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Titolo: Mario Tronti, l’irriducibile tra Togliatti e Ratzinger
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 28, 2019, 06:04:44 pm
Mario Tronti, l’irriducibile tra Togliatti e Ratzinger

   Di Pierfranco Pellizzetti

«L’unità, la centralizzazione, l’autonomia del potere è il filo d’oro della transizione, la vera continuità della politica tra i salti e i sussulti del sociale» [1]
Mario Tronti 1979
«Quando non mi vede nessuno confesso di lasciare libere le lacrime di scorrere dagli occhi. Non è melanconia di sinistra, è furore d’uomo per la rabbia che si sia prodotto questo vuoto assassino di passione» [2].
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Mario Tronti, il Popolo Perduto, Nutrimenti, Roma 2019
La ragione dalla parte del torto
Alla tenera età di 87 anni Mario Tronti seguita a scrutare l’orizzonte mantenendo invariato il proprio punto di osservazione. E le chiavi di lettura del paesaggio politico. Con ossimorica civetteria, da «rivoluzionario conservatore» [3].

Il punto di vista di un irriducibile, tipo il soldato giapponese che continua a combattere una guerra personale da disperso nella giungla, che ora si racconta nel libro intervista di Nutrimenti; stimolato dalle domande di un discussant sintonico come Andrea Bianchi, già giornalista de il Manifesto e ora direttore dell’Ufficio studi e ricerche del Gruppo Pd del Senato. Ed è sempre il Tronti che conosciamo da decenni: imprigionato nel suo virtuosismo affabulatorio rococò-oracolare, ignora poste in gioco e rapporti di forza per recitare la poesia della longue durée e delle sue irresistibili derive. La transizione come destino incombente, deterministicamente inevitabile secondo una proiezione lineare delle vicende umane assurta a incrollabile certezza. Tanto da ripetere l’assunto fideistico di un altro spirito credente, Gian Carlo Pajetta: “noi abbiamo ragione, è la situazione che ha torto…”.

Una fede incrollabile nelle proprie premesse marx-hegeliane alla stregua del manzoniano Don Ferrante, l’imprigionato nella propria erudizione che nega l’esistenza della peste in quanto impensabile secondo categorie aristoteliche. Da cui una serie inevitabile di abbagli clamorosi. Nel caso di don Ferrante, il contagio mortale, in quello di Tronti la teorizzazione apodittica che manda fuori strada l’autore… e chi gli dà retta.

Un bel guaio per un intellettuale assertore convinto del realismo, per poi immergersi nella mistica di un movimento operaio immaginario; una sorta di Parsifal alla ricerca del senso oggettivo della Storia (come se la Storia ne avesse uno); il disegno retrostante, la cosiddetta “astuzia della ragione”. Una visione salvifica che impronta l’irruzione sulla scena intellettuale italiana anni Sessanta italiana di una scuola di pensiero denominata “operaismo”; e di cui Tronti scrisse il libro manifesto (Operai e capitale raccoglie i suoi scritti tra il 1962 e il 1964): «di fronte alla fiacca vecchiaia del pensiero borghese, il punto di vista operaio può vivere forse solo adesso la stagione feconda di una sua forte giovinezza» [4]. E mentre così si vaneggiava dell’alba di una nuova epoca ribelle e sovversiva, il “fiacco” pensiero borghese preparava, nei suoi arsenali colmi di armi strategiche, la svolta post-industriale che avrebbe smascherato le insorgenze antagonistiche del lavoro come gli ultimi fuochi di una resistenza a tempo; nell’azzeramento della sua soggettività quale deutero-agonista del comando capitalistico e nel passaggio dallo sfruttamento all’emarginazione, grazie al nuovo modo di produrre precarizzante.

