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Autore Discussione: CINA -  (Letto 22271 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Aprile 13, 2008, 02:35:50 pm »

13/4/2008
 
Tibet, il diritto di non essere moderni
 
 LORENZO MONDO
 
E’ stato lo storico e opinionista Sergio Romano, con la consueta libertà intellettuale, a scagliare il sasso nello stagno. A proposito del Tibet e delle manifestazioni che si svolgono in tutto il mondo contro la repressione cinese. «Non è necessario essere marxisti o anticlericali - scrive - per osservare che la Cina recita in questa faccenda, sia pure con i modi intolleranti di un regime autoritario, la parte della modernità...». Di queste parole si fanno forti i «marxisti o anticlericali» nostrani per andare ben oltre le sue pacate considerazioni. Sostengono che la rivolta dei monaci fa parte di un complotto ordito dall’America per smembrare l’impero cinese, arrivano a evocare, nella deprecazione, il mito razzista, coltivato da Goebbels, dei tibetani «ariani» contrapposti ai cinesi. E denunciano oltre misura la rivolta violenta dei monaci, dopo sessant’anni di occupazione, senza sottolineare la spietatezza della macchina repressiva. Senza curarsi del fatto che la liquidazione della rivolta avvenga senza testimoni neutrali, nel silenzio della libera stampa.

Si comprendono le inquietudini di Pechino, che teme rimbalzi secessionisti in altre regioni dell’impero, come il musulmano Sinkiang. Non a caso comunica, quasi in contemporanea, l’arresto di fondamentalisti uigur che progettavano attentati in occasione delle Olimpiadi. Strizzando l’occhio a Bush, non insensibile al problema, per un’alleanza planetaria contro Al Qaeda. Resta il fatto che nel Tibet c’è una minoranza oppressa, violentata nei suoi costumi e nella sua cultura, che merita la più ampia solidarietà - non i fantasiosi e sottili distinguo avanzati in casa nostra - da parte dei Paesi democratici. Non si tratta ovviamente di ricorrere alle bombe ma di premere con mezzi pacifici e tuttavia stringenti sul governo cinese perché accetti un dialogo con il Dalai Lama, il quale si limita a chiedere, nella condanna di ogni violenza, una ragionevole autonomia per la sua gente. Come questo possa darsi, è materia di non facile soluzione ma da tentare attraverso il dialogo. Escluso l’improponibile arcaismo di un governo teocratico incuneato nella Repubblica Popolare Cinese, andrebbero comunque salvaguardati certi diritti elementari, di ordine culturale e spirituale. Compreso, massì, quello di non essere moderni.

 
da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Aprile 15, 2008, 10:48:08 pm »

15/4/2008
 
Caccia cinese al tesoro del Tibet
 

GIULIETTO CHIESA


 
Il Tibet continua a occupare pagine dei giornali in tutto il mondo occidentale. Era da prevedere, nel clima preolimpico. Com’è da prevedere che, a Olimpiadi di Pechino concluse, i riflettori si spegneranno. È la logica del villaggio globale e del mainstream media che, più che moltiplicare diritti umani, moltiplica profitti disumani. Dietro, dentro la notizia, tuttavia, ce ne sono altre, che possono spiegare molte cose. Una di queste è la lunghissima ferrovia - circa 1250 chilometri - che Pechino ha inaugurato nel luglio 2006 e che collega Lhasa ai maggiori centri industriali della Cina del sud e a Canton. Con la già programmata estensione, da Lhasa a Shigatze, verso Ovest, prevista nell’11° piano decennale approvato dal Congresso del Popolo.

Sarebbe questo il punto terminale di un grandioso progetto, iniziato nel 1999, ma non rilevato dai media occidentali che a cose compiute, consistente nella meticolosa mappatura geologico-mineraria di una grande parte del Tibet e dei contrafforti himalaiani, in un’area vastissima comprendente tutto l’altopiano tibetano del Qinghai. Secondo quanto scoperto da Abraham Lustgarten, reporter di Fortune, nel 2007, il governo cinese - precisamente il ministero dei Territori e delle Risorse - avrebbe inviato fin dal 1999 un migliaio di ricercatori, geologi, specialisti minerari, organizzati in 24 distaccamenti, alla ricerca di tutte le potenzialità di sfruttamento del territorio. In modo non dissimile, del resto, da ciò che i commessi viaggiatori del governo cinese andavano facendo in Africa e in America Latina negli stessi anni, con non minore alacrità. La differenza consistette nel fatto che lo facevano in casa propria e, come è loro costume e possibilità, su larga scala.

