati. Per questa ragione, per evitare un bagno di sangue, la Procura di Palermo d'intesa con i carabinieri del comando provinciale ha deciso di agire in fretta fermando nove tra boss e mafiosi rampanti che avevano difficoltà a gestire i loro mandamenti.

Furti, scippi, rapine, "troppa confusione" in giro, a Palermo ma anche in provincia. E questo a Cosa nostra, ai boss che ancora erano in libertà, non andava per niente bene. Bisognava mettere "ordine" e soprattutto insegnare a questi "scappati di casa" l'educazione.

Gli investigatori sono giunti all'identificazione dei nove arrestati e dei loro progetti sanguinari attraverso la decifrazione dei pizzini di Provenzano, trovati nel covo di Montagna dei Cavalli al momento del suo arresto, l'11 aprile del 2006. Per parlare dei suoi interlocutori, Provenzano utilizzava un codice nascosto tra le frasi della Bibbia. Sigle che apparentemente indicavano autori del Vecchio e del Nuovo Testamento, mentre in realtà nascondevano l'identità di boss e picciotti.

Quando quel codice è stato decrittato, i carabinieri hanno messo sotto controllo abitazioni, automobili, telefoni fissi e cellulari dei componenti della cosca. Dall'ascolto di quelle conversazioni è emerso il quadro inquietante che ha indotto gli investigatori a non perdere altro tempo ed arrestare i nove boss e picciotti. "Il problema dei ladri c'è stato sempre, non solo qua, in tutte le parti. Ora con quest'indulto che hanno dato... siamo rovinati. A Palermo c'è una situazione: farmacie, supermercati che non dormono tranquilli. Ma che scherziamo! È andata a finire a bordello".

A parlare, non sapendo di essere intercettati, erano Giuseppe Libreri e Giuseppe Bisesi, infastiditi da una serie di furti nel territorio controllato dalla loro famiglia.

I due si lamentavano del fatto che, dopo l'indulto, i piccoli pregiudicati erano usciti dal carcere e le attività commerciali erano continuamente bersagliate dai furti. Proprio per "far fronte" all'emergenza microcriminalità la cosca di Termini Imerese, capeggiata da Bisesi, aveva deciso di eliminare alcuni giovani ladri che rubavano senza l'autorizzazione della mafia. "La testa ci si deve scippare (strappare, ndr). Così, dice, diamo il segnale per tutti! È la soluzione giusta! Ci sono questi scappati di casa e gli si deve rompere le corna, punto e basta!".

(24 giugno 2007) 
da repubblica.it


Titolo: Previti, l'incapacità di decidere
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2007, 07:00:28 pm
5/7/2007
 
Previti, l'incapacità di decidere
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
Ieri La Stampa ha pubblicato, in un breve trafiletto, una notizia di cronaca apparentemente marginale, sulla quale è invece opportuno riflettere con attenzione. Qualche giorno fa il comico Beppe Grillo aveva accusato (sul suo blog) il presidente della Camera di non fare nulla per espellere dalla Camera l'on. Previti, nei cui confronti è stata pronunciata una sentenza definitiva di condanna penale che comporta, per la sua tipologia e la sua gravità, l'interdizione dai pubblici uffici e pertanto la decadenza dal mandato parlamentare.

Bertinotti ha risposto che «la Camera dei Deputati non è organizzata come una monarchia assoluta ma secondo il modello dello stato di diritto» e che «la questione dell'ineleggibilità e della decadenza è regolata dalla legge, e non è il presidente a decidere», ed ha soggiunto che «nei confronti di Previti è, comunque, aperto un procedimento, e sarà l'aula a decidere».

Questa risposta, formalmente, è ineccepibile. Peccato, però, che eluda i termini reali della questione che Grillo intendeva, evidentemente, sollevare con la sua accusa un po' provocatoria di inerzia presidenziale. Perché è vero che il presidente della Camera poco o nulla può fare, specificamente, contro le lungaggini della Commissione parlamentare che sta occupandosi del caso Previti. Ma è altrettanto vero che, stato di diritto alla mano, se le regole devono essere rispettate, devono essere rispettate a trecentosessanta gradi.

Non si comprende infatti per quale ragione, ad oltre un anno di distanza dalla pronuncia giudiziale che ha sancito l'interdizione dalla funzione pubblica, il Parlamento non si sia ancora pronunciato sulla decadenza. Consentendo che un parlamentare, che secondo le regole stabilite dalla legge penale avrebbe già dovuto abbandonare da tempo il suo incarico, continui invece, imperterrito, a ricoprirlo. Capisco quanto il caso Previti sia complesso, quanto le garanzie difensive debbano essere salvaguardate e quanto la competente Commissione parlamentare, presieduta da un deputato di Forza Italia, possa avere trovato intoppi nel procedere con speditezza nel suo lavoro. Sono d'altronde convinto che più d'un parlamentare, regolamenti alla mano, a questo punto mi spiegherà che la trattazione della pratica è comunque proceduta nel rispetto della legalità e dell'efficienza. Per carità, avrà senz'altro ragione. Ciò non toglie che a noi cittadini comuni riesca un po' difficile apprezzare che una questione così delicata, ma nello stesso tempo così urgente, come la decadenza di un parlamentare condannato, impieghi tanto tempo ad essere risolta. Se esiste una norma penale che stabilisce l'interdizione dai pubblici uffici per chi è condannato per determinati reati, logica vorrebbe che si decidesse in fretta, evitando la protrazione abnorme di una situazione d'incertezza sulla condizione soggettiva del parlamentare sottoposto a procedura di decadenza.

E' pertanto comprensibile che Grillo non sia stato soddisfatto dalla risposta un po' pilatesca di Bertinotti ed abbia reagito a muso duro, scrivendo nel suo blog che, se nessuna autorità è in grado d'impedire che chi non ne ha più diritto continui ad essere deputato, «allora, caro Fausto, le istituzioni hanno fallito». Si potrebbe soggiungere: ma allora, caro presidente, perché, per il rispetto sostanziale di quel principio di legalità al quale lei stesso fa riferimento nella sua risposta a Grillo, invece di limitarsi a menzionare le regole esistenti non si attiva per modificare i regolamenti e le prassi che consentono indebite lungaggini nell'istruttoria di pratiche come quella che concerne il condannato Previti? Se lo facesse, rafforzerebbe lo stato di diritto ed eviterebbe incomprensioni della gente nei confronti del lavoro del Parlamento e del funzionamento delle istituzioni.

Nella storia repubblicana del nostro Paese vi sono stati, sicuramente, periodi più difficili di quello che stiamo vivendo. Guerra fredda, terrorismo, servizi deviati, depistaggi, stragi, spionaggi, corruzione. Oggi c'è tuttavia un tarlo che corrode. La perdita di fiducia diffusa della gente nei confronti della politica e delle istituzioni. Il rifiuto. Il distacco. La noia per le solite facce, i soliti riti, i soliti discorsi. La rabbia nei confronti della casta e dei suoi privilegi veri o presunti. L'irrisione per l'incapacità di decidere. L'antipolitica che avanza. Se non si disinnesca la rabbia, se non si supera il rifiuto, se non si colma il distacco, le conseguenze potrebbero essere a loro volta esiziali.

Ecco perché, nel piccolo episodio di cronaca dal quale si è tratto spunto per queste brevi riflessioni, la politica, ancora una volta, sembra mostrare di non essersi accorta di ciò che sta accadendo. Grillo, ideologicamente impegnato, intelligente e giustamente irridente come si conviene ai comici, facendo riferimento ad un'ipotesi emblematica di ritardo peloso nell'espletamento di un'incombenza parlamentare chiede al presidente della Camera: ma che cosa aspetti ad intervenire? Il presidente, eludendo il problema, risponde: rispetto le regole date dello stato di diritto. Molta gente, ho l'impressione, a questo punto continuerà a pensare che la politica costituisce davvero una casa separata e avrà un po' di fiducia in meno nell'istituzione parlamentare.
 
da lastampa.it


Titolo: Vincenzo Vasile. Rostagno, il silenzio vent’anni dopo
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2007, 11:16:21 am
19/7/2007

Paolo Borsellino: il ricordo a quindici anni dalla strage
 

La giornata a Palermo si snoderà tra manifestazioni, spettacoli, dibattiti, messe e commemorazioni e vedrà la partecipazione del presidente del Senato Franco Marini

PALERMO
Oggi è il giorno della memoria nel ricordo di Paolo Borsellino, procuratore aggiunto a Palermo, e degli agenti della polizia di Stato che gli facevano da scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cusina, Claudio Traina e Vincenzo Limuli, massacrati nella strage di via Mariano D’Amelio il 19 luglio 1992 e di cui quest’anno ricorre il quindicesimo anniversario.

La giornata a Palermo si snoderà tra manifestazioni, spettacoli, dibattiti, messe e commemorazioni e vedrà la partecipazione del presidente del Senato Franco Marini, del leader di An Gianfranco Fini, del sindaco di Roma Walter Veltroni e del governatore della Puglia Nichi Vendola. Ma il magistrato sarà ricordato con diverse cerimonie in tutta la Sicilia e anche in altre città d’ Italia.


Marini alle 10,30 circa, appena giunto in città, deporrà una corona d’alloro sul cippo che ricorda la strage in via D’Amelio davanti l’abitazione della madre del magistrato dove lui si stava recando quando è stato fatto brillare l’ esplosivo che lo ha ucciso. I magistrati ricorderanno il loro collega nell’aula magna del palazzo di Giustizia, alle 11, ma molti altri saranno i momenti di ricordo che culmineranno in serata con la fiaccolata organizzata da Azione giovani cui parteciperà anche Fini.


Questo anniversario è segnato dalle notizie sulla continuazione dell’inchiesta nissena sui mandanti occulti della strage e dall’accorato appello del fratello di Borsellino, Salvatore, che chiede risposte alle tante domande sulla strage che presenta tuttora lati oscuri.

da lastampa.it


Titolo: Rifiuti, Bassolino verso il processo
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2007, 10:54:51 pm
Il Riesame conferma il sequestro dei crediti Impregilo.

Il capo dei pm: una nostra vittoria, pronti a presentare le conclusioni

Rifiuti, Bassolino verso il processo

Dario del Porto


L´inchiesta sul ciclo dei rifiuti verso l´udienza preliminare. Fra meno di una settimana, la Procura di Napoli presenterà la richieste di rinvio a giudizio o di archiviazione nei confronti dei 29 protagonisti dell´indagine che coinvolge, fra gli altri, anche il presidente della Regione Antonio Bassolino. La decisione, sottolinea il procuratore capo Giandomenico Lepore, arriverà «prima dell´inizio del mese di agosto».

A spianare la strada verso le conclusioni è giunta ieri l´ordinanza con la quale il tribunale del Riesame (presidente Anna Grillo) ha respinto il ricorso presentato dai legali di Impregilo, Fibe, Fibe Campania e Fisia Italmpianti contro il sequestro di crediti per oltre 700 milioni di euro che era stato disposto il 28 giugno scorso dal giudice Rosanna Saraceno nell´ambito del filone dell´indagine sulle società. Impregilo, che ieri ha dovuto sopportare un calo del 3,5 per cento in Borsa, ha già annunciato ricorso per Cassazione. «Purtroppo, e non per colpa loro, i giudici hanno avuto poco tempo per pronunciarsi, ma sono le regole del gioco», commenta il difensore di Impregilo, l´avvocato Alfonso Maria Stile. Il gruppo ha cambiato compagine societaria e management rispetto al periodo sotto inchiesta. Nei giorni scorsi è stato nominato presidente di Fibe l´ex prefetto di Milano Bruno Ferrante ed è stata impugnata al Riesame anche l´ordinanza del gip Saraceno che vieta per un anno alle aziende di contrattare con la pubblica amministrazione in materia di rifiuti.
Per adesso però sul tavolo resta un nuovo punto a favore dell´accusa.

Al centro dell´inchiesta condotta dai pm Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo c´è l´appalto sul ciclo di smaltimento dei rifiuti conferito all´associazione temporanea d´imprese del gruppo Impregilo e risolto per legge il 30 novembre 2005. Un accordo che, è l´ipotesi dei pm, «le società affidatarie sapevano già di non poter rispettare». Secondo i magistrati l´illecito amministrativo contestato alle aziende trova il suo presupposto nella truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato contestata ad alcuni degli indagati: fra questi, Bassolino, che entra nell´inchiesta per il periodo trascorso alla guida del commissariato straordinario per l´emergenza rifiuti, l´ex vicecommissario Raffaele Vanoli, l´ex amministratore delegato di Impregilo Piergiorgio Romiti e l´ex amministratore delegato di Fibe, Armando Cattaneo.

L´ordinanza del gip Saraceno contiene giudizi severi sulla gestione Bassolino del commissariato straordinario. Si parla ad esempio di «sostanziale inerzia della struttura». Rilievi che il governatore ha sin qui sempre respinto, affermando di non aver ricevuto alcun tornaconto dalle condotte che gli vengono contestate. Il quadro attuale del procedimento fa però della richiesta di rinvio a giudizio l´ipotesi (al momento) più probabile per la maggior parte degli indagati.

Spiega il procuratore Lepore: «L´ordinanza del Riesame rappresenta una vittoria della Procura, è una nuova conferma dopo quella che avevamo ottenuto davanti al gip. Questo vuol dire che la linea tracciata dalla nostra indagine era giusta. Adesso andremo avanti». Il capo dei pm assicura che le valutazioni sul capitolo investigativo che riguarda le persone fisiche «non erano condizionate dall´esito dell´udienza davanti al Riesame.

Si tratta di un filone che ha vita autonoma, sul quale questo appuntamento aveva un´influenza relativa». A determinare un rinvio delle conclusioni (l´avviso di chiusura delle indagini era stato recapitato agli indagati dieci mesi fa, il 7 settembre scorso) sono state prevalentemente, spiega Lepore, «questioni di carattere tecnico. Ora potremo accelerare i tempi, speriamo di poter presentare le richieste entro il primo di agosto».

La parola passa dunque ai pm Noviello e Sirleo, coordinati dai procuratori aggiunti Aldo De Chiara e Camillo Trapuzzano. L´indagine si compone di 100 faldoni e decine di migliaia di pagine di atti. Una enorme mole di documenti, depositata dopo la notifica degli "avvisi di chiusura", che ha determinato buona parte dei «problemi tecnici» ai quali faceva riferimento il procuratore Lepore.

In una lettera indirizzata al capo dell´ufficio il 21 novembre 2006, infatti, i pm Noviello e Sirleo evidenziavano che le copie degli atti non corrispondevano in molte parti agli originali e che per questa ragione, e verosimilmente a causa della «inettitudine di qualcuno», era stato necessario effettuare le copie altre due volte, triplicando le spese di carta e toner. Un ostacolo in più, sulla strada di un´indagine complessa, che sembra ormai prossima al capolinea. E all´orizzonte già si intravede la polemica fra i poli: Maurizio Gasparri, di An, chiede di «passare alla rapida individuazione delle responsabilità di complici politici e soci in affare». (26 luglio 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Case a politici e sindacalisti a prezzi super-scontati (invidiosi del vaticano)
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2007, 11:56:28 pm
POLITICA

Inchiesta de L'Espresso: abitazioni a cifre stracciate per vip, politici e sindacalisti

Trenta vani catastali acquisiti da Casini. Affari anche per Cardia e Bonanni

"Case a politici e sindacalisti a prezzi super-scontati"

Un intero edificio per il Guardasigilli. Mastella: querelo

di SERENELLA MATTERA


 ROMA - Case a prezzi stracciati per vip, politici e sindacalisti. Lo rivela un'inchiesta de L'Espresso in edicola oggi, dal titolo "Casa nostra". Una squadra "vasta e assortita", è la denuncia del settimanale, ha potuto comprare appartamenti a Roma a costi di molto inferiori a quelli di mercato. Una squadra bipartisan che va dall'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, agli ex presidenti di Camera e Senato Luciano Violante e Nicola Mancino. Dalla famiglia del leader Udc Pier Ferdinando Casini a quelle del ministro della Giustizia Clemente Mastella e del primo cittadino di Roma Walter Veltroni. Coinvolti nell'inchiesta anche altri potenti, come il presidente della Consob Lamberto Cardia e il segretario della Cisl Raffaele Bonanni.

Le prime anticipazioni, trapelate ieri, hanno sollevato la reazione di alcuni dei politici chiamati in causa. Mastella ha annunciato una querela, mentre Cossiga si è limitato a spiegare: "Ho comprato a prezzi scontati, ma non ingiustamente". Duro il presidente del Senato, Franco Marini: "Sono false le notizie che mi riguardano (due piani di un palazzo ai Parioli pagati 1 milione di euro, ndr). Io non ho avuto nessuno sconto ma ho comprato a prezzo di mercato la casa che avevo in affitto da circa 20 anni. Mi pare si stia superando ogni limite con queste pseudo-denunce".

Nel 1996 l'inchiesta "Affittopoli" svelava come gli enti previdenziali dessero in locazione ai politici appartamenti in pieno centro a Roma a prezzi stracciati. Oggi L'Espresso parla di una "Svendopoli", perché quelle stesse case "sono state svendute definitivamente e il privilegio è stato reso eterno". Per fare un esempio, il presidente della Consob Cardia pagava 1 milione e 100 mila lire di affitto nel 1996 e ha comprato nel 2002 a 328 mila euro 10 vani e due posti auto vicino al Palaeur. Mentre il sindaco Veltroni, che "è nato nelle case dell'ente previdenziale dei dirigenti (Inpdai)", ha comprato dalla Scip, ex Inpdai, 190 metri quadri a via Velletri, zona Piazza Fiume, per 373mila euro. Un prezzo basso "per effetto non di un'elargizione personale, ma degli sconti collettivi".

Anche le società private Generali e Pirelli, secondo L'Espresso, nella vendita di immobili hanno avuto un occhio di riguardo per alcuni politici, come Casini e Mastella. A ex suocera, ex moglie e figlie del leader Udc sono andati 30 vani catastali in via Clitunno (zona Trieste) a 1,8 milioni di euro (prezzo di mercato 5100-6900 euro al metro quadro). Mentre la famiglia Mastella si è aggiudicata 26 vani (5 appartamenti) di un edificio di Lungotevere Flaminio a 1,2 milioni di euro. "Non ho certo approfittato di favori - ha replicato il Guardasigilli - tant'è che ho dovuto fare un mutuo di ben 500mila euro".

(31 agosto 2007)

da repubblica.it


Titolo: 'Ndrangheta, così preparano attentati contro i magistrati
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2007, 10:07:46 pm
'Ndrangheta, così preparano attentati contro i magistrati

Enrico Fierro


La ’ndragheta è pronta a colpire i magistrati della direzione antimafia di Reggio Calabria. È quanto emerge da una serie di intercettazioni telefoniche e da alcune «confidenze» di fonti «attendibilissime» fatte ai carabinieri del Ros reggino. Ci sono stati vertici nella città dello Stretto, riunioni nella Piana di Gioia Tauro per decidere di assestare un colpo a Salvatore Boemi, numero uno della Dda reggina, e ai suoi pm impegnati in inchieste delicatissime. Il 25 luglio parlano due boss i cui nomi vengono tenuti segreti e che i carabinieri chiamano «Alfa» e «Gamma». «Sono i magistrati che ti annientano, Gratteri, Di Palma, Scuderi, Boemi...», dice «Gamma».

Nicola Gratteri è il sostituto procuratore che indaga sul traffico internazionale di stupefacenti e sui rapporti fra cosche calabresi e cartelli colombiani. Un business enorme, che l’ambasciatore Sabas Pretelet de La Vega calcola in 100mila milioni di euro, «una cifra pari al 100% del Pil colombiano». Roberto Di Palma è il pm che ha scoperto i traffici delle cosche di Rosarno, della Piana e di Reggio città, sui lavori della «A3» disvelando il meccanismo della «tassa di sicurezza nei cantieri», una tangente del 3% su tutti i lavori. Scuderi, invece, è il procuratore reggente che ha richiamato al vertice della Direzione antimafia Salvatore Boemi.

«Il mastro di tutto», lo definisce il pentito «Alfa». «Gliel’ha detto De Sena (Luigi, ex prefetto di Reggio, ora vicecapo vicario della Polizia, ndr) a Reggio se non viene Boemi non arrestano nessuno». Hanno una conoscenza perfetta delle dinamiche interne agli uffici giudiziari, gli uomini della ‘ndrangheta e lo dimostrano quando «Gamma» sottolinea il fatto che Boemi «ora vuole creare il pool». «Come a Palermo», aggiunge «Alfa». I clan calabresi sentono il fiato della magistratura sul collo. Si muovono e vogliono concludere presto. «A ottobre c’è la rivoluzione», dice «Gamma» al suo interlocutore. È un modo per dire che a ottobre succederà qualcosa, che forse i piani per colpire un magistrato saranno portati a termine presto. «Le carte - dice ancora «Gamma» nel suo linguaggio criptico - devono essere apposto e per qualsiasi operazione uno ha la possibilità di difendersi». Non è solo questo colloquio ad allarmare magistrati e investigatori. Qualcosa si muove nel ventre molle della 'ndrangheta calabrese. Agli inizi di settembre nell’area di Sinopoli si è tenuto un vertice tra le famiglie mafiose della zona tirrenica e della città di Reggio nel quale sarebbe stata deliberata una vera e propria strategia «corleonese».

La fonte è di «elevata attendibilità». L’obiettivo da colpire il dottor Di Palma, ritenuto dalla famiglia Bellocco un nemico da eliminare. Al momento - notano i carabinieri del Ros - l’attentato è fermo perché manca l’ok definitivo delle famiglie della zona jonica e dell’Aspromonte che «si sarebbero dimostrate contrarie a tale azione». Le 'ndrine di quell’area, infatti, sono sotto pressione per la cosiddetta faida di San Luca e per la strage di Duisburg. Pochi giorni fa, rivelano i carabinieri, nei pressi di San Luca si è svolto un summit di altissimo livello tra le famiglie della zona aspromontana e dell’area tirrenica. C’erano rappresentanti di varie famiglie di Sinopoli e Seminara e dei Pesce di Rosarno. In quella riunione Antonio Pelle, detto Gambazza, pezzo da novanta della mafia calabrese con il grado di «capocrimine avrebbe proposto una via d’uscita. «Dobbiamo “posare” per un certo periodo il “locale” di San Luca». Vale a dire che per un arco di tempo necessario le famiglie di San Luca avrebbero dovuto sospendere ogni attività illegale, traffico di droga in modo particolare. Una soluzione che evidenzia le difficoltà del boss, il quale ha ammesso che la guerra a San Luca continua, nonostante i suoi tentativi e quelli delle famiglie di Platì e Africo per arrivare ad una tregua. «Ci sono questi giovani irruenti che non rispettano più nessuno», avrebbe confessato.

Nella lunga informativa dei carabinieri emerge un quadro allarmante sui progetti eversivi della ‘ndrangheta resi ancora più inquietanti dalle rivelazioni sulla sua penetrazione in gangli vitali delle istituzioni. «La cosca Labate, egemone in Reggio Calabria - si legge - è in grado di ricevere notizie in ordine a tutte le attività investigative condotte dalla locale Dda, attraverso degli impiegati del Palazzo di giustizia, con i quali sono legati da vincoli parentali o amicali». Un passaggio che rende adesso più chiara la vicenda degli arresti sfumati nel blitz del 24 luglio scorso. Nel mirino proprio il clan Labate al centro di una inchiesta del pm Antonio Di Bernardo. Furono arrestate 27 persone, ma i capi della cosca riuscirono a sfuggire alla cattura. In quell’occasione i magistrati reggini capirono che all’interno della procura c’erano una o più «talpe» che ancora non sono riusciti ad individuare. «Abbiamo capito - disse il procuratore Boemi - che il clan era riuscito ad intromettersi nella comunicazioni tra un magistrato e gli investigatori della polizia, un fatto inquietante che dovrà essere chiarito in tutti i suoi aspetti».

Pubblicato il: 22.09.07
Modificato il: 22.09.07 alle ore 10.23   
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Titolo: MILANO L'ortomercato, regno di mafie e di anarchia
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2007, 12:54:07 pm
10/10/2007 (7:35)

L'ortomercato, regno di mafie e di anarchia 

Milano, viaggio nella più grande struttura d'Europa.

Tutti sanno, ma nessuno riesce a imporre l'ordine

PAOLO COLONNELLO
MILANO


L’altra notte hanno incrociato le braccia e fatto picchetti: un manipolo di facchini e operai delle cooperative dell’Ortomercato che protestavano contro lavoro nero e illegalità. E perché? Sarà anche vero che per i sindaci del Nord l’emergenza sicurezza sono gli zingari e i lavavetri, ma a fare un giro dal tramonto in poi dalle parti di via Lombroso, sede del più grande mercato ortofrutticolo in Italia, si capisce che «l’illegalità» è un concetto tutto da definire. Basta salire la rampa che fiancheggia il palazzo della Sogemi - la società del Comune che gestisce i mercati milanesi - e iniziare a dare un’occhiata.

E’ la stessa rampa che fino ad aprile saliva a bordo di una Ferrari rossa fiammante anche il boss di Africo, Salvatore Morabito, il capo della ‘ndrangheta dell’Ortomercato che mostrava all’ingresso un regolmentare tesserino da «facchino» (e sai che risate per gli addetti alla sicurezza) per poi arrivare su, fino al terzo piano del palazzo direzionale per insediarsi nei suoi uffici: ventidue stanze piene di segretarie e società di ogni genere intestate a un prestanome. Lo sanno tutti che il vero ventre molle della città è in questo porto franco dove prosperano traffici e business di ogni genere e dove, si dice, riescano a convivere le mafie d’Italia - dalla ‘ndrangheta a Cosa Nostra - in una pacifica spartizione di affari e interessi. Lo sanno tutti. E tutti, a iniziare dai politici, fingono di non accorgersene.

Lo sceriffo in pensione
Sarà per questo che della settantina di telecamere a circuito chiuso che dovrebbero funzionare su quest’area di circa 500 mila metri quadrati, pare ne siano a regime non più del 20 per cento. Pare, dicono, si mormora: l’omertà da queste parti è una religione. L’unico «security manager» mai nominato dalla Sogemi, Alberto Sala, un ex poliziotto coi fiocchi scelto dall’Amministrazione Albertini, aveva provato a riportare un po’ d’ordine giungendo perfino a scrivere un ampio rapporto su tutti gli illeciti e i rischi (terrorismo compreso) che si correvano all’Ortomercato. Ma dopo due anni di lavoro venne mandato via dai nuovi vertici della società che in realtà non l’hanno mai sostituito, affidando il suo compito a un ex vigile urbano in pensione, chiamato «lo sceriffo».

Così girando lo sguardo a 360 gradi ecco cosa si vede dalla rampa di via Lombroso: poco più sotto, nei giardinetti che vorrebbero abbellire gli ingressi e fiancheggiano il vialone dove ogni notte viaggiano dai 300 ai 500 tir per trasportare le merci, si prostituiscono i ragazzini arrivati dall’Est. Mentre davanti, su uno spiazzo che sembra non aver fine, recintato da una fragile cancellata, si stendono decine di capannoni sotto tettoie all’amianto, ovvero completamente fuorilegge: è qui che vengono ammassati gli ortaggi. E’ qui che dalle due del mattino fino all’alba, tra i fumi dei gas di scarico dei camion che non spengono mai i motori, lavorano circa tremila persone, movimentando ogni anno un milione di tonnellate di frutta e verdura. Una specie di suk mediorientale contaminato dall’amianto, dove in realtà succede di tutto e dove, insieme alla merce regolare, entra ed esce di tutto: dalla droga alle armi, fino alle batterie esauste delle auto.

Il facchino della coca
«Pensi - racconta il pm antimafia Laura Barbaini che ha coordinato l’ultima inchiesta sulla ‘ndrangheta dell’Ortomercato - che noi stavamo cercando i capi dei traffici di droga in Sud America e nel Nord Europa, quando a un certo punto dei trafficanti ci hanno spiegato che bastava cercare qui vicino, un paio di chilometri in linea d’aria da Palazzo di Giustizia: l’Ortomercato». Possibile che un posto del genere non abbia controlli? Ufficialmente ci sono, eccome: appalti con una società di vigilanti, telecamere non sempre funzionanti, tornelli per l’ingresso delle persone e pass rilasciati agli addetti. In realtà entra chi vuole. «L’utilizzo delle strutture dell’Ortomercato è pressoché immune da controlli», ha scritto il pm Barbaini nella monumentale richiesta compilata in aprile scorso per arrestare i capi bastone della ‘ndrangheta che avevano aperto perfino un night notturno per il sollazzo della malavita locale, il «For a King», inaugurato giusto nel marzo scorso proprio sotto il centro direzionale dell’Ortomercato. Doveva diventare il regno del “facchi- no” Salvatore Morabito e dei Palamara, Zappalà, Pizzinga, è stato chiuso d’imperio dalla Procura per impedire l’arrivo di 250 chili di coca e dopo aver scoperto che i permessi, dal Comune e dalla Sogemi, erano arrivati a tempo di record, grazie a qualche bustarella sostanziosa. All’inaugurazione si presentarono colletti bianchi e facce da galera. Un bel mix, non c’è che dire.

Proseguendo per la via perimetrale che costeggia l’intero Ortomercato ci si accorge che la facciata relativamente «pulita» intravista dalla rampa, lascia il posto a una realtà degna della Napoli di Scampia: rifiuti e macerie di ogni tipo costeggiano la strada che finisce in un parcheggio dall’aria abusiva.

E’ da queste parti, lontano dagli ingressi ufficiali, che ogni notte, verso le quattro, quando il grosso dei camion entra all’Ortomercato, due o trecento «negri», ovvero extracomunitari e disperati vari, scavalcano agilmente una barriera di lamiere e si presentano ai vari «caporali» per lavorare in nero. Tre euro all’ora invece dei quindici della paga oraria sindacale. Un «affare» che sta tra i motivi che hanno scatenato la rivolta dell’altra notte dei lavoratori, mandando su tutte le furie grossisti e direzione della Sogemi.

Sono talmente tanti i «negri» che scavalcano che, spiega un anziano adetto alla sicurezza, alcuni grossisti hanno organizzato per loro dei veri e propri rifugi nei cunicoli che attraversano l’intero mercato e la cui mappa nessuno conosce bene. In caso di controlli improvvisi, i «negri» spariscono qua sotto. E a volte ci devono rimanere così tante ore che qualcuno, nei sotterranei vicini al palazzone della Sogemi, avrebbe pensato addirittura di attrezzare una sorta di moschea clandestina. Impossibile verificare da vicino perché da queste parti, la prima cosa che ti spiegano è che «una coltellata non si nega a nessuno».

da lastampa.it


Titolo: Cuffaro e le cronache marziane di «Otto e mezzo»
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2007, 06:34:23 pm
Cuffaro e le cronache marziane di «Otto e mezzo»

Saverio Lodato


Se i magistrati iniziassero ad aggirarsi per le città italiane brandendo telecamere e microfoni per confezionare filmati e raccogliere interviste, l’effetto sulla popolazione sarebbe paragonabile a quello provocato sugli americani da Orson Welles quando annunciò per radio lo sbarco dei marziani: di terrore e di sconcerto. Si sono mai visti al mondo giudici che fanno i giornalisti? Ma se Giuliano Ferrara indossa la toga d’ermellino in nome del popolo italiano, pronuncia arringhe difensive, batte il martelletto, ricusa giudici naturali, si chiude in camera di consiglio ed emette sentenze da solo, va di cozzo contro sentenze già pronunciate, chiede in trasmissione l’arresto di qualcuno, o, più semplicemente, perora cause perse, nessuna vestale della legittima «separazione dei poteri» avrà nulla da obiettare. Infatti le vestali non obiettano.

Chi è stato Cuffaro in questi anni in Sicilia? Per Giuliano Ferrara, Totò Cuffaro, sotto processo a Palermo per favoreggiamento alla mafia, e per il quale l’accusa ha chiesto una condanna a otto anni, era l’uomo che amava i telefonini, un po’ come c’era l’uomo che amava le donne di Truffaut. Ne aveva troppi. E bene ha fatto Tonino Russo, vicesegretario del neonato Pd siciliano a informarlo che lui, invece, non avendo nulla da nascondere, ne ha uno solo... (Unico momento in trasmissione in cui Cuffaro ha balbettato). L’uomo che amava i telefonini, Cuffaro. Tutto qui.

Il resto? «Leggende». I processi per mafia agli uomini politici? Con Andreotti garantisce Ferrara - sapete come è finita (noi crediamo di saperlo: prescrizione per mafia sino al 1980 e condanna di Andreotti, da parte della Cassazione, al pagamento delle spese processuali), Contrada (sì: 10 anni con sentenza passata in giudicato), Mannino (processo ancora aperto), insomma tutti casi che «non sfuggono alla regola della controversia», sintetizza mirabilmente Ferrara... Chissà mai perché. Ma lo dice Ferrara, e Ferrara, potremmo dire parafrasando Cesare, è opinion leader d’onore.

Il fatto è però che solo uno sciocco, mercoledì sera, durante la puntata di Otto e mezzo, guardando il dito di Ferrara che indicava Cuffaro (la luna) poteva fermarsi a guardare il dito di Ferrara. Era in alto che bisognava guardare. Bisognava guardare Cuffaro.

E Cuffaro, fidatevi, ormai è irriconoscibile.

Non è che non vuole il processo contro di lui, non vuole proprio la sentenza. Ha recitato sin qui il teatrino dell’ imputato pacioccone, sottomesso ai suoi giudici naturali, ma adesso il gioco è cambiato. E puntuale, quando mamma chiama come si diceva un tempo - picciotto risponde (il mondo di certi giornali, certi talk show, per intenderci). Da Otto e mezzo è stata raccolta alla grande (nelle intenzioni degli orchestrali, non per successo di botteghino) la campagna per far sì che il processo, in nome della legittima suspicione, facendo appello alla Cassazione - come hanno formalmente deciso di fare i difensori del governatore di Sicilia -, venga sfrattato da Palermo. Legittimissimo passo giudiziario. Scelta televisiva di dubbia trasparenza. Si può dire?

Se l’imputato e i suoi difensori facessero centro, tutto cadrebbe infatti nel dimenticatoio. Ci vorrebbe ancora tempo per sapere come stanno le cose, la mina politica verrebbe disinnescata, Cuffaro potrebbe approdare come un naufrago un po’ disidratato sul bagniasciuga delle europee 2009 conquistando l’immediato ricostituente dell’ immunità parlamentare. Se non si coglie questa differenza della vicenda tormentone che riguarda il governatore di Sicilia, non si capisce nulla.

Cuffaro sarà «rotondo psicologicamente» - anche gli psicoanalisti ormai avrebbero diritto a una commissione di vigilanza contro le invasioni di campo... -, «bonario», «trasparente», «il prototipo della persona diversa dal mafioso amico dei mafiosi», come si complimenta con lui Giuliano Ferrara a inizio trasmissione; sarà «simpatico» come amichevolmente lo congeda Ferrara tranquillizzandolo che «Ritanna non è cattiva»; ma è televisivamente evidente come Totò Cuffaro, che per sua stessa ammissione conosce «alcune centinaia di migliaia di siciliani», naturalmente senza sapere chi sia mafioso e chi no, si avvia alla sentenza ( che non vuole) ormai privo della serenivano accompagnato sinora. A noi, stava quasi «simpatico» il Cuffaro che esibiva la coppola come Gavroche, il monello dei Miserabili, o suonava lo scacciapensieri. Non quello dell’altra sera.

Dismessa la coppola, dismesso lo scacciapensieri, ormai Cuffaro è a ruota libera. Senza freni. Contro il suo processo, contro i pubblici ministeri che lo accusano, contro i magistrati che firmano per la candidatura di Rita Borsellino, contro una mezza dozzina di dirigenti dei ds siciliani, contro Michele Santoro. «Ma noi qui non stiamo facendo il processo al processo», precisa Ferrara; e, ancora una volta parafrasando Cesare, verrebbe da dire: ma lo dice Ferrara, e Ferrara è opinion leader d’onore.

C’è un finto passaggio-chiave della trasmissione. Chiede Ferrara: «ma se fosse condannato a otto anni per favoreggiamento aggravato della mafia cosa farebbe?». E Cuffaro, con il faccione di chi la prima comunione la fa due volte al giorno: «Credo che la cultura istituzionale che ho maturato in questi anni mi imponga di dimettermi e di lasciare la politica...». Ferrara, che sembra recitare il ruolo di un severo istitutore in un collegio di epoca vittoriana: «Questo vale per una condanna definitiva in Cassazione o vale anche per una condanna di primo grado?». Cuffaro da buon chierichetto non si sottrae: «Beh la prima condanna mi vedrebbe continuare a lavorare mentre sono già condannato quindi, per quel che mi riguarda, vale subito per la prima condanna...». Esemplare.

Ma c’è un vero passaggio-chiave della trasmissione. Questo. Ferrara: «Quello che è successo nella Procura di Palermo ha dell’inaudito». Inaudito: le parole sono pietre, avrebbe detto qualcuno. Di rimando, Lino Jannuzzi, senatore di Forza Italia, che di fronte alla partita manifesta l’imparzialità di quell’ultrà che qualche anno fa scagliò un motorino dalle gradinate sulla testa di chi stava di sotto: «io non ho ancora capito perché questo processo si faccia e si stia facendo a Palermo. Questo processo nasce quando è esploso lo scandalo delle talpe in Procura, talpe in Procura non fuori della Procura... stando così le cose il processo doveva essere immediatamente spostato a Caltanissetta su questo non ci sono dubbi... invece è rimasto a Palermo e da qui sono nati tutti i pasticci... il tutto poi ha innescato una competizione interna, ma chiamarla competizione è poco, una faida, interna alla magistratura palermitana...». Il che sembra eccessivo persino a Ferrara: «detta così sembra che si tagliano le teste...». Ma tant’è.

Ormai il piattino è in tavola.

La Armeni, non ce ne voglia, addentratasi nel paese delle meraviglie (la mafia e la lotta alla mafia), sussurra: «Cuffaro, ma lei questa legittima suspicione perché non l’ha chiesta prima?». E la domanda non è sballata. Tutt’altro. Ferrara e Jannuzzi glissano, poi Jannuzzi rincara: «Piero Grasso è stata la prima vittima di questa faida».

Le cronache dicono, non le piccole cronache marziane di Otto e mezzo, che il processo alle talpe nacque proprio per volere di Grasso. Famosa la sua dichiarazione che in tempi di guerra «le talpe sarebbero state fucilate». Caselli era già a Torino, anche se il centro destra per anni non se ne accorse e continuò ad attaccarlo come fosse ancora il procuratore in carica. Le cronache dicono, non le piccole cronache marziane di Otto e mezzo, che resta agli atti una telefonata di Berlusconi a Cuffaro (nei giorni in cui esplose la notizia che il governatore era finito sotto inchiesta) per tranquillizzarlo, avendo appreso parole di Berlusconi, registrate e agli atti- da fonti interne alla stessa Procura che (nonostante tutto, ndr) c’era un «orientamento favorevole nei suoi confronti». Telefonata che una certa Procura, quella di cui è innamorato Jannuzzi, fece di tutto per mandare al macero. Fu questa la ragione che in passato spinse Cuffaro a non sollevare la questione della legittima suspicione? La domanda della Armeni meritava una risposta che invece non c’è stata.

Per Jannuzzi ed è una sua rispettabilissima opinione- Cuffaro non ha favorito la mafia. È un opinione che, per quanto possa sembrare paradossale, rispettiamo. Concludendo, cercheremo di spiegare perché. Jannuzzi ha una sua coerenza. Per Jannuzzi infatti - e chi scrive ne ha ottima memoria - , persino Michele Greco, il papa di Cosa Nostra, numero uno della mafia prima che venissero alla ribalta Riina e Provenzano, condannato a una raffica di ergastoli confermati dalla Cassazione, non era mafioso, bensì un semplice produttore di limoni.

Insomma: Michele Greco era l’uomo che amava i limoni, Totò Cuffaro l’uomo che amava i telefonini...

saverio.lodato@virgilio.it


Pubblicato il: 19.10.07
Modificato il: 19.10.07 alle ore 8.51   
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Titolo: Saverio Lodato - Lo Stato dà un colpo alla mafia
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2007, 08:04:34 am
Lo Stato dà un colpo alla mafia

Saverio Lodato


Presi, nelle campagne in cui spadroneggiava, sessanta e più anni fa, il bandito Salvatore Giuliano. Presi in numero maggiore del previsto. C’è il capo di Cosa Nostra: Salvatore Lo Piccolo, 63 anni. Suo figlio Sandro, di 32; e questa è la prima sorpresa per i quaranta poliziotti che ieri mattina alle 9 e 38 hanno fatto irruzione in un casolare - contrada Giardinello, campagne di Montelepre - che domina dall’alto l’intera zona e dal quale si vede tutta Palermo. Terza sorpresa: Andrea Adamo, di 45, anche lui latitante.

Quarta sorpresa: Gaspare Pulizzi, di 36, altro ricercato. Entrambi nella lista dei «30», i più braccati d’Italia. Il proprietario di casa: Salvatore Piffero, di 58, incensurato; due favoreggiatori, presi nei paraggi, Vito Palazzolo, di 45, e Vincenzo Giuseppe Di Bella, di 40.

Trascorrono tre minuti prima di convincere i boss, che si sono asserragliati, ad aprire. «Aprite polizia». «Ma cu siti? No. Un niscemu», ma chi siete? non usciamo, è la risposta dall’interno. I poliziotti sparano in aria. La porta si apre. È l’irruzione. Ed è davvero il giorno della pesca miracolosa.

Ecco la «24 ore» in pelle di Lo Piccolo: zeppa di carte, fogli scritti, rendiconti. Anche nel water-closet vengono trovati alcuni fogli scritti, ma gli occupanti, sentiti i colpi d’arma da fuoco non fanno in tempo ad azionare lo sciacquone. Il contenuto dell’archivio, a primo di giudizio di chi ieri sino a tarda notte spulciava i documenti uno per uno, viene definito «impressionante». Anche quattro borsoni. In uno, otto pistole (Beretta calibro 9, revolver calibro 38, 357 Magnum), un paio con matricola abrasa, negli altri borsoni biancheria, vestiti. Vale la pena ricordare che Michele Greco o Totò Riina o Giovanni Brusca, o lo stesso Provenzano, al momento della cattura non avevano neanche una scacciacani.

Gli arrestati di ieri erano appena arrivati sul posto, con una Toyota e una Citroen C3, provenendo da luoghi diversi proprio per incontrarsi e «ragionare». Da ieri, nel palermitano, l’organizzazione militare di cosa Nostra risulta acefala.

Titolava il «Televideo» Rai: «Traditi da fedelissimo ora pentito». A domanda, in conferenza stampa, Francesco Messineo, procuratore capo: «Non mi risulta che ci siano collaboratori di giustizia o pentiti dietro questa operazione». Lo ribadiscono i quattro magistrati, il questore e il dirigente della mobile. Lo Piccolo lo cercavano da quasi dieci anni. Da alcune settimane avevano ristretto il cerchio in contrada Giardinello.

L’allarme alle 7 e 25. Da un binocolo ad alta intensità appaiono le immagini dell’arrivo delle due vetture. Chi è di turno al cannocchiale capisce che è quello, fra i tanti, il casolare giusto.

Il procuratore Messineo: «La notizia è semplice, schematica, scheletrica nella sua essenzialità. Grazie a un’impeccabile operazione della polizia di Stato, che ha profuso intelligenza, lavoro e sacrificio, abbiamo raggiunto un risultato di decisiva importanza. L’organizzazione militare di Cosa Nostra è stata sgominata nel palermitano, o almeno in buona parte del suo territorio». Aggiunge: «Io sono solo un vigile urbano che ha smistato il traffico». Diamogliene atto: da ieri, a Palermo, si circola molto meglio...

Pubblicato il: 06.11.07
Modificato il: 06.11.07 alle ore 13.36   
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Titolo: Indagine su 50 mila schede, coinvolti uomini della 'ndrangheta
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2008, 11:04:28 am
IL CASO

Voto di scambio all'estero

Dell'Utri nelle intercettazioni

Indagine su 50 mila schede, coinvolti uomini della 'ndrangheta

Le intercettazioni: «Si tapperanno gli occhi quando barreremo le schede bianche con il simbolo Pdl»


REGGIO CALABRIA — Stando all'inchiesta della procura di Reggio Calabria sui possibili brogli elettorali commissionati all'estero, spunta il nome del senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri. Dalle intercettazioni telefoniche il faccendiere-bancarottiere Aldo Miccichè, calabrese di Maropati, avrebbe affidato il compito di sostenere la lista Berlusconi alla cosca Piromalli di Gioia Tauro, il casato di 'ndrangheta più potente in Calabria. Miccichè, intanto, dal Venezuela dove si è rifugiato per sottrarsi alla condanna definitiva per bancarotta fraudolenta e millantato credito, avrebbe messo a disposizione del senatore di Forza Italia i suoi legami con il cartello di 'ndrangheta sudamericana per favorire il controllo del voto degli italiani all'estero, mobilitando i consoli onorari.

Nel dossier di circa 430 pagine consegnato al ministro dell'Interno Amato dal procuratore distrettuale di Reggio Calabria Francesco Scuderi e dal pm Roberto Di Palma, si capisce come le schede bianche, circa 50 mila, sarebbero diventate voto utile per il partito di Berlusconi. Miccichè al telefono con Dell'Utri si dice convinto che l'operazione andrà in porto. «Basterà pagare qualche addetto ai lavori — dice rivolgendosi a Del-l'Utri, chiamandolo per nome —. I responsabili delle votazioni si tapperanno entrambi gli occhi quando qualcuno dei nostri si preoccuperà di recuperare tutte le schede bianche e barrare la casella col simbolo Pdl». Per tutto ciò c'era un prezzo: 200 mila euro. L'esponente politico azzurro però chiede al faccendiere calabrese garanzie anche sul voto in Calabria. «Nessun problema», si affretta a ribadire dal Venezuela, Miccichè. E per sancire un'alleanza strategica con Dell'Utri invia a Milano Antonio Piromalli, reggente del casato, figlio di Pino, detto «Facciazza », in carcere con il 41 bis e suo cugino Gioacchino, avvocato, radiato dall'ordine dopo una condanna per mafia. Miccichè gli raccomanda al telefono di essere convincenti con il senatore azzurro, facendo trasparire tutta la potenza della cosca non solo in ambito provinciale, ma nell'intera regione. L'incontro avviene nello studio di Dell'Utri. Il senatore forzista resta entusiasta del colloquio tant'è che al telefono, successivamente, si congratula con Miccichè per avergli fatto conoscere due «bravi picciotti».

L'inchiesta della procura di Reggio Calabria nasce per caso e prende spunto da un omicidio. Quello di Salvatore Pellegrino, «l'uomo mitra», assassinato il 5 luglio dello scorso anno a Gioia Tauro. Pellegrino sarebbe stato ammazzato dai Piromalli — è l'ipotesi investigativa — perché ritenuto responsabile dei danneggiamenti alla cooperativa Valle del Marro, un tempo dei Piromalli e oggi, dopo la confisca, passata a Libera di don Ciotti. Le utenze dei Piromalli, in particolare quelle di Antonio e Gioacchino, sono messe sotto controllo. Si scopre così che i due rampolli della famiglia hanno continui scambi con Aldo Miccichè. Il faccendiere parla al telefono con tutti i politici italiani. Per gli inquirenti è un uomo che ha ancora molto potere in Italia. Si sente spesso con Clemente Mastella, allora ministro della Giustizia. In più occasioni parla anche con i suoi più stretti collaboratori. E chiede un favore: bisogna fare in modo che sia tolto il 41 bis a Pino Piromalli. La richiesta viene anche fatta a Dell'Utri, in cambio dell'appoggio elettorale dei Piromalli. L'indagine Why not della procura di Catanzaro coinvolge il ministro della Giustizia. È l'estate del 2007. La richiesta si blocca.

Carlo Macrì
12 aprile 2008

da corriere.it



Titolo: Marcello Dell'Utri è stupito di ritrovarsi al centro di un'inchiesta su brogli..
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2008, 02:47:15 pm
CRONACA

Inchiesta sui brogli sul voto all'estero, il senatore di Forza Italia

"So chi è quel Micciché, ma non l'ho mai visto. Nessu avviso di garanzia"

"Mi ha offerto aiuto in Sudamerica un polverone sospettare le frodi"

dal nostro inviato FRANCESCO VIVIANO


REGGIO CALABRIA - Marcello Dell'Utri è stupito di ritrovarsi al centro di un'inchiesta su brogli elettorali, ma apprende la notizia con un atteggiamento quasi rassegnato. "Non capisco, davvero non capisco, tutto questo clamore - dice - è vero, mi hanno offerto di organizzare il voto degli italiani all'estero, ma lo fanno tutti da sempre per qualunque partito a qualunque latitudine. Dov'è lo scandalo? Poi, se vogliono sollevare un polverone elettorale, facciano pure".

Senatore Dell'Utri, questo Aldo Micciché che compare nelle telefonate intercettate è un suo amico?
"Ma quale amico... Io non lo conosco neppure fisicamente, non l'ho mai visto. Certo, so chi è, era un amministratore della Dc negli anni 60-70, poi si è trasferito in Venezuela con la famiglia e adesso lì fa l'imprenditore. Lui si occupa di energia, di forniture di petrolio e, se ricordo bene, io ho fatto da tramite per metterlo in contatto con una società russa che io conosco e che ha sede anche in Italia".

Ma al telefono avete parlato anche di altro, cioè di voti, non solo di affari. A quanto sembra vi davate del tu. E' vero?
"Ma quello è uno che dà del tu a tutti. Sì, è vero, abbiamo parlato. Mi ha chiamato lui, due o tre volte, qualche mese fa, ora non ricordo con esattezza, e mi ha detto: 'Ti interessa se mi metto ad organizzare il voto degli italiani che vivono in Sudamerica?'. Io gli ho risposto 'Sì, va bene' e gli ho detto di mettersi in contatto con Barbara Contini, il nostro rappresentante per gli italiani all'estero. Tutto qua. Il discorso è finito lì. Ma poi questo Micciché è uno notissimo in Italia. Lo conoscono tutti".

Senatore, lei ha ricevuto qualche provvedimento dalla magistratura di Reggio Calabria?
"Assolutamente no. Allora, tanto per chiarire: io non solo non ho ricevuto alcun avviso di garanzia, ma di questa storia ho letto solo ieri sui giornali. Ovviamente mi sono molto stupito di trovare pubblicate queste cose, ma pazienza, io sono sereno come sempre. E a queste cose ormai ci stiamo facendo il callo".

Insomma, lei di questa ipotesi di brogli, che sarebbe consistita nel "truccare" le schede bianche in favore della sua lista, non sa niente?
"Neanche per idea. Ma stiamo scherzando? Stiamo dando i numeri! Se vogliono sollevare un polverone elettorale, facciano pure, io questo purtroppo non lo posso impedire. Ma stiamo davvero dando i numeri".

Senatore Dell'Utri, pare che Micciché fosse in contatto con i mafiosi della cosca dei Piromalli. Anche quest'aspetto per lei è una sorpresa?
"Ma figuriamoci, io non avevo minimamente idea dei suoi rapporti, e tantomeno di questi. Li ho appresi leggendo i giornali. In nessuna occasione lui mi ha detto di conoscere i Piromalli e nemmeno mi ha mai spiegato come intendeva organizzare questo voto degli italiani residenti in Sudamerica per convogliarlo verso la nostra lista. Gli ho indicato il nome della Contini, ripeto, perché è così che fanno tutti i partiti, ma è una cosa banalissima e soprattutto non c'è assolutamente niente di illegale".

(12 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: Marcello e l’inconscio
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2008, 11:41:14 pm
Marcello e l’inconscio


Ecco, ci mancava il bollo auto per completare l’offerta berlusconiana e farla diventare sempre più simile a quella dello spot telepass, in cui si vede un giovanotto sollevato di peso, portato al cinema e servito di bibita e pop corn.

Il linguaggio è lo stesso e, se gli italiani gli crederanno, siamo davvero messi male, dopo quasi trent’anni di una campagna televisiva così intensiva che non si è mai vista al mondo. Un bombardamento che, se messo in atto a favore di Totò Riina, farebbe eleggere pure lui.

E infatti poco ci manca. Se è vero come è vero che il vero genio politico di Berlusconi è Marcello Dell’Utri, costruttore di Publitalia prima e Forza Italia poi.

L’uomo che, intervistato da Santoro, incappò nella più clamorosa gaffe mai vista in tv. Per scolparsi da accuse e testimonianze pesanti, Dell’Utri disse infatti: «Ce l’hanno con me perché sono mafioso... (pausa di imbarazzo), volevo dire siciliano».

Così l’amico di Vittorio Mangano e Berlusconi ha dimostrato che forse non tutti hanno una coscienza, ma l’inconscio sì.

Maria Novella Oppo


Pubblicato il: 13.04.08
Modificato il: 13.04.08 alle ore 9.26   
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Titolo: La zona grigia della mafia convegno al Sole 24 Ore sulla criminalità organizzata
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2008, 05:31:33 pm

La «zona grigia» della mafia: convegno al Sole 24 Ore sulla criminalità organizzata
 
 
L'ultima verifica in ordine di tempo è quella che i magistrati stanno facendo in provincia di Trapani. Nel mirino il professionista che avrebbe curato le pratiche per far ottenere i finanziamenti della 488 a Giuseppe Grigoli, il patron della Despar nella Sicilia Occidentale ritenuto prestanome del boss latitante Matteo Messina Denaro. Si tratta, come è evidente, dell'ennesimo caso di un professionista al servizio della criminalità organizzata.

Di tanti altri casi, se vogliamo rimanere nel trapanese, si stanno ancora occupando i magistrati della direzione distrettuale antimafia di Palermo i quali in più di un'occasione hanno sottolineato la capacità di Matteo Messina Denaro di tenere rapporti con i salotti buoni. Si tratta di un episodio, non l'unico, della storia della nuova mafia che si avvale di avvocati, commercialisti, ingegneri, architetti, medici, intermediari finanziari. Insomma in due parole delle cosiddetta Zona grigia più volte richiamata dai magistrati antimafia e che lo stesso capo della direzione nazionale Antimafia Pietro Grasso ha più volte sottolineato trattarsi un individui le cui azioni in qualche caso non sono di rilevanza penale ma certamente di rilevanza etica e morale.

Il fenomeno, come è ormai chiaro, non appartiene solo alla Sicilia ma è piuttosto diffuso in almeno un paio di Regioni del Mezzogiorno (è di qualche giorno fa l'operazione in Campania in cui è emerso il sostegno di un gruppo di medici alla camorra) e nel Nord del Paese.

Si pensi al ruolo di professionisti qualificati nel decidere dove e come investire i capitali sulle piazze finanziarie più importanti senza farsi alcuna domanda sulla provenienza di quei soldi. Di costoro e degli altri quattrocento professionisti che solo in Sicilia finiti negli ultimi dieci anni in inchieste di mafia si è parlato lunedì nella sede del Sole 24 Ore in Via Monte Rosa 91 a Milano nel corso del convegno "Economia legale e bonomia illegale: il rischio di osmosi".

Attorno al tavolo Nino Amadore, autore del libro "La zona grigia, professionisti al servizio della mafia" edito dalla Casa editrice La Zisa di Palermo, Ivan Lo Bello presidente di Confindustria Sicilia, Michele Prestipino magistrato antimafia e autore del libro "Il codice Provenzano", Donato Masciandaro presidente del centro Paolo Baffi e docente all'Università Bocconi.

Presente l'amministratore delegato del Sole 24 Ore Claudio Calabi, apertura dei lavori del direttore Ferruccio De Bortoli.

 
da ilsole24ore.com


Titolo: Dalla Magliana ai salotti buoni romanzo criminale di una banda
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2008, 10:59:17 am
CRONACA

IL RACCONTO. L'autore del best seller sui gangster della Capitale ricostruisce il loro possibile ruolo nel sequestro della Orlandi

Dalla Magliana ai salotti buoni romanzo criminale di una banda

di GIANCARLO DE CATALDO

 
BISOGNA sempre fare una robusta tara, quando si parla di Banda della Magliana: con l'andar del tempo, la dimensione di questo gruppo criminale ha assunto contorni di leggenda. Piccoli delinquentelli cani sciolti si appropriano con disinvoltura di quarti di nobiltà criminale millantando legami inesistenti con la Banda. E zelanti sbirri accrescono il prestigio di arresti periferici collegando arbitrariamente il ladro di turno alla ormai mitica Banda. La "voce" di rapporti fra De Pedis e il Vaticano riemersa prepotentemente in questi giorni, non è una novità in senso assoluto: anche se, almeno sino al maxiprocesso del 1996, niente di serio era mai trapelato. E' verosimile un così prolungato silenzio, anche da parte dei "pentiti"?

Non avevano forse accusato altre figure eccellenti (qualcuno ritrattando, qualcun altro, come Antonio Mancini, confermando senza mai smentirsi)? Se sapevano, perché hanno taciuto su Emanuela?

Il dato di partenza, se considerato come ipotesi "di contesto", appare comunque verosimile. A parte il dettaglio della sepoltura in terra consacrata di un uomo che, quando fu assassinato, chiamavano "Il Presidente" della malavita, che De Pedis e l'ala "testaccina" da lui capeggiata godessero di ottime entrature, è verità storicamente accertata. Non altrettanto certo è che si possa attribuire un'analoga capacità di manovra all'intera Banda della Magliana.

Anche qui vanno sfatati alcuni resistenti luoghi comuni. Come associazione criminale, la Banda della Magliana nacque per aggregazione di "batterie" di giovani delinquenti di periferia. Si strutturò come vera e propria banda reinvestendo nel traffico di eroina e di cocaina i proventi di un tragico sequestro di persona. Impose la propria egemonia sulla città di Roma grazie a un uso sapiente e chirurgico della violenza, e, da un certo punto in avanti, fu apertamente "aiutata" a progredire. Sottovalutazione della pericolosità, distrazione delle forze dell'ordine, impegnate nella spasmodica caccia ai terroristi, soprattutto "rossi", l'abilità manovriera di alcuni boss assicurarono alla Banda una rete di complicità che, sia pure per un breve periodo, equivalse a una patente di impunità.

Ma, attenzione: non tutti i componenti della Banda, e non sempre, poterono godere di uguale libertà di manovra. Secondo una consolidata legge della malavita - e il crimine organizzato non fa eccezione - da un certo momento in avanti si procedette ciascuno per sé. Invidie e rancori esplosero fra l'anima "proletaria" e borgatara e quella più compromessa con pericolosi compagni di strada come mafiosi, massoni deviati, terroristi, grand commis dalle oscure frequentazioni. D'altronde, era inevitabile che fra gente che sognava una villetta all'Infernetto e un negozio di parrucchiera per la sua compagna e uno come Renatino De Pedis che ostentava atteggiamenti e look da gran signore, si finisse ai ferri corti. Per intenderci: per cercare la prigione di Moro fu coinvolta l'intera banda, ma a sparare a Roberto Rosone, il vice di Calvi all'Ambrosiano, Danilo Abbruciati ci andò da solo, e senza informare gli altri. Proprio per questo, d'altronde, ipotizzare che la scomparsa di Emanuela Orlandi sia un affare "tout court" della Magliana è azzardato: perché, in quell'anno 1983, la storia personale di De Pedis aveva già preso un'altra strada.

Il suo coinvolgimento nella scomparsa di Emanuela potrebbe però trovare, stando ai si dice di questi giorni, una spiegazione in chiave di politica, interna o internazionale. Il ricatto al Vaticano, l'ombra di Marcinkus, i maledetti (viene da dire: diabolici) soldi dello Ior, l'esecuzione sotto il Ponte dei Frati Neri, i missili Exocet, il sicario turco che invoca la Madonna di Fatima... Un gioco enorme anche per gente pronta a tutto, che, negli anni a venire, avremmo imparato ad assimilare non alla genìa dei criminali, ma a quella degli imprenditori "abili e spregiudicati". Uno scenario tanto tragico quanto affascinante. Uno scenario che l'ostinato "riserbo" mantenuto in tutti questi anni dalle gerarchie ecclesiastiche ha decisamente complicato. Le ex spie dell'Est, però, smentiscono categoricamente. D'accordo, le smentite dei professionisti della menzogna lasciano il tempo che trovano. Ma è impossibile non tenerne conto, non foss'altro per smentire le smentite.

Nel corso degli anni, altre "piste" si sono accavallate. Qualcuno era innamorato follemente di Emanuela e se l'è portata via. Qualcun altro è intervenuto impiantando un ricatto politico su una vicenda di tutt'altro genere. La Banda della Magliana, o chi diceva di agire a suo nome, o semplicemente sfruttava la propria autorevolezza criminale, si è prestato al gioco. Sta di fatto che qualunque ipotesi rimanda, drammaticamente, al Vaticano e ai suoi silenzi. I verbali che circolano, ha osservato il giudice Lupacchini, che di questa storia ne sa forse più di chiunque altro, conterrebbero almeno una grave imprecisione temporale. Staremo a vedere. Può sembrare una frase fatta, ma è così che funzionano - o dovrebbero funzionare - le cose nell'ambito della giustizia. Soltanto il tempo potrà fornire le risposte. Il tempo dell'inchiesta giudiziaria: che è lento, meditato, scandito da regole che da un lato impongono verifiche puntuali, addirittura ossessive, della credibilità di testimoni e imputati, dall'altro assoggettano ogni dichiarazione alle strettoie del regime processuale. In vicende di questo genere ci si rende acutamente conto di come il tempo della giustizia e quello, convulso e frenetico, dell'informazione, corrano a due velocità inconciliabili.

Tutti gli addetti ai lavori, in questi giorni, sono benissimo a conoscenza di alcune verità elementari. Non è affatto garantito che tutti i verbali diventino "prova" in un dibattimento. Non è nemmeno certo che, alla fine, un processo debba necessariamente essere celebrato. E chiunque faccia questo mestiere, d'altronde, sa quanto sottile sia il discrimine fra verità e calunnia, e quanto sia arduo, a volte, individuarlo: solo pochi anni fa un "superteste" annunciò bombe e stragi e sui giornali si parlò di golpe imminente. Poi si venne a sapere che il superteste era screditato, e gli stessi giornali definirono il golpe "una bufala". Era il marzo 1992. E non era una bufala. Di lì a poco avrebbero ucciso Lima, Falcone, Borsellino, e fatto saltare in aria gli Uffizi e San Giorgio al Velabro, oscurato i centralini del Viminale, cercato di coinvolgere il Presidente della Repubblica in uno scandalo finanziario.

