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Autore Discussione: Pier Luigi BATTISTA  (Letto 101875 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Settembre 24, 2014, 06:38:08 pm »

In guerra, di supporto nella scelta a metà il carattere nazionale
Dai conflitti nel Golfo alle campagne in Afghanistan e Kosovo: i distinguo sulla partecipazione a missioni belliche sono ormai una specialità tutta italiana


Di Pierluigi Battista

Un passo in qua. Insieme, nella coalizione. Ma di «supporto», beninteso, senza bombe tricolori, senza «prender parte alle operazioni» contro l’Isis direttamente. L’Italia, con una linea resa esplicita dal ministro Mogherini, offre il suo aiuto, il suo «sostegno logistico», l’«addestramento». Però lascia agli Stati Uniti, alla Francia, ai Paesi arabi direttamente chiamati nelle azioni militari contro lo Stato islamico, in territorio iracheno e in territorio siriano, il compito ingrato di fare la guerra. Proprio la guerra, brutta come tutte le guerre. Ma non fatta in prima persona. Una guerra che all’Italia crea sempre immensi problemi di coscienza, di immagine, di ruolo, di storia. Di carattere, persino.

Non è la prima volta. È certamente la terza. Forse addirittura la quarta. Il trauma in conseguenza del quale l’Italia ha deciso di imboccare la strada del sostegno «laterale», della partecipazione indiretta, dell’aiuto mediato risale al 1991, e ha un nome: quello del capitano Cocciolone. Ai tempi della prima guerra del Golfo l’immagine del pilota catturato dagli uomini di Saddam Hussein, con il volto tumefatto per le percosse ricevute, la paura disegnata nello sguardo, l’umiliazione per dover recitare una messinscena imposta mediaticamente dai carcerieri rinfocola una tentazione storica dell’Italia a non deragliare mai dai binari dei «buoni». Gli italiani «brava gente» del Libano e del presidente Pertini che si intrattiene bonariamente con il piccolo Mustafà. Gli italiani che sono sempre diversi, più umani, meno prepotenti, più compagnoni addirittura. Invece nella guerra del Golfo eravamo percepiti come tutti gli altri: una potenza in guerra, un tabù dopo la sventura militare provocata da Mussolini e dai furori bellicisti.

Quel tabù ebbe poi il suo riflesso nelle scelte italiane durante la guerra del Kosovo contro la Serbia di Milosevic, 1999. Fu uno strappo doloroso, vissuto con imbarazzo e quasi disappunto. Il governo Prodi, che si appoggiava su una coalizione che includeva Rifondazione comunista, si era attenuto rigorosamente alla dimensione del «supporto logistico» che non prevedeva direttamente la partecipazione italiana al fuoco della guerra guerreggiata. Ma il nuovo governo D’Alema (appoggiato da Cossiga, notoriamente in buoni rapporti con gli Stati Uniti) e con l’«atlantico» Carlo Scognamiglio ministro della Difesa, oltrepassò le colonne d’Ercole del «supporto». L’azione italiana prevedeva soprattutto la concessione dello spazio aereo ai caccia della Nato e la base logistica di Aviano, ma alcuni aerei dell’Aeronautica italiana solcarono i cieli della Serbia con il loro carico di armi. Eppure questo attraversamento della linea d’ombra della guerra creò imbarazzi indicibili, fino al punto che dal governo italiano partirono appelli per la «sospensione» dei bombardamenti, rompendo la coesione dell’alleanza, come se l’Italia non ne facesse organicamente parte.

Poi fu il turno dell’Iraq nel 2003. Gli italiani, pur facendo parte della «coalizione dei volonterosi», non parteciparono direttamente alle operazioni militari degli Stati Uniti di Bush e del Regno Unito di Blair. Quello italiano fu, anche in questo caso, un «supporto logistico» e poi, a regime di Saddam caduto, una missione di peace-keeping destinata, per sua natura, a rimarcare una differenza con la guerra guerreggiata e a dare riparo all’immagine «buona» e pacifista dell’Italia: scrupolo che peraltro non impedì il rapimento di cittadini italiani da parte degli «insorgenti» e soprattutto le perdite di Nassiriya.

Per la missione in Afghanistan le interminabili discussioni sui caveat che avrebbero dovuto determinare le regole d’ingaggio dei militari impegnati a Kabul, condite da controversie mai sopite sullo spirito e la lettera dell’articolo 11 della nostra Costituzione, alimentarono una nuova fortuna del paradigma del «supporto logistico». Che poi ebbe la sua definitiva consacrazione nelle operazioni militari sulla Libia nel 2011, approvate dal governo italiano allora presieduto da Berlusconi controvoglia e con furente impeto polemico nei confronti dell’interventismo della Francia di Sarkozy. Oggi quel paradigma acquista nuovo vigore e conferma dalla scelta del governo italiano di partecipare sì, ma solo come «supporto» ai raid contro l’Isis. Una specialità nazionale, si potrebbe definire. Una costante della nostra storia. E anche, perché no, del carattere nazionale.

24 settembre 2014 | 09:23
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_24/guerra-supporto-scelta-meta-carattere-nazionale-a3d918e2-43b8-11e4-bbc2-282fa2f68a02.shtml
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« Risposta #151 inserito:: Ottobre 05, 2014, 10:47:52 pm »

Il commento
L’Isis e i media: un dilemma già vissuto con le Br

Di Pierluigi Battista

Con la quinta decapitazione via macabro video, la stampa americana ha dedicato al rituale cruento dell’Isis uno spazio infinitamente minore di quello che venne offerto al primo. Effetto di saturazione? O, ancora peggio, assuefazione alle scene barbare dello sgozzamento di un innocente, che suscita raccapriccio e poi, fatalmente, se non indifferenza, quanto meno un’attenuazione dell’interesse pubblico? Oppure prevale una strategia tacita di minimizzazione allo scopo di disinnescare la carica propagandistica che emana da quei video della morte?

Non fare il gioco dei terroristi dando eccessivo risalto alle loro gesta: è una tentazione che noi italiani conosciamo bene da quando, con altri protagonisti e in un contesto completamente diverso, la stampa italiana si trovò di fronte all’angoscioso dilemma se pubblicare o meno i comunicati delle Br che tenevano in ostaggio un loro «prigioniero». Furono discussioni laceranti, che dividevano l’opinione pubblica tra chi riteneva che le Br avrebbero sofferto se si fosse oscurato il loro palcoscenico del terrore e chi non voleva che l’autocensura snaturasse il carattere liberale e aperto del sistema che i terroristi volevano abbattere.

Anche le Br facevano uso di una coreografia del terrore capace di alimentare un’aura di leggenda e di invincibilità. I comunicati recapitati nei luoghi di maggiore impatto mediatico, le rivendicazioni telefoniche, il clima di suspense e il crescendo dei toni che enfatizzavano la loro strategia. La voglia di mettere il silenziatore era comprensibile e molti, nel «partito della fermezza», arrivarono a teorizzare l’autocensura (come con il sequestro del giudice D’Urso alla fine del 1980) anche mettendo a rischio la vita degli ostaggi. All’obbligo di non dare spazio ai terroristi volle sottrarsi Giuliano Zincone dalla direzione del «Lavoro»: gesto temerario che contribuì alla sua defenestrazione. La discussione andò avanti fino all’estinguersi delle operazioni brigatiste.