Sicché, mentre Tronti e compagni metafisici vaneggiavano hegelianamente di una teodicea in cui il processo storico viene inteso come la progressiva realizzazione del regno dell’Idea (per cui – secondo Karl Löwith - «lo Spirito Santo continua a vivere nella comunità dei filosofi, che ora amministrano la verità in luogo della classe sacerdotale»[5]), meno pretenziosi sociologi cominciavano a rendersi conto che una delle conseguenze più sconvolgenti nella nuova fase storica in cui ci si stava addentrando era l’assoluta insignificanza dei non abbienti: «la creazione della ricchezza sta per emanciparsi finalmente dalle sue eterne connessioni – vincolanti e irritanti – con la produzione, l’elaborazione dei materiali, la creazione di posti di lavoro, la direzione di altre persone. I vecchi ricchi avevano bisogno dei poveri per diventare e restare ricchi; e tale dipendenza mitigava sempre i conflitti di interesse e faceva fare qualche sforzo, per quanto tenue, per prendersi cura degli altri. I nuovi ricchi non hanno più bisogno dei poveri» [6].

Insomma, bagatelle (“insipide come il brodino delle suore”, diceva di Ralf Dahrendorf il Lucio Colletti d’antan) per chi andava all’inseguimento dell’operaio vagheggiato. Per poi dirottarsi, una volta rientrato nell’ortodossia del Pci dopo la sbandata movimentista, verso un’altra chimera: l’autonomia del politico. Mentre sempre in quegli anni, nel passaggio dalla consociazione Moro-Berlinguer alla collusione del CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), l’autonomia diventava sempre di più quella di un ceto partitico che si consacrava definitivamente all’autoreferenzialità, e la politica diventava l’ascensore per carriere individuali. Puro opportunismo.

Davanti a un tale fenomeno involutivo (con relativi strascichi corruttivi), ancora una volta Tronti volge lo sguardo altrove; per una semplice ragione: il propugnatore dell’autonomia del politico è mentalmente impossibilitato financo a concepire “l’autonomia del sociale”.

La gramigna giustizialista
Nei bolscevichi nostrani, magari della Garbatella, la sindrome del “che fare” produce una rimasticatura del leninismo come culto dell’organizzazione e apologia della spregiudicatezza amorale. Dato che il destino non ha fatto loro incontrare “Palazzi d’inverno” da prendere all’assalto, la frustrazione si indirizza contro l’idea stessa di etica dei valori e quel filone di pensiero da borghesucci che pretenderebbe di mettere sotto controllo il Leviatano attraverso critica e contrappesi. Che ripete con Albert Camus, “il fine giustifica i mezzi? E cosa giustificherà i fini?”.

La loro bestia nera si chiama «egemonia azionista sulla cultura politica azionista», che ha depistato l’azione della sinistra politica «senza accorgersi che la gramigna giustizialista invadeva e infestava le terre[7]»; per arrivare a promuovere quell’operazione puramente distruttiva, quello sparare nel mucchio, detta Mani Pulite: «il livello di corruzione [dice lui, ndr.] del ceto politico italiano non è maggiore di quelli degli altri paesi di Europa e di Occidente. Ma quei paesi, con una forma di Stato forte, tengono a bada le incursioni che uno dei poteri può tentare su un altro potere. Qui si è lasciato libero campo a una destabilizzante supplenza politica della magistratura» [8].

L’incubo della collusione tra potere giudiziario e mediatico che inietta – a dire di Tronti – “il veleno dell’anti-politica”. In realtà, la minaccia spontaneista; urticante per psiche giacobine in sedicesimo, convinte che compito della politica sia quello di esercitare un costante controllo sul Demos. E che nessuno si azzardi a disturbare il manovratore! Sempre all’insegna di quell’arzigogolata autonomia del politico che l’ex compagnon de route operaista Toni Negri aveva stigmatizzato già sul nascere: «l’autonomia del politico ci si offre semplicemente come livello della manipolazione autoritaria delle masse» [9].

Questa idea colonizzativa del ruolo del partito che è diretta conseguenza di \una recezione acritica della lezione machiavellica sulla politica come pura tecnologia del potere. Senza il benché minimo sospetto dell’esistenza di una concezione “altra”, quella di Erasmo da Rotterdam: la politica come discorso pubblico deliberativo sui grandi temi che la comunità democratica si trova ad affrontare.

