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2926  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Avviso per chi volesse iscriversi come utente ... inserito:: Gennaio 21, 2020, 11:56:10 am
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2927  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Iran, scontri con i manifestanti: la polizia spara. Trump: "Non uccidete il ... inserito:: Gennaio 19, 2020, 09:46:28 pm
Iraq, l'ayatollah Khamenei alla folla in preghiera: "Proteste manipolate dai nemici".

Sono 11 i soldati Usa feriti nel raid

Davanti a migliaia di persone che hanno cominciato a radunarsi dalle prime ore del mattino la Guida Suprema officia la grande preghiera musulmana: in passato lo aveva fatto solo in periodi di crisi, non accadeva dal 2012. Il presidente Trump smentito dal comando Usa a Bagdad: soldati feriti curati per trauma cranico

Dal nostro inviato PIETRO DEL RE
17 gennaio 2020

BAGDAD - Per via delle gravi tensioni nazionali e internazionali che funestano l'Iran, oggi è la Guida Suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, a presiedere a Teheran la grande preghiera del venerdì, davanti a una folla immensa che ha cominciato a radunarsi dalle prime ore del mattino.
"Quei pagliacci che sostengono di essere dietro il popolo sono bugiardi. Sono manipolati dai nemici e non hanno dedicato le proprie vite alla sicurezza dell'Iran, diversamente da gente come Soleimani", ha detto la Guida suprema, accusando i manifestanti che nelle proteste dei giorni scorsi hanno strappato i poster appesi per commemorare il generale Qassem Soleimani.
"Nelle ultime due settimane ci sono state giornate amare e dolci, un punto di svolta nella storia. I due grandi avvenimenti dei funerali del generale Qassem Soleimani e del giorno in cui l'Iran ha attaccato le basi Usa sono stati 'Giorni di Allah'. I due episodi, miracoli delle mani di Allah, hanno mostrato il potere di una nazione che ha dato uno schiaffo in faccia agli Usa e che la volontà di Allah è continuare il cammino e conquistare la vittoria", ha aggiunto Khamenei
Che poi è tronato a parlare della'assassinio del generale Soleimani, "era un comandante anti-terrorista nella regione, è stato uno scandalo che ha portato infamia sugli Usa, perché lo hanno ucciso vigliaccamente e non sono stati capaci di farlo sul campo di battaglia, usando lo stesso metodo del regime sionista". La "tragedia amara" dall'abbattimento dell'aereo ucraino a Teheran "non deve oscurare il sacrificio di Soleimani".
Per quanto riguarda il nuclerare: "Ho detto sin dall'inizio che non ho alcuna fiducia nel dialogo con l'Occidente sulle nostre attività nucleari e nei gentiluomini che siedono ai tavoli negoziali e vestono guanti di seta sulle loro mani di ferro. Sono al servizio degli Usa. Il dialogo con loro è un inganno".
In passato, Khamenei ha officiato la grande preghiera musulmana solo in periodi di crisi: lo fece nel 2009, in concomitanza con le proteste contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad alla guida del Paese; e poi nel 2011 per la "primavera araba". L'ultima volta che Khamenei tenne il sermone durante le preghiere del venerdì fu nel febbraio del 2012, sempre in occasione di proteste, all'epoca diffuse in tutto il Medio Oriente.

ESTERI

Iran, scontri con i manifestanti: la polizia spara. Trump: "Non uccidete il vostro grande popolo"
Dopo le manifestazioni antigovernative dei giorni scorsi seguiti all'abbattimento dell'aereo iraniano, Khameini vuole dimostrare di avere ancora il pieno sostegno del popolo, soprattutto in un momento delicato come questo, con il presidente iraniano Hassan Rouhani che ieri ha nuovamente difeso la sua politica di apertura internazionale, "difficile, ma possibile", e con la Guida Suprema che ripete da anni che non ci si deve fidare degli occidentali proibendo qualsiasi negoziato con l'amministrazione Trump. Per questo, l'appello di Khamenei all'unità nazionale, in un momento di crisi interna e grande tensione con gli Usa.

ESTERI
Iran ammette: aereo abbattuto per "errore umano". Rouhani: "Imperdonabile". Studenti in piazza contro il regime

DI ALBERTO CUSTODERO

11 militari feriti nel raid di Teheran
 Sempre oggi, è stata pubblicata la notizia che undici militari americani sono rimasti feriti nel raid missilistico di Teheran contro basi statunitensi in Iraq, lanciato come ritorsione per l'uccisione del generale Qassem Soleimani. Lo scrive il sito Defence One, smentendo Trump che aveva assicurato che il raid missilistico non aveva fatto vittime né feriti tra gli americani. Il sito precisa che i militari sono stati trasferiti in Germania e in Kuwait dove sono stati sottoposti a trattamenti per trauma cranico e ad ulteriori esami. "Per un eccesso di cautela, alcuni militari sono stati trasportati dalla base Al Asad, in Iraq, al centro medico di Landstuhl in Germania, e altri al Camp Arifjan, in Kuwait, per screening di follow-up", ha riferito a Defence One il colonnello Myles Caggings, portavoce del comando Usa a Bagdad.
Al termine dei controlli, i militari feriti dovrebbero tornare in Iraq. Secondo fonti di Defence One, almeno un militare ha subito una commozione cerebrale. La notizia è stata confermata alla Cnn dal capitano Bill Urban, portavoce del comando centrale degli Stati Uniti, che sovrintende alle truppe in Medio Oriente.

ESTERI
Iran, Wp: "Soleimani non unico obiettivo, fallito raid in Yemen". Usa annunciano nuove sanzioni
Un portavoce del Pentagono ha poi precisato che otto persone sono state trasportate al Landstuhl Regional Medical Center in Germania e tre a Camp Arifjan in Kuwait per accertamenti: "Tutti i soldati nelle immediate vicinanze dell'esplosione sono stati visitati e valutati secondo la procedura standard, secondo il Dipartimento della Difesa. Se saranno ritenuti idonei al servizio dopo lo screening, torneranno in Iraq".
"La Repubblica si batterà sempre in difesa della libertà di informazione, per i suoi lettori e per tutti coloro che hanno a cuore i principi della democrazia e della convivenza civile"
Carlo Verdelli

Da - https://www.repubblica.it/esteri/2020/01/17/news/soldati_usa_feriti_attacco_iran-245979788/?ch_id=sfbk&src_id=8001&g_id=0&atier_id=00&ktgt=sfbk8001000&ref=fbbr
2928  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Non cambio soltanto il titolo di questo angolo de LAU, ma ... inserito:: Gennaio 15, 2020, 06:41:28 pm


Non cambio soltanto il titolo di questo angolo de LAU, ma ... anche i contenuti che deciderò di proporvi sul tema:

Cittadini e Popolazione devono liberarsi dalla morsa di questa politica predatrice di ogni nostro vero interesse a conoscere la realtà.

Una autoanalisi che non può che farci bene sia come Cittadini, sia come popolazione.

ciaooo

 
2929  Forum Pubblico / Il MONITORE. ORSI, LUPI E TUTTA LA NATURA CI RIVOGLIONO ESSERI UMANI. / CONOSCERE per CAMBIARE il NOSTRO AGIRE! inserito:: Gennaio 15, 2020, 06:22:20 pm
NOTITIARUM: CONOSCERE per CAMBIARE il NOSTRO AGIRE!

Questo è il nuovo titolo del gruppo che vorrei in Facebook, ma Fb non me lo concede.

ciaooo

Questa è la risposta alle mie numerose richieste:

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2930  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / BIAGIO MAIMONE. “Negri, gay, terroni”. Razzismo o demenza sociale? inserito:: Novembre 21, 2019, 11:58:17 am
“Negri, gay, terroni”. Razzismo o demenza sociale?

Opinioni 5 Novembre 2019

Di: BIAGIO MAIMONE

L’Italia diviene sempre più teatro di fenomeni legati al degrado civile ed ancor più morale. Forme di razzismo e rifiuto dell’altro in modo oltraggioso si affermano in modo crescente, non certo in nome di un’ideologia politica che, in ogni caso, non giustificherebbe assolutamente tali orrendi fenomeni, ma come espressione senza scrupoli della propria aggressività, ostentata con fierezza. Fa paura prenderne atto. C’è da chiedersi che cosa alimenta tale ondata di aggressività e di rozzezza umana? Vi è una responsabilità civile e politica? Riteniamo che nulla succeda per caso, soprattutto nell’ambito della vita sociale.

Difatti, osserviamo che le fonti diseducative, tuttora presenti nello scenario socio–politico, sono di varia natura.

Tra esse si annovera il linguaggio non certo raffinato dei mass media e di alcuni esponenti della vita politica divenuti veicolo di messaggi superficiali che fanno propria la libertà di parola e di offesa, anziché il dialogo ed il confronto costruttivo. La parola diventa “parolaccia”, in quanto deve offendere in malo modo l’altro che si ritiene ostacolo, in quanto la pensa in modo diverso o proviene da un luogo lontano. Pedate e solo pedate all’altro perché solo la violenza ratifica il proprio potere: questo è il messaggio che si legge, a volte apertamente, a volte in modo metaforico, tuttavia resta il messaggio predominante.