I nuovi sviluppi del caso Orlandi ci costringono, una volta di più, a riaprire la partita con la storia criminale d'Italia. Una storia segnata da una continuità impressionante di rapporti fra settori deviati delle istituzioni e criminalità organizzata, fra servitori infedeli dello Stato e terroristi, fra uomini in grigio e coppole e lupare. Una lunga catena di agevolazioni, depistaggi, affari gestiti in comune. Con costanti pressoché obbligate: lo scambio di favori, l'occultamento delle prove, il patto per tacere segreti inconfessabili. Da qui, anche da qui, l'esito deludente di processi che si annunciavano clamorosi e che si sono trasformati in altrettante débacle per la giustizia: anche dietro l'omicidio Pecorelli c'era la Magliana. Tutti assolti. Andreotti baciò Riina. Tutti assolti (o prescritti). Calvi fu "assistito" a Londra dagli usurai di Campo dei Fiori. Tutti assolti.

Speriamo che anche questa volta non finisca allo stesso modo.

(25 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: La mafia si combatte anche con le parole e non lasciando soli i colleghi
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2008, 03:11:17 pm
Spampinato


La mafia si combatte anche con le parole e non lasciando soli i colleghi


“Bisogna trovare il coraggio di dire che esiste questo problema”. Lo afferma con forza Alberto Spampinato, consigliere nazionale della Federazione nazionale stampa italiana. Il problema è uno dei più gravi che affligge questo paese, ma che molto spesso viene dimenticato. La libertà di stampa, in special modo al Sud, è gravemente minacciata. La mafia, la criminalità organizzata, i poteri forti hanno buon gioco nel far tacere uomini che molto spesso restano soli. I cronisti di mafia, quelli che parlano di notizie scomode, si trovano a vivere e lavorare in solitudine, dimenticati da istituzioni e mezzi di informazione, isolati dai propri colleghi. Minacciati e costretti a subire violenze fisiche e psicologiche.
Uomini che scelgono di dire no alla autocensura, che scelgono di dire no ad un’informazione “mutilata ed approvata”. Giornalisti pagati tre o quattro euro a pezzo.
Quello dell’osservatorio sui cronisti sotto scorta è un progetto bello, importante, e coraggioso, ma difficile.
“Vogliamo avviare un cammino comune per cominciare a cercare una soluzione concreta a questa situazione, insieme ai colleghi più timorosi e tenendo conto di tutte le preoccupazioni che sono serie e fondate, perché parlare di queste cose da lontano è facile, ma essere direttamente impegnati in questa lotta e poi tornare a casa la sera di notte è un’altra cosa. E lo vogliamo fare, questo cammino, proprio col passo lento dei cronisti più prudenti, più sensati, tutti insieme, tutta la categoria, e ovviamente con i cronisti già minacciati, che hanno dato prova di coraggio.

E’ la scommessa di Alberto Spampinato

Da dove nasce l’idea dell’osservatorio?
L’osservatorio è un’idea che io ho lanciato un anno fa, che man mano ha trovato ascolto e che adesso ha ottenuto l’adesione della Federazione nazionale della stampa, dell’Ordine nazionale dei giornalisti e dell’Unione nazionale cronisti. Inoltre, anche se non è tra i promotori, abbiamo ricevuto dei segnali di attenzione anche dalla Federazione degli editori (Fieg).
Negli ultimi anni ho ricostruito la vicenda di mio fratello, Giovanni Spampinato, giornalista de L’ora, corrispondente da Ragusa, ucciso nel 1972. Una di quelle vicende dimenticate, sepolte. Giovanni era uno di quei giornalisti che non solo hanno pagato con la vita il fatto di interpretare il mestiere di fare informazione nel senso più alto, più nobile e che non solo sono stati dimenticati, ma sono stati bistrattati sia in vita che in morte. Solo l’anno scorso la memoria di Giovanni Spampinato ha avuto un alto riconoscimento, il premio Saint Vincent, ma nei primi anni dopo la morte e durante le fasi processuali lui è stato sempre presentato come un ficcanaso, uno che si ostinava a scrivere cose che giustamente gli altri non scrivevano. Le cose che lui scriveva erano notizie, notizie rilevanti, di interesse generale, quelle cose per cui al processo di appello il Procuratore generale disse: “se i giornalisti non fanno queste cose tanto vale che chiudiamo i giornali”. Questa è l’origine di questo progetto.
La giuria del premio Saint Vincent ha dichiarato che la vicenda di Giovanni Spampinato è emblematica delle vicende di tutti i giornalisti che sono stati uccisi  per mafia e terrorismo. È emblematica per come avviene la vicenda, un giornalista trova una notizia, la scrive, gli altri al contrario non la scrivono e lo isolano. Poi dopo la morte, finché è possibile, viene negato il valore del lavoro svolto dal cronista. Col tempo, per fortuna, ci si accorge del merito di questi uomini.
Le vicende di oggi, la storia di Lirio Abbate per esempio, quella di Roberto Saviano, di Rosaria Capacchione, riproducono molti degli aspetti che hanno caratterizzato la vicenda di mio fratello. Mi colpiscono, in particolare, dei meccanismi che sempre si ripetono: abbiamo giornalisti minacciati, altri sotto scorta di cui si sa e molti altri di cui non si sa nulla, perché non hanno la forza di denunciare la situazione di rischio, di pericolo, di censura in cui si trovano, e in questa situazione i giornalisti non riescono neppure a parlarne, a darne notizia. Ho individuato una forma di tabù. Il problema è che nelle regioni dove la mafia ha un potere forte, quello che succede è che si ha un’informazione limitata perché c’è un confine che è segnato da mafiosi, prepotenti, coloro che devono difendere degli interessi costituiti e che, specialmente sul terreno locale, influenzano la proprietà dei giornali, le direzioni, tutta l’informazione, i rapporti sociali e la politica. Oltre questo confine ci sono delle notizie di grande importanza ed interesse, che influenzerebbero la politica così come le scelte dei cittadini, che però non possono essere diffuse, chi osa farlo entra in un campo minato.
Noi, intendo come categoria di giornalisti, non possiamo continuare, di fronte a questo stillicidio di episodi gravi, a dire solo parole di solidarietà. Dobbiamo fare qualcosa di più. Le parole dunque non bastano più, ed è quello che ha ribadito lo stesso presidente dell’ordine dei giornalisti, Lorenzo Del Boca.

Cosa si propone di fare l’osservatorio, quali saranno i suoi compiti?
Non sappiamo ancora come organizzeremo l’osservatorio. Alla ripresa dalla pausa estiva faremo le prime riunioni organizzative, ma l’idea generale è quella di creare un organismo che possa produrre un rapporto annuale che fornisca una descrizione accurata, completa della vicende delle vittime di mafia perché fanno informazione sulla mafia, attraverso una seria raccolta dei dati. Non esiste, infatti, un archivio, una banca dati di fatti e avvenimenti riconducibili alla mafia e all’acqua in cui nuota. Ancora oggi non esiste veniamo a conoscenza soltanto dei fatti più eclatanti che riescono ad imporsi all’attenzione dei media.
pensiamo ad u rapporto che risponda anche ad una attenzione internazionale che si è creata attorno alla situazione italiana, che vista dall’estero, forse, impressiona ancor di più.
L’altro compito sarà quello di creare, attraverso l’osservatorio, un organismo che sia attivo, vivo, che intervenga tutte le volte che c’è un episodio e che prenda contatto con le persone che sono in pericolo, che sono minacciate, e si rechi sul posto per rendersi conto delle circostanze. E che tenga sotto osservazione anche tutti quegli altri aspetti che, ho notato, si ripetono costantemente.
Quali sono?
Per esempio il deterioramento dei rapporti tra il giornalista minacciato ed i suoi colleghi di categoria. C’è una dinamica che innesca l’avvelenamento dei rapporti, anche fra persone per bene. Più alla lunga l’obiettivo sarà quello, analizzati tutti questi dati, di fare delle proposte per evitare che al giornalista si presentino queste due alternative: scrivere una notizia scomoda e rischiare danneggiamenti, minacce o la vita oppure tenerla nel cassetto e vivere senza conseguenze negative. Ma non può essere questa l’alternativa. Il giornalista non può sempre vedersela da solo perchè fa parte di un sistema dell’informazione.
Qui viene fuori un altro aspetto che mi porta a paragonare questa realtà a quella del pizzo. La censura su notizie che infastidiscono criminali, boss mafiosi, personaggi potenti può essere paragonato al pizzo che viene imposto ad industriali e commercianti. È, come l’estorsione, una forma di violenta imposizione. Finora tutto ciò è stato subito in silenzio. Ma chi è che paga il pizzo dell’autocensura? Ci sono tanti cronisti, onesti, persone per bene, che si trovano in situazioni di pericolo serio a cui non si possono sottrarre se non, nell’immediato, pagando questa imposizione. Ma ci sono molti altri casi in cui la cosa non è così chiara. Non può essere solo la paura, il timore di una futura ritorsione a giustificare che un cronista tenga una notizia nel cassetto. Questo confine non è chiaro. La Confindustria siciliana ha posto una condizione per cui chi paga il pizzo non può essere iscritto. Ma se un imprenditore è seriamente minacciato, ha un coltello alla gola, certo di questo si deve tener conto. Altro è accettare di pagare per il quieto vivere o perché si ottengono dei vantaggi. Qui entra in gioco un aspetto che è etico e culturale al contempo.
E la politica?
Noi abbiamo impostato il progetto innanzitutto sul terreno professionale e culturale senza andare ad invadere direttamente il terreno della politica, ma è chiaro che un progetto del genere richieda delle risposte anche da parte della politica. Non è vero che non si può fare nulla per i cronisti di mafia. Ad esempio per i cronisti che si occupavano di terrorismo furono create più ampie garanzie, forme più articolate di protezione.
I giornalisti possono contribuire?
Sono proprio loro che possono costituire la scorta più importante ai cronisti di mafia. Si tratterebbe di una scorta mediatica. Il giornalista che si occupa di fatti di mafia non solo non deve essere lasciato solo, ma deve sempre essere affiancato e da altri colleghi e da dirigenti del suo giornale, ma nelle situazioni più gravi tutta la categoria dei giornalisti si deve riconoscere nel cronista minacciato e deve trovare delle forme di solidarietà che siano attive.

In che modo?
Condividendo la firma, spersonalizzare certe notizie pubblicandole senza firma, affiancando più di una firma, usando pseudonimi, aggiungendo alle cronache commenti ed editoriali delle firme più autorevoli. Per queste cose dovrebbero esserci dei protocolli, delle procedure standardizzate.

da sinistra-democratica.it


Titolo: Messico-Calabria, la via dei narcos 200 arresti tra America e Italia
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2008, 03:51:07 pm
CRONACA         

Operazione dei Ros. Dal nostro paese import di cocaina dai Los Zetas

Si tratta della più sanguinosa organizzazione paramilitare del paese

Messico-Calabria, la via dei narcos 200 arresti tra America e Italia

I boss filmati mentre sotterravano la droga in un bosco di Gioiosa ionica

di ALBERTO CUSTODERO

 

ROMA - Con duecento arresti in Italia e America, è stata dichiarata guerra alla più sanguinaria organizzazione di narcotrafficanti al mondo, quella dei messicani Los Zetas, responsabili dall'inizio dell'anno di 2700 omicidi e del traffico di cento tonnellate di cocaina dirette negli Stati Uniti. I Los Zetas rifornivano anche la 'ndrangheta calabrese, in particolare la cosca degli Schirripa che a New York gestivano una pizzeria.

L'autorità giudiziaria italiana, e in particolare i carabinieri del Ros, hanno fermato sedici persone, a New York i fratelli Vincenzo e Giulio Schirripa, e i broker Cristopher Castellano, detto Cris, e Javier Guerrero. In Italia, nella locride, i coniugi Giulio Schirripa e Teresa Roccisano e la figlia Anna Maria (sorella di Giulio e Vincenzo). A Siderno è stato fermato Pietro Commisso nella cui abitazione è stato trovato un bunker. A Valdagno (Vc), è stato infine fermato Diego Lamanna. La 'ndrina degli Schirripa, che importava dai Los Zetas dieci chili di coca al mese, faceva parte di un consorzio di cosce della 'ndrangheta (fra questi, Coluccio, Aquino, Macrì), in grado, secondo gli inquirenti, di movimentare carichi di cocaina da mille chili alla volta. Per trasferire il denaro all'estero, la cosca utilizzava il circuito della Western Union e una ricevitoria di Marina di Gioiosa Jonica.

L'operazione alla quale hanno partecipato i Ros è stata coordinata dalla Dea, dall'Fbi, dall'Ice (la polizia messicana), e hanno messo a fuoco un traffico di droga fra Sud America (paese produttore), Messico (paese di smistamento), e Stati Uniti, Canada, Europa (i paesi dove la cocaina veniva spacciata).

Le indagini dei carabinieri e della procura distrettuale di Reggio Calabria hanno provato i collegamenti fra le cosche calabresi e il Cartello del Golfo, al quale la cosca Schirripo s'era rivolta dopo l'arresto del loro fornitore storico, l'ecuadoregno Luis Calderon, detto Tio. Le cosche jonico-reggine avevano dunque deciso ddi consorziarsi, unendo i capitali, e di mettersi in società con i narcotrafficanti Christoper Castellano e Ignacio Diaz, proiezioni newyorkesi - i broker), dei Los Zetas, l'organizzazione paramilitare messicana responsabile del traffico di tonnellate di cocaina, metamfetamina e marijuana diretta negli Usa in Europa, Italia, Spagna e Olanda.

L'indagine italo-americana ha documentato come il Cartello del Golfo avesse assoldato squadre di mercenari paramilitari per assicurarsi il controllo della fascia meridionale del Paese al confine statuinitense. Fra le persone da arrestare in Messico ci sono anche i tre capi delo Cartello del Golgo, subentrati al vertice dell'organizzazione dopo l'arresto, nel marzo del 2003, di Osiel Cardenas Guillen.

L'operazione di oggi è l'epilogo di una complessa indagine che ha portato all'arresto in Canada, il 7 agosto, di Giuseppe Coluccio, esponente di spicco dell'omonima cosca e nella lista dei 30 latitanti più pericolosi in Itaila. Coluccio è stato espulso dal Canada per aver violato le leggi sull'immigrazione in quanto sorpreso con documenti falsi. Una volta sbarcato in Italia, gli è stata notificata una misura cautelare da tempo emessa dall'autorità giudiziaria italiana.
Gli investigatori americani, che hanno accertato un movimento di cento tonnellate di cocaina negli ultimi mesi, hanno sequestrato ccomplessivamente 15 mila chili di droga. Ma già in passato sono emersi i collegamenti fra la 'ndrangheta e le organizzazioni paramilitari colombiane Farc e Auc. I controlli di polizia internazionale negli aeroporti e nei porti hanno costretto i produttori colombiani nuove aree per lo stoccaggio della pasta di coca come, ad esempio, il Messico. Ecco perchè anche la criminalità calabrese ha spostato i suoi traffici dalla Colombia al Cartello del Golfo, mettendosi in contatto, attraverso broker, con Los Zetas.

Le indagini italiane coordinate dal pm Nicola Gratteri. Con la collaborazione delllo Squadrone eliportato cacciatori Calabria dei carabinieri, i Ros hanno tenuto sotto controllo per mesi la famiglia Schirripa. I carabinieri sono riusciti a filmare i narcotafficanti calabresi mentre nascondevano una partita di droga (una campionatura di circa tre chili di coca), in un bosco di Gioiosa Jonica.

(17 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: Castelvolturno, rivolta degli immigrati dopo la strage di camorra
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 05:42:36 pm
Proteste dopo l'uccisione di sei extracomunitari: sparati 130 proiettili

Castelvolturno, rivolta degli immigrati dopo la strage di camorra

Vetrine rotte e auto in mezzo alla strada: «Non siamo trafficanti di droga, questo è razzismo»

 

CASTELVOLTURNO (Caserta) - Circa 130 proiettili esplosi da sei-sette sicari, a bordo di almeno un'auto e una moto. È questo lo scenario che gli investigatori hanno finora ricostruito dell'agguato in cui sono stati uccisi giovedì sera sei immigrati africani a Castelvolturno. Un volume di fuoco impressionante (a sparare sono stati un kalashnikov, una pistola calibro 9x21 e una 9x19), simile a quello impiegato nell'agguato di Baia Verde, sempre a Castelvolturno, vittima il gestore di una sala giochi, Antonio Celiento: in questo caso una sessantina i colpi esplosi. La quantità di proiettili usata in entrambi gli agguati è uno dei diversi elementi che fanno pensare a un solo gruppo di fuoco in azione: per averne la certezza occorrerà però attendere la perizia balistica. Gli inquirenti ritengono che, all'origine della strage degli immigrati, ci fosse una «spedizione punitiva» contro la sartoria, probabilmente un centro del traffico di stupefacenti. Per il momento non emergono piste diverse da quella del regolamento di conti nel mondo della droga.


LA RIVOLTA - Nel frattempo, sale la rabbia a Castelvolturno: alcuni immigrati, bastoni in mano, hanno frantumato le vetrine di alcuni negozi e rivoltato auto in mezzo alla strada, distruggendo vetri di altre vetture ferme. Il tutto davanti al luogo dove sono stati uccisi i sei stranieri. «Vogliamo giustizia - urlavano - non è vero che i nostri amici ammazzati spacciavano droga o erano camorristi. Sono state dette tutte cose false». Gli extracomunitari, soprattutto africani, puntano il dito contro chi li accusa di spacciare droga. «Noi siamo persone perbene, non è giusto che ogni volta che si parla di droga - dicono - siamo noi i colpevoli e questo solo perché è nero il colore della nostra pelle. Questo è razzismo». Nel gruppo che protesta ci sono anche diverse donne con i bambini.

 
REAZIONI - Ma la strage è al centro dei discorsi di tutti gli abitanti. Davanti ai bar di piazza Annunziata, gli anziani i Casalesi neanche li vogliono chiamare per nome. «Meglio non nominarli nemmeno». «Qui abbiamo paura, paura di essere ammazzati anche davanti a un bar - racconta uno - qui, quando si parla di camorra, è bene farlo a bassa voce». «Non si può avviare nessuna attività se prima non si paga il clan» racconta un altro. In molti se la prendono con lo Stato: «Ma lei questo lo definisce un paese normale? È normale che ci siano 18 morti in pochi mesi su neanche 20 mila abitanti? Lo Stato ci ha abbandonato, non c'è volontà di risolvere il problema e noi siamo ormai morti che camminiamo». Un altro commento: «Non serve l'esercito né le forze dell'ordine - dice - servono le leggi, lo Stato, serve qualcuno che cancelli tutta questa omertà. Qui la gente non parla perché ha troppa paura di morire»


19 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Gomorra fronte del nord
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 05:59:10 pm
Gomorra fronte del nord

di Gianluca Di Feo e Emiliano Fittipaldi


Bologna, Modena, Parma, Reggio: è la nuova terra di conquista dei casalesi. Il pentito Bidognetti descrive l'assalto camorrista. Con il gioco d'azzardo, il racket, l'ingresso nei cantieri. E con la sfida dei padrini campani a Felice Maniero: 'Fatti da parte'  L'arresto di Francesco Schiavone detto 'Sandokan'Tra la via Emilia e il West, nella Modena cantata da Francesco Guccini, c'è gente che le pistole le usa davvero. "Gli interessi dell'organizzazione dei casalesi si estendono oltre la provincia di Caserta, anche ai territori dell'Emilia-Romagna, e in particolare alle province di Modena, Reggio Emilia e Bologna. L'interesse dei casalesi e la loro presenza sul territorio inizia sin dalla fine degli anni Ottanta, ma in realtà molti miei concittadini, per motivi attinenti ad attività da loro prestate, in modo particolare nel settore edile, si trasferirono in Emilia già negli anni '70. Oggi si può dire che, vista la numerosa presenza di casalesi in quella zona, Modena e Reggio Emilia corrispondono a Casal di Principe e San Cipriano D'Aversa....".

Domenico Bidognetti è stato un protagonista del romanzo criminale che in vent'anni ha portato i camorristi di tre paesini alla costruzione di un impero. Lui Gomorra l'ha vista crescere e prosperare. È cugino del padrino Francesco Bidognetti, quel Cicciotto 'e Mezzanotte che anche dal carcere ha dominato l'ascesa dei mafiosi campani. La sua collaborazione con i magistrati, che va avanti da un anno, sta svelando nuove dimensioni della conquista casalese. Partendo dall'occupazione di quelle province del Nord dove maggiore era la prospettiva di guadagno e minore il rischio di entrare in guerra con le cosche siciliane e calabresi, radicate in Lombardia e Piemonte: l'Emilia-Romagna, appunto, e parte del Veneto. Con il sogno proibito di mettere un piede a Milano, realizzando quell'assalto alla capitale morale già tentato da Raffaele Cutolo nei primi anni Ottanta.

Giochi d'azzardo
Il contagio avviene sempre partendo dai soldi. Prima le bische e gli investimenti immobiliari. Solo in una seconda fase si mettono sul tavolo le armi e la violenza per imporre il racket. Con un obiettivo strategico: entrare nel giro delle grandi opere, trasferendo sopra la linea gotica gli accordi con le aziende padane collaudati nei cantieri campani dell'Alta velocità. Si comincia quindi dall'industria dell'allegria. Bidognetti elenca night e ristoranti gestiti dagli affiliati, racconta della spartizione del territorio con i calabresi e con il boss del Brenta Felice Maniero, parla delle mazzette estorte ai costruttori Pizzarotti di Parma, in un'Emilia inedita in cui i camorristi sembrano muoversi come fossero a casa loro.

Rivelazioni pagate a caro prezzo
Il padre di Bidognetti è stato assassinato tre mesi fa. Lui invece è andato avanti. Le sue parole intersecano e completano anni di indagini della Procura antimafia di Napoli, che già hanno svelato la penetrazione della famiglia Zagaria a Parma. Ma anche l'altro collaboratore di giustizia, Gaetano Vassallo, fornisce retroscena illuminanti sui traffici di cocaina tra Riviera romagnola e Costa domiziana, completando l'affresco dell'arrembaggio malavitoso.

Soldi facili
La scoperta della terra promessa avviene secondo il modello classico: il soggiorno obbligato. Un capoclan spedito dai giudici a Modena fa di necessità virtù criminale: sfrutta le colonie di emigrati campani onesti per imporre il modello camorrista. "Accadeva tra l'89 e il '90. All'epoca noi ritenevamo questa zona molto sicura, una sorta di fortezza. Sui casalesi e i sanciprianesi residenti lì esercitavamo pressioni, quando eravamo a Modena o Reggio per latitanza o provvedimenti di natura giudiziaria". Domenico Bidognetti si trasferisce in Emilia una prima volta a 15 anni: è apprendista di una ditta casertana, ma dopo tre mesi torna indietro "perché mi sentivo sfruttato".
Scopre così che ci sono soldi molto più facili. Le bische, ad esempio, e i videopoker che i casalesi decidono di gestire "in regime di monopolio". La rete che unisce Caserta, Modena e Reggio frutta oltre 200 milioni di lire al mese, che i boss venuti dal Sud non vogliono dividere con nessuno. "Venimmo a sapere che c'era un gruppo riconducibile a Felice Maniero e a un calabrese che volevano inserirsi in quell'attività. Decidemmo di incontrare il Maniero, e da Casal di Principe partì una squadra di notevole spessore criminale": una delegazione che somma diverse condanne all'ergastolo. Due auto con pezzi da novanta come i cugini Bidognetti, Raffaele e Giuseppe Diana e l'imprendibile latitante Antonio Iovine. "Nell'incontro imponemmo a Maniero di lasciar perdere. Quando tornammo, mio cugino Cicciotto commentò l'inutilità del loro intervento, dando del 'drogato' a Maniero". L'atteggiamento cambia nei confronti della 'ndrangheta. I padrini casertani si fanno più rispettosi e stringono patti. Le zone dove incassare il racket vengono divise in base alla provenienza: ognuno impone il pizzo a negozianti e ditte create in Emilia da emigrati della zona d'origine, riproducendo al Nord omertà e regole di casa. È una situazione paradossale: nella gogna finiscono imprenditori che avevano lasciato il Sud proprio per sfuggire alla prepotenza dei clan. Per i boss invece le spedizioni hanno parentesi felici: nei ristoranti e nei night emiliani non devono chiedere, tutto viene offerto, tutto è gratis. "Tirammo fuori solo una mancia per le ragazze che ci avevano intrattenuto...".

Caccia all'uomo
Le faide si spostano spesso da Caserta al Nord. Bidognetti descrive inseguimenti nella nebbia e vendette incrociate lungo la direttrice dell'Autosole. C'è il pedinamento nel centro di Modena condotto durante i giorni di Natale: dopo lunghi appostamenti, il bersaglio viene sorpreso in una piazzetta, ma all'ultimo momento arriva un'auto e i killer rinunciano a colpire. Solo un rinvio: la condanna verrà poi eseguita ad Aversa. A Modena ci sono parenti fidati che custodiscono le armi e altri designati come autisti per la conoscenza dei luoghi. Ma al volante non si dimostrano all'altezza: uno degli agguati fallisce proprio perché la vittima riesce a seminare il commando. Le sentenze nascono anche da semplici sospetti. Uno degli ambasciatori delle famiglie si vanta di guidare senza patente e non temere i controlli della polizia. E due boss venuti da Caserta per incontrarlo vengono invece bloccati dagli agenti: quanto basta per qualificarlo come infame e decretarne l'esecuzione.

La legge del clan
Il pentito non lesina dettagli. Elenca i capi militari a cui era affidata la custodia del fronte Nord. "Nel 1995 Francesco 'Sandokan' Schiavone ci rappresentò la necessità di sottoporre a estorsione non solo i commercianti casertani, ma anche quelli non campani, come ad esempio gli emiliani. Per noi fu una novità: sino ad allora le estorsioni venivano praticate solo a danno di imprenditori che realizzavano grossi appalti". La richiesta è legata a un momento di grande crisi economica del clan, con le prime operazioni antimafia che avevano fatto finire in cella capi e gregari e quindi la necessità di mantenere le famiglie. Anche in questo caso c'è un'osmosi tra le attività campane e quelle emiliane. Le commesse pubbliche più importanti a Caserta andavano spesso a colossi del Nord, che poi accettavano la legge dei camorristi, concedendo quote di lavoro e mazzette cash. Il collaboratore ripercorre la storia della Pizzarotti di Parma, che scese a patti per la costruzione del nuovo carcere di Santa Maria Capua Vetere, destinato a custodire proprio i camorristi. Un appalto da 82 miliardi di lire, portato avanti dal '93 in poi, quando Mani Pulite aveva azzerato i cantieri settentrionali. A vincerlo è un consorzio guidato dalla celebre coop ravennate Cmc e dalla Pizzarotti. Gli emissari delle aziende emiliane e i loro geometri vennero intimiditi con schiaffi, percosse e pistole spianate. "Partecipai a una riunione con l'ingegnere della Pizzarotti per sollecitare i lavori che spettavano a una delle nostre ditte di fiducia". I boss ottengono un duplice vantaggio: denaro in nero, pagato attraverso giri di fatture false, e contratti leciti per entrare in una dimensione imprenditoriale.

Scacco alle due torri
"Anche a Bologna da tempo i casalesi hanno propri interessi economici". Bidognetti però sugli investimenti non sa essere più preciso: è un uomo d'azione, che ricorda tutto delle pistolettate, ma non ha amministrato capitali. Sul riciclaggio sotto le due torri gli investigatori lavorano da tempo nel segreto. Ma le indagini hanno già smantellato parte della rete creata a Parma dagli Zagaria, assieme ai Bidognetti e agli Schiavone la terza grande famiglia casalese: lì si erano uniti a immobiliaristi locali, trovando agganci nella politica cittadina e sfiorando il colpo grosso. Uno degli Zagaria riesce a incontrare Giovanni Bernini, leader emergente di Forza Italia e presidente uscente del consiglio comunale ma soprattutto consigliere dell'allora ministro Pietro Lunardi. Dalle intercettazioni emerge come la ricerca di un contatto con Lunardi e con i costruttori parmensi fosse quasi un'ossessione per gli Zagaria. Non è un caso. Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna scandiscono l'asse delle opere più importanti in ballo: l'Alta velocità, le tangenziali, le nuove corsie dell'autostrada. Un Eldorado di cantieri e subappalti che hanno tentato in tutti i modi di infiltrare. Finora non c'è prova che ci siano riusciti. Ma i padrini casertani contano sul fattore protezione: quasi tutti i colossi italiani hanno costruito nel territorio chiave tra Roma e Napoli. Dove avrebbero ricevuto dai casalesi servizi importanti: sicurezza, manodopera a basso costo e pace sindacale. Il tutto in cambio di subappalti, portati a termine con efficienza. Un contratto che molti manager settentrionali hanno trovato vantaggioso.

La dama bianca
In Romagna i casalesi scoprono anche delle professionalità innovative. Ne parla Gaetano Vassallo, 'il ministro dei rifiuti' della camorra, descrivendo l'ammirazione del clan per un narcos romagnolo, che apre una nuova rotta per i rifornimenti di cocaina dal Sudamerica. Un personaggio che viene subito ammesso nella cerchia che conta per la capacità di far entrare fiumi di droga attraverso tanti corrieri insospettabili: dieci chili a settimana, 40 al mese. Li chiamavano 'criature', ossia bambini. Ma l'amico della Romagna era anche in grado di fornire rifugi sicuri per i latitanti che volevano stare alla larga dalle retate e dai killer avversari. Quando il clima ad Aversa e a Casal di Principe si faceva teso, quale migliore esilio che il divertimentificio adriatico?

(18 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Marco Imarisio. Il clan dei giovani impazziti l'eccidio poi spari per fare festa
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2008, 10:55:32 am
Territorio e criminalità Lo scontro con la città «gemella» dei clandestini

Il clan dei giovani «impazziti»: l'eccidio, poi spari per fare festa

Sedici omicidi in dieci mesi: la sfida delle nuove leve

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI


CASTELVOLTURNO (Caserta) — Quelli del bar Monica si difendono in proprio. Sulla veranda con vista su una delle tante rotonde di cemento della Domiziana ci sono cinque indigeni che aspettano in piedi l'arrivo dei « niri ». Due di loro stringono nella mano destra una pistola, puntata verso la strada. Gli altri, più concilianti, brandiscono delle spranghe di acciaio. «Negri di m..., ci provassero a venire vicino, gli facciamo scoppiare la testa», dice quello che sembra più anziano in virtù dei capelli bianchi. Scusate, ma provare con la Polizia? A momenti si mettono a ridere.
C'è un posto in Italia dove sei persone vengono ammazzate con 170 colpi di mitra e pistole, alle nove di sera, su un lungomare non certo deserto, con gli assassini che una volta finito il lavoro sottolineano il loro operato sparando qualche raffica in aria. E il giorno seguente gli amici delle vittime, che nulla dicono agli inquirenti di quanto hanno visto, reagiscono fracassando auto e fioriere, ribaltando cassonetti, lanciando sassi grandi quanto un pugno nelle finestre della case. Non c'è da stupirsi. Castelvolturno è un luogo dove la violenza è ritagliata sulla vita quotidiana come un abito di sartoria. Vi aderisce perfettamente, indirizza ogni singolo comportamento, ogni parola.
La Portofino del Sud, così era chiamata a metà degli anni Settanta. Le villette sulla Domiziana erano considerate un investimento sicuro e prestigioso. Il declino fu veloce, inarrestabile. Le case in costruzione vennero requisite per gli abitanti di Pozzuoli colpiti dal bradisismo, le falde acquifere e il mare si riempirono dei veleni prodotti dai rifiuti tossici sversati illegalmente. La Portofino del Sud divenne oggetto di furiose e folli speculazioni immobiliari. Arrivarono gli extracomunitari, a lavorare nei cantieri e nei campi di pomodori. Fino alla metà degli anni Ottanta si trattò di una immigrazione mista. Poi la città divenne il punto di raccolta dei nigeriani. Partivano da Lagos con la parola «Castelvolturno » scritta a pennarello sulla mano. Oltre a usi e costumi, importarono anche la loro criminalità, in un territorio che ne era già saturo.
La strage di Pescopagano segnò la resa dei conti con la malavita locale, ma anche l'inizio di una nuova fase. Il 24 aprile 1990 un commando di camorristi di Mondragone sparò all'impazzata in un bar, inseguì alcuni immigrati che erano fuggiti in macchina, li trucidarono in mezzo alla strada. I clan non gradivano che i « niri » venissero a spacciare a casa loro. Dopo il massacro, gli lasciarono un territorio dove esercitare i loro affari, dietro parcella settimanale da elargire ai Casalesi. Da allora camorristi e mafiosi nigeriani conducono vite parallele basate su un patto di mutuo soccorso. Scambi di armi e killer, case per le reciproche latitanze.
Casalvolturno è diventata un ghetto segnato da spaccio e prostituzione. Le vie interne alla Domiziana sono piccoli inferni di overdosi e violenze. Le ville disabitate sono il luogo dove recludere e seviziare le ragazze appena arrivate dall'Africa, prima di sbatterle sulla strada. Così arroganti, i nigeriani, da aver creato altri ghetti per gli altri, espellendoli dal loro mondo. Ghanesi e liberiani sono confinati nella frazione di Varcaturo. I senegalesi se ne stanno in fondo alle campagne di Lago Patria.
La città conta ufficialmente 21 mila abitanti, ma accanto ad essi è come se fosse sorta una città gemella popolata solo da clandestini. Lo dice chiaro l'ammontare pro capite della tassa sui rifiuti. Il Comune paga esattamente il doppio di quello che dovrebbe produrre in base ai residenti registrati all'anagrafe. Ma Castelvolturno è soprattutto la città dei Casalesi. Il posto che contiene gli investimenti immobiliari a cinque stelle e i tuguri dei disperati nei quali pescare reclute a basso costo, i grandi progetti e i boschi dove si nascondono gli eroinomani da rifornire con la dose quotidiana. L'Alfa e l'Omega del loro atlante criminale, dentro al quale adesso si agita una scheggia impazzita. Un piccolo gruppo di camorristi giovani e imbottiti di cocaina, stanchi del limbo nel quale il clan dei Bidognetti è stato costretto da arresti e condanne, che ha deciso di rinegoziare ogni alleanza, e di alzare il prezzo con gli stranieri, per rivendicare il primato della camorra. Negli ultimi dieci mesi hanno firmato 16 omicidi. All'inizio erano 4-5 elementi, adesso sono già una dozzina. La violenza paga, fa proseliti. In questa Babele, è l'unico linguaggio riconosciuto.
L'atteggiamento dello Stato è inspiegabile. Castelvolturno è uno dei territori europei meno «disturbati» dalla legalità. Come se tutti ci avessero rinunciato. Anche per questa strage le telecamere in zona hanno funzionato a vuoto, come accadde per l'imprenditore Domenico Noviello o per i due albanesi ammazzati all'inizio di agosto. Occhi ciechi, giocattoli senza videocassetta. Il commissariato locale dispone di 35 unità e poche macchine sfiatate che devono inseguire di tutto, camorristi, papponi, trafficanti di rifiuti e pusher di eroina. È stato calcolato che se lavorassero tutti insieme nello stesso momento, gli uomini delle forze dell'ordine potrebbero controllare al massimo tre chilometri quadrati di territorio cadauno. Di notte, viaggiando da Napoli fino a Mondragone, capita raramente di incrociare una Volante. Il controllo sul territorio è pari a zero, non esiste.
Un posto senza pietà, governato da un sovrano invisibile e temuto. La disoccupazione giovanile sfiora il 90 per cento, stessa percentuale, fornita dai carabinieri, dei clandestini che delinquono. I Casalesi non hanno bisogno di inseguire la gente per farsi pagare il pizzo. Ci sono decine di intercettazioni che testimoniano dello zelo con il quale commercianti e imprenditori si mettono in coda per avere un padrone. Ci sono camorristi impazziti che sparano come fossero ad una festa di paese, e immigrati che si sfogano nell'unico modo che da queste parti è considerato legittimo. A voler cercare, c'è di tutto a Castelvolturno. Manca solo lo Stato.


Marco Imarisio
20 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Eduardo Di Blasi. Raid dei Casalesi, guerriglia a Castel Volturno
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2008, 07:38:32 pm
Raid dei Casalesi, guerriglia a Castel Volturno


Eduardo Di Blasi


Alle 5 del pomeriggio la via Domitiana, nel tratto tra Castel Volturno e Lago Patria è un cimitero di cartelli stradali e bidoni della spazzatura. Un uomo di colore di due metri, in pantaloni della tuta e canottiera sotto la pioggia, si accanisce contro un segnale di «stop». Lo sbatte contro l’asfalto, urla. È la coda di un corteo partito quasi due ore prima e degenerato immediatamente. Un corteo di protesta per l’uccisione di sei ragazzi africani, avvenuta nella notte del giorno precedente davanti alla sartoria «Ob. Exotic Fashions», poche centinaia di metri piu giù, al chilometro 43 di questa statale vicina a un mare che non si vede mai, coperto da pini, alberghi e case abusive.

È stato un agguato di camorra: quasi centotrenta colpi sparati. Pistole e kalashnikov. Una strage che, chi è arrivato davanti alla lavanderia alle undici di questa mattina, non si spiega con la sola ricostruzione fatta dagli inquirenti. Una ricostruzione che parla di uno spaccio «in proprio» punito dalla camorra. «I nostri amici non erano camorristi e non spacciavano!», dicono a voce alta quei pochi manifestanti che parlano un minimo di italiano. Siamo davanti al presidio che, alle undici di mattina, ha già assunto la forma di un blocco stradale con le auto rovesciate e messe di traverso lungo la carreggiata.

Alle tre del pomeriggio in un corteo che ormai conta duecento persone rispetto alle pacifiche 40 iniziali, lo scontro è solo tra chi vuole radicalizzare la violenza e chi preferirebbe fermarsi alla dimostrazione, alla semplice richiesta di una «protezione» da parte dello Stato. Una richiesta di indagini celeri, con il rimpatrio delle salme nei Paesi d’origine e un sostegno per le mogli e per i bambini rimasti orfani. Queste le richieste che la delegazione porterà poi all’incontro con il sindaco di Castel Volturno Francesco Nuzzo e il Questore di Caserta Carmelo Casabona.

Intorno alle 15,30, quando la rabbia per il torto subito è già diventata violenza condivisa da un nutrito gruppo di partecipanti al corteo, inizia la devastazione sistematica della strada. Armati di mazze di ferro, ombrelli e pietre, un centinaio di uomini si muovono lungo la Domitiana, sfasciando insegne e vetrine e seminando il panico. La polizia segue a distanza senza intervenire. La guerriglia dà alle fiamme bidoni della spazzatura, copertoni d’auto e materassi, tutta roba trovata per strada. È una furia indistinta che per due ore e mezza tiene con il fiato sospeso gli abitanti della zona e rinfocola odi di razzismo in una città che, dati alla mano, conta 25mila regolari censiti e altri 20mila irregolari (cifra calcolata dal Comune attraverso la produzione dei rifiuti urbani).

Una città schiacciata dal peso di un’immigrazione massiccia e dall’antistato che in questa fame di lavoro trova braccia e corpi per la propria manovalanza: prostituzione, spaccio, edilizia. Sotto l’angolo di un bar di cui non si riconosce il nome (l’insegna è in frantumi ai nostri piedi), dentro un parapioggia blu, Mario guarda verso il fumo che sale sulle strada: «Questi negri dovrebbero tornarsene a casa loro - sbotta convinto - La polizia non gli fa niente». Davanti al portico dell’alimentari dei F.lli Papa carabinieri e polizia si tengono pronti senza tensione. Una fila di una trentina di uomini in assetto antisommossa chiude un pezzo di strada, mentre dietro di loro la Domitiana è diventata una via senza uscita, una specie di circuito di guerra con cassonetti in fiamme in mezzo alla carraggiata in entrambi i sensi di marcia.

Sotto l’insegna del bar Elite, alle 18 in punto, temperatura indicata di 16 gradi centigradi, la banlieue casertana ci mostra però anche un’altra faccia. Il corteo è passato da mezzora e l’autopompa dei vigili del fuoco sta spegnendo i roghi che la pioggia scrosciante ha già in parte affievolito. Da sotto il portico del bar, una ventina di persone, pelle bianca, quarant’anni di media, e spiccato accento del luogo, si spinge sulla strada. Muniti di bottiglie di spirito e accendini danno alle fiamme una campana per la raccolta differenziata, assieme a un materasso e a un pezzo di mobilio. Mentre il camion dei vigili si allontana via in buon ordine, un ragazzo di colore che prova a scostare una parte del blocco per passare con la propria auto viene rincorso ed è costretto a fare un sorriso di circostanza come per dire «mi ero sbagliato» per non incorrere nell’ira dei vandali indigeni.

La scena ci racconta l’altra parte di questo posto, di questa «trincea dei Casalesi», come la chiama il sindaco Nuzzo, mentre racconta dei 18 morti dall’inizio dell’anno, della disoccupazione giovanile inchiodata all’80%, e di quegli autobus che attraversano i comuni di Castel Volturno e Giugliano per andare verso Napoli e i paesi vesuviani, dove da anni non si trova la faccia di un bianco. Posti dove l’uomo bianco detta la sua legge sull’uomo nero. Anche questa sera, si direbbe, la storia non è cambiata. Alle fermate di autobus che non passeranno mai, la strada è impraticabile, con o senza ombrelli, nugoli di persone di colore aspettano sotto la pioggia. Qualcuno sa quello che è successo: «Sono stati ghanesi e nigeriani», ci spiega Patrick incamminandosi verso i fuochi assieme a decine di persone tornate dai campi. Rosa, invece, che viene dal Togo e si dirige verso la Caritas non se lo spiega che non ci siano gli autobus e che i segnali stradali siano tutti per terra: «È stata polizia? Carabinieri?», domanda.

È la paura dello Stato, in qualsiasi forma esso si presenti. Sia la paura dei controlli di polizia, che per chi non ha i documenti significa la fine, sia quella della camorra che si finge Stato e pretende soldi da chi non ne ha nemmeno per sè. Ha ragione il sindaco Nuzzo quando afferma che «quello che è successo oggi a Castel Volturno riporta le lancette indietro di dieci anni sui nostri processi di integrazione». Però anche questa sera la Domitiana riprenderà i suoi ritmi, con le prostitute nigeriane a riscaldarsi dietro i bracieri e gli altri schiavi a dormine in queste case-vacanza senza riscaldamento, davanti a un mare che non si vede nemmeno.

Pubblicato il: 20.09.08
Modificato il: 20.09.08 alle ore 10.47   
© l'Unità.


Titolo: Campania: tra clan e politica
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2008, 07:41:35 pm
19 settembre 2008, 20.18.27

Campania: tra clan e politica


Il dominio totale dei clan di alcune zone della Campania, che vedono il ripetersi di efferati delitti di camorra, è anche colpa di una cattiva politica che non ha interesse a liberare la regione dal giogo della criminalità perché o ignava, o complice o compromessa.

E' un fatto gravissimo. In Campania c'è bisogno di indagare a fondo sui rapporti tra clan e politica. I due partiti maggiori, Pd e Pdl, che a fasi alterne hanno malgovernato la regione, annoverano tra i propri rappresentanti alcuni politici coinvolti in vicende poco chiare, citati da pentiti o inquisiti per collusione, corruzione o che addirittura, secondo quanto hanno appurato alcune indagini, hanno ricevuto appoggio elettorale dai clan. Nicola Cosentino, Paolo Russo, Mario Landolfi e Luigi Cesaro del Pdl, i consiglieri regionali di centrosinistra che sostengono Bassolino Roberto Conte e Nicola Ferraro, spieghino ai cittadini perchè sono stati coinvolti in indagini della Dda di Napoli o in vicende assai poco trasparenti.

La verità è che in Campania, a parte le dichiarazioni di rito, è mancata fino ad ora una vera e perdurante volontà politica di sconfiggere la camorra perché, direttamente o indirettamente, la stessa politica campana si è spesso servita delle zone d'ombra e dei rapporti poco limpidi, degradando la legalità ad un mero slogan invece di interpretarla sempre come un principio ispiratore dell'azione politica. Ecco perché i Casalesi, così come molti altri clan, nonostante lo sforzo delle forze dell'ordine, della magistratura e di una (piccola) parte della politica sana, riescono ad esercitare un controllo totale di alcuni territori, sottraendoli di fatto allo Stato.

Solo il primato dell'etica nella politica, solo superando un ceto politico troppo spesso colluso, si potrà arrivare ad una vera svolta in grado di portare ad un'altra Campania. Il rispetto rigoroso della legalità è, infatti, condizione essenziale per un'economia sana e per una vita più civile per tutti, in particolare per i giovani. Anche nella nostra regione dovrà al più presto essere possibile attivare sempre appalti 'puliti'; attrarre investimenti e nuovi posti di lavoro senza dover aver paura degli attentati dei clan; permettere ad un singolo cittadino di poter aprire un negozio senza temere i taglieggiamenti e le bombe dei camorristi e di poter camminare per strada senza correre il rischio di essere ucciso in una sparatoria.


da italiadeivalori. ecc. ecc.


Titolo: Camorra al nord, perquisito l'Espresso "Pesante intimidazione, andiamo avanti"
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2008, 12:05:46 am
La Guardia di Finanza torna per la seconda volta nella redazione del settimanale

Setacciate anche la case dei giornalisti Di Feo, Papaianni e Fittipaldi

Camorra al nord, perquisito l'Espresso "Pesante intimidazione, andiamo avanti"

La Fnsi: "E' un'azione invasiva grave e sconcertante"



 ROMA - La Guardia di Finanza sta perquisendo in questi minuti, per ordine della procura di Napoli, la redazione del settimanale l'Espresso, a Roma e le case di tre giornalisti. La perquisizione sarebbe motivata dalla ricerca di prove sui responsabili di presunte fughe di notizie relative all'inchiesta con il titolo "Gomorra al Nord" pubblicata sul numero in edicola da Giuliano Di Feo ed Emiliano Fittipaldi. Per i due giornalisti è la seconda perquisizione a distanza di una settimana (la prima era già avvenuta dopo la pubblicazione nel numero precedente del settimanale di un servizio di copertina sui rifiuti a Napoli dal titolo ("Cosi' ho avvelenato Napoli").

Le Fiamme gialle sono arrivate anche a casa Claudio Pappaianni, collaboratore dell'Espresso che non ha firmato tra l'altro nessun articolo dell'inchiesta. A quanto risulta, sono stati sequestrati il pc dell'abitazione e il computer portatile utilizzati dallo stesso Pappaianni.

In una nota la direzione del settimanale parla "di una seconda pesantissima azione di intimidazione da parte della procura di Napoli" assicurando ai lettori "che il settimanale continuerà nella sua opera di puntuale informazione e denuncia e che non si farà intimidire da spettacolari e gravi iniziative della magistratura tese a limitare la libertà di informazione".

Molto critico anche il cdr del settimanale. "Nelle perquisizioni di oggi, offensivi per il lavoro dei nostri colleghi sono apparsi i modi con cui l'intervento della Guardia di Finanza è stato effettuato. Gli agenti, che hanno sequestrato i computer di Di Feo e Fittipaldi, si sono presentati in redazione di sabato, un giorno dopo l'uscita in edicola. Ci chiediamo se il ritardo non sia legato all'obiettivo di trovare gli uffici sguarniti per poter operare con mani più libere. Alla luce di queste considerazioni, ci domandiamo se anche in Italia abbiano valore le sentenze europee che tutelano la libertà di stampa. E invitiamo le istituzioni che credono nei valori democratici, a partire dal Presidente della Repubblica, a difendere l'esercizio del diritto di cronaca".

Solidarietà al settimanale è arrivata anche segretario generale della Fnsi, Franco Siddi, che parla di una "azione invasiva grave e sconcertante". "La gravità e lo sconcerto - continua Siddi - è data anche dal fatto che la perquisizione avviene a redazione chiusa in assenza dei colleghi nei confronti dei quali è condotta l'indagine. C'è da chiedersi cosa valgano le ripetute sentenze della corte di Cassazione che hanno giudicato illegittime azioni di questo tipo in quanto arrecano potenziali e reali limitazioni alla libertà di stampa".'

(20 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: Marco Imarisio. Il gioco dei Casalesi: stasera tiro al negro
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2008, 11:38:06 am
Spedizioni punitive e raid

Il gioco dei Casalesi: stasera tiro al negro

La fuga di Teddy, il nigeriano che vuole salvare le prostitute

 
 
CASTELVOLTURNO (Caserta)- Teddy è andato via perché adesso sa cosa significa essere una boccetta. «Vogliono la tua sottomissione, gli interessa solo questo. Abbiamo provato a renderci utili. Ma a loro non interessa. Siamo schiavi, e tali dobbiamo rimanere». In un'intercettazione di 12 anni fa, uno dei tanti macellai dei Casalesi saluta il suo compare. Lo saluta dicendo che in serata magari se ne va a Castelvolturno «per giocare a boccette con i negri». Poche ore dopo, da una macchina in corsa parte una raffica di mitra contro tre extracomunitari che aspettavano l'autobus sulla Domiziana. «Siamo i loro giocattoli, ma fanno così perché sanno che agli altri italiani in fondo non dispiace ».

Il 19 agosto di quest'anno il nigeriano Teddy Egonwman e sua moglie Alice sono diventati birilli a casa loro. All'ora di cena un gruppo di quattro uomini si mise a sparare sulle finestre del container dove vivevano, ne sfondò la porta e continuò a fare fuoco anche dentro. Un'ottantina di colpi. Due giorni dopo, Teddy e la sua famiglia erano su una macchina diretta a Torino. Così finiscono le illusioni, da queste parti. I coniugi Egonwman si erano messi in testa di fare qualcosa. In modo confuso, arruffato, pasticcione. Ma ci avevano provato. Erano arrivati in Italia da clandestini, come tutti. Teddy trovò lavoro e permesso di soggiorno in un'azienda edile, Alice si buttò nell'import- export di oggetti africani. Lui fondò un'associazione per raccogliere tutti gli immigrati provenienti da Benin City. L'anno scorso aveva deciso di redimere le sue connazionali che lavorano in strada. Faceva addirittura le ronde, non risparmiava qualche schiaffone, alle ragazze a ai loro galoppini. «Non avevano capito che nulla deve e può cambiare. I "miei" e i "tuoi" non vogliono seccature».

A Castelvolturno Teddy era un personaggio così isolato da risultare addirittura patetico nei suoi sforzi. La spedizione punitiva fu bipartisan, nigeriani e casalesi d'accordo nel dare una lezione a un pesce piccolo che veniva considerato un traditore del suo popolo e metteva in crisi il patto tra mafiosi africani e Casalesi. «Volevo dare il mio contributo per liberare la Domiziana dalla prostituzione. Mi hanno urlato che ero un venduto alla Polizia. Mi hanno sparato. Nessun italiano mi ha dato solidarietà, perché un negro che cerca di darsi da fare deve avere per forza qualcosa di storto, no? Tanti saluti, allora». Quelli che restano però rischiano davvero di diventare boccette a disposizione di giocatori anfetaminici e fuori controllo, schiacciati da due poteri simili e alleati nel tenere oppressi i pochi che si muovono sulla linea di confine. «Le uniche vere comunità che ancora esistono sul territorio sono quelle criminali», ragiona un investigatore e le sue parole sono simili a quelle di padre Giorgio Poletto, il prete comboniano che da anni cerca di togliere le ragazze nigeriane dalla strada. «Non è mai stato così difficile. Abbiamo davanti un mare di persone anonime, con rappresentanti che sanno di non rappresentare nulla. La frammentazione li rende più deboli. Sono soltanto individui, alla mercé di un sistema criminale perfetto nella gestione del territorio. In una parola: schiavi».

La strage di Varcaturo rappresenta il disprezzo per i più deboli, quelli che si trovano in mezzo. Il simbolo di questa violenza «terrorista e razzista», come la definisce il magistrato Franco Roberti. La Spoon river delle vittime racconta di gente molto diversa dal prototipo dello spacciatore. Francis era felice perché due settimane fa aveva avuto il riconoscimento dello status di rifugiato politico, dopo sei anni in Italia. Faceva il muratore e frequentava le associazioni di Caserta che si battono per i diritti degli immigrati. Elaj il sarto partecipava alle assemblee settimanali sui diritti degli immigrati, anche lui frequentava i centri sociali impegnati. Akej il barbiere è morto con 700 euro nei calzini. Stava andando a spedirli alla famiglia da quella sorta di Western Union non autorizzata che sorge accanto al locale della strage. Lavorava a Napoli, in un locale del centro. Nei locali devastati dai proiettili e nelle loro case delle sei vittime non è stata trovata droga. Puliti.

Marco Imarisio
21 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Vincenzo Vasile. Rostagno, il silenzio vent’anni dopo
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2008, 06:37:36 pm
Rostagno, il silenzio vent’anni dopo


Vincenzo Vasile


Ha sparato la mafia? Macché, una dark lady e un santone chiacchierato e «bon vivant». Traffici d’armi? Ma no, gelosia, adulteri e tradimenti incrociati, oppure la vendetta di qualche tossico-trafficante. La massoneria deviata? O non saranno stati i soliti servizi segreti? O gli ex-compagni di Lotta Continua invischiati nel delitto Calabresi? Comunque, l’unica cosa certa è che lui, la vittima, «se l’è proprio cercata».

Oggi compie vent’anni il romanzaccio delle ipotesi e degli svarioni, delle indagini e delle infamie su presunti autori e moventi dell’uccisione, appunto, il 26 settembre 1988, in contrada Lenzi di Trapani, con quattro colpi di fucile calibro 12 e due di pistola calibro trentotto, di Mauro Rostagno. E chissà quali battute lancinanti avrebbe inventato lui, Rostagno, sulle tante piste e sugli altrettanti depistaggi che hanno segnato la vicenda delle indagini sul delitto. Quali “calembour” avrebbe concepito, quell’oratore nato, quel pedagogo con i piedi scalzi, in ultimo fustigatore televisivo della corruzione e dei segreti di una provincia dove da sempre Cosa Nostra tiene “i cani attaccati”. Cioè gode di molteplici e cospicue protezioni istituzionali e altolocate. Solo un paio di mese fa, il sostituto della Dda di Palermo, Antonio Ingroia, ha stabilito un punto fermo: fu un delitto di mafia, senza escludere il concorso di altre “entità”. Perché i proiettili che uccisero Mauro furono esplosi da armi che servirono per altri due delitti. Di mafia. “Significative analogie” provano l’appartenenza di queste armi e munizioni, che furono scambiate dai primi inquirenti per ferrivecchi degni di killer dilettanti, all’arsenale della “famiglia trapanese”, come dice la perizia balistica che ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio del capomafia Vincenzo Virga. E si riparte da qui, ipotizzando anche un legame e il concorso di moventi e mandanti dell’esecuzione in Somalia dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, altro “mistero” insabbiato. Mauro era molto amato e molto odiato. Era stato tra i protagonisti del Sessantotto italiano, compagno di università a Trento di Renato Curcio e Mara Cagol, operaio, sociologo, giramondo, fondatore di Lotta Continua, insegnante universitario, guru di una comunità di recupero dei tossici, giornalista investigativo senza tessera professionale, capo redattore di un tv privata. È l’ultimo anno e mezzo di questa vita tormentata e seducente a originare la sentenza capitale, e a cadergli addosso sono i troppi muri di gomma violati dal free lance più appassionato che abbia mai circolato per le redazioni italiane: Mauro si era fatto dare una telecamera portatile dai tecnici della sua emittente, «Rtc». La cassetta con le riprese la teneva chiusa in un cassetto, in ufficio. E aveva fatto anche una copia, dopo essersi informato con uno dei suoi più stretti collaboratori su come trasferire le immagini dal formato degli home video a quello che consente la trasmissione in tv. Mauro Rostagno teneva in borsa la seconda cassetta. Tutte e due sono sparite. Il commando, con il favore del buio provocato da un black out appositamente creato sulla rete Enel, sorprese Rostagno che in compagnia di Monica Serra, una ragazza di 24 anni, stava rientrando in auto nella comunità «Saman» che gestiva, insieme a sua moglie Chicca Roveri e al suo amico Francesco Cardella, per il recupero di tossicodipendenti. Mauro non ebbe scampo. Monica, che era ospite della Saman, se lo vide morire accanto. La perizia ha stabilito che il finestrino posteriore dell’auto della vittima non fu infranto da alcun colpo, ma da un pesante oggetto: i killer avevano un doppio incarico, sparare e perquisire la borsa di Rostagno. Angelo Siino, “ministro dei lavori” pubblici della mafia, ha detto ai magistrati di aver cercato di convincere il padrone della tv a metterlo a tacere, di essersi «mosso per salvarlo, non volevo che si facesse troppo rumore con quell’omicidio...». Vincenzo Sinacori, il primo a rilanciare la pista mafiosa - ma dalle sue dichiarazioni sono passati dieci anni - aveva raccontato di aver partecipato, durante la latitanza, a un colloquio tra don Ciccio Messina Denaro e Francesco Messina, che avrebbero assegnato al gruppo di fuoco trapanese l’incarico di ammazzarlo. Antonio Patti e Enzo Brusca hanno riferito del nervosismo che serpeggiava nella Cosa Nostra per le inchieste di Rostagno, e delle felicitazioni di Totò Riina dopo l’omicidio. E Giovanni Brusca: «Fu Riina a dirmi che eravamo stati noi... che era stata Cosa Nostra a uccidere Rostagno». Invece, le prime indagini dei carabinieri ruotano attorno alla figura della vittima, alla sua cerchia di amici ed ex compagni e sulla sua tumultuosa vita privata. La Procura di Trapani si adegua: nel 1996 ipotizzò che il delitto fosse maturato all’interno della «Saman», per un mix di moventi passionali e di interesse, o anche per un traffico di stupefacenti nella comunità. Inviò mandati di cattura ad alcuni ospiti della comunità, individuati come esecutori materiali del delitto, come mandante a Cardella (che si rifugiò in Nicaragua) e alla Roveri, accusata di favoreggiamento. Dopo alcuni mesi di carcere gli amici e la compagna di Rostagno tornarono in libertà. Cardella, in seguito, fu indicato come trafficante di armi, ora è ambasciatore del Nicaragua. E la morte di Rostagno sarebbe legata alla scoperta di un traffico d’armi con la Somalia, lo stesso su cui indagava Ilaria Alpi e alle attività del Sismi e di Gladio in zona. Si continua a indagare, ma per due volte le porte del Sismi si sono chiuse davanti ai magistrati. Il perito incaricato da Ingroia, Aldo Giannuli, fu estromesso perché accusato da un falso scoop di Panorama e da Francesco Cossiga di avere intenzione di indagare su Berlusconi e sul colonnello Mario Mori. Il falso più clamoroso che ha inceppato la strada della verità si intreccia con il caso Calabresi. In quell’estate del 1988, poco prima di essere ucciso, Rostagno ricevette un avviso di comparizione davanti ai giudici che indagavano sulla morte del commissario. Un rapporto dei carabinieri indica un magistrato dell’inchiesta su Calabresi come la fonte di una contro-pista che accende i riflettori su tutto il gruppo dirigente di Lc, accusato di avere messo a tacere un testimone scomodo come Rostagno. Il magistrato smentì. Di tanta spazzatura, un filone di indagine inesplorato rimane da coltivare. È stato confermato un episodio che era stato archiviato come una leggenda metropolitana: Rostagno incontrò Giovanni Falcone poco prima di morire, ma non si sa se intendesse parlargli dei traffici d’armi e delle attività del Sismi deviato, oppure dell’intrico massonico e mafioso dell’establishment locale, martellato dai suoi quotidiani editoriali televisivi, ambienti che il giudice conosceva bene, avendo compiuto i primi passi della carriera proprio a Trapani, dove c’è un pozzo senza fondo di misteri, anche perché Cosa Nostra tiene “i cani attaccati”.

Pubblicato il: 26.09.08
Modificato il: 26.09.08 alle ore 15.02   
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Titolo: Enrico Fierro. Scontri a Pianura, due politici in «regia»
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2008, 04:29:34 pm
Scontri a Pianura, due politici in «regia»

Enrico Fierro


«Sono partiti, stanno a Fuorigrotta, mannaggia 'a morte». «Guagliu' iammo, stanno arrivann 'e carabinieri». Napoli, gennaio 2008, a Pianura scoppia la guerriglia contro la discarica. Ci sono blocchi, scontri con le forze dell'ordine, devastazioni delle sedi dei partiti, i commercianti devono chiudere i negozi. Chi c'è dietro gli scontri?, i no global, gli ambientalisti duri e puri, i pericolosissimi anarco-insurrezionalisti? Affatto. Il «fronte del no» partenopeo è una miscela maleodorante di politica, affarismo, speculazione, camorra e tifo violento. È questo il vomito ammorbante che sta uccidendo Napoli e le sue speranze di rinascita. Giorgio Nugnes ha la tessera del Partito democratico in tasca ed è assessore al Comune di Napoli, di lui si fida il sindaco, di lui si fidano la prefettura e la Questura.

Prende i voti a Pianura, è in corsa per il consiglio regionale. Non può certo lasciare spazio a Marco Nonno, consigliere comunale pure lui, ma di Alleanza Nazionale, che in quei giorni di fuoco capeggia la rivolta. Due fronti opposti, ma uniti nel no alla discarica. Motivo nobile, direte, visto che a Pianura quello sversatoio c'è da 40 anni e nel quartiere si muore intossicati e devastati dai tumori. La gente lotta per la salute. Nugnes e Nonno per altri interessi.

È scritto nell'inchiesta della procura della Repubblica di Napoli, 34 arresti e 40 indagati. Nonno è finito a Poggioreale, Nugnes è agli arresti a casa sua. Per tutti l'accusa è di devastazione, associazione per delinquere e un'altra sfilza di reati che occuperebbe tutto lo spazio di questa pagina.

«Se salgono di qua si fa una cosa»

3 gennaio 2008, a Pianura sono stati già incendiati autobus, feriti agenti e carabinieri. Ci sono le barricate e Giorgio Nugnes, che è assessore alla protezione civile, è ufficialmente informato degli spostamenti della polizia che muove verso Pianura per «liberare» la discarica. Il clima è teso, Marco Nonno - giacca militare addosso - è tra i rivoltosi. Ha un filo diretto con l'assessore che lo informa e gli dà ordini: «Ma via Sartana è libera, mannaggia 'a capa vosta». E Nonno: «Se salgono di qua si fa una cosa, hai capito?». Una «cosa», un blocco, gli scontri con i petardi, le molotov e le spranghe di ferro. Quelle portate dai ragazzi della tifoseria ultrà mobilitata per l'occasione, da Nonno e Nugnes e foraggiata con «mangiate» e danari da un altro «galantuomo».

