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Autore Discussione: Francesco GIAVAZZI.  (Letto 61077 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Novembre 23, 2009, 03:22:53 pm »

 PIU’ TRASPARENZA MENO SPECULAZIONE

Sono mercati o case da gioco?


Più passa il tempo, più cresce la proba­bilità che questa crisi sia un’occasio­ne sprecata. Di riforme dei mercati finanziari, la cui urgenza la crisi ha reso evi­dente, non si intravede neppure l’ombra. Eppure queste riforme sarebbero l’unico beneficio di una cri­si che è tanto costosa.

Il problema non è certo la mancanza di analisi o di proposte: da mesi il Finan­cial Stability Board ha in­dividuato quali regole deb­bono essere cambiate. Le riforme non vengono fatte perché sono venuti meno l’interesse e la determina­zione dei governi e dei par­lamenti, cui spetta il com­pito di tradurre quelle pro­poste in norme di legge e nuovi regolamenti. Nel Congresso degli Stati Uni­ti, dove l’esigenza di nuove regole è più forte, la discus­sione è appena cominciata e con il piede sbagliato. Si mette in dubbio l’indipen­denza della Banca centrale ma non si fa nulla che pos­sa irritare i banchieri.

Nel frattempo i mercati finanziari hanno ricomin­ciato a funzionare esatta­mente come funzionavano prima delle crisi, con i me­desimi incentivi e le mede­sime debolezze.

Rimandare le riforme si­gnifica scegliere di non far­le più, perché più passa il tempo, più le banche ripa­rano i loro bilanci, più au­mentano il loro potere e la loro capacità di convince­re i governanti a non far nulla che possa intaccare i loro profitti.

Al centro della discussio­ne pubblica ci sono i com­pensi dei banchieri. Ma è una trappola: i banchieri più smaliziati in realtà so­no contenti che questo sia il tema al centro del dibatti­to e la loro apparente resi­stenza è strategica, cioè un modo per evitare regole che possano intaccare i profitti delle banche. Se ci sono ampi profitti, un mo­do per distribuirli lo si tro­va, quali che siano le rego­le sui compensi. Se i criteri per la determinazione dei compensi cambieranno, ma tutto il resto rimarrà in­variato, il sistema rimarrà debole quanto lo era pri­ma della crisi.

C’è qualcosa che il gover­no italiano può fare per evi­tare questo disastro? Il maggior contributo italia­no all’industria finanziaria è stata la creazione del Mercato telematico dei ti­toli di Stato (Mts), uno dei primi esempi al mondo di piattaforma pubblica tra­sparente per la negoziazio­ne dei titoli, un modello di­ventato lo standard in mol­ti Paesi. Il governo potreb­be fare leva su questo no­stro successo e chiedere che il G20 adotti — come l’F sb ha proposto — una norma che impedisca gli scambi over the counter, cioè attraverso una banca, e sposti le compravendite di prodotti finanziari su piattaforme trasparenti. Questa norma può essere adottata domani e trasfor­merebbe i mercati finan­ziari. Non solo perché im­porrebbe la trasparenza e quindi la tracciabilità delle transazioni. Oggi le som­me che chi acquista un tito­lo deve depositare a garan­zia dell’operazione sono impiegate dalle banche co­me se fossero mezzi pro­pri e sono una delle fonti con cui vengono finanzia­te operazioni che espongo­no i bilanci delle banche a rischi impropri. Le piatta­forme invece le considera­no per quello che sono, cioè garanzie, non chip per il casinò.

Francesco Giavazzi

23 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #31 inserito:: Gennaio 24, 2010, 03:41:08 pm »

FINANZA E REGOLE

Banchieri dimezzati


Come regolare le banche è forse il problema più difficile con cui si sia confrontata l’economia di mercato. Come tutti i problemi complessi, anche questo ha soluzioni apparentemente semplici, ma il più delle volte sbagliate o inefficaci. Il ministro Tremonti ha sprecato l’occasione della presidenza del G7 illudendosi (con la proposta dei legal standard, principi contabili uguali per tutti) che fosse sufficiente imporre alle banche nuovi criteri con cui redigere i loro bilanci. La più parte dei politici, sia in Europa sia negli Stati Uniti, ha inseguito la popolarità sostenendo che il vero problema fossero i compensi dei banchieri. In realtà sono caduti in una trappola.

I banchieri più smaliziati sono felici quando si agita il tema dei bonus (anche se evidentemente non lo dicono e apparentemente protestano). I compensi spesso generano effetti perversi. Ma discutere di bonus evita che ci si chieda che cosa può fare o non fare una banca, cioè che si discuta delle regole che potrebbero intaccarne i profitti. Se ci sono ampi profitti, un modo per distribuirli lo si trova, quali che siano le regole sui compensi. Le proposte del presidente Obama hanno finalmente posto al centro dell’attenzione la vera questione, cioè che la medesima istituzione non può essere al tempo stesso una banca, che raccoglie risparmio e lo presta a famiglie e imprese, e un fondo hedge che specula. I risultati trimestrali di alcune grandi banche, pubblicati ieri, mostrano che la maggior parte dei profitti sono stati fatti acquistando e vendendo titoli.

Ma da quei bilanci è impossibile capire quanti titoli sono stati acquistati e venduti per i clienti, e quante operazioni invece sono state fatte in proprio, impegnando il capitale della banca, cioè agendo come un fondo hedge. Le operazioni in proprio (che secondo il piano di Obama non sarebbero più consentite) sono le più redditizie, ma anche le più rischiose. Ad una banca non dovrebbe essere permesso di esporsi ai rischi di un fondo hedge. Perché le banche (come spiega da due anni Alberto Giovannini sul Financial Times, in articoli che hanno influenzato Paul Volcker, l’estensore del piano di Obama) sono stanze di compensazione per gli scambi: se una fallisce, gli acquisti e le vendite che ha fatto per conto dei clienti rischiano di essere cancellate, vi è cioè un rischio di contagio.

Ma c’è un’altra differenza importante, che spiega perché i fallimenti dei fondi hedge sono stati rarissimi, diversamente da quelli delle banche: se un fondo perde, il gestore ne sopporta i costi, perché investe i propri soldi nei fondi che amministra. Questo in una banca non accade. Ma separare le due attività non sarà semplice, forse non sarà neppure possibile. Il merito di Obama è di aver avviato un processo e di aver capito quale fosse la direzione giusta in cui muoversi. Ora la palla passa al Financial Stability Board, l’istituzione che dovrà tradurre questi principi in regole.