Alcuni giornali, alcune televisioni, alcuni partiti politici sembrano avallare l’odio sociale e le discriminazioni attraverso propagande squallide e di cattivo gusto. Ciò che è accaduto al calciatore Balotelli, fischiato a Verona dagli ultrà, perché di pelle nera, non è un caso isolato, in quanto anche altri giocatori di colore spesso sono derisi. Non passano inosservati i titoli riportati da un giornale presente nelle edicole di tutta Italia, che utilizza le parole “gay”, “terroni” e “negri” in modo offensivo e classista. Non si affittano immobili ai meridionali, si “fischiano” le persone di colore, si picchiano i clochard e gli inermi, finanche i vecchi e i bambini. Svastiche, inni razzistici, rievocazioni fasciste si osservano in tanti ambiti.

Sorge spontanea la domanda: “E’ stata istituzionalizzata la follia per caso?”, o meglio “E’ rinato l’oscurantismo?”.
Attenzione perché dal disordine sociale e dallo sbando sociale sono nate le dittature!

I giornali sappiano che non devono far propaganda dell’odio sociale per avere audience, perché in tal modo generano il terreno tanto caro al totalitarismo che si nutre dell’ignoranza dei popoli e dell’aggressività dei bulli!

Da - https://www.articolo21.org/2019/11/negri-gay-terroni-razzismo-o-demenza-sociale/
2931  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / EM.MA in corsivo: L’UMBRIA, LA TURINGIA E IL MANTO DI DESTRA SUL MONDO inserito:: Novembre 21, 2019, 11:56:01 am
EM.MA in corsivo

L’UMBRIA, LA TURINGIA E IL MANTO DI DESTRA SUL MONDO

Domenica scorsa si è votata in Umbria ed ieri abbiamo commentato il successo della destra razzista e la sconfitta dell’alleanza Pd-M5S. Nello stesso giorno si è votato in Turingia, Regione della “Germania Est”. Ieri La Repubblica ne ha dato notizia con una corrispondenza di Tonia Mastrobuoni con questo titolo: “L’ultradestra tedesca sfonda in Turingia, la Linke primo partito”. Infatti la Linke, un partito formato da ex dirigenti e militanti della SED e da un pezzo della sinistra socialdemocratica, guidata da un prestigioso leader della SPD, Oskar Lafontaine, ha ottenuto il 32% dei voti. L’estrema destra di AFD ha ottenuto il 23,5%. Il capo di questo partito, Bjorn Hoeke, è un neonazista che definì il monumento all’Olocausto “una vergogna”. I due partiti che governano la Germania sono starti sconfitti e lo sono stati anche i Verdi. Del resto basta sommare i voti della sinistra e quelli della destra per constatare che sono ben oltre il 50% dell’elettorato votante. Il capo della Linkein Turingia, Bodo Ramelow, è stato presidente della Regione d ha governato con i voti dei socialdemocratici e della CDU. I quali sembra che non vogliano continuare a farlo anche s e, sul piano economico e sociale, quel governo regionale ha fatto bene.

Il successo della destra estrema e anche della Linke da molti osservatori è spiegato co il fatto che la popolazione dell’est del paese avrebbe preso coscienza che nel 1990 non c’è stata unificazione ma “colonizzazione”. Dell’ovest rispetto all’est. In questi giorni è uscito anche in Italia un libro dello scrittore Ingo Schultz, “Autoritratto di un uomo felice”. Un libro che non solo parla della “colonizzazione” ma che sostiene che nella Germania est, comunista, si viveva molto meglio di come si viva adesso. Sulla “colonizzazione” dell’Est da parte dell’Ovest, il giovane economista Vladimiro Giacchè ha pubblicato un libro con molti dati ed argomenti per sostenere anche lui questa tesi. E nei giorni scorsi Milena Gabanelli, su La7, ha fatto un servizio sul tema.

Ho fatto queste considerazioni per dire che non solo in Italia, dove la destra ha un rilievo eccezionale, ma in Europa e nel mondo questo fenomeno si sta verificando in modo allarmante. Basti pensare cosa fa la destra al governo in Turchia, cosa è la cosiddetta “democrazia illiberale” in Russia e in quasi tutti i paesi europei orientali. Sistema molto lodato e agognato dalla Lega di Salvini. Ma bisogna anche pensare a cosa è oggi il governo in USA con Trump. Voglio dire che bisogna prestare attenzione al fatto che attraversiamo un momento difficile non solo in Italia ma in Europa e nel mondo. E ne siamo anche condizionati. A mio parere in Italia, il Pd e le altre forze di centrosinistra non riflettono abbastanza sul contesto europeo e internazionale e dovrebbero, invece, operare con più consapevolezza nei confronti di questa realtà che, come detto, ci condiziona in modo pesante.

(29 ottobre 2019)

Da – Fb del 29 ottobre 2019
2932  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Questo Salvini non lo potrà mai capire... inserito:: Novembre 21, 2019, 11:52:15 am
17 novembre 2019
Non si sa se Salvini riesca anche a prendersi l’Emilia Romagna e Bologna la rossa alle prossime elezioni regionali.

Ma un dato è certo: le dodicimila anime di venerdì sera (15 novembre) a Bologna in Piazza Maggiore sono una ventata di area fresca; una rivoluzione silenziosa di giovani che
a) non si rassegnano alla demagogia,
b) alla semplificazione della politica degli slogan,
c) all’eterna campagna elettorale attraverso Facebook promossa dal leader della Lega e da Giorgia Meloni. Mentre costoro sono capaci di fasciare il popolo della destra ed anche avere la capacità di far rifluire le forze estreme nel loro seno, il popolo di sinistra è ormai disperso, senza una guida politica capace di offrire una proposta adeguata per sconfiggere il Salvinismo.

Salvini ha dalla sua una crescita nei consensi che è indubbia.
Solo questi ragazzi, che rappresentano il pensiero, la riflessione, la costruzione nel dialogo, il rispetto delle regole, hanno la Costituzione come guida, possono essere la speranza riorganizzata, per scuotere una sinistra che non c’è più, incapace di un disegno e di un progetto che possa fermare ed arginare l’onda nera, la destra populista che è quella pericolosa, capace di mandare alle ortiche la preziosa testimonianza di Liliana Segre ed ogni anelito di cultura.
Questi ragazzi sono commoventi, perché studiano, leggono, non si fanno influenzare dalle idiozie di Facebook ed utilizzano i social solo per comunicare un messaggio serio. Hanno il rispetto dell’altro, della civiltà del dialogo, sentono la politica come sintesi di un processo culturale.
Bologna la dotta non può essere di Salvini: sarebbe la fine. Vivremmo la stessa rassegnazione di aver perso Matteotti, Gramsci e ci avvieremmo all’oscurantismo ed alla barbarie della politica, quella che purtroppo si vede sui social.
Neanche l’attuale Partito Democratico riesce a catalizzare e contemplare il bisogno e le fulgide ambizioni di questi ragazzi per la sua inadeguatezza.
Già avvenne a piazza Navona anni fa quando Nanni Moretti gridò la sua insoddisfazione rispetto ad una classe dirigente che non riuscì a domare il cavaliere Berlusconi.
Oggi si ripete questo scenario: la piazza di Moretti sta alle sardine di Bologna, come Salvini a Berlusconi. Questo bisogna impedirlo.
Abbia il coraggio il Partito Democratico di mettere in discussione la sua stessa struttura organizzativa. Riscopra la questione sociale, riprenda il contatto con le periferie, rimetta a centro delle sue tematiche il lavoro, ricomponga un disegno ove campeggi lo Stato sociale e non assistenziale. Svecchi la sua anchilosata classe dirigente, faccia dimettere ministri che da una vita occupano le poltrone. Metta in minoranza dirigenti snobisti che hanno l’attico a Roma, conti in banca ragguardevoli e non sanno cosa significhi vivere con stipendi da fame o con un contratto di lavoro a tempo determinato.
Si faccia un congresso rifondatore non sulle tessere, ma su una proposta politica seria che tenga conto della parte più debole della società, quelli rimasti indietro, oggi ormai votati a destra e rifluiti nella demagogia di Salvini.

Almeno una speranza questi ragazzi ce l’hanno data.

Non siamo, per ora, rassegnati.
Le sardine sono piccoli pesci che si stringono fra di loro: sono comunque pesci e, come diceva Dalla, essi rappresentano il pensiero che non puoi recintare, non puoi bloccare.

Gramsci giovanissimo scriveva:” istruitevi, perchè avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perchè avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perchè avremo bisogno di tutta la nostra forza “(da L’Ordine Nuovo, anno I,n.1 primo maggio 1919),
Ma questo Salvini non lo potrà mai capire.

Biagio Riccio

Da - https://www.glistatigenerali.com/bologna_partiti-politici/il-pensiero-delle-sardine/
2933  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / La società è cambiata nella visione femminile perché era importante ... inserito:: Novembre 21, 2019, 11:43:08 am
Le pratiche di autogestione hanno modificato l’approccio dei singoli, sono state cioè uno strumento “educativo” verso una gestione equa delle risorse economiche, politiche, sociali?

