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 inserito:: Maggio 23, 2024, 07:53:59 pm 
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Sia perché la verità oggettiva non ci è data, ma va ricercata tramite un processo che necessita di cooperazione, discussione e revisione, sia perché anche in caso di disaccordo pensiamo sia necessario sapersi confrontare con pensieri che si discostano da quelle personali. Riteniamo inoltre essenziale a questo fine l’essere in grado di sostenere in modo civile e pacifico un confronto con opinioni che si discostino da quelle personali.
Pensiamo di dover fare la nostra parte, mettendo a disposizione un luogo virtuale in cui interagire costruttivamente grazie a punti di vista variegati ma pur sempre strutturati e fondati su fatti e logica. Ci discostiamo dall’atteggiamento molto diffuso di prediligere la partigianeria aprioristica alla comprensione della realtà. Rifiutiamo gli slogan partitici e abbracciamo riflessioni ragionate, complete e ricche di sfumature. Lo scopo è quello di svolgere un servizio utile, che consenta di migliorare gradualmente la nostra conoscenza e la nostra capacità di rapportarci col mondo in cui viviamo.
La metafora piratesca ci accompagna sin dalla nostra nascita, nell’ormai lontano 2014. La Redazione di Immoderati si identifica nel Galeone Pirata che, motivato dall’amore per la scoperta, il pensiero e l’avventura, affronta i mari in tempesta del dibattito caratterizzato dal populismo, dall’approssimazione e dall’arroganza.
Siamo liberi, poiché Immoderati è da sempre un’organizzazione indipendente, slegata da partiti e ideologie di bandiera e unicamente finanziata da contributi volontari privati.
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Da - https://www.immoderati.it/manifesto-immoderati/

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 inserito:: Maggio 23, 2024, 07:51:13 pm 
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18 maggio 2024   Versione web
 
Benvenuti alla newsletter che è il nostro appuntamento settimanale, ogni sabato mattina. Vi prometto una lettura molto personale di alcuni eventi globali che selezionerò come "la chiave" per dare un senso alla settimana. Con una particolare attenzione alle mie due sedi di lavoro, l'attuale e la precedente: New York e Pechino. "The place to be, and the place to look at..."
Non esitate a scrivermi: commenti o domande, contestazioni e proposte.
 