Oggi l’Isis, con i suoi paesaggi, la tunica arancione del condannato, il coltellaccio, il cappuccio nero, l’accento inglese, cerca di imporre la sua immagine mediatica con un uso sapiente della comunicazione. I media sono di fronte a un dilemma tragico, per non far diventare i padroni del terrore i burattinai dell’informazione globale.

5 ottobre 2014 | 09:03
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DA - http://www.corriere.it/esteri/14_ottobre_05/isis-media-dilemma-gia-vissuto-le-br-1b97825e-4c5d-11e4-8c5c-557ef01adf3d.shtml
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« Risposta #152 inserito:: Ottobre 13, 2014, 03:12:51 pm »

Politicamente scorretto
Quegli insulti consentiti soltanto contro gli obesi
Una colpa sociale L’ultimo linciaggio permesso in tempi in cui il linguaggio si fa sorvegliato, buono, premuroso, attento a ogni diversità e ai diritti di tutte le minoranze

Di Pierluigi Battista

Se date del «ciccione» a un mite ragazzo sovrappeso, tranquilli, nessuno vi rimprovererà per aver usato un’espressione offensiva nei confronti di chi, quando gli tocca umiliarsi alla bilancia, si avvicina angosciosamente ai cento chili. Non è il residuo di un’usanza lessicale arcaica: è l’ultimo linciaggio consentito in tempi in cui il linguaggio si fa sorvegliato, buono, premuroso, carico di buone intenzioni, attento a ogni diversità e ai diritti di tutte le minoranze. Tutte tranne una: quella dei grassi, colpevoli persino di scassare i conti del servizio sanitario nazionale e perciò da mettere all’indice.

I bulletti che bersagliavano di scherno il povero «cicciobomba» ci sono sempre stati e l’onta perenne di noi (ex) smilzi è di non esser mai intervenuti a difesa del povero compagno impacciato e impedito dal suo grasso in eccesso, messo in porta per renderlo inoffensivo durante una partitella di calcio. Ma ci saremmo vergognati a esercitare la nostra disgustosa crudeltà di fronte agli adulti. Anche in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick la recluta obesa e strabordante subiva le vessazioni del sergente che ne curava il severo addestramento: finì malissimo, con la recluta schiantata, resa folle da un trattamento insopportabile.

Oggi i ragazzini che a Napoli hanno seviziato e massacrato un «cicciobomba» sentono che attorno ai soprusi contro i grassoni non grava quell’atmosfera di indignazione morale che oggi giustamente circonda chi si appella in modo offensivo nei confronti di una minoranza religiosa, di una diversità sessuale, di una distanza etnica e razziale. Percepiscono rozzamente che il grasso se l’è cercata, che le intimazioni della nuova dittatura salutista trovano in quel loro compagno così deturpato dai rotoli di ciccia un ostacolo caparbio e ostinato. Non sono magri, snelli, slanciati, asciutti, in forma? Colpa loro che non seguono diete, non fanno sport, non sanno adeguarsi agli imperativi del «mangiar sano», non espellono calorie, non vanno in palestra. E ci costano. Sono vulnerabili alle malattie, non dureranno a lungo secondo gli algoritmi messi a punto dalla sapienza medica, dai guru del benessere, degli strateghi della salute e delle diete forsennate.

«Ciccione», «grassona», «palla di lardo», «chiattona»: si possono dire. Un tempo un individuo corpulento, di mole falstaffiana, veniva indicato come una figura arguta, sapida, capace di combinare i piaceri della mente con quelli del corpo. L’imponenza di Orson Welles era oggetto di ammirazione persino erotica. La floridezza era anche simbolo di lontananza dalle fatiche del lavoro manuale, bestiali, massacrante, certamente più efficaci delle nostre diete più raffinate. La prosperità si sposava felicemente con i chili di troppo. E i segaligni, pelle e ossa, divorati dai tormenti e dalle ambizioni, suscitavano diffidenza e sospetti.

«Vorrei che attorno a me ci fossero degli uomini piuttosto grassi e... che dormano la notte», dice Cesare ad Antonio nella tragedia di Shakespeare, «mentre quel Cassio è magro e affamato: pensa troppo, e uomini del genere sono pericolosi».
Oggi parole del genere sarebbero impensabili. È da decenni oramai che nel mondo della moda le ragazze un filo sopra la norma della quasi anoressia vengono messe ai margini, con le conseguenze che sappiamo nella psicologia delle adolescenti. La pubblicità è totalmente impregnata di un messaggio che rende l’obesità una malattia orribile. Ciò che rende sconvolgente la permanenza del ciccione come destinatario di una condanna sociale è che la persecuzione linguistica della grassezza (e non solo banalmente linguistica come si è tristemente constatato tra i teppisti di Napoli) avviene in un’atmosfera culturale in cui il rispetto quasi sacrale di qualunque «diversità» è diventato un articolo di fede.

Non si offendono i ciechi e i sordi, la stessa parola «handicap» è circondata dai densi fumi sulfurei del politicamente scorretto. Si fanno le Paralimpiadi dei diversamente abili, ma i diversamente magri non verrebbero mai invitati. Il grasso può essere indicato come un renitente alla civiltà dei magri e dei sani. Contro di lui si possono usare le espressioni più atroci, che mai sarebbero tollerate in altri contesti e con altre vittime (forse solo con le persone di bassa statura: «nano», per quanto offensivo, si può dire, non si sa come mai). Perché i suoi chili di troppo indicano una colpa, una resistenza, un ostacolo. Non importa che soffrano in silenzio, maledetti ciccioni.

11 ottobre 2014 | 08:14
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_ottobre_11/quegli-insulti-consentiti-soltanto-contro-obesi-fbb628aa-510c-11e4-8503-0b64997709c2.shtml
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« Risposta #153 inserito:: Ottobre 19, 2014, 05:20:32 pm »

Il corsivo del giorno
Troppi selfie e cinguetti
Il narcisismo che danneggia l’Isis

Di Pierluigi Battista

Adesso i maggiorenti doc dell’Isis hanno deciso di rimproverare bruscamente quegli scriteriati di seguaci occidentali, che con i loro selfie, i loro cinguettii su Twitter, le loro esibizioni di Facebook, la mancanza di autocontrollo nella concessione su Internet dei propri «metadata», mettono in pericolo la sicurezza dello Stato islamista e possono compromettere la segretezza dei suoi rifugi, dei suoi arsenali, delle sue stesse operazioni militari.

Si arruolano nella guerra santa e non sanno sorvegliare il loro narcisismo. I giovani che scappano dall’Europa «infedele» per raggiungere le milizie jihadiste sono pur sempre contaminati e ben lontani dalla purezza che verrebbe loro richiesta.
Per quanto agitati dal fervore religioso, per quanto il loro odio per l’Occidente sia totale e senza scampo, hanno contratto le cattive abitudini della marcia e debosciata società da cui provengono.

Male, dicono i responsabili dell’Isis. Troppo pericoloso. Perché è vero che i seguaci dell’Isis sono eccellenti comunicatori del loro messaggio di terrore, ma non possono ammettere che si abbassi la guardia e che i giovani arruolati che vengono dall’Europa si mettano a chattare come un corrotto giovinastro qualunque.
È vero che molti si arruolano proprio perché attratti dalla bravura apocalittica della comunicazione dell’Isis, quei filmati che sembrano trailer del cinema catastrofista, quelle tuniche arancioni, il coltellaccio agitato da un carnefice abbigliato secondo i canoni della società dello spettacolo.