La società è cambiata nella visione femminile perché era importante rappresentare equamente le donne e farle partecipare ai meccanismi decisionali. Questo processo ha reso più consapevole la donna della propria forza e capacità di agire. Grazie a questo cambiamento, oggi anche nei gruppi più lontani dalla mentalità democratica, i problemi vengono espressi e risolti con il dialogo. È cambiata anche la mentalità a proposito di giustizia sociale: la società trova le soluzioni dei propri problemi familiari, sociali e personali attraverso, appunto, metodi di dialogo. In questo modo oltre l’80 per cento delle dispute sono state risolte nei comitati territoriali per la pace.

L’economia è stata l’area di sviluppo che invece ha presentato maggiori difficoltà.

Dopo la rivoluzione le proprietà statali governative sono state distribuite alle comunità e sono state costituite cooperative agricole. Ma il problema era gestirle con la mentalità giusta: le cooperative infatti non sono solo imprese economiche, sono complessi sanitari, sociali, educativi. Ogni cooperativa è uno spazio vivente, uno spazio organizzativo.

L’attacco turco mette in pericolo (anche sul piano del consenso della base) il confederalismo democratico e la sua natura multietnica e multiculturale?

C’è un attacco totale al sistema del confederalismo democratico da parte delle grandi potenze, non solo della Turchia. È un sistema che ha prodotto ricerche nelle società arabe del Medio Oriente, potrebbe diffondersi in tutto il mondo. Il capitale globale vuole bloccarne la diffusione perché teme che metta in discussione il suo potere. Gli attacchi sono stati vari. Ad esempio, hanno voluto definire il sistema come Stato-nazione o ridurre i nuovi modelli di organizzazione etichettandoli come rapida via per la libertà, cercando di imitarli. Ognuno, dal proprio punto di vista, ha cercato di imporre il proprio sistema di valori, dimostrando la necessità di una lotta più elaborata e comune. Se vuoi mantenere vivo il confederalismo democratico hai bisogno non solo di difenderti sul piano militare e politico ma soprattutto di dare risposte culturali. L’invasione e gli attacchi feroci dello Stato turco hanno causato la morte di centinaia di persone e la fuga di centinaia di migliaia di civili. Ma la popolazione che si è formata con questa esperienza finirà per portare il proprio progetto politico fin sulla luna. È impossibile annientare solo con un attacco fisico un sistema che si è costruito sulla cultura.

Da - https://left.it/2019/10/18/nemmeno-le-bombe-turche-fermeranno-il-progetto-politico-e-culturale-del-rojava/?fbclid=IwAR0mMrXdf3ASNnyAtchTn_HoDKu4hRZ6D7QVAKEIuQRmLK8G24GQMQEQFng
2934  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / MILANO, ITALIA. LA POLITICA DEI DIVARI È NEL NOSTRO FUTURO. inserito:: Novembre 21, 2019, 11:38:57 am
MILANO, ITALIA. LA POLITICA DEI DIVARI È NEL NOSTRO FUTURO.
   
ALESSANDRO COPPOLA
17 novembre 2019

In tutto il mondo a capitalismo avanzato si discute dei nuovi divari territoriali determinati dalla più accentuata dinamica di agglomerazione metropolitana dell’economia osservabile negli ultimi decenni. Questi squilibri rappresentano la dimensione “spaziale” di processi di polarizzazione della ricchezza che, come noto, sono oggetto dell’attenzione scientifica e più ampiamente di quella pubblica da diversi anni.

Quindi le parole del Ministro Provenzano certo non possono stupire e anzi indicano la necessità che anche in Italia, come peraltro accade per l’appunto in qualsiasi paese avanzato, si discuta di questi nuovi divari. Che qui, oltre a prodursi nel contesto di un dualismo territoriale mai colmato, riguardano un’economia ed una società stagnanti dove la forte attrattività di pochissimi poli metropolitani (Milano, Bologna) è sicuramente funzione sia della loro effettiva attrattività (il fattore pull: “a Milano si trova lavoro”) sia, più che in altri paesi, della situazione di crisi profonda di molti territori e di molte città medie e piccole da cui i nuovi flussi migratori provengono (il fattore push: “vado a Milano che qui è comunque impossibile trovare lavoro”).

Tutti concordano – si vedano Richard Florida ed Enrico Moretti – sul fatto che i grandi poli metropolitani attraggano come mai prima un fattore produttivo decisivo come mai prima, il capitale umano. Un capitale che è formato attraverso politiche nazionali – si pensi al ruolo del sistema di istruzione – e anche attraverso gli investimenti delle famiglie.  Da questo punto di vista, non si può non sottolineare come se Milano rappresenta certo il nodo più internazionalizzato del capitalismo italiano in questa condizione di ritrovata attrattività Milano sia anche diventata “italiana” come mai prima.

Italiana perché per l’appunto attrae, a condizioni vantaggiose, un capitale umano prodotto nell’insieme del paese e in virtù degli investimenti citati. Ma anche perché se ad esempio crescono gli investimenti immobiliari internazionali – è questo uno degli indicatori del suo successo più di frequente citati – crescono anche quelli interni segno di un forte orientamento del risparmio nazionale verso la città. Un risparmio che è fatto di famiglie del resto del paese che, magari per sostenere il progetto migratorio dei figli già avviato con l’università (si vedano su questo tema i lavori di Granfranco Viesti), investono nell’immobiliare a Milano, portandovi capitali che fino a dieci anni fa si sarebbero orientati altrove, sebbene non necessariamente nella località d’origine. In questo senso non é appare quindi scorretto dire che Milano – come capita per altre grandi aree metropolitane in molti paesi – “assorbe” molto capitale, umano e non solo umano, che un tempo si allocava altrove, e che oggi permette alla città di concentrare una quota crescente della limitatissima crescita nazionale

Sarebbe ovviamente ingenuo pensare che in questo processo di divaricazione a pesare siano solo la maggiore efficacia e continuità amministrativa delle istituzioni locali (citato spesso come fattore decisivo a Milano, dove ad esempio le grandi scelte di valorizzazione immobiliare sono state confermate) e non anche alcuni caratteri propri all’attuale modello di sviluppo globale, alla lunghissima crisi italiana ed a scelte politiche nazionali non solo settoriali. Si pensi a città come Torino, che di efficacia e continuità amministrativa ne ha avuta molta, eppure, scommesse simili sull’economia della cultura, sui grandi eventi e sull’immobiliare non hanno avuto esiti paragonabili, tutt’altro (anzi, uno dei sintomi più macroscopici della politicizzazione del muovo divario é proprio il conflitto strisciante fra Milano e la vicina Torino).

Da questo punto di vista, il principale problema di Milano si chiama oggi Roma. Milano non sarebbe così “esposta” se Roma non fosse coinvolta in una crisi durevole e severa che la vede non più in grado di rappresentare l’altro robusto polo metropolitano capace, in particolare, di esercitare una forte attrattività nei confronti del Mezzogiorno. Oggi si parla del “modello Milano”, ma anche Roma – quando Milano sembrava incapace di riprendersi da Tangentopoli (ma era un sonno apparente) – aveva il suo “modello” fatto di crescita immobiliare, economia turistica, grandi eventi, economia della cultura e un certo dinamismo nell’ambito dei servizi alle imprese. Eppure quel modello che vedeva Roma crescere sia demograficamente sia economicamente più di Milano si è rapidamente convertito in un incubo che dura ormai da almeno un decennio (si veda qui un’analisi della crisi del cosiddetto “modello Roma” in tante delle sue dimensioni: http://www.planum.net/planum-magazine/planum-publisher-publication/roma-in-transizione_coppola_punziano). Se e fino a quando Roma non ritroverà una condizione di “normalità” forte sarà la percezione nel resto del paese di un eccessivo sbilanciamento, sbilanciamento che si rivelerà politicamente sempre più problematico per Milano, o quantomeno per alcuni dei suoi interessi egemoni. E da questo punto di vista Roma è certo un problema “nazionale”, cosa che si è ben lontani dal riconoscere, ma è anche un problema di Milano: il suo declino porta con se costi politici non solo per Roma, ma anche per Milano.

Più complessivamente, in un’Italia divaricata da tanti e contestuali divari, il discorso sul “chi resta” non potrà che rivelarsi centrale nella politica e nella società. Un discorso che non riguarderà solo territori periferici o città medie e piccole ma anche altre aree metropolitane se è vero, ad esempio, che sono i comuni di Roma e Napoli i principali contributori netti dei nuovi residenti. Il chi resta è fatto di generazioni di ceto medio che vedono i propri figli riprodurre un destino migratorio che loro erano riusciti ad interrompere, e che lo rinnovano proprio in virtù dell’investimento operato consapevolmente su di loro. Oppure, nel caso delle città medie e metropolitane , di famiglie che non immaginavano che l’investimento sui loro figli si sarebbe risolto non in una traiettoria ascendente a livello locale – i bei tempi dell’inserimento nelle borghesie locali sembrano passati per sempre –  ma in progetto migratorio, nel paese se non fuori dal paese ( a questo proposito, a proposito di “caduta delle aspettative sociali”, sarebbe interessante indagare quanto alcuni sommovimenti elettorali dipendano più che dall’immigrazione internazionale dall’emigrazione nazionale e internazionale vista con gli occhi di chi è restato).

