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Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 137922 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Marzo 19, 2010, 03:56:58 pm »

19/3/2010

Incubo astensionismo
   
FEDERICO GEREMICCA

Se non si fosse di fronte all’ennesimo colpo alla credibilità delle istituzioni e della politica di casa nostra, l’arresto dell’ex vicepresidente della giunta regionale pugliese (a dieci giorni dall’apertura delle urne e a nove mesi dalle sue dimissioni e dall’avvio dell’inchiesta), quest’arresto - dicevamo - potrebbe essere considerato la ciliegina mancante sulla torta di una delle peggiori campagne elettorali che si ricordino.

Una campagna elettorale aperta - di fatto - dallo scandalo che ha investito la Protezione civile e alimentata, via via, da episodi criminosi e vicende nauseabonde che, in alcuni casi, hanno lasciato lettori ed elettori letteralmente di stucco.

Si fa perfino fatica, nel timore di dimenticarne qualcuno, a rielencare fatti e personaggi di questo stillicidio quotidiano. Si è andati dai massaggi in tanga brasiliano somministrati al dottor Bertolaso, ai pugni e ai calci tra ex di Forza Italia ed ex di An nella sede del Pdl milanese; dalla sconcertante vicenda che ha portato in carcere il senatore Di Girolamo, al balletto di corsi, ricorsi e carte bollate intorno alle liste del centrodestra di Roma e della Lombardia; per finire in bellezza - si fa per dire - con le sconcertanti intercettazioni telefoniche intorno ai talk show Rai ed alle pressioni esercitate (ed esercitate perfino nei confronti del comandante generale dell’arma dei Carabinieri...) per ottenerne la chiusura. Un elenco raccapricciante, forse non definitivo (al voto mancano ancora dieci giorni...) e al quale, comunque, si è aggiunto ieri l’arresto di Sandro Frisullo...

Intendiamoci: non che il materializzarsi di indagini e di arresti in campagna elettorale sia una novità per la malandata politica italiana. Ma una novità, stavolta, va segnalata. E riguarda il modo con il quale il Popolo della Libertà sta facendo i conti con i citati avvenimenti: per la prima volta, infatti, la sensazione (confermata dagli ultimi sondaggi) è che l’«aggressione giudiziaria» al Pdl non stia affatto portando vantaggi - come spesso in passato - a Silvio Berlusconi. Anzi. E infatti nel quartier generale del centrodestra è ormai diffusa una palpabile preoccupazione: che l’ultimo mese e mezzo di fango nel ventilatore stia allontanando dalle urne molti potenziali elettori del Pdl.

La maggioranza di governo teme, insomma, una sorta di replica dell’ultimo voto francese, con percentuali di astensione elevatissime e la sconfitta del partito di Sarkozy. Non a caso, ieri è stato un continuo lanciare l’allarme intorno a questo pericolo. Lo ha fatto Berlusconi da Napoli («L’astensione favorisce sempre la sinistra»), lo ha fatto il presidente Schifani («L’astensionismo è un deficit democratico che poi pagano le istituzioni elette»), ma lo ha fatto - soprattutto - Vittorio Feltri, che dalle colonne de «Il Giornale» ha avvisato: «Forse per la prima volta in quindici anni c’è gente che storce il naso e non ha voglia di andare a votare Pdl...».

E’ un allarme che va considerato assolutamente fondato. La via crucis di polemiche, malcostume politico, intercettazioni, inchieste, e tiro al bersaglio contro ogni istituzione di garanzia - dal Quirinale all’Agcom alla Corte Costituzionale - ha fiaccato la resistenza anche dei più ottimisti. La valutazione che comincia ad andare stavolta per la maggiore è la solita: sono tutti uguali. E il rischio è tutto racchiuso in un’affermazione sempre più in voga: stavolta non voto nessuno. Naturalmente, è superfluo dire che l’astensione dal voto non è mai una vittoria per nessuno: né per chi la subisce, né per chi ne è protagonista. Ma a questo assunto democratico, va onestamente aggiunta una valutazione non più contestabile: e cioè che il sistema dei partiti sta davvero facendo di tutto per allontanare i cittadini dal voto. Non è con le lacrime di coccodrillo, natu

ralmente - e tantomeno con gli appelli dell’ultima ora - che è pensabile arginare il rischio di un alto astensionismo. Andrebbe messa in campo - stabilmente - una nuova politica, come ieri ha reclamato la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. Non è cosa che si possa fare in dieci giorni, certo: ma è cosa che il Paese reclama ormai da anni. Anche queste elezioni, invece, si caratterizzeranno come l’ennesima occasione sprecata. Non è affatto un bene: e i partiti, i loro leader e i loro rappresentanti nelle istituzioni farebbero bene a considerare sul serio il rischio che comincia a incombere sul Paese. Sul Paese, prima di tutto. Ma anche sulle loro teste...

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« Risposta #91 inserito:: Marzo 24, 2010, 11:26:26 am »

24/3/2010 (7:16)  - INTERVISTA

D'Alema chiude la porta "Dal premier solo bugie"

«La sua proposta presidenziale è demagogica, nemmeno Fini ci sta»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Gira e rigira tra le mani la copia de La Stampa con l’ultima intervista di Silvio Berlusconi ben richiamata in prima pagina. E però, sistemato dietro la scrivania di presidente del Copasir, Massimo D’Alema - in verità - invece che parlare sembra perplesso: «Vuole che la commenti? Dovremmo parlare dell’ultima esibizione di vitalità del nostro premier, un uomo che a 74 anni sfida ad una gara sui cento metri il suo intervistatore... Il resto, infatti, sono bugie dette con sconcertante naturalezza ed un vuoto assoluto di idee e di prospettiva». Sono le 11 del mattino e D’Alema è in partenza per il Piemonte, dove lo attende una raffica di iniziative in vista di un voto - quello imminente - al quale guarda con ottimismo. «Il messaggio di Berlusconi si è fatto ripetitivo e stanco - dice -. Parla di cose lontane dalle preoccupazioni vere degli italiani, che non vivono certo con l’ossessione dei talk show o del lavoro della magistratura...».

Sarà magari come dice lei, presidente D’Alema: ma il premier sostiene, invece, di esser dovuto scendere in campo anche stavolta proprio per l’attacco che subirebbe dai pm. Lei non ci crede?
«Berlusconi sta solo facendo il solito giochino: che consiste nel tentare di trasformare ogni voto - perfino un’elezione circoscrizionale - in un referendum su di lui. Lo fa anche perché ha poca considerazione dei suoi candidati e del suo partito. Ma è appunto di questo che si tratta: i magistrati sono un pretesto».

Comunque la si giudichi, è però una scelta che in passato spesso lo ha premiato, no?
«Non lo discuto, ma molte cose sono cambiate... La sua coalizione è in crisi evidente. Il suo messaggio si è fatto ripetitivo, il suo egocentrismo è cresciuto a dismisura e sta trasformandosi in un problema serio. Vede, perfino il fatto che un uomo che ormai ha 74 anni trovi offensivo che gli si facciano domande sul dopo, sulla successione, è segno di miopia e di scarso amore verso il Paese».

Evidentemente ritiene di avere energie e idee per andare avanti e fare altro: a cominciare dalla riforma della giustizia, annunciata per dopo il voto. Le pare così strano?
«Sono anni che annuncia cose che poi non fa. Nell’ultimo decennio ha governato per quasi otto anni: perché non ha varato le riforme che promette? Anche sulla giustizia abbiamo avuto leggine e non riforme. Sulle intercettazioni fummo noi a presentare una proposta seria ed equilibrata: non volle nemmeno discuterne. E se ora per riforma intende una norma che ostacoli il lavoro dei magistrati, può star certo che troverà la nostra più ferma opposizione. Inoltre, vorrei far notare con qualche amarezza che il garantismo del nostro premier ha mostrato, in questi giorni e a proposito delle inchieste pugliesi, un volto vergognoso: chiede impunità per sé e persecuzione per i suoi avversari politici».

Vede invece più possibilità di confronto sul piano delle riforme istituzionali? Berlusconi propone l’elezione diretta del premier o del Capo dello Stato: come risponde?
«Che gli ultimi anni hanno dimostrato quanto ci sia bisogno dell’autorità di un Capo dello Stato punto di equilibrio e garanzia per tutti: un presidente della Repubblica eletto nel fuoco di uno scontro elettorale non potrebbe esercitare quel ruolo con autonomia e credibilità. Ma questo è già parlare di merito: mentre è evidente che la proposta di Berlusconi è elettorale e demagogica. Neppure il presidente della Camera, Fini, che pure è sempre stato presidenzialista, lo ha seguito su questo terreno».

E perché non sarebbe seria?
«Ma come si fa a parlare indifferentemente di elezione diretta del premier o del Capo dello Stato, come fossero la stessa cosa? A parte che, nella sostanza, l’elezione diretta del presidente del Consiglio noi l’abbiamo già - visto che sulla scheda elettorale c’è il nome del candidato premier -, non è questo il problema che il Paese ha di fronte. Proprio perché abbiamo un presidenzialismo di fatto, la questione è restituire al Parlamento il suo ruolo legislativo e di controllo, permettendo ai cittadini di scegliere i loro parlamentari. E riducendo il numero degli eletti, a mio giudizio, a tutti i livelli. Anche per ridurre i costi della politica. Tuttavia la difficoltà non è neanche nel merito, ma nella confusione di un premier che sulle riforme costituzionali improvvisa e sembra cambiare idea a seconda delle convenienze».