Ma non bisogna esagerare. Perché poi la guerra non è un videogioco, perché i guerrieri non possono essere dei bamboccioni che postano le loro gesta su qualche blog.
E quindi allarme Isis. Sarebbe comico, se non fosse tragico.

19 ottobre 2014 | 10:14
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_ottobre_19/troppi-selfie-cinguetti-narcisismo-che-danneggia-l-isis-78b8a386-5767-11e4-8fc9-9c971311664f.shtml

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« Risposta #154 inserito:: Ottobre 21, 2014, 05:39:17 pm »

Legge liberticida
Storace rischia la galera per un errore perdonato
Va a processo per «vilipendio al capo dello Stato»: chiamò Napolitano «indegno», ma il presidente lo ha già perdonato. Ma i reati d’opinione dovrebbero scomparire
Di Pierluigi Battista

Francesco Storace rischia oggi la galera per «vilipendio al capo dello Stato». Da notare che lo stesso Storace ha chiesto scusa per aver nel 2007 usato sconsideratamente l’aggettivo «indegno» riferendosi a Giorgio Napolitano. E anche il capo dello Stato ha dichiarato personalmente «chiusa» la deplorevole questione.

Però il Tribunale è andato avanti, dando seguito a un’indicazione non esattamente improntata alla tolleranza dall’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella che promosse il procedimento contro Storace. Se dunque quest’ultimo venisse condannato alla galera, l’Italia conterebbe un’altra vittima di quel groviglio di leggi autoritarie tristemente conosciute come «reati d’opinione».

Ma in una sana e solida democrazia liberale i reati d’opinione dovrebbero scomparire. E gli atti di un presidente della Repubblica, criticabili pur in una sfera di garbo lessicale e di rispetto istituzionale, devono essere difesi da altre e convincenti opinioni, non da una sentenza di un tribunale. Ciò che si pensa politicamente non conta. Conta però che non si può gioire se un avversario politico vada in galera per le sue criticabilissime opinioni.

I reati d’opinione sono una triste eredità del fascismo che la democrazia repubblicana e antifascista non ha mai voluto mettere in soffitta. Perciò i giudici applicano una legge liberticida, intrisa di intolleranza, che l’ignavia e anche il tornaconto della politica hanno lasciato intatta. Prevale invece la malcelata soddisfazione per i guai giudiziari di un avversario politico.

Si impone come sempre l’eterna legge della faziosità italiana, in tutti questi anni impeccabilmente bipartisan: protesto quando a subire un torto è un mio amico e sodale, conservo un indifferente silenzio se ad essere colpito è il mio nemico. Si spera nell’assoluzione di Francesco Storace, e nella resipiscenza di una politica che, a sinistra e a destra, non vuole abolire leggi illiberali.

21 ottobre 2014 | 08:47
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_ottobre_21/vilipendio-storace-processo-rischia-condanna-reato-opinione-perdonato-93c9295e-58eb-11e4-aac9-759f094570d5.shtml
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« Risposta #155 inserito:: Ottobre 28, 2014, 03:53:06 pm »

di Pierluigi Battista

I corpi degli impiccati che penzolano sulle piazze di Teheran vanno cancellati, lo impone la sapienza diplomatica. I diritti umani sprofondano nell’oblio. Il realismo politico trionfa.
Nessuno verrà in soccorso delle vittime di regimi sanguinari e oppressivi.

La fine rovinosa delle «primavere» arabe ha sradicato la difesa dei diritti umani fondamentali dall’agenda politica dei governi. L’opinione pubblica internazionale è stanca e impaurita. Dimentica i 230 mila morti in Siria, e anzi non dissimula nemmeno un certo compiacimento per i massacri compiuti da Assad: mica vogliamo darla vinta agli sgozzatori che praticano la decapitazione rituale degli infedeli? Certo che no. E infatti nessuno obietta se nell’Egitto dei militari, golpisti ma pur sempre laici, le prigioni della tortura son tornate a riempirsi con una frenesia persino sconosciuta ai tempi del dittatore Mubarak, e fioccano le condanne a morte per i membri dei Fratelli musulmani: mica vogliamo rafforzare gli assassini del fondamentalismo fanatico? Certo che no. Poi però dobbiamo accettare che uno strato spesso di ovatta ottunda la percezione di quello che sta accadendo in Pakistan, vulcano che può esplodere in ogni momento, dove una ragazza cristiana, Asia Bibi (nella foto), viene condannata a morte con l’accusa grottesca di «blasfemia».

 In Iran hanno anche scatenato la guerra santa contro le donne che avevano osato assistere a una partita di volley e sono state arrestate. Facciamo finta di non vedere l’assurdità.  Tra un po’ diremo che bisogna rispettare i costumi dei popoli, per metterci in pace con la coscienza. In passato qualcuno si era permesso di stupirsi perché all’Onu la commissione dedicata ai diritti umani risultava presieduta da un esponente del regime poliziesco di Gheddafi. Ce ne siamo pentiti: quel tiranno buffone teneva buone le teste calde, con i metodi che conosciamo. E ora abbiamo smesso di protestare. E anche di cogliere i risvolti grotteschi del realismo politico.

L’Arabia Saudita fa parte della coalizione contro l’Isis: davvero dovremmo indignarci perché il possesso di un crocefisso o di un rosario, nascosti in casa, è sufficiente per la condanna a morte di un «blasfemo» cristiano? Il realismo politico impone il silenzio, l’accondiscendenza, persino l’appoggio ai regimi che violano senza pudore i diritti umani più elementari.

Non dobbiamo scandalizzarci se gli scherani di Hamas ammazzano un po’ di palestinesi con esecuzioni sommarie ed esponendo per strada i corpi martoriati dei «collaborazionisti»: il realismo politico ci consiglia di non esagerare con le parole di condanna, che invece possono essere spese senza ritegno contro Israele, senza nessuna conseguenza spiacevole per noi. Ma anche se usciamo geograficamente dal mondo incandescente del fondamentalismo religioso, la consegna del silenzio sui diritti umani appare tassativa e intransigente. Il Tibet martoriato, il Dalai Lama che non bisogna nemmeno accogliere nelle visite ufficiali, i dissidenti in galera, la censura, le condanne a morte degli oppositori. Temi molesti, inopportuni, che rischiano di compromettere i buoni affari con un gigante che è meglio non fare arrabbiare. Su Putin, poi, il silenzio è diventato un dogma. Lui sì che conosce il modello per trattare con i fanatici pericolosi: lo ha sperimentato in Cecenia, radendo al suolo Grozny.


Oggi Putin deve essere blandito, ci sono ragguardevoli contratti da onorare, figurarsi se è il caso di chiedere all’autocrate come vengono trattati i dissidenti, i gay, gli oppositori, i giornalisti che spariscono e non si adeguano alla stampa di regime. Magari ci dispiace anche, ma non ci conviene manifestare il nostro civile disappunto perché al peggio non c’è mai fine e male abbiamo fatto ad affidarci ai ragazzi della «primavera» e forse ci siamo ficcati nei guai andando a impedire ai talebani di Kabul le lapidazioni delle donne negli stadi.