Ed in effetti, sebbene in modo ancora immaturo, i nuovi divari sono un nuovo oggetto politico e come tali producono anche un nuovo discorso politico (come reso evidente dalla polemica nata attorno alle parole del Ministro). Nota è la componente territoriale del discorso “populista”, che poi è essenzialmente un discorso di estrema destra, che vede nelle città un bersaglio usuale delle polemiche contro il “cosmopolitismo” dei radical-chic o bobos (si veda qui per un ragionamento su Francia, Italia e Usa: https://aspeniaonline.it/41443-2/). Lo stesso Salvini ha sempre usato il ricorso alle “ztl” – dove risiederebbe gran parte dell’elettorato del Pd (e dove in effetti il Pd ha successo) – come dispositivo centrale del proprio discorso (e a un certo punto era diventato così preciso da parlare dei “salotti” all’interno delle “ztl”, passando dalla scala urbana a quella domestica). Contestualmente, non mancano spinte a un nuovo autonomismo “metropolitano” che si nutre di discorsi non solo economici ma anche sociali, di classe ed identitari (sebbene di un identitarismo “cosmopolita”) e che si fanno largo fra i ceti medi e superiori, anche al di là delle tradizionali appartenenze politiche. Da questo punto di vista è interessante osservare come questo neo-autonomismo – per ora un discorso molto poco strutturato – abbia più di una difficoltà a convivere con il tradizionale “nordismo” leghista che per la verità promette un universo di valori ed un centralismo regionalista poco in linea con le preferenze di componenti importanti delle classi dirigenti urbane. Egualmente, il movimento “si resti arrinesci” – che rivendica “il diritto a restare” per i giovani siciliani – segnala il fatto che da inevitabile destino individuale il tema migratorio sia diventato un oggetto politico dalle implicazioni potenzialmente rilevanti anche in alcune aree del Mezzogiorno.

Come si vede, il terreno della “politicizzazione” dei nuovi divari territoriali è quindi in pieno movimento. Egualmente, si tratta di un terreno che alle condizioni date ad oggi dissimula un aspetto decisivo che in altri contesti è invece ben evidente nel discorso pubblico: ovvero che non basta risiedere nei gran poli metropolitani per essere dei “vincitori”. E che la crescita in questi poli si manifesta ovviamente attraverso forti squilibri: Londra, Parigi, Milano, Barcellona, Madrid sono anche città con diseguaglianze non solo elevate ma anche crescenti e nelle quali i “costi di arrivo” di chi vi è attratto sono elevatissimi.

L’espansione immobiliare, che è comunemente considerata un indicatore del successo metropolitana in un’economia fortemente finanziarizzata, erige imponenti barriere d’accesso mentre contribuisce alla concentrazione di vaste ricchezze in chi la controlla. Il mondo delle “città globali” descritto da Saskia Sassen prima della grande crisi esiste tutt’ora ed il fatto che si discuta di divari territoriali ad una scala più elevata di quella urbana non può farci dimenticare che nelle grandi aree metropolitane continua ad esistere una grande questione sociale che sta creando una lunga serie di cleavage e conflitti che riguardano sopratutto l’abitare, ma anche e sempre di più il lavoro. Peraltro, questi cleavage possono riguardano la stessa proprietà immobiliare diffusa se è vero che nelle grandi aree metropolitane i processi di valorizzazione immobiliare seguono essi stessi geografie molto divaricate (si vedano ad esempio gli stessi andamenti dei valori nella periferia non solo metropolitana di Milano).

Per tutte queste ragioni è quindi del tutto evidente che il registro morale che tanto condiziona il discorso pubblico anche sui divari territoriali non sia né accettabile né tantomeno utile, se non a consolidare rappresentazioni identitarie che non faranno altro che ulteriormente rafforzare il discorso della destra. Non ci sono squilibri morali fra città e territori che meritano e città e territori che demeritano, ma ci sono squilibri strutturali determinati da un modello di sviluppo che intervengono su divari multi-dimensionali ereditati – e che riguardano l’economia, la società, l’amministrazione – acutizzandoli.

Inoltre questi divari territoriali hanno costi sociali, ma hanno anche costi politici. E solo una piena consapevolezza dei fattori che producono tali divari e della loro necessità nell’ambito del presente modello di sviluppo può rappresentare la precondizione di un discorso politico progressivo su di essi. Un discorso che parta dal riconoscimento dell’interdipendenza fra territori e popolazioni – i fattori impiegati hanno origine sempre ad una scala più ampia di quella dove si impiegano e la debolezza di qualcuno è sempre funzionale alla forza di un altro – senza il quale lo stesso processo di globalizzazione (e le relative gerarchie) non è pensabile.

Viceversa, la risposta più facile sarà l’arroccamento identitario nell’idea che si possa fare a meno degli altri oppure che altrove vi siano soltanto vincenti, in una pervasiva semplificazione ed essenzializzazione di interi territori e popolazioni. Che non farà altro che giustificare e cristallizzare i divari per come essi si presentano.

Da - https://www.glistatigenerali.com/milano_societa-societa/milano-italia-divari/
2935  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / CAPITALISMO dalla Treccani. inserito:: Novembre 21, 2019, 11:33:37 am
www.treccani.it/enciclopedia/capitalismo_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/
2936  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Ilva e Alitalia: statalisti, liberisti o, una volta tanto, aziendalisti? inserito:: Novembre 21, 2019, 11:28:23 am
CATEGORIA: VENDERE E COMPRARE

Ilva e Alitalia: statalisti, liberisti o, una volta tanto, aziendalisti?

 Scritto da Econopoly il 16 Novembre 2019

L’autore di questo post è Marco Gallone, investment manager attivo nel campo della finanza e delle valutazioni d’impresa dal 1989 –

Non se ne può più di sentir parlare di Ilva e di Alitalia, quanto meno nel modo in cui se ne sta parlando; per slogan, statalisti o liberisti che siano. Dicono in sostanza gli statalisti: dobbiamo statalizzare (o ristatalizzare) llva e Alitalia perché sono due aziende strategiche per il Paese. Nessuna grande industria al mondo può fare a meno dell’acciaio nazionale! Analogamente, un settore così determinante per la nostra crescita come quello turistico, non può essere privato della sua compagnia di bandiera!

Ribattono i liberisti: un’azienda pubblica che perde soldi va chiusa come si chiuderebbe un’azienda privata, altrimenti si falsano le regole della concorrenza e si finisce come al solito per far pagare il conto ai contribuenti. Guardate cosa succede negli altri Paesi: nel 2001, la Svizzera ha lasciato fallire la Swiss Air, un’autentica gloria nazionale, e la nuova compagnia – sorta sulle ceneri della prima per opera della Lufthansa – è tornata a conseguire lauti profitti. La British Steel, dal maggio scorso in bancarotta, ha attualmente in corso una trattativa per la sua acquisizione da parte di un gruppo cinese, senza però alcuna garanzia per la forza lavoro impiegata.

Ascoltando queste ed altre argomentazioni di tenore analogo, ci verrebbe da dar ragione o torto ora agli uni e ora agli altri.

Da un lato, infatti, è paradossale che l’Italia, seconda manifattura d’Europa – alla quale l’acciaio serve come l’aria che respiriamo – rischi di dover chiudere il maggior complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio a livello europeo. Ed è altrettanto paradossale che il “Paese più bello del mondo”, dove tutti vorrebbero venire almeno una volta nella vita, lasci fallire la sua compagnia di bandiera che, opportunamente coordinata nel sistema dei trasporti interni e internazionali, potrebbe senz’altro ricoprire un ruolo fondamentale nella valorizzazione del potenziale turistico del nostro Paese.

Dall’altro lato, anche quando riflettiamo sull’argomento più delicato, quello occupazionale, viene spontaneo domandarsi: ma scusate tanto, se fallisce una qualsiasi azienda di dimensioni medio-piccole, chi si fa carico dei suoi dipendenti? Prendiamo, ad esempio, un settore rilevante del nostro made in Italy come l’agroalimentare: negli ultimi 3 anni, sono 320.000 le aziende agricole che hanno chiuso i battenti. Ebbene, quante Ilva e Alitalia significavano in termini di persone che hanno perso il posto di lavoro? Qualcuno se n’è fatto carico? Qualcun altro per caso ha proposto di statalizzarle?

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Come si vede, non se ne esce se ragioniamo per slogan. E non se esce perché entrambi gli approcci – quello statalista e quello liberista – sono sbagliati, in quanto non affrontano il problema alla radice; problema che non è certamente quello di chi deve mettere i soldi, se lo Stato o i privati. Prova ne è che Ilva e Alitalia hanno perso una barca di soldi SEMPRE E COMUNQUE: come aziende pubbliche, semipubbliche, private, semiprivate e sono riuscite ad accumulare perdite record pure commissariate! Tutti noi ricordiamo che, dopo i pomposi proclami iniziali sul rilancio di Alitalia, Etihad – la compagnia araba che ne aveva acquisito il 49% – se n’è andata a gambe levate! Più o meno come sta facendo adesso ArcelorMittal, grazie al …grandioso assist del nostro Governo!

