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Forum Pubblico => Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. => Discussione aperta da: Admin - Agosto 09, 2015, 10:45:21 am



Titolo: Il partito fragile
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2015, 10:45:21 am
L’editoriale
Il partito fragile
Come in tutti i luoghi comuni, anche in quello che assimila Renzi a Berlusconi c’è qualcosa di vero.
Ma solo nel senso che entrambi, Renzi e Berlusconi, per traiettorie e ragioni diverse, sono i leader di una democrazia post-partitica

È solo un apparente paradosso il fatto che proprio nella fase in cui la leadership di Matteo Renzi sferza il Partito democratico puntando a farne il «Partito della nazione», appellativo nobile che, in sostanza, indica un puro catch all party, un puro partito pigliatutto, capace di acchiappare consensi a destra e a sinistra, l’organizzazione dello stesso partito, soprattutto alla periferia, entra in una crisi che appare irreversibile (la vicenda di Roma è solo la più eclatante).

Non nel senso che tale crisi starebbe per distruggere il partito, come sostengono i catastrofisti, ma nel senso che distrugge le radici, spezza gli ultimi legami che ancora collegavano il Pd alle antiche formazioni di cui è l’erede. Diciamo che gli attuali sembrano essere i travagli destinati (se Renzi non viene prima fermato dai suoi nemici interni di partito) ad eliminare quelle connessioni col passato che fino ad oggi hanno resistito e che rendevano lecito definire il Pd una formazione post-comunista.

Come in tutti i luoghi comuni, anche in quello che assimila Renzi a Berlusconi c’è qualcosa di vero. Ma solo nel senso che entrambi, Renzi e Berlusconi, per traiettorie e ragioni diverse, sono i leader di una democrazia post-partitica. Intendendo per tale una democrazia che non ha più partiti radicati nella società, partiti i cui principali punti di forza siano gli iscritti, la partecipazione collettiva, eccetera. Quando emerse (nel 1994) la leadership di Berlusconi, i partiti storici che avevano organizzato il consenso dell’Italia moderata per quasi un cinquantennio, erano stati distrutti, abbattuti per via giudiziaria. Berlusconi si inventò in quattro e quattr’otto una formazione post-partitica a propria immagine e somiglianza e fabbricò uno schieramento politico che servì a dare rappresentanza alla maggioranza moderata del Paese. Questo è stato il berlusconismo: il sostituto e l’erede di partiti, un tempo radicatissimi nella società italiana, spazzati via dalle circostanze.

Per tutti questi anni un solo partito fra quelli antichi, quelli della Prima Repubblica, era sopravvissuto. Aveva dovuto fare, inevitabilmente, parecchie concessioni trasformistiche ai nuovi tempi: da qui i vari cambiamenti di denominazione, Pds, Ds, e, alla fine, anche il Partito democratico, una fusione fra post-comunisti ed ex sinistra democristiana, a cui venne affidato il compito di conservare il massimo possibile di continuità con il passato. Fino allo stallo seguito alle elezioni del 2013 e al conseguente arrivo di Matteo Renzi, il leader che promette quelle vittorie che i vecchi capi post-comunisti non sono più in grado di assicurare.
Ma tutto ha un prezzo. La leadership di Renzi manda in frantumi il patto costitutivo da cui era nato il Pd. Il che spiega le accuse di «tradimento» da parte di coloro che avevano aderito a quel patto. E la fine di quel patto porta con sé anche la fine del vecchio partito. Il clima da ultimi giorni di Pompei che si respira a Roma, nella sinistra romana, ad esempio, non è il segno di una infezione circoscrivibile e delimitabile. È piuttosto l’annuncio che ciò che restava della tradizione è ormai finito, bruciato. Altro che diversità antropologiche (di berlingueriana memoria), altro che rivendicazioni di superiorità morali. La fine del post-comunismo e della sua ideologia è il prezzo che deve essere pagato perché possa davvero nascere il Partito della nazione, ossia una formazione post-partitica nel senso che qui si è detto, in grado di mietere consensi elettorali trasversali.

La democrazia post-partitica però può sopravvivere solo se si rafforza la capacità di governo. Il (possibile) Partito della nazione - così come ciò che un giorno, in età post-berlusconiana, nascerà a destra - ha bisogno di sostituire il mancato radicamento sociale (proprio dei partiti tradizionali) con una crescita del potere dell’esecutivo. Per questo la riforma del Senato è oggi così importante. Se uscirà in un certo modo rafforzerà i governi, renderà possibile la guida del Paese. E forse consentirà anche a Renzi di consolidare la sua leadership per alcuni anni a venire.

Proprio per questo la minoranza interna farà di tutto per batterlo. È comprensibile. La sinistra interna al Pd lotta per la propria sopravvivenza, sa che Renzi è uno che non fa prigionieri.

