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Autore Discussione: STEFANO PASSIGLI Giustizia: i rimedi peggiori dei mali  (Letto 2613 volte)
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« inserito:: Agosto 07, 2008, 09:32:17 am »

7/8/2008
 
Giustizia: i rimedi peggiori dei mali
 
 
 
 
 
STEFANO PASSIGLI
 
Che la nostra giustizia soffra di mali profondi è indubbio. E altrettanto indubbio che vadano aggravandosi. Molte ne sono le cause; in particolare delle sue due principali disfunzioni: la cronica lentezza dei processi, sia civili che penali; e la sempre più frequente mancata applicazione delle pene. Alla lentezza contribuisce l’ampio complesso di garanzie (per molti sin troppo elevato) che caratterizza il nostro ordinamento: tre livelli di giudizio a tutela del corretto operato delle procure (Gip, Tribunale del Riesame, Cassazione), e tre gradi di giudizio, la Cassazione tendendo oramai sempre più a trasformarsi da giudice della legittimità dei procedimenti a surrettizio giudice di merito. Alla lentezza contribuiscono inoltre, in misura spesso determinante, l'eccessiva complessità delle procedure e la stessa formazione giuridica di molti nostri magistrati spesso permeata di un eccesso di formalismo. Non ultima causa, infine, è - almeno nel caso del processo penale - la propensione della nostra classe forense ad avvalersi di qualsiasi elemento che consenta di allungare i tempi del giudizio, spesso preferendo assicurare ai propri clienti un proscioglimento per intervenuta prescrizione ad una incerta assoluzione a pieno titolo (come insegnano le vicende processuali del nostro premier).

La mancata applicazione delle pene è la seconda macroscopica disfunzione della nostra giustizia, sempre più vissuta dalla pubblica opinione come causa di disaffezione nei confronti della magistratura anche per l’intensificarsi degli attacchi che ad essa vengono, spesso strumentalmente, portati da larga parte della classe politica. La mancata certezza della pena dipende invece non tanto dal comportamento di singoli magistrati (anche se non sono mancati clamorosi casi di scarsa professionalità), quanto dal combinarsi di patteggiamenti, indulti, norme premiali, prescrizioni e chi più ne ha più ne metta, con il risultato di aver allargato enormemente i confini dell’impunità.

Che la nostra giustizia abbisogni di profonde riforme è dunque indubbio. Ed è comprensibile che tali riforme figurino nell’agenda del governo. Ma quali riforme? Se i mali sono quelli descritti, né una riduzione degli spazi di autonomia dell’organo di autogoverno della magistratura, né la separazione delle carriere rappresenterebbero una risposta adeguata. Più che di una grande riforma vi sarebbe infatti bisogno d’una pluralità d’interventi mirati ad affrontare i singoli problemi. Riforma delle modalità di elezione e del ruolo del Csm, separazione delle carriere, o ripristino dell’immunità parlamentare troverebbero invece giustificazione solo se scopo della riforma fosse innanzitutto quello di aumentare le garanzie della classe politica nei confronti del controllo di legalità della magistratura inquirente. Si tratta, in altre parole, di riforme che potrebbero anche trovare sostegno bipartisan, ma che ben poco avrebbero a che fare con la cura delle reali disfunzioni del nostro sistema giurisdizionale.

A ben guardare, anzi, la separazione delle carriere potrebbe aprire la via a una forte perdita di autonomia da parte della magistratura inquirente aggravando la crisi di legalità che travaglia il Paese. Una volta prevista la separazione delle carriere, nulla osterebbe infatti all’accettazione della proposta di quanti, a cominciare da Bossi, vorrebbero che i magistrati delle procure fossero eletti anziché selezionati per concorso come gli altri magistrati e tutelati dalle stesse identiche garanzie. Ma se scelti dagli elettori essi finirebbero inevitabilmente col rispondere a una maggioranza politica, perdendo quella che deve essere la prima caratteristica di qualsiasi magistrato: l’indipendenza di giudizio. Se così fosse, oltre a necessitare di un’approvazione con legge costituzionale, la separazione delle carriere, lungi dall’affrancare i magistrati giudicanti da una mai provata - e anzi più volte smentita dai fatti - soggezione alle richieste delle procure, avrebbe l’unico ma deleterio effetto di rendere i magistrati delle procure organici alla maggioranza politica di turno e l’azione penale soggetta agli interessi della classe politica. Il che, facendo venir meno quella divisione dei poteri che da oltre due secoli è uno dei cardini fondamentali e irrinunciabili del costituzionalismo, mi sembra un rimedio ben peggiore degli attuali mali.
 
da lastampa.it
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Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Agosto 20, 2008, 10:34:58 am »

CRONACA

IL CASO.