L’investimento per l’operazione esplorativa fu attorno ai 44 milioni di dollari. E, a quanto pare, ne valse la pena. Tant’è che Pechino, subito dopo avere ricevuto i primi rapporti dei ricercatori, decise d’intensificare la costruzione (che era già stata decisa) della nuova ferrovia. Costo dell’operazione: 4 miliardi di dollari. Nulla di fronte ai vantaggi che si andavano delineando e che permettevano al governo cinese di tirare più d’un sospiro di sollievo. La crescita cinese era in piena esplosione e la fame di materie prime era già divenuta spasmodica.

Improvvisamente i dirigenti cinesi scoprivano, per esempio, che non era più necessario andare in Cile a comprare giacimenti di rame, come stavano facendo, perché il rame ce lo avevano in casa. E non solo il rame, ma anche il ferro, lo zinco, il piombo e metà della tavola di Mendeleev. Gli scienziati sguinzagliati sugli altopiani tibetani riferivano e calcolavano: giacimenti per un valore complessivo di 150 miliardi di dollari. Cifre approssimative ma imponenti: un miliardo di tonnellate di ferro, 40 milioni di tonnellate di rame.

La Cina aveva dovuto cercare sui mercati internazionali il ferro, indispensabile per i colossali investimenti edilizi e industriali, provocando, con la sua stessa domanda, un triplicamento del prezzo di quello come di tutti gli altri metalli. Basti ricordare la serie delle cifre di importazione cinese di ferro e acciaio, che era di 186 milioni di tonnellate nel 2002, è salita a 326 nel 2006 e a oltre 350 nel 2007.

Il resto del mondo non può non tenere conto di questi che, come ben si capisce, non sono dettagli. La Cina è davvero vicina, vicinissima. In tutti i sensi. Non c’è più cosa che vi avvenga che non ci riguardi immediatamente. Sia quando invade i nostri mercati con decine di milioni di magliette o di paia di scarpe (capi che, per altro, i nostri importatori hanno ordinato o prodotto laggiù), sia quando chiede, e chiederà, molta più energia di quanta sia ormai disponibile sul mercato mondiale, sia quando scopriamo che, in piena Londra, a contrastare le centinaia di manifestanti inglesi che volevano bloccare la fiaccola olimpica, sono scesi in strada anche centinaia di cinesi, a difendere la loro patria. A Londra, non a Pechino. E ci sono due modi per affrontare il futuro: uno, quello buono, è cercare di capire. L’altro è cominciare a descrivere la Cina come il futuro nuovo nemico. Ciò che, purtroppo, molti stanno già facendo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Maggio 04, 2008, 11:26:32 am »

ESTERI

Le consultazioni si svolgono a Shenzhen, nel sud del Paese.

Sono le prime dopo lo scoppio della rivolta a Lhasa. Presenti inviati del Dalai Lama

Cominciati i colloqui Cina-Tibet

E Hu Jintao si dice "fiducioso"

 
PECHINO - Sono iniziati oggi a Shenzhen, nel sud della Cina, i primi colloqui tra inviati del Dalai Lama ed esponenti del governo di Pechino dall'inizio della rivolta tibetana, il 10 marzo scorso.

In un'intervista rilasciata a mezzi d'informazione giapponesi in vista della sua prossima visita a Tokyo, il presidente cinese Hu Jintao si è dichiarato "fiducioso" che "attraverso sforzi di entrambe le parti" i colloqui "riescano ad ottenere i risultati desiderati". Il Dalai Lama, il leader tibetano che vive in esilio dal 1959, chiede per il Tibet quella che chiama "una genuina autonomia". Pechino lo accusa di non essere sincero e di puntare in realtà all' indipendenza.

Colloqui tra inviati del Dalai Lama e del governo cinese si sono tenuti in sei riprese tra il 2002 ed il 2007, senza che sia stato raggiunto alcun accordo. Questa volta, da parte tibetana prendono parte ai colloqui Lodi Gyari e Kelsang Gyaltsen, rappresentanti del leader tibetano rispettivamente negli Usa e in Europa. La Cina è rappresentata da due esponenti dell'Ufficio per il Fronte Unito (l'organismo responsabile dei rapporti con i gruppi non comunisti), Zhu Weiqun e Sitar.