8 agosto 2015 (modifica il 8 agosto 2015 | 07:26)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_08/pd-partito-fragile-renzi-968e6b9c-3d8b-11e5-9df9-e4a39ac26db0.shtml


Titolo: PD È tempo che Renzi prenda in mano il partito
Inserito da: Arlecchino - Novembre 30, 2015, 03:10:06 pm
È tempo che Renzi prenda in mano il partito
Pd   
Il problema non è la coincidenza tra segretario e premier, ma la necessità di ridimensionare il potere del ceto politico cristallizzatosi negli ultimi vent’anni

L’articolo 3, comma 1 dello Statuto del Pd definisce con queste parole la carica di segretario: “Il segretario nazionale rappresenta il Partito, ne esprime l’indirizzo politico sulla base della piattaforma approvata al momento della sua elezione ed è proposto dal Partito come candidato all’incarico di presidente del Consiglio dei ministri”. La norma – come del resto l’intero Statuto – fu approvata a grandissima maggioranza il 16 febbraio 2008 nel corso della seconda riunione dell’Assemblea costituente nazionale del Pd. Tutto il gruppo dirigente votò compattamente a favore. L’identità di segretario e (candidato) premier è dunque inscritta nel codice genetico originario del Pd, in linea peraltro con il modello diffuso nella generalità dei Paesi europei, dove il leader del partito è anche, in caso di vittoria elettorale, il capo del governo.

Bisogna partire da quel giorno lontano – Matteo Renzi era il semisconosciuto presidente della provincia di Firenze – se si vuole affrontare con onestà la discussione sul partito che si è aperta, invero un po’ confusamente, in questi giorni. Non c’è nessun “uomo solo al comando” che, con arroganza cesarista, vuole accentrare su di sé due funzioni separate o addirittura incompatibili: c’è invece un leader democraticamente eletto che rispetta le regole scritte e approvate dai suoi predecessori.

Chi dunque chiede a Renzi di lasciare la segreteria del Pd, non importa con quali argomenti o motivazioni, dovrebbe chiedere invece una modifica dello Statuto, così come prevede l’art. 42: il che è naturalmente possibile (sebbene curiosamente avvenga con sette anni di ritardo), ma richiede giustificazioni teoriche e politiche un poco più solide del richiamo alle pratiche oligarchiche del passato o della constatazione che il Pd, in periferia, non gode di ottima salute.

E’ vero tuttavia che il Pd non gode di buona salute: o, per meglio dire, mostra all’opinione pubblica due volti diversi, e spesso contraddittori, a Roma e (quasi ovunque) nel resto d’Italia. Da una parte si è venuta formando una nuova classe dirigente impegnata al governo, in parlamento e al Nazareno; dall’altra sopravvive un ceto politico locale in gran parte protagonista di stagioni ormai passate, “renziano” più a parole che nei fatti, e sostanzialmente impermeabile al mondo degli elettori e dei simpatizzanti, molti dei quali trovano sbarrata la strada della partecipazione e della militanza.

C’è dunque bisogno di una profonda ristrutturazione del modo d’essere e di funzionare del partito, che ridimensioni lo spazio e il potere del ceto politico cristallizzatosi in questi vent’anni e apra porte e finestre ad una nuova generazione di elettori e attivisti, fra i quali selezionare nuovi gruppi dirigenti locali, nuovi sindaci, nuovi governatori. E’ un processo complesso e lungo, che richiede un impegno straordinario e che non può essere più rimandato, né sottovalutato. Le campagne elettorali per le amministrative, il referendum e le politiche hanno bisogno di un partito rinnovato e funzionante.

Nessuno meglio di Renzi può dedicarsi a questo compito. Perché è il segretario del partito, naturalmente. E perché ha le idee, le competenze e l’autorevolezza necessarie all’impresa. E’ tempo che Renzi prenda in mano il Pd, con determinazione e risolutezza, e gli dedichi il tempo e l’energia che servono. Un paio di giorni a settimana lasci dunque palazzo Chigi e si trasferisca al Nazareno, giri le federazioni e i circoli, lavori fianco a fianco con la segreteria (rinnovata o meno), ricostruisca e diriga, convinca chi vuole andarsene e promuova chi vuole entrare. Il Pd ha un segretario robusto e determinato: è tempo di approfittarne.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/e-tempo-che-renzi-prenda-in-mano-il-partito/


Titolo: Andrea Piazza e Lorenzo Pregliasco. Pd, l’analisi: ‘Bassa fedeltà, poche tessere
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 09, 2015, 07:26:40 pm
Pd, l’analisi: ‘Bassa fedeltà, poche tessere’.
Orgoglio di partito? Solo ai seggi
La partecipazione continua a calare, ma il partito di Renzi fa il pieno di voti.
E li prende ovunque: il 10% degli elettori è di destra

Di F. Q. | 9 dicembre 2015

Il weekend passato ha visto due giorni di “orgoglio Pd”: secondo gli organizzatori sono stati allestiti 2113 banchetti, con la partecipazione di oltre 30mila volontari e 5 milioni di volantini distribuiti. Ciò implicherebbe un banchetto ogni tre circoli del partito (erano circa 6.500 a inizio anno), un militante in piazza ogni dodici iscritti, e circa 2.400 volantini a postazione. Ma questo cosa ci dice dello stato di salute del partito di Renzi?