La sua appare una chiusura totale: eppure proprio lei, dall’esperienza della Bicamerale in poi, è considerato il leader più aperto al confronto con Berlusconi. Tanto aperto da spingersi fino a quelli che sono stati addirittura definiti inciuci...
«La Bicamerale rappresentò un tentativo serio di riforma, che non a caso fu proprio Berlusconi ad affossare. Quanto al resto, si tratta di stupidaggini giornalistiche: io non parlo con Berlusconi che saranno dieci anni, e vorrei che qualcuno mi elencasse gli inciuci che avremmo fatto. Noi siamo una forza riformista e siamo pronti a partecipare alle riforme necessarie per il Paese. Se si accetta come base la cosiddetta bozza Violante, siamo pronti a discutere. Confusi presidenzialismi o norme contro l’indipendenza della magistratura non ci vedono disponibili».

In caso contrario il rischio è che resti tutto così com’è, no?
«Infatti. E sarebbe un danno per il Paese. Negli ultimi 15 anni il nostro bipolarismo, con questa estrema personalizzazione, ha prodotto governi che generalmente non hanno dato buona prova di sé: occorre metterselo alle spalle - cominciando con il cambiare la legge elettorale - e rifondarlo intorno a grandi forze politiche. Il Pd, con Bersani, sta lavorando in questa direzione. Ed è ridicolo raffigurarci come un gruppo estremista nelle mani di Di Pietro. L’alternativa alla quale lavoriamo non è una riedizione dell’Unione ma un progetto riformista intorno a un grande partito di tipo europeo, perché il Paese ha bisogno di una svolta».

Ma rispetto a cosa, presidente D’Alema?
«Rispetto ai risultati prodotti dal nostro anomalo bipolarismo. Ma anche a quanto realizzato da Berlusconi alla guida del Paese. Il solo fatto che continui ad annunciare sempre le stesse riforme, vuol dire che fino ad oggi non le ha fatte. E siamo l’unico Paese occidentale ad avere un premier che - mentre il mondo cambia sotto l’incalzare della crisi e delle novità che produce - è ossessionato dai giudici e dalla tv. Il cosiddetto “governo del fare” si è limitato a propagandare per oltre un anno la rimozione dell’immondizia a Napoli e le case per i terremotati dell’Aquila: ma Napoli è di nuovo circondata dalla “monnezza” e in Abruzzo i cittadini vanno in strada a protestare...».

In questo quadro che risultato elettorale si aspetta?
«Mi auguro un voto che ridimensioni un capo di governo più dedito al culto della sua personalità che impegnato a risolvere i problemi. E mi aspetto un risultato che confermi un equilibrio tra i governi regionali prevalentemente di centrosinistra e il governo nazionale, anche perché questo può spingerlo ad operare meglio. La nostra campagna elettorale sta andando bene, potremo avere un buon risultato. Per quanto riguarda il centrodestra, che è in evidente difficoltà, Berlusconi ha tentato di cambiare il corso delle cose con la manifestazione di sabato scorso: ma la partecipazione è stata quel che è stata, e l’insensata polemica sul numero dei presenti ha irrimediabilmente immiserito l’intera vicenda. Vedremo. Ma quel che è certo è che noi andiamo verso il voto fiduciosi e sicuri di un nostro rafforzamento».

da lastampa.it
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« Risposta #92 inserito:: Marzo 30, 2010, 11:14:28 am »

30/3/2010

Berlusconi batte il non voto

FEDERICO GEREMICCA

E così, nonostante l’astensione che avrebbe dovuto penalizzarlo, le inchieste che lo riguardano, l’esclusione della sua lista nella provincia di Roma ed una certa stanchezza nell’azione del governo, Silvio Berlusconi - un po’ a sorpresa rispetto alle ultimissime previsioni - ha largamente vinto anche questa tornata elettorale. Governava in due sole Regioni (rispetto alle 11 del centrosinistra) e da oggi ne amministra sei.

Conferma, come da pronostico, Lombardia e Veneto; guadagna, come scontato da settimane, Campania e Calabria; ma soprattutto conquista il Lazio - nonostante l’assenza di liste Pdl nella capitale - ed espugna il Piemonte, che da oggi diventa una Regione a trazione leghista.

Il Pd perde ma non frana, confermandosi partito-guida in sette Regioni. All’opposto, il Pdl mette nel carniere quattro nuovi governi regionali, ma ottiene un deludente risultato come partito, arretrando non solo rispetto alle europee di un anno fa ma anche alle elezioni regionali del 2005. E se i risultati dei due maggiori partiti in campo sono in qualche modo in chiaroscuro - e si prestano a esser dunque letti in maniera diversa (in ossequio alla nota filosofia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto) - su un dato non sono possibili divagazioni: e il dato è l’avanzata - l’ennesima - della Lega di Umberto Bossi.

Il fatto che il «partito padano» non abbia sorpassato in queste elezioni il Popolo della libertà, è circostanza francamente marginale. Quel che infatti conta sul serio sono le percentuali bulgare raggiunte in Veneto, l’ulteriore crescita in Lombardia, l’insediamento con consenso crescente in Emilia (il Carroccio è il primo partito perfino nel Comune natale di Bersani...) e soprattutto il fatto che, con un proprio candidato, abbia portato il centrodestra alla conquista del Piemonte. Il partito di Bossi governa ora due tra le più importanti e popolose Regioni del Nord, è già ben insediato alla guida di centinaia di amministrazioni e ora si accinge a chiedere il governo di Milano, e forse non solo di Milano. La lunga marcia dei lumbard dunque prosegue: e in assenza di risposte chiare e forti da parte della politica «romana», non si vede cosa possa fermarla.

E non è solo il radicalismo leghista a uscir premiato dalle urne. Se si guarda infatti a quel che accade nell’altra metà del campo, è possibile osservare un fenomeno analogo. Il «partito giustizialista» di Antonio Di Pietro, infatti, non esce ridimensionato dal voto e, anzi, importa a livello regionale le alte percentuali raggiunte un anno fa alle elezioni europee; le liste «fai da te» messe in campo da Beppe Grillo vanno quasi ovunque oltre il 3%, con punte di oltre il 6% in Emilia; e non può esser senza significato il risultato importante (e senz’altro inatteso) ottenuto da un candidato «radicale» come Nichi Vendola in Puglia e il successo sfiorato da Emma Bonino nel Lazio. Del resto, non si capisce come possa destare sorpresa il fatto che, dopo un anno di pesante crisi economica e con i partiti tradizionali impegnati in furibonde risse su tutt’altro (dalle escort ai processi brevi e alle intercettazioni), oltre la metà degli italiani abbia deciso di non votare o di sostenere forze estreme o radicali.

E al di là di chi ha vinto di più o di chi ha perso di meno, è questa la scoraggiante fotografia che il voto di ieri consegna alle classi dirigenti del Paese: il livello di sopportazione, il livello di guardia, non è lontano. E se l’altissima percentuale di astensioni ne è una spia, sarebbe errato non considerarne un effetto anche quel 20% di consensi distribuiti tra partiti estremi (come la Lega) e movimenti radicali quasi personali (Di Pietro e Grillo). Chi ha memoria, infatti, non può non ricordare come la Prima Repubblica - al di là delle successive inchieste giudiziarie - cominciò a scricchiolare proprio sotto l’incalzare del fenomeno leghista...

E’ giusto, dunque, interrogarsi sul tipo di risposta che sapranno dare a questo evidente disagio i due partiti maggiori, e le dinamiche che il risultato elettorale potrebbe avviare tanto nella coalizione di governo quanto nel fronte dell’opposizione. Ipotizzare una crescita dell’ipoteca leghista sull’esecutivo è fin troppo ovvio: ciò che è ancora difficile da immaginare, invece, è il tipo di risposta che arriverà da Silvio Berlusconi. Così come nient’affatto scontate sono le mosse che deciderà di compiere Gianfranco Fini, sempre più insofferente verso l’ «egemonia» leghista sul governo e segnalato - un giorno sì e l’altro pure - come ormai in uscita dal Pdl. Dopo questo voto, insomma, molto potrebbe cambiare: e onestamente, alla luce di quanto visto negli ultimi mesi, sarebbe davvero opportuno che molto cambiasse...

da lastampa.it
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« Risposta #93 inserito:: Aprile 21, 2010, 07:45:38 am »

21/4/2010

Convergenze parallele

FEDERICO GEREMICCA

Cabina di regia. Consiglio di gabinetto. Diarchia. E, appunto, corrente. Nella ormai trapassata Prima Repubblica, era spesso grazie ad escamotage così che capi di governo e segretari di partito riaggiustavano la rotta.

E tenevano in piedi le rispettive ditte di fronte al profilarsi delle solite - fin troppo solite - tensioni politiche. Erano, il più delle volte, soluzioni a costo zero: nessuno infatti perdeva davvero, tutti potevano sostenere di averla spuntata e così si tirava avanti fino alla successiva - e quasi mai lontana - crisi di governo. Si tratta di alchimie politiche che potevano o non potevano piacere: ma è certo, per dirne una, che mai e poi mai un governo avrebbe rischiato la crisi (o un partito una scissione) solo perchè a qualcuno - nella Dc, nel Psi e perfino nell’allora Pci - veniva voglia di creare, per esempio, una propria corrente.