Secondo gli esuli tibetani più di 200 persone hanno perso la vita nel corso delle proteste anticinesi, mentre Pechino afferma che le vittime sono state 22. I tibetani sostengono che gli arresti sono stati più di cinquemila, mentre la Cina non ha fornito alcuna cifra.

(4 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Settembre 16, 2008, 05:40:37 pm »

Trovate tracce di melamina, prodotto chimico usato per la colla

CINA, COLLA NEL LATTE: 1200 BIMBI INTOSSICATI, 2 MORTI

 

Dopo i ravioli ai pesticidi e il dentrificio all'antigelo la Cina e' di nuovo nello scandalo per il latte alla colla. Circa 1.253 bambini intossicati, due morti e 340 ancora ricoverati in vari ospedali con 53 in gravi condizioni: e' il bilancio piu' recente dei danni della Sanlu, il gruppo produttore del latte in polvere in cui sono state trovate tracce di melamina, prodotto chimico usato per la colla. Un bilancio, diffuso dal ministero della Sanita', destinato ad aggravarsi: sono infatti 10mila i neonati che potrebbero aver bevuto il prodotto incriminato, con un aumento drastico rispetto alle previsioni. Il vice ministro, Ma Shaowei, ha confermato che due bambini sono morti (uno il 22 luglio e uno il primo maggio) per aver ingerito il prodotto, elemento che fa pensare che la contaminazione non sia recente. Interessata la regione del Gansu, area povera nel nord ovest del Paese, ma anche lo Hebei, nel nord del Paese, ed il Jiangsu, nella parte est. Secondo un altro funzionario del Ministero: i bambini si sarebbero sentiti male a causa calcoli renali dopo aver bevuto il latte in polvere della Sanlu mischiato a melamina, un prodotto chimico industriale usato nella colla e plastica, aggiunto forse allo scopo di far comparire piu' proteine di quante non fossero contenute nel latte. Secondo il China Daily, le 19 persone arrestate in tutto il Paese per lo scandalo, erano addetti ai centri di raccolta del latte, preso direttamente dagli agricoltori. Li Changjiang, capo della Amministrazione generale della supervisione e controllo della qualita', ha affermato che sembra poco probabile che gli agricoltori possano aver messo la melamina nel latte, mentre e' piu' realistico che cio' sia avvenuto nei centri di raccolta, in contrasto con quanto precedentemente affermato dal gruppo Sanlu, che aveva accusato direttamente gli agricoltori. Secondo l'agenzia Xinhua, i fratelli Geng, detenuti nello Hebei dove la Sanlu ha il suo quartier generale, sono stati arrestati per aver venduto ogni giorno tre tonnellate di latte contaminato a partire dalla fine dello scorso anno. I due, presumibilmente, hanno deciso di aggiungere melanina perche' il latte che avevano diluito con acqua era stato scartato dalla Sanlu per non aver raggiunto gli standard qualitativi richiesti. La produzione e' stata sospesa, ma cio' che non ha impedito che solamente nel Gansu 223 bambini fossero colpiti da calcoli renali, patologia piuttosto inconsueta sotto un certo limite di eta'. Ispettori cinesi stanno indagando in tutte le varie regioni produttrici di latte per cercare di porre un argine allo scandalo; nel Gansu, hanno trovato tracce di melamina in campioni raccolti dalla Haoniu Dairy Co., partner della Sanlu. La Sanlu, della quale il gigante caseario della Nuova Zelanda, la Fonterra, possiede il 43%, e' un marchio economico, preferito per questo dalle persone meno abbienti; se si aggiunge che il consumo di latte in polvere e' in costante aumento, visto che molte donne decidono di andare a lavorare in citta' e non possono allattare i propri figli, si puo' comprendere l'entita' del problema. Il capo esecutivo della Fonterra, Andrew Ferrier, sospetta che la contaminazione sia risultato di un sabotaggio del latte crudo fornito alla Sanlu. Parlando ai reporter neozelandesi da Singapore, Ferrier ha detto che la Fonterra aveva saputo della contaminazione e gia' dal 2 agosto aveva pensato di ritirare il prodotto, ma che aveva dovuto rispettare le regole cinesi. "Noi e la Sanlu abbiamo fatto il possibile per togliere il prodotto incriminato dagli scaffali" ha detto e quando gli e' stato chiesto come mai la Fonterra non abbia immediatamente reso pubblico il problema, ha affermato che sarebbe stato considerato un comportamento irresponsabile per la Sanlu non seguire le regole guida stabilite dalle autorita' cinesi. "La Sanlu ha dovuto lavorare con il governo per seguire le procedure che le erano state fornite. Inoltre sarebbe stato irresponsabile allarmare gli acquirenti senza avere tutti i dati di fatto" ha aggiunto. Gia' da marzo erano arrivate lamentale alla Sanlu perche' le urine dei bambini che avevano bevuto il loro latte erano scolorite ed alcuni erano stati ricoverati in ospedale. Taiwan ha nel frattempo fermato le importazioni di tutti i prodotti caseari del gruppo. Il Primo ministro neozelandese, Helen Clark, ha affermato che il governo ha appreso il problema solamente il 5 settembre, informando tre giorni dopo Pechino, dopo che autorita' locali avevano rifiutato di agire. Secondo quanto riportato dai media cinesi, il 10 settembre alcuni bambini si erano sentiti male dopo aver bevuto il latte ed il giorno seguente la Sanlu aveva sollecitato il ritiro del latte prodotto prima del 6 agosto. Lo scandalo rischia di macchiare l'immagine della Cina subito dopo il successo delle Olimpiadi: come ha affermato Mao Shoulong, esperto di politiche pubbliche della Renmin University, studioso di sicurezza dei prodotti, "la domanda di prodotti caseari e' in costante aumento, ma la Cina manca della capacita' di fornire sicurezza propria degli altri Paesi sviluppati". La Cina e' il secondo mercato al mondo del latte in polvere per bambini, ma non e' la prima volta che scoppia uno scandalo del genere: gia' nel 2004 almeno 13 bambini erano morti nella regione dello Anhui, zona est del paese, dopo aver bevuto il prodotto adulterato. La melamina inoltre era stata collegata lo scorso anno alla morte di molti cani e gatti negli Stati Uniti: era stata aggiunta a cibo per animali importato dalla Cina. Sebbene normalmente innocua, puo' provocare calcoli renali: se i calcoli si spostano dai reni, provocano infezioni, con tutte le conseguenze immaginabili.