Il giudice lo affida al padre: tra le motivazioni anche quelle politiche

La motivazione: frequenta estremisti, la donna non sa badare all'educazione

Sedicenne tolto alla madre perché milita in Rifondazione

di GIOVANNA CASADIO



 Gli dicono che somiglia a Scamarcio, l'attore. A sedici anni, fa piacere. Ma ha promesso che oggi si taglia i capelli arruffati e magari non lo bollano più come comunista. Circolo Tienanmen, tessera dei Giovani comunisti, trovata dal padre, fotocopiata dai servizi sociali, allegata all'ordinanza del Tribunale di Catania, prima sezione civile, per dimostrare nella causa di affido che la madre non sa badare all'educazione del ragazzo il quale ha "la tessera d'iscrizione a un gruppo di estremisti".

Quindi, M. P. - che preferisce non essere citato con il suo nome, visto che lui, ragazzo esuberante, lo conoscono un po' tutti a Catania - è stato di fatto accusato di essere comunista rifondarolo, uno che frequenta "luoghi di ritrovo giovanili dove è diffuso l'uso di sostanze alcoliche e psicotrope", dove cioè c'è il sospetto che si bevano birre e si fumino spinelli. Nel giudizio degli assistenti sociali, le cose stanno pure peggio perché i comunisti sono "estremisti, il segretario del circolo è un maggiorenne che pare abbia provveduto a convincere all'iscrizione e all'attivismo altri ragazzi", tra cui l'amico del cuore del sedicenne, anche lui una testa matta che lo trascina nella vita "senza regole". Non è l'unica ragione, ovvio, per far pendere la bilancia della contesa sull'affido dalla parte paterna, ma la militanza comunista è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. M. P. è stato tolto alla madre e ora assegnato al padre, insieme al fratello più piccolo.

Tra un uomo e una donna, dopo una travagliata separazione, la resa dei conti si scarica spesso sui figli. Cose che succedono, non dovrebbero. La ragione, si sa, non sta mai da una parte sola. Però a Catania, ora ci si è messa di mezzo la politica. Mai infatti i comunisti, rifondaroli o del Pdci, si erano sentiti citati in un tribunale come pericolosi, estremisti, prova provata e sintomo di devianza giovanile. "Fino a ieri si chiamava militanza, e Rifondazione era il partito del presidente della Camera, Fausto Bertinotti; la sinistra comunista aveva due ministri nel governo Prodi", si sfoga Orazio Licandro, responsabile dell'organizzazione del Pdci. Nel partito di Diliberto hanno suonato l'allarme: comincia così la caccia alle streghe, usando in una storia delicata e complessa di affido familiare lo spauracchio dei comunisti, "è l'anticamera della messa al bando, siamo ormai extraparlamentari e anche pericolosi. Non è fascismo? Poco ci manca". Elencati nel dossier del tribunale infatti ci sono la tessera, con il costo dell'adesione, il faccione di Che Guevara e la fede nella rivoluzione riassunta nella frase "No soy un libertador, los libertadores existen, son los pueblos quienes se liberan".

C'è inoltre la parodia di una canzone dei Finley "Adrenalina", ode alla cocaina, riferimenti che mandano in tilt un padre come una madre. Mamma Agata, medico ospedaliero, è disorientata. Il Tribunale la obbliga intanto a versare 200 euro al mese al marito per il mantenimento dei figli, a lasciare la casa nel comune etneo dove la famiglia risiedeva. Nel più pessimista dei suoi incubi, racconta, si aspettava un affido condiviso. L'Istat calcola che ormai in Italia i figli bipartisan del divorzio stanno crescendo fin quasi a diventare sette su dieci. Dev'essere la storia di un'altra Italia, non cose che capitano qua, da queste parti a Catania, taglia corto Agata. Non è disposta a riconoscere argomenti e legittimità delle richieste paterne, che invece ci sono. E il figlio? "Va al mare e studia, ha avuto tre debiti al penultimo anno del classico - greco, latino e filosofia - d'altra parte come può essere sereno con questa guerra in atto?".

Non facile certo, spiegare a M. P. che le difficoltà della vita per alcuni, per lui ad esempio, si sono presentate in anticipo. Capita, ma s'impara prima. Difficile a quanto pare, far comprendere al padre che, come scriveva Freud, l'adolescenza è una malattia grave ma per fortuna si guarisce. L'avvocato della madre Mario Giarrusso assicura che tenterà altri approcci, mediazioni, soluzioni. I comunisti denunciano il clima da "anticamera della messa al bando" che si respira nell'isola. M. ha progetti bellicosi per l'autunno, ma tutti davvero poco preoccupanti: una band con gli amici dove lui vuole suonare il basso e la chitarra, la militanza politica, il teatro grande passione. "Con il suo gruppo ha vinto anche un premio", s'inorgoglisce la dottoressa Agata. Nelle relazioni dei servizi sociali e nell'ordinanza del tribunale le si rimprovera di avere nascosto al marito che il ragazzo ha avuto una "irregolare frequenza scolastica", di avere dato il suo beneplacito a "mancati rientri a casa", oltre a una serie di leggerezze anche verso l'altro fratellino (la figlia più grande è maggiorenne). Ma mai si sarebbe aspettata di trovarsi sotto accusa per le idee del figlio.

(20 agosto 2008)

da repubblica.it
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