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Autore Discussione: Il massacro era diventato il modo per conquistare la popolarità  (Letto 2260 volte)
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« inserito:: Dicembre 02, 2007, 12:24:36 pm »

Il massacro era diventato il modo per conquistare la popolarità

Dai tronisti ai vecchi guai: ascesa e declino di un superstite

Donne, tv, contratti: così si è fermata la corsa di Marzouk


«Guarda che al Coconut è pieno di figa, prima o poi dovresti farci un salto». Erano i primi di settembre, Azouz Marzouk sedeva sulle panchine fuori dal Radetzki. In quel locale milanese popolato da agenti di borsa e avvocati in happy hour, il tunisino di Erba faceva la figura del carciofo in un roseto, del parvenu. Era in sosta in un mondo non suo, aspettando che il suo amico Fabrizio Corona si decidesse a scendere da casa. In un panorama di abiti di buon taglio e cravatte pudicamente allentate, lui indossava una camicia rosa aperta sul petto rasato e coperto di catene d'oro, sotto ad un gessato a righe larghe. Roba da film di Scorsese e non da borghesone in libera uscita. In mano aveva un pacco di depliant del Coconut di Eupilio, il locale di Franco Ribaro, un altro dei suoi nuovi meravigliosi amici. Ristorante, pizzeria, discoteca «e sempre tanta figa» sottolineava lui mentre allungava i depliant a sconosciuti. Gli altri lo guardavano come si guarda un insetto strano, una blatta che misteriosamente è comparsa sul muro del salotto di casa. Era lo stesso genere di occhiate che il 13 gennaio di quest'anno gli riservarono i suoi concittadini di Erba ai funerali di Paola Galli, la nonna di Youssef. Quando Azouz arrivò sul sagrato della chiesa, una signora estrasse il telefonino dal visone e scattò una foto. Una ragazza lo guardava estasiata, «è più bello di Zidane».

Ma nessuno si spingeva a mettergli una mano sulle spalle. Solo all'uscita, sull'onda effimera della commozione, qualcuno si era cimentato nel gioco della riabilitazione, con il tunisino ex spacciatore, cattivo ma non assassino, vittima di pregiudizi e di un delitto orrendo. Lo avevano abbracciato sussurrandogli «comportati bene», con lo stesso atteggiamento di chi dà due euro a un questuante e poi aggiunge «mi raccomando, non se li beva». Azouz si era prestato a tutto questo, ben sapendo che era una finzione, che nulla sarebbe cambiato. Fu l'ultimo giorno della sua prima vita. Quella nuova e in apparenza scintillante cominciò a Zaghouan, ai funerali musulmani di Youssef e Raffaella, con Fabrizio Corona che si materializza tra le tombe bianche del cimitero sulla collina. Azouz gli aveva promesso di indossare la maglia con il logo della sua agenzia durante la tumulazione dei feretri e l'esclusiva sulle foto della cerimonia. Rosi e Olindo, i carnefici, Raffaella, Paola, Youssef, le vittime, uscirono presto dai notiziari su Azouz. Vi entrarono invece Lele Mora, qualche tronista, un sottobosco variopinto, in odore di trash e con Vallettopoli che incombeva. Lui si è sempre trovato bene con questa compagnia di giro, ricchi e reietti al tempo stesso. Gli calzava come un guanto. In quel mondo dove essere è apparire, l'unico requisito necessario è la bellezza. E poi, era portatore di valore aggiunto, la sua condizione di superstite in vendita, vittima pronta all'uso e al glamour. La popolarità era sempre legata al fatto di avere addosso l'odore del sangue di quella notte. È per questo che chiamava Mentana, per la fiction su Erba con annesso dibattito, e lo share che arriva al 27 per cento solamente al suo ingresso in scena. Ma era una gloria di passaggio, tanto prima o poi qualche altro delitto si sarebbe portato via scena e notorietà. Di tutte le promesse patinate, la conduzione di un talk show, un libro di memorie, l'Isola dei famosi, rimaneva solo la pizzeria Coconut di Eupilio e la Porsche prestata dal proprietario per le gite a Milano. In qualche remoto luogo dell'anima, Azouz dava l'impressione di coltivare un dolore, simbolizzato dal ciondolo d'oro con la foto di Youssef. Prima dell'estate, era ancora un uomo che soffriva, e somatizzava il tormento in un tremolio che dalla gamba destra gli saliva su tutto il fianco. Quella sera di settembre, sembrava soltanto la brutta imitazione di Fabrizio Corona. Nessun tremolio. Neppure una parola dedicata alla sua famiglia, ad un ricordo da coltivare. Un uomo ancora bello, ma imbolsito da una bella vita di plastica. La sua trasformazione si stava definitivamente compiendo.

 Una volta scolorito il ricordo del sangue, sarebbe saltato fuori un posto anche per lui, tra soubrette da pizzeria e presentatori sul viale del tramonto. Dopo aver scolato un analcolico e aver provato a chiamare Fabrizio, che aveva il cellulare spento, Azouz disse che pensava di prender casa a Milano, che il passato era alle spalle, compresi i suoi lutti. Lui era pronto a prendersi quel che la vita — e i nuovi amici — gli avrebbero concesso. Ma il passato certe volte torna, sotto forma di vecchie abitudini. Forse è vero quello che dice ora Azouz dal carcere, che lui non aveva più bisogno di quello spaccio da pezzenti. L'Azouz diventato famoso rimaneva pur sempre il capo dei tunisini di Merone e di Erba, erano l'unico punto fisso della sua vita, nonostante le amicizie sventolate sui rotocalchi. Tutti sapevamo che c'era solo da aspettare. Oggi Azouz si riprende quel ruolo di cattivo che gli è sempre rimasto addosso, anche dopo esser stato scagionato dalle accuse della prima notte. Tutti noi lo abbiamo sempre osservato da lontano donandogli una finta solidarietà che invece era semplice attesa di una caduta che sarebbe inevitabilmente arrivata. La cosa peggiore è che Azouz sapeva tutto. E accettava l'ipocrisia, pensando che era pur sempre meglio dell'indifferenza, del nulla.

Marco Imarisio
02 dicembre 2007

da corriere.it
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