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Il protezionismo non è una novità. Ma per la Cina apre una nuova epoca
30 anni di crescita cinese trainata dagli Usa: e ora?
La raffica di nuovi dazi che Joe Biden ha imposto su certe importazioni dalla Cina (o l’aumento di dazi che erano già stati varati da Donald Trump) rappresenta davvero “la fine di un mondo”, l’ingresso in una nuova era segnata dal protezionismo? Se sì, quali saranno le conseguenze? Come reagirà la Cina? E quanto di questa manovra protezionista è legato alla scadenza elettorale del 5 novembre? Sono temi importanti di cui dovremo occuparci per forza nei prossimi mesi.
Anticipo una conclusione (provvisoria): non sarà facile per la Cina riconvertire il suo modello di sviluppo che per trent’anni ha fatto affidamento sulle esportazioni come traino e sull’America come mercato di sbocco principale; tanto più che Xi Jinping è prigioniero di un’ideologia “anti-consumista” che gli preclude di sostenere la domanda interna. Il Grande Sud globale può offrigli delle alternative solo parziali, e alcune di queste forse si stanno già chiudendo.
Tasse doganali fino al 100%, ecco la lista
Comincio col ricordare i dati. Cioè i dazi. Sono tasse prelevate alla dogana, con l’effetto di aumentare i prezzi delle importazioni quindi renderle meno competitive rispetto allo stesso prodotto nazionale. Biden li ha alzati al 100% sulle auto elettriche che equivale a raddoppiarne il prezzo finale per l’acquirente americano; al 50% per cellule solari, semiconduttori, siringhe e aghi sanitari; al 25% su batterie al litio, acciaio, alluminio, e minerali strategici. Su alcuni di questi prodotti esistevano già dazi varati dall’Amministrazione Trump. In certi casi Biden è arrivato a quadruplicarli.
Le reazioni, soprattutto degli esperti e dei media, in America sono state segnate dal solito riflesso di appartenenza politico-ideologica. Fra gli economisti, alcuni che avevano condannato il protezionismo di Trump si affrettano ad applaudire quello di Biden. Idem per i media vicini al partito democratico, speranzosi che la sterzata protezionista serva ad arginare le perdite di voti in Stati industriali come il Michigan. Ci sono per fortuna delle eccezioni. Un omaggio va reso alla coerenza dell’Economist, per esempio: fedele al suo Dna liberista, il settimanale britannico condannava i dazi di Trump e oggi applica lo stesso giudizio negativo ai super-dazi di Biden.
"Le barriere ci impoveriscono". Ma non hanno impedito i miracoli economici
I liberisti sinceri e tenaci, quelli che non cambiano giudizio a seconda di chi sta applicando i dazi, ripropongono una dottrina classica: il protezionismo fa male a tutti, danneggia anche chi lo applica, riduce i vantaggi del commercio internazionale, impoverisce i consumatori e quindi alla lunga anche i lavoratori. E’ l’abc delle teorie economiche insegnate sui manuali universitari. Ma è teoria pura, con scarsi agganci alla realtà.
Noi non stiamo assistendo alla fine di un’epoca, perché non siamo mai vissuti in un mondo dalle frontiere veramente aperte. Per limitarsi al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, basta ricordare che la Comunità economica europea (detta anche “mercato comune”, era l’antenata dell’Unione europea) fu un esperimento di apertura delle frontiere molto graduale, controllato, e riservato ai membri del club. Verso l’esterno l’Europa è stata a lungo un mercato chiuso e difeso da alte barriere, con punte massime di protezionismo nel settore agricolo. Eppure gli anni della Cee furono quelli dei miracoli economici: tedesco e italiano fra gli altri. Il protezionismo europeo non impedì la crescita dell’occupazione e la diffusione del benessere.
Parlando di miracoli economici, che dire di quelli asiatici? Sempre a partire dal dopoguerra, ci furono dei boom spettacolari prima in Giappone, poi nei cosiddetti “dragoni” o “tigri” come Hong Kong, Singapore, Corea del Sud, Taiwan. Infine il contagio positivo dello sviluppo economico e del progresso sociale si estese alla Cina, all’India. Tutte queste nazioni, tutte senza eccezioni, adottarono e in parte praticano tuttora robuste dosi di protezionismo.
Esportare in Cina non è mai stato facile, salvo nei settori dove il governo cinese aveva bisogno dei prodotti stranieri per qualche strutturale impossibilità di raggiungere l’autosufficienza; oppure non era ancora capace di produrli a casa propria: queste due definizioni hanno incluso la soia e la carne di maiale del Midwest americano, il lusso di Armani Vuitton Hermès Gucci Prada, e tante tecnologie strategiche che i cinesi compravano da noi per copiarle e poi sostituirle con produzioni nazionali appena possibile.
Protezionismo Usa con Reagan, liberismo con Bush-Clinton
Poiché i miracoli economici asiatici sono stati quasi sempre trainati dalle esportazioni (con la parziale eccezione dell’India), e visto che quei paesi praticavano il protezionismo, a chi riuscivano a vendere? Prevalentemente all’America, in subordine anche all’Europa, infine ai paesi emergenti i quali però non hanno ancora raggiunto lo stesso potere d’acquisto dell’Occidente.
Gli Stati Uniti di norma sono stati il mercato più aperto dalla seconda guerra mondiale in poi. Tuttavia hanno praticato anche loro il protezionismo a fasi alterne – il caso più eclatante furono le restrizioni sulle automobili ed elettrodomestici giapponesi imposte dal repubblicano Ronald Reagan negli anni Ottanta – però nel complesso sono stati un mercato meno difeso di altri. Salvo pagarne dei prezzi. I primi prezzi a diventare visibili e politicamente scottanti furono quelli sociali, che hanno determinato le scelte di voto della classe operaia danneggiata dalla globalizzazione. Più di recente sono diventati visibili e preoccupanti i prezzi strategici, in termini di sicurezza nazionale: pandemia, guerra in Ucraina, crescente ostilità geopolitica della Cina, hanno fatto capire quanto sia pericoloso dipendere in modo eccessivo da fornitori come Pechino. Per le siringhe come per i semiconduttori, o le batterie.
Quando gli Usa volevano la divisione dei compiti con la Cina
Faccio un breve salto indietro per spendere almeno qualche parola in favore del liberismo. Voglio ricordare il dibattito americano degli anni Novanta, quando i due George Bush padre e figlio (repubblicani) e Bill Clinton (democratico) stavano accogliendo la Cina nella Wto (World Trade Organization, l’organizzazione mondiale del commercio). Già allora c’erano obiezioni sia di tipo sociale sia di tipo ambientalista, che esplosero in modo virulento con le celebri proteste di Seattle nel 1999 in occasione di un summit Wto. I sindacati obiettavano, a chi esaltava lo “sconto cinese” che avrebbe regalato al consumatore americano merci abbondanti a poco prezzo: che me ne faccio dello sconto se intanto ho perso il salario perché la mia fabbrica ha chiuso, mi ha licenziato, e al mio posto hanno assunto in Cina operai cinesi? L’obiezione ecologista riguardava la concorrenza al ribasso sulle normative a tutela dell’ambiente.
Cosa rispondevano allora a queste obiezioni i Bush, Clinton, gli economisti liberisti e l’establishment capitalistico? Il progetto positivo della globalizzazione prevedeva che gli americani si spostassero su attività e mestieri sempre più qualificati, lasciando ben volentieri ai cinesi le mansioni operaie. In parte quella transizione ha funzionato e la Silicon Valley californiana ne è l’incarnazione virtuosa: i giovani informatici lì guadagnano super-stipendi progettando gli iPhone o i semiconduttori; mentre lasciano agli operai cinesi il compito di assemblare quei prodotti nella “fabbrica del pianeta”.
Però non tutta l’America si è trasformata in una Silicon Valley, ci sono settori economici e categorie sociali e zone geografiche che dalla globalizzazione hanno ricavato più danni che benefici. Inoltre la stessa Silicon Valley nel 2024 vede il mondo in una luce diversa rispetto a come lo vedeva nel 2004. Oggi anche Big Tech si rende conto che le tensioni strategiche con la Cina hanno reso aleatoria e pericolosa una divisione del lavoro in cui tutto ciò che è fisico e materiale deve traversare il Pacifico per arrivare in America.
Pericolo: una sostenibilità "made in China"
In quanto all’ambientalismo, molta strada è stata fatta rispetto alle giornate di Seattle nel 1999, quando a protestare contro il Wto c’erano anche i Verdi. Oggi l’ambientalismo è la dottrina ufficiale di Biden. Una delle ragioni per cui tartassa di dazi le auto elettriche cinesi, è che non può permettersi di consegnare a Pechino il monopolio di tutte le tecnologie indispensabili alla sostenibilità. All’interno degli Stati Uniti, l’adozione dell’auto elettrica sta incontrando forti venti avversi. La quota di mercato delle elettriche ristagna. Per seguire le direttive Biden la Ford nel primo trimestre di quest’anno ha perso 100.000 dollari su ogni vettura elettrica fabbricata. Tutto si regge su un fiume di sovvenzioni pubbliche, che peraltro potrebbero venire meno se Trump vince le elezioni. Su questo precario equilibrio potrebbe abbattersi come un uragano l’invasione delle cinesi. Non accadrà, perché di fatto le auto elettriche cinesi già oggi (prima ancora che entrino in vigore i nuovi dazi) hanno una quota di mercato infima negli Usa. Il problema è più serio per le batterie. Qui subentra la politica industriale di Biden, che sempre a colpi di aiuti di Stato riesce a riportare gradualmente sul territorio Usa una parte della produzione di batterie. Anche qui però Biden pratica la prevenzione: vuole evitare che il suo esperimento di reindustrializzazione assistita venga ucciso sul nascere da un’invasione di “made in China”.
Le contromisure di Xi Jinping e dei suoi industriali
Come reagirà Pechino a queste barriere? La risposta cinese sarà articolata. Da un lato, le case automobilistiche cinesi cercheranno semplicemente di riorientare le loro esportazioni verso mercati meno protetti di quello americano.
Tanto più che i prodotti cinesi oltre ad essere meno cari (grazie alle sovvenzioni del loro governo) sono anche di buona qualità. Per esempio: l’innovazione “made in China” sull’elettronica di bordo ha fatto progressi spettacolari. Al punto che marche tedesche giapponesi sudcoreane si sono dovute rassegnare a fare accordi con colossi cinesi come Baidu e Tencent per installare sui propri modelli venduti in Cina schermi tv, Gps, software di pilotaggio automatico. Di fronte al duplice vantaggio – prezzi bassi e qualità alta – l’Europa è il primo mercato che la Cina può conquistare per compensare l’inaccessibilità di quello americano. Proprio per questo Bruxelles sta per correre ai ripari e presto adotterà probabilmente i suoi dazi. Dovranno essere alti quanto quelli americani, per funzionare.
Il Grande Sud è ricettivo... con dei limiti
Un altro sbocco per le esportazioni cinesi (non solo di auto) è l’Asia, più il Grande Sud globale. La penetrazione cinese in tutti i mercati extra-occidentali è già forte. Però anche lì stanno cominciando le resistenze. In certi casi il protezionismo si tinge di diffidenza geopolitica verso la Cina: è il caso di India e Giappone. In altri casi, come il Brasile, i paesi emergenti vedono le proprie industrie nazionali minacciate dalla concorrenza cinese e devono rispondere alle stesse pressioni a cui risponde Biden in casa propria.
Un’opzione per l’industria cinese è quella di aggirare i protezionismi altrui andando a produrre altrove. In parte lo stanno già facendo da anni con il Sud-est asiatico: una parte del "made in China" oggi ci arriva con l'etichetta "made in Vietnam", perché una fase della produzione è stata delocalizzata in un paese con salari più bassi di quelli cinesi, ed esente dai dazi americani.
Il Messico è un altro candidato ideale, perché fa parte del mercato unico nordamericano e quindi non è colpito dai dazi. O addirittura i cinesi potrebbero costruire fabbriche sul territorio degli Stati Uniti e assumere manodopera locale.  Questo rappresenterebbe una “soluzione alla giapponese”: negli anni Ottanta e Novanta, in seguito al protezionismo di Reagan, i colossi nipponici dell’automobile e dell’elettronica cominciarono a investire negli Stati Uniti trasferendovi una parte della loro capacità produttiva e creando occupazione. Giappone e Corea del Sud fecero lo stesso anche in Messico dopo la sua adesione al Nafta (la prima versione del mercato unico nordamericano): donde la proliferazione di “maquiladoras”, come vengono chiamate le fabbriche di multinazionali a Sud del Rio Grande-Rio Bravo, soprattutto nella zona di Tijuana.
L'espediente messicano già denunciato da Trump
La Cina però non è il Giappone né la Corea del Sud. Viene percepita come un antagonista geostrategico dagli Stati Uniti, e Xi Jinping non ha fatto nulla per rassicurarli (vedi alla voce: Putin in Ucraina; ma anche Hong Kong, Taiwan, Filippine). Perciò non è detto che gli Stati Uniti accettino di accogliere investimenti cinesi sul proprio territorio come lo fecero con i giapponesi. In quanto al Messico: Trump ha già detto che se verrà eletto lui colpirà con un dazio del 200% le auto cinesi ovunque siano fabbricate, Messico incluso.
In definitiva Xi Jinping non può dare per scontato che il resto del mondo continuerà ad essere accogliente verso le sue esportazioni, come lo è stato negli ultimi trent’anni. Certo, in alcuni settori i cinesi sono stati talmente bravi (e spregiudicati) da conquistarsi posizioni dominanti, per cui non è facile fare a meno dei loro prodotti. Però si vede nel caso degli Usa che una reindustrializzazione domestica è possibile, ancorché lenta e costosa.
La "trappola di Xi": chi disprezza il consumismo è obbligato a esportare
Il problema della Cina, è che la sua dipendenza dall’export è addirittura cresciuta negli ultimi anni. La percentuale che le esportazioni rappresentano sul suo Pil supera addirittura i massimi storici che vennero raggiunti dal Giappone o dalla Germania all’apice del loro successo commerciale. E proprio i casi di Giappone e Germania stanno a dimostrare quanto sia difficile riconvertirsi, quando si è costruito un modello economico dove la crescita viene trainata dalle esportazioni. Per cambiare sistema bisognerebbe stimolare in modo poderoso i consumi interni. Perché la Cina non lo fa, o non ci riesce? I suoi consumi ristagnano. Non per caso. E’ quel che vuole Xi.
Questo presidente per certi aspetti è un nostalgico del maoismo e della sua etica dell’austerità. Pensa che il consumismo sia tipico di civiltà decadenti, come l’America. In perfetta coerenza, lui è anche un severo critico dell’assistenzialismo. Può sembrare strano, un comunista contrario al Welfare? In realtà c'è la stessa logica austera di cui sopra. Un Welfare generoso, di tipo europeo, può indurre certe fasce della popolazione a starsene a casa e aspettare un assegno statale, anziché “masticare amarezza” e accettare quel che offre il mercato del lavoro. “Masticare amarezza” è uno dei consigli che Xi impartisce alla sua gioventù, agli “sdraiati” che stanno a casa dei genitori perché non trovano un posto all’altezza delle loro aspettative, e della loro laurea. Perfino nel periodo più terribile della pandemia, Xi si rifiutò di fare quel che fecero Trump e Biden e tanti governi europei: mandare assegni alle famiglie. Inoltre, di fronte al crac del suo settore immobiliare, anziché montare delle costose operazioni di salvataggi pubblici sul modello dell’America 2008, il primo messaggio di Xi è stato questo: la casa è un bene sociale, guai a chi la compra per speculare, peggio per lui se perde i suoi risparmi.
Se Xi tiene duro sulla sua linea, se in casa propria resta un convinto fautore dell’anti-consumismo, se evita di costruire un Welfare o di distribuire sussidi ai cittadini perché li spendano, la sfida che ha di fronte è piuttosto impervia. Vuole rendersi sempre meno dipendente dall’Occidente; eppure senza i nostri mercati l’economia cinese è destinata a perdere dinamismo.         
Xi e Putin alleati anche nello spazio: "guerre stellari" contro l'America?
Russia e Cina rafforzano la loro alleanza in tutti i settori. Al boom dell’interscambio, alla crescente dipendenza economica e tecnologica di Putin da Xi Jinping, ora bisogna aggiungere una nuova dimensione: lo spazio. Qui però il rapporto è più paritetico, assai meno sbilanciato in favore della Repubblica Popolare. La Russia rimane una superpotenza spaziale, nel 1957 fu la prima a mettere in orbita un satellite vincendo la prima tappa della gara con l’America. Tuttora l’Occidente preferisce mantenere in vita una “coabitazione” con gli astronauti russi nella stazione orbitale internazionale (anche se nessuno dà molta pubblicità a questa strana oasi di convivenza…)
Ma è soprattutto fra Russia e Cina che la cooperazione spaziale avanza. Che possa avere un potenziale militare, lo lascia sospettare una fuga di notizie pilotata di recente dalla Casa Bianca. Un satellite che Mosca mise in orbita nel febbraio 2022 – lo stesso mese in cui Putin lanciava l’invasione dell’Ucraina – sarebbe progettato per sperimentare una nuova arma nucleare, destinata a colpire e indebolire la rete satellitare americana. Il satellite russo si chiama Cosmos-2553, fu lanciato il 5 febbraio 2022, da allora continua a navigare attorno alla terra seguendo quella che gli americani definiscono una “orbita inusuale”. Le prime notizie su questo satellite furono fornite dalla Casa Bianca a un ristretto gruppo di parlamentari, uno dei quali ha richiesto che vengano “de-classificate”, cioè rese di dominio pubblico. Un’ipotesi è che il Cosmos-2553 sia un prototipo usato per sperimentare un attacco senza precedenti: un’arma nucleare che distrugga centinaia di satelliti americani, sia statali che privati.
Attualmente l’America gode di un vantaggio netto nella copertura satellitare, soprattutto a bassa orbita: ha 6.700 satelliti che operano in questa parte dello spazio, contro i 780 della Cina e i 150 della Russia. I satelliti Usa sono per la maggior parte privati e offrono servizi di tipo commerciale. Alcune di queste reti private però possono avere funzioni “duali”, si è vista l’importanza della rete Starlink di Elon Musk per gli ucraini.
Stati Uniti e Giappone hanno cercato di “stanare” Putin presentando al Consiglio di sicurezza Onu una proposta di risoluzione che ribadisca il divieto di mettere in orbita armi nucleari, contenuto nel Trattato sullo spazio del 1967. La Russia ha posto il veto contro quella risoluzione.
La Cina a sua volta è iperattiva nello spazio. L’evento più importante del 2024 sotto questo aspetto è stato il lancio della missione lunare Chang’e 6. Il suo obiettivo è raccogliere campioni minerali e chimici al Polo Sud della luna: quello che resta invisibile dalla terra, ma contiene ghiaccio da cui si possono estrarre acqua, ossigeno e idrogeno. Acqua e ossigeno potrebbero consentire una lunga permanenza di astronauti. L’idrogeno potrebbe essere il combustibile per lanci dalla luna verso Marte. Qui spunta la cooperazione con la Russia: l’obiettivo di Xi Jinping è costruire una base lunare permanente insieme con i russi entro il prossimo decennio. Gli americani sostengono che anche in questo caso ci sono obiettivi militari, non solo di tipo scientifico.
In cambio del suo aiuto la Russia ha ricevuto un regalo prezioso nell’isola cinese di Hainan, la base tropicale per i lanci della Repubblica Popolare nello spazio. Ai tempi del suo fondatore Mao Zedong e dello "scisma" fra Pechino e  Mosca, la Cina comunista arrivò a temere che l’Unione sovietica potesse attaccarla con armi nucleari. Perciò la base di lancio per i missili cinesi fu situata nel deserto di Gobi, considerato meno vulnerabile all’attacco sovietico. Hainan è una collocazione molto più favorevole, perché ai tropici la rotazione terrestre aumenta la potenza di lancio. Ora nella base spaziale di Wenchang situata su quell’isola, si aprirà un Politecnico russo in grado di formare diecimila studenti nelle discipline aerospaziali. Anche questo è un segnale di cooperazione rafforzata tra i due paesi, in un settore dove le sinergie tra scienza e armamenti sono note.     