Filo diretto con le Teste Matte

È Leopoldo Carandante, piccolo costruttore fortemente sospettato di essere il referente principale di quel misto di camorra e speculazione che ha trasformato Pianura nel regno dell'abusivismo edilizio. I guaglioni degli ultrà sono quelli delle «Teste Matte» e dei «Niss» (Nessun incontro, solo scontri), quelli che ogni domenica incendiano il San Paolo e tutti gli stadi dove il Napoli calcio va a giocare. Mario 'o bandito, Rafilone, Gino 'o topo, Popoff... ecco: questi sono i referenti dei due politici napoletani, soprattutto di Marco Nonno. «Sulla curva esiste una vera e propria legge di camorra», disse un anno fa il pentito Giuseppe Misso jr, nipote del boss Peppe Misso, re della Sanità. «Allo stadio come nella vita o si è guardie o si è ladri»: è lo slogan dei Niss.

«Fammi sapere che mi muovo»

Ma torniamo a quel 3 gennaio. L'assessore Nugnes segue i movimenti dei blindati, informa Nonno che si spazientisce. «Le cose fammele sapere a tempo di record, così mi muovo». Il consigliere del partito di Fini (un fissato di paracadutismo, arti marziali e armi da guerra) teme di essere intercettato.

Ma l'assessore lo rassicura attingendo a piene mani nella sua enciclopedica cultura politica: «Quelli che ci stanno intercettando ci fanno un bucchino». Nonno non è da meno nell'esternare la sua stima a magistrati e forze dell'ordine: «Ci cagano il babà, io non sto facendo niente di illegale». Fermiamoci un attimo. Nugnes è l'assessore di una grande città italiana, un politico in ascesa di un partito in quel momento al governo. Nonno è un giovane consigliere comunale destinato a diventare consigliere regionale per il partito che di lì a poco conquisterà l'Italia ed esprimerà presidente della Camera e ministro della Difesa. E pensate alle loro chiacchiere «ufficiali» condite dalla stima verso polizia e carabinieri. Balle.

Voti, affari e clan

Di nuovo Nugnes: «Io sto qui, sto difendendo i miei cittadini». Balle pure queste. Perché l'inchiesta della procura di Napoli mette a nudo gli affari tra Nonno e il «costruttore» degli abusivi Carandente e le relazioni pericolose di Nugnes che invece usa Ciruzzo Sanges, un pluripregiudicato. Correva l'anno 1994, quando Pietro Lago (legato al clan che porta lo stesso nome e che detta legge a Pianura) parlò dei legami tra camorra e politici: «Ho procurato voti all'on. Martusciello (Forza Italia, ndr) in cambio di piaceri che mi avrebbe fatto: mi avrebbe potuto far avere appalti nella zona di Pianura... Per ultimo ho appoggiato Giorgio Nugnes che mi ha passato informazioni e documenti sui soldi che dovevano essere stanziati per Pianura».

Il patto della braciola

I telefoni non trovano pace quel 3 gennaio. Pianura è in fiamme. Quindici minuti dopo la telefonata tra Nonno e Nugnes, scattano i disordini. Guaglioni mascherati dirottano un bus del trasporto pubblico e lo incendiano con le molotov. In quei giorni Marco Nonno non si perde una telecamera. È lanciatissimo, anche se nel suo partito c'è un consigliere regionale, Piero Diodato, che ha detto sì alla discarica. Durante gli scontri qualcuno appicca il fuoco al distributore di benzina del fratello dell'onorevole. Per rabbonire gli abitanti di Pianura, Diodato, ha premuto sulla giunta regionale per trovare un po' di finanziamenti. Nonno ne parla con Nugnes. Perché l'assessore democratico vuole sapere cosa è riuscito ad arravogliare (arrangiare) alla Regione Diodato, quante braciole, soldi, ha racimolato per Pianura.

Amara la considerazione dei magistrati. «Il denaro pubblico, frutto dell'imposizione fiscale è paragonato efficacemente ad una braciola da mangiare». Ultrà e speculatori, camorra e politici, democratici e di destra: Napoli affondava nella monnezza e loro organizzavano le barricate.

Quando ha vinto il centrodestra, Marco Nonno ha fatto affiggere un bel manifesto: «Grazie a Pianura l'Italia ha voltato pagina», e giù una serie di ringraziamenti ai suoi cari elettori, nome per nome. Grazie a Garibaldi, 'o Russo, 'o Macellaio, Birritella. Firmato popolo delle Libertà.


Pubblicato il: 07.10.08
Modificato il: 07.10.08 alle ore 11.51   
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Titolo: Da procuratore a tutore di un condannato per 'ndrangheta
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2008, 11:30:25 am
Parla Franco Tricoli, già capo della procura di Crotone

Da procuratore a tutore di un condannato per 'ndrangheta

Ex pm sta col boss: "Pentito? No Salvo 700 posti di lavoro"


dal nostro inviato ATTILIO BOLZONI


CROTONE - È al comando di un impero che puzza di mafia ma sembra che gliene importi meno di niente. "Pentito io? Neanche un po'", dice sfidando tutto e tutti. Procuratore di Crotone non lo è più da sessanta giorni, però ha ancora una "vigilanza" comandata dal prefetto e la zona rimozione sotto la sua bella casa sul lungomare. Con l'approvazione e l'ammirazione di molti suoi concittadini e dopo 41 anni con la toga addosso, Franco Tricoli di fatto è diventato il prestanome di un potente imprenditore condannato per relazioni con la 'ndrangheta.

"Prego, garante dei suoi beni", risponde lui il giorno dopo che la prefettura di Crotone ha negato il certificato antimafia alle società sospette che gestisce per conto terzi. E si sfoga, spiega, ricorda, racconta e attacca chi lo attacca: "Intorno a me c'è stato solo uno sciocco clamore mediatico, cosa c'è di tanto strano nelle mia decisione? Ci sono magistrati che si arricchiscono con le consulenze, io invece non mi nascondo, ho scelto di guidare un blind trust e mi faccio consigliare solo dalla mia coscienza: la mia coscienza mi ha detto di fare questo passo per il bene della mia città".

Nella Calabria degli abbracci mortali abbiamo incontrato l'uomo che fino a metà estate era un procuratore capo e poi - alla prima ora del primo giorno di pensione, la mattina del 18 agosto - ha scelto di salvare i beni delle società di Raffaele Vrenna, ex presidente del Crotone calcio, ex vicepresidente regionale di Confindustria, un pezzo da novanta del business della monnezza con tanti agganci nella 'ndrangheta.

L'imprenditore si è "spogliato" del suo patrimonio - intestando le sue quote ai familiari - per paura degli effetti di vecchie e nuove indagini. L'ex procuratore ha fatto il resto: ha accettato di amministrare quei beni saltando dall'altra parte.

Lo sa che alcuni suoi ex colleghi la considerano un traditore.
"Forse qualcuno sparla alle mie spalle, quando però incontro certi magistrati quelli mi fanno i complimenti. Mi dicono: bravo Franco, tu sì che sei un uomo libero. L'altro giorno uno mi ha commosso. Mi ha bisbigliato all'orecchio: caro mio, quando andrò via da Crotone, porterò te sempre dentro il cuore. Io, può chiederlo a chiunque in Tribunale, sono stato un riferimento umano per molti".

Dottore Tricoli, non le è sembrato quantomeno inopportuno diventare garante del patrimonio di un imputato che un sostituto del suo ufficio, il collega della porta accanto, ha messo al centro di un'inchiesta di 'ndrangheta?
"Il trust che ho creato è un corpo autonomo staccato dal padrone, cerco di garantire 700 posti di lavoro. E poi Raffaele Vrenna è stato condannato a 4 anni solo in primo grado. E se in Appello o in Cassazione verrà assolto? Già è stato arrestato e prosciolto per alcuni fatti in Sicilia, a Messina. Il mio maestro, il professore Giuliano Vassalli, diceva che il processo penale è come l'incidente stradale: può capitare a chiunque".

La moglie di Vrenna, Patrizia Comito, è stata per tanti anni la sua segretaria in procura. Era nella sua cancelleria anche quando i suoi colleghi stavano indagando su Vrenna, le sembra normale anche questo?
"Patrizia, una donna eccezionale. Io l'avrei clonata, ne avrei voluto avere tante di Patrizia Comito nel mio ufficio. efficiente, instancabile, precisa. Un esempio. Come dicevo, da clonare".

La signora Comito cosa faceva nella sua segreteria?
"Smistava la posta, riceveva i rapporti dalla polizia giudiziaria e me li consegnava".

Lei conosce anche il marito, l'imputato?
"Sì, certo. Raffaele Vrenna non lo posso considerare fra i miei amici più intimi, diciamo che è un conoscente. Ma che c'entra?, io sono stato sempre un magistrato al di sopra di ogni sospetto. Sono stato il primo a dichiarare guerra alle cosche della provincia e il primo ad arrestare il capo dei capi della 'ndrangheta di Crotone. Sa cosa si chiamava? Si chiamava Luigi Vrenna. Un suo parente, certo. Mi pare che fosse lo zio".

È stato qualcuno a suggerirle di fare il "garante"?
"Un amico avvocato. Erano gli ultimi giorni di luglio e io ero molto angosciato. Dopo 41 anni di magistratura, a 70 anni ho capito che non servivo più, non mi volevano più. Avrei voluto continuare per altri cinque anni. Come presidente del Tribunale dei minori di Catanzaro o come procuratore antimafia sempre a Catanzaro, oppure come presidente del Tribunale di Cosenza. E invece per me non c'era spazio. Mi hanno fatto quella proposta, ci ho pensato su qualche giorno e ho accettato".

Ma davvero non si è pentito neanche un po'?
"No, qui sto benissimo. Vengo ogni giorno, mi incontro di primo mattino con Gianni Vrenna (il fratello, ndr) e studiamo insieme le strategie del gruppo".

C'è chi dice che uno dei suoi figli, Luca, abbia ricevuto in passato - quando lei era ancora procuratore capo - laute consulenze da Vrenna. È vero?
"Mio figlio Luca è avvocato, è entrato in uno studio che già da prima curava gli interessi di Raffaele Vrenna. Questa è la verità".

Dicono pure che lei abbia accettato l'incarico perché non poteva rifiutare.
"Infamie, io debiti non ne ho mai avuti con nessuno. E credo che tutto questo can can sia scoppiato per affossare le imprese di Vrenna. Il bersaglio non sono io, c'è qualcuno che vuole distruggere questa realtà imprenditoriale per farsi largo. Vrenna ha due punti deboli. Uno è occuparsi di monnezza, l'altro quello di chiamarsi Vrenna. Non è l'unico condannato di Crotone. Ci sono tanti condannati che occupano cariche pubbliche qui.. in tutti gli enti".

Non si sente a disagio per quella "tutela" che gli ha assegnato la prefettura?
"Prima avevo anche la scorta ma in verità mi sembrava eccessiva, così alla fine di agosto ho fatto sapere a chi di dovere che sarei andato in giro con la mia auto. Mi hanno garantito una vigilanza radiocollegata, controllano a distanza i miei movimenti. E poi, certo, ho sempre la zona rimozione sotto casa".

E adesso che farà? Continuerà ancora a provare a salvare il patrimonio dei Vrenna?
"Devo valutare, voglio leggere prima il provvedimento con il quale si nega il certificato antimafia a queste imprese".

È solo in questa sua battaglia o qualcuno lo aiuta?
"Al mio fianco ho un solo consulente. Un professionista di fama, il professore Vincenzo Comito, chieda in giro chi è".

Parente della sua ex segretaria Patrizia?
"Mi pare di sì".

(19 ottobre 2008)


da repubblica.it


Titolo: Gelli in tv: «Venerabile Italia»
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 11:18:22 pm
Su Odeon tv da lunedì alle 22.20


Gelli conduttore in tv: «Venerabile Italia»

Il «Maestro» della loggia massonica segreta P2 condurrà un suo programma.

Ospiti? Andreotti e Dell'Utri
 


MILANO - È ricordato principalmente per essere stato «Maestro Venerabile» della loggia massonica segreta P2. Per cui il titolo della sua trasmissione non può che essere «Venerabile Italia». Sottotitolo: «La vera storia di Licio Gelli». Quindi Licio Gelli sbarca in tv. Avrà un programma tutto suo da lunedì, alle 22.20, su Odeon tv .

IL PROGRAMMA - Sarà proprio il maestro della P2 la «voce narrante», assieme a Lucia Leonessi, di una «ricostruzione inedita della storia dell’ultimo secolo, «dalla Guerra di Spagna agli anni ’80, dai salotti di Roma alle rive del lago di Como, dall’epoca fascista al crac del Banco Ambrosiano». Il programma, presentato venerdì ufficialmente a Firenze, vedrà anche la partecipazione di personaggi politici e storici come Giulio Andreotti, Marcello Veneziani e Marcello Dell’Utri. Nella prima puntuta perlerà di fascismo.

CHI È GELLI - È ricordato principalmente per essere stato «Maestro Venerabile» della loggia massonica segreta P2. È stato camicia nera, ha aderito alla Repubblicà di Salò, qualcuno ipotizza che Gelli era molto vicino alla Cia. È stato accusato di aver un ruolo in «Gladio», amico stretto del leader argentino Peròn. Dopo la scoperta della P2, fuggi in Svizzera dove fu arrestato mentre cercava di ritirare decine di migliaia di dollari a Ginevra, ma riuscì ad evadere dalla prigione. Fuggì quindi in Sudamerica, prima di costituirsi nel 1987. Licio Gelli è stato condannato con sentenza definitiva per i seguenti reati: procacciamento di notizie contenenti segreti di Stato, calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola, tentativi di depistaggio delle indagini sulla strage alla stazione di Bologna e Bancarotta fraudolenta (per il fallimento del Banco Ambrosiano è stato condannato a 12 anni).


31 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Libero Mancuso: «È ancora in grado di condizionare la politica»
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 11:19:13 pm
L'associazione familiari delle vittime di mafia: «iniziativa indegna»

Gelli in tv, il Pd fa appello all'Agcom

Vita: «Conferma successo del Piano».

Libero Mancuso: «È ancora in grado di condizionare la politica»


ROMA - Il ritorno sulla scena di Licio Gelli, il Gran Maestro della loggia P2, che condurrà un programma su Odeon Tv, non passa sotto silenzio nei palazzi della politica. L'opposizione grida allo scandalo, la maggioranza tace. E l'Associazione familiari delle vittime di mafia attacca l'«indegna iniziativa»: «Il solo nome di quell'uomo suscita in noi tutto il ribrezzo e lo sdegno possibile». Viene chiamato in causa il premier Silvio Berlusconi, definito da Gelli, «l'unico che può andare avanti» nel Piano di Rinascita democratica della P2. Anna Finocchiaro del Pd si chiede se «è possibile che Berlusconi non senta nessun imbarazzo. Trovo inoltre sconcertante che un personaggio come Licio Gelli diventi una sorta di star televisiva e che una rete privata presenti in pompa magna un tal avvenimento». Marcello Dell'Utri, definito dall'ex Gran Maestro «una bravissima persona, onesta e di profonda cultura», chiarisce di non avere alcuno rapporto con Gelli: «Non ci ho mai parlato. Può dire quello che vuole, noi occupiamoci di cose serie».

«INTERVENGA AGCOM» - Il restio della maggioranza tace, ma dall'opposizione si alzano voci di forte preoccupazione. Come quella di Vincenzo Vita (Pd): «Il ritorno sulla scena politica e televisiva di Licio Gelli è la tragica conferma dell'incredibile successo che ha avuto l'eversivo Piano di rinascita di tanti anni fa. Attenzione a non prendere sotto gamba le dichiarazioni di Gelli perché altro non sono che il sintomo di una profonda crisi della nostra vita democratica». Secondo il senatore pd «la conduzione di una trasmissione televisiva è verosimilmente illegale essendo stata messa fuori legge a suo tempo la P2. C'è quindi da sperare che già nelle prossime ora l'autorità per le garanzie nelle comunicazioni intervenga seccamente su tale caso». Anche la Federazione nazionale della stampa chiede l'intervento dell'Agcom: «È un vero e proprio insulto alla storia di questa nostra nazione e un affronto gravissimo al mondo dell’informazione. Il sindacato dei giornalisti italiani chiede che nessun giornalista si presti ad operazioni così scandalose e si fa promotore di una precisa richiesta di intervento del presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni».

«CONDIZIONA POLITICI» - Durissimo il commento di Libero Mancuso, già presidente della Corte d’Assise di Bologna e presidente della Sezione del Riesame, che si è occupato di eversione, terrorismo e criminalità organizzata indagando in particolare sulla strage di Bologna del 1980 e su quella dell'Italicus del 1974, su Licio Gelli, Pazienza e i vertici del Sismi. Per Mancuso Licio Gelli è «uno che ha ancora grandi capacità di condizionare e di ricattare la politica e i suoi ex associati (alla loggia P2, ndr). Gelli si inserisce in un momento particolarmente delicato della vita del Paese per riproporre la sua vecchia mercanzia logora ed eversiva».

«VERGOGNA NAZIONALE» - «Si vuole sdoganare persino l'eversione, è una vergogna nazionale - attacca il capogruppo alla Camera dell'Italia dei Valori Massimo Donadi -. Non c'è da stupirsi per le parole di Licio Gelli sulla possibilità che Berlusconi porti avanti il suo Piano di rinascita democratica. Il programma di governo di Berlusconi e il piano di Gelli sono la stessa cosa. Berlusconi e la sua maggioranza si esprimano con chiarezza su questa vicenda gravissima, che è un vero schiaffo alla nostra storia e alle nostre istituzioni. Sinora il loro silenzio è sconcertante di fronte al riemergere di un passato antidemocratico».

«FANTASMI DEL PASSATO» - Secondo Rosy Bindi, vicepresidente della Camera del Pd, «tornano i fantasmi del passato ed è inquietante che vada in onda l'autocelebrazione di Licio Gelli e un nuovo tentativo di inquinare la vita pubblica. Non abbiamo mai avuto dubbi su chi era davvero Berlusconi e sulla sua iscrizione alla P2. Di questo dobbiamo essere tutti grati a Tina Anselmi che ha avuto il coraggio di scoperchiare la trama piduista. Dobbiamo essere ancora più avvertiti e vigilanti sui rischi che corre la nostra democrazia». E Marco Minniti, ministro ombra dell'Interno del Pd: «Licio Gelli, riesumato dalla naftalina, conferma il suo profilo di pericoloso eversore, così come l'Italia lo ha conosciuto nei decenni passati». Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo21: «Ci auguriamo che Oden tv voglia riflettere se sia il caso di affidare a un signore come Licio Gelli la conduzione di una trasmissione televisiva. Noi non invocheremo mai censure, ma ci sembra una scelta non proprio felice e nel momento meno adatto».


31 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Torna Gelli e tifa Berlusconi: l'ex venerabile maestro in tv, è polemica
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 11:20:14 pm
Torna Gelli e tifa Berlusconi: l'ex venerabile maestro in tv, è polemica

 
FIRENZE (31 ottobre) - Licio Gelli torna a scatenare polemiche e preoccupazioni. L'ex gran maestro della P2 ha parlato oggi a Firenze nel corso di una conferenza stampa per presentare la trasmissione televisiva "Venerabile Italia" su Odeon tv. Iniziativa che ha scatenato subito polemiche.

Gelli in tv. Solo nell'ultima puntata di "Venerabile Italia", talk show che andrà in onda da lunedì prossimo su Odeon Tv e che lo vede protagonista Gelli sarà, per la prima volta, presente in uno studio televisivo. Ma l'ex venerabile maestro della P2 ha lasciato già oggi la sua villa Wanda nell'aretino per venire a Firenze, negli studi dell'emittente, per presentare il programma e rispondere come un fiume in piena alle domande dei giornalisti presenti. Suscitando reazioni preoccupate nel mondo politico: dal capogruppo Pd al Senato, Anna Finocchiaro, che sollecita una reazione di Berlusconi, indicato da Gelli come il suo erede, al vicepresidente Pdl alla Camera, Osvaldo Napoli, che respinge un «apprezzamento che si trasforma in veleno per chi lo riceve», fino al senatore Pd Vincenzo Vita che chiede l'intervento del Garante delle Comunicazioni perché «la P2 non può andare in onda».

Le polemiche. Stessa richiesta dalla Federazione della Stampa che afferma: dargli spazio è insulto a storia italiana.  Per l'Udc «i cattivi maestri in tv destabilizzano il clima del Paese». Se un'autorità intervenisse con azioni di censura preventiva sarebbe un palese attentato alla democrazia, avverte il proprietario di Odeon Tv Raimondo Lagostena Bassi, che spiega: «Licio Gelli non sarà il conduttore di un programma, ma si è prestato a raccontare davanti alle telecamere di Odeon Tv le sue memorie, che diventeranno materiale per gli storici». «Ci auguriamo che Oden tv voglia riflettere se sia il caso di affidare a un signore come Licio Gelli la conduzione di una trasmissione televisiva. Noi non invocheremo mai censure ma ci sembra una scelta non proprio felice e nel momento meno adatto», ha detto Giuseppe Giulietti, deputato dell'Idv.

Gelli, quasi 90 anni, completo scuro e piglio deciso, non si sottrae a domande sulla politica attuale e del passato: dalle caratteristiche principali del Piano di rinascita democratica alle stragi, dal fascismo («sono fascista e fascista morirò») alla massoneria, dagli aneddoti («una volta incontrai, in un hotel a Firenze, Tina Anselmi che aveva dato ordine di cercarmi in tutto il mondo e lei non mi riconobbe, ma la foto di quell'incontro è nell'archivio di Stato coperta da segreto») alle forze politiche attuali e alle manifestazioni studentesche.

Di Berlusconi Gelli dice che sul Piano di rinascita democratica è «l'unico che può andare avanti, non perché era iscritto alla P2, ma perché ha la tempra del grande uomo che ha saputo fare, anche se ora è in momento di debolezza perché usa poco la maggioranza parlamentare».

«I partiti veri non esistono più, non c'è più destra o sinistra. A sinistra ci sono 15 frange e la destra non esiste. Se dovesse morire Berlusconi, cosa che non gli auguro perché la morte non si augura a nessuno, Forza Italia non potrebbe andare avanti perché non ha una struttura partitica», è ancora l'opinione di Gelli. A proposito dell'esecutivo ha aggiunto: «non condivido il governo Berlusconi perché se uno ha la maggioranza deve usarla, senza interessarsi della minoranza. Non mi interessa la minoranza, che non deve scendere in piazza, non deve fare assenteismo, e non ci devono essere offese». «Ci sono provvedimenti che non vengono presi - ha proseguito - perché sono impopolari e invece andrebbero presi: bisogna affondare il bisturi o non si può guarire il malato. L'immunità ai grandi dovrebbe essere esclusa, perché al Governo dovrebbero andare persone senza macchia e che non si macchiano mai».

Poi attacca la magistratura. «Se oggi in Italia c'è un potere forte, costituzionale, è la magistratura, perché quando sbaglia non è previsto risarcimento del danno», ha detto ancora Gelli, secondo il quale «la magistratura non funziona: il pubblico ministero dovrebbe arrivare da un concorso diverso rispetto al giudice e dovrebbero odiarsi». «In Italia - ha sottolineato Gelli - poteri forti ora non ce ne sono e non ce ne sono mai stati. Oggi la massoneria non esercita nessun potere. Ci sono tre, quattro comunioni che contano e che dovrebbero chiedere che gli elenchi dei massoni non debbano essere consegnati al commissariato. Rotary, Lions, associazioni sportive o religiose non hanno questo dovere e la massoneria dovrebbe prendere dallo Stato non il segreto ma la riservatezza. La P2 era riservata, non segreta, ed è stata perseguitata per distogliere l'attenzione da altre questioni». E ai giornalisti che gli chiedevano del suo archivio ha risposto: «Archivi completi non né ho mai conosciuti: alcune cose vengono sepolte nell'oblio e poi possono riemergere».
 
Le proteste studentesche. «Le manifestazioni non ci dovrebbero essere, gli studenti dovrebbero essere in aula a studiare», sostiene approvando la legge Gelmini «perché ripristina un po' di ordine». «Le stragi ci sono sempre state e ci saranno sempre perché non c'è ordine: infatti sono arrivate dopo gli anni '60. Se domani tornassero le Br ci sarebbero ancora più stragi: il terreno è molto fertile perché le Br potrebbero trovare molti fiancheggiatori a causa della povertà che c'è nel paese», ha detto ancora l'opinione dell'ex Gran maestro della P2 Licio Gelli. «Le stragi - ha aggiunto Gelli - sono frutto di guerra tra bande».

«Marcello Dell'Utri è una bravissima persona, onesta e di profonda cultura, non credo che sia mafioso», ha detto ancora l'ex Gran maestro della P2. «C'è una sentenza che Dell'Utri si trascina dietro - ha aggiunto - e che sarà tirata fuori al momento opportuno perché tutto è guidato. La magistratura prende decisioni su teoremi e non su prove e su Dell'Utri il processo non ha fatto chiarezza».

da ilmessaggero.it


Titolo: Gelli "Solo Berlusconi può proseguire il mio progetto. Usi la sua maggioranza"
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 11:25:27 pm
POLITICA

Conferenza stampa a Firenze dell'ex Gran maestro della P2 alla presentazione del programma 'Venerabile Italia', in onda da lunedì su Odeon Tv

Gelli, la P2 e il Piano di rinascita nazionale

Scoppia il caso sull'ex Venerabile in tv

"Solo Berlusconi può proseguire il mio progetto. Usi la sua maggioranza"

Il Pd insorge e attacca: "Il presidente del Consiglio non ha nulla da dire?"

 

FIRENZE - Nell'attuazione del Piano di rinascita democratica "l'unico che può andare avanti è Berlusconi". Lo ha detto l'ex Gran maestro della P2. Licio Gelli, a Firenze, dove ha presentato il programma tv 'Venerabile Italia'. Gelli sarà protagonista di una ''ricostruzione inedita'' della storia del Novecento in Italia: dalla Guerra di Spagna agli anni Ottanta, dalla P2 al crack del Banco Ambrosiano. La conduttrice e autrice del programma Lucia Leonessi ha raccolto le testimonianze di Gelli a Villa Wanda, di Giulio Andreotti, Marcello Veneziani e Marcello Dell'Utri. Lo stesso Gelli sarà in studio per l'ultima puntata, dedicata alla sua attività di poeta. Le otto puntate da lunedì prossimo fino a dicembre andranno in onda su Odeon Tv.

Gelli, nel corso della conferenza stampa, ha risposto alle domande dei cronisti su passato e presente d'Italia, passando dalla riforma della scuola alla politica, fino alle vicende giudiziarie di Marcello dell'Utri.

Politica. A proposito del giudizio di Berlusconi e del suo Piano di rinascita democratica, Gelli ha chiarito che il premier è "l'unico che può andare avanti non perché era iscritto alla P2 ma perché ha la tempra del grande uomo che ha saputo fare, anche se ora è in momento di debolezza perché usa poco la maggioranza parlamentare". Gelli ha quindi precisato di non condividere il governo Berlusconi "perché se uno ha la maggioranza deve usarla, senza interessarsi della minoranza''. Gelli ha anche commentato il cosiddetto 'Lodo Alfano': "L'immunità ai grandi dovrebbe essere esclusa, perché al Governo dovrebbero andare persone senza macchia e che non si macchiano mai''.

Fini. ''Avevo molta fiducia in Fini - ha detto Gelli - perché aveva avuto un grande maestro, Giorgio Almirante. Oggi non sono più dello stesso avviso, perché ha cambiato''.

Partiti. Quanto ai partiti, ai giornalisti che gli chiedevano se ci sia una forza politica che ha messo in pratica il Piano rinascita democratica, Gelli ha risposto che ''tutti si sono abbeverati, tutti ne hanno preso spunto'', però, ha notato, ''i partiti veri non esistono più, non c'è più destra o sinistra. A sinistra ci sono 15 frange e la destra non esiste. Se dovesse morire Berlusconi, cosa che non gli auguro perché la morte non si augura a nessuno, Forza Italia non potrebbe andare avanti perché non ha una struttura partitica''.

Riforma Gelmini. "In linea di massima sono d'accordo con la riforma Gelmini perché ripristina un po' di ordine", ha detto l'ex Gran maestro della P2. "Il maestro unico è molto importante - ha spiegato - perché, quando c'era, conosceva l'alunno. Poi il tema dell'abbigliamento è importante perché l'ombelico di fuori non dovrebbe essere consentito, e poi la confidenza tra alunno e professore dovrebbe essere limitata".

"Studenti in aula e non in piazza". E a proposito della manifestazioni di piazza "non ci dovrebbero essere, gli studenti dovrebbero essere in aula a studiare - ha sottolineato Gelli -. Nelle piazza non si studia; se viene garantita la libertà di scioperare dovrebbe essere tutelato anche chi vuole studiare, e molti in piazza non ne hanno voglia. Dovrebbe essere proibito di portare i bambini in piazza perchè così non crescono educati".

"Dell'Utri? bravissimo". "Marcello Dell'Utri è una bravissima persona, onesta e di profonda cultura, non credo che sia mafioso", ha detto l'ex Gran maestro. "C'è una sentenza che Dell'Utri si trascina dietro - ha aggiunto - e che sarà tirata fuori al momento opportuno perché tutto è guidato. La magistratura prende decisioni su teoremi e non su prove e su Dell'Utri il processo non ha fatto chiarezza".

Magistratura. "Se oggi in Italia c'è un potere forte, costituzionale, è la magistratura, perché quando sbaglia non è previsto risarcimento del danno".

Stragi e terrorismo. "Le stragi ci sono sempre state e ci saranno sempre perché non c'è ordine: infatti sono arrivate dopo gli anni '60. Se domani tornassero le Br ci sarebbero ancora più stragi: il terreno è molto fertile perché le Br potrebbero trovare molti fiancheggiatori a causa della povertà che c'è nel paese". Secondo Gelli "le stragi sono frutto di guerra tra bande".

Massoneria. "In Italia - ha sottolineato Gelli - poteri forti ora non ce ne sono e non ce ne sono mai stati. Oggi la massoneria non esercita nessun potere. Ci sono tre, quattro comunioni che contano e che dovrebbero chiedere che gli elenchi dei massoni non debbano essere consegnati al commissariato". "La P2 era riservata, non segreta, ed è stata perseguitata per distogliere l'attenzione da altre questioni".

Reazioni. Per Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd
al Senato, è "sconcertante che dal Popolo delle Libertà non giunga una parola a commento delle dichiarazioni di Gelli che, tra le tante cose gravi dette, indica nell'attuale capo del governo l'unico erede del Piano di rinascita democratica". "E' dall'inizio della legislatura che sosteniamo questa tesi: il programma di governo di Berlusconi ed il piano di Gelli sono la stessa cosa", afferma il capogruppo alla Camera dell'Idv, Massimo Donadi. "Tornano i fantasmi del passato ed è inquietante che in vada in onda l'autocelebrazione di Licio Gelli e un nuovo tentativo di inquinare la vita pubblica", afferma Rosy Bindi, del Pd, vicepresidente della Camera.

(31 ottobre 2008)


da repubblica.it


Titolo: P2, più di 900 adepti per sovvertire lo Stato
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2008, 10:04:54 am
P2, più di 900 adepti per sovvertire lo Stato


La P2 è la loggia massonica Propaganda Due. La P2 era una loggia segreta, il cui scopo era reclutare membri con la finalità di sovvertire l'assetto socio-politico-istituzionale. La P2 riunì in segreto circa mille esponenti di primo piano del mondo politico-istituzionale, spesso molto noti. L'allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, definì la P2 «un'associazione a delinquere».


Le origini della P2 si perdono nella storia visto che la loggia chiama in causa il mondo della massoneria. Di sicuro nel 1969 fu chiesto all'allora sconosciuto Licio Gelli, entrato nella massoneria solo nel 1965, di operare per la unificazione delle varie comunità massoniche. Nel 1970 a Gelli fu delegata la gestione della P2.

La lista degli appartenenti alla P2 fu tenuta riservata anche dopo la scoperta. I tentennamenti nel rendere pubblica gli appartenenti alla loggia costò ad Arnaldo Forlani la carica di presidente del Consiglio. La lista fu poi resa nota nel 1981. Tra i 932 iscritti c'era Silvio Berlusconi. Anche personaggi dello spettacolo come Claudio Villa, Alighiero Noschese e Maurizio Costanzo erano nella lista. Inoltre facevano parte della P2 Michele Sindona e Roberto Calvi, Umberto Ortolani e Leonardo Di Donna (presidente dell'ENI), Duilio Poggiolini ed i vertici dei servizi segreti italiani.

I numeri della loggia sono impressionanti: 44 parlamentari, 3 ministri del governo allora in carica, un segretario di partito, 12 generali dei Carabinieri, 5 generali della Guardia di Finanza, 22 generali dell'esercito italiano, 4 dell'aeronautica militare, 8 ammiragli, vari magistrati e funzionari pubblici, ma anche giornalisti ed imprenditori.

«Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci della mia coscienza, ed è un dialogo che mi quieta. Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo», queste le parole che Licio Gelli rilasciò nel 2003 in un'intervista a Repubblica realizzata da Concita De Gregorio. E nel 2003, guarda caso, al governo c'era Berlusconi.


Pubblicato il: 31.10.08
Modificato il: 31.10.08 alle ore 16.57   
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Titolo: Antimafia, la sentenza di Dell'Utri "Costa troppo per quello che produce"
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2008, 05:56:48 pm
POLITICA

Il senatore Pdl replica a Giancarlo Caselli che aveva sostenuto l'impossibilità di processare i politici collusi.

E ribadisce: "Mangano? A suo modo un eroe"

Antimafia, la sentenza di Dell'Utri "Costa troppo per quello che produce"

"L'antifascismo, un concetto obsoleto. Quando c'era il Duce lo Stato funzionava meglio"

Sulla tv: "Non cambierà nulla finché ci saranno quelle facce tristi messe dalla sinistra"

 

ROMA - "L'Antimafia non è finita. C'è e ci sarà finchè esiste la mafia ed è un bene. Credo, tuttavia, che, allo stato attuale, il rapporto tra costi e benefici sia assolutamente sproporzionato, soprattutto quando alcuni procuratori antimafia 'fanno politica'". Così il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri, durante una conversazione con Klaus Davi nel corso di KlausCondicio, contenitore di approfondimento politico in onda su YouTube. Dell'Utri - eletto nelle file del Popolo della libertà nonostante una condanna in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa e una condanna in Cassazione per frode fiscale - replica a Gian Carlo Caselli che aveva sostenuto l'impossibilità, per i giudici, di processare i politici collusi con la mafia. Poi, come già fatto in passato, definisce "un eroe" Vittorio Mangano (condannato nel 2000 all'ergastolo per duplice omicidio), "lo stalliere di Arcore", e se la prende anche con alcuni conduttori televisivi, in particolare del Tg3, a suo giudizio "troppo dark". Quanto alle polemiche su destra e sinistra, commenta: "L'antifascismo? Un concetto obsoleto".

"Sì antimafia ma senza fare politica". Secondo Dell'Utri "è giusto che l'Antimafia faccia il suo lavoro e si impegni. Certamente tra le tante richieste e accuse che ha lanciato, alcune sono finite nel nulla. Ad esempio, io ero certo dell'innocenza di Calogero Mannino. Antimafia sì, insomma, ma evitando di fare politica. Questo per me è un must".

"Io, vittima dei procuratori". In un Paese civile, aggiunge Dell'Utri, "deve essere così ma purtroppo spesso non lo è stato. Non solo l'Antimafia, quanto piuttosto i procuratori di Palermo hanno usato molto e a sproposito lo strumento dell'aggressione politica. Io me ne sento in assoluto una vittima". A suo giudizio, l'accusa nei suoi confronti "non ci sarebbe stata se non ci fosse stata la grande affermazione di Forza Italia in Sicilia nel 1994".

"Mangano? Un eroe". Lo aveva già detto qualche mese fa, ora lo ribadisce: lo stalliere di Arcore, pluricondannato e accusato di reati di mafia, era "un eroe": "Era tra le tante persone assunte alle dipendenze di Berlusconi, io lo conoscevo e sapevo che era bravo nella conduzione degli animali, e lì c'erano cani e cavalli. Fu scelto per stare ad Arcore come stalliere e si comportò benissimo". E ancora: "Malato com'era (Mangano è morto in carcere nel 2000 a causa di un tumore) sarebbe potuto uscire dal carcere se avesse detto solo una parola contro di me o Berlusconi. Invece non lo ha fatto. Per me è un eroe, a modo suo".

Antifascismo, "concetto obsoleto". "Ogni qual volta si tocca questo tasto - sostiene Dell'Utri - ecco l'insurrezione, e questo accade perché la situazione non è mai stata chiarita del tutto, la verità non è mai venuta a galla. Credo che ci sia ancora da lavorare da parte di tutti". E conclude: "C'è anche da dire che il concetto di antifascismo, di per sé obsoleto, torna puntualmente in auge perché mancano nuovi argomenti seri di discussione, e si finisce con il rivangare sempre gli stessi".

Quando c'era Lui... "Mussolini sbagliò, non c'è dubbio, ma quando era al potere lo Stato era più presente di quanto non lo sia adesso. Aveva dato al paese, ed è stato l'unico, un senso di patria non c'era prima e non c'è stato dopo". Dopo l'elogio di Mangano, anche alcune considerazioni sul ruolo di Mussolini. Dell'Utri parla anche sulla scorta della scoperta di alcuni diari del Duce, risalenti agli anni tra il '35 e il '39, e di una agenda del '42 da cui "viene fuori l'immagine di un uomo di valore, dal punto di vista sia umano che culturale. Mussolini cita spesso le classi deboli e più bisognose. Molti provvedimenti in loro favore e diverse leggi sociali risalgono proprio al famigerato Ventennio".

Il Tg3 e lo scarso appeal dei conduttori. Dell'Utri osserva che in Rai ci sarebbero "ancora dirigenti messi dalla sinistra e che rispondono a logiche di sinistra". Per questo "è difficile cambiare la televisione e pensare che migliori la qualità della comunicazione quando a guidarla c'è gente che alimenta una visione negativa della vita". Qualcosa, continua, "si sta già facendo", ci pensa Berlusconi "a diffondere ottimismo". Ma perché qualcosa cambi davvero serve "un nuovo approccio stilistico: le notizie, certo, bisogna darle, sennò si torna al fascismo, ma c'è modo e modo di comunicarle. Magari con conduttori più gradevoli. Al Tg3 ci sono degli anchormen con una faccia un po' gotica, dark. Credo che il direttore del tg dovrebbe mostrare un maggiore 'esprit de finesse' in queste cose. Farle, dirle lo stesso, ma magari con un'altra espressione...".

Le reazioni. Non mancano le reazioni alle parole di Dell'Utri. Il deputato del Pd Marco Minniti lo invita a prendere esempio da Gianfranco Fini che sull'argomento ha saputo ammettere colpe e responsabilità. "Non è la prima volta che Dell'Utri si cimenta in originali forme di revisionismo storico. E' sorprendente la sua rilettura del Ventennio, come ad esempio la sottolineatura dell'idea di patria di Mussolini, un'idea che si è concretizzata nel gettare il nostro paese, la patria appunto, nella drammatica avventura della seconda guerra mondiale, che ha messo in ginocchio l'Italia. Di amor di patria questo non è certo un fulgido esempio". Dell'Utri, commenta Antonio Di Pietro, "non ha mai sconfessato se stesso, vede nei mafiosi degli eroi, lo ha sempre detto, è la sua cultura. Gli italiani possono giudicare, ma Dell'Utri è quello per cui è stato condannato...".

(4 novembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: Mussolini statista, la P2 una montatura: così Dell'Utri voce del padrone (sic)
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2008, 10:19:52 pm
«Mussolini statista, la P2 una montatura»: così Dell'Utri, voce del padrone   


L'antifascismo? È obsoleto. La P2? Tutta una montatura. L'antimafia? Il conto costi-benefici è in rosso. "Gomorra"? Cattiva pubblicità per l'Italia. Gli studenti che manifestano? Figli del fascismo rosso. Il Tg3? Cambiare  gli uomini... Sembra un'intervista finta: la summa del "politicamente scorretto", la libertà da macchietta di chi dà fiato alla pancia anziché alla ragione. E invece no. È l'intervista vera di Marcello Dell'Utri, uscito dalle nebbie, fatta da Klaus Davi per "klauscondicio" su You Tube. Una intervista da prendere sul serio. E sul serio è stata presa, a caldo, da Giovanna Melandri, da Roberto Di Giovan Paolo, dalla Federazione della Stampa.
Una lunga sequela di dichiarazioni che sembrerebbero un vaneggiamento, paradossali, ma che a ben leggere sono la cornice di un nuovo corso che assomiglia così da vicino a quel progetto di P2 di tanti anni fa, proprio ora che Licio Gelli diventa opinionista in tv, che persino Roberto Gervaso (iscritto alla sua loggia) "riapre" la sua rubrica sul Messaggero di Roma.

«La P2 è una cosa che è stata montata per non parlare d'altro - ha detto Dell'Utri nell'intervista -. Certo, esisteva per fare affari, ma è stata sempre strumentalizzata, da 40 anni a questa parte». E poi, la mafia: «Non ci sarebbe stata l'accusa nei miei confronti se non ci fosse stata la grande affermazione di Forza Italia in Sicilia nel 1994», dice il senatore di Forza Italia, glissando sulle pesanti condanne per concorso esterno in associazione mafiosa, schivate grazie alle ripetute elezioni parlamentari, ininterrotte dal 1996.

E poi, ancora Mangano, il famoso "stalliere di Arcore", condannato per omicidi di mafia, che per Dell'Utri era «un eroe», «malato com'era - ha affermato il senatore di Forza Italia nell'intervista - sarebbe potuto uscire dal carcere e andare a casa, se avesse detto solo una parola contro di me o contro il presidente Berlusconi. Invece non lo ha fatto. Per me è un eroe, a modo suo».

E il fascismo. E Mussolini. «Mussolini sbagliò, non c'è dubbio, ma quando era al potere lo Stato era più presente di quanto non lo sia adesso. Aveva dato, e in questo è stato l'unico, un senso di patria al Paese, che non c'era prima e non c'è stato neanche dopo», ha affermato tra l'altro. «Forse Dell'Utri - è intervenuta seccamente Giovanna Melandri - confonde il senso di identità nazionale con quello di purezza della razza "garantito" con le leggi razziali e con la collaborazione con il nazismo. E forse confonde la Patria con le "patrie galere" che il Duce riempì di uomini che la pensavano diversamente da lui come Gramsci, Foa e Pertini. Molti, come don Sturzo e Salvemini, quella Patria furono costretti a lasciarla, andando in esilio. Molti ancora, come Matteotti o don Minzoni, dall'ispiratore di  quella Patria furono fatti fuori, perché le loro idee non coincidevano con l'idea di stato a cui si richiama Dell'Utri».

Ce n'è anche per gli studenti in piazza: «Concordo con quegli internauti che definiscono "figli del fascismo rosso" quegli studenti che impediscono con la forza ad altri di studiare e di frequentare le lezioni, se è vero che, nell'accezione comune, tutto ciò che impedisce qualcosa agli altri è fascista».

Durissima la Federazione della  Stampa contro l'attacco ai giornalisti del Tg3: «Oggi ci siamo sentiti spiegare da un singolare pulpito, quello del senatore Dell'Utri - è scritto in un comunicato - , come devono e non devono essere i conduttori, in particolare del Tg3; la faccia non deve essere gotica, il dark non và. Prima che ce la diano, stiamo pensando noi a una divisa, la farà cucire l'Usigrai, ma se e quando la metteremo, lo faremo per dire alla gente che stiamo trasmettendo informazione non libera».


Pubblicato il: 04.11.08
Modificato il: 04.11.08 alle ore 16.03   
© l'Unità


Titolo: Anchorwoman - 1 e 2
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2008, 11:41:56 am

Anchorwoman / 1


Cuffaro: io continuerò a vestirmi di nero


ROMA — Confessa che sì, si è proprio «arrabbiata» Maria Cuffaro, uno delle anchorwoman del Tg3, che seppure non citata esplicitamente da Dell'Utri si sente chiamata in causa dal senatore. «A una prima lettura, sembrano parole farneticanti. Ma siccome arrivano da un signore che ha la sua storia, il suo passato giudiziario, da uno che considera Mangano un eroe, davvero non suonano carine...». Tutt'altro.

Per la mora conduttrice del tigì «un giudizio estetico che nasconde una censura è una cosa vigliacca, da regimi totalitari». E da «siciliana quale sono», il riferirsi all'aspetto come elemento per dare un giudizio di valore «mi fa pensare a un'allusione non bella, a una minaccia velata, a quel "non mi piace la tua faccia" che si dice da noi... Perché qui non c'è una comunicazione diretta, ma un dire e non dire, che non è bello». Se il clima è questo, c'è poco da scherzare: «Se in tivù andrò vestita di rosa la prossima volta? Non credo proprio: piuttosto sceglierò il nero totale...».


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Anchorwoman / 2


Berlinguer: non è una prova di liberalismo


ROMA — Il volto più noto del tg3, quello mediterraneo di Bianca Berlinguer, si apre in un sorriso: «Mi piacerebbe avere la faccia gotica, ma non sono stata fortunata, perché si sa che gli zigomi alti preservano dai segni dell'età...». Poi torna seria la giornalista, e ragiona: «Certo, se ci si mette a sindacare su giornalisti e conduttori e a farlo addirittura in base al rispettivo aspetto fisico, non si dà una gran prova di liberalismo».

Non vuole polemizzare troppo la Berlinguer, nè fare un caso politico di qualcosa che al momento è solo nelle parole di Dell'Utri, ma il suo giudizio - anche se giocato sul filo dell'ironia - è comunque di critica ai discorsi che arrivano dalla maggioranza sulla necessità di portare ventate di ottimismo e allegria nei tigì anche quando la situazione allegra non è: «Dell'Utri, sulla scia di Berlusconi, sostiene che bisogna diffondere ottimismo. Ma come insegna il "ministro della Paura" Antonio Albanese, niente mette più ansia della falsa allegria...».



P.D.C.
05 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Mafia Spa, attività da 130 miliardi l'anno
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2008, 04:32:57 pm
I dati del rapporto «Sos impresa» di Confesercenti

Mafia Spa, attività da 130 miliardi l'anno

Usura in crescita: le vittime sono 180mila

La principale fonte di guadagni è il traffico di droga, con 59 miliardi.

Poi armi, contrabbando, tratta di persone


ROMA - Cosa Nostra, 'Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona unita, unite sotto la provocatoria sigla Mafia Spa, hanno fatturato quest'anno circa 130 miliardi di euro, con un utile che sfiora i 70 miliardi al netto degli investimenti e degli accantonamenti. Il dato emerge dal rapporto «Sos impresa» di Confesercenti, titolato «Le mani della criminalità sulle imprese». Al primo posto degli introiti della Mafia Spa ci sono i traffici illeciti, che fanno segnare un attivo di 62,80 miliardi di euro. La principale fonte di guadagni resta il traffico di droga, con 59 miliardi di euro, mentre armi e altri traffici costituisco 5,80 miliardi dell’attivo, il contrabbando 1,20 miliardi e la tratta degli esseri umani 0,30. Ancora: 21,60 miliardi di euro arrivano dalle "tasse mafiose", ovvero racket (9 miliardi) e usura (12,60 miliardi); da furti rapine e truffe un miliardo.

APPALTI E SCOMMESSE - L'attività imprenditoriale porta in bilancio 24,70 miliardi di euro di attivo: appalti e forniture pesano per 6,50 miliardi, agromafia 7,50 miliardi, giochi e scommesse 2,40 miliardi, contraffazione 6,30 miliardi, abusivismo 2,2 miliardi. Un mercato emergente che inizia a dare un importante giro di affari è quello delle ecomafie che pesa per 16 miliardi di euro, marginale invece il giro della prostituzione che frutta solo 0,60 miliardi mentre da proventi finanziari ne arrivano 0,75. Dal totale di 130 miliardi di fatturato ne vanno sottratti 60 di passività: 1,76 per stipendi di capi, affiliati, detenuti e latitanti, 0,45 miliardi per la logistica; per la corruzione la criminalità organizzata spende 3,8 miliardi, altri 0,70 servono per le spese legali; negli investimenti vanno 30 miliardi, nel riciclaggio 22,50 e 7,50 in accantonamenti. Il solo ramo commerciale, che incide direttamente sul mondo dell’impresa, ha ampiamente superato i 92 miliardi di euro, cifra intorno al 6% del Pil nazionale.

ATTIVITÀ FRUTTUOSE - Ogni giorno una massa enorme di denaro passa dalle tasche dei commercianti e degli imprenditori italiani a quelle dei mafiosi, qualcosa come 250 milioni di euro al giorno, 10 milioni l’ora, 160mila euro al minuto. Il settore più in crescita, che pesa sulle imprese per 32 miliardi di euro, è quello dell’usura: aumentano gli imprenditori colpiti, sale la media del capitale prestato e degli interessi restituiti nonché dei tassi di interesse applicati, facendo lievitare il numero dei commercianti colpiti a oltre 180mila, con un giro d’affari intorno ai 15 miliardi di euro. Stabile il giro del racket delle estorsioni, dove rimane sostanzialmente invariato il numero dei commercianti taglieggiati, 160mila, con una lieve contrazione dovuta al calo degli esercizi commerciali e all’aumento di quelli di proprietà di malavitosi. Cala il contrabbando, in parte sostituito da altri traffici, mentre cresce il peso economico della contraffazione, del gioco clandestino e delle scommesse.

I NUMERI DEL PIZZO - Un capitolo del rapporto è dedicato al pizzo a Palermo e Napoli. Con degli esempi: un euro per tenere un banco al mercato a Palermo, tra i 5 e i 10 a Napoli; un massimo di 500 euro per un negozio, ma se è elegante o nel centro il prezzo sale a mille. Se si possiede un redditizio supermercato servono almeno 3mila euro, che possono arrivare anche a 5mila; per un cantiere la somma da sborsare a Palermo è di 10mila euro. I soldi versati hanno superato abbondantemente i 6 miliardi di euro: numeri che rapportati alla crisi economica diventano sempre più insopportabili per le imprese, molte delle quali preferiscono chiudere o cambiare città piuttosto che denunciare il malaffare. I commercianti taglieggiati sono circa 150mila, comunque meno di quelli che finiscono vittima degli usurai (180mila). In questo campo, gli interessi praticati dalla criminalità superano il 10% mensile. Nel complesso il tributo pagato dai commercianti supera i 15 miliardi di euro. Un terzo degli imprenditori coinvolti si concentra in Campania, Lazio e Sicilia, ma preoccupa anche il dato della Calabria, il più alto nel rapporto attivi/coinvolti. A Napoli nel 2007 si sono registrati più fallimenti (7,2%, il 15% del totale nazionale).

TRUFFE ALIMENTARI - Un altro settore molto inquietante (e in crescita) è quello delle truffe alimentari: falsificazione di date di scadenza sulle etichette di prodotti, macellazione clandestina e riconfezionamento abusivo di alimenti andati a male minacciano la salute degli italiani. Il rapporto «Sos impresa» indica che nel 2008 i sequestri effettuati dai carabinieri dei Nas relativi ai generi alimentari sono aumentati del 93% rispetto al 2007. Il valore dei sequestri tra il 2005-2007 è stato di 7,8 milioni di euro, mentre nei soli primi otto mesi del 2008 si è raggiunta la cifra di 15,1 milioni. Infine, anche le ricariche telefoniche sono diventate un business per la malavita. «Dopo la scoperta di una truffa di 50 milioni di euro nei confronti di Tim, le indagini hanno portato alla luce una vasta organizzazione criminale che vede coinvolti gruppi pachistani, clan camorristici e un folto numero di imprese che gestiscono servizi telefonici a pagamento» si legge nel documento.


11 novembre 2008
da corriere.it


Titolo: Dagli schermi di una tv privata, i ricordi di Licio Gelli.
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2008, 09:59:58 am
Cavaliere di loggia e spada

Dagli schermi di una tv privata, i ricordi di Licio Gelli. 


Il Venerabile ritrova la memoria e, a 30 anni di distanza, racconta la cerimonia di iniziazione di Berlusconi alla P2  Trent'anni dopo Licio Gelli ritrova la memoria e racconta la cerimonia di iniziazione di Silvio Berlusconi alla loggia massonica P2. Lo fa in una lunga intervista in onda venerdì 5 dicembre alle 19 su pandoratv.it, una web tv che si autofinanzia con i contributi volontari e che trasmette anche su Sky (canale 924 alle 23 di venerdì). Gelli ha raccontato a Udo Gumpel e Philip Willan: "Berlusconi è stato nella P2 per cinque anni. Venne iniziato nella nostra sede di 400 metriquadri in via Condotti a Roma all'ultimo piano del palazzo che ospita il gioielliere Bulgari. La sede era intestata a un nome di copertura perché allora avevamo sei ministri e le cupole dei servizi, della giustizia e della stampa: non potevamo certo segnalare la loggia". Poi Gelli entra nel dettaglio: "A Berlusconi facemmo trovare in sede una persona del suo stesso settore.

Mi pare fosse Roberto Gervaso, ma non ne sono sicuro. Venne fatta la cerimonia sulla spada. All'iniziazione presenziava il neofita e c'era il Gran Maestro e il tesoriere. Al momento dell'iscrizione vengono consegnati due paia di guanti bianchi. Un paio restano al neofita come simbolo di pulizia. L'altro lo deve regalare alla sua donna del cuore. Solitamente poi si andava tutti a cena insieme, al massimo saremo state sei persone".

L'iscrizione, secondo gli atti della commissione P2, risalirebbe al 26 gennaio 1978, mentre la scoperta della loggia è di soli tre anni dopo. Forse Gelli sbaglia o forse Berlusconi, come qualcuno in passato ha scritto, era già massone 'all'orecchio'. Berlusconi in passato ha ammesso solo un'adesione passiva alla P2 e ha negato la cerimonia. Ma è stato considerato spergiuro e amnistiato per falsa testimonianza. Una cosa è certa: Gelli è "appagato" dal suo governo.

Anche se osserva: "Troppe ministre e troppo lassismo con gli immigrati e i magistrati", che tra l'altro hanno condannato Previti ("Un amico innocente").

M. L.

(04 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: «A rischio le indagini di mafia»
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2008, 09:50:52 pm
Audizione in commissione giustizia del segretario dell'Anm Giuseppe Cascini

Riforma intercettazioni, no dell'Anm

«A rischio le indagini di mafia»

«L'indispensabile strumento non potrà essere usato per tutta una serie di reati compiuti dai mafiosi»
 

ROMA - L'Anm è contraria al ddl sulle intercettazioni. Con la riforma messa a punto dal governo, e ora all'esame della Camera, sarà sempre più difficile, secondo il sindacato delle toghe, indagare sulla mafia. Il segretario dell'Anm Giuseppe Cascini ha lanciato l'allarme nel corso della sua audizione in commissione Giustizia a Montecitorio sul disegno di legge che riguarda le intercettazioni. «Formalmente le indagini sulla criminalità organizzata si possono fare - aggiunge Cascini - ma poi nella pratica questo si rivelerebbe impossibile visto che con il provvedimento del governo diventeranno intercettabili solo reati con condanne superiori ai 10 anni». E questo significa che «l'indispensabile strumento delle intercettazioni non potrà essere usato per tutta una serie di reati compiuti normalmente dai mafiosi come, ad esempio, la turbativa d'asta, l'estorsione ecc. ecc». «A meno che - prosegue Cascini - non si voglia sostenere che la mafia sia solo narcotraffico e omicidio». «Con questo ddl, poi - sottolinea l'esponente dell'Anm - sarà impossibile intercettare i detenuti mafiosi quando telefonano in carcere o durante i colloqui con i familiari».

GARANZIE FONDAMENTALI - Nel corso della sua audizione in commissione Giustizia della Camera, ribadisce anche la contrarietà dell'Anm all'ipotesi di estendere il campo di applicazione delle intercettazioni preventive rispetto a quelle processuali. «Abbiamo espresso delle perplessità molto serie - dice il segretario dell'Anm Giuseppe Cascini - sull'ipotesi di ampliare il novero dei casi in cui sia possibile procedere con intercettazioni preventive a scapito delle intercettazioni processuali». «Questa soluzione ridurrebbe le garanzie fondamentali dei cittadini e - afferma ancora il pm - contemporaneamente comporterebbe anche una drastica riduzione dei possibili accertamenti di gravi fatti illeciti». «Abbiamo ribadito - sostiene Cascini - che l'Anm è favorevole a una disciplina molto rigorosa sulla possibilità di diffondere e di pubblicare intercettazioni telefoniche contenenti fatti non rilevanti per l'accertamento nel processo penale attraverso il meccanismo del filtro anticipato che esclude il materiale non rilevante da custodire in archivi riservati». L'Anm ribadisce anche che «la riduzione della possibilità di utilizzare lo strumento delle intercettazioni, determinerebbe oggettivamente la riduzione della capacità di contrasto dei fenomeni criminali da parte di forze dell'ordine e magistratura». «Riducendo il novero dei reati - conclude Cascini - è nelle cose che si riduca anche la capacità di indagare sulla mafia e sul terrorismo».


10 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: Sicchè Licio Gelli è un cittadino libero e dotato di idee assai precise ...
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2008, 05:27:51 pm
Gelli e la politica. Ormai il cerchio si chiude

di Nicola Tranfaglia


Uno dei quotidiani più diffusi in Italia (si colloca subito dietro "Il Corriere della sera","La Repubblica" e "Il Sole 24 ore"), parlo de "la Stampa", di Torino, diretta da Giulio Anselmi, ha pubblicato ieri un'intervista lunga una pagina intera a Licio Gelli, il Venerabile della Loggia P2, ritornato agli onori della cronaca non solo politica, ora presente ogni settimana su Odeon TV.

La giustizia italiana, malgrado numerosi processi intentati negli ultimi venticinque anni dopo la scoperta della Loggia e l'inchiesta parlamentare del 1982, non è giunta - come succede sempre nei confronti dei ricchi e dei potenti - a nessun risultato.

Sicchè Licio Gelli è un cittadino libero e dotato di idee assai precise su sé stesso, come sull'Italia.

Per prima cosa fa una domanda retorica al giornalista: "Il mio piano rinascita ha trionfato, non crede?"
E subito dopo: "Berlusconi se ne é letteralmente abbeverato, la giustizia e le carriere separate dei giudici, le tv, i club rotariani in politica…Già, proprio come Forza Italia. Apprezzo che non abbia mai rinnegato la sua iscrizione alla P2, e del resto come poteva?"

I riferimenti di Gelli sono limpidi. Quando parla del piano rinascita, ricorda il suo "Piano di rinascita democratica" sequestrato a sua figlia all'aeroporto di Linate, che prevedeva appunto l'addomesticamento della stampa e della tv (chi potrebbe negarlo oggi?), la divisione dei sindacati (innegabile, senza dubbio), la separazione delle carriere e altri obbiettivi minori.
E non si può dar torto a Gelli quando dice che Berlusconi se ne è "abbeverato".

Quel che è difficile accettare della diagnosi generale di Gelli è che la crisi della sinistra, di cui tanti parlano, derivi dall'espansione delle logge massoniche di cui parla il Venerabile. A Firenze enumera 520 logge a Palazzo Vecchio e 500 a Palazzo Vitelleschi e si lamenta per le "discriminazioni" che, a suo avviso, ci sono in alcune regioni come Marche e Toscana. Poi aggiunge che ormai (finito il Pci) non ci sarebbe più la sinistra: ma qui cade in contraddizione perché se la giunta fiorentina di Dominici non gli pare più di sinistra ma poi gli pare in crisi….

Tra Veltroni e D'Alema non vede differenze e preferisce, nettamente, la moglie di quest'ultimo che è una nota archivista alla quale si è rivolto per depositare le carte innocue di carattere storico che aveva nella sua villa.

È ormai in pista e, a proposito della P2, afferma senza esitazioni: "La P2? La rifarei tranquillamente…" E ribadisce: "Meglio burattinaio che burattino."

Il cerchio sembra ormai chiudersi, dopo vent'anni di turbolente vicende, ritornare alla casella iniziale.

Ma è possibile che gli italiani non se ne accorgano? Che sia giunta a questo punto di declino la nostra democrazia?


16 dicembre 2008     
 
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Titolo: Gerardo D’Ambrosio: «La corruzione ci impoverisce può salvarci l’indignazione»
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2008, 05:17:44 pm
Gerardo D’Ambrosio: «La corruzione ci impoverisce può salvarci l’indignazione»

di Claudia Fusani


Italia, ritrova la capacità di indignarsi. Di riscoprire il merito e di dire basta alle scorciatoie. È il grido-appello del senatore Gerardo D’Ambrosio (Pd), capo del pool di Milano ai tempi di Mani Pulite. Questa intervista inizia un viaggio tra alcune voci significative del Paese nel tentativo di mettere a nudo l’Italia paese dei favori.

Senatore D’Ambrosio, la corruzione è tornata o non è mai andata via rispetto agli anni Novanta?
«C’è stato un attimo di pausa quando i burocrati hanno avuto paura delle inchieste della magistratura. Era il 1992, avevamo arrestato Mario Chiesa. La pausa è durata un paio d’anni, circa...».

Poi cosa è successo?
«È cominciata l’opera di delegittimazione molto violenta contro la magistratura. E piano piano il sistema della corruzione ha ripreso a funzionare. E non si è più fermato».

Quando dice burocrati cosa intende?
«I tecnici, quelli che lavorano negli uffici pubblici, degli enti locali, dei ministeri. Sono loro che preparano i contratti, i bandi delle gare d’appalto e poi mandano alla firma dell’assessore o del ministro di turno. I politici da soli non si possono corrompere. È il burocrate che decide, spesso, a chi dare l’appalto, senza la sua complicità è più difficile corrompersi».

Che differenza tra la stagione di Mani Pulite e oggi?
«Allora era un sistema: ogni appalto doveva rendere ed essere funzionale al finanziamento dei partiti».

Oggi?
«Oggi la corruzione è meno un sistema ma è altrettanto un principio. E i politici si corrompono per molto meno. I ruoli sembrano invertiti: la prima mossa è degli imprenditori che si rivolgono ai burocrati che poi fanno da intermediari con i politici. I soldi non vanno più al partito come struttura ma al singolo per la campagna elettorale che poi a sua volta può ricambiare il favore in vari modi: la consulenza e l’incarico al professionista, il posto di lavoro, una gara d’appalto costruita su misura affidata con ribassi pazzeschi recuperati poi con le varianti in corso d’opera, qualche finanziamento. I vantaggi che può dare chi è al potere sono enormi».