È la legge del realismo. Reyhaneh Jabbari riposi in pace.

Da - http://27esimaora.corriere.it/articolo/34029/
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« Risposta #156 inserito:: Ottobre 30, 2014, 12:23:39 pm »

La destra che non c’è
Il bipolarismo scomparso nell’Italia delle due sinistre

Di Pierluigi Battista

Siamo tentati dal bipartitismo, ma intanto in Italia rischiamo l’estinzione del bipolarismo. La logica bipolare poggia infatti su due pilastri: ma se il pilastro della destra si sgretola, il sistema diventa monco, asimmetrico, squilibrato. Con la robusta spallata renziana, il dibattito politico sembra essere occupato esclusivamente dallo scontro tra le «due sinistre», perché la destra di governo non c’è più, è silente, marginale, cupa, risucchiata nella rassegnazione minoritaria. Anche le ultime elezioni europee hanno assistito al duello tra Renzi e Grillo. Nel frattempo la destra di governo, che solo sei anni fa totalizzava circa il 45% dei voti, è diventata una somma di sigle, percentualmente tutt’altro che trascurabile: ma tanti frammenti non fanno un intero. E oggi tutti sanno che, in caso di elezioni, non ci sarebbe partita. Il risultato finale sarebbe scontato. La democrazia dell’alternanza diventerebbe un pallido ricordo.

È crollata la destra di governo. L’umore di destra è ancora vivo. La nuova Lega di Salvini è capace di portare una consistente fetta di popolo in piazza. Ma è la destra protestataria che si alimenta di rabbia e sofferenza sociale, forte e radicata come quella francese di Le Pen (padre), non la destra di governo che compete per la conquista della maggioranza, come avviene nel resto dell’Europa, talvolta perdendo, talvolta vincendo, tuttavia sempre competitiva.

La destra italiana si aggrappa al carisma residuo di Berlusconi, ma non sa più parlare al suo «blocco sociale». Agganciandosi alla locomotiva renziana, spera di intestarsi una titolarità e una nuova rispettabilità «costituente» nella sfera delle riforme istituzionali, ma senza portare qualcosa di «suo», senza convinzione, senza entusiasmo, o per non dare un dispiacere a un leader che sembra amare più il giovane rottamatore della parte avversa che Forza Italia. La destra italiana non ha più un’idea forte, qualcosa che convinca chi l’ha votata in passato a rinnovare la sua fiducia e chi si affaccia per la prima volta alla politica a scommettere insieme per il futuro. L’esercito delle partite Iva, la piccola e media impresa, i commercianti, i liberi professionisti, il vasto ceto medio che per vent’anni ha trovato nella destra la sua casa è frastornato, deluso. Magari, galvanizzato dalla protesta antitasse, è tentato da Salvini, anche se il furore contro gli immigrati e gli inni del capo della Lega al Gulag della Corea del Nord lo tengono a debita distanza. Magari non escluderebbe la carta Grillo, anche se il leader dei Cinque Stelle appare appannato, sbiadito, confuso. Oppure c’è la tentazione Renzi: ma innamorarsi del leader dello schieramento avversario certifica la fine di una storia politica, una diaspora infinita, la cancellazione di un intero ciclo politico. Senza considerare i Comuni e le Regioni: persi uno ad uno con percentuali avvilenti, come si è visto a Reggio Calabria nei giorni scorsi.

Quando trionfava Berlusconi, almeno la sinistra compensava i suoi dolori con il governo delle grandi città e delle Regioni centrali. Alla destra un tempo di governo non resta nemmeno questo contrappeso. Quando Berlusconi stravinceva, la sinistra aveva i sindacati, le cooperative, gli intellettuali, l’ establishment dei grand commis di Stato. Ma la destra non ha niente di tutto questo.



La crisi drammatica in cui versa Forza Italia non riguarda solo Forza Italia, ma il nostro sistema politico. La cosa migliore del bipolarismo è la democrazia dell’alternanza: la paura per chi governa di perdere il potere, di veder prevalere lo schieramento avverso, di essere battuto alle elezioni e tornarsene a casa. Una destra ripiegata in se stessa, rinchiusa nella sua fortezza, attenta a captare ogni variazione nello stato umorale del Re, paralizzata nell’attesa che al suo leader venga restituita piena agibilità politica, frastornata dalla rivoluzione generazionale che ha elettrizzato gli avversari guidati da Renzi, una destra così è destinata alla sconfitta, alla testimonianza, all’autoperpetuazione del proprio apparato.
Senza slanci, senza nemmeno, forse, la voglia di vincere. Accontentandosi di sperare che la legislatura non finisca presto e che almeno, visti i numeri dell’attuale Parlamento, la destra abbia almeno voce in capitolo nell’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Un colpo duro alla democrazia dell’alternanza, se la destra non pensasse seriamente alla propria autoriforma. Un esito amaro per chi, vent’anni fa , predicava il futuro radioso di una «rivoluzione liberale».

30 ottobre 2014 | 09:16
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_30/bipolarismo-scomparso-nell-italia-due-sinistre-83766b34-600c-11e4-b0a9-d9a5bfba99fb.shtml
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« Risposta #157 inserito:: Novembre 12, 2014, 04:20:54 pm »

Particelle elementari
Fenomenologia del panico da maltempo
Quando le bombe d’acqua si chiamavano «pioggia». E se la «pioggia» era battente si diceva «temporale», volgarmente «acquazzone»
Di Pierluigi Battista

Gentili concittadini, terrorizzati dalle bombe d’acqua e sgomenti perché ogni tanto il cielo butta pioggia, provocando il freddo d’inverno e gettandoci nel panico perché ogni volta città, villaggi e persone rischiano di annegare, forse è il caso che ci diciamo cose rassicuranti, sebbene stupefacenti.

Tanto tempo fa le bombe d’acqua si chiamavano «pioggia». Se la «pioggia» era battente, si diceva «temporale», volgarmente «acquazzone». Talvolta si trascendeva in «grandinata» o, con pericolose vicissitudini termiche, «nevicata» destinata purtroppo a diventare insormontabile «ghiaccio» senza il tempestivo intervento dei cosiddetti «spalatori» . Colorite espressioni come «piove a dirotto» o «diluvia» davano il senso della ferma accettazione popolare di un destino meteorologico momentaneamente avverso. Per non bagnarsi si fabbricavano oggetti come il cosiddetto «ombrello» e capi d’abbigliamento come «giacche a vento», «galosce», per i più anziani «impermeabili». Spesso le piogge provocavano luminosità improvvise dette «fulmini», seguite da sonorità prepotenti dette «tuoni». Un genio come Benjamin Franklin l’aveva previsto e già nel ‘700 aveva inventato il «parafulmine».

Invece di maledire il global warming , per evitare esondazioni di fiumi e torrenti, si possono costruire apposite barriere difensive dette «argini». E se i sindaci e le amministrazioni non ne costruiscono di affidabili, la colpa non è del liberismo selvaggio ma dell’acclarata incapacità dei suddetti. Nelle città, per favorire l’assorbimento delle bombe d’acqua un tempo chiamate «temporali», si dovrebbe provvedere alla costruzione di apposite infrastrutture chiamate popolarmente «tombini». Per evitare allagamenti e disastri bisognerebbe provvedere, a differenza di quello che capita a Roma, alla periodica ripulitura dei «tombini» da foglie e altri oggetti che possono ostruire il normale deflusso dei liquidi.