"Il nuovo impero arabo" eccolo qua
Esce questo martedì 21 maggio il mio libro "Il nuovo impero arabo" edito da Solferino, e sarò in Italia a presentarlo. Intanto due sviluppi recenti di attualità sembrano confermare alcuni dei temi che approfondisco nel libro.
Primo, uno dei più autorevoli osservatori americani del Medio Oriente, il collega Thomas Friedman del New York Times, ha scritto che "l'Arabia diventa il nuovo Egitto". A cosa si riferiva? Non certo alla situazione economica: l'Egitto è dissanguato dalla corruzione dei suoi militari, è in bancarotta, e sono proprio i capitali sauditi a tenerlo a galla. No, Friedman si riferisce al fatto che dopo la guerra dello Yom Kippur (1973) l'America sviluppò una "strategia egiziana" con Sadat: tra i frutti di quella strategia ci fu l'accordo di pace Egitto-Israele, ma anche lo sviluppo di un rapporto autonomo tra Washington e Il Cairo, che non dipendeva dalla triangolazione con Israele. Friedman sostiene che l'America di Biden (e Trump) propende verso un'alleanza strategica con l'Arabia, anche a prescindere se quest'ultima accetta di riconoscere Israele.
L'altro sviluppo recente dell'attualità sono i segnali di crisi di alcuni progetti avveniristici all'interno di Neom, la nuova "città-Stato" che il principe saudita Mohammed bin Salman (MbS) sta costruendo. Nel mio libro illustro i piani visionari e ambiziosi di questo giovane sovrano, ne cito anche la vulnerabilità. Qualcosa può andare storto, forse anche molte cose possono andare storte (già il 7 ottobre 2023 ha inferto un colpo alla strategia saudita). Ma bisogna pensare a MbS come una specie di Elon Musk in versione araba e monarchica. Un chief executive con altissimo spirito di rischio, che forse dà per scontato il fallimento di alcuni dei suoi progetti...
Nel libro troverete risposte anche a molti quesiti che alcuni di voi mi avevano rivolto negli ultimi mesi, in particolare durante i miei lunghi viaggi nel Golfo arabico-persico: sui diritti umani, sulla condizione dei lavoratori nei cantieri sauditi, sull'omicidio di Khashoggi, sull'Iran, e altro ancora.
 