L’Italia dei favori, appunto. Di recente il Parlamento ha approvato, con i voti della maggioranza, la norma per cui saranno dati a trattativa privata gli appalti fino a 500 mila euro, circa il34% dei cantieri aperti nel paese.
«È la fine della trasparenza. In questo modo gli appalti diventano ufficialmente e legalmente merce di scambio tra il politico e il privato».

Secondo l’ultimo Rapporto del Commissario Anticorruzione, abolito dal governo Berlusconi, le denunce diminuiscono mentre avanza il sommerso. Perchè?
«La corruzione è un reato che giova a tutte e due le parti. È sbagliato aspettarsi denunce. Ai tempi di Mani pulite noi non abbiamo avuto denunce. Ci aiutò il nuovo codice che prevedeva la possibilità di indagare una persona senza informarla».

Promettere incarichi in cambio di un appalto, trattare direttamente con il privato il destino di un’area diventata abitabile, tutto questo è corruzione?
«È una corruzione di tipo diverso. Non si danno i soldi ma si scambiano favori reciproci. È il sistema delle raccomandazioni. Ricordiamoci che la raccomandazione toglie la prevalenza del merito e rovina la competitività sana. Come il sistema delle tangenti ha rovinato il sistema delle imprese, adesso si rovinano quelli che hanno il merito. Così il paese può solo regredire».

Pdl e Lega avrebbero trovato l’accordo sulle intercettazioni limitandole ai reati più gravi ed escludendo quelli contro la pubblica amministrazione. Senza questo strumento la magistratura può combattere la corruzione?
«Senza le intercettazioni Mario Chiesa avrebbe patteggiato e sarebbe finita lì. Le intercettazioni restano il miglior strumento di indagine. Ma non l’unico. Guai adagiarsi sulle trascrizioni dei brogliacci. Ma senza non abbiamo speranza».

Si può parlare, in Italia, di atteggiamento culturale che propende verso la corruzione?
«La corruzione affligge da sempre tutte le società. Il punto è perché uno sceglie di fare il politico: per potere o per servizio? Spesso,molto vicino ame, sento parlare di lettere di scuse perché “nonostante l’interessamento non è stato possibile soddisfare il trasferimento”. Capisce? La raccomandazione è una scorciatoia, gli italiani sono abituati a questo, chiedono e vogliono favori, è normale e perdono di vista il merito».

Senatore, da dove ricominciare?
«Dalla capacità di indignarsi di nuovo. E dal diritto ad avere risposte e certezze. Bisogna rimettere al primo posto il merito, il servizio. Non può essere messo alla berlina chi persegue la corruzione. Non possono stare in Parlamento i condannati. Non si può aspettare otto anni per una sentenza definitiva o consentire che ci si possa difendere “dal” processo cambiando le regole del gioco, le leggi, in corso d’opera».



29 dicembre 2008
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Titolo: Romeo al pm: «Sì ho finanziato la Margherita»
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2008, 05:30:39 pm
Appalti Napoli, Romeo al pm: «Sì ho finanziato la Margherita»
 
 
ROMA (30 dicembre) - Alfredo Romeo ammette di aver finanziato la Margherita. Poi alla domanda del pm se siano stati elargiti contributi in nero risponde: «pubblici non li ricordo». Sono alcuni passaggi dell'interrogatorio dell'imprenditore avvenuto il 18 dicembre nel carcere di Poggioreale, il giorno dopo l'arresto per l'inchiesta sugli appalti a Napoli  che ha fatto traballare l'amministrazione di osa Russo Iervolino.

Romeo poi spiega che quando al governo c'era il centrosinistra Fioroni lo ha incontrato, ma solo per «chiacchiere di corridoio». L'imprenditore afferma quindi che gli incarichi dal Comune di Napoli d'abitudine li «rifiutava». Anche perché era creditore di circa 20 milioni di euro.

Ecco alcuni passaggi dell'interrogatorio di Romeo. Le domande sulla questione dei finanziamenti politici vengono rivolte a Romeo dal pm Vincenzo D'Onofrio.

Pm: ha mai contribuito a finanziare il partito della Margherita?
Romeo: Io credo di sì
Pm: I singoli candidati o il partito?
Romeo: In trasparenza, credo, ma non...
Pm: Nessun complesso?
Romeo: Non mi ricordo esattamente quanto e come...
Pm: Ma cifre di quale portata?
Romeo: Non...
Pm: Non ha idea? ...Si può contribuire anche in nero Romeo: Pubblici non me li ricordo
Pm: Voglio capire: da migliaia di euro o da centinaia di migliaia di euro?
Romeo: No, non arriviamo a queste...
Pm: Migliaia di euro ci possiamo fermare?
Romeo: Sì
Pm: Il singolo candidato o nel complesso il partito?
Romeo: Il partito Pm: C'è una telefonata in cui lei si accheta con il fatto che Francesco Rutelli le avrebbe consegnato di suo pugno un invito al congresso. E proprio per questa propria consegna personale lei non poteva mancare. Ecco, ha ammannito, ha millantato? Si è reso anche lei conto di quella costruzione in cui uno si autoaccredita e non...
Romeo: È possibile, sì...

In un altro passaggio dell'interrogatorio, Romeo alla domanda del pm sull'eventuale esistenza e sul tipo di rapporti con Rutelli risponde: «No, no! personali, diretti, nessuno!».

Sempre nell'ambito dello stesso verbale, l'imprenditore a proposito della sua presunta «sponsorizzazione» a favore dell'ex assessore Giorgio Nugnes (suicidatosi nei giorni scorsi) presso il parlamentare Renzo Lusetti, spiega: «Perché Lusetti era in qualche modo l'uomo di Rutelli, la persona più vicina a Rutelli». Ha mai avuto modo di sospettare che Lusetti millantasse, gli domanda il pm. E Romeo: «Sempre!». Il pm. «Cioè che era un fanfarone?». Romeo: «Sempre!».
 
da ilmessaggero.it


Titolo: Achille Serra. - «I corrotti sono tornati in sella. Se poi Mangano è un eroe...
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2008, 05:51:32 pm
Achille Serra. - «I corrotti sono tornati in sella. Se poi Mangano è un eroe... »

di Claudia Fusani


C’era un ufficio in Italia che si occupava di corruzione. Non quella che è già reato e affare della magistratura. Si occupava del fenomeno, delle cause e delle conseguenze, un monitoraggio continuo. «Lo aveva voluto Berlusconi nel 2005 - racconta il prefetto Achille Serra che ne è stato l’Alto Commissario prima di diventare senatore del Pd - ma proprio Berlusconi lo ha chiuso a giugno, è stato uno dei primi atti del governo. Ha dato le competenze al ministro Brunetta».

Forse perché le denunce diminuiscono?
«In Italia la corruzione ha radici profonde che toccano un po’ tutti i settori della vita civile. Mani Pulite è stata una parentesi che ha fatto saltare le regole del gioco, il vecchio sistema. Poi corrotti e corruttori si sono riorganizzati in fretta. Le denunce possono raccontare poco di questo fenomeno. L’Ocse, invece, l’Organizzazione mondiale per lo sviluppo economico, mette l’Italia al 41° posto della classifica dell’indice della percezione del malaffare (Corrupt percept index) che serve a misurare la corruzione nel settore pubblico e nella politica. Dividiamo la posizione con la Repubblica Ceka. Dopo di noi ci sono solo Malesia, Corea del Sud e Sudafrica. La Banca Mondiale fa peggio e ci spinge fino alla 70° posizione. La verità è che c’è un calo di tensione dovuto anche alla difficoltà di sanzionare e punire i funzionari corrotti».

Lei è stato Alto Commissario dal settembre 2007 al febbraio 2008. Una fotografia del fenomeno?
«Con Pier Camillo Davigo, ex del pool di Mani Pulite ora in Cassazione, abbiamo presentato la prima mappa della corruzione in Italia. Una fotografia sconcertante».

Ad esempio?
«Il ministro alla Sanità Livia Turco ci dette l’incarico di indagare sul fenomeno della malasanità in Calabria».

Il nesso tra malasanità e corruzione?
«Dopo mesi di audizioni io e il prefetto Silvana Riccio abbiamo scritto una relazione su come funzionava la sanità in Calabria. Qualche numero: su 39 ospedali 36 sono risultati irregolari; su 63 strutture sanitarie, ambulatori, case di cura convenzionate, guardie mediche, 38 sono irregolari. Eppure la Regione Calabria investe in Sanità l’8,77 del pil, il doppio rispetto alla Lombardia. La malasanità è cattiva gestione ma anche corruzione nel momento in cui i direttori generali delle Asl vengono scelti non sulla base di requisiti di professionalità ma di altro genere. La sanità non funziona perchè arrivano tanti soldi e vengono spesi male e anche questo è conseguenza della corruzione. Nel nostro viaggio-indagine in Calabria abbiamo visto cose incredibili: a Melito Porto Salvo c’erano pazienti in dialisi su letti arrugginiti e accanto a pareti piene di umido; secchi sudici accanto alle garze sterili».

Dopo la vostra relazione è cambiato qualcosa?
«Io ho lasciato per candidarmi alle politiche, poi l’ufficio è stato, nei fatti, chiuso. Non credo sia cambiato qualcosa».

Il prefetto Riccio racconta di mail di disperazione che arrivano dalla Calabria. Di persone e comitati che credono in un cambiamento che non arriva.
«Abbiamo trovato tanta omertà ma anche tanta speranza. Specie i genitori di ragazzi morti per incuria, egoismo e miopia. Perchè non è mai arrivata un’ambulanza».

Quindi lei non è rimasto stupito per le inchieste di Firenze, Napoli, Potenza, Pescara?
«Invece mi colpisce molto dover parlare di questione morale all’interno del Pd. Ma preferisco essere cauto perchè ho visto provvedimenti gravi presi con troppa facilità da parte della magistratura».

Raccomandazioni e scorciatoie, anche questa è corruzione. Dalle intercettazioni sembra quasi che i politici, per lo più di sinistra, se lo siano dimenticato. Perché il paese non riesce più a distinguere cosa è lecito e opportuno anche se forse non ancora illegale?
«Senza cadere in generalizzazioni, stiamo diventando, in parte lo siamo già, un paese individualista e qualunquista. Colpa dello stato che non c’è abbastanza. Colpa nostra che non riusciamo più a indignarci quando sentiamo un parlamentare dire che un mafioso come Mangano, morto all’ergastolo per mafia, è un eroe. Colpa della classe politica che dovrebbe stare meno nei palazzi e andare più tra le persone, a cercare di coinvolgerle sulla questione morale».

Contro la corruzione senza lo strumento-intercettazioni. È possibile?
«No. E lo dico da ex poliziotto. La soluzione, tra l’abuso di pubblicazioone - che esiste - e la salvaguardia di questo strumento di indagine straordinario, è una sola: pubblicare solo le telefonate attinenti il reato. Le altre non possono neppure essere trascritte sui famigerati brogliacci».

cfusani@unita.it

30 dicembre 2008
 
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Titolo: «È la corruzione dilagante il problema, non i magistrati»
Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2009, 10:31:13 am
«È la corruzione dilagante il problema, non i magistrati»

di Massimo Solani


«L’attacco alla magistratura è il segno dell’incultura giuridica italiana. Da qui muove l’uso strumentale della politica per la tutela dei propri interessi». Guido Calvi, avvocato penalista ed ex parlamentare dell’Ulivo, è deluso e scoraggiato dal teatrino di accuse e polemiche montato nelle ultime settimane attorno all’operato delle procure di Pescara e Potenza. «Le reazioni che ci sono state - spiega - indicano debolezza di analisi nei confronti dei fenomeni di carattere giudiziario. Ma occorre fare alcune distinzioni per capire bene».
Distinguiamo allora...
«Un conto sono gli eventuali errori che può compiere un singolo magistrato, un conto è la magistratura nel suo complesso. E ancora: la critica contro i provvedimenti della magistratura è assolutamente legittima e doverosa. Ma una cosa è la critica dei provvedimenti, altro quella nei confronti della magistratura che spesso sconfina nell’insulto. La prima è doverosa, il secondo è sintomo di grave incultura democratica».

Eppure intorno alle ultime inchieste che hanno coinvolto esponenti dei partiti, la politica si è scatenata.
«Quelle vicende processuali hanno evidenziato alcune debolezze del sistema, soprattutto in tema di uso della custodia cautelare. A Pescara, a mio avviso, c’è stata scarsa prudenza mentre a Potenza si è trattato di un abuso, e non è la prima volta che accade in quel tribunale. Segno allora che c’è un problema di controllo: se questi eccessi tendono a ripetersi come anche la diffusione illegittima di intercettazioni telefoniche significa che ci sono magistrati che commettono errori ed una carenza di controllo. Ma non si può attribuire la colpa alla magistratura di un problema che è tutto politico».

In che senso?
«Negli ultimi anni la politica ha scelto la strada del disinteresse e del silenzio. Oppure del compiacimento. In ogni caso si trattava di condotte politiche assoggettate all’operato della magistratura».

È in questo modo che la tutela della “questione morale” è stata affidata interamente alle inchieste penali?
«La magistratura fa il suo dovere, in modo pieno. È la politica che non esercita più i suoi poteri non rispettando quindi i suoi doveri. Questo è un paese in cui la corruzione dilaga, e quali iniziative politiche sono state prese per combattere il fenomeno? Di fronte a questi fenomeni, che risposte ha dato il potere legislativo? È in questo senso che il problema è tutto politico: la politica del diritto è stata sempre delegata alla magistratura fin quando il suo operato andava bene. Quando invece non andava più bene si è passati all’insulto in un clima di totale assenza di iniziative idonee a colpire il problema della corruzione. Faccio l’esempio delle intercettazioni, che sono uno strumento fondamentale per combattere i crimini contro la pubblica amministrazione: da decenni si discute sulla necessità di regolamentare la materia impedendo, con una legge equilibrata, la diffusione illegittima delle conversazioni intercettate. Eppure non si è mai davvero fatto niente di concreto, e allora non c’è nemmeno da meravigliarsi se Berlusconi pretende di vietarle. A questo punto il problema non sono gli eventuali abusi di magistratura e stampa, quanto piuttosto l’inerzia del Parlamento».

Non crede che il dibattito sulla riforma dell’ordinamento abbia avvelenato ancora di più il clima?
«La profonda incultura italiana ha determinato l’incapacità di affrontare i temi di politica del diritto. E in questa fase prevalgono le pulsioni più interessate, non certo le iniziative volte alla tutela dei cittadini. Ma se da una parte il centrodestra ha cavalcato l’onda a colpi di leggi ad personam, dall’altra il centrosinistra non è stato in grado di condurre iniziative serie».

msolani@unita.it

03 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: Piero Grasso: «Mafia e politica, la logica è la stessa»
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2009, 04:37:50 pm
Piero Grasso: «Mafia e politica, la logica è la stessa»

di Claudia Fusani


Contro la corruzione, prima che dilaghi in ogni settore della vita pubblica e privata, serve una rivolta morale, «ogni individuo si deve sentire eticamente coinvolto per la sua parte, che sia pubblica o privata». Intanto l'Italia dovrebbe «ratificare il prima possibile la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione», una firma attesa dal 1997. E, contestualmente, «provvedere a punire anche la corruzione tra privati, come già avviene in Europa, non solo tra soggetti pubblici come avviene finora».

Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso non è sorpreso per la fotografia che sta emergendo dalle inchieste che hanno coinvolto le giunte di Napoli, di Pescara, di Firenze e gli amministratori locali di Potenza. “L'Italia dei favori”, per chi si occupa di mafia, è pane quotidiano. «Spesso, direi sempre, nelle indagini di mafia abbiamo trovato un sistema clientelare basato sulle intermediazioni, tu hai bisogno-io ti prometto-tu mi dai in cambio qualcosa. La moneta di scambio più usata è il voto ma l'intermediazione può riguardare molte altre cose, dagli appalti al posto di lavoro, dalla nomina e all'incarico».

Le ultime inchieste, pur non avendo a che fare con la mafia, ci raccontano un sistema antico e conosciuto?
«Purtroppo è il legame di sempre tra chi ha il potere e lo gestisce e chi ha bisogno di qualcosa. È un meccanismo che dal sistema mafioso si è esteso, come metodo, nella sfera politica. C'è un parallelismo tra sistema mafioso e sistema politico e riguarda il metodo clientelare. Prendiamo i concorsi pubblici: oggi non c'è un candidato a un concorso pubblico convinto di poter avere il posto o l'incarico, che magari si merita, senza dover prima ricercare una spinta. Giuseppe Guttadauro, stimato medico e boss di Brancaccio, pluricondannato, decideva nel salotto di casa sua quale medico dovesse ricoprire un determinato incarico in un certo ospedale. Lo stesso fa il politico».

La politica, come la mafia, cerca di conquistare il consenso sulla base di un sistema di favori?
«È così. Oggi l'imprenditore stimato, il politico influente fanno parte di una rete di amicizie strumentali a cui si cerca di connettersi in mancanza di altre reti basate su valori come onesta, affidabilità, merito, professionalità. Tutto si risolve nella microfisica dei rapporti interpersonali. È lì che si prendono decisioni, si fanno affari, si veicolano capitali, si utilizzano conoscenze. Questo insieme reticolare ha una vischiosità e una forza di inerzia per cui chi non è dentro si ritrova esposto alla perdita di benefici. La scelta è restare fuori, da tutto, o entrare nel club. Questo sistema, allargandosi a macchia d'olio, ha creato la convinzione che le pratiche clientelari producano occupazione. Ormai è una regola di comportamento a cui tutti si attengono. Gli animali occupano il territorio. Mafia e politica adottano la stessa logica: occupare il territorio in vista del consenso».

Procuratore, analisi gravissima.
«È quanto ci raccontano le indagini. Il problema è che tutto questo è diventato normale, una prassi, come se andasse bene a tutti. Ricordo il caso di Vincenzo Lo Giudice (deputato della regione Sicilia e dal 2001 al 2004 deputato dell'Udc, condannato nel febbraio 2008 in primo grado per associazione mafiosa, corruzione, turbativa d'asta ndr), portatore di ben 40 mila voti e per questo conteso prima a destra e poi a sinistra. Allora dissi che finché la politica resta cieca di fronte a questi casi, sarà difficile uscire da ambiguità e collusioni. Mi fu risposto che quei voti sarebbero andati comunque a qualcuno. Tanto valeva portarseli a casa».

È stato pesato il fatturato della mafia. Quanto vale la corruzione nel bilancio di clan e famiglie?
«La prassi è che la famiglia mafiosa incassi una tangente del 2-3% del valore dell'opera costruita sul territorio del clan. Più in generale è stato calcolato che il 10 per cento del denaro pubblico prenda altre vie. Una seria lotta alla corruzione farebbe risparmiare questi soldi per destinarli a famiglie, scuola, lavoro, alla stessa giustizia».

Secondo un'indagine del Cnel la maggiore difficoltà per le imprese del nord che vogliono investire al sud non è la mafia ma "l'inefficienza della pubblica amministrazione".
«Un risultato che fa ancora più rabbia. Significa che quello della mafia è una specie di costo fisso, lo puoi preventivare nel budget. I ritardi, il rialzo dei costi e tutta quella burocrazia su cui poi prospera la corruzione, no. Quando penso a questa indagine mi viene in mente Vito Ciancimino, il sindaco del sacco di Palermo, che disse che i magistrati erano dei pazzi perché volevano distruggere il sistema della tangente fissa che a suo modo aveva un ordine ed era una garanzia».

Quanto può essere utile ai clan una classe politica e, per riflesso, una società che vivono più sui favori che sul merito?
«Il sistema dei favori e delle clientele può far proliferare e prosperare il sistema mafioso. Sono sistemi modulari, possono funzionare entrambi in modo autonomo e convivere seppur separatamente. Oppure ci possono essere reciproche interferenze. Dipende dal territori».

Perché sono fondamentali le intercettazioni per combattere i reati contro la pubblica amministrazione e poi, come s'è visto, arrivare al crimine organizzato?
«Oggi, in mancanza di testimoni e di documentazioni, le intercettazioni sono uno strumento necessario per portare prove granitiche in aula. Per un reato come la corruzione che richiede un accordo tra corruttore e corrotto - io lo chiamo sinallagma - per cui entrambi non hanno interesse a denunciare per proteggersi e non indebolirsi, le intercettazioni sono fondamentali».

Certe prassi come il favore e la clientela non sempre sono reato. Cosa serve per combattere certe storture del sistema?
«Mancano i controlli sulla discrezionalità e sulla legalità degli atti della pubblica amministrazione. Una volta c'erano i Comitati regionali di controllo (Coreco) e i segretari comunali di nomina statale garantivano la legalità. Oggi i Coreco non ci sono più e i segretari sono di nomina politica».

Il Parlamento, a maggioranza, ha approvato la norma per cui gli appalti fino a 500 mila euro saranno dati a trattativa privata, il 30% dei cantieri aperti oggi in Italia affidati sulla base delle conoscenze personali di sindaci, assessori.
«Non vorrei sembrare cinico, ma il vero problema oggi non è la trattativa privata o l'asta pubblica. Il problema è l'onestà e l'etica di chi affida i lavori: se lo fanno a prezzo giusto, nei tempi prestabiliti, ne guadagniamo tutti».

Procuratore, è stato convocato dalla Commissione antimafia sull'emergenza legata ai legami tra politica e crimine organizzato?
«Non ancora».


06 gennaio 2009
da unita.it


Titolo: Mistero Borsellino
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2009, 09:22:16 am
Mistero Borsellino

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Dopo il "botto" sull'autostrada di Capaci, nei 56 giorni che separarono l'attentato a Giovanni Falcone da quello a Paolo Borsellino, l'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino sarebbe venuto a sapere che pezzi dello Stato avevano intavolato una "trattativa" con Cosa nostra per far cessare il terrorismo mafioso, in cambio di alcune concessioni legislative: prima fra tutte la revisione del maxiprocesso. Sarebbe stato uno dei protagonisti di quel negoziato, Vito Ciancimino, a chiedere alcune "garanzie istituzionali", tra cui quella che Mancino fosse informato.

E avrebbe ottenuto, attraverso canali tuttora al vaglio dei magistrati, che l'informazione giungesse al destinatario. È uno dei passaggi più delicati delle nuove rivelazioni fatte nei giorni scorsi ai pm di Palermo da Massimo Ciancimino, il figlio prediletto di Vito, l'ex sindaco mafioso del capoluogo siciliano che fu per decenni la longa manus del boss Bernardo Provenzano nel cuore della Dc.

I nuovi verbali, trasmessi subito a Caltanissetta, sono già sul tavolo del procuratore Sergio Lari, che coordina l'ultimo fascicolo rimasto aperto sui mandanti esterni della strage di via D'Amelio e contengono rivelazioni che potrebbero imprimere una svolta alle indagini sull'eliminazione di Borsellino, la pagina più inquietante della sfida mafiosa sferrata contro le istituzioni all'inizio degli anni Novanta. Gli stessi verbali sono confluiti nella nuova indagine della procura di Palermo sui "sistemi criminali" in azione in Italia durante la stagione delle stragi. E non è escluso che Nicola Mancino, oggi vicepresidente del Csm, venga chiamato dalle due procure siciliane nelle prossime settimane per fornire la sua versione dei fatti.

Massimo Ciancimino, l'unico dei quattro figli di don Vito a vivere con lui fino alla fine dei suoi giorni, è un personaggio assai controverso: condannato a cinque anni e otto mesi per riciclaggio del tesoro accumulato dal padre in quarant'anni di attività politico-amministrativa, imprenditore di una miriade di società grandi e piccole, è noto a Palermo per le sue abitudini da bon vivant, tra auto di lusso, yacht miliardari e vacanze esclusive. Da qualche mese, il figlio dell'ex sindaco 'collabora' con gli inquirenti e nelle ultime settimane ha ricostruito nei dettagli con i magistrati di Palermo le fasi cruciali del negoziato che gli uomini del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, a cavallo tra le due stragi del '92, avviarono con don Vito per chiedere al boss Totò Riina di fermare l'attacco allo Stato. "Mio padre", ha detto Ciancimino, "era molto prudente, comprendeva tutti i rischi della situazione, e voleva essere sicuro che ci fosse una copertura istituzionale al negoziato.

Voleva accertarsi che gli uomini del Ros avessero concretamente l'approvazione delle istituzioni".
È questa una circostanza che Mori e De Donno hanno sempre negato, sostenendo di essere andati da Ciancimino in assoluta autonomia, spinti solo dalla necessità di stringere il cerchio attorno a Riina. Ma Ciancimino jr la racconta in un modo diverso, sostenendo davanti ai pm di Palermo di aver visto con i suoi occhi il famoso "papello", il foglio con le richieste che Cosa nostra presentò allo Stato in cambio di uno stop alla stagione delle stragi. "Il medico personale di Riina, Antonino Cinà", ha raccontato, "era il collegamento diretto.

Tutte le volte che mio padre ha iniziato la trattativa, l'ho visto spesso a casa mia". Ma a portare il "papello", secondo il giovane imprenditore, sarebbe stata un'altra persona, un "signore distinto", che avrebbe consegnato materialmente la busta con le rivendicazioni di Cosa nostra. "Mio padre lo conosceva", ha aggiunto Massimo Ciancimino, "lo aveva incontrato varie volte a Roma. Non so perché la busta gli venne consegnata a Palermo". Quel "signore distinto" il figlio di don Vito non lo conosce, non sa chi sia. I pm di Palermo gli hanno sottoposto una serie di fotografie, ma l'esito degli accertamenti è ancora top secret.

È a questo punto della trattativa che l'ex sindaco di Palermo, secondo il figlio, avrebbe chiesto una "garanzia" istituzionale per procedere nel negoziato con lo Stato. Chiedendo di informare il ministro Mancino degli incontri avviati tra Roma e Palermo con gli uomini del Ros. Secondo Ciancimino jr, quella richiesta sarebbe stata esaudita. Il padre avrebbe avuto la conferma che Mancino era stato informato.

Dopo questa rivelazione, l'attenzione investigativa si è concentrata sull'incontro del 1 luglio 1992, il giorno in cui Paolo Borsellino venne convocato al Viminale durante la cerimonia di insediamento di Mancino, che subentrò a Vincenzo Scotti alla guida del ministero degli Interni. I pm hanno acquisito l'interrogatorio reso da Mancino ai magistrati di Caltanissetta nel '98: "Non ho precisa memoria di tale circostanza, anche se non posso escluderla", ha detto Mancino ai pm, "era il giorno del mio insediamento, mi vennero presentati numerosi funzionari e direttori generali. Non escludo che tra le persone che possono essermi state presentate ci fosse anche il dottor Borsellino. Con lui però non ho avuto alcuno specifico colloquio e perciò non posso ricordare in modo sicuro la circostanza".

Un incontro che, invece, ricorda l'avvocato generale di Palermo Vittorio Aliquò che quel giorno accompagnò Borsellino sulla soglia della stanza del neo-ministro. Ricorda di averlo visto entrare, di averlo visto uscire poco dopo, e di essere entrato a sua volta, ma da solo.

Perché questo incontro è importante per le indagini? Perché, ipotizzano i magistrati, se è vero che Mancino fu avvertito della trattativa in corso, anche Borsellino, erede di Falcone, in quel momento uomo-simbolo della lotta alla mafia in Italia, e candidato in pectore alla Superprocura, potrebbe esserne stato a sua volta informato quel giorno al Viminale. E se davvero Borsellino avesse saputo che lo Stato era sceso a patti con Cosa nostra, è la tesi investigativa, la sua posizione di netta contrapposizione o di presa di distanza potrebbe averne determinato la morte. È certo, sottolineano in procura, che ad un certo punto la trattativa si arenò, le richieste di Cosa nostra vennero giudicate inaccettabili, e Riina decise di provocare un nuovo "botto" per riavviare i contatti istituzionali. E le sentenze di due processi, quello per la strage di Firenze e il Borsellino-bis concluso a Caltanissetta, acquisite a Palermo agli atti della nuova inchiesta, hanno sostenuto che fu proprio la trattativa interrotta a provocare una ripresa della stagione delle stragi.

"Dopo la morte di Borsellino, mio padre si sentiva in colpa", ha rivelato Massimo Ciancimino. "Mi confidò le sue riflessioni su tutta questa storia: disse che avviare la trattativa era già stata una prova di debolezza da parte dello Stato, ma che fermarla aveva avuto un effetto disastroso".

Fin qui le rivelazioni del figlio di don Vito, che nei giorni scorsi a Palermo è rimasto vittima di un'intimidazione che lo ha costretto ad anticipare la partenza per la città del nord Italia dove vive attualmente con la famiglia.

Chiarezza sugli incontri di quel primo luglio al Viminale hanno sempre reclamato i fratelli di Paolo Borsellino, Rita e Salvatore. "Chiedo soprattutto al senatore Nicola Mancino del quale ricordo, negli anni immediatamente successivi al '92, una sua lacrima spremuta a forza durante una commemorazione di Paolo a Palermo", ha scritto Salvatore Borsellino in una lettera aperta nel luglio del 2007, "lacrima che mi fece indignare al punto da alzarmi e abbandonare la sala, di sforzare la memoria per raccontarci di cosa si parlò nell'incontro con Paolo"

(08 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Il boss Setola e i suoi sicari intercettati: ...
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2009, 03:51:25 pm
Il boss Setola e i suoi sicari intercettati: canzoni e risate prima delle stragi

Venti lunghissimi minuti ascoltati in diretta dai carabinieri sulle tracce del gruppo di fuoco

Le voci shock dei killer di Gomorra "Uccidiamoli e beviamoci un caffè"

dall'inviato CONCHITA SANNINO

 
SANTA MARIA CAPUA VETERE (Caserta) - "Li dobbiamo uccidere, hai capito? Na botta 'nfaccia". Spietati ordini in dialetto, ma anche risate, voci che intonano canzoni neomelodiche. E poi gli spari dei mitra, colonna sonora dell'ultima strage portata a termine. Sono il contenuto di un'intercettazione ambientale che inchioda il boss camorrista Giuseppe Setola, arrestato tre giorni fa.

"Li dobbiamo levare di mezzo, hai capito? Na botta 'nfaccia, vai". Voci gutturali. Parole tronche. Il ghigno della distrazione e l'eccitazione dei giustizieri di mafia. Adrenalina e analfabetismo, bestemmie e insulti. In testa hanno soprattutto le femmine (le proprie) e il sangue (dei nemici). Un manifesto di bestialità casalese. Ecco quale lingua parlano Giuseppe Setola e il suo commando di fuoco, mentre stanno per uccidere. Eccoli cantare, un attimo prima di seminare sangue e terrore. E ridere. Gli assassini intonano gorgheggi da neomelodici. La goliardia galleggia nell'auto sotto intercettazione, mentre i criminali impugnano sotto i giubbotti pistole e kalashnikov e coprono in auto i pochi metri dalle loro case verso i nemici, diretti come schegge sui bersagli e le loro famiglie da massacrare.

Abbandonati ai sedili, i killer guidati dal capostragista di Casal di Principe biascicano lamenti da innamorati, musica stampata su cd quasi clandestini. "Tu sì zucchero per me, doce doce doce". E poi, arrivati a destinazione, sparano. Una pioggia di fuoco. Potente. Incessante. Centosette colpi di semiautomatiche e di un kalashnikov. Ma sono raffiche che lo Stato ascolta quasi in diretta. È impossibile fermare quel branco per tempo. Resta però la prova schiacciante. Oltre venti interminabili minuti di intercettazione. Un documento choc. Un supporto di straordinario valore probatorio. Che resterà nelle pagine dell'antimafia di Napoli. E da stamane diventa indizio schiacciante. Integrato all'ordinanza di custodia, per duplice tentato omicidio, che sarà contestata proprio oggi, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, a Giuseppe Setola e ai suoi sicari, dai pubblici ministeri Alessandro Milita e Cesare Sirignano, con il procuratore antimafia Franco Roberti.

Il sonoro della violenza cieca è targato "FO 25", numero in codice della captazione eseguita dai carabinieri del casertano, coordinati dal colonnello Carmelo Burgio. In quel file c'è il racconto audio del fuoco esploso dai sicari a 360 gradi contro finestre, abitazioni e gente inerme. La missione è sterminare i nemici. Regia criminale ed esecuzione di Giuseppe Setola, il terrorista del gotha mafioso di Casal di Principe, il trentottenne e pericoloso capobranco, lucida follia criminale al servizio "politico" dei padrini più imprendibili di lui. Solo che questo "film" si ascolta in diretta dalle viscere di un impero mafioso. È Gomorra, ben oltre il lungometraggio del mancato Oscar. Questo è un film senza immagini, senza sceneggiatura, né aggiustamenti dettati dal cast. Ma si imprime: pura verità nel suo divenire criminale. La registrazione è in mano alla Procura di Napoli che ha firmato la cattura del boss.

L'intercettazione racconta in diretta due tentati omicidi. I centosette colpi, canzoni intonate dai killer e il tempo persino per concedersi un caffè. Il tutto condito da recriminazioni e volgarità contro i due bersagli che sono sfuggiti al loro grilletto. È l'ultimo raid firmato da Setola, quasi un mese prima della sua resa a un'imponente caccia all'uomo. Si tratta del duplice agguato di Trentola Ducenta, nel casertano.
È il 12 dicembre scorso, sono le 22. Le due spedizioni punitive vengono messe a segno a distanza di pochi secondi, sempre nel cuore del paese di Trentola, lo stesso sgarrupato paese dove - venti giorni più tardi - si scoprirà il covo di Setola, quella topaia di via Cottolengo in cui Setola si rifugia con la moglie, che si è trascinata lì con la sua shopping Louis Vuitton, gioielli, profumi e 17mila euro in contanti, un basso dal quale il boss riesce a fuggire calandosi nelle fogne e strisciando nella melma.

La sera del 12, dunque. Setola si sente ancora spavaldo e imprendibile. Escono armati di almeno quattro armi. A terra, tanti bossoli: tracce di un fucile mitragliatore calibro 7.62, tipo AK 47, di una pistola calibro 9 per 21 ed un'altra semiautomatica calibro 9 corto.

La follia criminale si concentra contro due nemici, Salvatore Orabona e Pietro Falcone. Il primo, vanno a colpirlo in via Caravaggio. Il secondo, a pochi minuti di auto, in via Vittorio Afieri. Entrambi sono "colpevoli", agli occhi del capobranco, di non aver versato parte delle tangenti raccolte sul territorio nella cassa di Setola. Non lo riconoscono come il plenipotenziario del padrino Bidognetti, oggi in carcere. In azione, c'è un commando di cinque o sei uomini. Due auto portano i killer, una delle quali è la Lancia Y sotto intercettazione.

Il viaggio raccontato da "loro", dai sicari, è un sonoro raggelante. "Ma noi quando arriviamo là sopra, chi vogliamo trovare?". L'altro risponde: "Ci vuole una botta in faccia. Dobbiamo uccidere a tutti e due". Passano pochi minuti, cantano. Poi arrivano in via Caravaggio. Si fanno avanti Granato e Barbato, due dei killer. Ma il trucco di attrarre fuori del portone Orabona con un vassoio di dolci e una bottiglia di spumante non funziona. Allora quelli sparano come pazzi. Le vittime si richiudono in casa, chiamano il 113. E i killer si scatenano. "Cornuto vieni fuori", gridano. "Dai esci cornuto, che uomo sei". E ancora: "Mannaggia ora ho finito il caricatore e adesso ho soltanto la 38". Insulti alla moglie, bestemmie. "Lo dobbiamo appicciare anche di notte", gli appicchiamo il fuoco.

Risulterà poi, la perfetta coincidenza logica e temporale tra questa registrazione e l'intercettazione simmetrica, stavolta telefonica, del raid così come l'ha vissuta la mancata vittima, Orabona. Che parla al cellulare con l'amico Peppe e si sfoga: "Hai capito? Quel cornuto è venuto a citofonare con una guantiera di paste e la bottiglia di champagne. Ma io l'ho visto, e dietro a lui c'era Peppe Setola, c'era Cascione. Hanno sparato come i pazzi, io mi sono salvato perché tenevo il pigiama e mi stavo cambiando, ma se io già mi ero messo la camicia e mi affacciavo, ero morto". A sparare, attestano anche i pm, c'è infatti Setola con il mitragliatore, Peppe 'a puttana. E poi: Giuseppe Barbato detto Peppe 'o Cascione; Raffaele Granata; Angelo Rucco, Angioletto o Chiattone. E i pm sospettano anche di Paolo Gargiulo, ovvero Calimero: un nome segnato in rosso perché era il fedelissimo che parlò, senza sapere di essere captato, dei cinquanta chili di tritolo in possesso del gruppo Setola. Era Gomorra quando sfidava lo Stato, con cento colpi in diretta.

(17 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Raffaele Cantone "Così la Camorra assaltò Parma"
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2009, 03:59:30 pm
Il magistrato antimafia: "Così la Camorra assaltò Parma"

Raffaele Cantone, il pubblico ministero che indagò sul boss del cemento e svelò gli interessi dei casalesi al nord, parla dell'inchiesta che fece tremare la città ducale, dell'intreccio tra imprenditoria e malavita, dei contatti con la politica

di Stefania Parmeggiani
 

E’ stato uno dei capitoli più inquietanti della recente storia di Parma: l’assalto della Camorra alla città, un patto di cemento tra gli imprenditori del nord e i boss casalesi, i contatti con la politica che si giustificò: “Non sapevamo chi fossero”. Raffaele Cantone, attualmente magistrato presso il Massimario della Cassazione, è l’uomo che coordinò le indagini su Pasquale Zagaria e i suoi affiliati, il pm di Napoli che scoperchiò gli interessi della Camorra al nord e che fece tremare la città ducale.

Cantone, che da dieci anni vive sotto scorta, oggi pomeriggio tornerà a Parma, alle 16 nell'aula magna di giurisprudenza, per presentare il suo libro “Solo per giustizia”. Lo abbiamo intervistato per rileggere, tramite i suoi occhi, quell’intreccio tra imprenditoria e mafia che sconvolse Parma. Non vuole fare i nomi, così come non li fa nel suo libro perchè le condanne non sono definitive e per alcune delle persone coinvolte non sono emersi elementi di rilevanza giudiziaria, perché ciò che gli preme è fare capire come la storia della città sia paradigmatica di quello che, distraendosi, può capitare ovunque nella ricca Emilia.

Dottore, perché la Camorra scelse Parma?
“Non credo che ci fosse una ragione specifica oltre ovviamente a quella della grande ricchezza dei possibili destinatari di interessi camorristici. Semplicemente a Parma i casalesi avevano un punto di riferimento, un imprenditore che poi è stato condannato in primo grado per associazione a delinquere di stampo camorristico, primo caso in tutto il nord Italia. Quest’uomo era legato, tramite il suo rapporto sentimentale con una donna, agli Zagaria. Era perfetto, quindi, come testa di ponte. I casalesi dovevano investire ingenti capitali e a Parma c’erano le condizioni per farlo”.

Quali erano queste condizioni? 
“Come in tutto il nord a lungo c’era stata una sottovalutazione del fenomeno mafioso dovuto a un difetto di conoscenza. Non c’erano stati significativi episodi di sangue e Pasquale Zagaria poteva passare come un grosso imprenditore forse un po’ eccentrico, come ci disse il direttore della filiale di una banca che lo aveva accompagnato a Milano a fare shopping in via Montenapoleone, ma non per questo impresentabile. Nessuno ci vedeva nulla di male nell’a verlo come socio. Aveva grandi disponibilità di denaro e anche capacità e conoscenze imprenditoriali”.

Vuol dire che oltre a essere un boss tra i più sanguinari era anche un buon imprenditore?
“Abbiamo delle intercettazioni telefoniche in cui lo si sente discutere di affari, di prezzi al metro quadrato, di materiali e mano d’opera come un esperto costruttore. La Camorra dispone di una raggiera d'imprese che convengono anche al nord perché affidare a loro, magari in sub-appalto, alcuni lavori significa non avere problemi di ritardo nella consegna o di liquidità… Tutto viene fatto e consegnato velocemente, a prezzi convenienti. Queste ditte sono utili a chi non si fa troppe domande”.

Quale era l’affare in quell'occasione?
“Una delle più grosse società immobiliari di Parma è stata confiscata perché per suo tramite la Camorra aveva acquisito un terreno nel pieno centro di Milano, sul quale potevano essere edificate varie unità immobiliari. Un affare da otto milioni di euro”.

La politica che ruolo ha avuto?
“L’imprenditore, che aveva una lunga storia professionale alle spalle, poteva evidentemente vantare rapporti con le istituzioni. Era in grado di mettere in contatto, come una sorta di mediatore, i boss casalesi e i politici. L’incontro avvenne in un albergo di Roma e il politico presente lo ammise, ma spiegandoci di non sospettare chi in realtà fosse quell’uomo. La sua condotta non ha nulla di rilevante dal punto di vista giudiziario, ma è sicuramente inquietante. Credo che oggi, anche grazie a libri come Gomorra, sia più difficile dire non sapevo”.

Esiste ancora il rischio di infiltrazioni camorristiche a Parma?
“In una situazione di crisi economica come quella attuale c’è il rischio concreto, a Parma come in tutto il nord, che vi siano soggetti malavitosi con grandi disponibilità economiche che provino a fare incette di imprese, case, terreni, che scalino le società per cambiarne gli assetti. E’ necessario vigilare, non sottovalutare o minimizzare nessun segnale. La storia di Parma è in questo paradigmatica perché disegna uno scenario che è applicabile ovunque, esportabile in qualunque città abbia grandi ricchezze e scarsa attenzione ai fenomeni malavitosi. Ci insegna molto, sui meccanismi con cui la Camorra tenta di infiltrarsi e conquistare territori che fino a poco fa le erano estranei”.

(04 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: CHIODI, MAFIA NON E' PREOCCUPAZIONE CONCRETA (lo dice lui...).
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2009, 03:04:44 pm
2009-04-14 13:40


TERREMOTO: PROCURATORE,FIUME DI SOLDI APPETIBILE PER MAFIOSI


 L'AQUILA - Il "fiume di soldi" che arriverà all'Aquila per la ricostruzione è appetibile per gli interessi mafiosi, che non sono estranei all'Abruzzo: e dunque la Procura dell'Aquila, che ha aperto un'inchiesta sui crolli provocati dal terremoto, vigilerà anche su quest'aspetto. Lo ha detto, parlando con i giornalisti, il procuratore della Repubblica presso di tribunale dell'Aquila Alfredo Rossini. "Ho parlato poco fa con il procuratore nazionale antimafia Grasso" del rischio di infiltrazioni mafiose, ha affermato Rossini. "Noi non possiamo dire che abbiamo già trovato interessi mafiosi nella ricostruzione, perché la ricostruzione ancora non è partita. Abbiamo però supposto che siccome in Abruzzo, come abbiamo già dimostrato, ci sono delle infiltrazioni mafiose, è abbastanza normale pensare che i mafiosi non siano distratti rispetto al fiume di soldi che deve arrivare". "Quindi - ha aggiunto il procuratore - staremo molto attenti per controllare chi verrà, i requisiti che dovranno avere, e non parlo soltanto della certificazione antimafia".

CHIODI, MAFIA NON E' PREOCCUPAZIONE CONCRETA - L'allarme relativo alla infiltrazione della criminalità organizzata nella ricostruzione in Abruzzo "non è una preoccupazione concreta". Lo ha detto, parlando con i giornalisti, il presidente della Regione, Gianni Chiodi. "E' una paura, un'ansia - ha spiegato - che deriva da quello che alcune volte è accaduto nel nostro Paese. Però i tempi sono cambiati: questo è l'Abruzzo e, soprattutto, non c'é nemmeno un principio di indizio per dire queste cose. Capisco però - ha concluso - che fa leggere i giornali".


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IN ABRUZZO INDAGINI SU INFILTRAZIONI MAFIOSE
di Lirio Abbate

ROMA - La mafia, già prima del terremoto, aveva iniziato a infiltrasi nella pubblica amministrazione in Abruzzo: il dato emerge da indagini della procura della Repubblica dell'Aquila, coordinate dalla Direzione nazionale antimafia. Ora, dopo il sisma, il timore che la criminalità organizzata allunghi le mani sugli appalti è reale e gli investigatori stanno mettendo a punto le strategie per preservare il fiume di denaro che arriverà in Abruzzo per la ricostruzione.

Secondo rapporti giudiziari, di cui è in possesso l'ANSA, da alcuni mesi erano già state avviate indagini "che presentano tutte le caratteristiche di possibili infiltrazioni mafiose - scrivono gli inquirenti - ed in particolare di Cosa nostra, nel settore degli appalti e dello smaltimento dei rifiuti, attraverso la costituzione e il trasferimento in Abruzzo di società che potrebbero servire da un lato come serbatoio per il riciclaggio di denaro sporco e dall'altro per ottenere finanziamenti pubblici e appalti per lo smaltimento dei rifiuti".

L'indagine su possibili infiltrazioni mafiose in Abruzzo nella pubblica amministrazione ha portato a indagare su un'impresa costituita da alcuni anni, i cui movimenti societari hanno portato a ritenere "che serva ad operazioni di riciclaggio o altre attività illecite che richiedano la copertura di esponenti politici".

L'analisi fatta dalla Procura nazionale antimafia sull'Abruzzo porta alla conclusione che è "in netta crescita l'insinuarsi nella regione della camorra per quanto riguarda il traffico di droga e di Cosa nostra per possibili infiltrazioni mafiose, in corso di accertamento, soprattutto nel settore dello smaltimento dei rifiuti, con il suo strascico di corruzione e riciclaggio di denaro sporco". Il territorio abruzzese, secondo quanto emerge dalle inchieste, fino a poco tempo fa era immune da radicati insediamenti di matrice mafiosa, anche se sono state in costante aumento ed hanno assunto connotati di maggiore significatività le presenze criminali organizzate nel pescarese e nel teramano (principalmente nel settore del gioco d'azzardo, della contraffazione illegale di prodotti commerciali e dello spaccio di sostanze stupefacenti).

Ad ogni buon conto l'Abruzzo, così come la provincia di L'Aquila, per motivi legati soprattutto alle radici culturali e storiche, non ha prodotto fenomeni legati alla criminalità organizzata. Intanto gli scali marittimi di Pescara, Giulianova, Vasto ed Ortona focalizzano nella regione alcune rotte commerciali secondarie utilizzate anche per i traffici di stupefacenti, provenienti prevalentemente dall'Albania, e la tratta di esseri umani. "Penetrante ormai - scrivono i magistrati della Dna - la presenza di elementi legati alla camorra (soprattutto) ma oggi anche alla 'ndrangheta e alla mafia siciliana''.

Fenomeno peculiare dell'Abruzzo è la presenza sul territorio di gruppi di nomadi stanziali (le famiglie dei Di Rocco e degli Spinelli) dediti a tutti i possibili traffici, dallo smercio degli stupefacenti acquistati dagli albanesi, alle estorsioni e all'usura, con conseguenti investimenti immobiliari milionari. "L'esperienza del passato per le ricostruzioni del dopo terremoto nell'Irpinia - dice il procuratore nazionale Pietro Grasso - ci serve da esperienza per valutare e prevenire quello che può accadere in Abruzzo".

"Occorre considerare che l'Abruzzo - prosegue il capo della Dna - non è certo la Campania, dove vi è una presenza massiccia della criminalità organizzata". "L'esperienza - aggiunge il procuratore - impone di rendere più trasparenti gli appalti del dopo-terremoto, facendo anche attenzione a come vengono gestiti i fondi milionari e a quali imprese vengono affidati i lavori con trattativa privata". 

da ansa.it


Titolo: SU QUESTO CONTA CHIODI?
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2009, 09:07:05 am
Mancato deposito della sentenza di primo grado.

L'Anm: i magistrati sono troppo oberati

Sottoposti all'obbligo di firma. Il prefetto assicura: "Situazione sotto controllo"

Giustizia lumaca in Puglia In libertà 22 mafiosi baresi


di GABRIELLA DE MATTEIS

 BARI - Saranno scarcerati in 22, tutti ritenuti vicini al clan più pericoloso della città, tutti condannati dopo anni e anni d'indagini, minacce e omertà. Saranno scarcerati oggi per il mancato deposito delle motivazione della sentenza di primo grado entro i termini previsti dalla legge. Sono gli imputati del maxiprocesso Eclissi nei confronti del potente clan mafioso barese degli Strisciuglio: oggi infatti scadono i termini di durata massima della custodia cautelare per coloro che sono stati condannati a pene inferiori ai dieci anni per accuse come quelle di aver fatto parte di un'organizzazione mafiosa o di un'associazione specializzata nel traffico di droga.

Il processo, celebrato con rito abbreviato, si era concluso il 16 gennaio 2008 con la condanna di quasi tutti i 161 imputati da parte del gup del tribunale di Bari Rosa Anna De Palo, da pochi mesi alla guida del Tribunale per i Minorenni.

E adesso le forze dell'ordine sono in stato di massima allerta: 13 dei 22 che torneranno in libertà, sino a questa mattina, erano in carcere. Da oggi non saranno più sottoposti ad alcuna misura cautelare nomi della criminalità come Gianluca Corallo (condannato a dieci anni e quattro mesi) e Luigi Schingaro (nove anni e quattro mesi). E non è finita: nei prossimi mesi altri pregiudicati, condannati con sentenze superiori ai dieci anni, potranno riacquistare la libertà. Per scongiurare questo pericolo, il giudice dovrebbe depositare le motivazione e la Corte d'appello procedere con la fissazione del processo di secondo grado e con la sospensione dei termini di custodia cautelare. Una corsa contro il tempo, con ogni probabilità, destinata a fallire.

"Si tratta di fatti che destano comprensibile allarme nell'opinione pubblica, ma va precisato che per sentenze con 160 imputati, imputazioni complesse, fatti articolati, sarebbe necessario che il magistrato chiamato a decidere il processo in sede di abbreviato potesse quantomeno fruire di un esonero totale dall'attività ordinaria", spiega Salvatore Casciaro, responsabile della giunta barese dell'Anm secondo il quale "a un magistrato si può chiedere la massima diligenza, ma non una impossibile obbligazione di risultato al di là delle umane possibilità". A spiegare il perché del ritardo delle motivazioni è anche Giovanni Leonardi, a capo dell'ufficio Gip: "Si tratta - dice - di un processo molto articolato che contava 161 imputati".

I 22 presunti affiliati al clan degli Strsciuglio che lasceranno il carcere o i domiciliari, comunque, saranno sottoposti a misure di sorveglianza, come l'obbligo di firma. Ed è il prefetto di Bari, Carlo Schilardi, a rassicurare: "La situazione sarà sotto controllo. I cittadini non devono avere alcuna paura".

(15 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: Rischio infiltrazioni nella ricostruzione. Maroni: vigileremo
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2009, 09:08:22 am
Rischio infiltrazioni nella ricostruzione. Maroni: vigileremo

Documenti emersi dalle macerie della Casa dello studente e della Prefettura

La procura lancia l'allarme mafia "Qui arriverà un fiume di soldi"


nostro inviato MEO PONTE

 L'AQUILA - I documenti sono emersi dalle stesse macerie da cui vigili del fuoco hanno strappato i corpi martoriati di più di 20 studenti. Progetti di ristrutturazione e revisione presentati nel 2003, poi nel 2004 e infine nel 2005. E mai realizzati. Quelle carte sgualcite ritrovate dai pompieri tra le rovine della Casa dello Studente e consegnate alla Squadra Mobile potrebbero rappresentare il primo indizio per la Procura della Repubblica de l'Aquila.

Ieri gli investigatori hanno sequestrato altri reperti anche tra quanto resta della Prefettura e di alcune case in via XX Settembre e via Gualtieri d'Ocre, il cui crollo ha causato diverse vittime. Alfredo Rossini, il capo della Procura della Repubblica dell'Aquila, ha infatti un piano preciso per quella che definisce "la madre di tutte le inchieste". E per individuare i primi responsabili la Procura ha chiesto l'acquisizione degli atti della commissione parlamentare istituita a suo tempo per comprendere come l'ospedale progettato nel 1960 fu realizzato soltanto nel 2000 e messo in funzione senza l'obbligatorio collaudo. In più Rossini non nasconde la sua preoccupazione per quello che sarà il dopo-terremoto. "Qui arriverà un fiume di soldi per la ricostruzione. Molto appetibile per mafia e camorra. È scontato ipotizzare che le organizzazioni criminali che non sono estranee all'Abruzzo cercheranno di infiltrarsi. Ne ho parlato con il procuratore nazionale dell'Antimafia Piero Grasso che mi ha espresso le sue preoccupazioni al riguardo. E se per ora non abbiamo ancora scoperto tracce mafiose evidenti è perché la ricostruzione è ancora da iniziare".

Da parte sua Grasso aggiunge: "L'Abruzzo non è tradizionale terra di mafia. Le eventuali infiltrazioni camorristiche o più in generale mafiose, dovrebbero risultare più visibili". Interviene anche il ministro dell'Interno Roberto Maroni: "Assicuro che vigileremo perché la criminalità organizzata se ne stia lontana. Trovo giusto l'allarme lanciato dal procuratore Grasso e dallo scrittore Roberto Saviano circa la nascita del cosiddetto "partito del terremoto", che va sicuramente evitata".

Ma del fatto che nella regione ci sia una presenza discreta di mafia e camorra Rossini è consapevole. È stato lui a coordinare l'inchiesta che alcuni mesi fa a Tagliacozzo ha scoperto che al vertice di una piramide di società immobiliari facenti capo alla Sirco srl che gestiva un residence extralusso e un gigantesco campeggio c'era il figlio di Ciancimino. A Vasto la polizia ha portato alla luce un giro di estorsioni orchestrate dalla camorra napoletana. Nella Marsica i carabinieri del Reparto Operativo hanno rilevato la presenza di elementi dei clan campani, tra cui alcuni esuli da Scampia.

(15 aprile 2009)
da corriere.it


Titolo: Rivelazioni - Gli attentati di Palermo, Milano e Roma
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2009, 04:04:29 pm
Rivelazioni - Gli attentati di Palermo, Milano e Roma

Il pentito e le stragi

La nuova verità che agita l'antimafia

Via D'Amelio, conferme su un ex boss
 

ROMA — Dopo quella del pentito Gaspare Spatuzza, arriva un'altra «voce di mafia» a mettere in dubbio la verità giudiziaria sulla strage di via D'Amelio. L'attentato in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta — 19 luglio 1992, 57 giorni dopo l'eliminazione di Giovanni Falcone, la moglie Francesca e tre degli uomini che dovevano proteggerlo — fu realizzato con una Fiat 126 imbottita di esplosivo; un'auto rubata, secondo le sue ammissioni d'allora e i processi costruiti anche su quelle parole, da un «balordo» palermitano, tale Salvatore Candura, pregiudicato per reati contro il patrimonio, arrestato dalla polizia nel settembre '92 per una violenza carnale.

In carcere Candura confessò quasi subito il furto dell'auto destinata a far saltare in aria Borsellino, e disse che a dargli l'incarico era stato Vincenzo Scarantino. Il quale fu arrestato, si pentì, e raccontò molti particolari sulla strage di Via D'Amelio: parlò di una riunione di boss a casa del mafioso Calascibetta e tirò in ballo gran parte della «cupola» di Cosa Nostra, compreso il capo del mandamento di Santa Maria di Gesù Pietro Aglieri e altri «uomini d'onore». Le confessioni andarono avanti a sprazzi: confermate, poi ritirate, quindi ribadite, ma ritenute attendibili dai giudici fino alle sentenze di Cassazione. Oggi però Candura, che a Scarantino faceva da «spalla», si rimangia tutto e dice: il furto della 126 non l'ho commesso io, fu la polizia a farmelo confessare, ma con quella storia non c'entro. L'ha detto durante il confronto con Gaspare Spatuzza, già capo del mandamento mafioso di Brancaccio a Palermo, pluriergastolano legatissimo ai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, uno dei killer che nel 1993 uccisero padre Pino Puglisi.

Da alcuni mesi Spatuzza, arrestato nel 1997, collabora coi magistrati e ha rivelato una nuova verità su Via D'Amelio. Smentendo proprio Scarantino. Ha detto di aver rubato lui l'autobomba nel luglio del '92 (la stessa per la quale s'erano accusati Candura e Scarantino), portando gli investigatori sul luogo esatto in cui era parcheggiata. E ha spiegato che con la strage i boss di Santa Maria di Gesù — Aglieri e altri — non c'entrano: fu opera dei Graviano e dei mafiosi di Brancaccio; lui compreso, sempre scampato a inchieste e processi. Messi faccia a faccia con il nuovo «dichiarante», Candura ha ritrattato e gli ha dato ragione, mentre Scarantino ha insistito sulla sua versione. Ma magistrati e investigatori sembrano orientati a dare credito più al nuovo pentito che al vecchio, anche se i suoi verbali possono creare non pochi problemi. Perché le rivelazioni di Spatuzza aprono vistose crepe sulla ricostruzione giudiziaria, sancita dalla Cassazione, dell'omicidio Borsellino e non solo. Mettendo in crisi il lavoro svolto negli anni passati dalla Procura e dalle corti d'assise di Caltanissetta, e offrendo la possibilità di far riaprire il processo, ad esempio, per il boss Pietro Aglieri, ergastolano per Via D'Amelio (eccidio dal quale era stato scagionato, inutilmente, pure dal pentito Giovanni Brusca) oltre che per altri delitti. La valutazione dell'attendibilità di Spatuzza non è stata completata dai magistrati di Caltanissetta, mentre quelli di Palermo lo considerano affidabile ma non decisivo per il contributo fornito alle indagini su altri fatti di mafia per cui sono competenti.

Il neo-collaboratore — sempre rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, in isolamento ma non più ai rigori del «41 bis» — dovrà passare il vaglio anche di altre Procure, perché le sue rivelazioni riguardano diversi episodi. A cominciare dalle stragi organizzate da Cosa Nostra nel 1993 sul continente fra Firenze, Roma e Milano, per le quali sta scontando il carcere a vita. Per l'autobomba esplosa in via Palestro a Milano (27 luglio 1993, cinque morti e 12 feriti) ci sarebbe un condannato che a dire di Spatuzza è innocente, mentre altri coinvolti nell'attentato non sarebbero nemmeno stati inquisiti. Quell'azione doveva avvenire in contemporanea con le bombe di Roma (San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, 22 feriti), ma Spatuzza racconta che l'obiettivo di Cosa Nostra doveva essere un altro: la Casa di Dante, nel rione Trastevere. Ma il piano saltò, a causa della popolare festa de' noantri in corso nei giorni programmati per l'attentato; c'era il rischio di provocare vittime, mentre l'obiettivo erano i monumenti e i luoghi d'arte, non le persone. Per coordinare le diverse indagini in corso o da riaprire sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza, il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha convocato per oggi nei suoi uffici una riunione con i rappresentanti di tutte le Procure interessate: Caltanissetta, Palermo, Milano, Roma, Firenze e Reggio Calabria; tra le tante cose raccontate dal neo-pentito, infatti, ci sono pure i commenti dei fratelli Graviano sull'omicidio di due carabinieri avvenuto lungo la Salerno-Reggio, nei pressi di Scilla, nel gennaio 1994. Sarà l'occasione per mettere a confronto le diverse interpretazioni sulla collaborazione del killer di Cosa Nostra che ha deciso di parlare, e di smentire altri pentiti, dopo aver scontato più di undici anni di galera.

Giovanni Bianconi

22 aprile 2009
da corriere.it


Titolo: Stragi mafiose, ritorna la Boccassini
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2009, 10:42:19 am
La pm di Milano nel '94, lasciando Caltanissetta, chiese nuovi accertamenti su via D'Amelio

Stragi mafiose, ritorna la Boccassini

Il vertice sulle verità del pentito Spatuzza. «Va protetto, è attendibile»


ROMA — A rompere gli indugi è stata la Procura di Firenze. Per l'ufficio giudiziario titolare delle inchieste sulle stragi e i progetti dinamitardi della mafia sul continente l'ex boss di Cosa Nostra Gaspare Spatuzza, «dichiarante» già da qualche mese, è un collaboratore di giustizia attendibile e utile alle indagini. Dunque proporrà per lui il programma di protezione, riservato ai pentiti considerati affidabili. La decisione è stata comunicata ieri nella riunione svoltasi nella sede della Direzione nazionale antimafia tra gli inquirenti interessati dalle nuove rivelazioni (quelli di Palermo, Caltanissetta, Milano, Roma e Reggio Calabria, oltre che di Firenze), per confrontare i diversi giudizi su quello che sta raccontando l'ex capo del mandamento mafioso palermitano di Brancaccio, già killer di fiducia dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.

Le novità più dirompenti introdotte da Spatuzza riguardano la strage di via D'Amelio del 19 luglio '92, in cui morirono il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta: Spatuzza smentisce le dichiarazioni di un altro pentito, Vincenzo Scarantino, sulle quali si sono fondate diverse condanne all'ergastolo, tra cui quella del capomafia Pietro Aglieri. Per questo c'era chi, soprattutto tra Palermo e Caltanissetta, era più cauto nell'attribuire la patente di attendibilità al nuovo collaboratore, ma ora sono arrivati i riscontri e le valutazioni di altri magistrati. Fra questi il sostituto procuratore di Milano Ilda Boccassini, presente alla riunione di ieri per via di uno stralcio d'indagine sull'attentato di via Palestro del 27 luglio '93, 5 morti e 12 feriti. Quello della Boccassini è un ritorno alle indagini sulle stragi di mafia, poiché tra il '92 e il '94 fu applicata alla Procura di Caltanissetta per fare luce sugli eccidi di Capaci (dove morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e tre agenti di scorta) e via D'Amelio. Con la prima inchiesta giunse all'individuazione degli esecutori materiali e dei mandanti mafiosi, mentre la seconda dovette abbandonarla al termine del periodo di applicazione nell'ufficio nisseno. Ma prima di andarsene, il pubblico ministero sbarcato da Milano lasciò una relazione che riletta oggi suona quasi profetica rispetto a ciò che sta emergendo dalle rivelazioni di Spatuzza.