Nella Seconda Repubblica le cose vanno - e anche qui: può piacere o non piacere - assai diversamente: e bisogna riconoscere (o lamentare) che questo avviene quasi esclusivamente per la presenza in campo di Silvio Berlusconi. Infatti, così come Bettino Craxi non aveva imbarazzi nell’affermare che «quando non si vuole affrontare un problema ci si inventa una bella Commissione» (e anche lui ne favorì non poche...), ugualmente Silvio Berlusconi ripete con un certo orgoglio che «certi termini da Prima Repubblica a me fanno venire l’orticaria». Intendiamoci: non è che a quei tempi l’allora solo Cavaliere non conoscesse (e spesso sfruttasse) le alchimie e i riti di quella politica. Ma una volta al governo, comprensibilmente, la musica è cambiata.

Ed è tanto cambiata non solo al punto che lo scontro tra Berlusconi e Fini ha raggiunto toni francamente incomprensibili, se la questione è la nascita di una corrente: ma fino all’evidenza che il non aver adeguato regole del gioco e istituzioni della Repubblica al nuovo corso politico, ha determinato il proliferare di tensioni talvolta ingovernabili. Riformare funzioni, peso e ruolo di governo, Parlamento, Corte costituzionale e Csm - per dire - è certo possibile (ed anzi auspicabile): quel che appare sempre più traballante è quella sorta di doppio binario - tra Costituzione così com’è e Costituzione «materiale» - lungo il quale la politica e il rapporto tra le istituzioni spesso deraglia fragorosamente.

In fondo - e al di là delle sottaciute questioni di potere - forse è qui il nocciolo vero, la radice del dissidio apertosi tra il presidente della Camera e il capo del governo, con il primo a lamentare la scarsa democrazia interna al Pdl e il secondo a denunciare i limitati poteri dell’esecutivo o, magari, il fatto che alla Camera debbano votare tutti i deputati, mentre si guadagnerebbero tempo e danaro se lo facessero i soli capigruppo... Così come - e la circostanza è assai più seria - è stata spesso oggetto di critiche da parte di Fini la nota insofferenza del premier verso ogni istituzione terza - dal Quirinale alla Corte Costituzionale, fino alla magistratura - che intervenga per richiamare il governo al rispetto delle regole.

Ma se la questione è questa - e cioè una assai diversa concezione non solo della politica ma anche dei rapporti tra poteri dello Stato - è evidente che la crisi apertasi tra i co-fondatori del Pdl potrà anche trovare oggi una soluzione «pacifica», ma è destinata a rimanere irrisolta forse per sempre. Si potrà tentare una qualche forma di coabitazione, Fini e Berlusconi potranno magari provare a smussare alcune asprezze, ma è difficile immaginare per questa storia un epilogo diverso da quello che mise fine all’alleanza tra Berlusconi e l’Udc di Pierferdinando Casini.

Non è detto, naturalmente, che la separazione sia destinata ad avere tempi brevi: al contrario, la coabitazione potrebbe durare ancora a lungo, considerati i prezzi politici e non solo politici che i due leader potrebbero pagare. Impossibile? Nient’affatto. E chissa che non sia proprio dalla trapassata Prima Repubblica che possa arrivare l’ispirazione a restare ancora assieme. In fondo, è questo quel che Aldo Moro - con definizione non dimenticata - auspicò per il rapporto tra Dc e Pci: lo definì «convergenze parallele».

La necessità, insomma, di collaborare e stare assieme pur non amandosi e pur senza incontrarsi mai...

da lastampa.it
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« Risposta #94 inserito:: Aprile 27, 2010, 12:10:21 pm »

27/4/2010

Separati in casa

FEDERICO GEREMICCA

Per un problema tecnico sull’edizione di ieri l’editoriale di Federico Geremicca è uscito incompleto in alcune edizioni. Lo riproponiamo nella sua interezza e ce ne scusiamo con l’autore e con i lettori.


L’appello del Presidente Napolitano affinché le celebrazioni si svolgessero in un clima di serenità; l’invito del premier Berlusconi a far tesoro della libertà e della democrazia riconquistate con la Resistenza; le sollecitazioni e la speranza dell’Anpi, infine, che le manifestazioni non venissero turbate da tumulti e contestazioni. Tutto inutile. Assolutamente inutile. E così, anche questo 25 aprile - non il primo e probabilmente non l’ultimo - finisce in archivio con un bollettino di incidenti indegno della giornata che ricorda e simboleggia la liberazione dell’Italia dal nazifascismo.

Da Catania a Milano, è tutta un’interminabile teoria di contestazioni, diserzioni e incidenti di piazza e diplomatici. I più seri nella capitale, dove la protesta contro la presenza sul palco della neo-governatrice Polverini è culminata in un tiro al bersaglio contro il presidente della Provincia, Zingaretti, colpito da un limone in pieno volto.

Ma aspra è stata anche la contestazione subita, a Milano, dal sindaco Moratti e dal presidente della Provincia, Podestà. Nel capoluogo lombardo, il presidente della Regione, Formigoni, ha addirittura disertato la manifestazione di piazza Duomo con una motivazione che la dice lunga sul clima che si va radicando nel Paese: «Non sarò al corteo per la stesso motivo per il quale il Presidente Napolitano ha preferito commemorare la Liberazione con il momento di sabato alla Scala...».

Protagonisti delle contestazioni - che a Milano non hanno risparmiato nemmeno reduci dei campi di Auschwitz e Treblinka - giovani dei centri sociali e militanti della sinistra più radicale. «Chi semina vento, raccoglie tempesta», ha accusato il leader nazionale dei giovani del Pdci, giustificando - se non rivendicando - l’aggressione di cui sono stati fatti oggetto i presidenti Polverini e Zingaretti. E se non si capisce bene quale vento abbia seminato il presidente Zingaretti, davvero si fa fatica a cogliere il senso di una tempesta (di limoni, insulti e mandarini) in un giorno così.

Da più parti si sottolinea ormai con allarme e frequenza quasi quotidiana il fatto che il Paese stia perdendo coesione sociale. Significa che, dopo l’aggravarsi delle diseguaglianze economiche e il radicarsi di sempre più evidenti divisioni territoriali (tra Nord e Sud) l’Italia rischia di smarrire perfino quel minimo comun denominatore indispensabile a farne un Paese unito. Bisogna dire che la giornata di ieri, con provocazioni e incidenti del tutto inaccettabili, sembra esser appunto arrivata a confermare la fondatezza di quell’allarme.

Eppure era stato fatto di tutto per evitare che anche questo 25 aprile si trasformasse in una giornata da dimenticare. Sabato, a Milano, il Capo dello Stato aveva svolto un discorso tutto centrato sulla necessità di uscire da contrapposizioni pregiudiziali in nome di un’unità d’intenti capace di favorire lo sviluppo del Paese. E ieri Silvio Berlusconi è entrato nelle case degli italiani con un intervento dai toni unitari e pacati, con espliciti inviti alle forze di opposizione affinché partecipino alla riscrittura della seconda parte della Costituzione e non si tirino indietro rispetto all’annunciato processo di riforme istituzionali.

Tutto inutile, come dicevamo. Quel che resta - quel che anzi si rafforza - è infatti una incomunicabilità, una separazione che pare crescere giorno dopo giorno. In molti casi (Milano, Catania, Salerno, Bergamo...) sindaci e presidenti del centrodestra hanno addirittura preferito disertare le celebrazioni del 25 aprile temendo - come purtroppo in molte città è poi accaduto - polemiche e contestazioni. E’ un segnale quanto mai allarmante, perché l’idea che una parte politica (e quindi una parte del Paese) finisca per essere o per sentirsi esclusa da una giornata che - come ha ricordato Napolitano - è anche quella della riunificazione, ecco, tale circostanza non può che esser considerata foriera di divisioni ancor più profonde. Ci potrà guadagnare, forse, qualche «rivoluzionario» di professione. È assai più difficile, al contrario, che possa venirne una spinta positiva e in avanti per il Paese.

da lastampa.it
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« Risposta #95 inserito:: Maggio 14, 2010, 12:22:46 am »

13/5/2010

La promessa mancata di Veltroni
   
FEDERICO GEREMICCA


Alla fine, Walter Veltroni non ce l’ha fatta: e del resto, la promessa era di quelle difficili da rispettare.

Aveva annunciato, più o meno, un lungo periodo di distacco dalla politica, a vantaggio di un più serrato impegno civile e culturale; aveva assicurato agli amici del Pd che non «farò agli altri quello che è stato fatto a me»; e aveva gelato con uno sguardo chi ipotizzava la costruzione di una nuova e più organizzata «corrente» veltroniana. Il «ritiro», però, è durato solo un po’ di mesi: poi, in quel di Cortona, qualche giorno fa, il prevedibile (e temuto) ritorno in campo.