Federico Rampini, New York 18 maggio 2024
 
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 inserito:: Maggio 23, 2024, 07:42:52 pm 
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Convention di Vox, Mani libere sulle alleanze: Meloni punta a essere il «ponte» tra moderati e destre Ue

di Monica Guerzoni
Toni pacati, lontani dal comizio del 2022. Il dialogo con Le Pen allarma FI

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Il palco è ancora quello dell’ultradestra spagnola di Vox. Ma al posto della leader di opposizione che nel luglio del 2022 arringava i «patrioti» in un crescendo di no e di decibel, da far tremare le casse e le cancellerie europee, c’era ieri una premier prudente, determinata a contare nel futuro governo di Bruxelles e nel Parlamento europeo.
«Buenos dias patriotas!», è il saluto di Meloni agli undicimila di «Europa Viva 2024», organizzata dai populisti e nazionalisti di Vox. La premier-candidata appare in video ed è accolta come quella che ce l’ha fatta, prima donna di destra a guidare una nazione fondatrice della Ue. E pazienza se nel gran tripudio di bandiere e ovazioni il nome dell’ospite d’onore appare sul display storpiato in «Georgia», come il Paese filorusso in fiamme.

Meloni parla in spagnolo, non arringa la folla e sta attenta a non mischiare il piano di leader di partito con quello di capo del governo. Si rivolge al «caro Santiago, amico mio», lo stesso Santiago Abascal che nel settembre 2022 si appuntava come «medaglie al petto» le accuse ai suoi patrioti di essere «machisti, franchisti, razzisti e fasci». La premier descrive come «molto simili» i percorsi politici dei due partiti, Vox e FdI. Ricorda quando la sinistra europea, «principale responsabile del declino» del Continente, accusava i conservatori di voler «distruggere l’Europa». E sprona gli alleati ad alzare la posta: «Nessun cambiamento in Europa è possibile senza i conservatori».
Le opposizioni prevedono che l’Italia finirà isolata per le sue «amicizie indigeribili» dell’inquilina di Palazzo Chigi, nazionalisti del calibro di Abascal, Milei, Le Pen e Orbán. Lei invece non lo teme e si candida a fare «da cerniera» tra i vertici della Ue e i leader meno governisti. Per dirla con Carlo Fidanza, capodelegazione di FdI, «puntiamo a costruire una maggioranza alternativa di centrodestra anche in Europa, senza venir meno ai principi cardine dei Conservatori Ue».
La legislatura che si chiude, attacca Meloni, «è stata caratterizzata da priorità e strategie errate». E di certo all’amica «Ursula», che punta al bis e che la premier non nomina mai, fischiano forte le orecchie. Il 4 gennaio Meloni si disse pronta a votare von der Leyen. E adesso che la stella della presidente uscente brilla assai meno, si tiene le mani libere. «Aspettiamo il voto dei cittadini» spiega tanta freddezza l’onorevole di FdI Antonio Giordano, segretario generale di Ecr. E alla domanda delle domande, su come si muoverà Meloni quando si tratterà di votare per le cariche apicali dell’Unione, prende tempo: «Come si fa a giocare se ancora non si hanno in mano le carte?».
Non sarà dunque Meloni, da leader di Ecr, a tirare la volata a «Ursula». Prima che la premier possa spendersi per lei, bisognerà che arrivi con le sue gambe ad essere la candidata del Ppe per il bis a Bruxelles. Cosa su cui i meloniani hanno maturato forti dubbi, visto anche il distacco mostrato da Antonio Tajani quando von der Leyen è venuta a Roma.
C’è un’altra donna negli orizzonti europei della fondatrice di FdI: Marine Le Pen. Le due com’è noto non si amano, ma sotto al palco di Madrid la presidente del Rassemblement National ha detto che con Meloni «ci sono punti in comune». Dalla rivalità all’idillio? Tra Roma e Bruxelles c’è chi ragiona sull’ipotesi di un nuovo gruppo Ue che nascerebbe dalla fusione tra meloniani e lepeniani, ma i «fratelli» assicurano che all’orizzonte non c’è niente del genere e spiegano che «Marine doveva mettere una toppa all’attacco a tradimento fatto contro Giorgia alle kermesse di febbraio di Salvini».
Per conquistare l’Eliseo, Le Pen ha bisogno di smarcarsi definitivamente da precedenti prese di posizione filorusse e così apre a Meloni per aprire al fronte occidentale. La premier è pronta a dialogare con Le Pen, perché non vuole nemici a destra e perché guarda al Parlamento Ue, in cui FdI e Rassemblement avranno gruppi numerosi e su battaglie comuni potranno unire le forze contro i socialisti. Sempre che Le Pen spazzi via le ambiguità sull’Ucraina. Forza Italia è già in allarme e Maurizio Gasparri lo fa capire: «Le Pen è ostile alla Ue, come potremmo governare insieme?».
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Da - https://roma.corriere.it/notizie/politica/24_maggio_19/meloni-ponte-moderati-destre-ue-9d2d9cf4-e76d-4833-b115-94f0b600bxlk.shtml