Francesco Giavazzi

23 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #32 inserito:: Febbraio 01, 2010, 11:58:57 am »

Grandi capitali e grossi equivoci

Alcuni banchieri non hanno evidentemente prestato attenzione a quanto ha detto il presidente Obama. Sembrano non aver capito che a Washington è cambiata l'aria: riprendere a comportarsi come prima della crisi non sarà possibile. In realtà bastava leggere le proposte del Financial Stability Board per rendersene conto. Ma quelle parole di Obama: «Se i banchieri vogliono dar battaglia sono pronto», pronunciate accanto alla figura arcigna e imponente dell'ex presidente della Federal Reserve Paul Volcker, hanno rappresentato uno spartiacque. Talvolta le immagini contano più delle parole.

Alcuni banchieri — come ha spiegato ieri al Financial Times l'amministratore delegato di Deutsche Bank Josef Ackermann — ora propongono di autotassarsi per costituire un fondo di garanzia che dovrebbe far fronte a eventuali fallimenti bancari senza ricorrere ad aiuti pubblici.

Apparentemente è un’idea che dimostra buona volontà; in realtà è il tentativo di distogliere l'attenzione da riforme che metterebbero a rischio i loro profitti. Se non si modificano le regole che hanno consentito che in alcune banche si accumulasse tanto rischio, la prossima crisi è solo questione di tempo. E una volta scoppiata non ci sarà fondo privato, per quanto grande, in grado di farvi fronte.
La proposta di Obama è semplice: a una banca non dovrebbe essere consentito esporsi ai rischi che corre un fondo speculativo. Se uno di questi fallisce, poco male, ma se fallisce una grande banca, essa rischia di trascinare con sé i propri correntisti e tutta l'economia. E’ un problema di «funzioni», cioè di che cosa una banca può e non può fare, non di «dimensioni». Banche troppo grandi sono un ostacolo alla concorrenza, ma se non mettono a rischio il loro capitale speculando non costituiscono necessariamente un pericolo per l'economia. Chi sostiene che sarebbe sufficiente spezzare le grandi banche non ha capito qual è la fonte del rischio.

Certo, separare le funzioni non è semplice. Ad esempio, come ha spiegato Alessandro Penati ( La Repubblica, 30 gennaio), quando una banca garantisce la liquidità di un mercato inevitabilmente prende dei rischi e può anche «mascherare» speculazioni in proprio. Ma questa funzione è essenziale per far sì che i mercati siano liquidi e i risparmiatori possano acquistare e vendere titoli senza costi eccessivi: sarebbe sbagliato impedirlo. Soluzioni perfette non esistono. Il punto è capire in che direzione muoversi evitando due tipi di errori. Da un lato errori dovuti alle illusioni di chi, ad esempio Giulio Tremonti, rimpiange le vecchie banche di 30 anni fa, scordandosi quanto frequenti anche in passato furono le crisi e dimostrando di non capire quanto sia importante per un’economia diversificare il rischio. Dall'altro l'errore di credere ai banchieri quando cercano di convincerci che separare le diverse funzioni di una banca è impossibile. Non lo è: alcune banche già dispongono di una contabilità interna che attribuisce costi e ricavi alle singole funzioni. Basterebbe usarla per identificarle e separarle.

Francesco Giavazzi

01 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #33 inserito:: Febbraio 13, 2010, 05:31:19 pm »

Serve il Fondo monetario

L'illusione di fare da soli

 di Francesco Giavazzi

Gli europei vogliono fare da soli: rifiutano il contributo del Fondo monetario internazionale per stabilizzare la situazione economica nel sud dell’Europa. È un errore che potrebbe costarci caro perché gli europei non hanno gli strumenti tecnici per intervenire. Il piano di Francia e Germania rischia di essere insufficiente: se fallisse potrebbe segnare la fine dell’unione monetaria. Verrà un giorno in cui l’euro avrà strumenti e istituzioni adatti per risolvere le proprie crisi, ma quel giorno non è ancora arrivato anche perché gli europei non hanno mai accettato che l’euro fosse altro che un’unione monetaria. Non accettare questa realtà significa mettere a rischio l’euro per una mera questione di vanità e di prestigio.

Un piano credibile per arrestare la speculazione contro i titoli pubblici greci richiede due elementi: un programma fiscale politicamente credibile (non lo è imporre alla Grecia di riportare il deficit dal 13 al 3% entro il 2012 come chiede Bruxelles) e liquidità sufficiente ad evitare una crisi del debito. Si tratta di «liquidità» non di un salvataggio. Chi parla di salvataggio lo fa perché in realtà ha interesse a che un intervento divenga politicamente impossibile, e vuole creare le condizioni perché i contribuenti tedeschi non lo consentano. L’Europa non ha gli strumenti né per mettere a disposizione la liquidità necessaria, né per imporre un piano fiscale credibile. La Bce potrebbe offrire la liquidità, ma non potrebbe accompagnarla con condizioni sui tempi della stabilizzazione fiscale. Bruxelles non dispone di fondi propri, almeno non in quantità sufficiente. Il problema infatti non è solo la Grecia. La liquidità necessaria per fermare la speculazione, ed evitare che si sposti a Spagna e Portogallo (e forse anche alla Gran Bretagna) ammonta, nei prossimi mesi, ad almeno 100 miliardi di euro. Infine né la Bce né Bruxelles hanno alcuna esperienza nella gestione di una crisi. E se anziché da un’istituzione europea il piano fosse predisposto da un gruppo di Paesi, ad esempio da Francia e Germania, questi non avrebbero né la liquidità sufficiente, né soprattutto sarebbe politicamente pensabile che essi imponessero condizioni ad un altro Paese dell’Ue.

Mettere a disposizione di un Paese liquidità, ed accompagnarla con impegni fiscali credibili, e con un programma di monitoraggio successivo, è ciò che il Fondo fa da oltre 50 anni. Diversamente dall’Europa, il Fmi ha sia gli strumenti che l’esperienza per farlo, anche in situazioni molto più difficili di quella greca. Gli europei non possono garantire che il loro piano funzionerà, ma non possono neppure correre il rischio che i mercati finanziari lo giudichino insufficiente. Se ciò accadesse gli spread sui titoli pubblici aumenterebbero e potrebbero essere sufficienti per dar luogo ad un default. È proprio l’insistenza degli europei a voler far da soli—quando invece non hanno gli strumenti per farlo —uno dei motivi per cui la crisi greca nelle ultime settimane si è aggravata. La soluzione è un piano concordato fra l’Europa e il Fondo, come è avvenuto (con successo) lo scorso anno durante la crisi in Lettonia. Bruxelles e la Bce parteciperebbero al negoziato, assicurandosi che le regole europee non vengano violate; il Fondo metterebbe a disposizione la liquidità e la propria esperienza. Non vi è nulla di umiliante per l’Europa: il Fondo è un’istituzione multinazionale nel cui Consiglio di amministrazione gli europei hanno la maggioranza (anche la sede sarebbe in Europa, anziché a Washington, se gli europei smettessero di litigare e si facessero rappresentare dalla Bce unendo le loro quote). Mettere a rischio l’euro per una questione di prestigio e di vanità è una stupidaggine. Anche perché, se l’euro non ha gli strumenti per far fronte alle proprie crisi, è solo colpa nostra, di chi non ha mai voluto che l’euro fosse altro che un’unione monetaria.