Non c’è da gridare allo scandalo, e nemmeno da restare sorpresi: in un Paese nel quale il ricambio generazionale è una chimera e l’istituto delle dimissioni una strada che ha sempre un ritorno, davvero in pochi avevano creduto che il leader che ha dato faccia e anima alla prima stagione del Pd potesse sul serio uscire di scena. Non è il ritorno in campo, quindi, quel che può stupire: a sorprendere, magari, sono le suggestioni, le idee e il bagaglio politico-programmatico, che hanno accompagnato questo ritorno. Tutto, infatti, rievoca e rimanda alla «bellissima sconfitta» subita da Veltroni e dal Pd appena due anni fa: la vocazione maggioritaria, il valore inviolabile e salvifico delle primarie, il partito leggero (come se l’attuale fosse «pesante»...) e via elencando.

Non è in questione il fatto che questa linea sia stata sconfitta nel Congresso che ha portato Pierluigi Bersani alla segreteria: è piuttosto in discussione la circostanza - evidentemente non trascurabile - che sia uscita battuta dalla contesa elettorale. E se c’è una cosa che appunto sorprende nelle prime mosse del nuovo-vecchio Veltroni, è il fatto che non un aggiustamento di rotta, non una novità teorico-programmatica sia arrivata a correggere o cambiare quel che c’era da cambiare.

Il ritorno di Veltroni, insomma, pare totalmente prescindere da quanto accaduto dalla discesa in campo del Lingotto in poi. Come se il tempo non fosse passato: e infatti, precisamente come se il tempo non fosse passato, il Pd si è ritrovato in un battibaleno aggrovigliato nelle identiche polemiche di mesi e mesi fa. Torna lo scontro sul valore delle primarie, si riaccendono dispute sulla politica delle alleanze e sul carattere del Pd, e sullo sfondo si intravede perfino il riprofilarsi all’orizzonte (per l’ennesima volta) della sfida infinita tra D’Alema e Veltroni. Insomma, punto e a capo: come in un infinito e autodistruttivo gioco dell’oca.

Affari del Pd, si dirà. Ma bisogna onestamente riconoscere che non è precisamente così. In un Paese che lamenta l’assenza di una credibile alternativa di governo (e Dio sa quanto ce ne sarebbe bisogno oggi) quel che accade in casa del maggior partito di opposizione non può esser considerato solo un affare suo. E a maggior ragione non può esserlo in una stagione nella quale il ricambio delle classi dirigenti viene ormai invocato come si invoca un’oasi nel deserto. Bossi impera sul suo partito dalla fine degli Anni 80 e così Fini sul Msi e poi An (fino alla fondazione del Pdl); Casini guida il suo drappello centrista da più di quindici anni e Silvio Berlusconi, nonostante le ripetute sconfitte, regna sul suo partito da 16 anni ed è al suo terzo mandato da premier.

Le classi dirigenti invecchiano e, in quanto a ricambio, fanno somigliare il nostro Paese all’Urss di antica memoria. Non serve ripercorrere quanti presidenti o quanti capi di governo si siano avvicendati negli Usa o in Francia o in Germania dal ’94 ad oggi. Basta un esempio assai più recente. I nuovi premier e vicepremier britannici (David Cameron e Nick Clegg) assommano, insieme, a 86 anni: appena nove di più di Silvio Berlusconi. L’avvento di nuove generazioni alla guida del Paese, insomma, passa anche (come è accaduto a Londra) attraverso il ricambio e il rinnovamento alla guida delle forze di opposizione. Ricambio di uomini ma, a volte, anche solo di progetti e di idee. Ecco, forse la vera ombra che si allunga sul ritorno in campo di Walter Veltroni (55 anni, non un dinosauro) è proprio l’assenza di un’idea nuova, di un’idea-forza capace di mutare questo andazzo. Da qui alle prossime elezioni politiche mancano - salvo sorprese - ancora tre anni. Il tempo è tanto, ma forse non è male cominciare a lanciare un allarme...

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7344&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #96 inserito:: Maggio 29, 2010, 04:40:53 pm »

29/5/2010 (7:14)  - RETROSCENA

Manovra, Napolitano irritato

Il Colle teme un maxi-decreto

FEDERICO GEREMICCA

I giornali ne scrivono, gli addetti ai lavori la commentano, gli enti locali protestano. I mercati la giudicano: ma al Quirinale - dove pure il pacchetto di misure dovrà esser alla fine firmato - del testo della manovra economica licenziata dal Consiglio dei ministri ormai martedì scorso, non c’è alcuna traccia. Nè gli uffici nè il presidente della Repubblica hanno potuto esaminare il provvedimento: ed è per questo che, non nascondendo una robusta irritazione, Giorgio Napolitano ieri pomeriggio non ha potuto discutere del pacchetto di misure economiche col presidente del Consiglio, incontrato per circa un’ora. Già qualche giorno fa, dagli Stati Uniti, il capo dello Stato aveva manifestato un certo fastidio per questo stato di cose: ieri ha ribadito il concetto parlandone direttamente col premier (e col sottosegretario Letta).

Berlusconi non ha nascosto a Napolitano le grandi difficoltà che il governo sta incontrando nel definire la manovra; ma il presidente, da parte sua, ha confermato l’intenzione di esprimere una propria valutazione solo dopo aver ricevuto il testo “stabilizzato” (cioè con le tabelle d’accompagno e l’ok della ragioneria di Stato) della manovra annunciata. Per intanto, il capo dello Stato si è limitato a ribadire alcune indicazioni di carattere generale, chiedendo al premier che sulla manovra sia possibile un trasparente confronto in Parlamento e un dialogo che favorisca - ove possibile - una corresponsabilità delle stesse opposizioni. Sono raccomandazioni nient’affatto inusuali, per Giorgio Napolitano: già più volte in passato, infatti, il presidente è intervenuto alla vigilia delle sessioni di bilancio sollecitando l’esecutivo a evitare manovre concentrate in un unico articolo di legge sul quale, magari, alla fine viene poi apposta la fiducia. Si vedrà come andrà stavolta. Ma per il momento - e a parte l’irritazione per l’inusuale ritardo nella trasmissione al Colle di un testo licenziato dal Consiglio dei ministri ormai quattro giorni fa - al Quirinale la sensazione è che i problemi intorno al profilo della manovra siano tutt’altro che risolti: e la battuta serale del premier («La manovra non l’ho ancora firmata») non ha fatto che confermare questa impressione. Quanto occorrerà ancora prima che la manovra arrivi all’esame del capo dello Stato? Difficile fare previsioni, ma al Quirinale nessuno resterebbe sorpreso se l’invio del testo slittasse ancora di qualche giorno.

Il punto, naturalmente, non è l’entità della manovra (24 miliardi) chiesta all’Italia dall’Europa: la questione politica resta la suddivisione dei sacrifici da fare, faccenda intorno alla quale all’interno della maggioranza di governo sono ancora in corso diversi (e aspri) bracci di ferro. Stante così le cose, il confronto tra Napolitano e Berlusconi ieri è andato poco oltre la ragione per la quale il premier è salito al Colle: e cioè la definizione dei nomi dei venticinque cavalieri del lavoro da nominare nella ricorrenza della Festa della Repubblica (incombenza assunta dal premier che ha l’interim del ministero per lo sviluppo economico). Oltre a questo, poco altro.
Il capo dello Stato ha informato più nel dettaglio il premier circa l’incontro avuto col presidente Obama (l’aveva già fatto telefonicamente nei giorni scorsi) e ha chiesto a Berlusconi valutazioni intorno al summit economico europeo svoltosi in Francia. Per il resto, poco o nulla: con il premier che non ha nascosto imbarazzo per l’impossibilità di sottoporre al capo dello Stato i contenuti dell’attesa manovra. L’attesa al Quirinale, dunque, continua.

E tra i collaboratori del presidente c’è chi non nasconde la preoccupazione per problemi ancor più seri che potrebbero sorgere quando il testo arriverà al Colle. Sarà un decreto? Magari un decreto-monstre di un unico articolo con dentro tutto e il contrario di tutto?
E sul provvedimento verrà poi chiesta la fiducia? Dalla risposta a questi interrogativi dipenderà il tenore del prossimo incontro tra i presidenti: e al momento nulla può far escludere che non si risolva nell’ennesimo faccia a faccia gravido di tensioni...

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« Risposta #97 inserito:: Giugno 03, 2010, 04:32:11 pm »

3/6/2010

Secessione silenziosa

FEDERICO GEREMICCA

Naturalmente, si potrebbe anche prenderla con ironia e ammettere, per esempio, che «La gatta» - vecchia canzone di Gino Paoli - è certamente più orecchiabile dell’Inno di Mameli: anche se riesce poi difficile credere che sia per questa ragione che le autorità di Varese - alla presenza del ministro Maroni - abbiano deciso ieri di celebrare la Festa della Repubblica facendo intonare il motivetto del cantautore piuttosto che l’inno.

Ugualmente, si potrebbe considerare apprezzabile l’iniziativa del presidente della Provincia di Torino, che ha invece stabilito che da oggi la musica di sottofondo per l’attesa dei collegamenti telefonici con l’ente, sarà appunto l’Inno di Mameli: scelta apprezzabile, ma ovviamente non risolutrice di una questione della quale l’assenza di leader e ministri leghisti alle celebrazioni romane (la sfilata ai Fori ieri, la festa al Quirinale il giorno prima) è solo un ormai quasi folkloristico epifenomeno.