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 inserito:: Maggio 23, 2024, 07:39:42 pm 
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Meloni alla convention di Vox: "Basta maggioranze innaturali in Europa"

La presidente del Consiglio ha partecipato nelle vesti di presidente dei Conservatori Ue (Ecr) alla 'convention dei patrioti' Europa Viva 24, organizzata da Vox a Madrid in vista delle prossime elezioni europee.

In Italia le opposizioni protestano
Stefano Benfenati19 maggio 2024

VOX GIORGIA MELONI ECR

AGI - "Nessun cambiamento in Europa è possibile senza i Conservatori europei, e questo è un fatto. Noi siamo il motore e i protagonisti della rinascita del nostro Continente". Giorgia Meloni suona la carica e invita le destre all'unità, a lavorare "tanto e insieme" per "sancire la fine di maggioranze innaturali e controproducenti" a Bruxelles in vista del "voto decisivo" di giugno in modo da costruire un'Ue "diversa e migliore". La premier si collega in video a "Europa Viva 24", evento organizzato al Palacio de Vistalegre di Madrid dal partito spagnolo nazionalista "Vox" guidato da Santiago Abascal ("amico mio", esordisce Meloni). E in veste di presidente dell'Ecr Party riceve in dote anche la sponda di Marine Le Pen, presente alla kermesse sovranista.

Con Meloni "ci sono punti in comune" dice la leader del Rassemblement National spiegando che insieme a Salvini (suo alleato nel gruppo Id in Europa) "non c'è dubbio che ci siano delle convergenze per la libertà dei popoli che vivono" nel Vecchio Continente. Applaude la Lega. "Le parole di Marine Le Pen sono sagge - scrive in partito di Salvini - e confermano la necessità che tutte le forze di centrodestra si uniscano per cambiare finalmente l'Europa. È necessario che la totalità dei partiti alternativi alla sinistra, anche in Italia, confermino l'indisponibilità ad alleanze innaturali con i socialisti o con il bellicista Macron".

Protestano, invece, le opposizioni italiane che accusano la premier di anti-europeismo. "Sta cancellando la libertà delle persone. Fieri della nostra identità antifascista" tuona Elly Schlein. "Non sceglie i conservatori e i moderati ma gli xenofobi e i sovranisti", lamenta Raffaella Paita, coordinatrice nazionale Iv. "Ha scaricato von der Leyen", le fa eco il collega a Palazzo Madama Enrico Borghi. "Getta la maschera moderata" rincara Massimiliano Smeriglio, eurodeputato Avs.
"Georgia Meloni": nonostante sui grandi schermi della kermesse, la vocale sbagliata nel nome della premier brilli in primo piano, la platea non si distrae. La premier descrive "un Continente stanco, remissivo, viziato, in declino" e sollecita allo stesso tempo a "guardare lontano" perché "quando la storia chiama quelli come noi non si tirano indietro".
Partendo dal presupposto che la legislatura uscente "è stata contrassegnata da priorità e strategie sbagliate" Meloni rivedica che "mentre altre forze politiche hanno sostenuto accordi innaturali con le sinistre, producendo l'imposizione dell'agenda verde e progressista, noi ci siamo sempre battuti, spesso soli, per una Ue diversa". Parole lette, da alcuni esponenti del centrosinistra, come acqua gelida sull'asse con Ursula von der Leyen candidata a presidente della Commissione Ue per le prossime elezioni dal Ppe, la famiglia europea di Forza Italia.
"Meloni la pensa come i post franchisti di Vox, come lo xenofobo Zemmour, e - dice Enrico Borghi, capogruppo al Senato di Italia viva - si appresta a spalancare le braccia a Marine Le Pen e a Vicktor Orban così come ieri (strumentalmente) abbracciava una Von der Leyen oggi ammaccata, e per questo rapidamente scaricata". "Caro Santiago, amico mio. Abbiamo iniziato nel 2019 il nostro percorso comune al Parlamento europeo. E da allora - è l'inizio dell'intervento di Meloni - le nostre vicende politiche si sono sempre somigliate molto. Fin dal primo momento hanno provato a denigrarci. Hanno provato a isolarci. Hanno provato a dividerci. E hanno finito per rafforzarci. Oggi, Fratelli d'Italia - ricorda la presidente del Consiglio - è il primo partito italiano e "Vox è diventato il terzo partito spagnolo. Un partito solido e ben radicato in tutta la nazione. Un partito che ha un grande futuro davanti a sè e che sarà decisivo per cambiare sia Madrid che Bruxelles".
Poi un passaggio sull'identità dell'Europa. "L'Unione europea - spiega la premier - che abbiamo in mente deve ritrovare l'orgoglio della sua storia e della sua identità" per questo "contrasteremo soprattutto chi, come la sinistra, accecato dal desiderio di cancellare le identità, intende usare Bruxelles per imporre la sua agenda globalista e nichilista, dove le nazioni sono ridotte a incidenti della storia, le persone a meri consumatori, dove multiculturalismo e relativismo etico sono spacciati come i pilastri necessari dell'integrazione europea".
Infine, un rimando alle politiche non solo europee ma anche italiane sulla famiglia, sulla scuola e sulla maternità surrogata. "Ci opporremo a chi vuole mettere in discussione la famiglia, quale pilastro della nostra società, a chi vuole introdurre la teoria gender nelle scuole, a chi - scandisce Meloni - intende favorire pratiche disumane come la maternità surrogata" perché "nessuno mi convincerà mai si possa definire progresso consentire a uomini ricchi di comprare il corpo di donne povere, o scegliere i figli come fossero prodotti del supermercato.
Non è progresso, è oscurantismo, e sono fiera che al Parlamento italiano sia in approvazione, su proposta di Fratelli d'Italia, una legge che vuole fare dell'utero in affitto un reato universale, cioè perseguibile in Italia anche se commesso all'estero".
Pronta la replica della segretaria del Pd. "Giorgia Meloni, tra nazionalisti, franchisti e amici di Trump, ci attacca dalla Spagna dicendo che la sinistra cancella l'identità. Un giorno ci spiegherà - afferma Schlein - che cosa vuol dire, nel frattempo le ricordiamo dall'Italia che dopo un anno e mezzo al governo, lei sta cancellando la libertà delle persone. Perché non c'è libertà se hai un salario da fame, e non puoi pagare l'affitto. Siamo fieri della nostra identità antifascista che viene dalla Costituzione, e vorremmo lei potesse dire lo stesso. Perché del fatto che sia donna, madre e cristiana - conclude la leader dem - gli italiani che non riescono a portare il pane a casa non se ne fanno nulla".