11 febbraio 2010
da corriere.it
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« Risposta #34 inserito:: Febbraio 18, 2010, 02:59:11 pm »

SE SALTA, IL RISCHIO PASSA ALLA SPAGNA

Non scherzate con la Grecia


Il gioco con la Grecia si sta facendo pericoloso. Per alcuni mesi i leader europei hanno lasciato capire — con troppa leggerezza — che non c’era di che preoccuparsi: un default di Atene era fuori discussione. Venuti al dunque, si sono resi conto che concedere un prestito alla Grecia non è politicamente proponibile, forse non è neppure tecnicamente possibile. Non sapendo che fare, hanno cominciato ad alzare la voce, con il bel risultato che il primo ministro greco, George Papandreu, ha scelto la strada della popolarità, cioè del populismo: «I greci non prendono lezioni da nessuno ». A questo punto alcuni propongono di lasciare che la Grecia vada per la propria strada: non ripaghi il suo debito e abbandoni l’euro. La Grecia è piccola: essere inflessibili, rifiutarsi di aiutare chi vive al di sopra dei propri mezzi, non presenta grandi rischi e rafforzerebbe la credibilità dell’euro. Secondo me è invece una strategia che rischia di affossarlo. Il vero problema della Grecia non è il debito, ma la mancanza di crescita. Se l’economia non riprende, per stabilizzare il debito serve una correzione dei conti pubblici enorme: circa 14 punti di Pil, al di là di ciò che qualunque governo possa fare. Se invece la Grecia crescesse al 3%, l’aggiustamento necessario sarebbe severo, ma non impossibile: circa 6 punti.

Ma come fa la Grecia a ricominciare a crescere? Un modo c’è: uscire dall’euro, svalutare del 50% e diventare il luogo più a buon mercato in cui andare in vacanza nel Mediterraneo. Certo, la svalutazione raddoppierebbe il debito, che è tutto in euro, quindi sarebbe giocoforza non ripagarlo. È ciò che ha fatto l’Argentina, con risultati non disprezzabili. Cambiate il nome del Paese, sostituite Grecia con Spagna: il ragionamento è esattamente lo stesso. In due anni i conti pubblici spagnoli sono passati da un avanzo del 2% ad un deficit dell’11,4, più o meno quanto quello greco. Anche la Spagna, se non riprende a crescere, non riuscirà a stabilizzare il debito. Lavarsi le mani della Grecia, spingerla ad abbandonare l’euro, significa spostare l’attenzione sulla Spagna. A differenza della Grecia, la Spagna non è piccola: le sue banche sono fra le più grandi d’Europa. Ma se ciò che rende il debito non sostenibile è la mancanza di crescita, non vedo quale sia la forza dell’Italia: neppure noi cresciamo e il nostro rapporto debito- Pil è ancora il più elevato nell’area dell’euro. Al vertice europeo della scorsa settimana, Silvio Berlusconi — che queste cose le capisce al volo e nutre anche un sano scetticismo verso la vanità di Bruxelles — ha chiesto che la gestione delle crisi nel Sud dell’Europa venga delegata al Fondo monetario internazionale. Diversamente dall’Europa, il Fondo ha gli strumenti e l’esperienza per intervenire, e negli anni ha anche imparato che alzare la voce non è una buona strategia. La richiesta del presidente del Consiglio è stata accettata per metà: il Fondo collaborerà, ma solo come consulente tecnico. Berlusconi deve insistere: il suo intervento potrebbe essere cruciale per salvare l’euro.

di FRANCESCO GIAVAZZI

18 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #35 inserito:: Febbraio 28, 2010, 08:25:12 pm »


LA CRISI GRECA, CHE PIACE A TROPPI

Due partiti contro l'euro

Sull’onda della crisi greca si è all’improvviso diffusa un’isteria collettiva: non solo sulle sorti dell’euro, ma dell’intera costruzione europea. La alimentano due partiti contrapposti, entrambi interessati ad accentuare la gravità di questa crisi.

Da un lato i federalisti sperano che la crisi ci obblighi a fare un passo avanti nell’integrazione politica dell’Europa. Non si può aiutare la Grecia senza mettere in piedi un meccanismo che consenta trasferimenti di bilancio all’interno dell’Europa, e questo è impensabile senza un passo avanti nell’unione politica. Non farlo significherebbe rischiare che Atene abbandoni l’euro, eventualità che essi ritengono inconcepibile. D’altronde i federalisti hanno sempre pensato che l’unione monetaria avrebbe prima o poi reso inevitabile qualche forma di unione politica. È la volta buona: la crisi in fondo è benvenuta.

Dalla parte opposta ci sono gli scettici, coloro che non hanno mai creduto nel progetto europeo. Essi pensano che la crisi vendicherà il loro scetticismo. Determinerà la fine dell’euro e darà un colpo irreparabile alle istituzioni europee. Dietro questa opinione c’è molta politica. Non a caso gli scettici sono soprattutto negli Stati Uniti e in quei Paesi europei che non hanno aderito all’unione monetaria (Gran Bretagna, Svezia, Danimarca ma anche la Repubblica Ceca), cioè là dove un fallimento dell’euro potrebbe portare qualche vantaggio. I commenti del Financial Times e soprattutto del Wall Street Journal danno per scontato il fallimento dell’euro. E già assaporano la rivincita sulle decisioni dell’antitrust europeo guidato da Mario Monti, che anni fa obbligò Microsoft e General Electric a cedere un po’ del loro potere di mercato.