La questione è il solco sempre più profondo che divide il Nord dal Sud del Paese. Nei due giorni di festeggiamenti nella Capitale, il solco è stato visibilmente segnalato dalla mancata presenza di esponenti della Lega (ministri, capigruppo parlamentari e governatori di importanti regioni del Nord), ma sarebbe sbagliato non riflettere su assenze ancor più diffuse, anche se magari meno visibili: è stata una larga parte del mondo dell’imprenditoria, della politica e della cultura del Nord - infatti - a disertare le celebrazioni, rendendole qualcosa di quasi esclusivamente «romano», se non meridionale addirittura. E che tale fenomeno appaia acuito alla vigilia delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, è cosa paradossale solo all’apparenza.

Proprio gli ultimi mesi, infatti, hanno portato alla ribalta delle cronache avvenimenti che - letti con l’animo di un «cittadino del Nord» - non potevano che accrescere un sentimento che potremmo definire quasi di «secessione silenziosa». Ne citiamo due per tutti: lo spaventoso dissesto finanziario - in materia di sanità - di tutte le regioni meridionali, destinato comunque a pesare sul bilancio dell’intero Paese; e poi le imprese della «cricca»: un giro di corruzione e malaffare rispetto al quale - a differenza dell’antica Tangentopoli - il Nord può (a torto o a ragione) sentirsi del tutto estraneo. E in effetti, tra appartamenti che affacciano sul Colosseo, intercettazioni in romanesco, case a via Giulia e massaggi al «Salaria sport village» l’intera faccenda appare una perfetta rappresentazione degli andazzi nella odiata «Roma ladrona»...

Ieri il Capo dello Stato, commentando le assenze ai festeggiamenti (e in particolare quella del ministro dell’Interno) si è limitato ad un rammaricato «dovete chiedere a lui, erano stati invitati tutti». Una reazione addolorata ma serena: e consapevole cioè del fatto che - più che con bruschi richiami all’ordine - la questione vada affrontata in sede politica e con risposte politiche. Dopo tanto parlarne, per esempio, il federalismo andrebbe finalmente ricondotto nel novero delle cose concrete - e quindi da realizzare - tirandolo fuori da quella sorta di museo delle cere dove giacciono da anni i calchi dell’elezione diretta del premier, la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione del bicameralismo perfetto e via elencando di chimera in chimera.

In assenza di risposte politiche concrete e rapide, è infatti impensabile arrestare la «secessione silenziosa» che pare in atto: e che ha già concretamente prodotto, alle ultime elezioni, la conquista da parte della Lega di importanti regioni del Nord. Senza interventi che diano il senso di un visibile cambio di rotta, anche gli sforzi unitari del Presidente della Repubblica (che sabato e domenica sarà a Torino per iniziative legate al 150° anniversario dell’Unità d’Italia) non basteranno a risolvere il problema. Che si ripresenterà, il prossimo 2 giugno, magari amplificato: e inondato da lacrime di coccodrillo che certo non commuoveranno più il «popolo del Nord».

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« Risposta #98 inserito:: Giugno 11, 2010, 12:04:36 pm »

11/6/2010 (7:7)  - RETROSCENA

Il fastidio di Napolitano tirato per la giacca

«Ci sono professionisti della richiesta al Presidente»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Intanto, la definizione liquidatoria che ne dà: «Professionisti». Anzi: «Professionisti della richiesta al presidente di non firmare». Quindi l’ulteriore stilettata: «Questi professionisti sono numerosi, ma molto spesso parlano a vanvera». Dichiarazioni, se si vuole, irrituali: soprattutto per un capo di Stato del profilo di Giorgio Napolitano. Ma stavolta - e giusto nella sua Napoli - il Presidente della Repubblica proprio non è riuscito a nascondere il suo fastidio verso il pressing cui è sottoposto da chi vorrebbe che non firmasse la legge sulle intercettazioni approvata ieri in Senato. Un fastidio crescente e dovuto in particolare al fatto - in questa circostanza - che molti di questi «professionisti» conoscono bene la Costituzione, il ruolo che essa assegna al Capo dello Stato e i limiti che gli impone: ma ciò nonostante «parlano a vanvera», il più delle volte per evidenti interessi di parte. Chi sono questi «professionisti»?

Qualche quotidiano dalla campagna martellante, forse; sparute pattuglie della cosiddetta «sinistra radicale», probabilmente; ma soprattutto il vertice dell’Italia dei Valori, con Luigi De Magistris e Antonio Di Pietro in prima linea. Non a caso, in replica alle dichiarazioni di Giorgio Napolitano, proprio il leader dell’Idv si è lasciato andare ad una risposta stizzita: «Non abbiamo né intenzione né soprattutto tempo per polemizzare con il Capo dello Stato», ha fatto sapere Di Pietro. Che però ha poi aggiunto: «E’ una legge iniqua, incostituzionale e immorale: e una forza politica che crede nella Costituzione ha il dovere di attivarsi per impedirne l’approvazione». Legittimo - questa l’opinione del Colle - che un partito politico faccia le battaglie che ritiene opportune; non corretto, invece, farsi scudo del Quirinale, «parlare a vanvera» e chiedere fin da ora al Presidente della Repubblica di non firmare un testo che al momento, per altro, è ignoto.

Il lavoro del Parlamento è infatti giusto a metà: perché se è vero che il Senato ha licenziato ieri (con voto di fiducia) il provvedimento sulle intercettazioni voluto dal governo, la Camera non ha nemmeno iniziato a esaminarlo. E se lo cambiasse, magari rendendolo più accettabile a tutti? In gergo politico - e proprio a sottolineare il rispetto che il Capo dello Stato deve alle Camere - si dice che «quando il Parlamento lavora, il Presidente della Repubblica tace». Il Parlamento è appunto ancora all’opera: e il Colle tirerà le somme solo alla fine del suo lavoro. E dire che appena tre giorni fa il Quirinale aveva ribadito il concetto con una nota nella quale si chiariva che l’esito di questo lavoro sarebbe stato esaminato «solo quando il Capo dello Stato riceverà la legge per la promulgazione»: e che, fino ad allora, «non entra nel merito di nessuna formulazione e non è partecipe di alcun contatto». Tutto inutile.

Ed anche questo ha infastidito Napolitano: per altro tenuto, secondo Costituzione, a verificare solo che le leggi sottoposte alla sua firma non presentino palesi elementi di incostituzionalità (l’esame più approfondito spetta infatti alla Corte Costituzionale). D’altra parte, al Colle non si dispera che la Camera possa magari apportare al testo almeno qualcuno degli ulteriori cambiamenti sollecitati a gran voce da opposizione, magistrati, editori e giornalisti, così da renderlo - appunto - più accettabile. Si fida sul lavoro della Commissione Giustizia, presieduta fa Giulia Bongiorno, «addetta ai lavori» nient’affatto convinta del testo in discussione e finiana della prima ora. Un attento esame del provvedimento in commissione potrebbe produrre elementi di novità da non sottovalutare: e comunque - questo è il concetto di fondo - è fuori da ogni logica chiedere al Presidente della Repubblica di non firmare una legge che nessuno ancora sa come sarà. Lo si può fare, naturalmente, se si prescinde dal dettato costituzionale e si ha l’unico obiettivo di snaturare il ruolo del Capo dello Stato per arruolarlo in un composito fronte antigovernativo: e sarebbe giusto questo il tentativo dei «professionisti». Professionisti però, secondo il Colle, del «parlare a vanvera»...

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« Risposta #99 inserito:: Giugno 19, 2010, 09:19:40 am »

18/6/2010

Ma il Quirinale non si è mosso
   
FEDERICO GEREMICCA

Qualcosa si muove. E se qualcosa si muove, paradossalmente, è perché qualcuno è rimasto cocciutamente fermo sulla propria posizione.
La chiave di lettura che il Quirinale offre come possibile spiegazione delle novità che nelle ultime 48 ore sembrano aver reso un po’ meno pesante il clima intorno alla contestata legge in materia di intercettazioni, in fondo è molto semplice.

A rimanere fermo, naturalmente, è stato il Colle: che ha sia evitato coinvolgimenti nella stesura (o nelle correzioni) del provvedimento in questione, sia respinto ogni tentativo di far intendere - a lavori parlamentari in corso - che non avrebbe firmato il testo così come licenziato da Palazzo Madama. Questa posizione ha non solo «ridato dignità al Parlamento e al lavoro di entrambe le Camere» (come annotano al Quirinale) ma anche prodotto le novità di cui si diceva all’inizio. Novità che, a stringere, possono essere ridotte a due: la disponibilità di Berlusconi a non insistere (almeno per ora) su una approvazione-lampo della legge anche alla Camera, e l’invito alla prudenza e alla disponibilità al confronto lanciato ieri da Bossi dopo un incontro con Fini.

Il leader leghista, infatti, è uscito dal colloquio con il presidente della Camera con una ferma convinzione: «Se il Colle non firma la legge, siamo fregati». E’ la conclusione cui è arrivato dopo che Fini gli ha tratteggiato il vicolo cieco che vede di fronte alla maggioranza nel caso di forzature. A cosa potrebbe portare, infatti, un ulteriore surriscaldamento del clima? A un devastante braccio di ferro in Parlamento, con due possibili conseguenze. La prima: una prova di forza inutile, considerato che il Quirinale potrebbe davvero non controfirmare il testo, se non modificato (per esempio nelle direzioni indicate ieri da Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia della Camera); la seconda: un ulteriore e rapidissimo peggioramento del clima politico, che potrebbe forse mettere in discussione la stessa sopravvivenza del governo, e certamente seppellire ogni ipotesi di riforma condivisa.