Nei litoranei possono accadere fenomeni che urtano la nostra sensibilità come le «mareggiate»: in questo caso sarebbe controproducente sostare in prossimità delle acque. Insomma, i pericoli esistono, sarebbe inutile nasconderlo. Ma invece di allarmarsi oltremodo ogni volta che il servizio meteo annuncia bombe d’acqua, occorrerebbe predisporsi alla riparazione di «argini» e «tombini», senza arrendersi ai terrori sull’«emergenza pioggia», cominciando anzi a rimboccarsi fattivamente le maniche. Dell’impermeabile.

10 novembre 2014 | 09:32
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_novembre_10/fenomenologia-panico-maltempo-battista-c82bbb36-68b2-11e4-aa33-bc752730e772.shtml
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« Risposta #158 inserito:: Novembre 24, 2014, 02:51:10 pm »

La roccaforte

Emilia-Romagna, un simbolo che si spegne
Senza colore L’astensionismo colpisce anche Forza Italia e M5S Ma per il Pd è più grave
Il rigetto Lo scandalo dei fondi pubblici nutre la sfiducia per tutto il sistema

Di Pierluigi Battista

L’Emilia-Romagna non è solo una Regione, è un simbolo. È la roccaforte della sinistra lungo l’intero arco della storia repubblicana. Quando la destra espugnò Bologna con Giorgio Guazzaloca, fu una frattura nelle vicende della politica italiana. Quando meno della metà degli elettori si reca alle urne, è un blocco intero che scricchiola, un modello di consenso che vacilla. L’Emilia-Romagna in cui crolla la percentuale di chi si reca a votare è il regno dei «corpi intermedi», dalle cooperative al sindacato al partito di stampo tradizionale, che innervano la società, la integrano, le danno coesione politica. Matteo Renzi gioca tutto il suo appeal sulla «disintermediazione», sul rapporto diretto tra il leader e gli italiani saltando la mediazione dei corpi intermedi. Ma il massiccio astensionismo di ieri in Emilia rappresenta la reazione ritorsiva dei corpi intermedi. Se il sindacato viene messo con le spalle al muro, chi si identifica con la cultura e la politica che si sono insediati nel sindacato decide di disertare le urne.

Si può dire che in Emilia le elezioni mancano del pathos dell’incertezza e del «voto utile», visto che il risultato è scontato: ma è sempre stato così, e mai l’astensionismo ha raggiunto livelli tanto allarmanti. Si dice anche che l’astensionismo è una sindrome molto diffusa già da tempo e che pure il sindaco di Roma l’anno scorso è stato votato da meno della metà dei romani. Però in Emilia si è assistito a un crollo. E mai avremmo potuto immaginare che l’Emilia si potesse dimostrare più astensionista della Calabria. Si tratta inoltre di un fenomeno privo di un colore sicuro. Anche l’elettore di destra deluso da Berlusconi è sfiduciato e non va a votare. Anche l’elettore di Grillo che vede la carica del Movimento 5 Stelle spenta e incapace di indicare un’alternativa è tentato dall’astensione. Ma non si può separare il destino dell’Emilia dal partito che, pur tra mille rotture, evoluzioni e discontinuità rappresenta e incarna l’eredità del Pci, la sua presenza capillare, la sua ramificazione in tutti i gangli sociali, cooperativi, sindacali, associativi. E dunque se in presenza del messaggio ottimistico ed elettrizzante del premier che è anche il segretario del partito che gode del massimo insediamento emiliano l’elettorato risponde così freddamente, la percezione del rifiuto appare inequivocabile. E si evidenzia ancora di più che l’intero arco dei partiti, grillini inclusi, coinvolto nello scandalo dell’uso disinvolto dei fondi pubblici non dà agli elettori l’ossigeno per la minima fiducia. Anzi, nutre la sfiducia per tutto il sistema, percepito come un blocco indistinto, che spreca i soldi dei contribuenti con cene pantagrueliche, regali, articoli di consumo, oggetti lussuosi e persino sex toys pagati con i fondi che dovrebbero servire a finanziare la politica. Ovvio che questo andazzo intollerabile abbia alimentato un rigetto disilluso e indiscriminato. E che il comportamento disdicevole dei consiglieri regionali abbia confermato e rafforzato una tendenza astensionista oramai solida e che ieri in Emilia ha assunto le caratteristiche di un crollo. Un campanello d’allarme per tutti i partiti, per le Regioni, per il premier e anche per i suoi avversari. Una data spartiacque. Un altro simbolo che si spegne.

24 novembre 2014 | 08:29
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_24/emilia-romagna-simbolo-che-si-spegne-6584bb32-73ab-11e4-a443-fc65482eed13.shtml
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« Risposta #159 inserito:: Novembre 26, 2014, 05:16:34 pm »

IL Commento

Erdogan e il disprezzo per le donne Ma nessuno chiederà sanzioni
L’Europa tace e non reagisce alle parole del presidente turco

Di Pierluigi Battista

Si dice sempre così, per tenere le donne zitte e subalterne: che sono diverse dall’uomo. Ma perché il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dovuto sottolineare enfaticamente una simile ovvietà? Per dire che nella gerarchia della diversità le donne stanno a un gradino sotto: «Non si possono mettere sullo stesso piano una donna che allatta un bambino e un uomo». A un piano di sopra, l’uomo. La donna a quello inferiore. In Europa, felicemente sradicata da se stessa, c’è di tutto ormai. Potrebbe esserci anche una Turchia il cui onnipotente presidente sta sempre più scivolando verso l’integralismo religioso, la resa di ogni parvenza di laicità, l’accomodamento con i guardiani della fede, l’odio per l’«entità sionista», il disprezzo per le donne sancito dai testi sacri.

C’è posto per tutti. Per Erdogan no? Sarebbe meglio di no, sempre che l’Europa sia in grado di dire una qualsiasi cosa, ciò che appare sempre più problematico. Sono passati i tempi in cui la Turchia, avamposto dell’Occidente nel punto geopoliticamente più delicato, di confine tra due mondi sempre più dissimili, chiedeva il biglietto d’ingresso dell’Europa. Quei legami si stanno sciogliendo, solo la minaccia dell’Isis impedisce a Erdogan di proseguire nella deriva islamista in cui voleva trascinare la Turchia con un ruolo di leadership.

Ma per ribadire la sua nuova fedeltà ai princìpi religiosi la strada più semplice per Erdogan è di confinare le donne nei ruoli ancillari in cui tanta parte del fondamentalismo islamista le relega, anche con le percosse, la violenza fisica per chi vuole andare a scuola, lo stupro legalizzato attraverso la consegna delle bambine a mariti-padroni. Un ammiccamento a buon mercato, tanto nessuno chiederà sanzioni per l’ennesimo schiaffo alle donne. Solo l’Europa, se ci fosse, potrebbe reagire. Se ci fosse. Perciò niente.