Il problema vero da affrontare è stabilire quali siano i motivi che non consentono a una data impresa di superare la crisi che l’ha colpita, quando e a quali condizioni tale crisi può essere superata e quando invece non resta altra strada che cessarne l’attività. Per far questo, non bisogna essere né statalisti né liberisti, ma – se proprio ci piace assegnare un’etichetta – occorrerebbe essere, una volta tanto, aziendalisti!

Ma cosa significa fare gli aziendalisti? Significa fare quello che finora non ha fatto la politica, quello che non ascoltiamo nei dibattiti televisivi o quello che non leggiamo su gran parte dei giornali. E cioè significa fare un’analisi di prodotti, di mercati, di tecnologia; significa capire se la crisi è riconducibile a un ristagno o a una flessione della domanda dei beni e servizi prodotti oppure ai costi troppo elevati di questa produzione; significa valutare in che termini e a che prezzo effettuare l’indilazionabile riconversione produttiva, ricercare nuovi mercati di sbocco, ecc.

Prendiamo il caso dell’ex Ilva. Quando abbiamo un Paese come la Cina che – facendo tra l’altro dumping di tutti i tipi, compreso quello ambientale – realizza la metà dell’intera produzione mondiale, 928 milioni di tonnellate contro gli 1,8 miliardi di produzione mondiale nel 2018, mentre noi riusciamo a coprirne solo una piccolissima quota (24 milioni), non sarebbe forse il caso di domandarsi se, per riuscire a sopravvivere in un settore in cui i costi fissi ti strangolano obbligandoti ad avere dimensioni minime sempre più cospicue, non occorra ultra-specializzarsi in prodotti di nicchia? E ciò tenuto anche conto che siamo in un contesto in cui la domanda mondiale d’acciaio è in calo (- 10% lo scorso anno), per via del rallentamento della crescita economica.

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Allo stesso modo su Alitalia: ci vogliamo chiedere come può continuare a stare sul mercato senza perdere altri quattrini? Deve comprare nuovi aerei? Nuovi slot? Fare accordi con altri vettori e tour operator internazionali per attrarre più passeggeri anche dalle tratte a lungo raggio? O, al contrario, deve ridimensionarsi concentrandosi solo sulle rotte domestiche o su quelle di feederaggio? Deve trasformarsi in una compagnia low-cost o diventare un carrier di lusso?

Ecco, queste sono le domande alle quali vorremmo sentire e trovare una risposta e rispetto alle quali ci piacerebbe ascoltare anche il parere del nostro mondo accademico, drammaticamente silente, a dispetto della nostra illustre tradizione di patria della ragioneria e, quindi, della moderna economia aziendale.

Il succo di quanto sopra esposto mi pare dunque evidente: bisogna evitare posizioni preconcette: sia quella di chi sostiene che ci si deve affidare unicamente agli “automatismi di mercato” (e quindi lasciar fallire anche una grande azienda, pubblica o privata che sia), sia quella di chi sostiene esattamente il contrario, e cioè che si rende sempre e comunque necessario un intervento dello stato, costi quel che costi.

Ed appare altrettanto evidente la differenza di valutazione tra la logica liberista e quella statalista: per la prima sarà conveniente risanare l’impresa in crisi quando l’investimento necessario allo scopo potrà essere adeguatamente remunerato; o almeno, come condizione minima, quando il risanamento consenta di recuperare più di quanto sarebbe possibile mediante la liquidazione o determini perdite minori rispetto all’ipotesi di liquidazione.

Per la logica statalista invece, e qui sta la differenza macroscopica che i liberisti purosangue non dovrebbero ignorare, il limite di convenienza che può giustificare la statalizzazione di un’azienda può andare ben oltre. In particolare, esso è rappresentato dall’entità degli oneri di cui lo Stato – che, come sappiamo, riscuote tributi derivanti dall’attività delle imprese, sostiene i costi per la protezione sociale, si trova a fronteggiare gli effetti che la chiusura di un’azienda provoca su tutto il suo “indotto”, ecc. – dovrebbe comunque farsi carico laddove l’azienda non venisse risanata. In altre parole, lo Stato potrà giudicare conveniente intervenire nel risanamento di un’impresa anche quando esso comporti un costo, purché non superi gli oneri che in ogni caso ricadrebbero nella sfera pubblica.

L’intervento diretto dei Pubblici Poteri nel salvataggio di un’impresa, però, deve essere l’estrema ratio, anche perché il più delle volte incapperebbe nei divieti imposti dalla normativa europea sui cosiddetti “aiuti di Stato”. Prima di inoltrarsi su questa strada, di fronte a un’impresa in crisi che i privati non hanno convenienza a risanare, lo Stato dovrebbe chiedersi:

a) se c’è qualcosa che non funziona nel quadro istituzionale di riferimento e che renda estremamente difficile a determinate imprese di ritrovare condizioni di economicità ed efficienza, fronteggiare la concorrenza internazionale, adattarsi al mutato andamento della congiuntura, ecc.;

b) quali azioni porre in essere per modificare il suddetto quadro istituzionale, ad esempio promuovendo un piano di riconversione produttiva che coinvolga tutte le imprese del settore interessato, concedendo incentivi fiscali che rimuovano i limiti che impedivano ad altre imprese private di intervenire, rilasciando apposite garanzie sui finanziamenti, ecc.

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Sapete come si chiama tutto questo? Si chiama “politica industriale”, quella cosa che lo Stato, in Italia, non fa più da decenni, a differenza di altri Paesi come Francia e Germania ad esempio e che, soprattutto per settori-base come quello dell’acciaio e dei trasporti (per ricondurci ai due casi dai quali abbiamo preso spunto), andrebbe sviluppata a livello non solo nazionale ma europeo.

Come si vede, l’argomento è complesso e non può essere compiutamente trattato in un articolo come questo, ma nemmeno affrontato con la retorica statalista e quella pro libero mercato che ci ammorbano ormai da troppi decenni!

Twitter @MarcoGallone_

Da - https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2019/11/16/ilva-alitalia-aziendalisti/?uuid=96_6yBNUsr2
2937  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / FireWall Cinese, tra curiosità e rischi non solo interni inserito:: Novembre 21, 2019, 11:26:37 am
18 novembre 2019

FireWall Cinese, tra curiosità e rischi non solo interni
“Se si aprono le finestre per far entrare dell’aria fresca, bisogna aspettarsi che entrino anche delle mosche “

Deng Xiaoping

L’espansione della Cina, secondo i dati della Word Bank, è la più veloce (in termini di crescita economica) di sempre tra le principali economie del globo. Alcuni tra autori e ricercatori hanno soprasseduto ad un’analisi approfondita, richiamando l’attenzione sul semplice fatto che la Cina non è una democrazia. In effetti, lo Stato è presente in ogni sfaccettatura della società, ed è proprio il controllo nazionale che permette di sviluppare e pianificare politiche di lungo termine. In particolare, l’emblema del controllo, ed al tempo stesso della propaganda, del Grande Fratello asiatico è il firewall digitale. Ovvero quella grande muraglia fatta di cavi e di byte che abbraccia un Paese grande quasi 32 volte l’Italia.

Tuttavia, quando gli occidentali analizzano la Cina, soprattutto i non addetti ai lavori, liquidano la questione cinese con una semplice affermazione: Ma la Cina non è una democrazia, ed i cinesi sono abituati alla censura.

A dire il vero le cose non stanno proprio così. Stiamo pure sempre parlando di un paese presente tra i primi 10 Stati più innovativi al mondo, innovazione che appunto presuppone una certa creatività condivisa. Come anche dimostra l’alta percentuale di aziende tecnologiche presente in Cina. Solo per citarne alcune delle più importanti al mondo: Tencent, Alibaba, Baidu e Xiamo.

Certo, è ufficiale che i media cinesi sono continuamente invitati dal Partito a seguire una visione marxista del giornalismo per guidare la propaganda in Cina. In particolar modo, attraverso il famoso racconto positivo sulla Cina, ovvero quella produzione di notizie alternative a quelle occidentali. Altrettanto risaputo è il divieto di discutere, anche per i media, delle tra T cioè Taiwan, Tibet, and Tiananmen. Uno stretto controllo dei mezzi d’informazione, anche della stampa, ha un ruolo centrale e cruciale per la diffusione della propaganda ed il mantenimento delle stabilità delle menti.