La mobilitazione crolla in tutta Europa
Se i circoli erano 7.221 nel 2009 ai tempi della fondazione, e sono ormai diminuiti di oltre mille unità, chi anima questi luoghi di partito? Abbiamo raccolto i dati degli iscritti ai Ds e Margherita, e poi dal 2009 i dati inerenti al Pd. Nel grafico, le colonne rappresentano invece i risultati elettorali conseguiti, oppure la media annuale dei sondaggi, con colori differenti a seconda dei segretari in carica (Veltroni-Franceschini, Bersani, Renzi).

I dati testimoniano un andamento ormai consolidato: un calo degli iscritti. Dagli 831.042 comunicati dal Pd nel 2009 ai 366.641 del 2014, la diminuzione è del 55%. Un leggero aumento (più 80.000 unità) si è avuto solo con il congresso 2013, secondo un trend tipico della Margherita, con l’aumento dei tesserati prima degli eventi della democrazia interna.

Questo delle tessere è comunque solo uno degli aspetti, e vede peraltro i democratici in buona compagnia: sul fronte della sinistra europea l’Spd tedesca l’anno scorso registrava 459.902 iscritti, il Labour inglese è intorno a 200.000 dal 2010, mentre il Partito Socialista francese ha 133.000 tesserati.

Da Berlinguer a Rignano
Restando in Italia, le cifre disponibili raccontano di poco più di 100.000 iscritti a Forza Italia, con la Lega a 122.000 mentre il Movimento 5 Stelle a giugno 2014 ne contava 87.654. La dinamica generale sembra aver a che fare, più che con le leadership contingenti, con un più radicato fenomeno di dissoluzione dei partiti come “corpi intermedi” in atto almeno da vent’anni.
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Il Pci, per esempio, non riuscì a eguagliare mai il picco di 2 milioni di iscritti raggiunto nel ‘56 neanche ai tempi di Enrico Berlinguer (dati Istituto Cattaneo). Negli ultimi anni, poi, il livello di fiducia e identificazione con i partiti è andato precipitando. Insomma: le scelte di voto, specie a livello nazionale, hanno sempre meno a che fare con l’appartenenza e l’adesione. Sembra passato anche il tempo della “fedeltà leggera”, quando la mobilità del voto esisteva, ma si esprimeva all’interno di uno stesso schieramento.

È anche per questo che, come evidenzia il grafico, l’andamento degli iscritti al Pd e il suo consenso elettorale sembrano rispondere a trend completamente differenti. D’altra parte, è vero che il Pd è diventato, specie negli ultimi anni, un soggetto con un bacino elettorale molto fluido.

La trasformazione dei “pigliatutto”
Su 100 elettori del Pd di Veltroni 23 si definivano di sinistra, 42 si definivano di centrosinistra e ben 31 di centro; ai tempi di Bersani, alle Politiche 2013, il quadro era cambiato, con 33 su 100 che si collocavano a sinistra, 51 a centrosinistra e appena 14 di centro (dati Itanes).

Nel 2014, quando Renzi sale a Palazzo Chigi, Demos misura ben il 10% degli elettori Pd che si dichiarano di centrodestra o destra (erano il 2% con Bersani), più un 11% di “esterni”, che rifiutano cioè di prendere posizione sul tradizionale asse sinistra-destra. Dato confermato dal sondaggio pubblicato in questi giorni dal Cise, che fotografa un 9,2% di elettori Pd di destra.

A queste evoluzioni sul profilo “ideologico” dell’elettore democratico si accompagnano cambiamenti anche dell’identikit sociale e demografico. Alle Europee del maggio 2014, quelle del trionfo renziano con il 40,8% dei voti, il Pd riesce a raccogliere – secondo l’analisi di Emg – il 31% dei consensi fra i lavoratori autonomi e il 42% fra le casalinghe. Due segmenti che avevano sempre premiato il centrodestra e in particolare Berlusconi. I dati di Ipsos di un anno fa confermavano l’appeal del Pd a guida Matteo Renzi presso gli imprenditori e i liberi professionisti, un tratto tutto all’opposto del Pd di Pier Luigi Bersani che, secondo le stime Lapolis, doveva molto del suo consenso ai pensionati e ai dipendenti pubblici.

Le comunali della Nazione
Questo parziale spostamento verso destra dell’elettorato Pd è confermato dagli studi del Cise di maggio 2015: il governo riscuote l’apprezzamento del 33,2% degli elettori che si definiscono di centro, e del 26,9% di quelli di destra. Per le riforme del Jobs Act l’apprezzamento sale al 37,8% per il centro e al 39,2% per la destra. In attesa di capire se davvero il Pd stia diventando il Partito della Nazione, il test delle Comunali di maggio ci dirà molto sulla capacità dei democratici di trovare candidati competitivi sul territorio e di mantenere una struttura organizzativa solida.

Di Andrea Piazza e Lorenzo Pregliasco (You Trend)

Da Il Fatto Quotidiano del 08/12/2015
Di F. Q. | 9 dicembre 2015

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/12/09/pd-lanalisi-bassa-fedelta-poche-tessere-orgoglio-di-partito-solo-ai-seggi/2287798/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2015-12-09