Nell'ottobre 1994 la Boccassini, insieme all'altro pm Roberto Saieva, lasciò scritto ai colleghi che il pentito Scarantino era sostanzialmente inattendibile, e che bisognava svolgere ulteriori e urgenti accertamenti per metterlo alle strette e smascherare le sue eventuali manovre intorno alla strage di via D'Amelio; lo stesso Scarantino oggi contraddetto da Spatuzza. La relazione ripercorre le accuse mosse dal pentito nei confronti di alcuni mafiosi poi divenuti a loro volta collaboratori, non verificate oppure risultate false dopo i riscontri, e conclude: «L'inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino (su quei singoli mafiosi, ndr) suggerisce di riconsiderare il tema dell'attendibilità generale di tale collaboratore, anche perché lo stesso ha, recentemente modificato la propria posizione in ordine ad una circostanza che assume estremo rilievo». È la vicenda del furto della Fiat 126, successivamente imbottita di esplosivo, di cui oggi si autoaccusa proprio Spatuzza. Boccassini e Saieva consigliavano nuove verifiche su quel pentito traballante, e scrivevano: «Rinviare il compimento dei necessari atti d'investigazione potrebbe avere come effetto di lasciare allo Scarantino una via aperta verso nuove piroettanti rivisitazioni dei fatti». È ciò che s'è puntualmente verificato, tra ritrattazioni e conferme, anche se alla fine le sentenze hanno dato credito alle dichiarazioni di Scarantino. Oggi un nuovo pentito lo smentisce, e potrebbe aprire scenari diversi non solo sulla strage che fece saltare in aria Borsellino ma anche su altri importanti fatti di mafia.

Giovanni Bianconi

23 aprile 2009
da corriere.it


Titolo: Lepore: tre politici su 10 collusi con la camorra
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2009, 12:16:11 am
Il procuratore di Napoli Lepore: tre politici su 10 collusi con la camorra
 
 
 
 NAPOLI (28 aprile) - Il 30 per cento circa della politica è colluso con la criminalità organizzata. Lo ha detto in una intervista a Radiorai il procuratore di Napoli, Giandomenico Lepore, a margine di una aadizione in Commissione parlamentare antimafia, che è riunita a Napoli. A una domanda sulla percentuale dei politici campani che potrebbero essere collusi con la camorra il procuratore ha risposto: «Non mi faccia dare cifre, ma secondo me un 30 per cento».

Lepore ha anche commentato le dimissioni del sindaco di Castel Volturno, Francesco Nuzzo che ha lamentato di essere stato lasciato solo contro la camorra. «Non è ancora venuto da noi - ha detto il procuratore - ma avrà i suoi buoni motivi». Per Lepore, nel Napoletano «la lotta contro la criminalità organizzata continua efficacemente ma bisogna combattere - ha aggiunto - la politica collusa e farlo con la collaborazione di tutti quanti».
 
da ilmessaggero.it


Titolo: L'ORDINE DEI GIORNALISTI CONTRO INFORMAZIONE ANTIMAFIA
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 12:13:44 am
28.4.09 - L’ordine siciliano dei giornalisti contro l’informazione antimafia?

Normalmente ci mettiamo a scrivere per dare qualche notizia o per provare a proporre uno stimolo alla riflessione, questa volta, invece, ci auguriamo ardentemente di essere smentiti, anzi supplichiamo di essere smentiti con prontezza e magari anche con la giusta dose di sdegno.

Qualche tempo fa vi raccontammo la storia di Pino Maniaci il coraggioso giornalista che dai microfoni di Telejato denunciava e denuncia ogni giorno i misfatti dei mafiosi e dei loro amici.

Per questa ragioni Pino vive sotto scorta, dopo aver ricevuto avvertimenti di ogni sorta, anche sotto forma di attentati e di un pestaggio in pieno giorno consumato sotto gli occhi di decine di testimoni. Attorno a Pino, in quella occasione, si strinse una positiva solidarietà nazionale. La Federazione della stampa, l’unione cronisti, le associazioni regionali, articolo 21 e tanti altri si recarono a Partinico per abbracciare Pino, i suoi familiari, i suoi collaboratori, per non lasciarli soli, per non esporli a rischi peggiori. Davanti alle telecamere internazionali e nazionali gli furono consegnate le tessere onorarie della professione giornalistica.

Qualche settimana fa la magistratura palermitana, sulla base di una denuncia per ora senza firma, aprì un procedimento contro Pino per esercizio abusivo della professione, in quanto non aveva e non ha in tasca il tesserino professionale, anche perché, come era già noto a tutti, Maniaci aveva riportato delle lievi condanne in gioventù per reati non connessi alla professione, anche in questa ultima occasione, tuttavia, non erano mancati gli attestati stima per il coraggio civile, professionale e umano che ha sempre caratterizzato l’attività professionale di Telejato.

Per stemperare il clima e per non prestare il fianco a polemiche tese a oscurare il merito delle sue denunce, Pino aveva annunciato la sua disponibilità a richiedere formalmente il benedetto tesserino e porre fine ad una lunga telenovela.

A questo punto, stando alle indiscrezioni odierne, si sarebbe consumato un nuovo colpo di scena. L’ordine siciliano dei giornalisti, con l'astensione del presidente, avrebbe deciso di negare il riconoscimento e di costituirsi, addirittura, parte civile nel procedimento a carico di Maniaci. Ci auguriamo di essere smentiti, anche perché stiamo parlando della medesima persona verso la quale sono state espresse da tutti gli organismi professionali quintali di attestati di stima.

Comprendiamo il rispetto della lettera delle norme, ma come cancellare gli anni trascorsi, come dimenticare le battaglie civili di Pino e dei i collaboratori a cominciare da Riccardo Orioles, coraggioso e indomita giornalista anti mafia, storico collaboratore di Pippo Fava.

Come sottovalutare il rischio che questo gesto possa essere interpretato come un atto di sfiducia verso chi non ha mai piegato la testa di fronte alle prepotenze? Come dimenticare che dentro la professione restano invece giornalisti che nascondono, omettono, si prestano persino a diventare postini delle lettere spedite dal carcere dai mafiosi e che spesso trovano compiacente ospitalità sulle pagine di alcuni giornali siciliani.

Lo ripetiamo, la polemica ci interessa davvero poco, invochiamo solo una smentita o almeno l’apertura di una pubblica discussione che coinvolga tutto il mondo dell'informazione e impedisca l’isolamento di Telejato.

Per quanto ci riguarda questo blog e il sito di articolo 21 saranno sempre a disposizione di Pino, dei suoi collaboratori, con o senza il tesserino professionale.

Giuseppe Giulietti

(28 aprile 2009)
da repubblica.it/micromega-online


Titolo: "Siamo tutti Pino Maniaci".
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 12:44:03 pm
Cesare Piccitto,   

29 aprile 2009, 12:25

 Il caso/3     

Apprendiamo che la sezione siciliana dell'Ordine dei giornalisti ha deciso di costituirsi parte civile contro il direttore di Telejato nel procedimento contro di lui per esercizio abusivo della professione di giornalista. Vogliamo pensare che si tratti solo di un "tecnicismo burocratico"; una persona che rende onore alla professione giornalistica non può ritrovarsi, alla vigilia del procedimento che lo vede imputato, a combattere contro chi, solo qualche mese prima, gli ha riconosciuto la tessera "ad honorem"

Era l'anno scorso quando comparve nel sito di "Telejato" , la tv che Pino dirige, la scritta "Siamo tutti Pino Maniaci". Fu inserita la dicitura dopo che fu aggredito in pieno giorno da due soggetti uno dei quali era proprio il figlio (ancora minorenne) del boss Vito Vitale.
Ogni volta ci viene in mente la stessa frase, anche quando alla fine di marzo si apprese la notizia del suo rinvio a giudizio per esercizio abusivo della professione di giornalista.

Secondo la procura di Palermo "con più condotte poste in essere in tempi diversi ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso" Maniaci avrebbe svolto l'attività di giornalista in assenza della speciale abilitazione dello Stato e ha fissato il processo davanti al giudice monocratico di Partinico l'8 maggio prossimo.
E pensare che l'"indagato"  è stato minacciato di morte dalla mafia e querelato, quasi 200 volte, per le sue inchieste scomode sulle cosche e sull'inquinamento della distilleria Bertolino, una delle più grandi d'Europa.

Maniaci imperterrito continua a condurre il tg di TeleJato, un'emittente locale che copre un territorio di 20 comuni in provincia di Palermo con un bacino di circa 150 mila telespettatori. Da anni porta avanti coraggiose crociate contro le cosche mafiose della zona facendo nel suo telegiornale nomi e cognomi di boss. L'opinione pubblica, sempre di più, gli esprime solidarietà e i vertici dell'Ordine regionale e nazionale che insieme all'Unci (Unione nazionale cronisti italiani) e al Fnsi, gli riconoscono una tessera "ad honorem". "Questo vorrà pur dire qualcosa" dice Maniaci, il quale spiega come non sia la prima volta che viene colpito da un provvedimento simile: "E' la seconda volta che mi trovo sotto processo per esercizio abusivo della professione - aggiunge - A luglio sono stato assolto dalla stessa accusa, chiarirò tutto anche questa volta".

Nonostante questi fatti oggi apprendiamo che la sezione siciliana dell'Ordine dei giornalisti ha deciso di costituirsi Parte Civile contro il direttore di Telejato, Pino Maniaci, nel procedimento contro di lui per esercizio abusivo della professione di giornalista.

E dunque? L'affare si complica. Sono passate poche ore dalla notizia e cercheremo di capirne di più. Vogliamo pensare che Pino sia stato vittima di un "tecnicismo burocratico", vogliamo ben sperare che sia solo e solamente così; una persona che rende onore alla professione giornalistica non può ritrovarsi, alla vigilia del processo che lo vede imputato, con contro chi qualche mese prima, gli ha riconosciuto la tessera "ad honorem".

Esprimiamo solidarietà a Pino e al suo giornalismo di frontiera, di notizie, secco, sfrontato, spesso ironico... Giornalismo di nomi e cognomi senza piegare la schiena.
Lo stesso giornalismo di Impastato e Alfano, a cui l'Ordine riconobbe il tesserino solo dopo la morte.

Quel giornalismo che era anche di Giuseppe Fava, lì però il tesserino c'era, allo zelante ordine però sfuggi di esprimere solidarietà alla famiglia e di andare a quel funerale.

da aprileonline.info


Titolo: Antimafia, la vittoria mancata
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2009, 11:59:27 am
Il procuratore capo di Torino rievoca in un volume autobiografico le sue «due guerre»

Antimafia, la vittoria mancata

Il bilancio di Gian Carlo Caselli: le Br erano isolate, Cosa nostra no

A Gian Carlo Caselli piace il calcio. Tanto che all'epoca del terrorismo i suoi figli Paolo e Stefano dicevano che con lui i rischi maggiori si correvano alle partite del Toro, per via delle sue «intemperanze di tifoso granata». Ma è tremendamente amara la metafora calcistica che il procuratore capo di Torino adotta per spiegare il comportamento delle istituzioni nella lotta alla mafia. Lo Stato, scrive Caselli, «si è fermato a undici metri dalla fine, come se dovesse tirare un calcio di rigore, al novantesimo. Ma invece di tirare, è rientrato negli spogliatoi».

Qui sta la differenza tra Le due guerre che danno il titolo al nuovo saggio del magistrato, edito da Melampo e in uscita il 28 maggio (pagine 157, 15), che verrà presentato in anteprima domani alla Fiera del libro di Torino (ore 15.30, Spazio Ibs). Nel primo dei due conflitti, contro il terrorismo, si è andati fino in fondo, perché il nemico era sostanzialmente isolato, disponeva di agganci molto deboli nel contesto sociale. Contro la mafia, nella seconda e più difficile guerra, i successi ottenuti contro i killer e i boss non sono bastati, perché Cosa nostra gode di collusioni diffuse, negli ambienti politici come in «quote consistenti della borghesia ricca e colta». E quando si tocca quell'intreccio perverso, la solidarietà verso l'azione degli inquirenti si attenua, mentre crescono i distinguo, le critiche, i veleni. Caselli parla per doppia esperienza diretta. Fu da subito in prima fila contro le Brigate rosse, quando certi terroristi catturati preferivano farsi interrogare da lui in quanto esponente della corrente di sinistra delle toghe, Magistratura democratica, per poi rimanere miseramente delusi di fronte alla sua proverbiale fermezza piemontese.

Più tardi, nel gennaio 1993, assunse la guida della procura di Palermo, con il compito di affrontare una mafia apparentemente invincibile, che pochi mesi prima aveva eliminato, in rapida successione, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel racconto le due vicende corrono parallele, con affinità e divergenze. Si parla della vita blindata di un magistrato nel mirino. E già qui spicca il divario tra le pur rilevanti misure di sicurezza prese per sventare un eventuale agguato delle Br e l'ossessiva sorveglianza cui Caselli venne sottoposto a Palermo, una città «non vissuta, solo intravista», nei rapidi spostamenti tra luoghi fortificati. Un altro tema scottante è l'utilizzo dei pentiti, sempre indispensabile secondo Caselli, ma assai più arduo quando gli interlocutori non sono fanatici militanti delusi, ma delinquenti incalliti e perfidi, capaci di qualsiasi inganno. Il vero abisso però si riscontra nell'atteggiamento degli osservatori e del potere politico.

Non mancarono polemiche nella lotta al terrorismo: l'autore per esempio resta favorevole alla linea della fermezza adottata durante il sequestro Moro. Ma ben diverso è il tenore dell'ondata di attacchi subita da Caselli e dai magistrati della sua procura quando cominciarono ad accusare di complicità con la mafia eminentissimi personaggi della classe dirigente. Il libro è anche una sistematica autodifesa per il lavoro svolto a Palermo fino al 1999, con le pesanti condanne inflitte a centinaia d'imputati, l'immensa mole di beni e i munitissimi arsenali sequestrati. E naturalmente Caselli insiste sul fatto che il senatore Giulio Andreotti, da lui portato alla sbarra, non si può considerare innocente, visto che è stato assolto per i fatti successivi al 1980, ma per le vicende precedenti ha fruito della prescrizione per il tempo trascorso dal momento del reato. Inoltre Caselli insiste sulla coerenza, non da tutti riconosciuta, tra la sua opera e quella svolta prima di lui da Falcone e Borsellino, anch'essi bersaglio di aspre critiche, mentre tiene a marcare le distanze dal proprio successore Pietro Grasso, oggi procuratore nazionale antimafia, cui rimprovera un atteggiamento di «ostile insofferenza» nei suoi riguardi.

Come scrive Marco Travaglio nella postfazione, il libro «è la storia di una sconfitta», poiché l'ambizione di recidere i legami tra mafia e politica non si è realizzata. Ma non bisogna disperare. Sia perché, nota Caselli, la battaglia contro l'ala militare di Cosa nostra produce tuttora «risultati di una continuità che non ha assolutamente precedenti». Sia perché la società civile trasmette forti segnali di rigetto della mafia, grazie ad associazioni come «Libera» di don Luigi Ciotti e alla nuova consapevolezza che le categorie economiche mostrano nel contrastare il racket. Insomma, la partita non è chiusa e forse ci sarà di nuovo la possibilità di battere quel fatidico rigore.

Antonio Carioti
14 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: Caso Mills, ecco in che stato è l'informazione
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2009, 06:22:57 pm
Caso Mills, ecco in che stato è l'informazione

di Giovanni Maria Bellu


C’è un modo molto semplice per verificare lo stato dell’informazione, e dunque della democrazia, nel nostro paese: ascoltare con attenzione i telegiornali e leggere i giornali di oggi e di domani. Vedere quanto tempo e quanto spazio viene dato alla sentenza del processo Mills. E anche «come» la notizie viene riferita.

Si scoprirà che nei telegiornali – sia pubblici, sia privati – verrà presentata non come un «fatto» ma come un’«opinione». L’opinione di un collegio giudicante. E che la sommaria descrizione del merito della vicenda sarà seguita dai commenti politici. L’ultimo dei quali – a chiusura di questo giro di opinioni attorno all’opinione-sentenza – sarà affidato a un esponente del Pdl o a uno degli avvocati di Berlusconi (ma spesso le due qualità sono riassunte in un singolo soggetto).

L’intervistato non entrerà nel merito del caso giudiziario ma dirà che si è trattato di «giustizia a orologeria». Il concetto sarà ripetuto in modo martellante dai telegiornali e, con un po’ di fortuna, sarà possibile – in una conversazione al bar, su un autobus – sentire qualcuno che, senza sapere nulla della vicenda, lo ripeterà in modo testuale: «Giustizia a orologeria».

Più complesso il discorso sui quotidiani. Parliamo, naturalmente, dei normali quotidiani di informazione e non di quelli che, per vie politiche o familiari, sono direttamente controllati dal premier. Là si potrà leggere una sintesi abbastanza completa del fatto che, in qualche raro caso, sarà anche accompagnata da un commento. Non di più e, difficilmente, per più di un numero.

E se qualcuno – su un giornale non allineato come per esempio l’Unità – oserà insistere sul tema, sarà liquidato come «giustizialista». Nel caso in cui l’inopportuna insistenza fosse espressa in una trasmissione televisiva, saranno inquadrati gli ospiti politicamente vicini al premier che, in quello stesso istante, cominceranno a sorridere con gli occhi rivolti verso l’alto e a scuotere la testa.

E’ possibile fare la verifica sullo stato dell’informazione del paese anche seguendo un’altra via. E cioè osservando con attenzione in che modo televisioni e giornali danno la notizia di altre sentenze. Sarà facile scoprire che un imputato per omicidio condannato in primo grado (e dunque ancora presunto innocente) sarà indicato come l’«assassino». E che un extracomunitario, subito dopo l’arresto e dunque in assenza non solo di processo ma anche di rinvio a giudizio, sarà qualificato «stupratore». Nel caso in cui facciate notare l’incongruenza in uno studio televisivo, vi osserveranno con aria perplessa, cominceranno a scuotere la testa, e qualcuno ci definirà «buonista». Non avrete il tempo di dire: «Ma non ero giustizialista?». Si spegnerà la luce.

17 febbraio 2009
da unita.it


Titolo: Un pentito: sul 41 bis si cercò l'aiuto della Chiesa
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2009, 12:15:36 pm
Brusca: «Lo Stato trattò con Riina fra gli attentati a Falcone e Borsellino»

Il collaboratore di giustizia: il boss consegnò un "papello" con le richieste.

Un pentito: sul 41 bis si cercò l'aiuto della Chiesa

 
   
 ROMA (21 maggio) - «Riina mi disse il nome dell'uomo delle istituzioni con il quale venne avviata, attraverso uomini delle forze dell'ordine, la trattativa con Cosa nostra». Lo dice per la prima volta in aula il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, deponendo nel processo al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento alla mafia. I giudici del processo, che si svolge davanti ai giudici del tribunale di Palermo, sono oggi in trasferta nell'aula bunker di Rebibbia a Roma per sentire alcuni pentiti.

Rapporti con persone dello Stato. Brusca racconta che tra la strage di Falcone e quella di Borsellino «persone dello Stato o delle istituzioni» si erano «fatti sotto» con Riina, il quale aveva loro consegnato un «papello» di richieste per mettere fine agli attentati. Per la prima volta in un pubblico dibattimento, Brusca afferma di aver saputo da Riina il nome della persona a cui era rivolta la trattativa. Ma, quando il pm Nino Di Matteo gli chiede di farlo davanti ai giudici quel nome, Brusca si ferma e dice: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere, perché su questa vicenda vi sono indagini in corso e non posso rivelare nulla». Il riferimento è all'inchiesta che viene condotta dalla procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, che da mesi ha avviato nuove indagini sulle stragi del '92.

Spunta fuori la Lega. E Brusca fa riferimento anche alla Lega: «Tra l'omicidio di Salvo Lima e quello del dottor Falcone alcuni politici si proposero a Riina per prendere il posto che era stato dell'europarlamentare ucciso. Ma Riina non era soddisfatto, voleva di più. E qualcuno tentò di proporgli anche un contatto con la Lega di Bossi.
Ma non so cosa ne fece, perché nel frattempo Riina aveva trovato il canale giusto ed era soddisfattissimo».

Strage di Capaci non doveva fare così clamore. Brusca rivela anche che «la strage di Capaci, così come è stata fatta, Provenzano non la voleva, perché lui preferiva che Falcone venisse ucciso a Roma o in altri luoghi, senza fare troppo clamore.A Provenzano non piaceva la spettacolarizzazione degli omicidi, ma condivideva con Riina l'uccisione dei magistrati Falcone e Borsellino». Il boss, infatti, dopo l'arresto di Riina, impedì a Bagarella, Messina Denaro, Graviano e allo stesso Brusca di proseguire gli attentati in Sicilia.

Rapporti con la Chiesa. Dal pentito Ciro Vara invece rivelazioni sui rapporti con la Chiesa. «Dopo le stragi del '92 e del '93 Provenzano per alleggerire la pressione dello Stato su Cosa nostra, in particolare per i detenuti sottoposti al 41 bis, aveva cercato una strada attraverso la Chiesa». Lo ha rivelato oggi il pentito Ciro Vara dicendo di aver appreso questa strategia di Provenzano nel novembre 1993 da un mafioso di Caltanissetta, Mimmo Vaccaro, che all'epoca era latitante. «Nel 1993 soffrivamo la pressione dello Stato, i detenuti in particolare, e per questo motivo - dice Vara - incontrando Vaccaro dopo che per una settimana era stato insieme a Provenzano, gli chiesi cosa stava facendo per aiutarci. E Vaccaro mi rispose che stava tentando la strada attraverso la Chiesa, in modo da ammorbidire la repressione della magistratura e alleggerire il 41 bis». Vara ha inoltre rivelato per la prima volta in aula che il boss catanese Pietro Balsamo, negli anni Novanta, riusciva a conoscere in anticipo le mosse delle forze dell'ordine a Catania. «Balsamo - dice Vara - aveva notizie sempre di prima mano su arresti che doveva effettuare la Dda di Catania». 
 
da ilmessaggero.it


Titolo: Un no netto, quello espresso dal procuratore Antimafia Piero Grasso, alla...
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2009, 11:22:33 am
ultimo aggiornamento: 23 maggio, ore 14:44

Palermo, 23 mag. - (Adnkronos) -


Un no netto, quello espresso dal procuratore nazionale Antimafia Piero Grasso, alla proposta avanzata dalla Lega dell'elezione diretta dai magistrati.

"Ho visto le esperienze di altri Paesi -ha detto il preocuratore al termine del dibattito con gli studenti nell'aula bunker di Palermo- per esempio, negli Stati Uniti c'e' la possibilita' di eleggere le magistrature minori. Per essere eletti si schierano o con i conservatori o con i repubblicani. Se vogliamo far entrare anche di piu' la politica nella magistratura -ha evidenziato- e' una soluzione, ma io sono assolutamente contrario''. ''La magistratura -ha ribadito Grasso- deve essere considerata un valore per i cittadini. Non vorrei esprimere io un parere ma vorrei che fossero i cittadini ad esprimere un parere sulla magistratura e sul suo operato, se vogliono contare su questa parte dello Stato che tanti successi miete ogni giorno".

Rispetto ai continui attacchi della politica alla magistratura, Grasso sottolinea che "c'è sempre insofferenza per chi controlla, per chi vuole la legalita'". "C'e' sempre insofferenza perche' ognuno vorrebbe essere libero completamente. Ma -ha sottolineato- in una democrazia le liberta' si devono compensare. Non esiste una liberta' non limitata da un contrappeso. Se un potere raggiunge la supramazia su un altro, allora non siamo piu' in democrazia".

Rispondendo infine a una domanda di uno studente su possibili infiltrazioni mafiose nella ricostruzione in Abruzzo, il procuratore nazionale antimafia ha concluso: "Dobbiamo evitare che i fondi destinati alla ricostruzione in Abruzzo finiscano per rimpinguare le casse della mafia e degli speculatori. Dove c'e' odore di soldi - ha aggiunto - la mafia si presenta. Dobbiamo vigilare - ha concluso - perche' il popolo abruzzese abbia il risarcimento che si merita".



Titolo: Intercettazioni: NEGATE le modifiche chieste dal procuratore nazionale antimafia
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 06:33:51 pm
Non recepite le modifiche chieste dal procuratore nazionale antimafia

Intercettazioni: il governo pone la fiducia

Lodo Alfano: bocciata la mozione Pd per l'abrogazione dell'immunità per le 4 più alte cariche dello Stato
 

ROMA - «C’è l’accordo di maggioranza sul testo e il governo porrà la questione di fiducia sul disegno di legge sulle intercettazioni». Lo ha annunciato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, al termine della riunione con i ministri Maroni, Vito e Calderoli, i presidenti dei deputati di Pdl e Lega, il presidente della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, e l'on. Niccolò Ghedini, avvocato di Berlusconi e componente della stessa commissione. Nel maxiemendamento su cui il governo porrà la fiducia non dovrebbero essere state recepite le modifiche chieste dal procuratore nazionale antomafia, Piero Grasso. «Il testo è quello uscito dalla commissione Giustizia con un solo chiarimento tecnico», ha spiegato Ghedini.

LODO ALFANO - Nel frettempo la Camera ha bocciato la mozione del Partito democratico, presentata dal segretario Dario Franceschini, che chiedeva al governo di abrogare il lodo Alfano.
L'Idv ha chiesto e ottenuto il voto separato delle tre parti di cui si componeva il dispositivo. Il primo conteneva la richiesta di cancellare la norma che garantisce l'immunità per le quattro più alte cariche dello Stato fin quando restano in carica. Nella mozione Franceschini chiedeva all’esecutivo di «sollecitare e favorire un confronto tra maggioranza e opposizione per discutere immediatamente la riforma della II parte della Costituzione» che riproduca la bozza Violante approvata dalla commissione affari Costituzionali di Montecitorio nella scorsa legislatura.


09 giugno 2009
da corriere.it


Titolo: Tangenti, "furbetti" e Calciopoli le verità che non avremmo saputo
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2009, 07:05:56 pm
Intercettazioni, ecco come la riforma toglie spazio ai pm e limita la stampa

Da Lady Asl agli immobiliaristi: l'obbligo di indizi "evidenti" impedirebbe molti controlli

Tangenti, "furbetti" e Calciopoli le verità che non avremmo saputo

 
ROMA - Gli orrori della clinica Santa Rita di Milano? Sarebbero rimasti ben segreti. Le partite truccate di Calciopoli? Avrebbero continuato a essere giocate. L'odioso stupro della Caffarella? Gli autori sarebbero ancora liberi. Il sequestro dell'imam Abu Omar? I pm di Milano non l'avrebbero mai scoperto. E gli agenti del Sismi che collaborarono con la Cia non avrebbero mai lasciata impressa sul nastro la fatidica frase "quell'operazione è stata illegale".

Lady Asl e la truffa della sanità nel Lazio? La cupola degli amministratori regionali avrebbe continuato ad operare indisturbata. I furbetti del quartierino? Per le scalate Antonveneta e Bnl forse non ci sarebbero stati gli "evidenti indizi di colpevolezza" per mettere i telefoni sotto controllo. A rischio le inchieste potentine di Henry John Woodcock, Vallettopoli, Savoiopoli, affaire Total, tangenti Inail, dove i nastri hanno continuato a girare per otto-nove mesi prima di produrre prove, e quelle calabresi (Poseidone, Toghe lucane, Why not) dell'ormai deputato europeo Luigi De Magistris.

Una moria impressionante, in cui cadono processi famosi e meno famosi, in cui le indagini sulla mafia sono messe a rischio perché non si potrà più mettere sotto controllo telefoni per truffa ed estorsione. Si salva Parmalat dove, come assicurano i pm di Milano e di Parma, le intercettazioni non furono determinanti né per arrestare Calisto Tanzi in quel dicembre 2003, né per accertare ragioni e colpevoli del crack. Ha detto e continua a dire l'Anm con una frase ad effetto, "è la morte della giustizia penale in Italia".

Nelle stesse ore in cui alla Camera, con il concorso dell'opposizione nonostante l'appello del giorno prima a Napolitano di Pd, Idv, Udc, si approva la legge sugli ascolti, nelle procure italiane, tra lo sconcerto e l'irritazione delle toghe, si fanno i conti delle intercettazioni che non si potranno più fare in futuro e di quelle che, in un passato recente, non sarebbero mai state possibili. E, anche se fossero state fatte, non si sarebbero mai potute pubblicare, né nella versione integrale, né tantomeno per riassunto.

Le indagini cadono su due punti chiave della legge: "evidenti indizi di colpevolezza" per ottenere un nastro, solo 60 giorni per registrare. Così schiatta l'indagine sulla clinica Santa Rita che parte con una truffa ai danni dello Stato per via dei rimborsi gonfiati e finisce per rivelare che si operava anche quando non era necessario. Non solo sarebbero mancati gli "evidenti indizi" (se ci fossero stati i pm Pradella e Siciliano avrebbero proceduto con gli arresti), ma non si sarebbe andati avanti per undici mesi, dal 4 luglio 2007 al 24 giugno 2008. Giusto a metà, era settembre, ecco le prime allusioni a un reparto dove accadevano "fatti gravi". Niente ascolti, niente testi sui giornali, niente versione integrale letta al processo, niente clinica costretta a cambiare nome per la vergogna.

Cambia corso il caso Abu Omar, nato come un sequestro di persona semplice contro ignoti. Solo due mesi di tape. Ma la telefonata chiave, quando l'imam libero per una settimana racconta alla moglie la dinamica del sequestro, giunge solo allo scadere dei 12 mesi d'ascolto. In più la signora, in quanto vittima, non avrebbe mai dato l'ok a sentire il suo telefono, come stabilisce la nuova legge.

Per un traffico organizzato di rifiuti a Milano, dove arrivava abusivamente anche la monnezza della Campania, hanno fatto 1.500 intercettazioni per sei mesi. Solo dopo i primi due s'è scoperto cosa arrivava dal Sud. In futuro impossibile. Come gli accertamenti che fanno scoprire i mafiosi. A Palermo hanno intercettato l'imprenditore Benedetto Valenza per quattro mesi: dalla truffa e dalla frode nelle pubbliche forniture sono arrivati a scoprire che riciclava i soldi del clan Vitale e forniva cemento depotenziato pure agli aeroporti di Birgi e Punta Raisi. Idem per l'inchiesta contro gli amministratori di Canicattì e Comitini che inizia per abuso d'ufficio e corruzione e approda a un maxi processo contro le cosche di Agrigento. Telefoni sotto controllo per sei mesi, ormai niente da fare.

"La gente sarà meno sicura" dicono i magistrati. E citano lo stupro della Caffarella d'inizio anno. Due arresti sbagliati (i rumeni Ractz e Loyos), il vanto di aver fatto tutto "senza intercettazioni", poi il ricorso all'ascolto sul telefono rubato alla vittima. Domani impossibile perché in un delitto contro ignoti si può intercettare solo il numero "nella disponibilità della persona offesa". Assurdo? Contraddittorio? Sì, ma ormai è legge.

(12 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: Mafia, revocata la scorta al pm che fece arrestare Riina e Brusca
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2009, 12:26:43 pm
Mafia, revocata la scorta al pm che fece arrestare Riina e Brusca
 
 
 PALERMO (13 giugno) - Franco Lo Voi, il pubblico ministero 51enne che arrestò decine di boss mafiosi, non ha più diritto alla scorta. A revocare la misura di tutela al pm della procura generale della Cassazione, sotto scorta dal 1992, è stata la prefettura di Roma.

Lo Voi è stato per oltre dieci anni alla direzione distrettuale antimafia di Palermo e ha partecipato alle indagini che hanno portato all'arresto di Totò Riina. Il pm era dietro alla cattura anche di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, l'uomo che uccise Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. L'attività di Lo Voi come pm a Palermo ha riguardato anche l'arresto di decine di mafiosi siciliani, in gran parte condannati all'ergastolo.

In passato alcuni collaboratori di giustizia avevano rivelato ai pm che Cosa nostra voleva uccidere Lo Voi e che quindi, alcuni boss mafiosi si sarebbero procurati un bazooka per l'attentato al pm. L'arma non è mai stata trovata dagli investigatori, ma ultimamente il neo pentito Gaspare Spatuzza, ha sostenuto che sarebbe ancora nelle mani dei mafiosi di Brancaccio.

L'unica cosa che dice il pm, refrattario ai contatti con i giornalisti, è: «Se le autorità dicono che non ci sono più pericoli, non posso che esserne contento, specialmente per le mie figlie, che da piccole costringevo ad allontanarsi dalle finestre quando uscivo da casa. Tanto ormai sono maggiorenni e, se mi accadesse qualcosa, sanno chi citare in giudizio per il risarcimento dei danni».

Lo Voi, 51 anni, sposato con una gip del tribunale di Palermo, oggi si occupa ancora alla procura generale della Cassazione di processi che riguardano molti imputati di mafia su cui aveva già indagato a Palermo. Per questa attività il procuratore generale della Cassazione aveva richiesto un rafforzamento della protezione nei confronti di Lo Voi. Il magistrato vive a Palermo con la sua famiglia e recentemente qualcuno ha fatto irruzione per due volte nella sua casa di villeggiatura, senza rubare nulla.

da ilmessaggero.it
 


Titolo: Paolo Borsellino. La strage di via D'Amelio...
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2009, 09:58:45 am
La strage di via D'Amelio, 17 anni dopo l'indagine è sul ruolo dei Servizi

di Nicola Biondo


Domani saranno passati diciassette anni dal giorno in cui giudice Paolo Borsellino e la sua scorta furono trucidati da un’autobomba. Diciassette anni senza verità. Troppe ombre, false testimonianze, reticenze, omertà. Ma forse tutto questo sta per finire. Le indagini delle Procure di Caltanissetta e Palermo - che mai si sono interrotte - negli ultimi mesi hanno individuato tre nuove testimonianze che potrebbero essere decisive.

La prima è quella del mafioso Gaspare Spatuzza. Dopo 11 anni di carcere duro ha rivelato di essere stato lui a rubare la macchina che sarebbe poi stata imbottita di esplosivo. Un racconto che demolisce molte false verità, alcune delle quali consacrate da sentenze passate in giudicato, e apre la porta all'individuazione di nuovi e diversi responsabili dell’organizzazione della strage.

Le altre due testimonianze sono quelle di Giovanni Brusca, il killer della strage di Capaci, e di Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, la mente dei rapporti tra il mondo politico e la mafia. Entrambi, da visuali diverse, dicono la stessa cosa. E cioè che, in quei 57 giorni che separano la morte dei giudici Falcone e Borsellino, lo Stato e Cosa nostra trattarono.

Il figlio di don Vito racconta di aver incontrato in quella torrida estate del 1992 gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno e alcuni agenti segreti. Chiesero a suo padre di fare da intermediario con i boss. E don Vito ubbidì. In quello stesso periodo, infatti, incontrò Bernardo Provenzano e un emissario di Riina, Antonino Cinà. Divenne, in sostanza, il garante di un patto col sistema politico.

Il racconto di Giovanni Brusca è ambientato in luoghi e situazioni del tutto diverse dal salotto di don Vito e arriva dal cuore nero di Cosa nostra. «Riina mi disse chi era il terminale della trattativa», ha rivelato di recente. E ha aggiunto: «Per la strage del dottor Borsellino ci fu una straordinaria accelerazione». Determinata dal fatto che il giudice si era opposto alla trattativa «con tutte le sue forze».

Il tema delle nuove indagini è nella domanda che scaturisce da questa informazione. Una domanda che ci si pose fin dal 1992 e che oggi torna a essere drammaticamente attuale: è stata una strage di mafia,[/CLREG5N]<CF161> solo </CF>della mafia? È questa la posta in gioco. Altissima. Perché la ricerca della verità porta ad arare campi lontani da quelli tradizionalmente coltivati dai boss di Corleone.

Una fuga di notizie sulle indagini in corso ha riportato alla ribalta una vecchia storia che "l'Unità" ha già raccontato. È quella di Luigi Ilardo che, tra il 1994 e il 1996, si infiltrò nella mafia per conto del colonnello della DIA Michele Riccio e che poi, come tanti altri protagonisti di questa storia, fu assassinato.

Ilardo è stato il primo a parlare di un patto tra politici della Seconda Repubblica e la mafia. Secondo il colonnello Riccio - che è diventato il principale accusatore del suo superiore - un giorno lo gridò al generale Mori: «Molte cose successe in Sicilia, questi attentati - gli disse - sono stati fatti dallo Stato e addossati alla mafia e voi lo sapete…».

Una miniera di informazioni, Ilardo, e tutto date in tempi non sospetti. È stato anche il primo a parlare di «faccia da mostro». È questo personaggio, sul quale indagava la procura nazionale antimafia diretta da Pietro Grasso, l’oggetto della citata fuga di notizie). Si tratta di un agente dei Servizi contiguo ad ambienti mafiosi che, fin dagli anni ‘80, cominciò a comparire in luoghi dove venivano compiute delle stragi o degli omicidi.

È stato sempre Ilardo a raccontare di incontri riservatissimi tra Riina ed esponenti dei Servizi, insomma qualcosa di molto simile a quello che in seguito sarebbe stato chiamato il «papello». «Molte ombre - disse ancora Ilardo qualche tempo pprima di essere ucciso - aleggiano intorno all'arresto di Totò Riina. All'interno di Cosa Nostra si faceva esplicito riferimento al ruolo avuto dai servizi segreti anche alla luce degli strani contatti che Riina aveva con persone sconosciute anche ai suoi più stretti collaboratori».

Una testimone prezioso, capace di fornire anche una lettura di sintesi degli avvenimenti di quegli anni. Eccola: «Molti misteri siciliani, la maggior parte dei delitti politici in Sicilia, non sono stati a favore di Cosa Nostra. Cosa Nostra ha avuto solamente danni da questi omicidi, quelli che ne hanno tratto vantaggi sono solamente politici.

Diciassette anni dopo quella lettura sembra potersi applicare anche alla strage di via D’Amelio. Perché, in effetti, Cosa Nostra ne ebbe solo danni. La reazione dello Stato fu la promulgazione della legge sul carcere duro e l'arresto di tutti i boss più rappresentativi, da Riina a Bagarella. Ma chi, allora, ebbe dei vantaggi da quella strage? Ancora una risposta postuma di Ilardo: «Ci sono state tante e tante altre cose in Sicilia, come ad esempio molti omicidi che, da quello che mi è stato raccontato da persone inserite in Cosa Nostra, sono stati commessi dai Servizi Segreti e poi addossati a Cosa Nostra».

E adesso è chiaro perchè da qualche tempo negli uffici giudiziari siciliani si respira una tensione che sembrava dimenticata. Non solo perché, forse, si sta per venire a capo di una delle vicende più misteriose dell’ultimo ventennio. Ma, soprattutto, perchè si ha l’impressione di poter scoprire, attraverso di essa, le «regole generali» di un meccanismo che ha segnato tragicamente l’intera storia del nostro paese.

18 luglio 2009
da unita.it


Titolo: L'ultima pista: "In un hotel la regia della strage di via D'Amelio"
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2009, 10:01:14 am
L'ultima pista: "In un hotel la regia della strage di via D'Amelio"

Dalla sede degli 007 alle frasi di un pentito. E spunta anche la versione di Genchi

Mafia e servizi, telefonate e carte sparite ecco gli indizi nelle inchieste


dai nostri inviati ATTILIO BOLZONI FRANCESCO VIVIANO

 
CALTANISSETTA - C'è puzza di spie in ogni strage siciliana. Misteri di mafia e misteri di Stato. Chiamate fatte da boss e dirette a uffici dei servizi segreti, biglietti con numeri telefonici intestati a capi degli apparati di sicurezza trovati sulla scena del crimine, esperti in bonifica ambientale in contatto con sospetti attentatori. E ancora: agende sparite (quella rossa di Paolo Borsellino), depistaggi, pentiti fasulli o pilotati. Dalle indagini sui massacri avvenuti in Sicilia fra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90 stanno affiorando complicità e patti, intrecci, una rete di "interessi convergenti".

I procuratori di Caltanissetta hanno riaperto tutte le inchieste sulle stragi ripescando vecchi fascicoli e interrogando nuovi testimoni, ripercorrendo piste frettolosamente abbandonate, scoprendo indizi che si orientano verso quelli che vengono chiamati "i mandanti occulti" o i "soggetti esterni" a Cosa Nostra.
Uno degli ultimi personaggi ascoltati dai magistrati è stato Gioacchino Genchi, uno dei protagonisti del "caso De Magistris" a Catanzaro, il consulente che 17 anni fa era con il questore Arnaldo La Barbera alla guida del "Gruppo Falcone Borsellino", il pool di investigatori che indagò fin dall'inizio sulle stragi. Gioacchino Genchi ha parlato per un giorno intero, il 16 aprile scorso. E alla fine ha indicato una traccia: "Dovete scoprire chi c'era il 19 luglio del 1992 a Villa Igiea perché lì dentro c'era la regia...".

A Villa Igiea, lo splendido albergo voluto dai Florio sul mare di Palermo, quel pomeriggio c'era - secondo Genchi - un ospite speciale che avrebbe praticamente "guidato" le operazioni per l'uccisione di Borsellino. Il consulente ha ricostruito il "movimento" telefonico nei minuti che hanno preceduto l'attentato. Ha accertato che dal cellulare clonato di un'ignara donna napoletana, A. N., sono partite prima alcune chiamate a mafiosi di Villagrazia di Carini (il luogo dove Borsellino quel pomeriggio è partito con la sua scorta), poi alcune chiamate a mafiosi di Palermo e infine - proprio quando l'autobomba è esplosa - l'ultima chiamata a Villa Igiea. Chi c'era dentro il lussuoso hotel? Chi era l'ospite innominabile che probabilmente i procuratori di Caltanissetta stanno cercando?
Un testimone che sarà interrogato nei prossimi giorni sarà il pentito Francesco Di Carlo, nei primi anni '90 rinchiuso in un carcere londinese dove ricevette una visita di quattro uomini. "Tre erano stranieri e uno italiano", ha risposto qualche anno fa al pubblico ministero Luca Tescaroli. Quattro 007. Il pentito Di Carlo non ha mai voluto fare il nome dell'agente segreto, però ha raccontato che gli 007 gli chiesero una sorta di "consiglio" su come ammazzare Falcone e Borsellino che tanto stavano dando fastidio a Cosa Nostra e ai suoi traffici. Lo stesso Totò Riina, usò per proprio tornaconto in un'udienza queste rivelazioni di Francesco Di Carlo: "Io con le stragi del 1993 non c'entro niente, chiedetelo a Di Carlo: era lui in contatto con i servizi segreti non io".

Mafia e servizi, ci sono impronte dappertutto. Di chi era quel numero di telefono trovato sul bigliettino di carta recuperato a qualche metro da dove Giovanni Brusca fece esplodere l'autostrada a Capaci? Era di L. N., il capo del Sisde a Palermo. "Era un appunto sulla riparazione di un cellulare Nec P 300 che qualcuno dei miei uomini deve avere perso durante il sopralluogo", ha risposto L. N. Fine della deposizione e fine delle indagini. C'è solo un particolare da ricordare: cellulari di quel tipo - Nec P 300 - sono stati trovati qualche tempo dopo nel covo di via Ughetti, la casa dove si nascondevano i macellai di Capaci e parlavano - ascoltati dalle microspie - "dell'attentatuni" che avevano preparato.

A chi erano indirizzate le telefonate di Gaetano Scotto - mafioso dell'Acquasanta, imputato dell'inchiesta sull'uccisione del procuratore - poco prima della strage di via D'Amelio? Al castello Utvegio, una costruzione degli Anni Venti che domina Palermo da Montepellegrino. Lì erano acquartierati alcuni "irregolari" del Sisde, i superstiti di quel carrozzone sfasciato che era l'Alto Commissariato antimafia. Spie.
E che lavoro facevano quei due fratelli di Catania, indagati l'anno scorso per la strage Falcone insieme a un noto imprenditore palermitano, che avevano a che fare con telecomandi a media e a lunga distanza? Avevano l'appalto per bonificare alcune "case" dei servizi segreti.

Coincidenze, tutte coincidenze che ora i procuratori di Caltanissetta stanno mettendo in fila e risistemando in un "quadro". Forse in passato ci sono state "carenze investigative". O forse c'è sempre stato qualcuno che non voleva spingersi oltre Totò Riina e i suoi Corleonesi.

(18 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: Palermo e quelle stragi del '92
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2009, 07:18:40 pm
Nel pomeriggio "la marcia delle agende rosse" per ricordare Paolo Borsellino

La sorella Rita: "C'è puzza di rassegnazione, ma non dobbiamo arrenderci"

"Senza verità non c'è giustizia"

Palermo e quelle stragi del '92



 PALERMO - "Una verità che si attende da 17 anni: troppi per potere aspettare ancora. Solo con la verità si può avere giustizia. Questo quadro inquietante che si sta delineando sulle stragi del '92 e del '93 merita la massima attenzione, sia a livello nazionale che europeo". Rita Borsellino non ha mai avuto dubbi. Meno che mai ora che è stata riaperta l'inchiesta sul tritolo mafioso che diciassette anni fa ha insanguinato la Sicilia. L'eurodeputato Pd dice questo mentre partecipa assieme a duecento persone a un corteo antimafia che si è tenuto nel pomeriggio a Palermo. Una manifestazione che qualcuno ha già chiamato "la marcia delle agende rosse", perché tutti hanno in mano un'agenda simile a quella custodita gelosamente dal magistrato e sparita nel nulla dopo l'attentato di via d'Amelio.

Rita Borsellino sente "puzza di rassegnazione. Non e' possibile rassegnarsi. Non abbiamo questo diritto, dobbiamo continuare a impegnarci giorno per giorno perché solo l'impegno quotidiano puo' costringere chi ha il compito di fare delle scelte a intraprendere la strada giusta. Ci vuole il coraggio della rabbia, della denuncia". L'europarlamentare si riferisce alle parole pronunciate ieri da procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che ha denunciato minore rabbia di una parte della magistratura nella lotta alla mafia rispetto al 1992.

"Dal '92 ad oggi si è fatto poco - ha detto Salvatore Borsellino, fratello del magistrato - Sembra quasi che qualcuno stia pagando delle cambiali alla mafia. Oggi finalmente, dopo anni di tenebre, la lotta che si sta conducendo nelle procure di Palermo e Caltanissetta sta andando nel verso giusto. Si stanno acquisendo elementi positivi. Fino ad oggi ci sono stati tanti depistaggi, ora si sta lavorando per coprire la complicità di pezzi deviati delle istituzioni".

De Magistris dalla sua pagina Facebook scrive che "la magistratura, come intuirono per altro già Borsellino e Falcone, deve entrare nelle banche e nei conti correnti internazionali, nel meccanismo degli appalti e nei settori industriali, utilizzando le intercettazioni e operando in modo autonomo. La società civile deve avviare una riflessione interna profonda esigendo verità dallo Stato, anche sullo stragismo degli anni '90, su cui la Procura di Caltanissetta sta nuovamente indagando".

E se l'europarlamentare e sindaco di Gela Rosario Crocetta propone una commissione antimafia anche a Strasburgo, per l'Associazione familiari della strage dei Georgofili non bisogna istituire un'inchiesta parlamentare sulle stragi del '93. "Temiamo - si legge in una nota scritta dalla portavoce Giovanna Maggiani Chelli - che, come sempre, userà tutti i suoi strumenti per porre limiti ancora una volta alla magistratura. Una contromossa per esorcizzare la paura del fantasma di Vito Ciancimino".

(18 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: L'ultimo veleno di Riina "Borsellino delitto di Stato"
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 12:11:07 pm
19/7/2009 (7:39) - LA STORIA

L'ultimo veleno di Riina "Borsellino delitto di Stato"
 
Il padrino: non c'entro, sono stati loro. La trattativa? Fatta su di me

FRANCESCO LA LICATA
ROMA


Il vecchio padrino esce dal cono d’ombra e, nel giorno dell’anniversario della strage di via D’Amelio, offre - a modo suo - la «versione inconfessabile» sulla morte di Paolo Borsellino. «Lo hanno ammazzato loro», ripete al suo legale, Luca Cianferoni, aggiungendo: «Lo può dire tranquillamente a tutti, anche ai giornalisti. Tanto sono stanco di fare il parafulmine d’Italia». L’avvocato e il boss erano, ieri mattina, nella sala colloqui del carcere di Opera e l’occhio del detenuto è andato su una copia del «Sole 24 Ore», in particolare su un titolo che riferiva i misteri della strage di via D’Amelio. A Riina vengono interdetti i quotidiani siciliani, ma non quelli nazionali. E così ha potuto essere informato sul grande “affaire” che va profilandosi sulla storia di via D’Amelio.

Come a voler sottolineare l’assenza di sorpresa per le notizie sul coinvolgimento di apparati istituzionali nella strage, ha commentato: «Avvocato, io con questa storia non c’entro nulla. Avvocato gli vada sotto tranquillamente: le assicuro che è come le sto dicendo. Trattativa? Io trattativa non ne ho fatto con nessuno, ma qualcuno ha trattato su di me. La mia cattura è stata conseguenza di una trattativa». E torna il ritornello che fu oggetto di una prima “esternazione”, ma molto più criptica e contratta di questa che ha invece l’aria di una vera e propria entrata in gioco. «Com’è - aveva chiesto dalla gabbia del processo di Firenze - che il ministro dell’Interno sapeva che mi avrebbero arrestato?». Il ministro in questione era Nicola Mancino, indicato anche dal pentito Giovanni Brusca come una delle parti in trattativa: rivelazione respinta al mittente dall’attuale vicepresidente del Csm nel corso degli incontri sostenuti coi magistrati inquirenti.

Questo del coinvolgimento dei servizi nella strage è stato sempre argomento prediletto di Riina ed è comprensibile dal momento che contribuisce a rendere meno intelleggibile l’intera vicenda. Gli ultimi sviluppi, inoltre, continuano a produrre una densa cortina di dubbi. «Prendiamo questo signorotto che ora parla - ha aggiunto don Totò - di trattativa e di papello, questo signor Massimo Ciancimino. Io ho sempre detto che bisognava interrogarlo e farsi dire tutto. Magari lo consegnasse, questo papello (le richieste che Cosa nostra avanzò allo Stato con la mediazione di Vito Ciancimino, padre di Massimo ndr). Forse se lo consegna si potrà fare una perizia per sapere finalmente chi l’ha scritto. Io no di sicuro».

Per la prima volta, dunque, Riina esce allo scoperto (ovviamente sempre negando aprioristicamente ogni possibilità di collaborazione) e recita il ruolo di chi vuole verità e giustizia, anche se «so perfettamente che la mia posizione processuale non cambierà di un millimetro». Al legale suggerisce spunti di analisi: la borsa contro Falcone all’Addaura in una scogliera affollata di strani personaggi, esattamente come la scena di via D’Amelio. «E mi mettono sempre accanto ai carabinieri. Mi creda, avvocato, io sono stato soltanto tragediato da questi signori». Poi con l’astuzia che non gli manca torna sulla trattativa politica. Ma perchè non ne ha parlato in tutti questi anni? Cianferoni è ancora più malizioso: «Quando si è presentata l’occasione sono andati a sentirlo in cinque, un modo per indurre chiunque a chiudersi a riccio».

Sembra sia stato il processo per la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro a provocare questa mutazione di don Totò. Con gran disinvoltura, nemica della tradizionale riservatezza degli uomini d’onore, Riina si è appassionato al giallo del giornalista de L’Ora rapito nel 1970. Fino a definire più attendibile il “movente Mattei”, forse perché anche quello affollato dai servizi segreti. Ma si è lasciato andare, il boss, anche a qualche commento caustico, proprio in direzione «degli sbirri segreti» e persino della «massoneria». Una vera metamorfosi, rispetto al silenzio autistico del dopo-cattura. Ma se si ritiene vittima della trattativa, e la trattativa c’è stata, chi lo ha “venduto”? Il riflesso condizionato porta a Bernardo Provenzano, il grande amico di Vito Ciancimino. Ma su questo, giura Luca Cianferoni, Riina ha una sola certezza: «Con le mie disavventure Provenzano non c’entra nulla». Potenza della vecchia amicizia.

da lastampa.it


Titolo: Delitto Borsellino: "Strage di mafia, ma restano delle zone d’ombra"
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 12:11:56 pm
19/7/2009 (7:49) - INTERVISTA

Delitto Borsellino: "Strage di mafia, ma restano delle zone d’ombra"
 
Ingroia: «Riina rifiuta di parlare. Se vuole fare chiarezza, noi siamo pronti»


GUIDO RUOTOLO
ROMA

Per la prima volta Totò Riina ha deciso di offrire un contributo di maggiore chiarezza ai misteri dello stragismo mafioso. E’ una novità positiva. Il dato più importante di queste sue esternazioni è quando dice che si è stufato di fare il parafulmine d’Italia». Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, titolare delle inchieste più importanti su quell’area grigia dei rapporti tra poteri criminali e pezzi delle istituzioni, commenta lo sfogo del Capo dei capi di Cosa nostra, il corleonese Totò Riina. Che avviene alla vigilia dell’anniversario della strage di via d’Amelio, del massacro di Paolo Borsellino e della sua scorta.

Dottore Ingroia, Totò Riina dice che la strage di Borsellino è opera dello Stato...
«Non è la prima volta che indica questo scenario. Oggi lo fa con maggiore chiarezza. Finora - in questi anni voglio dire - Riina ha sempre rifiutato ogni forma di dialogo. Non ha mai voluto rispondere alle nostre domande. In passato ha mandato, talvolta, messaggi sibillini e mai un granché chiari. Ora vedo nelle sue dichiarazioni un desiderio di far chiarezza, e non solo per ragioni processuali difensive».

E allora, Borsellino chi l’ha ammazzato?
«Che Cosa nostra abbia avuto un ruolo nella strage di via D’Amelio è indiscutibile. Rimangono delle zone d’ombra al punto che non si sa ancora chi ha premuto il pulsante dell’autobomba. Possiamo aggiungere che sicuramente vi sono stati interessi convergenti con quelli mafiosi».

Il capo dei Corleonesi dice che si è stancato di fare da parafulmine...
«Lasciando sottintendere, evidentemente, che non vuole pagare per colpe altrui. Intendiamoci, Riina è l’artefice della strategia stragista di Cosa nostra, sotto il suo comando la mafia ha ucciso, ha seminato terrore, ha soggiogato imprenditori e commercianti. Quando afferma che non vuole essere più il parafulmine di tutti, dice esplicitamente che sta pagando per colpe e responsabilità non sue. Siccome da indagini e processi si sono percepite altre corresponsabilità, che però non sono mai state messe a fuoco, solo lui, depositario di queste verità, ci può indicare, spiegare, dire di chi è stato il parafulmine. Noi siamo pronti, senza pregiudizi, ad ascoltare questa sua verità. E naturalmente a verificarla».

Procuratore, Riina sostiene di non avere nulla a che fare con la trattativa, semmai sospetta che il risultato di quella trattativa è stato la sua cattura.
«Su questo aspetto non posso entrare nel merito. Da indagini e processi in corso, in effetti è emerso che vi sono state una, due, forse tre trattative. All’inizio, Totò Riina stava incominciando ad avere un qualche ruolo nella trattativa. Poi, evidentemente, è stato scavalcato».

Quando?
«Già prima del suo arresto e sicuramente dopo. Lui ne sa, comunque, più di noi».

La prima trattativa. Quella del papello. Riina si chiama fuori e invita a fare una perizia calligrafica sul pezzo di carta attribuito a lui, ma non ancora consegnato da Massimo Ciancimino, sul quale avrebbe posto allo Stato le condizioni per far cessare le stragi e gli omicidi eccellenti.
«Su questo davvero non posso dire nulla. Sono in corso indagini molto delicate. Se vi fu trattativa, certamente non fu solo interesse di Cosa nostra a chiuderla. Tutti, da subito, sin dal 1992, hanno avuto la sensazione che vi fossero altri mandanti esterni a Cosa nostra, dietro lo stragismo di quel biennio ‘92-‘94».

da lastampa.it


Titolo: Felice Cavallaro. Totò Riina: dietro le stragi i piani alti della politica
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 12:17:07 pm
I «messaggi» del boss accusato di decine di omicidi che parla in carcere con l'avvocato: «Non ho scritto io il papello. Nesso tra bombe e Tangentopoli»

Totò Riina: dietro le stragi i piani alti della politica

«Borsellino fu ucciso da quelli che fecero la trattativa»


DAL NOSTRO INVIATO

PALERMO — È stato condannato a una sfilza di ergastoli per decine di omicidi e per le più sanguinarie stragi di mafia, a cominciare da quelle di Capaci e via D'Amelio. Sa che ogni sua parola può essere interpretata come un messaggio obliquo. Ma quando ieri mattina Totò Riina, il capo dei corleonesi, è uscito dalla cella a regime di carcere duro per incontrare in una saletta il suo avvocato, Luca Cianferoni, aveva bisogno di sfogarsi: «Ne so poco perché qui non mi passano nemmeno i giornali. Ma questa storia della "trattativa", di un mio "patto" con lo Stato, di tutti gli impasti con carabinieri e servizi segreti legati al fatto di via D'Amelio non sta proprio in piedi. Io della strage non ne so parlare. Borsellino l'ammazzarono loro». Un boato così fragoroso e inquietante nemmeno il suo avvocato se l'aspettava, proprio nel diciassettesimo avversario del massacro. Ovvia la domanda immediata: «Loro? Chi sono "loro"?». E arriva la risposta, a differenza di tante altre volte, dei silenzi ermetici di tante udienze dibattimentali: «Loro sono quelli che hanno fatto la trattativa, quelli che hanno scritto il "papello", come lo chiamano. Ma io della trattativa non posso saperne niente di niente. Perché io sono oggetto, non soggetto di trattativa. E la stessa cosa è per quel foglio con le richieste che qualcuno avrebbe presentato attraverso Vito Ciancimino. Mai scritto da me. Facciamo pure la perizia calligrafica appena viene fuori e scopriremo che io non ho niente a che fare con questa vicenda».

Evidente il richiamo al documento che il figlio di «don Vito», Massimo Ciancimino, sarebbe finalmente pronto a consegnare ai magistrati di Palermo e Caltanissetta, a loro volta impegnati in una revisione delle inchieste sulle stragi di Capaci e via D'Amelio. Fatti nuovi che per molti osservatori e anche per tanti familiari di vittime di mafia la stessa magistratura avrebbe potuto mettere a fuoco già alcuni anni fa, bloccata da omissioni e depistaggi denunciati negli ultimi giorni soprattutto dal fratello di Paolo Borsellino. Ma stavolta a pensarla così, per un paradosso tutto da interpretare, è proprio Salvatore Riina nello sfogo destinato a intercettare gli spinosi argomenti del processo in corso al generale Mario Mori e al colonnello Giuseppe De Donno: «Sono stati i giudici a bloccare l'accertamento perché ho chiesto io a Firenze quattro anni fa di sentire Massimo Ciancimino, per chiedergli quello che sta tirando fuori solo adesso. Ci ho provato a parlare di Ciancimino padre come tenutario di una trattativa con i carabinieri. E volevo che li sentissero tutti in aula, a Firenze. Ma i giudici non hanno ammesso l'esame. Ora parlano tutti di misteri. Ma ci potevamo arrivare, come dicevo io, quattro anni fa a parlare di una trattativa che io ho subito come un oggetto, sulla mia testa». E insiste con l'avvocato Cianferoni ricordandogli tutti i dubbi che gli vengono in cella ripensando a storie e personaggi vicini a Ciancimino padre: «La trattativa questi signori l'hanno fatta sopra di me. Non l'ho fatta io, estraneo ai patti di cui si parla».

Il boss dei boss, indicato come lo stragista più sanguinario di Cosa Nostra e come l'uomo che voleva fare la guerra per fare la pace, ribalta così il quadro. Forse anticipando una difesa da proporre negli eventuali nuovi processi determinati dalla possibile revisione, ma blocca ogni interpretazione: «Per me credo che non cambierà nulla anche con le nuove dichiarazioni di questo pentito, Spatuzza. Non sto facendo calcoli. Ma si deve almeno sapere che io la trattativa non l'ho coltivata». Sarà un modo per rovesciare la responsabilità sull'altro grande capo, Bernardo Provenzano? Riflette un po' Riina perché sa che molti dietro il suo arresto vedono proprio la mano di «don Binnu». «Mai detto e mai pensato», assicura a Cianferoni che trasferisce la convinzione. Aggiungendo l'ultima osservazione di Riina, pur esposta naturalmente a un basso tasso di credibilità: «Le dicerie su Provenzano sono false. Come la storia di Di Maggio. Trattativa, stragi e il mio arresto sono una faccenda molto più alta. Tocca i piani alti della politica. Bisogna capire che Borsellino è morto per mafia e appalti, non per i mafiosi». Politica? E qui riflette il legale di Riina che lo segue dal 1997, certo di interpretarne il pensiero: «Parla di politica intesa come "centri di interesse". E a quell'epoca erano tutti in fibrillazione. Insomma, per capire che cosa c'è dietro la morte di Borsellino bisogna risalire a Milano, non fermarsi a Palermo. E guardare al nesso fra Tangentopoli e le bombe della Sicilia. Quando volevano cambiare tutto».

Felice Cavallaro
19 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: Palermo, la marcia delle 'agende rosse'
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 05:03:47 pm
Palermo, la marcia delle 'agende rosse'



Al grido di «Resistenza. L'agenda rossa esiste» è partita da via D'Amelio la «marcia» voluta da Salvatore Borsellino, per commemorare il fratello Paolo, procuratore aggiunto ucciso il 19 luglio del 1992 assieme agli agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Nessun politico, pochi palermitani, tanta gente del Nord alla marcia che ha il sapore della protesta più che del ricordo.
Protesta contro lo Stato che «ha fatto - ha detto Salvatore Borsellino - davvero poco in 17 anni» per scoprire i mandanti di quella strage che avvenne a soli 57 giorni dall'uccisione dell'altro magistrato, Giovanni Falcone. Circa trecento persone si sono messe in marcia verso castello Utveggio (ex sede del Sisde, da cui, secondo i parenti di Borsellino, sarebbe forse partito il segnale per uccidere il magistrato) con le agende rosse in mano, che rappresentano quella del giudice che non fu mai ritrovata, e tenendo lo striscione «Via D'Amelio, strage di Stato».

Alla testa del corteo, oltre a Salvatore Borsellino, c'era anche l'ex pm Luigi De Magistris, esponente di Italia dei Valori.    «La lotta alla mafia procede per due vie diverse - ha detto Salvatore Borsellino -. Da un lato una parte delle forze dell'ordine e della magistratura che conduce una lotta serrata, dall'altro lato ci sono altre istituzioni, come la politica, che si contraddistinguono per una fortissima carenza di provvedimenti contro la mafia».

Le nuove indagini sulle stragi aprono adesso spiragli di speranza verso l'affermazione della verità. «Oggi finalmente, dopo anni di tenebre - ha proseguito Borsellino -, la lotta che si sta conducendo nelle procure di Palermo e Caltanissetta sta andando nel verso giusto».