Ma i Social Network anche qui sono stati in qualche modo disruptive. Basti pensare che in Cina ci sono più di 700 milioni di users. E quindi potremmo domandarci com’è possibile che quasi un miliardo di persona soggiaccia alle imposizioni di pochi? Basta a spiegare cioè la pur vera affermazione che la Cina non è la più classica delle democrazie occidentali? Non basta affatto, anche perché sarebbe troppo facile, dato che i cinesi hanno superato da anni il problema dell’ideologia che ancora oggi attanagli invece la nostra realtà. Basto leggere l’articolo 1 delle Costituzione Popolare cinese che recita:

“La Repubblica popolare cinese (abbr. Rpc) è uno stato (guojia) socialista di dittatura democratica popolare, guidata dalla classe operaia e basata sull’alleanza operai-contadini. Il sistema (zhidu) socialista è il sistema fondamentale (jiben) della Rpc. È vietato a qualsiasi organizzazione o individuo di sabotare (pohuai) il sistema socialista”

Anche il problema della stabilità sembra essere oramai superato. Se già pareva evidente negli anni passati, il processo si è completato nel marzo del 2018. Ovvero, quando il Presidente Xi Jinping ha eliminato i limiti di mandato per il presidente e vicepresidente della Repubblica popolare cinese; per poi parlare di eventi e progetti con vista sul 2035. Per dovere di cronaca la durata media dei governi italiani negli anni è stata di 1 anno e 2 mesi circa, il che solitamente permette di avere un arco temporale di progettazione, attuazione e valutazione che difficilmente arrivi al prossimo venerdì.

Tornando al sistema del Firewall è singolare notarne il funzionamento, tutt’altro che di facile comprensione. Innanzitutto, la connessione qualche anno fa era stranamente lenta, cosa che era causa ed effetto del controllo a specchio del firewall cinese per monitorare il traffico nazionale. Altro non è che l’applicazione del Golden Shield Project chiamato anche National Information Security Work Informational Project.

Nel momento in cui si cerca di raggiungere un certo sito web o si digita un certo URL è possibile che il sito web sia accessibile; potrebbe apparire la classica dicitura “sito non trovato” quantunque esista ma non sia possibile visualizzarlo nel confine cinese; si riavvia la connessione dell’utente se l’URL era inserito nella lista dei siti vietati. Tuttavia, queste problematiche vengono agevolmente, si fa per dire, raggirate con l’uso di un VPN (ovvero un software che maschera il proprio IP per non apparire nei radar del vero luogo dal quale si navighi nel web). Ma la lista dei VPN intercettare dal regime si aggiorna di continuo, bloccandoli o rendendoli inefficaci, i cinesi devono a loro volta trovarne di nuove. Insomma, la classica storia del gatto e del toto.

L’aspetto più interessante del blocco cinese riguarda le singole parole, o comunque l’utilizzo cinese dei socia network in generale. Partiamo col dire che per i nostri social, che poi nostri non sono dato che sono tutti americani, ve ne sono altrettante cinesi che sostituiscono in maniera quasi totale quelle occidentali. Anziché Facebook e WhatsApp c’è WeChat, anzichè Twitter c’è Weibo ed al posto di Google c’è Baidu. Nota a parte merita WeChat poiché in una sola piattaforma il colosso di proprietà di Tencent Holdings Limited racchiude le funzioni di WhatsApp, Facebook, fin-tech, dating apps, game apps e Instagram.  Non esiste nessuna applicazione al mondo capace di convogliare così tanti dati in una sola piattaforma che, secondo i dati della stessa Tencent, ha un traffico giornaliero di 1 miliardo di utenti al giorno.

Il Grande Muro digitale che “difende” e controlla il traffico digitale è costituito da una struttura mista, tra controlli automatici ed altri posti in essere da persone in carne ed ossa. Sembrerebbe che questo esercito di “censori” sia principalmente concentrato a Tianjin, una vera e propria area dedicata alla censura. Questi soggetti hanno una portata minore rispetto all’algoritmo che controlla il grande occhio cinese, ma un’efficacia sicuramente migliore ed ancora più precisa. Ma, qualora qualcosa dovesse sfuggire anche a questo secondo livello di filtro entrerebbe in gioco il famigerato “esercito dei 50 centesimi”. Non si ha una posizione al riguardo del governo, ma numerose testimonianze parlano di centinaia di migliaia freelance che manipolano i post e commenti presenti sui social, a favore del governo. Cosi da indicizzare o de-indicizzare a seconda dei casi.

Ed è qui che la creatività cinese si scatena. Infatti, continuano ad esserci casi di critica al governo e presa in giro al regime al contrario di come molti pensano. Nella foto di seguito è possibile notare come la famosa foto “tank man” che richiama le proteste del 1989 di Tienanmen, sia stata trasformata in tre paperelle gialle (fonte: Twitter/Weibo) per superare i filtri della censura digitale. Inutile dire che dopo qualche tempo il termine “grande anatra gialla” sia stata bloccata dal sistema di monitoraggio.

Tuttavia, sembra esserci un fenomeno che al contrario non riesce a far sorridere ma anzi crea non poche preoccupazioni. Ed è la potenziale intromissione della censura cinese verso alcune realtà che cinesi non sono, superando quindi i propri confini. Lo ricorda bene Giada Messetti, nel suo bellissimo podcast in collaborazione con Simone Pieranni: Risciò. Stiamo parlando del caso Cambridge University press (CUP) e la sua review China Quarterly. Sembrerebbe che nel 21 agosto del 2017 la prestigiosa rivista accademica abbia rimosso, su richiesta dell’amministrazione cinese, 315 articoli legati in qualche modo alle tre T (vedi sopra), e che erano visualizzabili online sui siti cinesi. La CUP sembra aver affermato che, pur di rimanere nel mercato digitale cinese (che effettivamente ha un bacino di utenza di “appena” qualche milione di utenti), era pronta a rinunciare alla pubblicazione di qualche articolo.

Inutile dire che, complice una valanga di critiche da parte di accademici occidentali ma anche cinesi, la CUP ha effettuato un dietro front in nome della libertà accademica. Ma al netto delle decisioni della CUP, la questione è molto delicata. Poiché la Cina, pur non essendo ancora il primo mercato al mondo per consumi, rappresenta una meta ambita dalle imprese di qualsiasi prodotti o servizi. La domanda vera è quindi: Fino a che punto è lecito accettare le costrizioni del governo cinese, in nome del business?

Da - https://www.glistatigenerali.com/governo_partiti-politici/il-firewall-cinese-tra-mito-e-realta/
2938  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Paolo FLORES D´ARCAIS. Le Sardine di Piazza Maggiore e la sinistra sommersa inserito:: Novembre 21, 2019, 11:24:12 am
Le sardine di Piazza Maggiore e la sinistra sommersa
   
Di Paolo Flores d’Arcais

Quanto sarà effimero il movimento delle “sardine”? O fino a che punto si moltiplicherà per contagio e si radicherà per organizzazione? Lo vedremo presto con i prossimi flashmob di Modena e Firenze. Intanto l’exploit di Bologna ha dimostrato una verità politica, o meglio l’ha ribadita in forma perentoria: per dar vita a una mobilitazione democratica (di “sinistra”, insomma) bisogna prescindere dai partiti. Quattro amici e un appello progressista sul web possono creare un’iniziativa, se avessero voluto coinvolgere un partito (il Pd, ormai) immaginando di avere il valore aggiunto di una forza organizzata, si sarebbero assicurati un flop. Il Pd, per una mobilitazione democratica, non costituisce un valore aggiunto ma la macina al collo, un handicap che garantisce il fallimento.

Per un motivo assai semplice: il Pd, come insieme dei suoi dirigenti, anche locali, come apparato nel senso più ampio e articolato del termine (decine di miglia di persone) è totalmente screditato sotto un profilo democratico progressista, è vissuto (lucidamente o inconsciamente, ma comunque giustamente, esattamente) come parte integrante dell’establishment, come un “loro” estraneo alla cittadinanza attiva, un pezzo della Casta, insomma. Gettando un alone negativo e un’ombra di vituperio anche sugli eventuali quadri di base che magari vivono coerentemente l’impegno democratico progressista d’antan.

Il movimento delle “sardine” (d’ora in avanti senza virgolette), se anche Modena e Firenze saranno un successo (è una concreta speranza), costituiranno l’ultimo episodio di una lunga serie di protagonismo auto-organizzato della società civile progressista, quella che prende più che mai sul serio i valori della Costituzione repubblicana. Un fenomeno oramai quasi ventennale, dove ciascun episodio ha le sue assolute specificità, ma che evidenzia un filo rosso da analizzare. Anno Domini 2002, i Girotondi. A seguire “Il popolo viola” (due volte, se non ricordo male), poi le donne di “Se non ora quando”, poi le mobilitazioni anti legge bavaglio (e a inframmezzare, qualche ondata di lotte studentesche), solo per ricordare le tappe più rilevanti di grandi piazze gremite.

Nell’età dell’amnesia che è la nostra, queste vicende, che pure hanno avuto carattere di massa perfino grandioso (la manifestazione dei Girotondi a Roma, san Giovanni, il 14 settembre 2002 dilagò in un intero quartiere coinvolgendo quasi un milione di persone) vengono dimenticate già l’indomani. Oltre all’azzeramento dello spessore storico che il mondo dei social ha ormai nebulizzato nelle due generazioni più giovani, ha però giocato un altro elemento: nessuna di queste mobilitazioni ha lasciato traccia, è diventata movimento, ha sedimentato in presenza politica. Una fiammata, anche ciclopica, sempre entusiasmante, che un deposito lo lascia certamente negli animi dei partecipanti, ma politicamente parlando poi più nulla.