Scettici e federalisti hanno ideali e intenti contrapposti, ma oggi, paradossalmente, condividono un interesse comune: accentuare la crisi. Per motivi diversi montano una bolla che, una volta gonfiata, non può che produrre un guaio serio. Perché l’illusione dei federalisti si rivelerebbe per quello che è, cioè solo un’illusione, mentre la profezia degli scettici rischierebbe di avverarsi (anche se il fallimento dell’euro rafforzerebbe il dollaro, come già sta accadendo, e non è evidente che ciò aiuti l’economia americana).

Occorre tenere i piedi per terra. La Grecia ha problemi seri, come tanti Paesi. Il debito è elevato, ma per ora inferiore a quello dell’Italia; il deficit è enorme, ma non maggiore che in Gran Bretagna, o negli Usa; l’economia ha perduto competitività, ma meno della Spagna. C’è, è vero, un imminente problema di liquidità: nei prossimi due mesi Atene deve rifinanziare 22 miliardi di euro di titoli pubblici in scadenza, e rischia di non riuscirci. È per affrontare questi problemi che esiste il Fondo monetario internazionale. Vogliamo, per incomprensibile ostinazione e stupida vanità, tener lontano il Fondo, nonostante sia un’istituzione nella quale gli europei detengono la maggioranza del capitale? Basta un consorzio di banche: 22 miliardi di euro sono una cifra relativamente piccola che molte banche sono pronte a garantire. Scettici e federalisti dicono che queste mezze misure non bastano: serve un big bang. Stiamo attenti a non cadere nella loro trappola.

Francesco Giavazzi

27 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #36 inserito:: Marzo 11, 2010, 09:30:13 am »

Crisi greca - unità europea da rafforzare

Piu’ che un fondo serve il coraggio


Ci sono stati momenti, nella storia recente, in cui i leader europei hanno dimostrato lungimiranza e coraggio.
Negli Anni 50, quando Adenauer, De Gasperi e Schuman crearono la Comunità del carbone e dell’acciaio, la prima istituzione comune europea.
E di nuovo negli Anni 90, quando Kohl, Andreotti eMitterrand aMaastricht crearono l’unione monetaria. Furono, è vero, decisioni frutto della storia. Negli Anni 50 eravamo ancora traumatizzati dalla guerra: creare istituzioni comuni era un modo per impedire che un simile disastro si ripetesse. Quarant’anni dopo l’unione monetaria ci aiutò ad accettare la riunificazione tedesca e il ritorno di una Grande Germania.
Ma quei leader seppero cogliere il momento favorevole: senza la loro lungimiranza l’Europa sarebbe ancora un’entità solo geografica.
La crisi economica che stiamo attraversando, e che in Europa è accentuata dai guai della Grecia, offre un’occasione simile.

L’idea tedesca di affiancare all’euro un Fondo monetario europeo ha aspetti poco convincenti. Ad esempio non è chiaro che cosa un simile Fondo potrebbe fare che già non possa fare il Fondo monetario internazionale. Se il problema è solo di forma — perché l’Fmi ha sede a Washington— basterebbe unificare la rappresentanza europea e usare l’articolo dello statuto che prevede che la sede dell’Fmi sia nel Paese che ha la maggioranza dei voti, che a quel punto sarebbe l’Ue, non più gli Usa.

Ma evidentemente non è questo il punto. La domanda è se la signora Merkel, Sarkozy e Berlusconi sapranno sfruttare questa occasione per far compiere un balzo in avanti al progetto europeo. L’idea del Fondo può essere la scusa per cominciare a riflettere. Occorre chiedersi se l’unione monetaria, per sopravvivere, debba dotarsi di istituzioni che consentano una gestione coordinata delle politiche economiche.
Se la risposta fosse positiva, questo è il momento per farlo.

Certo, occorre un po’ di coraggio. Innanzitutto non farsi spaventare dal presidente della Bundesbank. Axel Weber è contrario al Fondo perché pensa che dotarsi di strumenti per affrontare crisi come quella greca avrebbe l’effetto di rendere le crisi più frequenti. È un’evidente sciocchezza: come dire che sarebbe meglio se non ci fossero i vigili del fuoco perché la loro presenza fa sì che siamo meno attenti al fuoco, e che quindi vi siano più incendi. Né bisogna dare ascolto a chi sostiene che in Europa qualunque nuova istituzione richiede un nuovo trattato. Se così fosse, passi avanti non se ne potranno più fare perché non c’è speranza che un nuovo trattato venga ratificato da 27 Paesi.

Da tempo i trattati europei consentono a gruppi di Stati di instaurare tra loro «cooperazioni rafforzate», cioè accordi che non si estendono a tutti i 27 Paesi (un esempio sono gli accordi di Schengen sulle frontiere). Il Trattato di Nizza ha reso questa possibilità ancor più semplice eliminando (con l’eccezione della politica estera) il diritto di veto dei Paesi che decidono di non partecipare e cancellando il vincolo che i nuovi accordi debbano essere approvati da una maggioranza dei 27 Paesi.

L’unione monetaria è già una cooperazione rafforzata. Si può estenderla. Ma servono visione e coraggio. Altrimenti meglio delegare a Washington la soluzione della crisi greca.

Francesco Giavazzi

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« Risposta #37 inserito:: Aprile 12, 2010, 11:36:22 pm »

LA MERKEL E LA CRISI DELLA GRECIA

La scelta tedesca: egoisti e isolati


Un anno fa, due decisioni hanno mutato la posizione della Germania verso l’Europa. Il parlamento ha inserito nella Costituzione tedesca una clausola che obbliga (dal 2016) il governo federale al pareggio di bilancio e una sentenza della Corte Costituzionale ha sancito che la politica fiscale è materia degli stati nazionali e non può essere soggetta a un coordinamento europeo.

Forte di queste decisioni il presidente della Bundesbank, Axel Weber, ha assunto una posizione molto dura nei confronti della crisi greca: è contrario non solo a un intervento coordinato europeo (che a questo punto giudica incostituzionale), ma anche ad aiuti del Fondo monetario internazionale, che egli accusa di non essere sufficientemente severo con Atene. Insomma è favorevole a consentire che la crisi di Atene arrivi al suo epilogo naturale: il default, cioè l’impossibilità di fare fronte ai debiti, e, forse, l’uscita dall’euro.