La sorella, Rita, parlamentare europeo del Pd, si chiede però «perchè queste piste vengano fuori solo dopo 17 anni. Ho molti dubbi, ma non accuso nessuno». Per Salvatore Borsellino «Se pentiti come Giovanni Brusca e Massimo Ciancimino non avevano parlato fino adesso è perchè forse non avevano trovato le interfacce giuste all'interno della magistratura».

Proprio affinchè i pm continuino a lavorare «bisogna vigilare - ha detto De Magistris - perchè non vengano fermati da parte di pezzi deviati delle istituzioni che hanno operato e opereranno per ostacolare la magistratura».

18 luglio 2009
da unita.it


Titolo: FRANCESCO LA LICATA Il Padrino non parla mai a caso
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2009, 11:05:04 pm
21/7/2009
 
Il Padrino non parla mai a caso
 
 
FRANCESCO LA LICATA
 
Fedele al ruolo che la storia recente le attribuisce, Palermo sembra tornare alla vecchia vocazione di laboratorio che sperimenta trame e «prove d’arte» per sceneggiature poi puntualmente esportate nel panorama nazionale. È, questo, un timore fondato, se il Capo dello Stato ha avvertito la necessità di intervenire, documentando così la sua protettiva attenzione, in una vicenda scivolosa che coinvolge le recenti esternazioni di due soggetti molto «particolari», come Totò Riina e Massimo Ciancimino (figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito, è già stato condannato per riciclaggio e ora è teste in numerosi processi di mafia) che il Quirinale definisce «discutibili».

Che succede, dunque, a Palermo? Non è facile dare risposte ad una domanda che puntualmente si ripropone ogni volta che i miasmi del pozzo nero del potere mafioso restituiscono antichi interrogativi irrisolti e nuovi scenari incomprensibili. Ascoltando le parole del vecchio «padrino» di Cosa nostra torna alla memoria, giusto per fare un esempio concreto, un anonimo inviato nel 1992 ad un fitto elenco di autorità (Quirinale compreso). Era un documento di una lucidità impressionante che «spiegava» - col sistema più dell’ammiccamento che della prova limpida - la tragica fine del giudice Giovanni Falcone.

La inseriva al culmine di una asserita strategia politico-istituzionale tendente a guidare sostanzialmente il trapasso dalla prima alla seconda Repubblica. E non casualmente il testo, carico di fatti, misfatti e retroscena più o meno inconfessabili, si chiudeva con un elenco che proponeva - in sostanza - di scandagliare giudiziariamente in pratica tutte le realtà economiche e finanziarie siciliane e non solo, dagli Anni Sessanta ai Novanta.

Dopo quell’anonimo, rimasto tale malgrado acclarati contatti coi principali sospettati, fu ucciso anche Paolo Borsellino. Oggi dagli interventi dei «discutibili» Riina e Ciancimino apprendiamo che in mezzo alle due tragedie (siciliane ma nazionali) fu stilato un «papello», cioè un elenco di richieste avanzato da Cosa nostra allo Stato perché fosse alleggerita la posizione giudiziaria dei capi della «cupola». Ancora una scritto viscido, dunque, al centro di un dialogo innaturale fra «guardie e ladri».

Per lunghi anni quel «papello» è rimasto quasi una suggestione impalpabile. Ne parlavano i pentiti ma era un favoleggiare più che altro. Poi il figlio di Ciancimino ha trasformato la suggestione in una prova. Ha detto di essere in grado di esibire il famigerato pezzo di carta, custodito in una cassaforte all’estero.

Non si sa se e quando sia avvenuta la «consegna ufficiale», ma - a giudicare dalla reazione di Riina - sembra proprio che il «pezzo di carta» cominci a creare qualche irrequietezza.

Se Riina sente la necessità di affidare al suo avvocato il messaggio-ricatto alle Istituzioni («Borsellino l’hanno ammazzato loro») deve aver percepito che si è creata la necessità di mettere in moto un tipo di meccanismo simile a quello del ’92, che paralizzò il Paese mentre cambiava lo scenario politico. Allora le bombe, oggi la strategia mediatica dello sfascio istituzionale. E chi conosce il mondo criptico dell’esoterismo mafioso, assicura che il messaggio del «Padrino» è anche «stabilizzante» rispetto alla propria leadership («Tranquilli, il capo sono ancora io e posso interloquire con chiunque»). Resta un fatto: Riina ha «dovuto» parlare, anche a costo di dovere in qualche modo certificare l’esistenza (sempre negata) della mafia, spingendosi ad ammettere di essere stato non coprotagonista di una «trattativa», ma «oggetto».

L’altro fatto riguarda Ciancimino e la sua capacità dirompente, non si sa quanto gestibile dallo stesso «teste a tutto campo». Coinvolge politici in una «normale» storia di corruzione, ma poi caccia dal cilindro tre documenti inediti: tre lettere che la mafia avrebbe inviato al presidente del Consiglio in un periodo compreso tra il ’91 e il ’95.

A differenza del «papello», si ha prova dell’esistenza delle tre lettere, che si apprestano ad entrare nel processo d’appello contro il senatore Dell’Utri, con l’immancabile conseguenza di un coinvolgimento, almeno di immagine, del premier.

Un tiro mancino dalla Sicilia che, proprio in questo momento, comincia a far mancare a Berlusconi il tradizionale plebiscito, dirottando il consenso sul «Partito del Sud» che governa in Sicilia stravolgendo ogni rapporto di forza e di affari.
 
da lastampa.it


Titolo: I fratelli Graviano accostati in più inchieste a Dell'Utri
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2009, 11:39:04 am
I nuovi pentiti: contatti fino al '94, anno di nascita di Forza Italia

I fratelli Graviano accostati in più inchieste a Dell'Utri

Dalle carte delle stragi di mafia quella trattativa tra boss e politica


di ATTILIO BOLZONI


PALERMO - Le indagini sui morti eccellenti di Palermo cambiano rotta e destinazione. Tornano in scena i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i boss più "stragisti" della città. I mafiosi che in tante inchieste e agli atti di un processo vengono raccontati come molto vicini al senatore Marcello Dell'Utri.

Torna in scena una "trattativa" fra mafia e Stato che non si è interrotta con Capaci o con via D'Amelio, ma è proseguita fino al 1993 e anche nei primi mesi del 1994. Torna in scena la coincidenza temporale fra le stragi siciliane e la nascita di un nuovo partito: Forza Italia.

S'indaga su altri mafiosi. E s'indaga anche su quelli che chiamano i "mandanti altri", i mandanti che non sono di Cosa Nostra. Le ultime scoperte spostano l'epicentro investigativo: da una borgata palermitana all'altra, dalla Guadagna a Brancaccio. Sono appena un paio di chilometri sulle mappe di Palermo, sono un paio di chilometri che portano in un altro mondo di intrecci fra boss e uomini politici a ridosso delle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
Ci sono i fatti e poi ci sono le congetture, le ipotesi, le voci. Ci sono personaggi che sono già scivolati nelle nuove indagini e poi ci sono ombre che si allungano oltre i boss. C'è chi dice che un pentito abbia già fatto nomi, c'è chi dice di no, certo è che la "pista di Brancaccio" fa scorrere una nuova trama nella storia delle stragi siciliane del 1992.

Si scava - alla procura di Palermo e a quella di Caltanissetta - sul patto fra i Corleonesi di Totò Riina e apparati dello Stato (alcuni già identificati, altri in corso di identificazione), si scava sul coinvolgimento nelle stragi di uomini dei servizi segreti, si scava sulla "accelerazione" della decisione di uccidere Borsellino voluta a tutti i costi da qualcuno. Chi?
Sono due i testimoni che hanno svelato elementi inediti ai magistrati delle procure siciliane, a quella di Firenze e a quella di Milano. Uno è il pentito Gaspare Spatuzza, ex sicario e poi a capo della "famiglia" di Brancaccio. L'altro è Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito.

Il pentito Spatuzza si è autoaccusato della strage di via D'Amelio e ha praticamente sbugiardato Vincenzo Scarantino, l'uomo che 17 anni fa aveva confessato di aver portato in via D'Amelio l'autobomba. Ma Spatuzza non ha parlato solo della strage.
Spatuzza ha parlato tanto anche dei Graviano e dei loro "interessi" su a Milano, delle amicizie importanti che avevano in ambienti imprenditoriali. Dei Graviano e dei rapporti che avrebbero avuto con Dell'Utri riferiscono tanti altri pentiti, tutti passati al vaglio dei giudici di primo grado che nel dicembre del 2004 hanno condannato il fondatore di Forza Italia a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Il racconto di Spatuzza è stato "secretato". Poi, i procuratori siciliani si sono concentrati sulla "pista di Brancaccio" con annessi e connessi.

Il secondo testimone chiave è il figlio dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. La procura di Palermo ha già depositato agli atti del processo d'appello a Marcello Dell'Utri uno stralcio di un suo interrogatorio e tre lettere che negli anni a cavallo delle stragi - fra il 1991 e il 1994 - l'allora capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano avrebbe indirizzato a Silvio Berlusconi. Lettere che sarebbero state inviate alla vigilia e subito dopo la famosa "discesa in campo". Lettere dove si fanno velate minacce e si parla del "contributo politico" che avrebbe voluto portare lo stesso Provenzano.

Grandi mediatori di questa che sembrerebbe all'apparenza un'altra trattativa, secondo Massimo Ciancimino, sono stati suo padre Vito e Marcello Dell'Utri. Il 17 settembre la Corte di appello deciderà se acquisire agli atti del processo di secondo grado l'interrogatorio del figlio di don Vito e le tre lettere. Se la richiesta verrà accolta la sentenza subirà uno slittamento, altrimenti a metà o a fine ottobre sapremo se al senatore Marcello Dell'Utri sarà confermata o sarà annullata la condanna per mafia.
I sussurri si sono rincorsi per tutta l'estate su quei "mandanti altri". E anche sulla trattativa. Fino a qualche tempo fa si diceva che era cominciata prima di Capaci ed era finita prima di via D'Amelio. Poi si è scoperto che è andata avanti ancora per due anni. "Fino al 1994", riferisce il colonnello dei carabinieri Michele Riccio riportando le confidenze del suo informatore Luigi Ilardo, un boss vicino a Provenzano. Fino al 1994, fino a quando Berlusconi è diventato il leader di Forza Italia.

E' un'indagine che si ripete. Con tanti nuovi protagonisti. Ma non tutti. I nomi del premier e del suo braccio destro siciliano erano già entrati nelle indagini sulle stragi siciliane e poi anche in quelle in Continente, le bombe di Firenze e Roma e Milano del 1993. A Caltanissetta furono iscritti nel registro degli indagati come "Alfa" e "Beta" "per concorso nelle stragi", a Firenze come "Autore 1" e "Autore 2". Dalla prima inchiesta - ("Prove insufficienti, dichiarazioni di pentiti senza riscontro, elementi contrastanti") - uscirono nell'inverno del 2002, dalla seconda tre anni prima.

(9 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Mafia, Mancino dai pm: mai saputo di trattative
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2009, 11:51:43 am
Stragi ’92

Mafia, Mancino dai pm: mai saputo di trattative

No a Ciancimino nel processo Dell’Utri: parole confuse


ROMA — Era quasi una tap­pa obbligata, per le testimo­nianze raccolte in precedenza e per i due esposti che l’interessa­to ha presentato alle Procure di Caltanissetta e Palermo, che an­cora indagano sulle stragi ma­fiose del 1992 e sulla presunta trattativa tra Stato e Cosa No­stra in quella stagione.

Ieri Nico­la Mancino, ministro dell’Inter­no dell’epoca insediatosi tra l’eccidio che uccise Giovanni Falcone e quello che tolse di mezzo Paolo Borsellino, è stato ascoltato per circa tre ore dai procuratori di Caltanissetta La­ri e di Palermo Messineo, che insieme ai loro sostituti hanno verbalizzato ciò che l’attuale vi­ce- presidente del Consiglio su­periore della magistratura ripe­te da mesi: lui, al Viminale, non ha mai sentito parlare né di trat­tativa né di papello con richie­ste mafiose per far cessare le stragi; «e quando fu ipotizzato che questo potesse essere il di­segno deli boss, l’eventualità fu immediatamente scartata». Nell’interrogatorio, sollecita­to dallo stesso Mancino, s’è tor­nati a parlare dell’incontro con Borsellino segnato sull’agenda del giudice alla data del 1˚ lu­glio ’92, che il vicepresidente del Csm nega esserci stato: «Non l’ho visto, a meno che non sia stata una stretta di ma­no come le centinaia di altre di quel giorno, di cui non ho me­moria ». Nessun colloquio, quin­di, come nessuna notizia dei contatti tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino. E’ stato il figlio dell’ex sinda­co mafioso di Palermo, Massi­mo Ciancimino, a dire che suo padre aveva chiesto la «garan­zia istituzionale» del governo e dell’opposizione prima di allac­ciare contatti coi boss, facendo i nomi di Mancino e di Luciano Violante. Quest’ultimo ha con­fermato una proposta di incon­tro da parte di Ciancimino se­nior che lui rifiutò, mentre l’al­lora ministro dell’Interno riba­disce di non averne saputo nul­la. «Del resto - ha ribadito ai pm - con me al Viminale l’azio­ne di contrasto a Cosa Nostra s’è inasprita fin da subito».

Dunque Mancino smentisce che quanto riferito dal figlio di Ciancimino sia mai avvenuto, nello stesso giorno in cui altri magistrati hanno definito «con­fuse e contraddittorie» alcune dichiarazioni del figlio dell’ex sindaco: quelle sulla presunta lettera che Bernardo Provenza­no avrebbe fatto avere a Silvio Berlusconi tramite Marcello Dell’Utri, senatore del Popolo della libertà condannato in pri­mo grado a nove anni di carce­re per concorso in associazione mafiosa. Il processo d’appello è giunto alle battute finali, e sul filo di lana il pubblico ministe­ro ha proposto ai giudici la testi­monianza Ciancimino jr; per parlare del misterioso foglio di carta, trovato solo in parte a ca­sa sua, dove si citano l’attuale premier e un possibile «triste evento» ai suoi danni. Secondo Massimo Ciancimino, all’inizio degli anni Novanta Dell’Utri sa­rebbe stato l’intermediario di quel messaggio mafioso indiriz­zato a Berlusconi, che gli «uo­mini d’onore» consideravano un «irriconoscente che si stava scordando di certe situazioni e vantaggi avuti». I giudici della corte d’appel­lo, però, hanno detto di no alla sua deposizione. Perché riten­gono che quanto il giovane Ciancimino ha già spiegato nel­l’inchiesta palermitana fornisca un quadro «confuso e oltremo­do contraddittorio», inutile ri­spetto al processo contro il se­natore: «Non emergono condot­te e fatti riconducibili a Del­l’Utri che siano suscettibili di utile apprezzamento».

Scartata questa testimonian­za, la fase dibattimentale del processo Dell’Utri s’è chiusa, e sempre ieri il pubblico ministe­ro ha avviato la requisitoria. Suo malgrado, perché l’accusa avrebbe voluto sottoporre ai giudici anche il neo-pentito Ga­spare Spatuzza. Il quale nell’in­dagine fiorentina sulle bombe del ’93 ha riferito fatti e collo­qui coi fratelli Graviano (boss stragisti suoi diretti superiori in Cosa Nostra) che coinvolge­rebbero anche il senatore. Ma stavolta il no è arrivato proprio dagli inquirenti di Firenze. In una lunga e accesa riunio­ne mercoledì alla Direzione na­zionale antimafia il procuratore generale di Palermo Luigi Cro­ce ha chiesto il verbale di Spa­tuzza per portarlo al processo, e il capo della Procura fiorentina Giuseppe Quattrocchi glielo ha negato: le indagini in corso non consentono di renderlo pubblico in questa fase. Che pe­raltro, se convocato al dibatti­mento contro Dell’Utri, avrebbe dovuto rispondere alle doman­de degli avvocati, che certo avrebbero spaziato su tutte le sue recenti rivelazioni. Un dan­no troppo grande all’inchiesta, ha spiegato Quattrocchi. Inva­no il procuratore nazionale Grasso ha perorato la causa pa­lermitana: le dichiarazioni di Spatuzza su dell’Utri e dintorni restano coperte dal segreto, in attesa di nuovi sviluppi.

Giovanni Bianconi
18 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it


Titolo: La vedova Borsellino ai pm "Ecco tutti i sospetti di Paolo"
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2009, 10:42:43 am
La moglie del giudice ai pm. I dubbi del magistrato a 48 ore dalla morte

Un testimone rivela: "Aveva sospetti su un generale dei carabinieri"

La vedova Borsellino ai pm "Ecco tutti i sospetti di Paolo"

di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO


HA PARLATO come non aveva fatto mai, dopo diciassette anni. Per dire tutto. Il suo interrogatorio è cominciato così: "Avevo paura, non tanto per me ma avevo paura per i miei figli e poi per i miei nipoti. Adesso però so che è arrivato il momento di riferire anche i particolari più piccoli o apparentemente insignificanti". È la vedova che ricorda gli ultimi due giorni di vita di Paolo Borsellino. È la signora Agnese che spiega ai magistrati di Caltanissetta cosa accadde nelle 48 ore precedenti alla strage di via Mariano D'Amelio.

Il verbale di interrogatorio è di poco più di un mese fa, lei da una parte e i procuratori di Caltanissetta Sergio Lari e Domenico Gozzo dall'altra. Lei si è presentata spontaneamente per raccontare "quando Paolo tornò da Roma il 17 di luglio". Il 17 luglio 1992, due giorni prima dell'autobomba. Paolo Borsellino è a Roma per interrogare il boss Gaspare Mutolo, un mafioso della Piana dei Colli che aveva deciso di pentirsi dopo l'uccisione di Giovanni Falcone. È venerdì pomeriggio, Borsellino lascia il boss e gli dà appuntamento per il lunedì successivo.

Quando atterra a Palermo non passa dal Tribunale ma va subito da sua moglie. "Mi chiese di stare soli, mi pregò di andare a fare una passeggiata sulla spiaggia di Villagrazia di Carini", ricorda la signora Agnese. Per la prima volta in tanti anni il procuratore Borsellino non si fa scortare e si concede una lunga camminata abbracciando la moglie. Non parlava mai con lei del suo lavoro, ma quella volta Paolo Borsellino "aveva voglia di sfogarsi". Racconta ancora la signora Agnese: "Dopo qualche minuto di silenzio, Paolo mi ha detto: 'Sai Agnese, ho appena visto la mafia in faccia...'". Un paio d'ore prima aveva raccolto le confessioni di Gaspare Mutolo. Su magistrati collusi, su superpoliziotti che erano spie, su avvocati e ingegneri e medici e commercialisti che erano al servizio dei padrini di Corleone. Non dice altro Paolo Borsellino. Informa soltanto la moglie che lunedì tornerà a Roma, "per interrogare ancora Mutolo".

Il sabato passa tranquillamente, la domenica mattina - il 19 luglio, il giorno della strage - il telefono di casa Borsellino squilla. È sempre Agnese che ricorda: "Quel giorno, molto presto, mio marito ricevette una telefonata dell'allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco. Mi disse che lo "autorizzava" a proseguire gli interrogatori con il pentito Mutolo che, per organizzazione interna all'ufficio, dovevano essere gestiti invece dal procuratore aggiunto Vittorio Aliquò".
Lo sa bene Paolo Borsellino che sta per morire. E ai procuratori di Caltanissetta Agnese l'ha ribadito un'altra volta: "Paolo aveva appreso qualche giorno prima che Cosa Nostra voleva ucciderlo".

Un'informazione che arrivava da alcune intercettazioni ambientali "in un carcere dov'erano rinchiusi dei mafiosi". Una minaccia per lui e per altri due magistrati, Gioacchino Natoli e Francesco Lo Voi. Ricorda sempre la vedova: "Così un giorno Paolo chiamò i suoi due colleghi e disse loro di andare via da Palermo, di concedersi una vacanza.
Li consigliò anche di andare in giro armati, con una pistola". Gioacchino Natoli e Lo Voi gli danno ascolto, ma lui - Borsellino - rimane a Palermo. Sa che è condannato a morte. E ormai sa anche della "trattativa" che alcuni apparati dello Stato portano avanti con Riina e i suoi Corleonesi. Ufficiali dei carabinieri, quelli dei Ros, il colonnello Mario Mori - "l'anima" dei reparti speciali - e il fidato capitano Giuseppe De Donno. Probabilmente, questa è l'ipotesi dei procuratori di Caltanissetta e di Palermo, Paolo Borsellino muore proprio perché contrario a quella "trattativa".

Nella nuova inchiesta sulle stragi siciliane e sui patti e i ricatti con i Corleonesi, ogni giorno scivolano nuovi nomi. L'ultimo è quello del generale Antonino Subranni, al tempo comandante dei Ros e superiore diretto di Mori. Un testimone ha rivelato ai procuratori di Caltanissetta una battuta di Borsellino: "L'ha fatta a me personalmente qualche giorno prima di essere ammazzato. Mi ha detto: 'Il generale Subranni è punciutu" (cioè uomo di Cosa nostra ndr)...'".

Un'affermazione forte ma detta nello stile di Paolo Borsellino, come battuta appunto. Cosa avesse voluto veramente dire il procuratore, lo scopriranno i magistrati di Caltanissetta. La frase è stata comunque messa a verbale. E il verbale è stato secretato.
Il nome del generale Subranni è affiorato anche nelle ultime rivelazioni di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Nella sua intervista a Sandro Ruotolo per Annozero (però questa parte non è andata in onda ma è stata acquisita dalla procura di Caltanissetta), Massimo Ciancimino sosteneva: "Mio padre per la sua natura corleonese non si è mai fidato dei carabinieri. E quando il colonello Mori e il capitano De Donno cercano di instaurare questo tipo di trattativa, è chiaro che a mio padre viene il dubbio: ma come fanno questi due soggetti che di fatto non sono riusciti nemmeno a fare il mio di processo (quello sugli appalti ndr) a offrire garanzie concrete?...".

E conclude Ciancimino: "In un primo momento gli viene detto che c'è il loro referente capo, il generale Subranni...". È un'altra indagine nell'indagine sui misteri delle stragi siciliane.

© Riproduzione riservata (14 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Il collaboratore sul presunto «accordo politico» della mafia
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2009, 09:59:05 pm
Il collaboratore sul presunto «accordo politico» della mafia

«Io, i Graviano e i politici»

Il verbale del pentito Spatuzza

«Il boss non trattava con le mezze carte».

Le «deduzioni» su contatti con Dell’Utri e Berlusconi.


PALERMO — Il pentito Ga­spare Spatuzza non ha dubbi: quando fece l’accordo politi­co con chi doveva risolvere i problemi della mafia — Sil­vio Berlusconi e Marcello Del­l’Utri, a suo dire — il boss Giuseppe Graviano li contat­tò direttamente. «Ritengo di poter escludere categorica­mente — spiega l’ex uomo d’onore —, conoscendoli as­sai bene, che i Graviano si sia­no mossi nei confronti di Ber­lusconi e Dell’Utri attraverso altre persone. Non prendo in considerazione la possibilità che Graviano abbia stretto un patto politico con costoro senza averne personalmente parlato». Che avevano chiuso l’accor­do, ha raccontato Spatuzza, glielo spiegò lo stesso Giusep­pe Graviano, facendogli i no­mi dell’attuale capo del gover­no e del suo principale colla­boratore in Sicilia. Ma quan­do un pm gli chiede se Gravia­no potesse essere arrivato a quei due «attraverso un’altra persona, senza conoscere lo­ro », Spatuzza reagisce deciso: «No, no! Non esiste! Non trat­tano con le mezze carte. Han­no avuto sempre nella vita i contatti diretti». E parlando­gli di Dell’Utri come «un pae­sano », il capomafia intende­va «qualcosa di più di Berlu­sconi... Paesano lo posso con­siderare come una persona vi­cinissima a noi».

Nell’interrogatorio reso ai magistrati di Firenze che in­dagano sulle stragi mafiose del 1993, depositato ieri al processo d’appello contro il senatore del Pdl Marcello Del­l’Utri (condannato in primo grado a 9 anni di carcere per concorso in associazione ma­fiosa) il neo-pentito Spatuz­za, che deporrà in aula il 4 di­cembre, spiega che lui con i Graviano e gli altri boss parla­va «a mezze frasi», ma poi precisa: «Sono le abitudini di Cosa nostra, nella quale con le mezze frasi si fanno i palaz­zi ». E aggiunge la «deduzio­ne », come la definisce lui stes­so, maturata sulla base della sua «disgraziata esperienza», che Berlusconi e Dell’Utri, «in un un primo momento han­no fatto fare le stragi a Cosa nostra, e poi si volevano ac­creditare all’esterno come co­loro che erano stati in grado di farle cessare».

Accuse pesanti, entrate ora anche nell’indagine palermi­tana sulla presunta trattativa tra mafia e Stato nel cui ambi­to ieri è stato nuovamente in­terrogato Massimo Ciancimi­no, figlio dell’ex sindaco ma­fioso di Palermo. A Firenze in­vece, dov’è stata riaperta l’in­chiesta sulle bombe del ’93, Spatuzza è stato messo a con­fronto con i due fratelli Gra­viano, condannati all’ergasto­lo per l’omicidio di don padre Puglisi, il parroco del quartie­re palermitano Brancaccio, e per le stragi organizzate nel continente. Davanti al mag­giore, Giuseppe, il pentito s’è presentato con una lettera in cui lo invita a muovere il suo stesso passo. «Mi rendo con­to quanto sia difficile passare dalla parte dello Stato — scri­ve Spatuzza al suo ex capoma­fia — ma una volta fatto il pri­mo passo tutto diventa più bello... Si deve avere la capaci­tà di rompere questo schema terroristico mafioso che è pro­fondamente radicato nella no­stra cultura...». All’esortazio­ne Giuseppe Graviano ha ri­sposto con un secco: «Non ho niente da dire».

Ha parlato, invece, Filippo. Senza confessare nulla e anzi smentendo le accuse e i ricor­di di Spatuzza. Ma ripetendo sempre, come un ritornello: «Mi dispiace...». Quarantotto anni, laureando in Economia e commercio attraverso esa­mi sostenuti in carcere con ot­timi risultati, Filippo Gravia­no dice che lui dai politici non s’è mai aspettato nulla, né di aver mai confidato a Spatuzza che se i politici non avessero rispettato le promes­se fatte a Cosa nostra si pote­va cominciare a parlare coi magistrati. Ma ad ogni occa­sione il giovane Graviano ri­badisce al suo ex amico frater­no: «Mi dispiace dovermi tro­vare in contraddizione con te. Io non ho motivo di con­traddire quello che tu hai det­to ». Atteggiamento insolito per un mafioso davanti a un pentito, solitamente oggetto di contumelie e controaccuse di «infamità». Niente di tutto questo, anzi: «Ti auguro tutto il bene del mondo, non ho niente contro le tue scelte. So­no contento che tu abbia ri­trovato la pace interiore».

Nel faccia a faccia Spatuzza mostra a Graviano jr la famo­sa foto del bambino ebreo al cospetto dei nazisti. «Te l’ho fatta vedere nel 2000», gli ri­corda: «Rappresenta padre Puglisi, Giuseppe di Matteo (il figlio del pentito sciolto nell’acido, ndr )... tutte le vitti­me che abbiamo fatto». Filip­po Graviano nega: «Non ricor­do di averla mai vista». Ma ancora una volta, rivolto al pentito: «Non ho nulla con­tro di te, né contro la tua col­laborazione ».

Giovanni Bianconi

21 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Il pentito Spatuzza: anche Schifani incontrava Graviano...
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2009, 11:06:23 am
I verbali del processo Dell'Utri.

Il pentito Spatuzza: anche Schifani incontrava Graviano

Il presidente del Senato annuncia azioni legali.

Di Pietro: chiarisca la sua posizione

"La morte di Borsellino decisa prima di Capaci"


di ALESSANDRA ZINITI e FRANCESCO VIVIANO


PALERMO - C'è il nome del presidente del senato, Renato Schifani ma anche un inedito retroscena che rivela come la decisione di uccidere Paolo Borsellino fosse stata presa prima della strage di Capaci, nelle 2000 pagine di verbali giunti dalla Procura di Firenze e depositati al processo d'appello al senatore Marcello Dell'Utri per concorso esterno di associazione mafiosa. Pagine che riscaldano la vigilia dell'attesa deposizione del pentito Gaspare Spatuzza. E' sempre Spatuzza, dopo avere indicato Berlusconi e Dell'Utri come i "referenti" di Cosa nostra e possibili mandanti delle stragi del '93, a ricordare adesso anche di quell'avvocato che nei primi anni '90 avrebbe visto più volte incontrare il boss di Brancaccio Filippo Graviano nei capannoni di una azienda di cucine componibili, la Valtrans. Quell'avvocato, allora difensore dell'imprenditore, Pippo Cosenza, è l'attuale presidente del Senato, Renato Schifani. "Preciso che questa persona - dice Spatuzza - contattava sia Cosenza che Filippo Graviano in incontri congiunti. La cosa mi fu confermata da Filippo Graviano. Preciso che anch'io avendo in seguito visto Schifani sui giornali ed in televisione l'ho riconosciuto per la persona che all'epoca vedevo agli incontri di cui ho parlato".

Indignata la reazione di Schifani che nega decisamente: "Non ho mai avuto rapporti con Filippo Graviano e non l'ho mai assistito professionalmente. Questa è la verità. Sia chiaro: denuncerò in sede giudiziaria, con determinazione e fermezza, chiunque, come il signor Spatuzza, intende infangarmi. Sono indignato e addolorato". Dura la posizione di Antonio Di Pietro, presidente dell'Italia dei Valori: "Schifani non può semplicemente affermare che Spatuzza è un calunniatore ma deve spiegare nel merito se conosce o ha avuto incontri con Graviano. Senza spiegazioni convincenti - aggiunge - si creerebbe un gravissimo corto circuito istituzionale che imporrebbe le dimissioni di Schifani".

Ai pm di Firenze Spatuzza racconta anche un episodio che potrebbe fare rivisitare la genesi delle stragi dell'estate del '92. Il pentito spiega infatti che la cosca mafiosa di Brancaccio, di cui lui faceva parte, fu incaricata di procurare l'esplosivo per la strage di via D'Amelio già prima che fosse ucciso Giovanni Falcone. "Noi di Brancaccio - racconta il pentito - siamo attivi prima di Capaci, quando siamo andati a prelevare l'esplosivo a Porticello e stavamo rientrando a Palermo c'è stato un problema di posto di blocco dei carabinieri. Questo evento avviene prima di Capaci. Ora se noi di Brancaccio già siamo attivi per via D'Amelio, significa che era già tutto in programma". Spatuzza offre anche un movente specifico per l'eliminazione di Falcone e Borsellino. "I due magistrati sono stati sotterrati per una questione di carceri" dichiara Spatuzza riferendosi ad un colloquio con il suo capo, Filippo Graviano che avrebbe aggiunto: "Se rimanevano vivi quei due magistrati, altro che 41bis". E un altro pentito, sempre della cosca di Brancaccio, conferma le accuse rivolte da Spatuzza a Berlusconi e Marcello Dell'Utri. E' Giovanni Ciaramitaro: "Come politico dietro agli attentati del '93 mi indicavano sempre Berlusconi. Il politico era colui che aveva indicato anche i monumenti da colpire perché i fratelli Graviano, essendo palermitani, non li potevano conoscere".

© Riproduzione riservata (26 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIANCARLO DI CATALDO 'Ndrangheta, una bomba nel Palazzo
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2010, 04:59:55 pm
7/1/2010
 
'Ndrangheta, una bomba nel Palazzo
 
 
GIANCARLO DI CATALDO
 
E’ nota da tempo, agli addetti ai lavori, l’esistenza, nel nostro Paese, di un rapporto di proporzionalità diretta fra il «rumore» prodotto dalla criminalità organizzata e la repressione dello Stato. Il «rumore» allarma l’opinione pubblica; eccita pericolosamente la curiosità dei cronisti; soprattutto, scuote «chi di dovere». Quando Mafia, ’ndrangheta e Camorra fanno «rumore» non si può più sostenere che parlarne significhi denigrare le belle terre del Sud o delegittimare le forze dell’ordine o minimizzare i successi degli apparati repressivi. Ogni panetto di tritolo impiegato, ogni grammo di piombo speso, stanno lì a ricordarci due cose.
1) la criminalità organizzata, in Italia, non solo non è ancora stata debellata, ma è tuttora forte e armata.
2) C’è ancora molto da fare per sconfiggerla e, all’uopo, imporne l’avvenuta scomparsa per decreto non appare lo strumento più adeguato.

Da qui, la risposta, verrebbe da dire, «necessitata», dello Stato. Intendiamoci: non è che nei momenti di silenzio o di pax mafiosa i bravi poliziotti e i giudici intelligenti se ne stiano con le mani in mano. Tutt’altro. Ogni giorno si catturano latitanti, si sequestrano beni, si infliggono ferite, più o meno profonde, a questa o quella famiglia. Solo che, nei momenti di silenzio mafioso, accade che allarmi qualificati e dettagliati vengano, se non ignorati, sottovalutati; accade che le cosche «in sonno» vengano scambiate per cosche passate a miglior vita; accade che chi critica il trionfalismo ricorrente sia considerato un bastian contrario, un guastafeste, prefica o Cassandra portatrice di chissà quali interessi (non s’è mai spento il Leitmotiv dei «professionisti dell’Antimafia», notava, con la consueta lucidità, Saviano). Accade, insomma, che chi prosegue nella lotta resti isolato, a stento tollerato.

Accade, su un altro piano, che si diffonda un’ostilità generale contro le tecniche investigative più pregnanti, intercettazioni telefoniche in testa. Il tutto, di solito, accompagnato da campagne «culturali» improntate a un revisionismo di stampo minimalista: la criminalità organizzata non ha mai interferito con la Storia d’Italia; l’influenza elettorale delle cosche è minima; i «pentiti» alzano il tiro per lucrare benefici; si deve smettere di «sporcare» l’immagine del Paese con fiction che esaltano la presunta (e inesistente) invincibilità della mafia e via dicendo. Poi, un brutto giorno, il tritolo canta, e fa sentire la sua voce un allarmato coro di Marie Antoniette. D’improvviso ci si accorge che una parte cospicua dell’Italia è in mano al crimine organizzato, e si pianificano interventi «straordinari»: e questo è davvero singolare, perché «straordinario» è, per definizione, un evento che sfugge a ogni prevedibilità e prevenibilità. Straordinario è lo tsunami, il terremoto devastante, il virus sbarcato da Marte. Mentre, fra i mali d’Italia, non c’è niente di più endemico, stabile, storico delle mafie.

Ma tant’è. L’enfasi, si sa, genera sensazione di sicurezza, e la gente di quello ha bisogno. La ’ndrangheta, dunque, alza il tiro. E sa che al «rumore» seguirà una certa repressione. La ’ndrangheta è impazzita? Questa «società» abituata al silenzio è finita nelle mani di qualche «showman» innamorato della ribalta? Negli anni abbiamo imparato a padroneggiare i meccanismi di comunicazione della criminalità organizzata. Una bomba non viene mai fatta esplodere a caso. Essa costituisce un segnale preciso, rivolto tanto all’interno del mondo criminale che verso potenziali interlocutori esterni. Le mafie non agiscono per crudeltà innata o per follia, ma in base a lucidi calcoli improntati alla convenienza. C’è sempre un obiettivo concreto, dietro un attentato, e con una certa esperienza si potranno intuirne anche gli obiettivi mediati: nascosti, ma poi nemmeno tanto, dietro il «rumore».

La ’ndrangheta sa che seguirà la repressione, ed è disposta a pagarne il prezzo. La ’ndrangheta sa che l’ala militare sarà investita dalla repressione. Il problema, semmai, riguarda l’alta mafia. Vale a dire quelle connessioni, operative e strategiche, fra i padrini che dominano la strada e i loro eserciti in armi, e gli insospettabili investitori, i riciclatori di professione, i movimentatori di grandi capitali, i referenti politici, tutta la compagnia di giro che, nel corso di un secolo e mezzo di unità d’Italia, ha trasformato le originarie consorterie di pastori e campieri in coppola e lupara in una delle massime potenze economiche del mondo globalizzato: il «palazzo» della mafia, insomma, che vive e opera in tacito accordo e convinta simbiosi con i «picciotti» della strada. Quel «palazzo» che una parte dello Stato (qualche nome? Alongi, il prefetto Mori, Falcone e Borsellino) ha cercato, per tanti anni, tenacemente di scardinare, e che un’altra parte, altrettanto tenacemente, difende by any means.

Possiamo dunque immaginare che, fra gli obiettivi delle bombe di Reggio, accanto agli interessi contingenti di questa o di quella «famiglia», ci sia la necessità di raggiungere, attraverso il «rumore», le stanze di quel palazzo. Davanti a quelle porte, peraltro, le nostre informazioni si fermano. Non sappiamo esattamente chi comanda, e se gli antichi patti sono ancora in vigore. Solo il futuro potrà poi dirci se il «palazzo» sarà sordo o ricettivo. Se le bombe erano una richiesta d’aiuto, il «memo» di un patto infranto, ovvero la disperata reazione di una sanguinaria organizzazione ormai in via di disfacimento. Se padrini e capibastone hanno ancora amici, o si illudono soltanto di averne. Solo il futuro potrà dirci se gli illusi sono i padrini, o siamo noi.

da lastampa.it


Titolo: Moro, i servizi dissero alla mafia: non intervenite...
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2010, 05:17:53 pm
Gli interrogatori del figlio di don Vito, desecretati 23 verbali: è questa la ragione per cui il nascondiglio non fu perquisito

Ciancimino jr: "Nel covo di Riina carte da far crollare l'Italia"

"Moro, i servizi dissero alla mafia: non intervenite.

Ustica, fu un aereo francese"


di ATTILIO BOLZONI e FRANCO VIVIANO

PALERMO - Il covo di Totò Riina non l'hanno mai perquisito "per non far trovare carte che avrebbero fatto crollare l'Italia".
E la cattura del capo dei capi è stata voluta da Bernardo Provenzano dentro quella trattativa che, fra le uccisioni di Falcone e di Borsellino, la mafia portò avanti con servizi segreti e ufficiali dei reparti speciali dei carabinieri.

É la "cantata" di Massimo Ciancimino, quinto e ultimo figlio dell'ex sindaco di Palermo, sui misteri siciliani. Ventitré verbali desecretati - milleduecento pagine - e depositati al processo contro il generale Mario Mori, accusato di avere favorito la lunga latitanza di Provenzano dopo quell'arresto "concordato".

Ma se sulla cattura di Totò Riina esistono già atti ufficiali d'indagine che smontano la versione dei carabinieri, le altre rivelazioni del rampollo di don Vito svelano tanto altro di Palermo. Dalla fine degli anni '70 sino all'estate del '92. É la sua verità, ereditata per bocca del padre. La storia di alcuni delitti eccellenti, il sequestro di Aldo Moro, la strage di Ustica, i rapporti di Vito Ciancimino con l'Alto Commissario antimafia Emanuele De Francesco e il suo successore Domenico Sica. É l'impasto fra Stato e mafia che ha governato per vent'anni la Sicilia.

Il covo del capo dei capi.
Massimo Ciancimino conferma il patto fra Bernardo Provenzano e i carabinieri del Ros, mediato da don Vito, per la cattura di Riina: "Una delle garanzie che mio padre chiese ai carabinieri, e che loro diedero a mio padre, era che nel momento in cui si arrestava Riina bisognava mettere al sicuro un patrimonio di documentazione che il boss custodiva nella sua villa". E ha aggiunto: "Provenzano riferì a mio padre che Totò Riina conservava carte e documenti di proposito con un obiettivo: se l'avessero arrestato avrebbero trovato tante di quelle cose, di quelle carte, che avrebbero fatto crollare l'Italia. Mio padre commentò con me il fatto dicendo che quello era un atteggiamento tipico di Riina. Secondo lui, conoscendo bene molti di questi documenti, sarebbero stati conservati apposta dal Riina con il solo fine di rovinare tante persone in caso di un suo arresto, visto che solo una spiata poteva far finire la sua latitanza".

La trattativa fra le stragi del 1992.
Il negoziato con Cosa Nostra iniziò dopo l'uccisione di Falcone. Da una parte Totò Riina. Dall'altra il vice comandante dei Ros Mario Mori, il capitano Giuseppe De Donno e "il signor Franco", un agente dei servizi segreti legato all'Alto commissariato antimafia. E in mezzo Vito Ciancimino. Se in un primo momento Totò Riina è stato un terminale della trattativa per fermare le bombe, dopo la strage Borsellino "è diventato l'obiettivo della trattativa". Racconta ancora il figlio dell'ex sindaco: "Della trattativa erano informati i ministri Virginio Rognoni e Nicola Mancino, questo a mio padre l'ha detto il signor Franco e gliel'hanno confermato il colonnello Mori e il capitano De Donno".

La trattativa dopo le stragi.
Nel 1993, un anno dopo Capaci e via D'Amelio, la trattativa mafiosa è andata avanti. E al posto di Vito Ciancimino ormai in carcere, sarebbe stato Marcello Dell'Utri a sostituirlo nel ruolo di mediatore: "Mio padre sosteneva che era l'unico a poter gestire una situazione simile... ha gestito soldi che appartenevano a Stefano Bontate e a persone a lui legate".
L'omicidio Mattarella. Il Presidente della Regione siciliana, ucciso il 6 gennaio del 1980, per Vito Ciancimino fu "un omicidio anomalo". Spiega suo figlio: "Dopo il delitto, mio padre chiese spiegazioni ai servizi segreti... un poliziotto poi gli disse che c'era la mano dei servizi nella morte di Mattarella. Ci fu uno scambio di favori su quell'omicidio.. ".

Il sequestro Moro.
Il figlio di don Vito dice che suo padre è sempre stato legato all'intelligence fin dal sequestro di Moro. "La prima volta che mio padre mi ha raccontato di contatti di Cosa Nostra con apparati dello Stato risale al sequestro. E mi ha detto che era stato pregato, e per ben due volte, di non dare seguito alle richieste per fare pressioni su Provenzano perché si attivasse per aiutare lo Stato nelle ricerche del rifugio di Aldo Moro".

Don Vito e Gladio.
"Mio padre faceva parte di Gladio", ha rivelato Massimo. E ha spiegato: "Mi disse che all'origine c'era mio nonno Giovanni che, all'epoca dello sbarco degli Alleati in Sicilia, era stato assoldato come interprete". Il figlio di don Vito ricorda poi che il padre aveva costituito le prime società di import export "insieme a un colonnello americano" e che ha partecipato "a diversi incontri" organizzati dalla struttura militare segreta.

L'uccisione del prefetto dalla Chiesa.
É la parte più "omissata" dei verbali di Ciancimino. Suo padre gli aveva parlato dell'uccisione di Carlo Alberto dalla Chiesa e dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli "che sono legate", poi il verbale è ancora tutto coperto dal segreto.

La strage di Ustica.
Nei racconti del figlio dell'ex sindaco c'è il ricordo dell'aereo precipitato in mare il 27 giugno del 1980: "Quella notte mio padre fu chiamato dal ministro della Difesa Attilio Ruffini che gli disse che era successo un casino: fece chiamare anche l'onorevole Lima. Si seppe subito che era stato un aereo francese che aveva abbattuto per sbaglio il Dc 9, ma bisognava attivare un'operazione di copertura perché questa informazione non venisse fuori".

Gli autisti senatori.
Massimo Ciancimino, ricordando di un "pizzino" inviato da Provenzano a suo padre dove si faceva riferimento "a un amico senatore e al nuovo Presidente per l'amnistia", ha confermato che i due erano Marcello Dell'Utri e Totò Cuffaro. Poi ha spiegato dove ha conosciuto l'ex governatore: "L'ho incontrato nel 2001 a una festa dell'ex ministro Aristide Gunnella, credevo di non averlo mai visto prima.
Si è presentato e mi ha baciato. Poi, l'ho raccontato a mio padre che mi ha detto: 'Ma come, non te lo ricordi, che faceva l'autista al ministro Mannino? Anche lui aspettava in macchina, fuori, come te che accompagnavi me ... Poi ho collegato... perché quando accompagnavo mio padre dall'onorevole Lima fuori dalla macchina aspettava pure, con me, Cuffaro e anche Renato Schifani che faceva l'autista al senatore La Loggia.

Diciamo, che i tre autisti eravamo questi... andavamo a prendere cose al bar per passare tempo.. Ovviamente, loro due, Cuffaro e Schifani, hanno fatto altre carriere: c'è chi è più fortunato nella vita e chi meno... ma tutti e tre una volta eravamo autisti".
 
© Riproduzione riservata (13 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: Provenzano garantito da accordo. Mio padre investì soldi con i boss in Milano 2
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2010, 09:32:50 pm
Il figlio dell'ex sindaco di Palermo ha testimoniato al processo Mori nell'aula bunker dell'Ucciardone

La ricostruzione dei rapporti con il boss latitante: "Godeva di immununità territoriale"

Torna il misterioso "signor Franco" che faceva da tramite: "Non era siciliano"

di SALVO PALAZZOLO

Ciancimino: "Provenzano garantito da accordo" "Mio padre investì soldi con i boss in Milano 2"


PALERMO - Parla del padre Vito, potente sindaco di Palermo, e dell'amico complice di sempre, Bernardo Provenzano. Parla soprattutto degli affari di Cosa nostra, che avrebbe investito molti capitali a "Milano 2", la grande operazione immobiliare da cui presero il via le fortune di Silvio Berlusconi. Al processo Mori, nell'aula bunker del carcere palermitano dell'Ucciardone, Massimo Ciancimino racconta le trame del padre: "Con Provenzano si vedeva spesso  -  dice - anche a Roma, fra il 1999 e il 2002. Con altri mafiosi che avevano una grande capacità imprenditoriale faceva investimenti. Con i fratelli Buscemi e con Franco Bonura vennero investiti soldi anche in una grande realizzazione alla periferia di Milano che è stata poi chiamata Milano 2".

"Me lo ricordo da bambino  -  dice Massimo Ciancimino  -  Bernardo Provenzano, che io conoscevo come il signor Lo Verde, veniva a trovarci spesso nella nostra casa di villeggiatura di Baida, alle porte di Palermo. Solo molto tempo dopo, a fine anni Ottanta, vidi per caso l'identikit di un capomafia sulla rivista Epoca, mentre ero Dal barbiere con mio padre. Era Provenzano, riconobbi l'uomo che veniva a casa mia. Chiesi a mio padre di quell'uomo. Mi rispose: stai attento al signor Lo Verde, da questa situazione non può salvarti nessuno".

"Il signor Lo Verde  -  spiega il testimone  -  continuò a venirci a trovare anche quando mio padre era agli arresti domiciliari, nell'appartamento di via San Sebastianello, vicino a piazza di Spagna, a Roma. Dal 1999 al 2002. Mi incuriosiva quella situazione. Dissi a mio padre: ma non sono pericolosi questi incontri? Lui mi rispose senza tentennamenti. Disse che Provenzano poteva girare tranquillamente per Roma o in qualsiasi altra città, perché godeva di una sorta di immunità territoriale, basata su un accordo che anche mio padre aveva contribuito a stabilire. Un accordo che sarebbe stato stipulato fra il maggio 1992 e il dicembre dello stesso anno".


Ciancimino risponde alle domande dei pubblici ministeri Nino Di Matteo e Antonio Ingroia. Nella prima parte della sua deposizione, iniziata alle 10, ha rievocato l'attività politico-mafiosa del padre. "Aveva creato un vero e proprio sistema  -  spiega  -  suo compito era quello di spartire le tangenti dei grandi lavori pubblici di Palermo fra i politici e fra Cosa nostra, sempre tramite Provenzano". Per i contatti più delicati, Vito Ciancimino utilizzava una linea telefonica riservata, installata nella sua casa di Palermo. "Spesso  -  aggiunge il teste  -  ero incaricato di consegnare buste chiuse a Provenzano".

"Il rapporto fra mio padre e Provenzano era nato a Corleone  -  racconta Ciancimino junior - Abitavano nello stesso stabile: di tanto in tanto, mio padre dava lezione di matematica al giovane Bernardo. Molti anni dopo, si stupiva che lo chiamassero il ragioniere. In matematica non era stato mai bravo".

Ad ascoltare Massimo Ciancimino c'è l'imputato principale di questo dibattimento, il generale Mario Mori, seduto accanto ai suoi legali, gli avvocati Piero Milio ed Enzo Musco. Sugli spalti del pubblico sono presenti numerosi studenti. 

La deposizione davanti alla quarta sezione del tribunale si preannuncia lunga. Nei 23 verbali d'interrogatorio di Massimo Ciancimino già depositati dalla Procura in vista dell'udienza di oggi si parla della trattativa che sarebbe avvenuta fra Cosa nostra e l'entourage del generale Mori, nel 1992, durante la stagione delle stragi Falcone e Borsellino. L'accordo avrebbe previsto la cessazione della strategia stragista, in cambio di alcuni benefici per i boss: a mediare il misterioso dialogo  sarebbe stato il padre di Massimo, Vito Ciancimino. Secondo la Procura di Palermo, in quei giorni sarebbe nato un vero e proprio patto fra il vertice mafioso e una parte delle istituzioni: ecco perché, secondo i pm, Provenzano avrebbe proseguito indisturbato la sua latitanza (fino all'11 aprile 2006).

Il figlio di Vito Ciancimino continua a rispondere senza tentennamenti alle domande dei pubblici ministeri. Ritorna sugli affari del padre: "Dopo le inchieste e le denunce della commissione antimafia e il caso della sua querela al capo della polizia, mio padre decise di spostare i suoi investimenti lontano da Palermo". Correvano gli anni Settanta. Massimo Ciancimino spiega: "Alcuni suoi amici di allora,  Ciarrapico e Caltagirone, ma anche altri costruttori romani gli dissero di investire in Canada dove erano in preparazione le Olimpiadi di Montreal. C'erano dei mutui agevolati per gli investitori stranieri". Con i boss Salvatore e Antonino Bonura, con il costruttore mafioso Franco Bonura sarebbe nato in seguito un altro investimento: "Una grande realizzazione alla periferia di Milano che è stata poi chiamata Milano 2", dice Ciancimino junior.

Un altro capitolo della deposizione nell'aula bunker è quello dei rapporti fra l'ex sindaco di Palermo, Bernardo Provenzano e i servizi segreti.  Massimo Ciancimino dice che il tramite sarebbe stato un "uomo che vestiva sempre in modo molto elegante, non siciliano". Lui lo conosceva solo come il nome: "signor Franco o Carlo". "Era legato all'ambiente dei servizi", spiega il testimone. "Lo contattavo tramite due numeri conservati nella Sim del mio telefonino. Avevo un'utenza fissa, con prefisso 06 Roma e un'utenza cellulare". Il signor Franco torna nel racconto di Ciancimino già dagli anni Settanta. "Lo rividi il giorno dei funerali di mio padre  -  spiega  -  venne al cimitero dei Cappuccini di Palermo per portarmi un biglietto di condoglianze del signor Lo Verde. Disse che se n'era andato un grande uomo".

Vito Ciancimino avrebbe incontrato spesso il signor Franco:  "Lui, mio padre e il signor Lo Verde avevano le chiavi di un appartamento, nella zona di via del Tritone, a Roma". All'ex sindaco di Palermo sarebbero stati chiesti dai Servizi diversi "interventi": anche in occasione del disastro di Ustica ("Per non fare diffondere certe notizie", dice Ciancimino junior) e del sequestro Moro ("Per trovare il covo").


© Riproduzione riservata (01 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: Pietro Grasso. La mafia come braccio armato per favorire altri centri di potere
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2010, 10:57:22 am
INCHIESTA ITALIANA

"La mafia come braccio armato per favorire altri centri di potere"

Parla il procuratore Pietro Grasso.

Falcone aveva confidato agli amici: 'Forse devo la vita a questo ragazzo'. Era l'agente Nino Agostino


Signor procuratore, le ultime indagini ci dicono che non è stata solo Cosa Nostra a volere morti Falcone e Borsellino. Ci sono sospetti che portano ad apparati dello Stato, tracce sempre più evidenti...
"Falcone era certamente il nemico numero uno di Cosa Nostra ma era inviso pure a tanti centri di potere anche istituzionali, contrari ai suoi progetti, progetti soprattutto di riforma. E quindi era un personaggio inviso all'organizzazione mafiosa ma anche al potere in senso lato".

Giovanni Falcone è stato ucciso il 23 maggio del 1992 ma ha cominciato a morire sugli scogli dell'Addaura, tre anni prima. Come si sono svolti i fatti? È vero che c'era un pezzo di Stato che voleva Falcone morto e un altro pezzo che l'ha salvato?
"Sin dall'inizio, nell'immediatezza del fatto, Falcone ha spontaneamente dato una sua versione di quanto gli era accaduto. Aveva parlato di personaggi che non erano certo il prototipo di Cosa Nostra, delle menti particolari che avevano architettato il tutto. Dietro questa intuizione iniziale di Giovanni si sono ricostruite nel tempo tutta una serie di circostanze, anche rivisitando la dinamica e il luogo del delitto, e non è detto che tutto sia come è sembrato nella fase iniziale delle indagini. Per esempio, un'altra ipotesi potrebbe essere che il pericolo, e quindi la collocazione dell'ordigno esplosivo, anziché venire dal mare come si è prospettato, venisse da terra".

È vero che quel giorno all'Addaura due poliziotti, Nino Agostino ed Emanuele Piazza, hanno salvato la vita a Falcone?
"Io questo non sono in grado di dire se è vero oppure no. Siamo nel campo delle ipotesi che vanno verificate e riscontrate. Però non c'è dubbio che Falcone si recò ai funerali del poliziotto Agostino e non c'è dubbio che è girata per anni la voce che lui stesso avrebbe detto, mormorando a qualcuno che gli era vicino: "Questo ragazzo forse mi ha salvato la vita"".

Nelle indagini sulle uccisioni di Agostino e di Piazza ci sono stati depistaggi, omissioni, "rallentamenti": perché quelle inchieste, per entrambi i delitti, si sono subito indirizzate verso una "pista passionale"?
"Questa delle piste passionali e delle fughe con improbabili amanti è qualcosa a cui la delegittimazione costante di Cosa Nostra, e anche di altre entità, ci ha abituato per tanto tempo. Poi, scavando, si trovano delle cose assolutamente diverse, che nulla hanno a che fare con le piste passionali".

Si arriverà mai a una verità sulle stragi siciliane? Sicuramente c'è un mandante mafioso, Totò Riina. Ma chi sono gli altri?
"Nelle stragi, in tanti omicidi perpetrati da Cosa Nostra, si ha la caratteristica ricorrente che non tutto si riesce a ricostruire nei minimi particolari. Mandanti, mandanti esterni, mandanti interni all'organizzazione, moventi, moventi complessi, moventi convergenti: non sempre si è riusciti a ricostruire la verità in maniera integrale di tanti fatti e di tante stragi. Io alludo principalmente agli omicidi cosiddetti politici, laddove non si intravede un interesse principale di Cosa Nostra per fare, così come è provato che abbia fatto, certi omicidi. Alludo al presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, al segretario del Pci regionale Pio La Torre, al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ebbene, in questi delitti, sembra quasi che l'organizzazione mafiosa sia come un braccio armato che interpreta e si rende partecipe di interessi e di favori che trascendono quella che è la propria finalità "istituzionale". E quindi noi abbiamo il dovere, morale innanzitutto, e professionale e giuridico, di cercare sempre e soltanto con tutte le nostre forze, con tutto il nostro impegno, la verità".

(a. b.)

(07 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/05/07/news/inchiesta_italiana_grasso-3876392/


Titolo: Grasso: «Le stragi mafiose del ’93 fatte per favorire entità esterna»
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2010, 06:08:16 pm
Grasso: «Le stragi mafiose del ’93 fatte per favorire entità esterna»

di Nicola Biondo


«Le stragi mafiose del ’93 erano tese a causare disordine per dare la possibilità ad una entità esterna di proporsi come soluzione». Lo ha affermato Pietro Grasso, alla commemorazione della strage dei Georgofili avvenuta 17 anni fa. Se non è un avviso di garanzia al partito del premier poco ci manca. A Firenze in occasione della commemorazione delle 5 vittime della strage avvenuta tra il 26 e 27 maggio 1993, il Procuratore nazionale Piero Grasso, che nelle stesse ore veniva confermato dal Csm al vertice della DNA, si è prodotto in una chiamata di correità per un’intera classe politica.

«Le stragi del ’93 a Firenze e Milano, gli attentati alle chiese a Roma – ha detto Grasso - avrebbero dato la possibilità a una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale, che veniva dalle macerie di Tangentopoli».

Mentre le indagini ridisegnano una connection eversiva di larga scala per quanto riguarda le stragi del ’92 e il mancato eccidio dell’Addaura contro Giovanni Falcone, il procuratore Grasso, che già domenica scorsa si era rivolto polemicamente al governo criticando il ddl intercettazioni, ieri ha coinvolto gli equilibri dell’intera seconda Repubblica. «Certamente Cosa Nostra - ha ribadito - attraverso questo programma di azioni criminali, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste». Dietro le stragi - secondo Grasso - c’era anche un progetto indipendentista. Nelle stesse ore il capo della Procura nissena Sergio Lari, titolare delle inchieste più scottanti, è stato sentito dal Copasir. Un incontro causato dalle fughe di notizie circa il coinvolgimento nelle stragi di esponenti dei servizi segreti. Lari si è così trovato nella non facile veste di chi, da una parte deve preservare il segreto investigativo, e dall’altro è costretto a riferire al Parlamento delle indagini in corso sugli 007. Con il rischio che si dia il via ad altre polemiche e fughe di notizie.

La caccia ai mandanti esterni delle stragi è un file investigativo che gli inquirenti non hanno mai abbandonato. Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono stati indagati e prosciolti per questa accusa ma le sentenze - una di Firenze l’altra di Caltanissetta - non hanno però dissipato le ombre . «Berlusconi e Dell’Utri - scrivevano i giudici fiorentini - hanno intrattenuto rapporti non meramente episodici con soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato». Le parole di Grasso riaprono un caso politico e giudiziario che potrebbe trovare conferma a breve. Il prossimo 11 giugno si conoscerà il verdetto di Appello per Marcello Dell’Utri condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno. L’inchiesta di Firenze sui mandanti esterni delle stragi del ’93 è stata riaperta. Poi c’è l’inchiesta palermitana sulla trattativa. Anche a questo ha fatto riferimento Grasso secondo il quale «certamente Cosa Nostra, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste».

Intanto si registra ancora una fumata nera per la definitiva concessione a Gaspare Spatuzza del programma di protezione. La commissione presieduta da Alfredo Mantovano ha richiesto nuovi atti alle procure che raccolgono le dichiarazioni del pentito. Un atteggiamento ritenuto dagli investigatori incomprensibile. Spatuzza ha riscritto le fasi preparatorie della strage di Via D’Amelio, mandando al macero le precedenti dichiarazioni di un falso pentito addestrato - dicono le nuove indagini - da un gruppo di poliziotti. Chi ha ordinato questo depistaggio e perché?

Ma Spatuzza ha anche parlato dei contatti che sarebbero avvenuti tra la nascente Forza Italia e la famiglia mafiosa dei Graviano all’alba della seconda repubblica: «La persona grazie alla quale avevamo ottenuto tutto era Berlusconi e c’era di mezzo un nostro compaesano - mi dissero i Graviano - e abbiamo ottenuto quello che volevamo, abbiamo il paese in mano».

27 maggio 2010
http://www.unita.it/news/italia/99215/grasso_le_stragi_mafiose_del_fatte_per_favorire_entit_esterna


Titolo: Vigna: "In quelle stragi lo zampino dei Servizi"
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2010, 05:38:09 pm
30/5/2010 (7:33)  - LUGLIO '93, LE ISTITUZIONI NEL MIRINO

Vigna: "In quelle stragi lo zampino dei Servizi"

Pier Luigi Vigna, procuratore a Firenze quando esplose il Fiorino
   
L'ex capo della Dna: «Una certezza, Cosa nostra non si è mossa da sola»

FRANCESCO LA LICATA
GUIDO RUOTOLO
ROMA


«Non fu solo Cosa Nostra a gestire la campagna stragista del ’92 e ’93. Penso che pezzi deviati dei Servizi segreti siano stati gli ispiratori, e qualcosa anche di più, delle bombe di Firenze, Roma e Milano».

Parla Pier Luigi Vigna, procuratore a Firenze quando esplose il Fiorino in via dei Georgofili, procuratore nazionale antimafia in tutti gli anni nei quali l’amico fraterno Gabriele Chelazzi indagava (da pm) sui mandanti esterni alle stragi. La tesi di Vigna porta nei fatti a Massimo Ciancimino che parla della presenza e del ruolo di pezzi dei servizi, «il signor Franco». Vigna esprime perplessità sul riconoscimento da parte di Gaspare Spatuzza del collaboratore del «signor Franco» sulla scena della strage di via D’Amelio: «Un generale che imbottisce di esplosivo un’auto? A distanza di tanti anni i riconoscimenti sono difficilissimi».

Procuratore Vigna, il presidente emerito della Repubblica Ciampi ricorda che la notte del 27 luglio 1993, con le bombe di Roma e Milano e il black-out di Palazzo Chigi, temette un golpe cileno.
«Perché nelle stragi furono coinvolti anche non mafiosi? Delinquenti non affiliati a Cosa Nostra, come il magazziniere romano dei 300 chili di esplosivo che servivano per gli attentati, come lo stesso Scarano, il postino del comunicato di rivendicazione delle stragi. Noi procedemmo subito contestando ai mafiosi di Cosa Nostra l’aggravante di aver agito con finalità di terrorismo o di eversione. Cosa Nostra con questo agire voleva condizionare lo Stato, voleva che fossero cancellate una serie di leggi».

Il famoso papello di richieste: eliminazione del 41 bis, della legge La Torre...
«I detenuti con l’eliminazione del 41 bis avrebbero tratto vantaggi; la neutralizzazione dei pentiti avrebbe consentito la revisione dei processi; la cancellazione della legge sulle misure di prevenzione sarebbe stato un regalo a tutto il popolo dei mafiosi, detenuti e non».

Le stragi di Firenze, Roma e Milano furono solo farina del sacco di Cosa Nostra?
«Da quello che mi risulta, solo in due occasioni Cosa Nostra è emigrata sul continente per realizzare delle stragi. La prima volta fu il 23 dicembre del 1984, quando nella stessa galleria dove si era verificata la strage dell’Italicus fu fatto scoppiare il treno Napoli-Milano: 15 morti e 130 feriti. Fu condannato, tra gli altri, Pippo Calò, e in primo grado anche l’onorevole del Msi Massimo Abbatangelo e il gruppo camorristico di Giuseppe Misso. Ma poi la filiera napoletana, che portava alla destra, fu assolta in Cassazione. Una uscita di scena singolare perché i giudici della Cassazione confermarono la condanna a quattro anni e passa per favoreggiamento di un poliziotto napoletano che pochi giorni prima della strage rivelò a un magistrato: “Ci faranno intossica’... Natale...”».