Tutte queste mobilitazioni della società civile, in sostanza, erano affette da un limite, che politicamente ha pesato come menomazione insormontabile e dissipativa. Hanno sempre oscillato tra l’idea di costituire un pungolo di rinnovamento (anche radicale, ma possibile) dei partiti della sinistra esistenti (in primis i Ds>Pd) o di doverne rappresentare un’alternativa, data l’irrecuperabilità degli apparati.

La prima ipotesi è stata sistematicamente vanificata dai Ds>Pd stessi, il cui apparato non hai mai tollerato innesti dalla società civile che intaccassero anche marginalmente il sistema interno di potere. La seconda ipotesi non ha potuto vedere la luce neppure in forma embrionalissima per la catafratta Nolontà di questi di partecipare in modo costruttivo e progettuale alla vita politica, che in una democrazia parlamentare significa dar vita a liste elettorali.

Il M5S è nato, e ha dominato per dieci anni la vita politica della protesta popolare, esattamente per quel vuoto, perché ha evitato di cadere nell’illusione di un rinnovamento/palingenesi del Pd, e perché molto rapidamente ha accompagnato le sue mobilitazioni di protesta con la presentazione di liste locali e infine nazionali nelle competizioni elettorali. Per questo, del resto, ha drenato in più occasioni milioni e milioni di voti del Pd (altri milioni sono finiti nell’astensione). Altri errori, però – anzi vera e propria tabe originaria bicorne – hanno segnato la fine del M5S, come ho ricordato nel mio precedente articolo: il rifiuto di riconoscere l’antagonismo (valoriale e di interessi sociali, non di schieramenti tutti ormai partitocratici) tra destra e sinistra, e la demenziale e avvilente selezione dei candidati attraverso provini da “reality” e voti-like da amici di facebook.

Due foto di piazza Maggiore a Bologna evidenziano plasticamente, carnalmente, il declino irreversibile del M5S: Beppe Grillo dentro un canotto sopra una folla debordante (2010), 15 mila cittadini in gioioso ritrovarsi progressista col tam tam digitale di quattro amici, e un M5S che in piazza non porterebbe nessuno e medita addirittura di disertare le urne.

L’inaspettato e galvanizzante esito di massa del flashmob delle sardine palesa perciò che esiste la SINISTRA SOMMERSA, una sinistra nella e della società civile, totalmente autonoma dal Pd. Magmatica, ma profondamente radicata nelle coscienze, nella capacità di indignazione, nella volontà e aspirazione ad un impegno concreto per “giustizia-e-libertà”, sempre più “giustizia-e-libertà”, per l’attuazione integrale della Costituzione, insomma.

Che spesso esercita questi valori quotidianamente, nel volontariato, nella serietà professionale, nel rigore della ricerca.

Magmatica, ma soprattutto carsica: sembra scomparire, ma sta semplicemente scorrendo sotto terra, custodita in milioni di coscienze, pronta a riemergere non appena si presenti l’occasione, quando in modo per lo più imprevisto un evento o un gruppo di amici fanno da catalizzatore a questa massa di energie egualitarie e libertarie diffuse, anche se troppo spesso frustrate. E quando una nuova generazione prende il testimone si ritrova accanto quelle scese in piazza dieci, venti, trent’anni prima.

Speriamo che le sardine dilaghino a macchia d’olio. Se accadrà, è sperabile che non commettano il duplice errore con cui, dai Girotondi in poi, le mobilitazioni della società civile si sono sempre esaurite: immaginare di trasformare i partiti della sinistra, rinunciare al momento della verità dell’alea elettorale. Che è un salto mortale, ovviamente, senza il quale, tuttavia, di una grande ondata di mobilitazione democratica, che a Bologna speriamo abbia avuto solo il suo esordio, non resterebbe nulla, una volta di più.

Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa non ameranno ricevere consigli, come quasi sempre accade a chi realizza una iniziativa politica inedita. In parte a ragione, perché la tentazione di “recuperare” una mobilitazione, “metterci il cappello”, e insomma farla lavorare per un proprio progetto, non solletica solo i partiti ma può albergare anche negli intellettuali.

E tuttavia qualche consiglio lo darò, perché in realtà è un auspicio, una speranza, o forse un wishful thinking, quello di vedere finalmente una mobilitazione progressista che non sia solo entusiasmo coinvolgente ma effimero, che metta invece radici e possa invertire la tendenza (non solo italiana) secondo cui ormai le masse vanno a destra (destra, cioè establishment, di cui molta “sinistra” è parte integrante).

Avete registrato il marchio, siete quindi consapevoli che può avere un valore, che in politica significa avere un futuro. Lo avete già concesso a chi sta promuovendo analoghe mobilitazioni a Modena e Firenze, e avete dichiarato che “siete subissati di richieste”. Arricchitelo con un progetto programmatico, almeno con il suo scheletro, perché non resti un movimento solo “contro” (identificare i nemici è importante, sia chiaro), ma anche “per”.

I materiali di analisi per un programma di sinistra non mancano, anzi abbondano. I più recenti sono quelli elaborati dal seminario contro le diseguaglianze coordinato da Fabrizio Barca. MicroMega vi ha dedicato due interi corposissimi volumi, nel 2011 e nel 2018, più una quantità di saggi sparsi lungo oltre trent’anni di vita (mediamente quella delle quattro Sardine, lo dico con ammirazione, il contrario del paternalismo).

L’abbondanza di analisi ha bisogno di tradursi in un programma politico. Per approssimazioni successive, ovviamente. Cominciate a realizzare questa traduzione. Parallelamente alla mobilitazione, coinvolgete quanti nelle varie città si dimostreranno, con l’azione, sulla vostra stessa lunghezza d’onda, anche nella comune elaborazione di un programma. Per punti essenziali, ma non generici (quali misure per combattere la diseguaglianza? Quali capisaldi per una riforma della giustizia? E per la guerra alla grande evasione? Ecc.). Naturalmente senza trasformarvi in professionisti della politica, che non solo vi muterebbe umanamente, esistenzialmente, ma vi impoverirebbe anche politicamente.

A enunciarla sembra la quadratura del cerchio, e invece fa parte dell’orizzonte del possibile. Auguri, allora, perché il vostro successo e il vostro futuro ci riguarda tutti.

(18 novembre 2019)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-sardine-di-piazza-maggiore-e-la-sinistra-sommersa/
2939  Forum Pubblico / ECONOMIA e POLITICA, ma con PROGETTI da Realizzare. / Ce l’avevo qui, l’elettorato - 30 Ottobre 2019 inserito:: Novembre 21, 2019, 11:22:47 am
Ce l’avevo qui, l’elettorato
30 Ottobre 2019

Qualcuno mi ha fatto notare su Twitter che questo post di qualche mese fa è tornato attuale dopo i risultati delle elezioni in una piccola regione del centro Italia: a dimostrazione che si ripete sempre tutto sterilmente, sia le considerazioni superficiali sui risultati elettorali, che i lunghi post contro le considerazioni superficiali sui risultati elettorali, e siamo qui criceti nella ruota. Ma lo reincollo perchè a occuparci completamente d’altro alcuni di noi ancora non riescono, pur facendo progressi.

Ci sono due cose che si dicono spesso, intorno al generico e grossolano concetto di “elettorato”, che una volta ogni tanto è il caso di mettere in discussione: in realtà, quasi tutte le formulazioni che pretendano di attribuire tratti comuni a milioni di persone, vite, teste, sono un imbroglio, così come gli usi demagogici e superficiali del termine “popolo”, eccetera. Ma ne cito qui solo due, appunto.

Una è quella che va sostenendo che ci sia un esteso “elettorato di sinistra” che storicamente ha votato per il PCI e per le sue evoluzioni successive, fino al PD di Renzi: e che ora non lo vota più e si è “spostato” – l’elettorato di sinistra – su altri partiti, soprattutto il M5S e pure la Lega. Ora, sarebbe facile ribattere che un elettore “di sinistra” smette di essere di sinistra se vota un partito che ha poco di progressista e molto di destra, come i suddetti: e quindi quello non è “un elettorato di sinistra”. Ma non voglio spostare la discussione sul tema di cosa sia il M5S (sulla Lega mi pare che possiamo convenire).

Il punto è che non esiste, non in quelle dimensioni nelle quali vi si allude, “l’elettorato di sinistra”. Le persone che hanno pensieri progressisti, riformisti, non razzisti, democratici, non egoisti e che privilegiano un senso civico di appartenenza a una comunità in quanto tale e come mezzo di miglioramento della vita di tutti, sono e sono sempre state una quota esigua degli elettori dei partiti “di sinistra”. I milioni e milioni di persone che li hanno votati sono sempre state in gran parte persone che avevano un desiderio di cambiamento e di miglioramento delle proprie condizioni, per le quali persone i partiti di sinistra sono stati convincenti nel rappresentare questo desiderio. Non esiste paese al mondo in cui le maggioranze dei cittadini sentano dentro di sé i principi della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo o i valori delle costituzioni democratiche. Li impariamo a scuola o da qualche buon esempio e maestro, nel migliore dei casi ne registriamo alcuni, ma poi vogliamo ottenere il meglio per noi stessi, e quella resta la nostra priorità: almeno per le maggioranze di noi. A seconda di quanto facciano invece prevalere differenti principi progressisti e il bene di tutti sul nostro, alcuni possono – se proprio vogliono – definirsi o meno “di sinistra”.
Ma che votiamo partiti di sinistra non ci rende di sinistra, non è mai stato così. I partiti di sinistra hanno avuto la fortuna e l’intuizione – per decenni – di fare proprio il voto di tante persone non di sinistra: nei momenti migliori sapendolo usare per farle diventare un po’ più di sinistra.