Il 9 maggio si vota nella Renania settentrionale-Vestfalia, 18 milioni di abitanti, il più popoloso stato tedesco, dove si produce quasi un quarto del reddito della Germania. Dopo le elezioni dello scorso settembre è il primo test elettorale per il governo di Angela Merkel e dei liberali di Guido Westerwelle. La Grecia è al centro della campagna elettorale e la dura posizione della Bundesbank ha obbligato il cancelliere tedesco, prima favorevole a un intervento europeo, a cambiare parere. La Germania si appresta a porre il veto alla richiesta italiana e francese di azioni europee a favore di Atene. Li accetterebbe solo se fossero a condizioni di mercato e quindi a questo punto inutili. E un eventuale intervento del Fmi deve ottenere l’approvazione dei suoi azionisti perché il finanziamento di cui Atene ha bisogno eccede la quota greca nel Fondo. Gli europei potrebbero quindi dividersi nel consiglio di amministrazione del Fmi, cosa finora (credo) mai accaduta. E per essere chiara fino in fondo, Berlino fa sapere che della successione a Jean-Claude Trichet alla presidenza della Banca centrale europea non si discuterà più: quella d’ora in poi sarà una posizione tedesca.

Ma tutto questo è davvero nell’interesse della Germania? Da dieci anni i deficit di Grecia, Spagna e Portogallo sono finanziati per lo più dalla Germania. La quota di questi tre Paesi sul totale degli investimenti esteri tedeschi è cresciuta dall’8 al 14% (al confronto gli investimenti tedeschi negli Usa sono solo l’8% del totale). Diversamente dalla Cina, la Germania rifiuta di far crescere i propri consumi interni e di sostituirsi agli Usa come nuovo motore della domanda nel mondo. Difende la propria scelta di risparmiare e investire all’estero pensando al proprio futuro. Ma la saggezza di quegli investimenti oggi appare discutibile.

Molti in Germania si sono pentiti di aver aderito all’unione monetaria. Forse è troppo tardi. L’iniziale intuizione di Angela Merkel pare più coerente con gli interessi tedeschi dell’inflessibilità di Axel Weber. Saggezza suggerirebbe di attendere l’esito delle elezioni del 9 maggio. Purtroppo il default di Atene potrebbe arrivare prima.

Francesco Giavazzi

11 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #38 inserito:: Aprile 19, 2010, 09:35:14 am »

LE MIRE DI BOSSI SULLE BANCHE DEL NORD

La politica non dà credito


Nell’agosto 2007, a poche settimane dall’inizio della crisi, la prima istituzione al mondo a diventare insolvente e a dover essere salvata non fu una banca americana, ma la Landesbank della Sassonia, una cassa controllata da amministratori pubblici di questa regione della Repubblica Federale Tedesca. Da allora le banche pubbliche tedesche si sono rivelate fra le più esposte ai titoli «tossici » americani e sono state salvate dallo Stato, una dopo l’altra.

Perché quelle banche avessero acquistato mutui immobiliari in luoghi esotici come Florida o Nevada, sembrò incomprensibile. Poi si capì: i politici locali chiedevano alle loro banche di aiutare le aziende della regione, spesso erogando credito a condizioni non di mercato. A fine anno, però, essi pretendevano, in quanto azionisti, ricchi dividendi. Per i dirigenti della banca venir meno a queste richieste significava mettere in forse il proprio incarico. L’unica via d’uscita era compensare le perdite sui prestiti cercando di guadagnare con la finanza, e le banche lo fecero acquistando titoli ad alto rendimento, senza preoccuparsi dei rischi. Questi incentivi perversi hanno fatto sì che le Landesbanken diventassero, e siano ancor oggi, le più rischiose d’Europa.

In alcuni casi la ricerca di rendimenti particolarmente elevati ha portato ad operazioni singolari, come la decisione della Landesbank della Baviera di acquistare Hypo Alp Adria, una banca austriaca che il giorno dopo l’acquisto si rivelò un buco nero. Hypo dovette essere salvata dalle autorità di Vienna e l’improvvido acquisto aprì una voragine nel bilancio della Landesbank bavarese. Se le banche italiane sono uscite indenni dalla crisi è anche perché le Fondazioni che le controllano hanno nominato amministratori delegati indipendenti e non hanno cercato di influire sulle loro scelte creditizie.

Avendo vinto le elezioni, Bossi vuole contare di più nelle fondazioni bancarie del Nord: richiesta legittima perché le fondazioni sono espressione delle amministrazioni locali dove il peso della Lega è cresciuto. Ma prima di cambiare rotta sul rapporto fra fondazioni e banche, Bossi dovrebbe riflettere sul disastro bancario tedesco. E dovrebbe riflettere anche il sindaco Pd di Torino, Chiamparino, che si considera azionista di riferimento di Intesa-Sanpaolo. Per ottenere rendimenti stabili e il più possibile elevati, in modo da investire sul territorio, le fondazioni dovrebbero diversificare il loro patrimonio. Concentrarlo nel possesso di una singola banca è una pura follia, e ancora più folle sarebbe se la Lega o altri azionisti di nomina politica cercassero di influire sulle scelte dei «loro » banchieri ponendo a rischio i bilanci.

Se davvero l’obiettivo di Bossi è far sì che le banche finanzino le imprese, e che le fondazioni investano in strutture sociali, egli dovrebbe ordinare loro di vendere i pacchetti di controllo delle banche e diversificare il proprio portafoglio. Seguire l’esempio delle Landesbanken significa ritrovarsi con banche deboli e fondazioni prive di risorse, quindi con poco credito alle imprese e pochi investimenti sociali.

Francesco Giavazzi

19 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #39 inserito:: Aprile 29, 2010, 10:25:05 am »

L'editoriale

Torpori e colpe

Crisi greca e aiuti, l’Europa ne esce a pezzi, altro che un modello per la governance del mondo


Il re è nudo. Per quattro mesi i governanti europei si sono illusi che bastassero le parole per convincere gli investitori a continuare a sottoscrivere i titoli di Atene. Hanno negato che i trattati europei, o più semplicemente i cittadini tedeschi, avrebbero, alla fine, reso impossibile un salvataggio. Non hanno avuto il coraggio di dare una risposta politica forte alla crisi.

Hanno impedito al Fondo monetario internazionale di intervenire ed organizzare una soluzione ordinata. Le loro bugie hanno fatto perdere quattro mesi, ma non hanno cambiato la realtà: ne hanno solo reso più traumatica la soluzione. Atene non rimborserà i propri debiti anche se un aiuto europeo potrebbe spostare in là il default. Rimane l’incertezza se sia preferibile che ciò avvenga con la Grecia dentro o fuori dall’euro. Perché Atene ha due problemi distinti: uno fiscale e uno di competitività che si manifesta in un disavanzo nei conti esteri pari al 10% del Prodotto interno lordo. Riportare in equilibrio i conti pubblici non basta; occorre anche abbassare i salari del 30% circa. Ciò che non è in dubbio sono invece le perdite delle banche francesi e tedesche che in questi anni hanno acquistato titoli greci per circa 100 miliardi di euro.