Da - https://www.agi.it/politica/news/2024-05-19/meloni-a-vox-europa-puo-cambiare-identita-26446317/

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 inserito:: Maggio 23, 2024, 07:35:58 pm 
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Mani libere sulle alleanze, Meloni punta a essere il «ponte» tra moderati e destre Ue

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A-OLIVO POLICONICO PROGETTI E REGOLE
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 inserito:: Maggio 23, 2024, 02:52:41 pm 
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Post di Fabio
Fabio Scacciavillani
Guido Gennaccari
Debito pubblico italiano. Nuovo record a 2.894,652 mld di euro a marzo. Per la prima volta i titoli varcano la soglia dei 2.400 mld di euro. La composizione del debito delle pubbliche amministrazioni è simile a quella di metà anni ’20 del secolo scorso. La massa monetaria pesa per il 6,5%, i prestiti per il 9,9% ed i titoli del debito pubblico per l’83,6%. La massa monetaria raggiunse il top di circa il 35% a metà anni ’60, i prestiti il top a 52% circa a metà degli anni ’70.
Paolo Perone
perché nessun partito ne parla in campagna elettorale?
Rispondi
Gabriele Catania
Paolo Perone perché in troppi ci mangiano.
Rispondi
Marco Bonesi
Almeno negli anni 20 del secolo scorso era dovuto ad aver vinto una guerra mondiale. Non come ora ,che abbiamo usato quei soldi per comprare voti.
Rispondi
Monica Sordi
e beh, con tutti i soldi che abbiamo elargito… superbonus, reddito di cittadinanza varie ed eventuali.... le capre pensano che i soldi cadono dal cielo.... e i miei figli ringraziano!
Rispondi
Daniel Bernoulli
Monica Sordi il superbonus potrebbe anche rientrare con le minori importazioni di fossili... ma le varie ed eventuali sono montagne di soldi buttati.
Rispondi
Monica Sordi
Daniel Bernoulli poteva anche rientrare con una percentuale di detrazione più bassa.....
Rispondi
Paolo Casillo
Daniel Bernoulli no, matematicamente è impossibile recuperare quei soldi dalle minori importazioni di energia da fonti fossili: siamo due ordine di grandezza distanti


Rispondi
Daniel Bernoulli
Paolo Casillo guardi che i risparmi vanno ben oltre il singolo anno, se è la strada per cui arriva ad una cifra così ridicola.
Rispondi
Paolo Casillo
Daniel Bernoulli se anche i risultati degli interventi durassero 2 secoli (e non durano nemmeno 20 anni), non recupereresti nemmeno un decimo della cifra investita
Rispondi
Daniel Bernoulli
Paolo Casillo io faccio conti finanziari per lavoro. Lei oltre all'ipse dixit cosa ci offre? Anche facendo finta che non durino 20 anni (supposizione ovviamente ridicola) si rientra eccome, forse si è dimenticato di considerare anche che quelle cifre restano in circolo ed alimentano l'economia e vengono tassate più di una volta.
Rispondi
Marco Antoniotti
Monica Sordi ... tagli di tasse a lorsignori. Non dimenticare quelli.
… fare opere pubbliche (che sono comunque un asset per lo stato) ma perché questi soldi vanno nelle tasche dei "contribuenti", perché mai l'italiano medio dovrebbe lamentarsi? Questi sono soldi che, in un modo o in un altro, vengo trasferiti dal "monte debito" alle tasche degli italiani (o almeno di alcune fasce di italiani). Una ruberia continua che continua ad affossare il futuro delle prossime generazioni. Tutti si lamentano ma alla fine se ne fottono bellamente.
Rispondi
Alessandro Carli
Il problema non è il debito in sé per sé, ma la cultura media italiana che pensa che lo Stato si possa indebitare ancora. Senza una consapevolezza collettiva su cosa significhi avere tanto debito, non si riuscirà mai a ridurlo. Perché è si vero che bisogna ridisegnare il perimetro della spesa pubblica, ma è altrettanto vero che bisogna fare emergere più massa imponibile con la lotta all'evasione. Ci vorrebbe quindi un patto sociale fra forze politiche, sindacali e imprenditoriali che da un lato facesse emergere massa imponibile (aumento PIL con l'emersione del sommerso), riduzione delle tasse (a parità di gettito grazie all'emersione del sommerso) e ridefinizione della spesa pubblica... ma fare le cose per bene non dà risultati elettorali ed è più facile illudere e regalare bonus ...
Rispondi
Gabriele Sbrighi
Alessandro Carli è un po’ un cane che si morde la coda.
Per ridurre il "nero" dovresti abbassare il cuneo fiscale (che è mostruoso visto che in imprenditore per dare 1300€ netti al mese ad un dipendente paga mediamente 3800€ mese senza la certezza che il lavoro del dipendente genererà guadano da coprire le spese del dipendente stesso più il guadagno per l'azienda); ma se abbassi il cuneo fiscale lo Stato si ritrova con meno denaro per pensioni e servizi (ti ricordo che le pensioni sifonano il 20% della fiscalità generale oltre ai contributi dei lavoratori) oltre che in difficoltà a pagare gli interessi sui prestiti chiesti ed ottenuti fino ad oggi (cosa su cui siamo già in ritardo, se ricordo bene, visti i diversi procedimenti di infrazione a carico dell'Italia)....
Rispondi
Alessandro Carli
Gabriele Sbrighi concordo perfettamente con te, è per questo che ho parlato di "patto sociale" ...
Rispondi
Marco Bonesi
Alessandro Carli semmai serve un nuovo patto fra le generazioni. Ovvero i vecchi devono accettare di vedere che i propri privilegi pensionistici ,possibili solo sulla pelle dei giovani, vengano cancellati .Visto che la spesa pubblica oramai è sempre più solo pensioni. Cosa impossibile senza un governo tecnico con poteri autoritari.
Rispondi
Alessandro Carli
Marco Bonesi il patto fra le generazioni è inseribile nel controllo della spesa pubblica ... per come siamo messi non è sufficiente una sola iniziativa, ce ne vogliono diverse e coordinate ...
Rispondi
Consuelo Trevisan
Sono molto belli questi post soprattutto fatti da chi sostiene la EU e la BCE e costringe i governi ai QE e PNRR
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Autore
Fabio Scacciavillani
Consuelo Trevisan I governi non fanno alcun QE e se non vogliono i fondi del PNRR nessuno li costringe a utilizzarli.
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Massimo Di Pierno
Qual è la soluzione per ridurre il debito pubblico italiano?
Rispondi
Autore
Fabio Scacciavillani
Massimo Di Pierno Innanzitutto tagliare le spese che generano solo voti di scambio, e poi aumentare l'età pensionabile in linea con le aspettative di vita.
Poi bisogna ridisegnare il perimetro dello stato eliminando tutte le funzioni inutili e/o dannose e chiudendo le istituzioni che le espletano.
Rispondi
Carlo Gardella
Fabio Scacciavillani in pratica sarebbe come chiedere a Dracula di smettere di bere sangue