Perché quella strage?
«Si voleva rappresentare al Paese, nell’anno di Buscetta e del maxi blitz contro Cosa Nostra, che il problema per il Paese era solo l’eversione».

Dieci anni dopo, le bombe a Roma, Firenze e Milano. Per favorire la nuova forza politica che stava nascendo?
«La primissima indicazione che venne dal Viminale è che si doveva guardare alla criminalità internazionale. Noi seguimmo subito la pista interna anche perché analizzando la tipologia della miscela degli esplosivi emerse che era identica a quella della strage del 1984. Ricordo che nella prima informativa della Dia, la Divisione investigativa antimafia, si parlava non solo di Cosa Nostra ma anche di imprenditori disonesti, di massoneria, di soggetti deviati dei servizi segreti. Mi chiedo se davvero Cosa Nostra pensasse che proseguendo nella stagione stragista avrebbe ottenuto quanto chiedeva. A distanza di tanti anni continuo a non credere che quello che è accaduto fuori dalla Sicilia sia frutto di una pensata di Cosa Nostra».

Chi fu il suggeritore?
«Uccidere Chinnici, Falcone o Borsellino perché nemici è nella natura di Cosa Nostra. Non è stata solo la mafia a devastare il territorio colpendolo al cuore, pensando di poter distruggere un simbolo del Paese come la Torre di Pisa, o di infettare le spiagge di Rimini con siringhe. Senza qualche aggancio esterno, Cosa Nostra non si sarebbe mossa, non avrebbe traslocato a Roma, Firenze e Milano...».

Aggancio esterno, o entità? Parliamo di politica? Di 007 deviati?
«Una certezza: Cosa Nostra non si è mossa da sola. Se guardo ai risultati di questa offensiva, devo constatare che sul piano politico vi è stata una tenuta delle istituzioni. Nessuna richiesta avanzata dalla mafia è stata esaudita. Il 41 bis e le misure di prevenzione oggi sono provvedimenti molto più rigidi di prima. Allora dobbiamo guardare ai “deviati”. Quello è un periodo di “deviazione”. Il 1993 è anche l’anno dello scandalo dei fondi neri del Sisde, del tentato golpe di Saxa Rubra, dell’esplosivo sul rapido Siracusa-Torino piazzato da un funzionario dei Servizi di Genova, di un ordigno inerte in via dei Sabini a Roma, del black-out a Palazzo Chigi di cui parla il presidente Ciampi. Insomma, c’erano pezzi dei Servizi che ragionavano ancora come se il Muro di Berlino non fosse crollato. Mani Pulite aveva demolito la Prima Repubblica e qualcuno aveva interesse che le richieste di Cosa Nostra fossero accolte per dare peso a una organizzazione mafiosa che iniziava a globalizzarsi. Che era ricca, economicamente forte. In grado di consentire relazioni anche internazionali...».

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/201005articoli/55487girata.asp


Titolo: Depistaggi sul caso Borsellino spunta il nome di La Barbera
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 10:36:23 pm
IL RETROSCENA

Depistaggi sul caso Borsellino spunta il nome di La Barbera

La procura di Caltanissetta indaga a partire dalle dichiarazioni di Spatuzza.

Il superpoliziotto morì nel 2002. Interrogati tre suoi ex collaboratori

di ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO VIVIANO


NEI MISTERI delle stragi è arrivata l'ora delle inchieste sulle inchieste: quelle sui depistaggi di Stato. E nel giorno della commissione parlamentare antimafia che rilancia su quel "groviglio fra Cosa Nostra, politica, grandi affari, gruppi eversivi e apparati deviati", in Sicilia si apre il capitolo su chi coprì i veri assassini di Paolo Borsellino.
Escono i primi nomi, il più eccellente è quello dell'ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. A quasi vent'anni dalle bombe s'intuiscono altri scenari, s'inseguono nuovi sospetti. Dopo la sentenza di condanna a sette anni per Marcello Dell'Utri e dopo le parole del procuratore Pietro Grasso sull'"entità esterna che voleva agevolare una forza politica", sotto accusa finiscono uomini dello Stato.

È di due giorni fa, lunedì, l'interrogatorio dei tre poliziotti che nell'estate del 1992 avevano investigato sui massacri siciliani incastrando il falso testimone di giustizia Vincenzo Scarantino, il sicario che si autoccusò di una strage che non aveva mai fatto. Così sono entrati nell'indagine quei tre investigatori del "Gruppo Falcone-Borsellino" - Salvo la Barbera, Mario Bo e Vincenzo Ricciardi (al tempo, i primi due giovanissimi e appena usciti dalla scuola di polizia, il terzo anagraficamente e professionalmente più anziano) - che sono stati indiziati per avere in qualche modo estorto la confessione a Scarantino. Sono tre poliziotti dal profilo limpido, risucchiati nel vortice dell'indagine per avere "spostato" il tiro - consapevolmente?, inconsapevolmente? - sugli assassini del 19 luglio 1992. È questo il cuore dell'inchiesta sul depistaggio intorno alla strage.

Chi ha suggerito il nome di Vincenzo Scarantino agli investigatori? Come è scivolato il sicario della Guadagna nella rete del "Gruppo Falcone-Borsellino"? Perché qualcuno avrebbe indotto Scarantino ad accusare se stesso e altri uomini della sua borgata pur sapendo che erano del tutto estranei all'uccisione del procuratore? Partendo da questi interrogativi, i magistrati di Caltanissetta hanno messo sotto accusa i tre poliziotti; nel capo di imputazione contestato parlano "di calunnia aggravata in concorso con Arnaldo La Barbera". È la svolta nelle indagini sull'uccisione di Paolo Borsellino: l'ex capo della squadra mobile di Palermo dopo diciotto anni ha addosso tutti i sospetti.

I procuratori vogliono scoprire chi fu ad offrire quello che definiscono un "input esterno" all'inchiesta, chi aveva interesse a portare lontano dalla verità e dai veri sicari del grande amico di Giovanni Falcone. I tre poliziotti sono indagati - ripetiamo, sono tutti e tre investigatori di alto livello e due di loro nel 1992 erano soltanto dei ragazzini, potevano solo ubbidire ad ordini superiori - ma l'obiettivo dei procuratori è quello di individuare il "regista" dell'operazione che si è "inventato" Scarantino come pentito per sviluppare le investigazioni lungo una falsa pista che indicava i mandanti nella borgata della Guadagna e non nel quartiere di Brancaccio: due mondi lontani per le loro "relazioni esterne", per i rapporti dei rispettivi boss con gli apparati, Pietro Aglieri da una parte e i fratelli Graviano dall'altro, gli stessi Graviano sospettati a lungo di avere instaurato un legame con Marcello Dell'Utri.

È un terreno investigativo assai scivoloso, un'indagine molto complicata che ha portato i procuratori a concentrarsi su Arnaldo La Barbera, un gran poliziotto che prima di approdare al comando del "Gruppo Falcone-Borsellino" era stato il capo della Squadra Mobile di Venezia e poi della capitale siciliana. Arnaldo la Barbera è morto nel 2002 per un tumore, il suo nome è stato trovato qualche mese fa sui libri paga del Sisde - il servizio segreto civile - per gli anni 1986 e 1987, proprio nei mesi precedenti al suo arrivo a Palermo. Quello che sembrava il "motore" di tutte le più delicate investigazioni a cavallo fra gli Anni Ottanta e Novanta, dalle nuove inchieste affiora come l'uomo che avrebbe taroccato l'indagine sulle stragi. Vero? Falso? Al momento molti indizi si dirigono su di lui, da quel che se ne sa i tre poliziotti interrogati lunedì a Caltanissetta si sono difesi con molti "non so" e molti "non ricordo". Quale piega prenderà quest'inchiesta sull'inchiesta è difficile prevederlo, certo è che il "pentito" Vincenzo Scarantino - manovrato o meno - era un bugiardo.

Nome in codice "Catullo", Arnaldo La Barbera è stato il protagonista unico della cattura di Scarantino (e nell'indurlo al pentimento), o è stato al contrario manovrato a sua volta da qualcun altro? E ancora: Arnaldo La Barbera ha arrestato Scarantino senza verificare a dovere le sue rivelazioni per una sorta di ansia da prestazione - la strage Falcone, poi la strage Borsellino, nessun movente chiaro, nessun elemento concreto per iniziare l'indagine - o ha "costruito" il pentito a tavolino su un "input esterno? E di chi? L'ombra di apparati si allunga dal fallito attentato all'Addaura contro il giudice Falcone fino a via Mariano D'Amelio, passando per la strage di Capaci dove sono un'infinità le tracce lasciate dai servizi segreti. L'inchiesta dei procuratori di Caltanissetta si sta districando fra questi dubbi e questi sospetti partendo da Gaspare Spatuzza, partendo dalle parole pronunciate dal pentito all'inizio della sua collaborazione: "Per via D'Amelio ci sono persone colpevoli fuori e persone innocenti in galera".

In più Gaspare Spatuzza ha fatto il nome di un agente dei servizi, L. N., uno che nel 1992 aveva incarichi operativi in Sicilia. Secondo il pentito, l'agente (che era il vice capo del Sisde a Palermo) era insieme ad alcuni mafiosi nel garage dove - il 18 luglio 1992, esattamente un giorno prima dell'attentato - stavano "caricando di esplosivo" l'utilitaria che avrebbe fatto saltare in aria Borsellino. O Gaspare Spatuzza mente su ogni piccola e grande storia che ha raccontato o la verità sulle stragi siciliane è molto più spaventosa di come l'abbiamo sempre immaginata.

É da quel momento - da quando Spatuzza comincia a parlare - che le nuove indagini sulla strage di via D'Amelio, e dopo le ritrattazioni dello stesso Scarantino e di altri due imputati, hanno preso un'altra direzione "scagionando" una mezza dozzina di mafiosi e puntando verso altri mafiosi. La richiesta di revisione di una parte del processo Borsellino molto probabilmente verrà presentata entro il mese di luglio e girata alla procura generale di Caltanissettta, che a sua volta la invierà a Catania (dove però attualmente è procuratore generale Giovanni Tinebra, lo stesso procuratore che aveva creduto a Scarantino incriminandolo) o più probabilmente alla procura generale di Messina. In attesa dei vari passaggi e delle barriere che il "fascicolo" troverà fra Catania e Messina, i procuratori di Caltanissetta continuano a indagare sui depistaggi e sulle trattative che vi furono in quell'estate di 18 anni fa fra pezzi dello Stato e boss di Cosa Nostra. Il loro uomo chiave resta Gaspare Spatuzza. Il pentito che per il Viminale non è un pentito ha già fatto crollare un pezzo del processo agli assassini di Paolo Borsellino. E se la commissione ministeriale e i giudici di Palermo non gli hanno creduto, i procuratori di Caltanissetta lo ritengono così "affidabile" che con lui stanno riscrivendo tutta l'indagine sui mandanti delle morti di Falcone e Borsellino.
 

(01 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/07/01/news/tutti_uomini_depistaggio-5293881/?ref=HREC1-3


Titolo: Paolo Borsellino si è opposto alla trattativa tra lo Stato e la mafia ...
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2010, 11:16:46 am
Sì, fu ucciso perché si oppose alla trattativa

Il mistero della morte del magistrato dentro una lettera di Vito Ciancimino.

Un documento del '93 presto in mano ai magistrati e indirizzato a un "futuro premier"


Paolo Borsellino si è opposto alla trattativa tra lo Stato e la mafia dopo la strage di Capaci che costò la morte a Giovanni Falcone, alla compagna Francesca Morvillo e a tre uomini della sua scorta. Dopo le testimonianze tardive dei politici, dopo le rivelazioni del pentito Gaspare Mutolo sul tema, ora la conferma arriverebbe da un documento autografo di don Vito Ciancimino in persona. E’ una lettera che il figlio Massimo dovrebbe consegnare nei prossimi gorni ai magistrati che indagano sui misteri della mancata cattura di Bernardo Provenzano e sul patto tra Stato e mafia. Massimo Ciancimino ne ha già anticipato i contenuti in un verbale segretato.

Finora al processo al generale Mario Mori per il mancato blitz nelle campagne di Mezzoiuso, dove il colonnello Riccio del Ros avrebbe potuto chiudere la latitanza del boss Provenzano dieci anni prima della sua catura grazie alle rivelazioni del confidente Luigi Ilardo (poi ucciso) si sono confrontate due verità. La prima è contenuta in un lungo memoriale delgenerale Mario Mori consegnato ai giudici che devono decidere le sue sorti. L’allora colonnello del Ros, vice e poi comandante dell’unità specializzata del’Arma che poi catturò Totò Riina ha ammesso i contatti con la famiglia Ciancimino ma con date e significato diverso da quello che gli ha attribuito Massimo Ciancimino. Dopo la strage di Capaci solo il capitano del Ros Giuseppe De Donno incontrò Massimo Ciancimino per chiedergli di fare da ponte con il padre. Secondo Mori prima della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992 e dopo quella di Capaci, avvenuta il 23 maggio, non ci furono incontri tra lui e il consigliori di Provenzano e Riina. Solo dopo la strage di via D’Amelio della quale domani ricorre l’anniversario, il generale in persona avrebbe varcato la soglia della casa di via San Sebastianello dove Vito Ciancimino allora viveva a due passi da Piazza di Spagna.

La versione del Ros era sempre stata confermata da don Vito fino alla morte avvenuta nel 2002 ma è stata ribaltata da Massimo Ciancimino con le sue rivelazioni consegnate negli ultimi due anni ai magistrati siciliani. Secondo il figlio di don Vito Mario Mori ha incontrato il padre prima della strage di via D’Amelio. Sempre secondo Massimo, Vito Ciancimino era convinto che quell’avvio di trattativa aveva incoraggiato la strategia stragista di Riina: fare la guerra per fare la pace e ottenere i benefici carcerari per i detenuti di mafia e la revisione del maxiprocesso, oltre alle altre richieste contenute nel cosiddetto papello. Anche Giovanni Brusca, il boss di San Giuseppe Iato che aveva spinto il telecomando a Capaci, aveva detto prima di Ciancimino junior che Riina, dopo la strage di Capaci disse che “si erano fatti sotto” e bisognava dare un altro colpo. Secondo il figlio, Vito Ciancimino aveva sempre sostenuto il contrario per rispettare un accordo preso con il Ros. Don Vito, secondo lui, fu anche invitato dai difensori degli autori delle stragi, a raccontare la storia della trattativa nei suoi termini reali ma don Vito si rifiutò di cambiare versione.

La lettera descritta da Ciancimino junior ai pm palermitani e che probabilmente sarà consegnata martedì 20 luglio- se quello che Massimo dice è vero – dovrebbe essere stata scritta dal padre e probabilmente risale al 1993. E’ indirizzata a un personaggio dell’economia che allora sembrava potesse assurgere al ruolo di premier. Don Vito, che in quel periodo cercava di comunicare con le istituzioni inutilmente cerca di ottenere ascolto da quello che i suoi amici politici gli hanno preconizzato come futuro presidente. Ciancimino rivela al destinatario della missiva che in quell’anno “il regime sta tentando il suo capolavoro finale”. Il regime non è la politica ma, par di capire, una sorta di alleanza tra una parte della politica, dei Servizi segreti e delle forze di polizia deviate.
Ciancimino senior dopo un pizzico di autocritica malinconica dice “faccio parte di questo regime e sono consapevole che solo per il fatto di farne parte presto ne sarò escluso” passa ad analizzare il tema della trattativa. “Dopo un primo scellerato tentativo di soluzione avanzata dal colonnello Mori per bloccare le stragi. Tentativo di fatto interrotto dall’omicidio Borsellino, sicuramente oppositore fermo di questo accordo, si è decisi finalmente costretti dai fatti di accettare l’unica soluzione possibile per poter cercare di rallentare questa ondata di sangue che al momento rappresenta solo una parte di questo piano eversivo”.
Poi aggiunge: “Ho più volte chiesto invano di essere ascoltato dalla commissione antimafia”.

La lettera è importante per tre motivi. Prima di tutto perché data “il tentativo” di Mori dopo la strage di Capaci ma prima di via D’Amelio. Poi perché inserisce le stragi di mafia in un disegno più ampio di tipo eversivo elaborato da “un architetto” che governa un sistema del quale don Vito stesso fa parte.Anche se per poco. Perché sente che la sua stagione è finita e presto ne sarebbe stato escluso. Infine perché la lettera – se Massimo e anche Vito dicono il vero – conferma le ipotesi più inquietanti della magistratura sul movente della morte di Borsellino. Il giudice amico di Falcone si sarebbe opposto alla trattativa, secondo la lettera attribuita a don Vito dal figlio. E questo, potrebbe essere stato il motivo dell’accelerazione della sua condanna a morte.

http://ilfattoquotidiano.it/2010/07/18/si-fu-uccisoperche-si-opposealla-trattativa/41278/


Titolo: Quando la ‘ndrangheta incontrò Abelli “per fare un percorso all’interno del Pdl”
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2010, 10:17:21 am
Quando la ‘ndrangheta incontrò Abelli “per fare un percorso all’interno del Pdl”

La vicenda è raccontata nelle carte giudiziare della procura di Milano che martedì ha portato in carcere 180 persone sospettate di associazione mafiosa


La politica è il vero capitale sociale della ‘ndrangheta in Lombardia. Lo assicurano i magistrati, sembrano esserne convinti i boss. Loro però non si accontentano più di amministratori locali. Pensano in grande. Arrivano in Regione e puntano verso il Parlamento. E sul cavallo vincente di Montecitorio non hanno dubbi: sarà Giancarlo Abelli, uno dei fedelissimi di Silvio Berlusconi. Questo raccontano le carte dell’inchiesta sulla cupola delle cosche al nord. Lo stesso Abelli che oggi al Corriere della Sera ha confermato di conoscere l’uomo dei clan aggiungendo “se uno nel far campagna elettorale chiede di votare qualcuno cosa c’entro io”

Il nome dell’ex presidente della Commissione salute della Regione Lombardia, che negli anni Novanta fu coinvolto e poi prosciolto in un giro di tangenti legate all’imprenditore sanitario Giuseppe Poggi Longostrevi, compare diverse volte nella richiesta d’arresto firmata dal pool antimafia di Milano.

La cricca mafiosa, infatti, punta su di lui per le ultime elezioni regionali. Una scelta obbligata dopo l’arresto della moglie di Abelli fino a quel momento considerata la candidata ideale. Purtoppo però, Rosanna Gariboldi nel 2009 finirà in galera per riciclaggio. Si tratta dell’inchiesta su il ras delle bonifiche, Giuseppe Grossi. I successivi problemi di bancarotta condivisi dal collega di partito, Massimo Ponzoni, la escludono definitivamente.

A porre il problema sarà Carlo Antonio Chiriaco, dirigente dell’Asl di Pavia e collettore dei voti mafiosi. Lui ne parla con l’avvocato e assessore Pietro Trivi, già legale di Brega Massone, chirurgo della Santa Rita, ribattezzata la clinica degli orrori. “Lui (Abelli, ndr) va benissimo e deva fare l’assessore alle infrastrutture. Poi nei prissimi cinque anni c’è Expo”.

Decisione presa e avallata dai padrini. Chiriaco quindi passa alla conta dei voti. “Il limite tra successo e insuccesso è 12.000 voti”. Lui questa elezione la vuole e lo fa capire. “Farei la campagna elettorale con la pistola in bocca, perché chi non lo vota gli sparo”. Chiriaco è disposto a tutto. “Io prendo pure i voti di Pino Neri e Cosimo Barranca“. Due nomi di peso visto che sono considerati tra i capi assoluti della ‘ndrangheta. Quindi si spiega meglio: “Per i nuclei calabresi c’è Cosimo Barranca che è un tipo sveglio”.

Non si tratta di millanterie. Scrivono i magistrati: “La volontà di coinvolgere nella competizione elettorale a sostegno di Abelli due delle figure più importanti della ‘ndrangheta in Lombardia non rimaneva un mero proposito, ma aveva un immediato sbocco operativo”. Che si traduce in un incontro negli uffici di Abelli nel palazzo della Regione Lombardia. Incontro che i carabinieri filmano e fotografano.

I preparativi iniziano il 12 gennaio scorso e si concretizzano nei primi giorni di marzo. A condurre la regia ci sono il boss Pino Neri e Carlo Chiriaco. I due lavorano dietro le quinti. Non sarà, infatti, il padrino ad andare da Abelli, ma un suo uomo. Il prescelto si chiama Rocco Del Prete, un giovane volentoroso già candidato nella lista Rinnovare Pavia. Il suo mentore si chiama Ettore Filippi, ex vicesindaco di Pavia. Filippi che sta nel centrosinistra ha però un’illuminazione: cambiare casacca e far cadere la giunta. Non disdegna nemmeno di chiedere favori ai boss. Condotta poco edificante per uno che da poliziotto balzò agli onori della cronaca per aver arrestato Mario Moretti, il capo delle Brigate rosse.

Comunque sia l’incontro si concretizza. Prima, però, Pino Neri catechizza il suo uomo. “Devi andare da lui e devi fare il nome dell’avvocato Neri. E ancora che noi l’abbiamo sempre rispettata e che io, chiaramente sarò sempre nell’ambito del centrodestra. Abbiamo deciso di creare un gruppo e come gruppo possiamo fornire un impegno. E mi raccomando tu sottolinea che i tuoi eletti non vengono dal centrosinistra”. Insomma, un vero e proprio disegno politico portato avanti “da ex poliziotti, ingegneri…”. Una vera lobby che tanto assomiglia a quella massoneria segreta di cui il boss dice appertamente di fare parte. Il capomandamento insiste: “Devi dirgli: lei è una persona perbene affidabile e io voglio solo crescere politicamente e operare all’interno del suo gruppo”.

Rocco Del Prete quindi si presenta da Abelli. L’incontro fila liscio. Anzi alla grande. “Gli ho detto sono un amico del dottor Chiriaco e dell’avvocato Neri”. E ancora: “Volevo solo dirle che saremmo contenti di darle una mano e se poi c’è la possibilità di fare un percorso all’interno del Pdl”. Il tutto si conclude con le parole di Chiriaco: “Ha detto che è contentissimo e che è andata benissimo”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/07/14/quando-la-ndrangheta-incontro-abelli-per-fare-un-percorso-allinterno-del-pdl/40206/


Titolo: Grasso: "La mafia non ha un capo unico Rischio attentati in momenti di tensione"
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2010, 06:49:42 pm
L'INTERVENTO

Grasso: "La mafia non ha un capo unico

Rischio attentati in momenti di tensione"

Il procuratore nazionale antimafia durante un dibattito: "Messina Denaro latitante importante ma non è leader di Cosa Nostra".
"Intercettazioni ambientali fondamentali per le indagini".

E sul caso del pentito Spatuzza: "E' credibile"


CORTINA D'AMPEZZO - "Non considero Matteo Messina Denaro attuale capo di Cosa Nostra, ma uno dei capi": è il pensiero del procuratore Antimafia Pietro Grasso, che parlando ieri sera durante un dibattito a Cortina d'Ampezzo ha fatto il punto sulla lotta alla mafia, ribadendo l'importanza delle intercettazioni nell'azione degli inquirenti contro la criminalità organizzata. Oltre al ruolo fondamentale dei collaboratori di giustizia. Grasso fa l'esempio più discusso, quello di Gaspare Spatuzza: "Non è vero che non è stato creduto dai magistrati". E con forza ha fatto appello alla trasparenza: "Uno Stato che si definisca tale non può aver paura della verità. Accertata con le regole". Grasso poi si è chiesto: "Può uno Stato sopportare i misteri e i segreti? Penso di no". Il procuratore antimafia, intervenuto ad un dibattito di "Cortina incontra" nel quale si è confrontato con il collega statunitense Richard Martin, procuratore dell'indagine "Pizza connection", ha sottolineato di tendere "sempre alla ricerca della verità; lo farò con tutte le mie forze - ha concluso - finchè ne avrò".

Il vertice di Cosa Nostra. Grasso ha ricordato che Cosa Nostra è un'organizzazione mafiosa "che vede nella commissione provinciale di Palermo l'organismo direttivo". Con l'arresto di Lo Piccolo, Provenzano e Riina, ha ricordato Grasso, "non esiste più un vertice. C'è stato un tentativo dei 'reggenti' di costituire una sorte di commissione formale di quella che c'è in carcere ma è stata neutralizzata. Il fatto che ci sia un elemento di spicco - ho proseguito Grasso - latitante non significa attribuire a quest'ultimo un ruolo di capo dell'organizzazione. Tranne che lo abbiamo attribuito e noi non ne sappiamo nulla". "Messina Denaro è l'ultimo latitante di spicco rimasto ancora in libertà, ha partecipato e deliberato la strategia stragista del '92-'93, è la persona più importante di Cosa nostra. Detto questo mi fermo" ha concluso.

Le intercettazioni. Per combattere la mafia e le organizzazioni segrete, ha sottolineato Grasso, c'è necessità non solo delle intercettazioni telefoniche ma anche di quelle ambientali, oltre ai collaboratori di giustizia. "Abbiamo fatto la diagnosi, abbiamo la ricetta e ora dobbiamo trovare le medicine" ha spiegato Grasso, che ha evidenziato che per sconfiggere le organizzazioni segrete "occorrono le intercettazioni. Non tanto quelle telefoniche, ma ambientali che si collocano nei posti dove si riuniscono i capi. Senza le intercettazioni ambientali non possiamo sapere certe cose. Occorrono poi più collaboratori di giustizia". Grasso ha quindi ricordato che le organizzazioni segrete "non sono solo militari, fatte da criminali: abbiamo scoperto, per esempio, che il capo mandamento di Brancaccio era un medico, primario in ospedale. All'interno della mafia ci sono persone riservate che fanno gli interesse di Cosa Nostra. Finché non scopriamo la relazione di queste persone insospettabili non avremo mai una vittoria completa sulla mafia". Grasso ha poi osservato che c'è "una rincorsa continua tra i mezzi a disposizione dello Stato e della criminalità organizzata. Provenzano aveva dato suggerimenti e precauzioni per evitare di essere intercettati e per non essere individuati. E' una continua lotta. Se ci tolgono questi strumenti - ha detto Grasso - diventa difficile". Grasso ha concluso che la lotta alla mafia non può essere fatta più in ambito regionale ma "nazionale" e che quello mafioso non è un problema del Sud ma di tutto il Paese.

Spatuzza pentito "credibile". "Dopo tanti anni, una persona che si sente macerata nella coscienza da un serie di verità di cui è portatore, ha voluto parlare. Sono stato il primo ad ascoltarlo - ha ricordato Grasso - mi ha detto 'Non posso più sopportare che ci siano tanti innocenti condannati e colpevoli che sono rimasti a piede libero, nemmeno sfiorati dalle indagini". Grasso ha ricordato che Spatuzza è sempre "stato fermato dalla famiglia, per preservarla da possibili ritorsioni, perché continuavano a vivere a Brancaccio. Finalmente ha trovato il coraggio di dire 'Anche se la famiglia non mi segue non mi interessa niente. Abbandono mia moglie e mio figlio e voglio dire la verità". Il procuratore antimafia ha spiegato che Spatuzza ha fornito elementi di riscontro "talmente concreti da non poter dubitare che non siano attendibili". Grasso ha ricordato che Spatuzza gli aveva riferito che quando rubò l'auto che poi usò per la strage di via D'Amelio aveva un problema ai freni, e per questo la portò dal meccanico. "Riscontrammo, nella perizia sull'auto - ha raccontato Grasso - che i ferodi erano nuovi. Solo lui lo sapeva e per questo è credibile. Inoltre Spatuzza ha riferito una frase che gli aveva riferito Giuseppe Graviano: l'unico che può smentire è solo quello che gliela ha detta".

Rischio attentati. Per il procuratore nazionale antimafia i rischi di attentati da parte della mafia, come quelli di Firenze, di Capaci e di via d'Amelio, "ci sono sempre, soprattutto in momenti di tensioni politiche". "Non dimentichiamo - ha ricordato Grasso - che nel '92 gli attentati sono avvenuti a ridosso di tangentopoli. Può esserci qualcuno che vuole approfittare del momento politico per dare uno scossone. Ho sempre interpretato queste cose - ha sottolineato Grasso - come una voglia di conservare più che destabilizzare il sistema". In merito a possibili attentati della mafia Grasso ha risposto di "non avere la palla di cristallo". "Spero che non sia così, che si rendano conto che nel momento in cui riaprono una stagione del genere di stragi, di attacco alle istituzioni, sarà ancora peggiore la repressione dello Stato. Lo Stato, le forze di polizia e la magistratura non hanno mai cessato al momento la repressione e continuano a fare opere di bonifica".

(02 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/08/02/news/grasso_mafia-6027817/?ref=HREC1-1


Titolo: Spunta un pizzino dell'ex sindaco a Provenzano Elezioni 2001
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2010, 05:43:57 pm
Palermo Spunta un pizzino dell'ex sindaco a Provenzano Elezioni 2001

Mafia, Ciancimino jr tira in ballo il premier

La vedova di don Vito: incontri negli anni '70

   
PALERMO - Dopo le minacce al figlio di cinque anni dice di non volere più parlare, Massimo Ciancimino. Ma lo ha fatto negli ultimi giorni. Come la madre Epifania Scardino, per la prima volta loquace con i magistrati di Palermo ai quali ha confermato il contenuto di un «pizzino» indirizzato nel 2001 dal marito, «don Vito», a Bernardo Provenzano chiamato «Caro Rag.» e con riferimenti espliciti a Silvio Berlusconi.

Un invito a distribuire i cento milioni di lire incassati da una trattativa che coincide con le elezioni del 2001. Il testo è top secret, ma chi lo ha letto così sintetizza evocando conteggi in vecchie lire: «Dei 100 milioni ricevuti da Berlusconi, 75 a Benedetto Spera e 25 a mio figlio Massimo». E poi: «Caro Rag. bisogna dire ai nostri amici di non continuare a fare minchiate... E di risolvere i problemi giudiziari...».
Sarebbe davvero inquietante questo appunto, soprattutto se fosse confermata la data del 2001, quando si votò per le Politiche il 13 maggio e per le Regionali in Sicilia il 24 giugno. Anche perché un seppur incerto riferimento a un flusso di denaro sporco riversato da Ciancimino padre nelle attività edilizie dell'impero Berlusconi risale al 1974, con la mediazione di due prestanome, due costruttori che allora si presentavano a Milano come danarosi uomini d'affari. La coppia che l'ex sindaco di Palermo chiamava sarcastico «B&B»: Antonino Buscemi, morto in carcere mentre stava scontando una pena, e Franco Bonura, condannato nel 2008 a venti anni.

Varca adesso una nuova soglia Massimo Ciancimino con questo «pizzino» in cui compare Spera, allora longa manus di Provenzano. E la varca con l'aiuto della madre, malata, anziana, ma pronta, con una tempestività sospetta, a trovare una carpetta del marito e a consegnarne il contenuto al figlio Massimo. Sospetta perché tutto sarebbe accaduto due giorni prima della perquisizione ordinata dalla procura di Caltanissetta, quasi un mese fa, in case e ville dei parenti di Ciancimino junior.

Una scelta dalla quale traspare una certa diffidenza da parte del procuratore Sergio Lari e dei sostituti nisseni che hanno tanto materiale su cui lavorare, ma non quel «pizzino». Documento che adesso compare solo a Palermo negli uffici di Nino Di Matteo, Paolo Guido e Antonio Ingroia. Gli stessi che per la prima volta avrebbero avuto la conferma di un rapporto diretto fra «don» Vito e Berlusconi per voce della vedova: «Si, mio marito incontrava negli anni Settanta Berlusconi a Milano... Ma alla fine si sentì tradito dal Cavaliere...».
Adesso sarà necessario cercare adeguati riscontri. Di qui il mandato affidato alla polizia scientifica per un esame sulla compatibilità della carta con l'epoca indicata, il 2001, quando c'era già l'euro, ma tanti ancora conteggiavano gli affari in lire. E poi è tutta da definire la stessa attendibilità di Ciancimino junior visto che un tribunale, quello di Dell'Utri, lo ha ritenuto contraddittorio.

Da sei anni aleggia comunque l'ombra di un assegno da 25 milioni del Cavaliere a Ciancimino. Effetto di una intercettazione fra Ciancimino junior e la sorella Luciana, allora indispettita per le difficoltà a trovare un posto di prima fila per il decennale di Forza Italia a Palermo, presente Berlusconi. E il fratello, senza immaginare di essere ascoltato, fu pronto a ricordare che avrebbero potuto sventolare la prova di quel pagamento. Appunto, un assegno, si pensò. Documento mai trovato. Ma adesso richiamato da Massimo Ciancimino con una correzione: «Non si trattava di un assegno, ma di soldi in contanti: i 25 milioni di lire indicati nel "pizzino", somma che andai a ritirare presso un amico di Pino Lipari...».

Siamo alla piena ammissione di un evento che rende l'allora giovane rampollo di «don» Vito complice del padre. Tanto da portare i procuratori di Palermo a un passo obbligato: la sua incriminazione per favoreggiamento, riciclaggio o addirittura per concorso esterno in associazione mafiosa.
«Fate pure, a me interessa solo raccontare la verità, ormai...», avrebbe detto la scorsa settimana a palazzo di giustizia dove lunedì mattina è tornato in lacrime, dopo aver trovato la lettera con proiettile e minacce al figlio, chiedendo protezione per il piccolo e promettendo a se stesso di non fare più rivelazioni: «Così, tacendo, diventerò anch'io un "eroe"».
Un riferimento diretto a Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore dal senatore Marcello Dell'Utri considerato un «eroe». Frase ripetuta ieri ai due uomini di scorta che, prima di accompagnarlo con moglie e figlio fuori Palermo, si sono presentati con le «misure rafforzate»: tre giubbotti antiproiettile.

Felice Cavallaro

11 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_agosto_11/mafia-ciancimino-jr_f28f96ca-a536-11df-80bf-00144f02aabe.shtml
 


Titolo: Grasso "Certe riforme delegittimano le toghe"
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2010, 05:13:54 pm
IL CASO

Giustizia, l'allarme di Grasso "Certe riforme delegittimano le toghe"

Il procuratore capo antimafia: "Bisogna stare in guardia che con certe riforme si cerchi di delegittimare, intimidire certi magistrati, renderli inoffensivi". "Tempi ragionevoli del processo o semplice impunità?"


SIENA - "Oggi si parla di separazione delle carriere. Ben vengano se possono risolvere i problemi. Ho già spiegato dei timori di un assoggettamento all'esecutivo da parte del pm". Il giorno dopo il nuovo attacco di Silvio Berlusconi alla magistratura, il procuratore capo antimafia Piero Grasso mette in guarda contro da chi porta avanti "certe riforme" della giustizia, avendo "una la riserva mentale" che punta a "delegittimare, intimidire certi magistrati e renderli inoffensivi".

Grasso scende nell'attualità e commenta la vicenda sul processo breve: "Si vuole veramente una durata ragionevole dei processi o si sono accorciati i tempi della prescrizione per ottenere un colpo di spugna e quindi l'impunità?". Secondo Grasso "in tanti Paesi c'è un tempo per fare le indagini, dopodiché, una volta iniziato il processo, il potere punitivo dello Stato non si ferma più, non c'è prescrizione. Da noi invece si sono accorciati i tempi di prescrizione".

Quanto "all'autonomia e all'indipendenza" della magistratura - secondo Grasso - "è un valore che deve essere sentito come tale dai cittadini" perchè "l'alternativa è una magistratura sotto il potere dell'esecutivo". A suo avviso comunque il problema della giustizia si risolve con "risorse adeguate". "Spesso la spinta ideale di chi vi lavora riesce a supplire laddove mancano le risorse".

Grasso non si sottrae alle domande e a chi gli chiede di indicare quali magistrati verrebbero delegittimati replica: "Quei magistrati che pur non essendo stati eletti dal popolo trovano ancora punti di riferimento nel rigore etico, nella difesa della cosa pubblica. Quei magistrati definiti matti o utopisti che credono ancora che in Italia si possano processare non solo gli autori delle stragi, ma anche la mafia dei colletti bianchi, i corruttori dell'imprenditoria, della politica, della pubblica amministrazione, coloro che creano all'estero società fittizie e fondi neri".

(11 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/11/news/grasso_magistrati-6969116/?ref=HRER2-1


Titolo: 'Io, Riina, e l'infame Ciancimino'
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2010, 02:24:47 pm
'Io, Riina, e l'infame Ciancimino'

di Lirio Abbate

L'ex sindaco di Palermo e suo figlio. Le stragi del '92-'93. E Berlusconi.

Per la prima volta, parla il capo dei Corleonesi all'ergastolo. Intercettato durante un colloquio in carcere

(16 settembre 2010)

Totò Riina nel 2006 Totò Riina nel 2006Ho detto al magistrato che se nella vita vuole fare il procuratore, faccia il procuratore e faccia il suo dovere di fare il procuratore, e lo faccia bene. Io se sono Riina e lo faccio bene, stia tranquillo. Ognuno deve fare il suo mestiere, il suo lavoro, e lo deve fare bene. Chiuso". Potrebbe intitolarsi: "La mafia spiegata a mio figlio". Una lezione unica, del maestro più esperto: Totò Riina. Il padrino più feroce che ha cambiato Cosa nostra e la storia d'Italia, dopo 14 anni ha potuto incontrare per la prima volta il figlio Giovanni, anche lui detenuto.

E, sapendo di essere intercettato, ha trasformato quel colloquio in una summa della sua esperienza criminale, alternando consigli pratici ("Sposati una corleonese e mai una palermitana") a messaggi sulle inchieste più scottanti ("Della morte di Borsellino non so nulla, l'ho saputo dalla tv"). Un proclama che ha alcuni obiettivi fondamentali: dimostrare che lui è ancora il capo di Cosa nostra, che il vertice corleonese è unito e, almeno nelle carceri, rispettato. Negare qualunque rapporto con i servizi e e ribadire invece la forza dei suoi segreti. Per questo la registrazione è stata acquisita agli atti delle procure antimafia.

Era dal 1996 che non si potevano guardare in faccia. Solo lo scorso luglio si sono ritrovati l'uno davanti all'altro, divisi dal vetro blindato della sala colloqui del carcere milanese di Opera. Le prime parole sono normali convenevoli. Poi la mettono sullo scherzo.
Totò non comprende perché "Giovannello" non è abbronzato. E il figlio spiega: "Perché nell'ora d'aria preferisco fare la corsa".
Il boss insiste sulla salute: "Stai tranquillo che me la cavo. Tu sai che papà se la cava. Tu pensa sempre che papà è fenomenale.
È un fenomeno. Tu lo sai che io non sono normale, non faccio parte delle persone uguali a tutti, io sono estero". Ci tiene a trasmettere di essere ancora forte, per niente piegato da 17 anni di isolamento: "Ti devo dire la verità, io sono autosufficiente ancora...
Non devi stare in pensiero perché tu sai che papà se la sbriga troppo bene. Puoi dire ai tuoi compagni che hai un padre che è un gioiello".

TRADIMENTI Poi però entrano nelle questioni serie. Partendo da Bernardo Provenzano: è lui il traditore che ha trattato con lo Stato consegnando il capo dei capi ai carabinieri del Ros? "Ho fatto una difesa di Provenzano. Ai magistrati ho detto: quel Provenzano che voialtri dite che era d'accordo per farmi arrestare... Provenzano non ha fatto arrestare mai nessuno". I rinnegati per lui sono altri, più volte attaccati durante il colloquio: Vito Ciancimino e suo figlio Massimo, che con le sue dichiarazioni sta animando l'ultima stagione di inchieste. "Loro si incontravano con i servizi segreti, padre e figlio. Provenzano no. I magistrati durante l'interrogatorio non ci credevano, e gli ho detto: "E purtroppo... Provenzano no!"".
Sull'uomo che assieme a lui è stato protagonista della più incredibile scalata mafiosa, che in mezzo secolo ha trasformato due contadini di Corleone nei padroni di Cosa nostra fino a sfidare lo Stato, su quel Provenzano che è stato il reggente del vertice della cupola fino al giorno dell'arresto si dilunga. Alternando segnali positivi a frecciate sibilline, riferite ai pizzini trovati tra ricotta e cicoria nel covo di Montagna dei Cavalli: "I magistrati mi hanno detto che sono troppo intelligente (facendo riferimento alla difesa di Provenzano, ndr) ed ho risposto che non è così. Non sapevo di avere un paesano scrittore. Il mio paesano (Provenzano, ndr) è scrittore, ma non si sedeva con gli sbirri per farmi arrestare. Il paesano queste cose non le fa". E sempre su Provenzano: "Onestamente è quello che è, non voglio soprassedere. Però farlo passare per uno che arresta le persone, non è persona di queste cose. I mascalzoni sono gli altri che lo vogliono far entrare. Perché Giovà devi essere onesto con lui: per me ha un cervello fenomenale per l'amor di Dio, ha un cervello suo quando fa lo scrittore e scrive... quindi solo lo scrittore può fare queste cose. Lo sapevi che papà lo difende lo scrittore? Gli dissi l'altro giorno che non sapevo che avevo uno scrittore al mio paese, io so che c'è uno scrittore che si chiama Provenzano ma incapace di farmi arrestare i cristiani (i mafiosi, nd.)". E torna ad accusare i due Ciancimino: "Qui infamoni sono padre e figlio e tutte queste persone perché devono far passare...".

Il capo dei corleonesi riflette sulle frequentazioni che avrebbe avuto Provenzano e sulla confidenza che avrebbe dato a Ciancimino. "La gente bisogna delle volte guardarla dall'alto in basso e valutare se vale la pena frequentare certe persone. Quando io gliene parlavo a Provenzano di questi, gli dicevo che non ne valeva la pena, ma lui mi diceva: "Noo", ed io: "Ma finiscila, finiscila, vedi che non ne vale la pena". Adesso a distanza di tempo questo è il regalo che gli ho fatto". "Papà, hai avuto sempre un sesto senso per... Hai avuto sempre il sesto senso". "Giovà, ma lo sai perché, che cos'è? Il cervello sveglio, che sono più avanzato di un altro, più sveglio, hai capito perché?".

DOPPI SERVIZI La questione dei servizi segreti aleggia in tutto l'incontro. Direttamente e per vie trasversali. Quando Provenzano venne arrestato, alcuni quotidiani narrarono un diverbio in carcere con il giovane Riina che avrebbe visto il padrino entrare nel penitenziario e lo avrebbe accolto insultandolo come "uno sbirro". Una versione impossibile: i boss al 41 bis non hanno contatti tra loro di nessun genere. Le indagini hanno fornito una ricostruzione suggestiva di questo falso episodio che porta a riflettere sul ruolo depistante che avrebbero avuto fino ai giorni nostri alcuni uomini degli apparati di sicurezza. È stato uno 007 infatti a riferire la falsa notizia del diverbio a Massimo Ciancimino, che poi ne ha parlato con un giornalista, come lui stesso ha detto ai pm. Su questo fatto indaga la Procura di Roma. Un altro mistero, che i due Riina chiariscono faccia a faccia. "Non è vero che tu lo incontravi in carcere... Come potevi incontrarti con Provenzano? Me lo devi dire", chiede il boss al figlio. "Una buffonata, una vergogna... Lo sai papà, non mi permetto nemmeno a dirlo a quelli che lo dovrebbero meritare determinate cose, immagina se me lo metto a dire a qualcuno che non lo merita".
E Riina sintetizza la sua linea: "Ho voluto dirlo ai magistrati che con questi servizi segreti di cui parla lui (Ciancimino jr, ndr) io non ho mai parlato, non li conosco, anche perché se io mi fossi incontrato con uno di questi dei servizi segreti non mi chiamerei più Riina...". E conclude: "Mi hanno chiesto se conosco nessuno (il riferimento è ad uomini dei servizi, ndr). Non conosco nessuno, e se mi fossi incontrato con queste persone non mi chiamerei Riina. Minchia l'avvocato stava morendo, mi stava cadendo a terra...".

STRAGI SU STRAGI Il vecchio corleonese autore e mandante di centinaia di omicidi e stragi riflette in carcere con il figlio sull'uccisione di Paolo Borsellino. Il boss critica l'atteggiamento di Giovanni Brusca che per l'attentato a Capaci ha svelato ogni retroscena, ma non ha saputo fornire indicazioni per la bomba del 19 luglio 1992. "Ho detto al magistrato che io il fatto di Borsellino l'ho saputo dalla televisione e non so niente". A Milano durante un'udienza aveva fatto un'altra uscita, ancora più esplicita per prendere le distanze dall'ordigno di via Palestro, esploso nel luglio 1993 quando era già in cella: "Non ne so nulla, ma bisogna capire quale fosse il vero obiettivo che si voleva colpire". Più in generale, nell'incontro con il figlio confida: "Ho detto che Riina è capace di tutto e di niente. Però tuo padre è incredibile, quando tu credi sappia tutto non sa niente, ma come lui tanti di questi signori sono ridotti così. Quasi un po' tutti. Perché un po' tutti? Perché l'ultima parola era sicuramente la mia e quindi l'utima parola non si saprà mai. Ci devi saper fare nella vita. Quando hai una possibilità se la sai sfruttare, l'ultima parola non la dici; te la tieni per te e puoi fare tutto su quest'ultima parola: gli altri non sanno niente e tu sei anche un po' avvantaggiatello. Questa è la vita a papà: purtroppo ci vogliono sacrifici, ho avuto la fortuna, in sfortuna, di trovarmi lì e sono andato avanti, certamente... sì. Non è di tutti eh?". E poi spiega: "Perché anche loro sbagliano e sbattono la testa al muro, non sanno... non sanno, questi sbattono la testa al muro perché non sanno dove andare. Questo è un segreto della vita...".

PAPELLO E TRATTATIVA Parlano anche del "papello", la lista di richieste in favore di Cosa nostra che secondo alcuni collaboratori di giustizia fra cui Giovanni Brusca, Riina avrebbe fatto avere nel 1992 a uomini dello Stato per far cessare le stragi. È la trattativa. Copia del "papello" è stata consegnata ai magistrati di Palermo da Massimo Ciancimino, il quale sostiene che suo padre lo avrebbe ricevuto perché fece da tramite fra i corleonesi e uomini dello Stato. Nel colloquio con Giovanni, il capo dei capi non smentisce l'esistenza di una lista con le richieste. Non smentisce che quel "papello" che oggi fa tremare ufficiali delle forze dell'ordine e politici sia esistito. A Giovannello dice solo che il foglio prodotto da Ciancimino "non è scrittura mia...". E aggiunge: "Giovà, nella storia, quando poi non ci sarò più, voi altri dovete dire e dovete sapere che avete un padre che non ce ne è sulla Terra, non credete che ne trovate, un altro non ce ne è perché io sono di un'onestà e di una coerenza non comune". Il capo dei corleonesi sembra non dare alcuna apertura di collaborazione, ma vuole far prevalere il suo ruolo di numero uno di Cosa nostra. Di boss che non parla con gli sbirri. "Ho chiuso con tutti perché non ho nulla a che vedere con nessuno. Il magistrato voleva farmi una domanda e gli ho subito detto: "Non mi faccia domande perché non rispondo". E lui non ha parlato, è stato zitto, perché io so mettere ko un po' tutti perché io ho esperienza Giovà, ho esperienza".

BAGARELLA A un certo punto Riina senior chiude con stragi e servizi per affrontare questioni familiari. "Giovanni lasciamo stare, salutami lo zio quando gli scrivi". Lo zio a cui fa riferimento è Leoluca Bagarella, lo stragista che ha sulle spalle centinaia di omicidi. Un sanguinario che secondo alcuni pentiti nella sua vita avrebbe versato poche lacrime solo in occasione della morte della moglie che sembra essersi suicidata. La scomparsa della donna è ancora un mistero, come pure il luogo in cui è stata sepolta. Nei confronti di quest'uomo che non ha mai avuto pietà per le sue vittime, Totò Riina usa queste parole con Giovanni, forse facendo riferimento alla morte della moglie: "Rispettatelo sempre, che volete povero uomo sfortunato; anche lui nella vita proprio sfortunato nella vita per quello che gli è successo. Purtroppo questa è la vita e dobbiamo andare avanti".
Le raccomandazioni di tenere unita la famiglia, e di pensare al futuro per Salvo, l'altro figlio che è pure lui detenuto e che nel 2011 finirà di scontare la pena per associazione mafiosa, vengono spesso ripetute. Non mancano i riferimenti alla passione comune che padre e figlio hanno: quella del ciclismo. "Il Giro d'Italia me lo seguo sempre", sottolinea Totò Riina, commentando le prestazioni di Petacchi, le sue volate e le vittorie. "Io spero sempre in Basso, però c'è questo Contador, è troppo forte, minchia è troppo forte questo!". E dal figlio vuole la conferma se legge sempre la "Gazzetta dello Sport". "Sì, sì, seguo tutto a livello sportivo...".

CIBO E POLITICA L'unico accenno alla politica viene buttato in modo casuale, discutendo del vitto concesso dal governo: "Berlusconi, che io ci credo poco o niente...". Una battuta, verrebbe da credere, anche se il capo dei capi è un maestro nel calibrare le parole. Ne parla mentre consiglia al figlio di mangiare molta frutta ed elenca quali alimenti acquistare. "Perché io qui ho preso chili... Giovà, la vita che faccio io con questo signore... Berlusconi, che ci credo poco e niente, la vita che faccio con questo... io mangio come un pazzo e metto su chili".
Giovanni ribatte che in carcere si trova bene, e che si è pure iscritto a scuola per conseguire il diploma di Agraria. Ma suo padre ci tiene a precisare: "Cerca di non litigare con nessuno, comportati sempre bene, come mi sono sempre comportato io". Giovanni ribatte: "Ci vuole un po' di pazienza nella vita". "E noi ne abbiamo", risponde il padre. E aggiunge: "Riconosco che la galera è difficile, però uno se si mette in testa di non far del male agli altri, diventa facile, bisogna avere un po' di pazienza". Il figlio annuisce "ne abbiamo. Purtroppo sono già 14 anni che sono qua dentro ...". Ma Totò gli indica il suo esempio: "Giovanni, qui mi portano in braccio. Mi portano sul palmo delle mani... Mi rispettano tutti. Mi rispettano Giovà, sanno che sono tedesco, sanno che c'è profumo, qualcuno che... perché io non parlo. Io non gli rispondo, sanno che non parlo. Sono un ottantenne e conosco la vita che c'è fuori, il mondo che c'è fuori, quindi valuto tutto e tutti. E mi so regolare con tutti".

FERMARE I PENTITI Il boss poi loda la moglie che lo ha sempre assistito restando al suo fianco, ma non scarica su di sé la colpa di "tutte le sofferenze" che la sua famiglia sta vivendo. Non a caso Totò Riina è stato sempre definito "un tragediatore" dai mafiosi che lo hanno conosciuto: parla con il figlio come se la loro detenzione non fosse la pena per stragi ordinate e omicidi commessi, ma solo colpa del fatto che "c'è gente disgraziata, gente infamona". Il riferimento è ai pentiti che lo accusano: "C'è gente meschina, ha fatto questo su minacce e su tutto? Perché sono nati tra i carabinieri? Sono nati tra gli infamoni? Sono nati spioni?". E Giovanni risponde: "Eh, ognuno sì... approfittatori... approfittatori".
Il capo dei capi butta lì una frase che sembra indicare un suo tentativo per bloccare i pentiti. "Mi fermo lì, quello che ho potuto fare, io ringrazio pure a me stesso. L'ho fatto... ho cercato pure...". Giovanni comprende il senso di quello a cui il padre si riferisce e dice: "Però uno non è che può sempre...". Il capomafia bisbiglia al figlio una parola: "Questo Brusca...". E il discorso su questo argomento finisce così. I due parlano subito di altro.
Il pensiero vola ancora a Salvo, il figlio minore che il prossimo anno lascerà il carcere. Il boss vuole che vada a lavorare a Firenze perché a Corleone "non ci può tornare". Ma il valore della famiglia e dei corleonesi Totò Riina cerca di spalmarlo in tutti i suoi discorsi: "Caro Giovanni, nella vita dovete capire che siamo di Corleone, non siamo palermitani, quindi, se avete determinazione, pensate di trovare una ragazza lì a Corleone, perché bene o male, bene o male, è sempre una corleonese". Giovanni contrasta questo discorso: "Però devo dire una cosa che il ragionamento mogli e buoi dei paesi tuoi, funzionava, un tempo; adesso purtroppo non è nemmeno così". E il padre: "Eh sì però c'è sempre questo fatto dei paesi tuoi... Dici: "Corleone non è più come i tuoi tempi" però a papà sempre una paesana bene o male sappiamo chi è la mamma, chi è la nonna, chi era il nonno, chi è il padre, invece alle volte...".
Ma il messaggio fondamentale per lui è trasmettere di essere ancora forte. "Vivo solo e non ho contatti con nessuno. Mi volevano annientare così. Hanno sperimentato questo fatto: "Lo mettiamo solo e lo annientiamo, lo distruggiamo, lo finiamo". Devono sapere invece... che a me non mi distruggete". Una tenuta sintetizzata con una frase: "Facciamoci questa galera... Io a ottanta anni non lo so quanto si può campare ancora, stai tranquillo che cerco di tirare avanti. Io sono qua, come mi vedi, tranquillo e sereno che forse nemmeno potete immaginare".

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/io-riina-e-linfame-ciancimino/2134398//3


Titolo: "Dopo l'Addaura Emanuele mi disse: in quell'attentato c'entra la polizia"
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2010, 05:00:21 pm
L'INTERVISTA

"Dopo l'Addaura Emanuele mi disse: in quell'attentato c'entra la polizia"

Parla Gianmarco Piazza, suo fratello con un collega salvò Falcone. "Non ne ho parlato fino ad ora perché avevo paura, non mi fidavo di quelli che indagavano"

di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO

"Dopo l'Addaura Emanuele mi disse: in quell'attentato c'entra la polizia"

L'agente Emanuele Piazza, collaboratore del Sisde ucciso dalla mafia il 16 marzo 1990 e mai ritrovato


PALERMO - Cosa le ha confidato Emanuele? "Mio fratello mi ha detto che ad organizzare il fallito attentato contro il giudice Falcone non era stata la mafia, ma era coinvolta la polizia. Ricordo ancora le sue parole: "C'entra la polizia"... ". E perché ha tenuto nascosto tutto questo per tanto tempo? "Perché avevo paura, perché quello che sapevo avrei dovuto riferirlo proprio alla polizia che indagava sul fallito attentato e sull'uccisione di mio fratello".

Nella sua bella casa di Palermo Gianmarco Piazza, avvocato civilista, quarantasei anni, uno dei quattro fratelli di Emanuele - l'agente dei servizi scomparso nel marzo del 1990 mentre cercava di scoprire cosa era accaduto all'Addaura - in quest'intervista con Repubblica svela per la prima volta un segreto su quei candelotti di dinamite piazzati nel giugno del 1989 davanti alla villa di Giovanni Falcone. Emanuele sapeva molto anche sull'uccisione di Vincenzo Agostino, il poliziotto assassinato con sua moglie Ida neanche tre mesi dopo il fallito attentato. Sia Piazza che Agostino - secondo le ultime inchieste - sarebbero stati colpiti perché avevano salvato Falcone da chi lo voleva morto. L'avvocato Gianmarco Piazza, un paio di settimane fa, ha consegnato una memoria ai procuratori di Palermo sui misteri dell'Addaura. Nei prossimi giorni sarà interrogato anche dai magistrati di Caltanissetta che indagano sulle stragi.

Avvocato, Emanuele le disse proprio quelle parole: c'entra la polizia...
"Con Emanuele avevo un rapporto molto stretto, avevamo vissuto insieme dal 1986 al 1988 in quella casa di Sferracavallo dove lui viveva quando è scomparso. Fra la fine di giugno e l'inizio di luglio del 1989, a Palermo si parlava tanto del fallito attentato contro Falcone, ne parlavamo naturalmente anche a casa, tra noi fratelli, con mio padre. Sulla vicenda Emanuele mi raccontò che lui era sicuro che non era stata Cosa Nostra a fare quell'attentato".

E lei gli chiese chi era stato?
"Prima lui lasciò intendendere che quella notizia l'aveva appresa per motivi di servizio. Poi, quando gli feci la domanda, rispose secco, senza fare altri commenti: "C'entra la polizia, c'entra qualcuno della polizia...". Io lo sapevo che Emanuele era un collaboratore del Sisde, che era a conoscenza di tante cose... ".

Non le disse altro Emanuele?
"Non mi disse altro. Io non ho mai saputo un nome o un cognome, sono vent'anni che penso a quella frase di Emanuele sulla polizia, mi arrovello, mi tormento".

Quella confidenza non l'ha mai comunicata a nessuno, perché? Solo per paura?
"Dopo la scomparsa di Emanuele, tutti i rapporti fra noi e la polizia li ha tenuti mio padre. Dal 1990 nessuno mi ha mai chiesto niente, né sulla scomparsa di mio fratello né sull'attentato all'Addaura. Io, fin dal primo momento, non ho voluto raccontare queste cose agli inquirenti semplicemente perché non avevo fiducia in loro. Come potevo avere fiducia di un commissario - Salvatore D'Aleo - che per scoprire gli assassini di mio fratello seguiva una pista passionale? Come potevo avere fiducia quando un altro poliziotto, grande amico di mio fratello - Vincenzo Di Blasi - dopo la scomparsa di Emanuele non venne mai a trovarci. Mio fratello era legatissimo a lui, non venne a salutarci neanche una volta. A volte, per capire, bastano pochi dettagli. E quello fu un dettaglio che a me diceva tutto. L'unico di cui si fidava mio padre - e ci fidavamo tutti - era Falcone".

Furono in molti che cominciarono a depistare, a sviare le indagini sulla morte di suo fratello?
"Cominciarono con me, qualche ora dopo la scomparsa di Emanuele. Mi accorsi che qui, vicino a casa mia, un'agente donna mi seguiva e mi stava fotografando con un teleobiettivo. Ero sconcertato. Perché seguivano me? Perché cominciavano le indagini proprio da me? Perché non cercavano invece di salvare Emanuele, che in quei giorni di marzo forse era ancora vivo? Poi, per anni, a casa nostra siamo stati tempestati di telefonate, qualcuno faceva squillare il telefono e poi non rispondeva mai. É come se ci volessero avvertire perennemente. E non erano certo mafiosi".

Lei ha idea di cosa avesse scoperto Emanuele sul fallito attentato all'Addaura?
"Io so soltanto che dal giorno dell'Addaura mio fratello era diventato sempre più taciturno. E poi, dall'autunno del 1989, sempre più cupo. Era preoccupatissimo. Passava quasi tutti i giorni da casa di mio padre, arrivava di umore nero e di umore nero se ne andava. Poi fece due stranissimi viaggi, lui che non amava viaggiare, gli piaceva stare a Palermo. Nell'estate del 1989 partì per la Tunisia. Ritornò in Tunisia anche nel dicembre di quell'anno. Io credo che abbia fatto quei viaggi per allontanarsi da qui".

Torniamo agli amici di Emanuele: perché quel poliziotto, così legato a suo fratello, secondo lei non venne mai a trovare voi familiari dopo la scomparsa?
"Fin dall'inizio della sua collaborazione con i servizi segreti, Emanuele naturalmente non parlava molto del suo lavoro. Si limitava a dirci con chi era in contatto. Ci parlava di un capitano dei carabinieri e di due angeli custodi, così li chiamava lui... uno era quel poliziotto, Enzo Di Blasi, con il quale erano stati compagni in palestra, facevano lotta libera a 18 anni. E poi si ritrovarono tutti e due a Roma in polizia. Mio fratello gli voleva bene, ma lui - dopo la scomparsa di Emanuele - non lo abbiamo più visto".

Lei sostiene di non avere mai avuto fiducia negli inquirenti. Ci sono stati altri episodi che l'hanno spinta a non dire niente in tutti questi anni?
"Molti. E soprattutto uno. Dopo la scomparsa di Emanuele è sparito anche un vigile del fuoco molto amico suo, Gaetano Genova. Si vedevano sempre con Emanuele. Una sera venne a casa mia un giovanissimo poliziotto per cercare di capire cosa sapevo io del loro rapporto. Anche in quella occasione sentii di non fidarmi. Non gli dissi nulla".

Perché oggi ha deciso di raccontare quello che sa?
"Perché stano affiorando frammenti di verità sulla morte di Emanuele e sull'Addaura. Perché, vent'anni fa, a parte la sfiducia nei confronti degli inquirenti, non potevo sapere che la morte di mio fratello potesse essere in qualche modo collegata al fallito attentato contro il giudice Falcone".

(20 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/20/news/dopo_l_addaura_emanuele_mi_disse_in_quell_attentato_c_entra_la_polizia-8248989/?ref=HREC1-4


Titolo: Corruzione, l'Italia sempre peggio Per Transparency International è al 67mo ...
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2010, 06:55:43 pm
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Corruzione, l'Italia sempre peggio Per Transparency International è al 67mo posto

Il Bel Paese, nella classifica dei Paesi onesti, scivola di quattro posizioni rispetto al 2009 e ne perde ben 12 rispetto al 2008.

Gli Stati Uniti escono dalla top venti, conquistando solo il 22mo gradino



ROMA - Brutte notizie per il Bel Paese in tema corruzione. Secondo la classifica stilata dall'ong Transparency International, elaborata analizzando 178 Paesi e presentata stamane, l'Italia scivola al 67esimo posto nell'indice sulla corruzione. Il nostro Paese è arretrato di quattro posizioni rispetto al 2009 e di ben 12 sul 2008.

Il Corruption Perceptions Index (CPI) è considerato la misura più credibile al mondo per misurare la corruzione nel settore pubblico. Oltre ai casi di corruzione in senso stretto, influiscono sul CPI tutte le questioni di malgoverno della cosa pubblica in senso lato che si manifestano nel Paese, in larghissima misura a livello locale. Infatti, la sanità (gestita dalle Regioni) appare il settore dove tale malgoverno più si manifesta. E proprio il CPI registra che la credibilità esterna dell'Italia riguardo la corruzione è in calo e che l'allarme sociale interno sul tema è in crescita.

I Paesi ottengono un punteggio da zero a 10 (con zero che indica livelli elevati di corruzione e 10 bassi). L'Italia è al 67esimo posto, con un punteggio di 3,9 peggiorato rispetto al 2009 (quando era al 63esimo posto, con punteggio di 4,3) e al 2008 (alla 55esima posizione, con 4,8).