Berlino non salverà Atene, ma dovrà salvare (ancora una volta) le sue banche. L’Europa esce a pezzi da questa vicenda, altro che un modello per la governance del mondo! Le difficoltà vere cominciano ora. L’epilogo della crisi greca ha rotto un tabù, l’illusione che nell’Unione monetaria tutti i debiti fossero uguali, i titoli tedeschi e finlandesi identici a quelli greci e portoghesi. Non era colpa della miopia dei mercati, semplicemente del fatto che il maggior acquirente di titoli pubblici europei, la Bce, non ha mai distinto fra i titoli dei diversi Paesi. Così facendo ha illuso gli investitori che, se mai ci fosse stato un problema, qualcuno sarebbe intervenuto. Spezzato l’incantesimo, gli investitori hanno aperto gli occhi. Il declassamento, prima del Portogallo, poi della Spagna, gli spread sui titoli di Stato italiani saliti ieri oltre quota 100 ne sono il segnale.

La preoccupazione più grande, ciò che accomuna questi Paesi, è la mancanza di crescita, perché senza crescita è impossibile ripagare i debiti. Da qui bisogna cominciare. Chiedendosi che cosa si deve fare per far ripartire la crescita. La risposta è semplice: non andare in pensione a 60 anni, non proteggere le rendite di qualche corporazione potente che opprime i cittadini, aprire i mercati alla concorrenza per creare più occasioni di crescita alle imprese. Non mi sembrano le priorità del nostro governo. Chissà che lo spavento greco e il rischio che prima o poi gli investitori perdano fiducia anche nei nostri titoli, non ci aiuti a uscire dal torpore.

Francesco Giavazzi

29 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #40 inserito:: Maggio 12, 2010, 10:03:01 am »

Crisi greca e interventi europei

Le risposte che mancano

Nonostante gli annunci di domenica notte, la situazione economica nei Paesi del Sud dell’Europa rimane fragile. Della quantità straordinaria di denaro messa in campo dai governi, gli unici soldi immediatamente spendibili sono quelli della Bce e delle banche centrali nazionali. Da lunedì mattina esse hanno incominciato ad acquistare i titoli pubblici dei Paesi in difficoltà, sostenendone i prezzi.

Le risorse messe a disposizione dal Fondo monetario internazionale possono invece essere usate solo se i Paesi le chiedono e, come la Grecia, accettano le condizioni imposte dal Fondo. Il primo ministro Zapatero, preoccupato dai disordini di Atene, si rifiuta di farlo. Quindi per ora le risorse del Fondo non sono disponibili. Tutto il resto, i quasi 500 miliardi annunciati dall’Ue, per ora sono solo sulla carta. Non è ancora chiaro come verrebbero spesi e soprattutto chi pagherà: se una società in comune fra i 16 Paesi dell’euro, che acquista titoli dei governi in difficoltà ed è finanziata o garantita dai 16 pro quota, oppure mediante interventi bilaterali. Rimangono quindi solo le banche centrali, le quali però non possono continuare ad acquistare titoli oltre un certo ammontare e un certo lasso di tempo. Nonostante questi acquisti siano «sterilizzati», cioè non tocchino la base monetaria, le aspettative di inflazione (almeno quelle implicite nei prezzi dei titoli indicizzati all’inflazione) da lunedì hanno cominciato, seppur lievemente, a salire.

È quindi evidente che occorre passare alla «fase 2». Tamponata l’emorragia, è necessario affrontare le cause della crisi: politica di bilancio e crescita. Questo le banche centrali non possono farlo. I mercati lo hanno presto capito e dopo la positiva reazione iniziale sono tornate le preoccupazioni. È una stupidaggine pensare che coloro che vendono i titoli di Grecia, Spagna e Portogallo siano solo speculatori, e che spaventarli facendo la voce grossa sia il modo per risolvere tutto. Non è così. Gli investitori che stanno vendendo titoli europei sono venditori genuini, non speculatori: vogliono sapere se queste economie ricominceranno a crescere, o se invece sono destinate ad un lungo periodo di stagnazione. Perché in questo caso investiranno altrove i risparmi che le famiglie hanno loro affidato.

La soluzione migliore sarebbe attivare, in Spagna e Portogallo, un programma del Fondo monetario che apporterebbe liquidità, ma soprattutto un’attenta procedura di sorveglianza. Zapatero si rifiuta di farlo. Nei prossimi giorni la Spagna annuncerà un programma di riforme economiche che, a suo parere, dovrebbero rassicurare i mercati senza lo stigma di un intervento del Fondo. È un azzardo: se il piano spagnolo non convincesse, e gli investitori non ricominciassero ad acquistare i titoli di Madrid, la Bce si troverebbe in una situazione molto difficile, stretta tra l’impegno a sostenere da sola la Spagna e i rischi di una svolta nelle aspettative di inflazione.

Infine, pur senza allarmismi, non dobbiamo scordare che le preoccupazioni sulla crescita e la disoccupazione riguardano anche l’Italia. Una manovra estiva fatta di qualche tassa in più e qualche spostamento di spesa ai prossimi anni non è ciò che oggi serve. Occorre spiegare in che modo, dopo un decennio di stagnazione, ricominceremo a crescere e a ridurre la disoccupazione.

Francesco Giavazzi

12 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_12/Le-risposte-che-mancano-editoriale-francesco-giavazzi_fa4d8f88-5d84-11df-8e28-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #41 inserito:: Maggio 26, 2010, 08:38:37 am »

La manovra da 24 miliardi e la crisi dell'europa

Risposte necessarie


Per mesi i governi europei hanno sottovalutato la crisi greca. Impedendo al Fondo monetario di intervenire in tempo hanno consentito che difficoltà locali coinvolgessero l'euro e l'intera Unione monetaria. Quando finalmente si sono svegliati, gli interventi, più maestosi nei numeri che nella sostanza, non hanno convinto i mercati. Nel tentativo di riguadagnare la credibilità perduta ora giocano la carta dei conti pubblici. Dovunque si varano ampie correzioni di bilancio: sicuramente necessarie, ma con il rischio che esse abbiano i medesimi scarsi effetti dell’intervento salva-euro da mille miliardi annunciato due settimane fa.