25 novembre 2014 | 10:31
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_novembre_25/erdogan-disprezzo-le-donne-ma-nessuno-chiedera-sanzioni-c5bfd494-7484-11e4-ab92-90fe0200e999.shtml
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« Risposta #160 inserito:: Dicembre 07, 2014, 05:38:41 pm »

Lo Scandalo romano
Il Pd deve ripulirsi, l’ora delle scuse è arrivata per tutti
Il sindaco Marino può rivendicare la sua estraneità alle indagini, ma la giunta è accusata di essersi fatta coinvolgere nei traffici illegali

Di Pierluigi Battista

S e fosse la mafia ad essersi messa in tasca la città, non si capirebbe davvero per quali contorcimenti logici, o per quale ambiguo senso delle opportunità, Roma non debba seguire la sorte dei tanti piccoli e grandi Comuni sciolti a causa delle infiltrazioni mafiose. Si dice sempre che le inchieste giudiziarie non devono dettare i tempi della politica (e viceversa). Ma i magistrati di Roma, invocando quel termine terribile e mostruoso - «mafia» - come connotazione dell’intreccio malavitoso in cui Roma rischia di soffocare, si sono consapevolmente presi una grossa responsabilità. Se quel groviglio di malaffare comunque maleodorante non fosse «mafia», la magistratura avrebbe giocato troppo pesantemente. Se fosse «mafia», se le parole hanno un senso, se la giustizia vuole essere diversa dai modi di dire e dalla narrazione noir in salsa capitolina, allora il destino di Roma, la capitale d’Italia, diventa un problema politico che richiede tagli drastici. Si invocano rotture e «discontinuità» in continuazione, cosa deve aspettare ancora la politica romana? Non è sufficientemente squassante la mafia in Campidoglio a far da padrona?

I cittadini italiani da tempo contribuiscono a pagare la montagna di debiti di Roma, evitandone il default. Non è giusto che un cittadino italiano non debba sapere come viene dilapidato il suo contributo. Ed è sconvolgente il sospetto che il denaro pubblico vada a puntellare un’istituzione inquinata dalla mafia nei suoi gangli vitali. Con un’associazione a delinquere che nella passata sindacatura di Alemanno si è installata nel centro magico del governo cittadino e in questa di Marino piazzando i suoi referenti politici nella giunta Marino, ai vertici del consiglio comunale e finanche, con un paradosso lessicale che sembra mutuato di peso da un romanzo di Orwell, nell’organismo preposto alla «trasparenza» della cosa pubblica.

Matteo Orfini, che ha assunto il compito ingrato di commissariare il Pd romano immerso fino al collo nella melma, sostiene che non ci sono gli estremi per il commissariamento del Comune di Roma. Ma perché la sacrosanta esigenza di azzerare il Pd romano non deve valere anche per il governo del Comune? Se c’è l’urgenza di ripartire da zero per un partito, non c’è forse la stessa urgenza per le istituzioni? Non percepiscono forse l’abisso di sfiducia in cui è piombata tutt’intera la politica romana e che oggi contagia l’intera cittadinanza italiana, stanca del privilegio che sinora Roma ha goduto come debitrice super-assistita con le risorse pubbliche gettate in una fornace di sprechi senza fondo? Il sindaco Marino può rivendicare la sua estraneità alle indagini, e anche l’orgoglio di essersi sottratto all’abbraccio di una lobby malavitosa. Il prefetto si dice addirittura preoccupato per l’incolumità del primo cittadino di Roma, che va tutelato e non indebolito. Ma la sua giunta è accusata di essersi fatta infilare dalla mafia e la sua maggioranza nella sala intitolata a Giulio Cesare si è rivelata inaffidabile, permeabile, come è stata descritta su queste pagine da Fiorenza Sarzanini, alle sollecitazioni criminali, parte integrante di un sistema che ha gestito con concordia bipartisan affari, appalti, rifiuti, persino «immigrati», trattati come un business più vantaggioso del traffico di droga. Quel «tariffario» a base del libro paga dell’associazione non si può dimenticare. E azzerare tutto, con un gesto di responsabilità e di buona volontà se il prefetto non dovesse provvedere a uno scioglimento d’autorità, può diventare un segnale di rigenerazione, una pagina totalmente nuova, l’ultimo tentativo di riconquistare la fiducia perduta dei cittadini, romani e non.

E tutti dovranno chiedere scusa. La destra romana in primis, che deve espiare la colpa di aver messo il Comune nelle mani di una banda. E che dovrebbe avere la decenza di non sfilare più in nome della «sicurezza» dopo aver partecipato al banchetto sugli appalti per i campi nomadi. Le Coop che si sono appoggiate così a lungo a figure di corruttori senza pudore: di questo devono rispondere i suoi dirigenti, e non delle foto di cene a cui ha partecipato l’attuale ministro Poletti. I governi, che dovrebbero metter mano subito alla palude infetta delle partecipate. Il Pd, che dovrà fare piazza pulita di comportamenti che lo hanno reso un partito impresentabile. E le forze economiche che aspettano eventi piccoli e grandi (le Olimpiadi anche?) per abbandonarsi nuovamente all’andazzo delle gare d’appalto truccate, alle cordate, alle cricche. Forse addirittura, ma solo se venisse confermato l’impianto accusatorio della magistratura, alle cosche.

5 dicembre 2014 | 08:58
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_dicembre_05/pd-deve-ripulirsi-l-ora-scuse-arrivata-tutti-5ec00bf2-7c53-11e4-813c-f943a4c58546.shtml
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« Risposta #161 inserito:: Dicembre 20, 2014, 04:49:04 pm »

dic
20

LA CRISI DEI DIRITTI UMANI
Le campagne online di sensibilizzazione non sono inutili di fronte alle violenze ripetute come i rapimenti e le umiliazioni subite dalle donne in Nigeria. Occorre rompere la narcosi generale anche solo con una piccola scintilla   
I terroristi di Boko Haram che contano sul nostro silenzio

Di Pierluigi Battista

Non la smettono più. I terroristi di Boko Haram in Nigeria sequestrano, uccidono, stuprano le ragazzine, costringono alla conversione, massacrano, demoliscono scuole, impongono il loro credo fanatico, portano l’islamismo jihadista all’apice vertiginoso dell’efferatezza. E sanno di farla franca. Sanno che non ci sarà nessun impegno internazionale a fermare le loro stragi. Anche le campagne di opinione mondiali per salvare le donne che stanno torturando non hanno sortito alcun effetto significativo. I carnefici sanno di poter contare sulle dimenticanze del mondo.

Sono passate poche ore dall’eccidio islamista di Peshawar e già il mondo si è voltato da un’altra parte. Non si impegna. Non si mobilita. È impotente. Figurarsi se si fanno condizionare dai generosi appelli via Twitter «#Bring Back our Girls», con Michelle Obama capofila della protesta. Figurarsi se conoscono altro linguaggio che non sia quello militare della dissuasione internazionale. Figurarsi: sanno che nessuno si muoverà, e che la difesa delle persone schiacciate e umiliate, le campagne per i diritti fondamentali calpestati in porzioni immense del mondo, tutto questo è oramai un’arma spuntata, una battaglia spenta.