Poi i tempi sono cambiati, le intuizioni sono calate, le fortune svanite, e quelle persone là sono andate a votare altri. A dirla completa, sono andate a votare partiti che hanno avuto un’intuizione nuova e più avanzata: somigliare a quelle persone, invece che rappresentarne i desideri. Rappresentare noi stessi come siamo invece che quello che potremmo essere: i nostri egoismi, i nostri razzismi, le nostre frustrazioni, le nostre mediocrità, i nostri bisogni di nemici, di capri espiatori, di sentirci vittime e incolpevoli dei nostri destini. Nei momenti peggiori aumentandole, tutte queste cose.

Perché sto dicendo tutto questo?, cosa ne facciamo? Perché sono sterili i discorsi sul “recuperare l’elettorato di sinistra” passato ad altri partiti, visto che non c’è l’elettorato di sinistra (quello di sinistra davvero è rimasto, o in parte non vota): la riflessione che andrebbe fatta è su come recuperare un elettorato che non è mai stato di sinistra e che si è dimostrato disponibile a muoversi, in tempi completamente cambiati – ma che molti pigri e stagionati osservatori trattano come il Novecento – senza smettere di essere un partito di sinistra.

E qui, benché l’abbia fatta già lunga, aggiungo una seconda ingannevole lettura sull’”elettorato”. C’è, tra chi fa politica e chi ne scrive, quest’idea rigida e monocorde dei rispettivi elettorati: salvo scoprire poi che se Trump diventa presidente non lo possono avere votato soltanto dei cowboy texani con gli stivaloni e il fucile. Tutte le analisi macchiettizzano enormi quote di una popolazione che non è mai stata tanto diversificata come oggi: le “periferie”, la “classe media”, i “giovani”, gli “anziani”, le “donne”, sono solo alcune delle macrocategorie a cui di volta in volta si decide che “bisogna rivolgersi a”. Ma queste macrocategorie sono molte cose diversissime al loro interno, oltre ad essere a loro volta minoranze, sempre. Un pensiero che sposta tutte le attenzioni su una soltanto a ogni fallimento dell’attenzione precedente (“bisogna tornare a parlare a quelli che prendono l’autobus” ho sentito dire a un aspirante segretario del PD di recente) è un pensiero cieco e superficiale, che ogni volta perde il pezzo precedente, conosce un solo registro, e poi li perde tutti. Prendete Renzi e la sua palese incapacità di conservare il consenso di una gran parte di elettori che si sentono esclusi dalla trasformazione del mondo contemporaneo e che non condividono le meravigliose sorti progressive del presente promosse da Renzi stesso: quella miopia è stata sconfitta, come si sa. Ma il risultato è che oggi viene sostituita da miopie nuove e da progetti di maggiori attenzioni “alle paure della gente” che stanno perdendo completamente di vista una cospicua parte di italiani che quel pensiero di contemporaneità, di trasformazione progressista e di prospettive promettenti lo condivideva (ricordo che il PD è stato ancora il secondo partito alle elezioni) e lo condividerebbe tuttora, ma lo vede sparito da qualunque idea di Italia circolante. Molti di quelli, si vede già, guardano con indifferenza ed estraneità alle primarie del PD. Persi anche loro (buona parte di loro, certo).
“Bisogna recuperare i giovani”, e però “bisogna pensare agli anziani”: ed è vero, sono vere entrambe. Il consenso si recupera recuperando “i consensi”, e lavorando su più fronti e con più progetti e visioni di un’Italia molto varia: molto varia. Non sarà “una soluzione” che salverà i partiti di sinistra in Italia – qualsiasi siano -, non sarà un deus ex machina: a meno che quel deus ex machina non abbia uno sguardo assai più mobile e duttile di quelli di noialtri persi a chiedere indicazioni nelle periferie.

 Luca Sofri  Wittgenstein  destra e sinistra, elezioni umbria, PD, sinistra
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Da - https://www.wittgenstein.it/2019/10/30/elettorato-di-sinistra/
2940  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Salvini mette all'angolo Di Maio: non puoi stare con il dittatore rosso inserito:: Novembre 21, 2019, 11:19:39 am
Salvini mette all'angolo Di Maio: non puoi stare con il dittatore rosso

Scontro nel vertice a Palazzo Chigi.
Per il leghista troppo morbida anche la posizione Ue
Pubblicato il 28/01/2019

AMEDEO LA MATTINA
ROMA
«Problemi loro, non del governo». Matteo Salvini sta prendendo le misure di Alessandro Di Battista, il front man dei 5 Stelle tornato dalle Americhe come Garibaldi per aiutare Luigi Di Maio, «amico fraterno», nella remuntada alle europee di maggio. Ma il leader leghista ha avvertito il vicepremier grillino, che fintantoché i problemi sono tutti interni al M5S, legati a dinamiche per ruoli e sensibilità diverse come quelle che esprime anche il presidente della Camera Roberto Fico, allora si va avanti. Attenzione a non farli diventare questioni di governo perché se si spezzasse il filo tra i due vicepremier ci sarebbe il cortocircuito e la fine dell’esperienza giallo verde. La stessa vicenda del Venezuela non può essere affrontata con le parole “terzomondiste” del Guevara grillino. Già la posizione presa dall’Unione europea a Salvini sembra troppo morbida e quella del premier Giuseppe Conte titubante, «poco coraggiosa».

Quattro giorni fa, quando i fatti di Caracas cominciavano ad impegnare l’agenda internazionale, c’è stato un vertice a Palazzo Chigi al quale hanno partecipato Conte e i suoi due vice. È stato Salvini a chiedere di prendere subito una posizione chiara e diretta contro Maduro, il «dittatore rosso», schierandosi con Washington. «Luigi, con chi stai?», ha chiesto a Di Maio, ben sapendo che dentro i 5 Stelle non mancano, anche su questo terreno, i problemi. «Ma a me delle loro fibrillazioni non interessa nulla: a me interessa continuare ad avere un buon rapporto con Di Maio», ripete sempre il capo del Carroccio ai colonnelli del suo partito. In quel vertice si è parlato di tante altre cose, della Tav ad esempio, ed è stata l’occasione in cui il leghista ha anticipato che avrebbe fatto dichiarazioni a favore della realizzazione della Lione-Torino, fregandosene delle analisi costi-benefici del ministro Toninelli. Per inciso: in quelle analisi tra i costi si parla di 8 miliardi di Iva, cosa che i leghisti definiscono fuori dal mondo. Ma tornando al Venezuela, e alla domanda «Luigi, con chi stai?», il sottinteso era: stai con Di Battista e il «dittatore rosso» di Caracas.

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La risposta del ministro del Lavoro è stata un né, né. Insomma non sapeva che pesci prendere. Per certi versi, ha detto Di Maio, Alessandro non ha torto quando dice che in Venezuela c’è il rischio di una guerra civile perché una parte dei venezuelani tifa per Maduro. E che quindi bisogna essere cauti nel lanciare ultimatum e dare l’impressione di stare dalla parte di Guaidó. Ma alla fine il governo si è trovato di fronte all’ultimatum di Bruxelles, sulla scia di Francia, Germania e Spagna, ed è rimasto un passetto indietro, un po’ defilato. Una soluzione che a Salvini non è piaciuta. L’importante è che non passi la logica di Di Battista. E ancora più importante per lui è che si sappia qual è la sua posizione. Questa volta non dalla parte della Russia di Putin, ma schierato con l’America di Donald Trump che spera di incontrare a fine mese a Washington.

L’occasione sarà il Cpac, il Conservative Political Action Conference, la conferenza annuale dei conservatori americani alla quale parteciperà il capo della Casa Bianca. Salvini ha già ricevuto l’invito attraverso Rudolph Giuliani, stretto collaboratore del presidente americano, dopo un incontro con il sottosegretario italiano agli Esteri Guglielmo Picchi. Al forum dei conservatori, che si svolgerà tra il 27 febbraio e il 2 marzo, è previsto l’intervento del leader della Lega: nei piani del Carroccio sarà già la consacrazione di Salvini in quel mondo, in ambienti politici statunitensi che contano davvero. Ma una stretta di mano e una photo opportunity con Trump sarebbe una chance mediatica eccezionale. I collaboratori del vicepremier ci stanno lavorando con gli amici americani. Intanto sul Venezuela e non solo non ci sono dubbi da che parte stare mentre i 5 Stelle sono sempre in bilico tra logiche di lotta e di governo.

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