Gli investitori comprendono che un uso attivo della politica di bilancio è stato fondamentale per fronteggiare la recessione. Se ne stiamo lentamente uscendo è soprattutto perché alcuni Paesi, in primis USA e Gran Bretagna, hanno risposto alla crisi aumentando la spesa pubblica e riducendo le tasse per sostenere la domanda. Inquieta piuttosto il ricordo del 1937, quando un stop affrettato alla politica di bilancio espansiva attuata dall'inizio degli anni Trenta riportò l'economia americana in recessione: il Pil, che dal 1934 aveva ricominciato a crescere al ritmo del 5% l'anno, nel 1938 cadde di oltre il 3%.

Ciò che preoccupa i mercati non sono i deficit di questi anni, quanto le prospettive di medio periodo. Il Fondo monetario ha calcolato i costi della crisi sui bilanci pubblici e li ha confrontati con quelli che deriveranno dall'invecchiamento della popolazione: pensioni, sanità, assistenza agli anziani: costi dieci volte maggiori anche in quei Paesi che durante la recessione hanno usato più attivamente il bilancio dello Stato. È questo il parametro che i mercati useranno per valutare le leggi finanziare: ridurranno strutturalmente i deficit futuri, o si limiteranno a contenere la spesa nei prossimi due-tre anni, con provvedimenti temporanei?

Un solo leader europeo pare averlo compreso: Nicolas Sarkozy. È l'unico che ha avuto il coraggio di annunciare un innalzamento dell'età pensionabile. Tutto il resto, blocchi temporanei degli stipendi pubblici, spostamento in là di alcune «finestre pensionistiche », incassi una tantum, tagli alle dotazioni di alcuni enti pubblici senza sopprimerli, non convincerà i mercati. Anzi, rischia di essere controproducente perché si ammette che un problema esiste senza affrontarlo fino in fondo. La caduta ieri delle Borse potrebbe essere il primo segno.

Al di là dei conti pubblici c'è una domanda che gli investitori da alcuni anni pongono ai governi: come sarà l'Europa fra dieci anni? Un continente che cresce, produce ricerca e innovazione, capace di giocare un ruolo di leader nella politica internazionale, oppure un insieme di Paesi vecchi, dove i pochi che lavorano devono sostenere un esercito di anziani e dai quali i migliori emigrano? È la risposta a questa domanda ciò che i mercati cercheranno di capire leggendo le manovre di queste settimane.

Francesco Giavazzi

26 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_26/giavazzi-risposte-necessarie_05892ee8-6884-11df-9742-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #42 inserito:: Giugno 14, 2010, 09:49:35 am »

PIU' LIBERTA', PIU' MOBILITA' SOCIALE

Le barriere alla crescita


Rassegnarsi alla stagnazione è una sventura. E non perché la crescita economica sia priva di costi.
Sempre più spesso lo sviluppo comporta danni irreversibili all’ambiente, perdita della ricchezza che proviene dalle diversità e pone di fronte al dilemma morale se sia giusto caricare i nostri nipoti dei costi del nostro benessere. Ma questo è solo un aspetto della crescita. «La crescita non comporta solo vantaggi materiali. Aumenta opportunità, tolleranza per la diversità, mobilità sociale, rende più facile perseguire l’equità, rafforza la democrazia » (Benjamin Friedman, Il valore etico della crescita, Università Bocconi Editore, 2008). La stagnazione comporta costi morali altrettanto, se non più gravi, della crescita perché in una società statica non c’è mobilità. Uscire dalla classe sociale in cui si è nati è più difficile perché i privilegi si rafforzano, ciò che conta è la rete di rapporti familiari, non il proprio merito. La mobilità sociale, che è la conseguenza più importante della crescita, smantella la corruzione e le rendite.

L'Italia non cresce più da quindici anni. Non è un caso se dopo una fase in cui corruzione e rendite sembravano recedere, esse oggi si rafforzino. Le liberalizzazioni del ministro Bersani avevano predisposto un punto di partenza. Invece nulla è successo e le corporazioni hanno avuto buon gioco nel riportare la barra verso la difesa delle loro rendite. Il ministro dell’Economia annuncia modifiche costituzionali per favorire il mercato: prima della Costituzione si potrebbero modificare alcune delle norme che il governo sta adottando. «L’aspetto più marcatamente anti- competitivo, scrive Fabiano Schivardi sul sito lavoce. info, riguarda la riforma dell’avvocatura».

Sono reintrodotte le tariffe minime, inderogabili e vincolanti, vietati accordi fra cliente e avvocato, la pubblicità è fortemente regolamentata, si estende la riserva di attività degli avvocati, l’esame di abilitazione diviene più oneroso, così come le condizioni di praticantato, senza riconoscere ai praticanti nessun diritto di compenso. Nel mercato finanziario le norme anti-scalata introdotte dalla Consob, con la benedizione del governo, nella fase più acuta della crisi, sono divenute perenni. I provvedimenti a favore delle piccole e medie imprese, pur importanti, non centrano il problema. I confronti internazionali mostrano che in Italia non nascono meno imprese che altrove. Il problema è che poi non crescono. Più che barriere all’entrata, bisogna interrogarsi sulle barriere alla crescita perché un Paese non cresce senza aziende medie e grandi che investono in ricerca e sviluppo, in marchi, in nuovi prodotti.

In Europa si fa a gara nel tagliare le spese. Bene, ma se questi tagli non sono accompagnati da concrete misure di liberalizzazione, ai nostri figli trasmetteremo società stagnanti in cui ciò che conta è dove sei nato, non quanto ti sei impegnato.

Francesco Giavazzi

14 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_14/giavazzi-crescita-sviluppo_7b9b03a4-7775-11df-9d1c-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #43 inserito:: Giugno 19, 2010, 06:25:58 pm »

UNIVERSITA’, BLOCCATE LE NUOVE REGOLE

Una riforma insabbiata


Nei primi sei mesi di questo governo Mariastella Gelmini, uno dei ministri allora più attivi, lavorò ad un ampio progetto di riforma dell’università. Affinché nessuno potesse aver dubbi sulla serietà delle sue intenzioni, nel novembre 2008 ella portò in Consiglio dei ministri un decreto legge che da un giorno all’altro fece saltare migliaia di concorsi universitari, sui cui risultati le baronie accademiche si erano accordate prima ancora che le commissioni giudicatrici si riunissero. Lo sgomento fu tale che il progetto avanzò speditamente: la riforma era pronta nel gennaio 2009. Per portarla in Consiglio dei ministri fu necessario attendere nove mesi, un tempo perduto senza alcun motivo. Il governo finalmente la approvò il 28 ottobre 2009. Quel giorno, accompagnando il ministro Gelmini nella presentazione alla stampa della nuova legge, Giulio Tremonti disse: «Quella dell’università è una nostra grande riforma ».