I violenti, i prevaricatori, gli intolleranti, i guerrieri della sopraffazione sanno che possono averla vinta, perché l’opinione pubblica delle nostre democrazie per prima è stanca, disillusa, impaurita, prigioniera della sua impotenza. Non ci sono le Nazioni Unite, da sempre invischiate nei veti, piene di Paesi che fanno strage dei diritti umani ma che hanno nell’Onu una vetrina, una tribuna per tutti i dittatori e i satrapi che si oppongono a ogni ingerenza umanitaria. Non c’è un Tribunale internazionale: un ente inutile, screditato, colpisce soltanto dittatori deposti, mai quelli al potere, mai quelli che possono fare ancora danni e che sono ancora pericolosi. Non c’è una diplomazia delle cancellerie, perché la ragione economica prevale su ogni altra considerazione. Nessuno interroga più la Cina sui dissidenti tenuti in carcere. Il Dalai Lama oggi passa quasi inosservato e i dirigenti di Pechino non hanno nemmeno bisogno di impaurire i governi occidentali affinché non ricevano chi è il testimone dell’oppressione del Tibet: l’opinione pubblica ha altro a cui pensare. Se c’era qualche perplessità sulla violazione sistematica dei diritti umani nella Russia di Putin l’argomento del realismo politico lo ha affossato. Un tempo il dittatore bielorusso Lukashenko era un motivo di imbarazzo per gli interlocutori democratici, oggi Romano Prodi può andare a incontrarlo con il sorriso senza che qualcuno possa sollevare anche un’ombra di disappunto. Dispiace che Putin abbia sconfinato in Ucraina perché questo costringe l’Europa a uscire dal suo torpore, ma è tutto qui.

E il lugubre Kazakistan che viola i diritti umani? Basta, non serve più a fini di politica interna, e quindi in Italia della dittatura kazaka nessuno parla più. Ma è la delusione attrice delle primavere arabe che oramai ha diffuso nel mondo la certezza che i diritti umani siano solo qualcosa di molesto, un fastidio da lasciare alle organizzazioni umanitarie. Anzi, meglio allearsi con i peggiori macellai della ragione pur di non darla vinta ai fondamentalisti. E dunque con Assad, che ha mietuto decine di migliaia di vittime. E dunque silenzio su Erdogan che fa le retate di giornalisti, perché potrebbe essere un utile alleato. E dunque silenzio sulla repressione a Teheran e su una ragazza condannata solo perché ha assistito a una partita di volley, perché con l’Iran ora bisogna coalizzarsi. E dunque silenzio con il Qatar e con l’Arabia Saudita anche se a Riad un cristiano trovato in possesso di un rosario viene condannato a morte. E in questo silenzio totale, noi abbiamo ancora il tempo di denunciare la vanità delle campagne su Twitter mentre in Nigeria Boko Haram fa strage di «infedeli» e di bambine da violentare?

Sarà pure una moda, una maniera per scaricarsi la coscienza con un gesto che non costa nulla e che anzi fa sentire chi espone un cartello «Bring Back our Girls» al centro della «bontà» internazionale. Sarà pure un modo per non volersi accorgere che le armi per combattere la barbarie del terrore devono essere più efficaci: armi vere, che mettano in fuga i terroristi e i decapitatori seriali. Ma almeno una scintilla di interesse ancora accesa non può far male. Un piccolo antidoto alla narcosi generale sul tema dei diritti umani non può che essere il benvenuto. È poco, pochissimo, ma almeno è qualcosa. E qualcosa che è meglio del silenzio complice, del realismo che camuffa la paura e l’impotenza. Meglio un cinguettio che il cinismo degli ultimi adepti della Real-Politik. Per cui, ancora una volta: «#Bring Back our Girls.

Da - http://27esimaora.corriere.it/articolo/i-terroristi-di-boko-haramche-contano-sul-nostro-silenzio/

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« Risposta #162 inserito:: Dicembre 26, 2014, 11:40:41 am »

LA NOSTRA STORIA INSEGNA
Nuovi violenti, che errore sottovalutarli

Di Pierluigi Battista

La scorciatoia della violenza è facile da imboccare, non è costosa, richiede mezzi rudimentali e «poveri»: perciò è sempre pericolosa, e in questi frangenti della storia ancor di più. Con qualche bottiglia incendiaria piazzata nei punti giusti, si può bloccare o almeno compromettere il transito da Nord a Sud sul percorso dell’Alta velocità. Con armi ridotte all’essenziale, la paura è certa: crea scompiglio, caos, apprensione, senso di insicurezza. Semina terrore, che poi sarebbe l’essenza delle finalità terroristiche anche se la categoria storico-giuridica del «terrorismo» è controversa e un tribunale a Torino ha appena sentenziato che le violenze sistematiche dei No Tav non possono essere sussunte nei canoni dell’organizzazione «terroristica» classica. Però chi lavora nei cantieri blindati della Val di Susa vive nella paura costante degli agguati, le aziende che forniscono materiale di lavoro sono perennemente sotto sorveglianza e sono nel mirino dei violenti persino gli alberghi della zona che ospitano una parte delle forze dell’ordine.
La tentazione violenta aumenta dove c’è disagio, rabbia, frustrazione. Durante i pacifici cortei sindacali, gruppetti di violenti allestiscono lo spettacolo della guerriglia con un armamentario poco costoso ma di sicuro impatto mediatico. A Roma, a Tor Sapienza, gruppi neofascisti come CasaPound e Forza nuova, attizzano la disperazione delle periferie abbandonate a se stesse, fanno uso delle tecniche più collaudate dello scontro di piazza, manovrano la collera e la indirizzano verso bersagli facili da colpire.

Cresce la velleità del terrorismo fai-da-te, come si vede dalle indagini abruzzesi. Tutti sintomi di sfiducia nelle regole della battaglia politica democratica. Tutti segni che dimostrano il fascino della violenza.

Questo ricorso massiccio alla violenza diffusa, di piccoli gruppi, disseminata a sinistra e a destra, nei luoghi del disagio sociale e sui palcoscenici delle grandi questioni come l’Alta velocità, non può essere sottovalutato e liquidato come un codice di frange lunatiche e iperminoritarie. Minoritarie certamente, ma in grado, come si vede con gli ordigni rudimentali contro l’ossatura del nostro sistema ferroviario, di creare tensione, terrore, allarme sociale. In passato le prime avvisaglie della violenza furono accolte con indifferenza se non addirittura con indulgenza. Oggi, in contesti e motivazioni completamente diverse, la minimizzazione di episodi truci come quelli di Sydney o di Digione è dettata dalla paura ma rischia di non far capire le radici di un nuovo terrorismo pericoloso e fanatico.

In Italia si parla per fortuna di dimensioni diverse, ma oggi ogni indulgenza sarebbe la certificazione dell’impotenza politica della democrazia, e un cedimento verso chi fa della violenza un metodo, e forse una concezione del mondo e della politica.

Non ci si deve abituare ai professionisti della guerriglia, a chi grida slogan truculenti nell’ambito delle manifestazioni No Tav che, è bene precisarlo, sono in quanto tali legittime in un sistema democratico. Non è legittima la pratica della violenza. Non ha alcuna giustificazione la tecnica dell’intimidazione fisica, del sabotaggio, dello scontro permanente con la polizia, del mettere a repentaglio la sicurezza di migliaia di cittadini che viaggiano in questi giorni di Natale. La scorciatoia della violenza è facile da praticare. Deve essere un impegno stroncarla prima che faccia troppi danni.
24 dicembre 2014 | 09:10
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_dicembre_24/nuovi-violenti-che-errore-sottovalutarli-45aeb240-8b43-11e4-9698-e98982c0cb34.shtml
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« Risposta #163 inserito:: Gennaio 08, 2015, 04:58:08 pm »

I nemici di «Charlie Hebdo» e della nostra libertà
Gli attentatori che hanno fatto una strage nella sede del settimanale non ne sopportano la libertà e il suo non piegarsi a nessuna autorità

Di Pierluigi Battista

«Charlie Hebdo» non è solo la testata di un giornale, ma quello di un’istituzione del giornalismo irriverente e anticonformista, del tempio della satira politica. Le sue vignette fanno male. Sono caustiche, beffarde, senza timori reverenziali per nessuno. Gli attentatori che hanno fatto una strage nella sua sede non ne avranno sopportato lo spirito di libertà, il suo non piegarsi a nessuna autorità. Sono entrati massacrando persone inermi nel giornale che era stato indicato ai bigotti dell’integralismo islamista come un covo di infedeli che osavano irridere tutto e tutti.