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 inserito:: Maggio 23, 2024, 12:47:27 pm 
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Bonifici milionari alla moglie di Dell'Utri per il silenzio sulle stragi di mafia. Il legale della famiglia Berlusconi: "Titoli faziosi e fuorvianti"
È l'ipotesi con cui la Dda della Procura di Firenze ha chiuso le indagini nei confronti del braccio destro di Berlusconi. Lo riporta oggi La Repubblica

30 aprile 2024
Agf - Marcello Dell'Utri - Silvio Berlusconi
SILVIO BERLUSCONI MARCELLO-DELL'UTRI STRAGI MAGIA

AGI - I bonifici di Silvio Berlusconi a Miranda Ratti, moglie di Marcello Dell'Utri, sarebbe serviti a pagare il silenzio sulle stragi del '93. È l'ipotesi con cui la Dda della Procura di Firenze ha chiuso le indagini nei confronti del braccio destro di Berlusconi. Lo riporta oggi La Repubblica.
Dell'Utri e la moglie, alcune settimane fa, erano stati oggetto di un sequestro di 10.8 milioni collegato all'accusa di aver violato le normative in materia di prevenzione antimafia: Dell'Utri avrebbe infatti omesso di comunicare le sue condizioni patrimoniali come invece previsto dalle normative in materia.
L'avvocato della famiglia Berlusconi, titoli faziosi e fuorvianti
"Ancora una volta leggiamo atti giudiziari riservati direttamente sui giornali, introdotti da titoli faziosi e fuorvianti. Ancora una volta leggiamo accuse assurde, calunniose e contraddittorie contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri". Lo scrive in una nota Giorgio Perroni, avvocato della famiglia Berlusconi.
"Ancora una volta, però, non leggiamo nemmeno una menzione della sentenza del Tribunale di Palermo dello scorso 13 marzo, dove si esclude categoricamente che le donazioni di denaro di Berlusconi a Dell'Utri servissero per "comprare il suo silenzio"; come del resto già sostenuto in precedenti provvedimenti emessi in sede cautelare dallo stesso Tribunale, dalla Corte d'Appello di Palermo e, addirittura, dalla Corte di Cassazione. E ancora una volta, ovviamente, non leggiamo nemmeno un riferimento al fatto che tutti i precedenti filoni di indagine e tutti i processi che accostavano Silvio Berlusconi alle terribili stragi mafiose sono finiti nel nulla. Niente di nuovo sotto il sole - conclude Perroni - Ma non possiamo rassegnarci per assuefazione davanti alla bruciante ingiustizia di un vergognoso "sistema" che non si placa nemmeno ora che Silvio Berlusconi non è più tra noi".

Da https://www.agi.it/cronaca/news/2024-04-30/bonifici-berlusconi-dell-utri-stragi-mafia-26221918/

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 inserito:: Maggio 23, 2024, 12:44:16 pm 
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La legge russo-georgiana
di Enrico Mario Storchi

Attualità & Politica IMMODERATI Opinione

17/05/2024
Tempi difficili per la Georgia, il piccolo Stato post-sovietico della Transcaucasia. Sin da fine aprile nella capitale del Paese, Tbilisi, sono in corso grandi proteste e manifestazioni di piazza contro la proposta di legge sugli «agenti stranieri». La proposta, che martedì è stata definitivamente approvata dal Parlamento, ricalca quasi alla perfezione una legge russa approvata nel 2012 dal Governo allora presieduto da, tanto per cambiare, Vladimir Putin.
Fonte: Flickr
La legge, come quella russa, obbligherebbe ogni media e ONG georgiano a registrarsi come «entità che persegue gli interessi di una potenza straniera» nel caso riceva più del 20% dei suoi finanziamenti dall’estero. Fin qui, niente di inaudito: in molti Paesi, Stati Uniti d’America inclusi, esistono leggi che vigilano sulle attività di ONG estere che operano nel Paese. È comprensibile che un Paese sovrano voglia conoscere le attività di queste organizzazioni. Il FARA (Foreign Agents Registration Act), creato nel 1938 negli USA per contrastare la propaganda nazista negli States, è ancora in vigore ma si concentra solo sulle attività di lobbying e non si applica ad associazioni umanitarie e/o religiose[1]. Il “precedente” della legge statunitense è molto utilizzato dai sostenitori della proposta di legge georgiana; in un leitmotiv già noto anche in Italia sin dall’inizio della guerra in Ucraina, ogni legge autoritaria viene giustificata cercando precedenti “ipocriti” nel mondo occidentale che si professa liberale e democratico. Peccato che questo ragionamento, nel caso della legge georgiana, non stia in piedi.
In primo luogo la legge statunitense non riguarda le organizzazioni umanitarie, mentre queste ultime, nel caso georgiano, sarebbero anch’esse oggetto di indagini. Quindi, mentre il FARA persegue criminali, corrotti e terroristi, la legge georgiana perseguirebbe anche individui che operano in ONG umanitarie. Organizzazioni con fini scientifici, religiosi, artistici e persino avvocati sono considerati, dalla legge georgiana, «agenti stranieri».
L’altra grande differenza risiede nel contesto storico: mentre la legge statunitense venne creata nel 1938 per combattere la propaganda nazista, quella georgiana considera come nemici del Paese l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Un fatto alquanto curioso dato che proprio l’UE e gli USA sono stati, in questi trent’anni di indipendenza georgiana dall’ex URSS, i principali sostenitori economici del Paese, il quale ha visto innalzare la qualità della vita dei propri cittadini in modo esponenziale. Vi è inoltre una grande differenza sui criteri adottati per definire una persona, o un’organizzazione, un «agente straniero»: mentre negli USA vi è bisogno della prova che la persona sia «under the control of, or acts at the direction of, a foreign power[2]», quindi sotto diretto controllo di una potenza straniera, in Georgia basterà ricevere più del 20% dei fondi dall’estero per essere considerato «agente straniero». Se un lavoratore georgiano di una ONG umanitaria ricevesse più del 20% del suo stipendio dall’estero, sarebbe automaticamente considerato un «agente straniero», senza bisogno di ulteriori prove e senza possibilità di fare ricorso, esattamente come accade oggi in Russia. Proprio in Russia, tuttavia, la legge sugli «agenti stranieri» esenta le organizzazioni religiose le quali sono invece incluse in quella georgiana: la legge del Governo di Tbilisi quindi sarebbe ancora più stringente di quella russa.
Abbiamo già ricordato come la legge georgiana consideri solo l’Unione Europea e gli Stati Uniti (insieme al Giappone) come Paesi nemici, mentre la Russia di Putin non viene mai nominata, nonostante abbia invaso il Paese per ben due volte sottraendogli il 20% del suo territorio. Ma perché questa differenza di trattamento? La legge sugli «agenti stranieri» è stata proposta dal Partito “Sogno Georgiano”, il quale è al potere in Georgia dal 2013. Fondato solo un anno prima da Bidzina Ivanishvili, l’uomo più ricco del Paese, il Partito si è contraddistinto per avere adottato nel corso degli anni un atteggiamento sempre più filorusso. Ivanishvili, arricchitosi in Russia nel periodo delle privatizzazioni selvagge a seguito della dissoluzione dell’URSS, è considerato da molti analisti politici come l’uomo di fiducia di Putin in Georgia. Nelle ultime settimane, insieme ad altri membri del Partito, ha sostenuto che le proteste di piazza siano comandate da potenze straniere che vogliono destabilizzare la Georgia, aggiungendo, tanto per cambiare, teorie del complotto che coinvolgono il movimento LGBTQ+.
I georgiani, soprattutto i giovani, hanno però fiutato il pericolo insito in una legge simile che, come avvenuto in Russia, servirà al Governo per perseguire ogni attività “scomoda” e aumentare il controllo sulla società civile per reprimere ogni forma di dissenso. L’aver ribattezzato la proposta di legge come «Legge Russa» ha creato un grande spauracchio in una popolazione che, per l’80%, desidera l’ingresso nell’Unione Europea per difendersi dall’influenza del gigante russo[3]: ingresso che, nel caso la legge entrasse in vigore, diventerebbe estremamente difficile.
Viene tuttavia da chiedersi come sia possibile che vi siano folle oceaniche nelle proteste di piazza mentre “Sogno Georgiano”, alle ultime elezioni del 2020, ha vinto con una grande maggioranza. Le elezioni parlamentari georgiane del 2020 sono state caratterizzate dal boicottaggio delle opposizioni che hanno invitato i propri elettori a non presentarsi alle urne, denunciando brogli da parte di “Sogno Georgiano