Era anche un’occasione per dimostrare in modo concreto che la svolta riformatrice annunciata da Berlusconi (addirittura la proposta di cambiare la Costituzione per introdurvi principi liberisti) non si limita a qualche chiacchiera durante i talk-show. La commissione Istruzione del Senato ha studiato il progetto per otto mesi, lo ha modificato in più punti, e il 19 maggio scorso lo ha approvato e passato all’Aula per la votazione finale. L’intenzione era di procedere rapidamente, in modo che la legge potesse essere trasmessa alla Camera in giugno e definitivamente approvata prima dell’inizio del nuovo anno accademico. Settimana dopo settimana, il voto nell’aula del Senato viene prima posto in calendario, poi rimandato. A questo punto è improbabile che la Camera ne discuta prima dell’estate. In autunno il Parlamento è impegnato nella legge Finanziaria: di riforma dell’università si ricomincerà a discutere a gennaio 2011, due anni dal giorno in cui il ministro ne concluse la stesura. Questo con un governo che dispone di una maggioranza amplissima e che non si fa scrupolo nell’usare il voto di fiducia per questioni forse un po’ meno importanti del futuro dei nostri figli.

Nel frattempo le università stanno lentamente morendo, pur continuando a produrre privilegi per pochi e sofferenza per i più. La dedizione di molti insegnanti è ammirevole, ma i ricercatori migliori, appena possono, scappano altrove. La riforma Gelmini è lungi dall’essere una legge ideale. Ma è un passo avanti, soprattutto nelle nuove modalità di reclutamento. Perché è stata fermata? Forse nella maggioranza hanno prevalso i vecchi baroni che dopo lo scacco del novembre 2008 oggi si sono ripresi e difendono i privilegi che la riforma sottrae loro (pochi peraltro). Forse l’iniziale popolarità del ministro lombardo dell’Università ha preoccupato la Lega, che per lei ha decretato la sorte che è toccata a Venezia a Renato Brunetta, lui pure giudicato un concorrente pericoloso di Giulio Tremonti e dei lumbard. Forse il governo ha semplicemente scelto di lasciar morire l’università per lento soffocamento. I ricchi possono sempre mandare i loro figli a studiare in Inghilterra. I poveracci meglio se all’università non ci vanno: continuino a guardare la tv e non leggano troppi libri, così non si faranno venire strane idee.

di Francesco Giavazzi

19 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_19/riforma_insabbiata_giavazzi_bf71aaf8-7b60-11df-aa56-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #44 inserito:: Luglio 06, 2010, 09:17:52 am »

FEDERALISMO, IL CATTIVO ESEMPIO TEDESCO

Il debito delle Regioni


La relazione sul federalismo fiscale approvata dal governo la scorsa settimana ci avvicina all’obiettivo di trasformare l’Italia in uno Stato federale come lo sono Germania e Stati Uniti. Rimane tuttavia un dubbio, che il dibattito sul passaggio al federalismo ha da tempo messo in soffitta: che cosa accade se le Regioni iniziano a chiedere prestiti e poi non riescono a pagare i loro debiti?

È vero che da anni il patto di stabilità interno impedisce agli enti locali di indebitarsi, e che comunque l’articolo 119 della Costituzione esclude «ogni garanzia dello Stato sui prestiti contratti dagli enti territoriali». E tuttavia il dubbio rimane. Si pensi al buco di 140 milioni della città di Catania, ai 500 milioni del Comune di Roma, ai 10 miliardi della sanità in Lazio, tutti prontamente ripagati dallo Stato.

Né tranquillizza l’esperienza tedesca, che i federalisti spesso citano. Negli ultimi vent’anni due Länder si sono trovati nella condizione di non riuscire a ripagare i propri debiti: Brema e la Saarland. E per due volte di seguito (la prima alla fine degli anni ’80, la seconda dieci anni dopo) Berlino si è fatta carico della loro esposizione. Questi salvataggi hanno avuto due effetti: innanzitutto il mercato ormai considera quello dei Länder debito federale e infatti i tassi di interesse pagati sono gli stessi. Ma soprattutto, aver scoperto che le esposizioni locali possono essere scaricate sul governo federale ha eliminato ogni disciplina. Nel 1989 il debito di Brema ammontava a 9.791 euro per cittadino; oggi è salito a 23.100 euro per cittadino.

D’altronde è appena accaduto anche in Europa. Nonostante nei trattati europei sia scritto chiaramente che i debiti di un Paese non possono in nessun caso essere fatti pagare dagli altri, abbiamo appena salvato la Grecia e creato un meccanismo in grado, se fosse necessario, di salvare Spagna e Portogallo.

L’esperienza degli Stati Uniti è diversa. In teoria 49 dei 50 Stati dell’Unione (l’unica eccezione è il Vermont) non potrebbero emettere debito, cioè debbono avere bilanci sempre in pareggio. In realtà la legge è facilmente aggirata, spesso con grande fantasia. Alcuni Stati, come la California, semplicemente non pagano i fornitori; altri classificano l’incasso di una emissione di titoli fra le entrate. La differenza è che Washington non interviene mai per salvarli: quanto questo sia credibile lo si vede nei tassi di interesse pagati dagli Stati che sono sempre più alti di quelli pagati sul debito federale. Ma per arrivare a questo punto c’è voluta una lezione: aver avuto il coraggio trent’anni fa di lasciare fallire la città di New York. Finché salviamo Brema e Catania il messaggio è un po’ diverso.

A questo punto un federalista convinto osserverebbe che per rendere credibile l’impegno a non salvare le Regioni basterebbe eliminare lo Stato centrale: il giorno in cui esso non esistesse più non potrebbe evidentemente salvare nessuno.

L’ipotesi estrema della scomparsa dello Stato centrale è interessante anche perché dimostra che impedire alle Regioni di emettere debito, e cioè imporre loro il pareggio di bilancio, non è la scelta ottimale. Una Regione colpita da una calamità naturale, o da una recessione localizzata, non potrebbe infatti usare la politica di bilancio per farvi fronte. Le recessioni sarebbero più profonde e i costi sociali più elevati. Sono argomenti sui quali sarebbe utile discutere, prima di festeggiare l’arrivo del federalismo.

Francesco Giavazzi

06 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_06/giavazzi-debito-delle-regioni_d80acafa-88bb-11df-9548-00144f02aabe.shtml
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