I politici francesi non hanno mai amato «Charlie Hebdo», anche se a farne le spese erano gli avversari: sapevano che sarebbe arrivato presto il loro turno. Ma gli assassini che hanno compiuto la carneficina considerano la satira un’arma demoniaca, l’emanazione di un Male da sradicare con ogni mezzo, anche con raffiche di kalashnikov. Le prime rivendicazioni parlano di «vendicare il Profeta». Possono essere smentite, o costituire un depistaggio. Occorre prudenza. Ma la mano degli stragisti si è mossa animata dal fondamentalismo fanatico, dall’oltranzismo religioso, da chi non sopporta la laicità, la critica, le opinioni diverse, l’ironia. Sono nemici delle nostre libertà. Le libertà che hanno dato vita a «Charlie Hebdo», un suo pilastro che i nemici vogliono demolire, e affogare nel sangue degli innocenti.

7 gennaio 2015 | 13:02
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_gennaio_07/attacco-charlie-hebdo-nemici-nostra-liberta-a09ec5d4-9663-11e4-9ec2-c9b18eab1a93.shtml
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« Risposta #164 inserito:: Gennaio 10, 2015, 03:57:47 pm »

Non cedere alla paura
Quelle voci lasciate sole anche da noi

Di Pierluigi Battista

Tutti dicono: non cederemo. Purtroppo abbiamo già ceduto quando, impauriti e indossando buoni sentimenti ecumenici, lasciammo solo Charlie Hebdo che pubblicava le vignette danesi che satireggiavano sull’Islam.
Al settimanale non condividevano quelle vignette e ne detestavano il cattivo gusto. Ma, libertari e anticonformisti, irriverenti e lontanissimi dall’ideologismo militaresco della satira nostrana, le pubblicarono lo stesso. Non ci siamo accorti che, lasciando soli i giornalisti e i vignettisti di Charlie Hebdo, li esponevamo alla vendetta del fanatismo islamista. Non c’eravamo accorti dell’assassinio rituale del regista Theo van Gogh in Olanda. Non c’eravamo accorti che il vignettista Kurt Westergaard era stato costretto a rifugiarsi in una stanza blindata mentre due energumeni tentavano di trucidarlo a colpi d’ascia. Non c’eravamo accorti della persecuzione dell’«infedele» Ayaan Hirsi Ali, in fuga da fondamentalisti che vogliono azzannarla per farle pagare con la vita la sua «apostasia». Non c’eravamo accorti che non solo Salman Rushdie era costretto a fuggire per sottrarsi a una fatwa planetaria, ma che il suo traduttore giapponese, Hitoshi Igarashi, era stato sgozzato e quello italiano, Ettore Capriolo, lasciato in una pozza di sangue, vivo per miracolo, mentre intellettuali prestigiosi in tutto il mondo accusavano l’autore dei Versi satanici (neanche letto, peraltro) di essersi meritata la condanna a morte per aver offeso Maometto.

Ce ne siamo accorti ora, che con la strage di Charlie Hebdo abbiamo vissuto ieri l’11 settembre dell’Europa. Non è un paragone esagerato, anche se il numero delle vittime è di molto inferiore. Il paragone consiste nell’alto valore simbolico delle due carneficine. Nel 2011 si volle colpire con le Torri Gemelle il simbolo della ricchezza, del potere, dell’Amerika, dell’Impero, dell’Occidente opulento e «infedele». Ieri, massacrando la redazione di un giornale satirico, si è voluto colpire il simbolo della libertà, dell’opinione eterodossa, del dissenso sarcastico.

Nella guerra culturale che il fondamentalismo jihadista ha scatenato contro il nostro «stile di vita», la libertà la critica, l’ironia, l’irriverenza, il rifiuto del dottrinarismo autoritario, la pluralità dei valori sono il Male da sradicare, il peccato da estirpare, la depravazione da colpire. In Pakistan e in Nigeria colpiscono le scuole, i libri, le ragazze che vogliono frequentare le aule scolastiche. In Europa vedono l’antitesi di ciò che vorrebbero imporre con la forza delle armi: la sottomissione (come recita il titolo del romanzo di Michel Houellebecq), l’obbedienza assoluta, la censura universale, la liturgia della subalternità, la cancellazione di ogni tentazione critica.

Essenziale delle democrazie europee e occidentali, amava ricordare il compianto Lucio Colletti, è la «critica di se stessi», il continuo riesame delle opinioni dominanti, l’autoscrutinio minuzioso e quasi maniacale nella sua intransigente volontà di non lasciare alcunché di indiscusso, di dogmatico, di tramandato.
La satira, banalizzata nella normalità della comunicazione politica ordinaria, diventa invece un’arma micidiale per i fondamentalisti, i fanatici, i sacerdoti di regimi oppressivi e asfissianti. La satira accoppia cultura e sorriso, ironia e critica. Le sue vignette non portano solo argomenti freddi, ma impongono una loro estetica e anche l’arte, l’estetica, le immagini, i colori, la stessa raffigurazione del sesso sono tentazioni demoniache che i custodi di una dottrina implacabilmente totalitaria non possono letteralmente sopportare.

Ora sui social network dilaga il motto «Je suis Charlie». Magari fosse vero. Magari ci si rendesse conto della solitudine in cui abbiano confinato i disegnatori e i giornalisti del settimanale satirico che i fanatici islamisti ieri hanno voluto annientare. Sarebbe il caso che chi li criticò nel 2006, indicando il settimanale come «oggettivo» fomentatore della guerra di religione, si astenesse oggi dalla virtuosa identificazione con le vittime del massacro. Sarebbe il caso di capire in cosa consiste il valore della libertà, della libertà culturale, della libertà d’opinione, della libertà delle donne, della libertà di stampa, della libertà di satira. Delle libertà che anche alcuni figli della nostra Europa, non solo gli «alieni» che vengono da un mondo lontano, anche chi parla perfettamente inglese o francese perché in quelle lingue è cresciuto, considerano un peccato da punire, anche con la morte violenta.

Sarebbe il caso di capire bene, nell’Europa un po’ stordita e un po’ esausta, chi sono i nemici, senza edulcorazioni dettate dall’opportunismo. Senza isterismi di reazione, ma con la calma della ragione, con la forza di valori che non vorremmo veder scomparire. E per dire «non cederemo»: ma stavolta sul serio.

8 gennaio 2015 | 07:18
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_08/quelle-voci-lasciate-sole-anche-noi-ebd699e2-96fd-11e4-b51b-464ae47f8535.shtml
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