Si tratta di argomenti che hanno preoccupato e fatto breccia nelle convinzioni di Bossi, che ora afferma: «Bisogna dare un’accelerazione per trovare una via d’uscita». E gli stessi argomenti, in fondo, devono aver fatto venire qualche dubbio anche al premier. Per una lunga fase, infatti, Silvio Berlusconi ha coltivato (e non è detto non coltivi ancora...) la tentazione di andare allo showdown con l’opposizione e la parte recalcitrante della sua maggioranza, ponendo tutti di fronte a un bivio: o si approva la legge così com’è o si fila dritti alle elezioni anticipate. I dubbi devono esser cresciuti quando gli è stato spiegato che, in caso di crisi, l’approdo al voto sarebbe tutt’altro che scontato...

Chi glielo ha spiegato? Va detto, intanto, che il premier ha ormai sufficiente esperienza politica per aver chiaro che andare a elezioni anticipate non è proprio cosa semplicissima; ma molto, in questo senso, devono aver pesato anche le ambasciate e i consigli di Gianni Letta. È vero che è un po’ di tempo che l’uomo di raccordo tra Palazzo Chigi e il Colle non sale al Quirinale per colloqui ufficiali col Capo dello Stato: ma non perde nessuna occasione per sondare gli umori di Giorgio Napolitano.

E’ andata così anche un paio di giorni fa, quando Letta e il Presidente si sono incontrati alla presentazione dei diari di Croce, alla Laterza. Il colloquio non è stato lunghissimo, ma è bastato a far capire al sottosegretario alla presidenza che dal Quirinale non sarebbero arrivati ostacoli pregiudiziali alla legge ma nemmeno sconti di alcun genere: un modo per dire «non fate affidamento su una mia firma se il testo non verrà modificato nei suoi aspetti più discutibili». Quali siano questi aspetti, ieri lo ha fatto intendere bene Giulia Bongiorno, che ha proposto correzioni al testo nient’affatto marginali. Insomma, come si ipotizzava, alla Camera è cominciata un’altra partita, assai diversa da quella giocata al Senato. Come finirà? E’ presto per dirlo. Tanto presto che forse se ne riparlerà tra settembre e ottobre...

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« Risposta #100 inserito:: Giugno 20, 2010, 08:03:22 am »

20/6/2010

"Il miliardario vada a casa"

E Bersani già vede le urne
   
FEDERICO GEREMICCA

Lo chiama «il miliardario». Gli dice che è in caduta libera e che racconta balle. Ironizza pesantemente su Tremonti e sulla Lega. Infine avvisa l’avversario: «Attenti, siamo un partito di governo provvisoriamente all’opposizione». È la prima notizia, allora (la seconda è senz’altro l’irrompere di queste maledette vuvuzelas perfino nei raduni di partito).

La prima notizia - dicevamo - è che Pier Luigi Bersani comincia forse a sentire un po’ di vento nelle vele. Sarà magari più per demerito del «miliardario» che per merito suo, ma fatto sta che quello che si è presentato al «popolo del Pd» radunato nel Palasport di Roma, è stato un Bersani pimpante e ottimista come da tempo non si sentiva.

Sarà pure vero, naturalmente, che tempi e sceneggiatura della manifestazione anti-manovra hanno risentito di evidenti influssi veltroniani (parla il professore, l’attore, c’è il filmato, poi il sacerdote...); e mettiamoci pure che un Bersani così irresistibilmente «antiberlusconiano» non lo immaginava più nessuno (lui che chiarì che «il più antiberlusconiano non è chi grida, ma chi lo manda a casa»), ecco, mettiamoci pure questo: la sostanza, però, non cambia. E la sostanza è che, dopo che Enrico Letta ha evocato il Vietnam, ora è il segretario a metterla giù veramente dura. E quasi presagisse lo scontro all’orizzonte, avverte che sta arrivando il tempo di schierarsi. Chiama in causa imprenditori, commentatori, la «classe dirigente» del Paese. E il monito è duro: «Di fronte a quel che sta accadendo - fa sapere - berlusconismo e conformismo hanno uguali responsabilità».

Dicono che Pier Luigi Bersani si stia convincendo del fatto che le elezioni potrebbero non essere poi così lontane; che quel «provvisoriamente all’opposizione», insomma, sia sempre più provvisorio. Qualche giorno fa, l’ha perfino fatto intendere. Il malessere sociale che cresce, man mano che la manovra diventa più chiara; le inchieste giudiziarie sulla «cricca» che (dopo Scajola) potrebbero costare il posto ad altri ministri o sottosegretari; e poi, naturalmente, la guerriglia che si è scatenata nel partito di maggioranza. Troppe cose segnalano che la situazione potrebbe finire fuori controllo. E precipitare.

Il fatto che i toni di Bersani crescano, allora, si può forse spiegare così. Applaudito da una platea da combattimento, preannuncia al partito una lunga campagna da condurre fino all’autunno, e chiede ai democratici di tornare tra le gente. Ma soprattutto mette nel mirino (a volte attaccandolo, altre blandendolo) il partito che forse considera - allo stesso tempo - oggi l’«anello debole» del patto di governo e domani - chissà - perfino un possibile, potenziale, alleato. La Lega.

Raffiche di critiche alternate ad ironie. Una sorta di filo conduttore (un tempo si sarebbe detto una linea), perché anche Chiamparino ed Errani avevano puntato l’indice contro la Lega. Criticando la manovra e i tagli di Tremonti («Nel ministero di via XX Settembre c’è perfino un supermarket: bell’esempio di equità...»), il presidente dell’Anci aveva accusato: «La prepotenza centralistica può anche vincere: ma a perdere non saranno i sindaci, sarà il Paese». E il governatore dell’Emilia Romagna aveva provocato: «Il grosso dei tagli lo fanno fare a noi: complimenti signori della Lega, ecco il federalismo. Ma a parte un nuovo ministro, c’è rimasto qualche federalista nel governo?».

Sventolii e ovazioni dalla platea, per questo Pd tutto all’attacco. E il più duro è stato proprio Pier Luigi Bersani. Che prima ha cominciando scherzando: «Con Va’, pensiero e tifando Paraguay, non si mangia...»), poi ha messo il dito in dolorose contraddizioni: «Questa Lega - ha accusato - è dura sugli inni e sul calcio ma poi sulle leggi diventa mollacciona. Sulla legge speciale per la Protezione civile, per esempio: che non è stata fatta da Roma ladrona ma da quattro ladroni. E c’è una bella differenza...».

Nella sostanza, quel che l’adunata romana del Pd sembra aver mostrato, è prima di tutto una sorta di cambio d’umore. Non è solo che i due attuali e principali terreni di scontro (i tagli della manovra e i tagli alle intercettazioni) siano considerati evidentemente favorevoli all’opposizione, è più in generale il fatto che il Pd - o almeno Bersani - veda moltiplicarsi le difficoltà di Berlusconi. «Erano tutte balle», dice Bersani annotando la ricomparsa della «monnezza» a Napoli e descrivendo la parabola della «favola dell’Aquila», finita in un pozzo nero fatto di tangenti, cricche e massaggi... Del resto, a dare ottimismo al Pd, non ci sono solo le difficoltà in cui è precipitata la maggioranza, c’è la statistica: in epoca di Seconda Repubblica - dal 1994 in poi - non è mai accaduto che il governo uscente venisse premiato dalle urne. Ed è alle urne - sperando che non tradiscano la statistica - che Bersani comincia a guardare. Per farla finita, magari, con quel «provvisoriamente»...

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« Risposta #101 inserito:: Giugno 24, 2010, 08:59:50 am »

24/6/2010

Il senatùr ora rischia tutto
   
FEDERICO GEREMICCA

Non è che Napolitano abbia alzato la cornetta per chiamare il senatùr e dirgli «senta, senza le scuse alla nazionale italiana il nostro incontro rischia di farsi difficile»...

Però, con i modi discreti che contraddistinguono da sempre l’istituzione, il Quirinale ieri ha fatto in modo che Umberto Bossi capisse che sarebbe certo stato ricevuto volentieri dal capo dello Stato: ma che lo sarebbe stato ancor più volentieri dopo le scuse alla squadra di Lippi, accusata di voler «comprare» la partita di oggi con la Slovacchia. Le scuse - come era a questo punto inevitabile - sono arrivate poco dopo l’ora di pranzo, e la pagina è stata voltata. Del resto, meglio far retromarcia prima, piuttosto che dopo l’incontro: perché se c’è una cosa che si può dar per certa, è che Giorgio Napolitano - gran sostenitore dell’Italia, presente alla finale di Berlino nel 2006 e «portafortuna» degli azzurri - quelle scuse le avrebbe comunque fortemente sollecitate.

Non è stata questa faccenda, dunque, il cuore dell’incontro che il capo dello Stato ha avuto ieri pomeriggio con i ministri Bossi e Calderoli. Due, infatti, erano i problemi che Umberto Bossi voleva affrontare con Giorgio Napolitano (il colloquio ha avuto luogo su richiesta del leader leghista). La prima: assicurare anche al Presidente che il capitolo riforme - e in particolare il federalismo - resta competenza unica e assoluta della Lega in generale e di Bossi in particolare, nonostante alcune discusse nomine di nuovi ministri; la seconda: che il Carroccio è sempre più preoccupato per il crescere delle tensioni politiche, avendo il timore che a «rimetterci le penne» possa essere proprio il faticosamente avviato processo federalista. E allora: che pensa di quest’ultima questione il Presidente della Repubblica? E che consigli ha da dare?