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 inserito:: Maggio 20, 2024, 11:03:00 am 
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Mani libere sulle alleanze, Meloni punta a essere il «ponte» tra moderati e destre Ue

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 inserito:: Maggio 19, 2024, 05:51:37 pm 
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La legge russo-georgiana

di Enrico Mario Storchi

Attualità & Politica IMMODERATI Opinione

17/05/2024

    Tempi difficili per la Georgia, il piccolo Stato post-sovietico della Transcaucasia. Sin da fine aprile nella capitale del Paese, Tbilisi, sono in corso grandi proteste e manifestazioni di piazza contro la proposta di legge sugli «agenti stranieri». La proposta, che martedì è stata definitivamente approvata dal Parlamento, ricalca quasi alla perfezione una legge russa approvata nel 2012 dal Governo allora presieduto da, tanto per cambiare, Vladimir Putin.

Fonte: Flickr

La legge, come quella russa, obbligherebbe ogni media e ONG georgiano a registrarsi come «entità che persegue gli interessi di una potenza straniera» nel caso riceva più del 20% dei suoi finanziamenti dall’estero. Fin qui, niente di inaudito: in molti Paesi, Stati Uniti d’America inclusi, esistono leggi che vigilano sulle attività di ONG estere che operano nel Paese. È comprensibile che un Paese sovrano voglia conoscere le attività di queste organizzazioni. Il FARA (Foreign Agents Registration Act), creato nel 1938 negli USA per contrastare la propaganda nazista negli States, è ancora in vigore ma si concentra solo sulle attività di lobbying e non si applica ad associazioni umanitarie e/o religiose[1]. Il “precedente” della legge statunitense è molto utilizzato dai sostenitori della proposta di legge georgiana; in un leitmotiv già noto anche in Italia sin dall’inizio della guerra in Ucraina, ogni legge autoritaria viene giustificata cercando precedenti “ipocriti” nel mondo occidentale che si professa liberale e democratico. Peccato che questo ragionamento, nel caso della legge georgiana, non stia in piedi.

In primo luogo la legge statunitense non riguarda le organizzazioni umanitarie, mentre queste ultime, nel caso georgiano, sarebbero anch’esse oggetto di indagini. Quindi, mentre il FARA persegue criminali, corrotti e terroristi, la legge georgiana perseguirebbe anche individui che operano in ONG umanitarie. Organizzazioni con fini scientifici, religiosi, artistici e persino avvocati sono considerati, dalla legge georgiana, «agenti stranieri».

L’altra grande differenza risiede nel contesto storico: mentre la legge statunitense venne creata nel 1938 per combattere la propaganda nazista, quella georgiana considera come nemici del Paese l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Un fatto alquanto curioso dato che proprio l’UE e gli USA sono stati, in questi trent’anni di indipendenza georgiana dall’ex URSS, i principali sostenitori economici del Paese, il quale ha visto innalzare la qualità della vita dei propri cittadini in modo esponenziale. Vi è inoltre una grande differenza sui criteri adottati per definire una persona, o un’organizzazione, un «agente straniero»: mentre negli USA vi è bisogno della prova che la persona sia «under the control of, or acts at the direction of, a foreign power[2]», quindi sotto diretto controllo di una potenza straniera, in Georgia basterà ricevere più del 20% dei fondi dall’estero per essere considerato «agente straniero». Se un lavoratore georgiano di una ONG umanitaria ricevesse più del 20% del suo stipendio dall’estero, sarebbe automaticamente considerato un «agente straniero», senza bisogno di ulteriori prove e senza possibilità di fare ricorso, esattamente come accade oggi in Russia. Proprio in Russia, tuttavia, la legge sugli «agenti stranieri» esenta le organizzazioni religiose le quali sono invece incluse in quella georgiana: la legge del Governo di Tbilisi quindi sarebbe ancora più stringente di quella russa.

Abbiamo già ricordato come la legge georgiana consideri solo l’Unione Europea e gli Stati Uniti (insieme al Giappone) come Paesi nemici, mentre la Russia di Putin non viene mai nominata, nonostante abbia invaso il Paese per ben due volte sottraendogli il 20% del suo territorio. Ma perché questa differenza di trattamento? La legge sugli «agenti stranieri» è stata proposta dal Partito “Sogno Georgiano”, il quale è al potere in Georgia dal 2013. Fondato solo un anno prima da Bidzina Ivanishvili, l’uomo più ricco del Paese, il Partito si è contraddistinto per avere adottato nel corso degli anni un atteggiamento sempre più filorusso. Ivanishvili, arricchitosi in Russia nel periodo delle privatizzazioni selvagge a seguito della dissoluzione dell’URSS, è considerato da molti analisti politici come l’uomo di fiducia di Putin in Georgia. Nelle ultime settimane, insieme ad altri membri del Partito, ha sostenuto che le proteste di piazza siano comandate da potenze straniere che vogliono destabilizzare la Georgia, aggiungendo, tanto per cambiare, teorie del complotto che coinvolgono il movimento LGBTQ+.

I georgiani, soprattutto i giovani, hanno però fiutato il pericolo insito in una legge simile che, come avvenuto in Russia, servirà al Governo per perseguire ogni attività “scomoda” e aumentare il controllo sulla società civile per reprimere ogni forma di dissenso. L’aver ribattezzato la proposta di legge come «Legge Russa» ha creato un grande spauracchio in una popolazione che, per l’80%, desidera l’ingresso nell’Unione Europea per difendersi dall’influenza del gigante russo[3]: ingresso che, nel caso la legge entrasse in vigore, diventerebbe estremamente difficile.

Viene tuttavia da chiedersi come sia possibile che vi siano folle oceaniche nelle proteste di piazza mentre “Sogno Georgiano”, alle ultime elezioni del 2020, ha vinto con una grande maggioranza. Le elezioni parlamentari georgiane del 2020 sono state caratterizzate dal boicottaggio delle opposizioni che hanno invitato i propri elettori a non presentarsi alle urne, denunciando brogli da parte di “Sogno Georgiano

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