Dimenticanza un po’ strana per un cultore della Modernità, sempre che sia in grado di rendersi conto che non esiste solo la filiera Machiavelli-Spinoza-Hegel-Marx, che la dispregiata “Anti-politica” è istanza di “Altra-politica” nella catastrofe della democrazia virata in post-democrazia e in procinto di ridursi a Democratura; anche per le insipienze analitiche dei metafisici cultori del partito novecentesco. I Tronti che hanno ceffato ogni valutazione delle rotture in corso, nel bene come nel male. Dalla mancata percezione delle strategie restaurative del Capitale in età di globalizzazione alla sottovalutazione delle istanze di altri gruppi sociali che il Populismo di sinistra più attrezzato considera componenti irrinunciabili (ovviamente a fianco del lavoro) per la costituzione del “blocco sociale” che rifondi democrazia: dalle sensibilità ambientali, liquidate con sufficienza, al femminismo della differenza scaricato con una motivazione a dir poco oscura: «è un tipo di pensiero forte che non ha trovato il massimo di pratica applicazione forse perché si è trovato ad agire dentro una oggettiva egemonia di pensiero debole»[10].

Tra Togliatti e Ratzinger
Detta in soldoni, dietro la difesa (caricaturale) del partito otto-novecentesco di massa, vige il retro-pensiero del pastore di greggi. Il nucleo illuminato di politici di professione, forti di un’assoluta padronanza delle logiche della trasformazione e relative tecniche, che guida il popolo verso un domani radioso. Illuminato dal sol dell’avvenire grazie all’immarcescibile modello gerarchico patriarcale.

Da qui il deferente ricordo di un personaggio imbarazzante come Palmiro Togliatti; il cinico uomo del Comintern staliniano che allevò alla doppiezza la generazione di comunisti che dovevano costituire il Partito Nuovo. Quello della lunga immobilità nella “bonaccia del Mar delle Antille” (Italo Calvino dixit) del duopolio sottobanco con la DC; oggi la genuflessioncella al “soglio di Pietro”: «io mi sento teologicamente un ratzingeriano» [11]. Il già segretario vaticano che presidiava l’istituzione Chiesa istruendo i pedofili su come depistare le inchieste sui loro comportamenti criminali.

Santa Romana Chiesa come richiamo irresistibile per questi spiriti credenti, bisognosi di nuove certezze rassicuranti e porti tranquilli.

Nell’ottobre 2011, mentre i porporati erano riuniti a Todi, un gruppo di attempati reduci dal sol dell’avvenire – Giuseppe Vacca, Mario Tronti, Pietro Barcellona e Paolo Sorbi – indirizzava loro un documento in deferente dialogo con il magistero di Benedetto XVI: «la presenza in Italia della massima autorità spirituale cattolica può favorire il superamento del bipolarismo etico che in passaggi cruciali della vita del Paese ha condizionato negativamente la politica democratica» [12]. Trattasi del comune nemico laico-azionista; questa volta rinominato come “relativismo etico” o “cultura radicale”. Secolarizzazione.

L’anno successivo il Tronti ribadiva in solitaria la “leccata curiale”: «la Chiesa cattolica è maestra di sapienza politica. Chi non va a quella scuola rischia a più riprese un analfabetismo politico di ritorno[13]».

Un bel passaggio dall’icona dell’operaio zdanoviano alla confraternita di diafani/obesi in gonne purpuree. Da bolscevichi ipotetici a conversi papisti. Ma non poi così stupefacente per chi – come confessa di se stesso Mario Tronti – può vantare un padre comunista, col quadro di Stalin in casa, e una madre, devotissima, con sopra il letto l’icona del Sacro Cuore di Gesù[14]. Sempre di devozioni fanatiche e obnubilanti si tratta. Di gente che ha bisogno di bersele. Così da scrivere – ancora recentemente - fanfaluche fantasiose del tipo «l’utopia comunista, con Marx, è l’uomo del Rinascimento – quella figura leonardesca incisa in un cerchio sotto il possesso dei suoi arti e della sua mente – che rompe con il privilegio borghese della ragione e della cultura e diventa possibilità per tutti i componenti dell’umanità[15]». Boh?

E magari qualche altro in altri tempi gli aveva pure dato retta. Magari lo stesso che ora confida nella rinascita dell’Italia grazie al duo Matteo Salvini e Luigi Di Maio.

(25 febbraio 2019)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/mario-tronti-l%E2%80%99irriducibile-tra-togliatti-e-ratzinger/