E’ un Bossi così, insomma, quello che ieri si è accomodato di fronte a Giorgio Napolitano: un leader che, al di là delle «sparate» e della professione di ottimismo, non ha nascosto né preoccupazione né irritazione. L’irritazione è legata soprattutto alla vicenda della nomina a ministro per il Federalismo di Aldo Brancher (da sempre uomo di raccordo tra il premier e la Lega), un vero «giallo» di cui sono ancora incerti i vari passaggi, mentre è sicurissimo il nome del «danneggiato finale», Bossi appunto.

I ben informati sostengono che, nell’idea di Berlusconi, Brancher avrebbe dovuto occupare il ministero lasciato da Scajola (con una redistribuzione delle deleghe tra Brancher stesso e Romani, sottosegretario): bloccata questa scelta per dissidi all’interno della stessa maggioranza, Berlusconi ha fatto retromarcia, nominando Brancher ministro per il federalismo (addirittura convinto che la scelta sarebbe stata apprezzata dalla Lega). Ne è nato un piccolo pandemonio: che oltre all’irritazione di Bossi (che domenica scorsa ha dovuto fare i conti con lo sconcerto del «popolo leghista» radunato a Pontida) ha portato alla luce l’ambizione del Carroccio di avere un nuovo ministro («Ce ne manca sempre uno - ha spiegato il senatùr - dopo che ci hanno tolto l’Agricoltura che era di Zaia). Un problema.
In queste faccende, naturalmente, il Presidente della Repubblica si è ben guardato dall’entrare, ricordando - però - di aver soltanto raccolto la firma di un nuovo ministro senza portafoglio, e che le deleghe sono responsabilità esclusiva del presidente del Consiglio... Molto diverso, invece, l’interesse mostrato da Napolitano verso le preoccupazioni leghiste circa il deteriorarsi della situazione politica. Ai ministri del Carroccio che chiedevano una sua opinione sul da farsi, però, il capo dello Stato non ha potuto che spiegare di essersi già più volte espresso.

Inizialmente - ha ricordato - era intervenuto per sollecitare (in materia di intercettazioni telefoniche, per esempio) un confronto parlamentare che svelenisse il clima e coinvolgesse maggiormente l’opposizione. Poi, di fronte alla «voglia di accelerazione» di parte del Pdl e dello stesso presidente del Consiglio, Napolitano aveva fatto sapere che buon senso - e soprattutto gravità della situazione economica - consigliavano di non alterare un calendario di lavori che prevedeva prima l’approvazione della manovra economica e poi il prosieguo della discussione sulla legge per le intercettazioni. Certo che se poi un giorno sì e l’altro pure il premier va ripetendo che quest’ultimo provvedimento andrebbe approvato d’urgenza perché «ci sono dieci milioni di italiani spiati», beh, allora tutto diventa più difficile.
Ed è proprio questa la preoccupazione di Umberto Bossi. Preoccupazione che il capo dello Stato ha raccolto, non ignorando - e anzi dando atto - di qualche tentativo di distensione operato proprio dalla Lega. Se tali tentativi sortiranno risultati, lo si vedrà. Napolitano ci spera: Umberto Bossi, forse, ancora di più...

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« Risposta #102 inserito:: Luglio 03, 2010, 11:04:35 pm »

2/7/2010 (7:9)  - INFORMAZIONE - LA LEGGE DELLE POLEMICHE

La pazienza di Napolitano sta finendo

Il Presidente: «Io inascoltato. Chiari i punti critici della legge»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Un presidente della Repubblica non può dire, a proposito dei suoi rapporti con l’esecutivo, che «adesso la misura è colma». Però può farlo intendere: lasciando anche capire che, per quanto lo riguarda, l’ora dei giochini - e perfino degli inganni - è vicina alla fine. Ed è precisamente questa la via imboccata ieri da Giorgio Napolitano. Il Presidente è stanco - a proposito della Grande Guerra sulle intercettazioni - di esser più o meno preso in giro (il presidente, naturalmente, non può dirlo così: e ricorre a un più diplomatico «non sono stato ascoltato...»). E così, l’estenuante braccio di ferro tra presidenza del Consiglio e Colle ha vissuto ieri un’altra giornata aspra: stavolta, come dicevamo, per iniziativa del Quirinale stufo di esser tirato per la giacca da Berlusconi che continua a reclamare un accordo preventivo con la presidenza della Repubblica sulla legge per le intercettazioni, pena l’”andare avanti comunque”.

Non è la prima volta che il premier fa sapere di essere in attesa dell’opinione del capo dello Stato sul testo ora in discussione alla Camera (tradotto: quali cambiamenti vanno apportati alla legge per esser certi che poi il presidente della Repubblica la firmi?). E non è la prima volta che gli viene ricordato che la richiesta è inusuale e, soprattutto, non ricevibile dal Colle. Comunque sia, ieri, ricorrendo alla pazienza residua, Giorgio Napolitano (in visita a Malta) ha ricapitolato quanto al premier è già noto da tempo. Con toni, però, di inusitata durezza. Stavolta vale la pena di riportare per intero il pensiero del presidente proprio per apprezzarne la perentorietà: «I punti critici della legge approvata dal Senato risultano chiaramente dal dibattito in corso, dal dibattito già svoltosi in Commissione giustizia alla Camera, nonché da molti commenti di studiosi, sia costituzionalisti sia esperti in materia. Ovviamente - ha chiarito Napolitano - quei punti critici sono gli stessi a cui si riferiscono le preoccupazioni della presidenza della Repubblica: e ciò non si è mancato di sottolinearlo anche nei rapporti con esponenti della maggioranza e del governo. Ma non spetta a noi indicare soluzioni da adottare o modifiche da approvare».

Ragionamento non nuovo - come detto - e, comunque, chiarissimo. E affinché non restassero incertezze (più o meno interessate...) ecco la conclusione, non certo rassicurante per l’esecutivo: «Valuteremo obiettivamente se verranno apportate modifiche adeguate alle problematicità e alle criticità di quei punti che sono stati già messi in così grande evidenza. E ci riserveremo una valutazione finale nell’ambito delle nostre prerogative». Il messaggio, dunque, è inequivoco. Primo: inutile insistere nel cercare accordi preventivi col Quirinale sul testo in discussione, perché non è quello del “coautore” di leggi il ruolo riservato dalla Costituzione al capo dello Stato. Secondo: quel che va cambiato nel testo, non solo è emerso dalla discussione in Commissione giustizia alla Camera e dal parere di esperti e costituzionalisti, ma è stato per tempo sottolineato dal Quirinale «nei rapporti con esponenti della maggioranza e del governo».

Terzo: la presidenza, per rispetto del Parlamento e della Costituzione, valuterà la legge alla sua approvazione, senza pregiudizi ma anche senza sconti. Poi ci sarebbe un quarto punto, che Giorgio Napolitano non può però esplicitare ma solo lasciar intendere. E il punto in sintesi è: basta con i giochetti e le prese in giro. Berlusconi, infatti, sa da tempo quel che va e quel che non va nella legge; cambi quel che c’è da cambiare, se vuole, oppure vada avanti: ma senza chiedere “coperture” al Colle. In più, sarebbe ora di interrompere il giochino secondo il quale il governo plaude alle prese di posizione del Quirinale per poi fare tutt’altro. Uno degli ultimi casi - che ha molto infastidito il Colle - è stata la calendarizzazione della legge sulle intercettazioni per fine luglio, dopo che Napolitano aveva suggerito di lasciar campo - prima di tutto - ad una approfondita discussione sulla manovra economica: «Anche senza essere monsignor de Lapalisse è evidente che quel consiglio non è stato ascoltato, nel momento in cui sono state prese determinate decisioni a maggioranza nella conferenza dei capigruppo...».

Questo è quanto ha riservato la giornata di ieri, almeno sul fronte rovente dei rapporti tra Quirinale e palazzo Chigi. In serata Napolitano è rientrato a Roma. E non è detto che oggi non se ne risentano delle belle...

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« Risposta #103 inserito:: Luglio 08, 2010, 10:54:36 am »

8/7/2010 (7:12)  - RETROSCENA

Napolitano teme l'ingovernabilità

Al Quirinale freddezza e interrogativi sul Cavaliere e l'unità delle sue truppe

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

Il Quirinale replica, e va bene. Berlusconi si scusa, e va bene anche questo. Ma lassù, nelle stanze del Colle, la questione ha lasciato molti dubbi e più di un interrogativo.

La vicenda è nota: il Pd presenta al Senato un emendamento al cosiddetto lodo Alfano per creare - in pratica - uno scudo totale da ogni tipo di processo per il capo dello Stato; la notizia viene data da «Il Fatto» nella sua edizione di martedì; l’emendamento («Una errata valutazione politica di cui non ero a conoscenza», ha chiarito Anna Finocchiaro) viene subito ritirato; ma «Il Giornale» - ieri - ci è tornato su a modo suo, con un grande titolo in prima pagina e un interrogativo mica da niente: «Vogliono sottrarlo alla legge. Ma che ha combinato Napolitano?».