Meglio di noi fanno il Rwanda e Samoa. I Paesi più onesti sono quelli più pacifici: Danimarca e Nuova Zelanda. In fondo alla classifica, Paesi devastati dalla guerra (Iraq, Afghanistan e Somalia) o governati da una giunta militare come la Birmania. Gli Stati Uniti sono usciti dalla top 20 dei meno corrotti, collocandosi al 22esimo posto.

(26 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/10/26/news/corruzione_l_italia_sempre_peggio_per_transparency_international_al_67mo_posto-8442331/?ref=HRER1-1


Titolo: Lombardia: la 'ndrangheta influenza la vita politica, sociale ed economica
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2010, 06:25:48 pm
La relazione al Parlamento della Direzione investigativa antimafia

Lombardia: la 'ndrangheta influenza la vita politica, sociale ed economica

Pubblici amministratori e tecnici hanno agevolato l'assegnazione di appalti alle cosche

   
MILANO - Le famiglie storiche della 'ndrangheta presenti in Lombardia influenzano la vita economica, sociale e politica della regione. Lo rileva la relazione al Parlamento della Direzione investigativa antimafia (Dia) riferita al primo semestre 2010. La «consolidata presenza» in alcune aree lombarde di «sodali di storiche famiglie di 'ndrangheta» ha «influenzato la vita economica, sociale e politica di quei luoghi», riporta la Dia. La relazione sottolinea il «coinvolgimento di alcuni personaggi, rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore che, mantenendo fede a impegni assunti con talune significative componenti, organicamente inserite nelle cosche, hanno agevolato l'assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative».

CONSENSO E ASSOGGETTAMENTO - Per penetrare nel tessuto sociale, le cosche - che in Lombardia godono di una certa autonomia ma dipendono sempre dalla «casa madre» calabrese come ha dimostrato l'inchiesta «Crimine» che ha ricostruito l'organigramma della 'ndrangheta - si muovono seguendo due filoni: «quello del consenso e quello dell'assoggettamento». Tattiche che, sottolineano gli esperti della Dia, «da un lato trascinano con modalità diverse i sodalizi nelle attività produttive e dall'altro li collegano con ignari settori della pubblica amministrazione, che possano favorirne i disegni economici».

MOVIMENTO TERRA E OPERE DI URBANIZZAZIONE - Con questa strategia, e favorita da «una serie di fattori ambientali», si consolida la «mafia imprenditrice calabrese» che con «propri e sfuggenti cartelli d'imprese» si infiltra nel «sistema degli appalti pubblici, nel combinato settore del movimento terra e, in alcuni segmenti dell'edilizia privata» come il «multiforme compartimento che provvede alle cosiddette opere di urbanizzazione». Secondo la Dia dunque, si assiste ad un vero e proprio «condizionamento ambientale» da parte della 'ndrangheta, che è riuscita «a modificare sensibilmente le normali dinamiche degli appalti, proiettando nel sistema legale illeciti proventi e ponendo le basi per ulteriori imprese criminali». E la penetrazione nel sistema legale dell'area lombarda, è favorita, dice la Direzione investigativa antimafia, da «nuove e sfuggenti tecniche di infiltrazione, che hanno sostituito le capacità di intimidazione con due nuovi fattori condizionanti: il ricorso al massimo ribasso» nelle gare d'appalto e la «decisiva importanza contrattuale attribuita ai fattori temporali molto ristretti per la conclusione delle opere».

Redazione online
17 novembre 2010
http://www.corriere.it/cronache/10_novembre_17/lombardia-ndrangheta-dia_8abc6930-f24b-11df-a59d-00144f02aabc.shtml


Titolo: ADDAURA. Il "corvo" era "uomo delle istituzioni, non di Cosa nostra"
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2010, 01:25:48 pm
LA BOMBA DELL'ADDAURA

Riina dovrà risarcire i familiari di Falcone "Ma la delegittimazione arrivò dallo Stato"

Il tribunale civile di Palermo condanna solo a metà il capo di Cosa nostra per il fallito attentato del 1989.

Per il tritolo nella borsa lasciata sulla scogliera, non per le "umiliazioni" e le "calunnie".

Per la sentenza, le delegittimazioni furono architettate da "ambienti delle istituzioni", non dalla mafia.

E il "corvo" era "uomo delle istituzioni, non di Cosa nostra"

di SALVO PALAZZOLO


Totò Riina dovrà risarcire le sorelle di Giovanni Falcone, Anna e Maria, per il fallito attentato all’Addaura, del 21 giugno 1989. Il tribunale civile di Palermo ha condannato il capo di Cosa nostra a pagare 144.048,47 euro. Ma è un risarcimento solo per la borsa di tritolo lasciata sulla scogliera, non per l’opera di delegittimazione che colpì il giudice prima e dopo il fallito attentato davanti alla sua villa.

Le sorelle di Falcone chiedevano un risarcimento anche per questo: per le “umiliazioni”, le “calunnie”, gli “sleali attacchi e i torbidi giochi di potere”. Un risarcimento per la “macchina del fango”, come l’ha chiamata qualche giorno fa lo scrittore Roberto Saviano durante il programma “Vieni via con me”: prima, le lettere del Corvo, poi un tam tam di false notizie che sembrava inarrestabile. Un “infame linciaggio” lo definisce nella sentenza il giudice Paola Proto Pisani, della terza sezione civile del tribunale di Palermo. Ma non fu Cosa nostra a mettere in atto l’infame linciaggio. Piuttosto, “ambienti delle istituzioni”, scrive il giudice.

È una sentenza destinata a riaprire le polemiche attorno alla vita e alla morte di Giovanni Falcone. Paola Proto Pisani spiega nelle motivazioni della sentenza: “Brusca ha riferito espressamente che a fronte delle svariate notizie e voci che nell’immediatezza correvano sulla matrice dell’attentato dell’Addaura, Riina suggerì di “cavalcare” tale confusione, mantenendo il più stretto riserbo sulla matrice mafiosa dell’attentato, anche e proprio all’interno dell’ambiente degli uomini d’onore e di alimentare all’interno della stessa organizzazione le voci false che già correvano all’esterno sul tale fatto". In quei giorni, il venticello della calunnia disse pure che Falcone si era organizzato da solo il fallito attentato sugli scogli.
 
Non hanno ancora un nome ben definito gli uomini delle istituzioni che delegittimarono Falcone. Il mistero più grande resta quello del Corvo, l’autore delle lettere anonime che all’inizio di giugno dicevano di un progetto ordito da Falcone e dal superpoliziotto Gianni De Gennaro per far ritornare in Sicilia il pentito Salvatore Contorno con una missione di Stato: stanare i grandi latitanti di mafia. Per quelle lettere era finito sotto accusa l’allora sostituto procuratore Alberto Di Pisa, oggi procuratore a Marsala, ma è stato assolto definitivamente. Nella sentenza del processo Di Pisa si parla di un altro complotto, ordito negli ambienti dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia, finalizzato a incastrare il magistrato, attraverso la fotografia di una sua impronta. Misteri su misteri.

Il giudice Proto Pisani ricorda ancora le parole di Brusca: "Speriamo che il dottor Di Pisa si penta. Questo diceva Riina quando sentiva le notizie sulla sua incriminazione. Ma non perché poteva favorire Cosa nostra, perché il dottor Di Pisa era uno di quelli pure duri contro Cosa nostra. Ma credo che lui sapeva che all’interno della Procura c’era qualche spaccatura. "Speriamo che si pente" nel senso "speriamo che sapremo qualcosa di più". Gli faceva piacere che venivano fuori queste cose".

Sono parole che fanno dire al giudice Proto Pisani: il corvo non era un "uomo della mafia sapientemente infiltrato nelle istituzioni", piuttosto un "uomo delle istituzioni, non collega a Cosa nostra, in contrasto con Falcone per questioni attinenti alla modalità di gestione dei collaboratori o più in generale per le tecniche di investigazione relative alla criminalità organizzata, o anche per motivi di invidia o contrapposizione personale, che poi nei fatti ha concorso a realizzare l’interesse comune a Cosa nostra di delegittimare Falcone".

Dice l'avvocato Francesco Crescimanno, che ha assistito le sorelle Falcone assieme al collega Antonio Coppola: "Bisogna ancora fare luce sull'isolamento attorno a Giovanni Falcone. In molti dovrebbero fare autocritica".


(22 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://palermo.repubblica.it/cronaca/2010/11/22/news/addaura_riina_dovr_risarcire_falcone_ma_a_delegittimarlo_fu_lo_stato_non_la_mafia-9327296/?ref=HREC1-6


Titolo: Roberto Brunelli «P2-P4, Bisignani è l'anello di congiunzione»
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2011, 11:01:59 pm
«P2-P4, Bisignani è l'anello di congiunzione»

di Roberto Brunelli


Giuliano Turone è il magistrato che insieme a Gherardo Colombo scoprì gli elenchi della loggia massonica di Licio Gelli. P2, P3, P4... una ragnatela di poteri occulta che sembra allargarsi dal passato a oggi.

Dottor Turone, pare una specie di maledizione italiana quella di dover convivere continuamente con qualche antistato... Si finisce col pensare che sia un fattore endemico al modo d’essere della politica italiana.

«Premetto che sugli avvenimenti di questi giorni so solo quello che leggo dai giornali. Ma certo possiamo considerare un anello di collegamento la presenza in questa inchiesti di Luigi Bisignani, il cui nome era contenuto negli elenchi P2. D’altronde è innegabile che vi sia continuità in certe situazioni nella storia del paese. Il cosidetto “Fattore K”, innanzitutto, la paura atlantica per la presenza di un Pci così forte in Italia, che ha contribuito a far venire fuori un miscuglio che ha portato a molte situazioni aberranti. In questo si inserisce la nascita della loggia P2, ma anche il rapporto di questa con la mafia...»

Per esempio?

«Eccolo. Negli anni ‘90, al processo di Palermo su Andreotti, i collaboratori di giustizia raccontano molto sul rapporto tra Cosa Nostra e P2. Raccontavano di una riunione con molti elementi di spicco di Cosa Nostra, ai primi di settembre del ‘79, a cui partecipò anche Licio Gelli, che li convinse a mollare Sindona perché sia lo Ior che la loggia volevano passare tutta la gestione finanziaria a Calvi...».

Sì, però molti dicono che la P4 di oggi abbia meno ambizioni della P2, che voleva mutare geneticamente le istituzioni italiane. Ma la capacità di condizionare il funzionamento dello Stato rimane....

«È un equivoco da cui bisogna uscire: P2, P3, P4... in realtà si tratta di una cosa che ci trasciniamo da tempo. D’altronde, una volta scoperta la P2, con le sue documentazioni su Corriere, Rizzoli, Banco Ambrosiano, molto di quel sistema di potere è rimasto in piedi pur modificandosi, anzi in parte quel potere occulto è in parte divenuto palese, e molti personaggi che gli gravitavano intorno sono rimasti o sono tornati in auge. Ogni tanto salta su uno e dice “ecco la P3”. Ma in realtà la chiave la dà lo stesso Licio Gelli, quando due anni fa, in unatv privata, decanta orgogliosissimo il suo “Piano di rinascita democratica” affermando, con unabattuta, che avrebbe fatto meglio a depositarlo alla Siae: aggiunse anche che oggi l’unico in grado di portarlo a compimento è Silvio Berlusconi, non tanto perché affiliato alla P2, ma perché “è un grand’uomo”.

Sono molti, se ci sono, i risvolti della vicendaP2 di cui oggi ancora non abbiamo piena consapevolezza?

«Ci sono ancora tante zone d’ombra. Troppe volte i procedimenti sono stati spostati da una città all’altra per impedire che si potesse indagare puntigliosamente».


18 giugno 2011
da - unita.it/italia/p2-p4-bisignani-e-l-anello-di-congiunzione-1.305365


Titolo: GALULLO. - Beppe Pisanu: le mafie mangiano alle 4 regioni del Sud il 20% del Pil
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2012, 11:51:02 am
26 gennaio 2012 - 14:34

Beppe Pisanu: le mafie mangiano alle 4 regioni del Sud il 20% del loro Pil – Il silenzio della società civile

Circola in questi giorni la proposta di relazione sulla prima fase dei lavori della commissione con particolare riguardo al condizionamento delle mafie sull'economia, sulla società e sulle istituzioni del Mezzogiorno, presentata nei giorni scorsi alla Commissione Parlamentare antimafia dal suo presidente Beppe Pisanu.

Gli spunti sono moltissimi e – con questo primo post – comincerò a darvi conti di quelli più interessanti. E’ datata 12 luglio 2011 – in vero – ma l’analisi ovviamente è attualissima.

Lo stesso Pisanu, in premessa scrive che: “Non è tempo di fare bilanci. Possiamo però affermare che nonostante talune difficoltà, compresa la non favorevole organizzazione dei lavori parlamentari, la nostra Commissione giunge a oltre metà mandato con un consistente patrimonio di conoscenze, analisi e proposte”.

La relazione sembra quasi scusarsi nel ricordare una cosa ovvia. Anzi due. La prima indigesta a molti osservatori del Nord:  il progressivo spostamento delle pratiche e degli interessi mafiosi ben oltre i confini del Mezzogiorno. “Possiamo dunque affermare che esse – scrive Pisanu - si sono, a loro modo, globalizzate e che in Italia sono entrate a far parte anche della cosiddetta questione settentrionale".

La seconda è drammatica: la Commissione antimafia ha stimato che l’attività mafiosa nella quattro regioni di origine causa un mancato sviluppo equivalente al 15-20% del Pil delle stesse regioni. “Come abbiamo ampiamente documentato – scrive Pisanu - gli investimenti e le speculazioni mafiose giungono in ogni settore di attività del Mezzogiorno e si confondono sempre più con l'economia legale. Va detto che, mentre l'accumulazione dei capitali illeciti procede per le vie consuete del racket, dell'usura, della droga, del gioco illegale e legale, della contraffazione e dei numerosi traffici di esseri umani, armi e rifiuti, si registra una evidente evoluzione dei comportamenti criminali: nel senso che i reati tradizionali sono in diminuzione e quelli di nuova specie in aumento. Ma va anche detto che se molto sappiamo su come i capitali mafiosi vengono raccolti, ancora poco sappiamo su come vengono occultati e investiti nell'economia legale e nei circuiti finanziari nazionali ed internazionali”.

Per intercettare e stroncare le reti e gli affari della criminalità organizzata lo Stato ha fatto e sta facendo molto. Nonostante ciò, le statistiche mandano segni allarmanti. Il 53% dei referenti del sistema Confindustria del Mezzogiorno reputa la propria area territoriale molto insicura; e il 42% attribuisce questa insicurezza alla criminalità organizzata e alla illegalità diffusa (con la seconda spesso preordinata o subordinata alla prima).

E' accertato, inoltre, che circa un terzo delle imprese meridionali subisce una qualche influenza delle mafie, con dati che oscillano tra il 53% della Calabria e il 18% della Puglia.

Pisanu non le manda a dire e rileva come alla forte iniziativa dello Stato sul terreno della repressione della criminalità organizzata, non sia ancora partita un'azione egualmente forte per distruggere il suo brodo di coltura, cioè il sottosviluppo. “Ciò che più sgomenta – si legge nella bozza di relazione - è l'enorme impronta che le attività mafiose, la dilagante corruzione, il deterioramento dell'etica pubblica e della stessa morale privata continuano a scavare nella società civile e nelle istituzioni del Mezzogiorno. E non di meno sgomentano i troppi silenzi e la diffusa indifferenza di fronte a questi fatti. Se si prospetta una manovra finanziaria biennale di circa 38 miliardi, l'opinione pubblica entra in fibrillazione. Ma se si afferma che solo sui giochi e le scommesse le organizzazioni criminali lucrano almeno 50 miliardi all'anno, pochi se ne curano!”

Alla stoccata segue una pillola più “dolce”: “Non si spezza la spirale della criminalità, il suo crescente e oscuro reclutamento, se non si riformano l'economia e la società del Mezzogiorno. Bisogna riconoscere senza mezzi termini che la debolezza e la scarsa attrattiva del Sud dipendono in buona parte dalla presenza soffocante della criminalità organizzata. In talune aree, controllando il territorio e le stesse forze produttive, essa riesce perfino a plasmare l'economia locale sui propri disegni criminali.    A questo fine intimidisce i cittadini, scoraggia l'autonoma volontà di intraprendere e la orienta verso le sue imprese, ponendosi in alternativa allo Stato. In cambio offre i suoi "sostituti assicurativi": e cioè una generale protezione nei confronti delle amministrazioni e delle burocrazie locali, dei sindacati e della concorrenza. Si formano così dei monopoli o quasi monopoli mascherati che impongono le loro scelte anche sulle forniture, i mercati di sbocco e il reclutamento della manodopera”.

Per il momento mi fermo qui ma torno prestissimo.

r.galullo@ilsole24ore.com

1 – to be continued

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Titolo: GALULLO. - Beppe Pisanu: La zona grigia diventa nera ...
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2012, 11:52:40 am
27 gennaio 2012 - 9:22

Beppe Pisanu: “La zona grigia diventa nera – Dai professionisti solo 223 segnalazioni antiriciclaggio su 26.947!”

Se certe cose le scrivono –propria sponte – i giornalisti, vengono accusati di diffamare le categorie. Se a metterle nero su bianco è il presidente della Commissione parlamentare antimafia Beppe Pisanu nella proposta di relazione sulla prima fase dei lavori della stessa Commissione con particolare riguardo al condizionamento delle mafie sull'economia, sulla società e sulle istituzioni del Mezzogiorno, magari le cose cambiano (si veda in archivio il post di ieri).

E già, perche Pisanu, - ma in realtà questa proposta sarà, al massimo con ritocchi, fatta propria dall’intera Commissione parlamentare antimafia e dunque si può parlare di un idem sentire collegiale  e di una relazione sostanzialmente approvata - con riferimento alla cosiddetta zona grigia scrive che certamente una quota non insignificante di popolazione meridionale partecipa in forme diverse alle attività criminali. Ma quella che più inquieta è la cosiddetta “zona grigia” che spesso la Commissione ha incontrato nelle sue indagini. Ne fanno parte persone generalmente insospettabili e dotate di competenze imprenditoriali, finanziarie, giuridiche, istituzionali e politiche che, nel loro insieme, costituiscono il filtro indispensabile per far passare enormi capitali dall'economia criminale all'economia legale.

“Cito a questo proposito un solo dato – si lancia ben sapendo di cogliere nel giusto Pisanu – e cioè nel 2010 sono state segnalate alla Guardia di Finanza e alla Dia 26.947 operazioni sospette, delle quali ben 4.700 sono poi confluite in procedimenti penali per riciclaggio, usura, estorsione, abusivismo finanziario, frode fiscale eccetera. Però quasi tutte le segnalazioni sono arrivate dal sistema bancario, mentre da operatori non finanziari e liberi professionisti ne sono arrivate solo 223”. La zona grigia è dunque nera e complice: attenzione non sono parole mie ma proprio quelle testuali del presidente della Commissione parlamentare.

Individuare e rompere i legami occulti tra zona grigio-nera e ambienti criminali è uno dei grandi compiti che la Commissione si propone dopo il giro di boia dei prima anni di lavoro. Anche sul piano legislativo. “A questo fine – scrive Pisanu - forse dovremo puntare di più sul reato di "favoreggiamento" specificamente aggravato, superando quei limiti del "concorso esterno in associazione mafiosa" che le statistiche giudiziarie evidenziano impietosamente. Mi riferisco al fatto che fino al 2008 di circa 7.000 indagati a questo titolo, il 60% é stato archiviato, mentre solo l'8% è arrivato a condanna. Mi chiedo, onorevoli colleghi, come sia possibile battere militarmente la mafia se non la si sconfigge contemporaneamente sul terreno dell'economia, delle relazioni sociali, della pubblica amministrazione e della stessa moralità politica.          Non si sono mai visti tanti interessi criminali scaricarsi pesantemente, senza neanche il velo della mediazione, sugli enti locali, sulle istituzioni regionali e sulla rappresentanza parlamentare. Gli organi di informazione, le indagini della magistratura, i primi controlli sulla formazione delle liste ci hanno dato in questo senso conferme inequivocabili”.

Un ragionamento che non fa una grinza e che – nel mio piccolo – sottoscrivo.

r.galullo@ilsole24ore.com

2 – to be continued (la prima puntata è stata pubblicata ieri 26 gennaio)

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da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/01/beppe-pisanu-la-zona-grigia-diventa-nera-dai-professionisti-solo-223-segnalazioni-antiriciclaggio-su-26947.html


Titolo: GALULLO. - Beppe Pisanu: “Lotta alle mafie? Tempi lunghi”
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2012, 11:53:35 am
27 gennaio 2012 - 16:49

Commissione antimafia: 25 miliardi per Expo 2015 fanno gola – Pisanu: “Lotta alle mafie? Tempi lunghi”


Certo che fa male scoprire – a distanza di decine di anni dalla presa coscienza del fenomeno, migliaia di indagine della magistratura e decine di migliaia di operazioni delle Forze dell’Ordine - che per avere ragione delle mafie “occorrerà sferrare un’offensiva di medio-lungo periodo, mettendo in campo risorse adeguate e combinando ciò che oggi è invece sterilmente disgiunto: e cioè la forza della repressione con la forza dello sviluppo economico e del rinnovamento sociale”.

Nero su bianco è quanto scrive Beppe Pisanu nella relazione sulla penetrazione delle mafie nell’economia della Commissione parlamentare antimafia di cui sto scrivendo da alcuni giorni (si vedano post in archivio ieri e oggi).

Fa male scoprire che siamo non dico all’anno zero ma…insomma…Certo la commissione antimafia ha ragione nel battere sul nervo scoperto: senza sviluppo economico, come può il Sud allontanare l’ombra lunga delle mafie?

Solo il Sud? Eh no ragazzi miei.

Una parte invero molto interessante della relazione è quella relativa alla “cruciale e fruttuosa” missione a Milano (così testualmente la definisce Pisanu) che la Commissione parlamentare antimafia ha condotto il 21 e 22 gennaio 2011.

Cruciale perché Milano, "capitale economica d'Italia", non può non essere obiettivo dell'espansione economica delle mafie di ogni tipo e di ogni provenienza, sempre interessate a qualunque fonte di arricchimento, con strumenti leciti o illeciti.

Fruttuosa perché i dati acquisiti nel corso della missione hanno delineato un quadro chiaro delle problematiche in gioco ed un altrettanto chiaro quadro delle possibili soluzioni.

L’area metropolitana di Milano è il territorio più ricco ed economicamente sviluppato d’Italia: le 338.659 imprese attive nel 2007 costituiscono circa il 42% delle imprese lombarde e il 6,5% delle imprese italiane. Anche il reddito disponibile pro capite si attesta su livelli molto alti (21.660 euro) e lo stesso dicasi per i consumi finali interni pro capite (19.392 euro).

La leadership nel settore economico del territorio milanese è confermata dai dati relativi alla produzione di ricchezza: nel 2007 l’area metropolitana di Milano ha generato un Pil di 153.384,8 milioni di euro (pari a circa il 10% del Pil nazionale), con una quota di Pil pro capite di 39.557,08 euro. “Non stupisce, pertanto, che il territorio milanese, come tutte le aree produttive del Paese - si legge nella relazione -  sia obiettivo privilegiato di espansione e radicamento di strutture associative di tipo mafioso, che tendono sempre di più ad infiltrare la attività produttive, economiche, imprenditoriali sane, per reinvestire (e così riciclare) attraverso l'uso di strumenti economico-giuridici "puliti" e formalmente legali - capitali provento di attività illecite”.

Le imprese non hanno difficoltà di accesso al credito, atteso che hanno un surplus di liquidità, ovviamente di provenienza illecita; non hanno difficoltà a superare concorrenti o ad imporsi nei rapporti commerciali, anche senza l'uso della violenza ma con la semplice "spendita del nome mafioso"; hanno facilità a trovare manodopera senza incorrere in episodi di conflittualità sindacale, potendo contare su un notevole numero di soggetti disposti a lavorare per essa e potendo vincere le resistenze dei contraddittori con metodi eterodossi).

Negli ultimi anni molte cosiddette "grandi opere" sono state progettate, finanziate e poste in esecuzione nella regione Lombardia: sistemi stradali come l'Autostrada Pedemontana e l'Autostrada Brescia-Bergamo, la Tangenziale Est esterna di Milano, il Raccordo Autostradale della Valtrompia; sistemi ferroviari quale l'Alta velocità ferroviaria Torino-Lione.

Certamente, però, il grande evento è rappresentato dall'Expo 2015, assegnato dal Bureau International des Expositions proprio a Milano. Come vero e proprio traino, l'Expo comporta da solo la realizzazione di ben 17 grandi opere infrastrutturali connesse (viarie, ferroviarie e metropolitane, contemplate o direttamente indicate nel dossier di candidatura), alcune delle quali sono in realtà opere già avviate indipendentemente dall'Expo e poi rifinanziate con i fondi stanziati per la manifestazione internazionale.

L' elenco delle opere previste fa percepire concretamente che è in arrivo su Milano una marea di denaro pubblico, stimato fino a 25 miliardi tra opere e costi diretti (ossia creazione degli spazi espositivi e gestione, che rappresentano tuttavia la voce minore, pari a circa 4 miliardi) e costi indiretti (infrastrutture connesse). “Per questo l'Expo 2015 – afferma la Commissione parlamentare antimafia - rappresenta una vera e propria emergenza di legalità per i concreti e notevoli rischi di infiltrazione delle imprese mafiose nelle procedure di aggiudicazione ed esecuzione dei lavori, come confermato dall'emanazione da parte del Governo di un decreto-legge che ha esteso all'Expo milanese la normativa di verifica e di prevenzione antimafia già utilizzata per prevenire infiltrazioni di tipo mafioso nelle opere di ricostruzione in Abruzzo”.

Per ora mi fermo qui.

r.galullo@ilsole24ore.com

3 – to be continued (la prima puntata è stata pubblicata ieri 26 gennaio, la seconda oggi)

P.S. Potete acquistare il mio libro: “Vicini di mafia – Storie di società ed economie criminali della porta accanto” online su www.shopping24.ilsole24ore.com con lo sconto del 10% e senza spese di spedizione


Titolo: GALULLO. - San Marino come Scampia: ...
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2012, 11:55:37 am
30 gennaio 2012 - 8:51

Criminal mind/4

San Marino come Scampia: propositi omicidi e minacce ai bambini per costringere i padri a cedere ai ricatti!

C’è un altro aspetto che mi ha colpito molto dell’operazione “Criminal mind” della Procura e della Guardia di finanza di Rimini (rimando ai precedenti post in archivio). Un altro dettaglio, oltre a quelli già evidenziati nei giorni scorsi, che “racconta” ancora la pericolosa china nella quale sta scivolando San Marino. Un aspetto già portato alla luce dai bravi colleghi dell’Informazione, quotidiano sammarinese, che è degno di essere riproposto ad una platea ampia.

L’episodio coinvolge uno degli arrestati, il napoletano Riccardo Ricciardi, secondo il quale, per come si legge nell’ordinanza, l’imprenditore sammarinese Claudio Vitalucci aveva un debito con la Finanziaria Fingestus per 8,5 milioni. Di tale somma aveva (avrebbe perché ovviamente le indagini non sono certo esaurite) restituito solamente 110 mila euro in quanto non aveva neppure sbloccato un non meglio precisato libretto di deposito che aveva consegnato a garanzia dell’esatto adempimento delle obbligazioni assunte con la Finanziaria sammarinese.

La sintesi riepilogativa con cui si chiude la conversazione (di cui, in parte, darò ora conto) “illuminava” secondo  i pm i definitivi contorni della vicenda estorsiva: Vitalucci tramite una sua società, aveva venduto a Petra Immobiliare Spa (società controllata dal Gruppo Karnak), un immobile per una somma nell'ordine di circa 4 milioni di euro, ma che a dire di Vitalucci aveva un valore immobiliare nettamente superiore, stimato da un suo consulente intorno agli 8 milioni di euro. Vitalucci pretendeva dunque i 3 milioni quale differenza del prezzo.

In una girandola di telefonate da perderci la testa, ad un certo punto l’imprenditore sammarinese Marco Bianchini, ex presidente del cda di Fingestus e socio Karnak, ribadisce a Ricciardi di essere vittima di un tentativo di estorsione: "Lo lo so… io lo so già, io sono oggetto di una estorsione per cui ne abbiam già parlato, io non ...".

Ricciardi ne è consapevole e per questo motivo lo avrebbe protetto: “ Perfetto! Allora siccome io so benissimo. sto al tuo fianco. non mi sono spostato, perché io potevo benissimo dire ''Andatevi a prendere il signor Bianchini e ammazzatelo, visto che vi state atteggiando tanto!" ma posso fare anche al contrario!"

Io qui mi fermerei un attimo perché non so se è chiaro quel che dice (o spaccia e millanta) Ricciardi: vale a dire la possibilità, la capacità o la volontà di ordinare ad altri (chi?) un omicidio. Ma lui questo – che millanti o meno non è compito mio appurare - non lo fa e si schiera al fianco dell’imprenditore.

Bianchini, almeno secondo quanto ricostruiscono i pm, sapeva di essere in pericolo di vita e lo si capisce da questo stralcio intercettato: "Si. ma io... ma che mi ammazzino!”  Se non è uno sfogo è la consapevolezza che non si scherza con il fuoco.

Ricciardi intanto ribadisce l’ammontare del debito di Vitalucci e sottolinea che allo stesso erano state riconsegnate anche le caparre confirmatorie. Ecco cosa dice: "E pagherà! Vitalucci si deve andare avanti come si sta andando avanti  molto semplice, per vie legali. lui deve dimostrare davanti a delle persone e deve dire "Non ci saranno venti discussioni o alterazioni, o si o no!" se le carte dicono "Hai mai pagato ... "quante ... allora quante rate ci sono tra la casa e il capannone? Da quanti anni ce l'hai? Da due anni? Quanto hai pagato su 10 milioni di euro di rate? 110.000 euro? "Scusa un attimo. Su 8 milioni di euro di rate hai pagato 110 mila euro, hai avuto anche le caparre confirmatorie indietro? Apposto, cosa minchia vuoi di più”!".

Ricciardi è sicuro che Vitalucci pagherà, Lo stesso Ricciardi che ancor più sicuro dirà: “Con la legge, non per quello che la gente dice e l'ennesima dimostrazione che Marco Bianchini e i suoi collaboratori visibili e non visibili non fanno gli stronzi, perché non ci chiamiamo Benito Rese che siamo a società con i Casalesi e abbiamo mandato ... noi non abbia... tu non li sei mai permesso di andare a dire o dire e andare vicino a qualcuno a dire "Mi vai a picchiare i figli di Benito... del fìglio di Benito Rese", lui ti voleva fare a menare i fìgli tuoi' che hanno l'età dei figli miei, eh! Cioè stiamo parlando di bambini di otto e sei anni che la registrassero la telefonata, che la registrassero la telefonata, ma io non posso avere delle persone a me estremamente care a repentaglio per colpa di un pezzo di merda come Della Vedova che butta la pietra e nasconde la mano ".

Ecco questo – ripeto anche qui: sempre che non si tratti di millanterie – sarebbe davvero uno spaccato di intimidazioni che avvengono (avvenivano) perlopiù al Sud: la minaccia di picchiare i figli per portare a più miti consigli i padri!

Ricciardi e Bianchini sapevano che Vitalucci era fallito e per questo il primo afferma: "Se io stipulo con te un contratto, questo e quest'altro, allora gli assegni sono risultati tutti indietro e ci sono stati problemi, e uno, lo sconto assegni, quest'altro la casa questo, quest'altro questo, fino adesso tu hai pagato una rata di 110.000 euro, va bene, e hai avuto indietro una parte di una fideiussione bancaria, i 110.000 euro ne hai avuti 60.00.0 i...” Bianchini risponde: “E' tutto, è tutto scritto”. Di nuovo Ricciardi: “Caparra confìrmatoria, fammi capire come cazzo tu devi avere 3 milioni, sono io che t'ho ridato i soldi per riprendere aria”. Bianchini è d’accordo: “Si, si, si “ e Ricciardi: “Sperando che eri un uomo”

A presto.

4 – the end (le prime tre puntate sono state pubblicate il 18, 19 e 20 gennaio)

r.galullo@ilsole24ore.com

da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/01/criminal-mind4-san-marino-come-scampia-propositi-omicidi-e-minacce-ai-bambini-per-costringere-i-padr.html


Titolo: IL RACCONTO di ENRICO DEAGLIO. Tangentopoli, Falcone e Borsellino 1992 ...
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2012, 11:17:15 am
IL RACCONTO di ENRICO DEAGLIO

Tangentopoli, Falcone e Borsellino 1992, l'anno che cambiò l'Italia


Tutto accade vent'anni fa, quando una serie di eventi cambiarano il volto del nostro Paese. Prima la sentenza del maxiprocesso contro la Mafia. Poi l'uccisione di Salvo Lima e la stagione delle grandi stragi di Cosa Nostra.

Negli stessi giorni, a Milano, Mario Chiesa intascava tangenti, Di Pietro lo covinse a confessare e il 'mariuolò fu arrestato.

Poi ci fu il boom della Lega e, due anni dopo, Berlusconi scese in campo. Così finì un epoca e si affermò l'idea che fosse una rivoluzione
Il 1992 - giusto vent'anni fa - fu l'anno che cambiò l'Italia. Davvero. Ma non fu una rivoluzione, gli italiani non fanno rivoluzioni. Tutti coloro che all'epoca avevano l'età della ragione ricordano quell'anno, se lo vedono balzare di fronte alla memoria. Le serate passate alla tv per sapere in diretta chi era stato arrestato a Milano: un mondo politico che sembrava immortale che crollava sotto i nostri occhi. E poi le bombe: tutti ci ricordiamo dove eravamo quando qualcuno ci disse che era stato ucciso Falcone. E Borsellino? Eravamo già in vacanza, mi sembra... Comunque, faceva molto caldo.

Subito dopo vennero le immagini dell'esercito italiano in Sicilia: ufficiali con le mimetiche e i Ray-Ban a specchio, a mezzo busto fuori dalle torrette dei blindati, in mezzo a sacchi di sabbia, palazzi di tufo, bambini curiosi: andavamo a mettere mano su una colonia irrequieta. Alla fine dell'anno il governo operò un improvviso e non indifferente prelievo dalle tasche di tutti, per evitare all'Italia di fare la fine dell'Argentina (vent'anni fa la Grecia si chiamava così).

Eppure quando cominciò, il 1992 sembrava tranquillo, ancorché "bisestile". Il solito rissoso governo pentapartito guidato dal solito Giulio Andreotti; un ex Pci sempre più diviso in due dopo la caduta del Muro, grande successo per la canzone di Battiato, Povera patria, schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame... La normalità di un Paese ricco, insomma. E invece, la cronaca prese il sopravvento. A dare inizio alla valanga fu la pubblicazione, il 30 gennaio, della Sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione nel maxiprocesso contro Cosa Nostra. Era la più grande mazzata che la mafia avesse mai avuto nella sua storia: 360 condanne, 19 ergastoli da scontare in carceri di massima sicurezza, sequestro delle ricchezze accumulate con il delitto. Poteva essere la fine della nostra vergogna nazionale, ed invece la storia ricominciò proprio da lì. Guidata da Salvatore Riina e da Bernardo Provenzano - due contadini semianalfabeti del paese di Corleone, latitanti da decenni - Cosa Nostra passò all'attacco.

Il primo a cadere (a Palermo, il 12 marzo) fu l'eurodeputato Salvo Lima, braccio destro di Giulio Andreotti in Sicilia, il suo granaio elettorale. Freddato sul lungomare di Mondello da due killer in motocicletta: inaudito. E successe un fatto strano: nonostante fosse un uomo potente, solo il suo capo, Andreotti, scese a Palermo per i funerali: tutto il restante mondo politico disertò, annusando l'aria che tirava. Giovanni Falcone, il magistrato che aveva sconfitto Cosa Nostra nel maxiprocesso, capì immediatamente quello che stava succedendo: Cosa Nostra aveva avuto assicurazioni politiche su una sentenza favorevole; non l'aveva ottenuta e si stava vendicando. Non solo, andava alla ricerca di un altro referente politico. Si preparavano tempi di guerra.

Negli stessi giorni, qualcosa di grosso stava maturando nella capitale morale, Milano. Una signora divorziata, tale Laura Sala, si era rivolta al giudice perché l'ex marito, l'ingegner Mario Chiesa, personaggio in ascesa della nomenclatura socialista meneghina, presidente del benemerito Pio Albergo Trivulzio (vanto dell'assistenza sociale), le passava poco di alimenti. E dire che era ricchissimo. Guarda, guarda, pensarono i carabinieri. Che furono molto zelanti e arrestarono Mario Chiesa, il 17 febbraio, mentre intascava una tangente di sette milioni e altrettanti li stava eliminando nel water. La pratica era seguita da un pubblico ministero sconosciuto, un ex poliziotto molisano, tale Antonio Di Pietro, 42 anni, sanguigno e dal linguaggio colorito, di simpatie democristiane, e che indossava improponibili cravatte di pelle. Di Pietro convinse Mario Chiesa a confessare.

E così si scoperchia la più grossa storia di corruzione della Repubblica italiana, passata alla storia come "Tangentopoli " (una specie di Paperopoli di Walt Disney); o "Mani pulite". Ogni giorno qualche pezzo grosso finisce nel carcere di San Vittore; ogni giorno qualcuno denuncia qualcun altro; gli industriali raccontano che non possono lavorare se non danno il 5-10 per cento ai partiti. Il procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, affianca altri due magistrati a Di Pietro; Gherardo Colombo (che dieci anni prima aveva scoperto l'esistenza della P2) e Piercamillo Davigo, un forte conoscitore del codice. Il neonato Tg4, diretto dal giornalista ex Rai Emilio Fede, ha l'idea di piazzare un telegiornale in diretta dal Palazzo di giustizia, per dar conto di arresti e confessioni. E le notizie non mancano: crollano dirigenti politici cittadini, regionali, nazionali di quasi tutti i partiti; affondano la Dc e il Psi, vengono ridotte a zero antiche e storiche formazioni come il Pli e il Pri, e più recenti come il Psdi; rimane un po' contuso, ma sostanzialmente salvo il Pds, erede del Pci; estraneo solo il Msi, perché piccolo ed escluso dalla torta degli appalti. Gli italiani fanno un corso accelerato di procedura penale: imparano che cos'è un avviso di garanzia, le differenze tra pm e gip, quella strana cosa che si chiama concussione. La satira di ispirazione comunista raggiunge il suo apice quando può pugnalare i compagni alleati. Settimanale Cuore, titolo a tutta pagina: "È scattata l'ora legale, panico tra i socialisti".

Il 7 aprile si va alle urne: la Dc perde due milioni di voti, il Psi se la cavicchia, il Pds di Achille Occhetto è ridotto al sedici per cento dei consensi. Il bottino è della Lega lombarda di Umberto Bossi, che conquista tre milioni di voti (nel giro di cinque anni questo partitino ha moltiplicato per trenta il suo elettorato in Lombardia e Veneto). L'ideologo della Lega è un vecchio professore universitario, Gianfranco Miglio, che ama vestirsi come un borghese sudtirolese nei giorni di festa, tutto loden e cappellini. La sua proposta è netta: l'Italia va divisa in tre regioni, Padania, Etruria e Mediterranea, e aggiunge che quest'ultima andrebbe governata direttamente dalla mafia, dato che esprime la migliore classe dirigente.

Il 25 aprile, con un interminabile messaggio televisivo (45 minuti), si dimette, con sei mesi di anticipo, Francesco Cossiga, ottavo presidente della Repubblica. Negli ultimi anni del suo mandato si era reso famoso per le sue esternazioni; proclami populistici, attacchi, spesso oscuri, a magistrati, minacce di rivelazioni di segreti di Stato si accompagnavano alla difesa di massoni e carabinieri, dei quali ultimi il presidente invocava una maggiore presenza nella vita pubblica. Di lui si diceva che era pazzo; il bello era che lui confermava.

E così arriviamo alla primavera del 1992. Le elezioni per il nuovo presidente (in genere più lunghe di un conclave vaticano) sono fissate per il 13 maggio. Il favorito dai bookmaker è la vecchia volpe Giulio Andreotti, anche se segnata dal delitto siciliano. Il 23 maggio è un giorno come gli altri. I milioni di appassionati di ciclismo aspettano l'inizio del Giro d'Italia scommettendo su Chiappucci contro il favorito Indurain; gli appassionati di politica seguono le elezioni presidenziali che si trascinano da dieci giorni (Forlani, l'ex pallido segretario della Dc era sembrato farcela, ma Andreotti è pronto al balzo finale). Quasi nessuno presta attenzione a un dispaccio dell'agenzia Agir datata 22 maggio (Agir è una delle decine di foglietti del sottobosco politico romano), diretta da Vittorio Sbardella, potente ex andreottiano. Questi prevede uno stato di improvvisa emergenza per un "bel botto esterno, qualcosa di drammaticamente straordinario". Alle 17.55 questo avviene.

L'autostrada Palermo Punta Raisi, in località Capaci, si solleva come un muro di fuoco al passaggio del convoglio che trasporta il giudice Giovanni Falcone. Nel più grande attentato mai visto in Europa dalla fine della guerra - 800 chili di esplosivo in un canale di scolo, un telecomando azionato a 400 metri di distanza - muoiono Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, gli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo. Si salva l'autista Giuseppe Costanza e la sua vicenda chiama in causa l'esistenza del Fato. Falcone aveva chiesto di guidare "per rilassarsi" Costanza si era seduto sul sedile posteriore, nel posto che sarebbe stato del giudice (se fosse rimasto alla guida, la Storia sarebbe cambiata). Nella notte, il centro di Palermo si riempie di lenzuola bianche appese ai balconi, "No alla mafia". Il 25 maggio Oscar Luigi Scalfaro, novarese, tradizionalista, democristiano "senza correnti", presidente della Camera, viene eletto nono presidente della Repubblica con 672 voti. La sua prima presenza pubblica sarà a Palermo ai funerali delle vittime di Capaci, in una tremenda tensione emotiva. Quando tutto sembrava essere finito, quando il paese era in vacanza, ecco il 19 luglio, di nuovo a Palermo.

Un'autobomba in una caldissima domenica pomeriggio distrugge la vita del giudice Paolo Borsellino (il magistrato che avrebbe dovuto prendere il posto di Falcone alla guida della Procura nazionale antimafia) e della sua scorta. È a questo punto - quando veramente sembra che l'Italia non esista più - che arriva l'esercito in Sicilia e un ponte aereo trasporta centinaia di mafiosi incarcerati nell'isola di Pianosa, una specie di Guantanamo ante litteram. Ma, davvero, il 1992 non era ancora finito.

Il livello di corruzione che l'Italia politica aveva espresso (tale che nemmeno la magistratura di Milano sembrava comprenderlo appieno); il livello di violenza terroristica che la mafia aveva scatenato; le pulsioni secessioniste di un Nord economicamente annichilito e senza rappresentanza politica; tutto questo ebbe il suo esito nella più grave crisi finanziaria italiana dal dopoguerra, prima dell'attuale. I Bot non venivano sottoscritti, la Banca d'Italia riusciva, ma solo con l'esborso di 40.000 miliardi, ad impedire il crollo della nostra moneta. Toccò al governo di Giuliano Amato (il socialista che era succeduto a Giulio Andreotti) imporre, in una notte, un prelievo forzoso da tutti i conti correnti; toccò ai sindacati firmare un accordo in cui rinunciavano per due anni ad aumenti salariali e alla indicizzazione della scala mobile. La lira, svalutata del 7 cento, ridiede così un po' di competitività alle esportazioni e ci salvò dal baratro. Ad ottobre, il grande pentito di mafia Tommaso Buscetta - ormai una specie di oracolo - tornò dagli Stati Uniti per annunciare anche agli italiani quello che aveva già detto dieci anni prima all'Fbi; e cioè che Giulio Andreotti era il capo politico di Cosa Nostra.

Il 3 dicembre il magistrato Domenico Signorino, uno dei giudici che aveva retto l'accusa contro Cosa Nostra al maxiprocesso di Palermo, si suicidò, dopo essere stato accusato di essere al soldo della mafia. Il 15 dicembre il segretario del Psi, Bettino Craxi ricevette l'avviso di garanzia che determinò la sua fine politica e personale (pochi mesi dopo, partendo per la Tunisia, dichiarò: "Non starò qui a prendermi le bombe"). La Democrazia cristiana, da sempre il partito di riferimento degli italiani, nello stesso periodo cessò, anche formalmente, di esistere. Alla vigilia di Natale, Bruno Contrada, il capo dei nostri servizi segreti con competenza sulla Sicilia, fu arrestato con l'accusa di avere protetto, per anni, la mafia. E, finalmente, l'anno finì.

Il 1993 sarebbe stato ancora più drammatico e violento. Si aprì con l'arresto spettacolare di Salvatore Riina (il latitante imprendibile viveva da sempre e tranquillamente a casa sua a Palermo, con moglie e quattro figli; e la sua cattura - oggi si sa - fu una colossale farsa); continuò con l'incriminazione di Andreotti per mafia; i suicidi eccellenti (il potentissimo presidente dell'Eni Gabriele Cagliari e il più ricco industriale italiano, Raul Gardini); fu costellato dalle tremende bombe mafiose di Firenze, Roma e Milano e terminò con la più inattesa delle novità: la discesa in campo in politica di Silvio Berlusconi, uno dei pochissimi industriali milanesi che era passato indenne dalle inchieste di Mani pulite, e che godeva di solidi appoggi finanziari nella Sicilia di Cosa Nostra. Il suo (imprevisto) dominio sull'Italia è durato diciassette anni. Un altro beneficiato dagli eventi fu il magistrato Antonio Di Pietro, che divenne prima un "eroe italiano", poi un uomo politico di una certa importanza che dura tuttora. La cronaca è il racconto degli avvenimenti così come si susseguono nel tempo. La storia è il senso di quegli avvenimenti. Ma purtroppo, il "senso di quel 1992" ancora non lo conosciamo.

La magistratura di Milano salvò il Pci-Pds? Bettino Craxi (il cattivo numero uno dell'epoca) fu affossato perché si era opposto agli americani ai tempi di Sigonella? Cosa Nostra determinò l'eliminazione di Andreotti dalla competizione per il Quirinale? Paolo Borsellino fu ucciso perché si era opposto ad una trattativa tra lo Stato e la mafia? Marcello Dell'Utri, il fondatore del nuovo partito di Forza Italia, agiva come emissario di Cosa Nostra? La Lega e Cosa Nostra perseguivano l'obiettivo comune della divisione dell'Italia? O gli avvenimenti si susseguirono senza alcuna regia? Ognuno metta in una busta la sua spiegazione. La verità - ma solo almeno tra cinquant'anni - sarà premiata dalle autorità competenti. Nel frattempo, in occasione del ventennale, ricordiamo commossi il 1992, gli eroi uccisi, l'indignazione popolare, la società civile, l'anelito risorgimentale. E pazienza se la corruzione e la mafia sono più forti di venti anni fa.

09 febbraio 2012
© Riproduzione riservata

da - http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/il-venerdi/2012/02/09/news/tangentopoli_falcole_e_borsellino_1992_l_anno_che_cambi_l_italia-29595651/?inchiesta=%2Fit%2Frepubblica%2Frep-it%2Finchiesta-italiana%2F2012%2F02%2F09%2Fnews%2Fl_anno_che_cambi_l_italia-29612940%2F


Titolo: ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO. Così un accordo salvò ministri e politici
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2012, 05:07:19 pm
LA TRATTATIVA

di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO

La lista nera che spaventò lo Stato

Così un accordo salvò ministri e politici


Dal 2009 si indaga su "strategie destabilizzanti" ed "eventi omicidiari" che nel 1992 avrebbero potuto insanguinare il Paese. Secondo i magistrati, la trattativa tra Stato e mafia non è dipesa da Totò Riina, ma dalla volontà di evitare episodi stragisti, assassinii e sequestri di leader di partito e di governo: da Andreotti a Mannino, da Vizzini a Martelli, ecco chi era nel mirino delle cosche. I segreti di quei giorni in un documento del Viminale
PALERMO - Oggi sappiamo perché, al tempo delle stragi, c'è stata una trattativa con la mafia. Sappiamo che non l'ha voluta Totò Riina, ma l'ha voluta lo Stato: per salvare la vita di alcuni uomini politici. Erano in una lista nera. Un elenco di ministri.  E fra loro c'era anche - come riportava una nota del Viminale alla fine dell'inverno 1992 - quello che veniva considerato "il futuro presidente della Repubblica", ossia Giulio Andreotti.

Dopo diciannove anni avvolti nell'omertà e nei depistaggi, su quel patto segreto i procuratori di Palermo stanno seguendo una pista che porta dritta a una conclusione: dopo l'uccisione dell'eurodeputato siciliano Salvo Lima e dopo quella del giudice Giovanni Falcone, qualcun altro era finito nel mirino dei Corleonesi e così ha ordinato - a uomini di fiducia dei reparti investigativi - di agganciare i boss per fermare i sicari e salvarsi la pelle. Pezzi da novanta della politica che i mafiosi, a torto o a ragione, consideravano "traditori". Amici o complici che non avevano rispettato accordi antichi, gente che in passato (nel migliore dei casi) si era presa i voti di Cosa Nostra e poi aveva voltato le spalle dimenticando tutto.

La lista nera che hanno ricostruito i magistrati siciliani è il risultato di una lunghissima attività istruttoria iniziata nella primavera del 2009 e che è stata completata con l'acquisizione, un mese e mezzo fa, di un documento del ministero dell'Interno su "strategie destabilizzanti" e "eventi omicidiari" che nel 1992 avrebbero insanguinato il Paese. Il documento - di cui leggerete alcuni stralci qualche riga più sotto - è diventato pubblico il 10 ottobre scorso, depositato dai pm al processo contro il generale Mario Mori, accusato di avere favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Un dibattimento che è diventato, di fatto, un "pezzo" della trattativa fra Stato e mafia.

...

Ma torniamo all'elenco dei bersagli della mafia scoperti dagli investigatori. Si apre con quello che era allora il ministro per gli Interventi Straordinari per il Mezzogiorno, Calogero Mannino, un ras in Sicilia. E poi Carlo Vizzini, palermitano, ministro delle Poste e Telecomunicazioni. Il ministro della Giustizia Claudio Martelli, che da poco più di un anno aveva chiamato accanto a sé Giovanni Falcone come direttore generale degli Affari penali al ministero di via Arenula. E Salvo Andò, catanese, socialista craxiano, ministro della Difesa. C'era anche Sebastiano Purpura, un politico siciliano che diciannove anni fa era assessore regionale al Bilancio e soprattutto era un fedelissimo di Salvo Lima.

Sono loro i primi nomi che compaiono nell'indagine dei magistrati di Palermo. L'inchiesta sulla trattativa sembra arrivata a una svolta decisiva. Dalla montagna di carte - centinaia di interrogatori, confronti all'americana, deposizione di pentiti, sequestro di atti - sul negoziato cominciato subito dopo la strage Falcone e poco prima della strage Borsellino è affiorato il "movente", probabilmente è stata individuata la ragione che ha portato uomini degli apparati ad avvicinare personaggi come l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino e che ha convinto successivamente lo stesso Totò Riina a scrivere il "papello", quella piattaforma di rivendicazioni giudiziarie e carcerarie in favore di Cosa Nostra da sottoporre allo Stato. Sconti di pena, revisione del maxi processo, abolizione del carcere duro in cambio del silenzio delle armi.

Il filo che seguono i pm siciliani - indagano Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Paolo Guido - parte dagli omicidi Lima e Falcone. Lima, uomo vicino a Cosa Nostra e vicerè siciliano di Giulio Andreotti, viene ucciso il 12 marzo 1992 fra i vialetti di Mondello. Colpito alle spalle, proprio come un traditore. Fatto fuori dai Corleonesi perché "non ha rispettato i patti". In sostanza, Lima paga il conto per non avere più "garantito" Cosa Nostra, in particolare muore "per non essere riuscito a far aggiustare il maxi processo in Cassazione".

L'omicidio Lima cambia per sempre la storia di Palermo e fa saltare tutti gli equilibri politici in Italia. Il primo che paga un altro conto - che poi è sempre lo stesso - è Giulio Andreotti, presidente del Consiglio per la settima volta in quel 1992 e in pole position per l'elezione di fine primavera alla Presidenza della Repubblica. Ma il delitto Lima lo "brucia", gli sbarra per sempre la strada per il Quirinale, dove il 24 maggio - dopo tante fumate nere e a ventiquattro ore dalla strage di Capaci - salirà Oscar Luigi Scalfaro.

E' comunque già all'indomani del delitto Lima che il ministero dell'Interno, a firma del potentissimo capo della polizia Vincenzo Parisi, dirama un telegramma di due pagine indirizzato a tutti i prefetti e a tutti i questori, all'alto commissario per la lotta alla mafia, al direttore della Dia, ai capi del servizio segreto civile e a quello militare "e per conoscenza al comando generale dell'Arma dei carabinieri e al comando generale della Guardia di finanza". Porta la data del 16 marzo del 1992, appena quattro giorni dall'omicidio di Palermo. Il capo della polizia cita alcune fonti che annunciano "nel periodo marzo luglio corrente anno, campagna terroristica con omicidi esponenti Dc, Psi et Pds, nonché sequestro et omicidio futuro presidente della Repubblica. Quadro strategia comprendente anche episodi stragisti". Più avanti il telegramma di Parisi invita "at più attenta vigilanza" per il ministro Calogero Mannino e per il ministro Carlo Vizzini.

Quello di Parisi non è un "avviso" di routine. Ed è subito evidente. Passano altri quattro giorni e il ministro dell'Interno Vincenzo Scotti riferisce di "un piano destabilizzante" in un'audizione alla commissione Affari Costituzionali del Senato. Ma tutti danno addosso a Scotti. Non gli credono. C'è anche una misteriosa fuga di notizie sul telegramma di Parisi e salta fuori il nome di una delle "fonti confidenziali" che segnala gli attentati: è un detenuto, tale Elio Ciolini, con un passato di depistatore e calunniatore. Ciolini in quel momento è nel carcere di Sollicciano, dove sconta una pena a nove anni per false rivelazioni sulla strage alla stazione di Bologna. Tutti dicono che è un bluff. Tutti tranne il ministro Scotti e il capo della polizia Parisi che nel suo dispaccio scrive di "fondati indizi sull'esistenza di un progetto di destabilizzazione del sistema democratico del nostro Paese". Probabilmente Parisi, oltre a Ciolini, ha altre "fonti". Ma il suo allarme cade incredibilmente nel vuoto.

Il presidente del Consiglio Andreotti si precipita a parlare "dello scherzo di un pataccaro", il presidente della Repubblica Cossiga ridimensiona il pericolo. In quegli stessi giorni qualcuno, sfidando un imponente servizio di sicurezza, entra nello studio romano del ministro Scotti in via Pietro Cossa, a Prati, e mette a soqquadro tutto senza rubare nulla. Un avvertimento. Come siano andate le cose poi, è noto. Dopo Lima, il 23 maggio 1992 c'è la strage di Capaci. Dopo Falcone, il 19 luglio 1992, c'è la strage di via Mariano D'Amelio. E' fra Capaci e via Mariano D'Amelio - ne sono convinti i procuratori di Palermo - che inizia la trattativa fra Stato e mafia. Paolo Borsellino ne viene a conoscenza, si mette di traverso e lo uccidono.

Alcuni di quegli uomini politici indicati nella lista dei pm siciliani sono sempre più spaventati, prendono contatti negli stati maggiori dei reparti investigativi e qualcuno trova il modo di "dialogare" con Cosa Nostra. Prima con l'ex sindaco Vito Ciancimino, poi con altri personaggi che sono ancora nell'ombra. Ma nei giorni e nei mesi successivi accade molto altro, fra Roma e Palermo. Vincenzo Scotti, che l'8 giugno insieme al Guardasigilli Martelli firma un decreto (il 41 bis) per il carcere duro ai mafiosi, a inizio luglio è improvvisamente dirottato alla Farnesina e il suo posto all'Interno è preso da Nicola Mancino. Neanche un anno dopo Giulio Andreotti finisce sotto processo per mafia, e alla fine si salverà con una prescrizione. Totò Riina viene venduto e catturato in circostanze misteriosissime nel gennaio 1993. E così Cosa Nostra, senza più delitti eccellenti, assicura allo Stato italiano una lunga stagione di "pace". Tutti gli uomini politici di quella lista nera sono vivi. E scomparsi dalla grande scena politica.


16 ottobre 2011
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Titolo: SALVO PALAZZOLO. Con le cosche un patto in tre fasi.
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2012, 11:57:40 pm
Ciancimino, Dell'Utri e gli ex ministri i 12 indagati per la trattativa Stato-mafia

Con le cosche un patto in tre fasi.

Chiuse le indagini, le responsabilità di Ros e polizia

di SALVO PALAZZOLO


PALERMO - Dopo quattro anni di indagini, la Procura di Palermo e la Dia ritengono di aver ricostruito i retroscena della trattativa fra uomini dello Stato e i vertici di Cosa nostra. Quel dialogo segreto avrebbe avuto tre fasi: ecco la novità contenuta nell'avviso di chiusura delle indagini firmato ieri dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene. Nel documento non c'è invece la firma di un altro componente del pool, Paolo Guido, che non ha condiviso la sintesi finale dell'inchiesta. L'atto d'accusa della Procura dice adesso che nei primi mesi del 1992, i contatti Stato-mafia sarebbero stati avviati dall'ex ministro Calogero Mannino, che temeva di essere ucciso. I magistrati ritengono che l'esponente democristiano avrebbe messo in allerta gli uomini del Ros, ma avrebbe dialogato anche con alcuni boss, per "avviare una trattativa con i vertici dell'organizzazione mafiosa  -  scrivono i pm  -  finalizzata a sollecitare eventuali richieste di Cosa nostra e far cessare la programmata strategia omicidiario-stragista già avviata con l'omicidio Lima".

LE FASI
Nell'estate 1992, dopo la strage Falcone, i carabinieri del Ros avrebbero poi tentato di fermare la strategia di morte dei corleonesi
iniziando un dialogo segreto con l'ex sindaco Vito Ciancimino. In questi delicati passaggi, l'inchiesta della Procura di Palermo sulla trattativa si interseca con quella di Caltanissetta sul movente della strage Borsellino: è ormai un dato acquisito dalle inchieste che Paolo Borsellino avrebbe saputo della trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia, avrebbe anche tentato di opporsi, e per questa ragione la sua morte sarebbe stata "accelerata", come ha spiegato il pentito Giovanni Brusca.
La Procura di Palermo crede in parte al racconto di Massimo Ciancimino a proposito degli incontri fra il generale Mori e l'ex sindaco Vito Ciancimino: sarebbero avvenuti anche prima della strage Borsellino, circostanza sempre negata dal generale Mori. La Procura è convinta pure che ai carabinieri Mori e De Donno sarebbe stato consegnato, tramite Vito Ciancimino, il papello con le richieste di Totò Riina: era il prezzo che Cosa nostra chiedeva per interrompere la stagione delle bombe. Revoca del carcere duro, revisione dei processi, annullamento dei processi più importanti già conclusi. È un altro dei punti centrali dell'inchiesta, anche questo sempre respinto dai carabinieri.

La terza fase della trattativa sarebbe iniziata dopo l'arresto di Riina, nel gennaio 1992. Secondo la Procura di Palermo, a condurla sarebbe stato Bernardo Provenzano. E dato che Ciancimino era in carcere, la trattativa sarebbe stata portata avanti da un altro colletto
bianco: Marcello Dell'Utri. Scrivono i pm che Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca avrebbero "prospettato al capo del governo in carica Silvio Berlusconi, per il tramite di Vittorio Mangano e di Dell'Utri una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti a Cosa nostra". Sostiene Brusca che una "risposta " sarebbe poi arrivata, sempre per il tramite di Mangano, l'ex stalliere di casa Berlusconi.

GLI INDAGATI
In cima alla lista degli indagati ci sono padrini del calibro di Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca
Bagarella, Giovanni Brusca e Antonino Cinà. Seguono i nomi di rappresentanti delle istituzioni e di politici: Antonio Subranni, Mario e Giuseppe Donno, all'epoca il vertice e l'anima del Ros dei carabinieri; Calogero Mannino era ministro; Marcello Dell'Utri, il braccio destro di Silvio Berlusconi, uno dei padri fondatori di Forza Italia. "Hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato Italiano", recita il capo d'imputazione. "In concorso con l'allora capo della polizia Vincenzo Parisi e il vice direttore generale del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria Francesco Di Maggio, entrambi deceduti".
L'atto d'accusa della Procura prosegue con il nome dell'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: "Deponendo come testimone al processo Mori, in corso al tribunale di Palermo  -  scrivono i pm  -  anche al fine di assicurare ad altri esponenti delle istituzioni l'impunità ha affermato il falso e comunque taciuto in tutto o in parte ciò che sapeva".

CIANCIMINO JR
C'è anche Massimo Ciancimino nella lista dei dodici predisposta dalla Procura: è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, per il ruolo di tramite che lui stesso ha descritto fra il padre e il vertice di Cosa nostra. Il figlio dell'ex sindaco dovrà però rispondere anche di calunnia, per aver accusato  -  "sapendolo innocente ", scrive la Procura  -  l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro, anche tramite un biglietto contraffatto attribuito al padre Vito.
Questi dodici nomi compongono un avviso di chiusura delle indagini, che prelude alla richiesta di un processo. Ma l'inchiesta sulla trattativa non è ancora chiusa: risultano indagati per false dichiarazioni al pubblico ministero l'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, l'ex capo del Dap Adalberto Capriotti e l'europarlamentare Giuseppe Gargani. Come prevede il codice per questo tipo di reato, la loro posizione è al momento sospesa, in attesa della definizione del procedimento principale.

Nell'indagine restano anche le posizioni dell'ex capitano Antonello Angeli e dell'agente dei servizi segreti Rosario Piraino, chiamati in causa da Massimo Ciancimino: il primo, per aver trafugato una copia del papello durante una perquisizione; il secondo, perché sarebbe stato un collaboratore del misterioso "signor Franco", lo 007 che secondo Ciancimino avrebbe intrattenuto i contatti fra la mafia e lo Stato. Ma il signor Franco non si è ancora trovato, e su Ciancimino aleggiano ormai da mesi pesanti dubbi.

(14 giugno 2012) © Riproduzione riservata

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