La replica del Quirinale - a questo punto inevitabile - ieri è arrivata di prima mattina. I toni sono fermi. Si ripete che il Colle «resta sempre rigorosamente estraneo» alle discussioni che le Camere hanno su questa o quella legge; si chiarisce che «il presidente della Repubblica non ha nessun motivo, né personale né istituzionale, per sollecitare innovazioni alla normativa vigente sulle prerogative del Capo dello Stato»; si polemizza duramente con «Il Giornale» «per un sensazionalistico titolo e articolo di prima pagina, destituiti di qualsiasi fondamento, la cui natura ridicolmente ma provocatoriamente calunniosa nei confronti del presidente della Repubblica non può essere dissimulata da qualche accorgimento ipocrita: la Presidenza non può non rilevarne la gravità».

Eppure, chiarito quel che c’era da chiarire - e respinte al mittente le «calunnie» de «Il Giornale» - lì al Colle è rimasto sospeso un inquietante interrogativo: perché mai l’attacco a Napolitano proprio nel giorno in cui Berlusconi torna dopo tempo al Quirinale (era in programma una riunione del Consiglio supremo di Difesa) per un possibile colloquio chiarificatore - in materia di intercettazioni e non solo - col capo dello Stato? Era stato lo stesso premier ad annunciare ai suoi l’intenzione di approfittare dell’occasione per un faccia a faccia (che ovviamente non c’è stato) con Napolitano: e allora perché quelle «calunnie» sulla prima pagina del giornale di famiglia?

Il premier è arrivato al Quirinale con un po’ di ritardo, e naturalmente si è subito scusato col presidente: «Non ne sapevo niente e non c’entro davvero nulla. Non so davvero più cosa fare col Giornale. Dovrei liberarmene... Sì, dovrei liberarmene». Giorgio Napolitano non ha praticamente proferito parola: si è accomodato al tavolo del Consiglio supremo di Difesa e ha dato il via alla riunione. Ma proprio il tipo di scuse del premier e l’occasione particolare scelta da «Il Giornale» per l’uscita contro il Colle, hanno fatto crescere ulteriormente i dubbi e gli interrogativi tra i collaboratori del Presidente.

«Considerato che un colloquio col Capo dello Stato era nelle speranze del premier e che sarebbe stato importante soprattutto per lui - ci si è chiesto - che senso ha e come spiegare l’iniziativa di Feltri?». Perché va bene l’esistenza - nota - di «falchi» e «colombe» nell’entourage del premier; va bene anche la forte tensione tra i due Palazzi: ma è possibile che, oltre a quella sorta di «liberi tutti» che agita il Pdl, Silvio Berlusconi non governi più nemmeno il giornale di famiglia?

Gli interrogativi, valutati dal punto di osservazione del Colle, sono tutt’altro che irrilevanti: infatti, da quando Fini ha messo le sue carte in tavola - terremotando il partito del predellino e di conseguenza l’attività dell’esecutivo - la preoccupazione maggiore del Capo dello Stato è diventata la capacità di governo e, più complessivamente, la tenuta della maggioranza. In una parola, si potrebbe dire la «governabilita»: valore considerato assoluto in una fase di difficoltà economica e di crescenti tensioni sociali. Quanto è ancora forte, allora, la tenuta del premier rispetto alla sua maggioranza? E ancora: escludendo che Berlusconi fosse a conoscenza dell’uscita de «Il Giornale» (stavolta il premier davvero non aveva alcun interesse a nuove polemiche) non è forse un segnale allarmante il fatto che il quotidiano di famiglia gli metta i bastoni tra le ruote mentre tenta un qualche riavvicinamento col Capo dello Stato?

I maggiori timori del Colle riguardano, insomma, la tenuta della maggioranza e il suo visibile sfilacciamento. Se la verità fosse che nella Grande Guerra apertasi nel Popolo della Libertà «falchi» e «colombe» combattono scambiandosi ormai colpi di ogni genere, fino ad utilizzare il giornale della famiglia Berlusconi per imporre le rispettive posizioni, questo sarebbe un pessimo segnale: capace di dare la misura del punto cui è giunta la situazione. È questa, al di là delle polemiche pur aspre che spesso contrappongono Quirinale e Palazzo Chigi, la preoccupazione crescente del Presidente: una crisi per implosione della maggioranza, un tracollo del governo in ragione dell’impossibilità del premier di tenere unita la sua coalizione. Certo, è un’ipotesi che ancora due o tre mesi fa sarebbe apparsa fantascienza. Ma in politica, si sa, il tempo a volte corre veloce...

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/56562girata.asp
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« Risposta #104 inserito:: Luglio 19, 2010, 04:24:55 pm »

19/7/2010

L'opposizione e il rebus dell'alternativa
   
FEDERICO GEREMICCA


Da un paio di mesi almeno, i riflettori dell’informazione politica, le analisi dei commentatori e perfino l’attenzione delle Cancellerie sono puntati - con preoccupazione crescente - sulle vicende che scuotono la maggioranza di governo. Del resto, non potrebbe essere altrimenti: con il Pdl che pare ogni giorno di più a un passo dall’implosione, le inchieste giudiziarie che investono perfino gli uomini più vicini al premier (Bertolaso e Verdini) e le dimissioni di tre esponenti del governo (Scajola, Brancher e Cosentino) in poco più di due mesi, di materia - da analizzare o da raccontare - ce ne è ben oltre la sufficienza.

Una delle inevitabili conseguenze di questa attenzione forzatamente «a senso unico», è stata il perder un po’ di vista quanto accadeva nel fronte delle opposizioni, le cui strategie - però - tornano oggi in primissimo piano in ragione del possibile precipitare della crisi politica in crisi di governo. E però, riaccendendo le luci nel campo delle forze sconfitte alle ultime elezioni, si scopre che molti dei nodi che erano stati lasciati mesi fa come irrisolti, sono ancora lì in attesa di una soluzione.

E la miglior cartina di tornasole per valutare quanto profondi siano ancora i problemi aperti, è forse l’atteggiamento che Pd, Udc e Italia dei valori hanno assunto - o vanno assumendo - di fronte all’ipotesi di una improvvisa crisi di governo.

Non si sono infatti sentite due proposte coincidenti. Si è andati (e si va) da «elezioni subito» a governo tecnico, passando per un esecutivo a tempo che riformi almeno la legge elettorale, per un governo di larghe intese presieduto da Berlusconi, per un altro che non sia invece guidato dall’attuale premier ma magari da Tremonti o dal «tecnico» di turno che assicuri la transizione fino all’inevitabile ritorno alle urne. A parziale giustificazione di un tale stato di incertezza - quando non di confusione - c’è certamente il fatto che, a partire dallo «smarcamento» di Gianfranco Fini, la crisi politica del centrodestra ha assunto una velocità difficilmente prevedibile: nel giro di due o tre mesi, infatti, si è passati da un governo che sembrava granitico a un esecutivo che appare boccheggiante ogni giorno di più.

Ma la sorpresa di fronte al rapidissimo declinare del governo, è un elemento che spiega (e giustifica) solo parzialmente le difficoltà che segnano il campo dell’opposizione. Dietro il vasto campionario di ipotesi per il dopo-Berlusconi, si celano - infatti - divergenze del tutto irrisolte e che non è azzardato definire strategiche. Esse riguardano, fondamentalmente, il tipo di assetto da dare al sistema politico (mitigare e razionalizzare l’attuale bipolarismo oppure no?), le alleanze da privilegiare e perfino il leader da mettere in campo in una nuova, eventuale contesa contro Silvio Berlusconi.

E’ da qui che nascono differenze altrimenti non comprensibili. E’ la questione delle alleanze future, probabilmente, che spiega l’evidente scarto tra le posizioni di due leader come D’Alema e Casini che pure sono assieme all’opposizione: il primo, per un governo tecnico che non sia guidato dal premier in carica; e il secondo (su una linea più soft, che punta a non perder ogni contatto con il centrodestra) che considera questa ipotesi velleitaria e che suggerisce un nuovo esecutivo di salute pubblica guidato da Berlusconi. E deve essere la grande varietà di strategie in campo (con tutti i rischi annessi) ad aver spinto ieri un leader certo non sprovveduto come Nichi Vendola a rompere gli indugi sul tema del futuro candidato-premier: «No a governi tecnici e no a larghe intese: le primarie non sono una minaccia per il Pd e io mi candido per sparigliare i giochi».

Non sarà facile - non lo sarà soprattutto per il Presidente della Repubblica - fare ordine e trovare una possibile soluzione di governo nel caso la crisi politica costringesse davvero Silvio Berlusconi alle dimissioni. Ma non sarà facile trovare il bandolo della matassa nemmeno per Pierluigi Bersani, sul quale pesa la responsabilità della guida del maggior partito di opposizione. Uno degli slogan con i quali ha vinto il congresso del Pd diventandone il segretario fu «dall’opposizione all’alternativa». Queste settimane concitate sembrano dimostrare che il passaggio non è ancora compiuto, e che un’alternativa di governo coesa e credibile è ancora di là da venire. Nulla è perduto e nulla è compromesso, naturalmente: ma il tempo forse stringe. Perché nulla sarebbe più paradossale che trovare l’opposizione impreparata di fronte a quelle dimissioni che reclama a gran voce un giorno sì e l’altro anche.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7612&ID_sezione=&sezione=
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