da  (AGI) - Pechino, 15 settembre

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« Risposta #34 inserito:: Ottobre 16, 2008, 11:51:55 pm »

Latte contaminato: Pechino chiuse la bocca ai reporter


Jean-François Julliard


SI ACCUMULANO le prove. La censura imposta ai media cinesi, prima dei Giochi Olimpici, sullo scandalo del latte contaminato, ha avuto conseguenze disastrose. A luglio un giornalista del settimanale di ricerca Nanfang Zhoumo ha dimostrato la veridicità di alcuni fatti legati all’ondata di ricoveri di neonati, per aver ingerito latte in polvere della società Sanlu. Ma il suo capo redattore, temendo possibili rappresaglie, ha scelto di non pubblicare l’articolo.
Così si è dovuto attendere fino ai primi di settembre, e la conclusione dei Giochi Olimpici, perché un altro mezzo di informazione trovasse il coraggio di dare la notizia esplosiva.
Come ha potuto il governo cinese, ancora una volta, preferire il controllo dell’informazione piuttosto che assicurare la salute dei cittadini? E come hanno potuto le imprese (alcune delle quali straniere) imporre per così tanto tempo il silenzio su uno scandalo di tali proporzioni?
Alla vigilia dei Giochi Olimpici il Dipartimento di Propaganda, organo di censura alle dirette dipendenze del Politburo del Partito Comunista, ha mandato ai media cinesi una direttiva articolata in 21 punti sui temi proibiti. Il punto 8 era molto chiaro: «Tutti i temi legati alla sicurezza, come l’acqua minerale che provoca il cancro, restano al di fuori dei limiti consentiti». Di fronte al rischio di una sfiducia mondiale rispetto alla qualità dei propri prodotti il governo cinese ha scelto il silenzio. E la stampa cinese ha dovuto tacere. I responsabili di alcune redazioni liberali, e tra questi quelli di Nanfang Zhoumo, conoscevano molto bene il prezzo da pagare in caso di violazione dei decreti imperiali della censura pechinese. Tre direttori del gruppo hanno passato diversi anni in carcere per aver rivelato, nel 2003, un caso di Sars senza autorizzazione ufficiale. L’ultimo di loro è stato scarcerato nel febbraio del 2008.
Il caso del latte tossico è una tragica ripetizione degli errori commessi nel 2003. L’epidemia di Sars comparve nell’inverno 2002, ma le autorità decisero di occultare la verità (fino a quando fu possibile) per evitare una fuga degli investitori esteri. Un medico militare rivelò che i quadri cinesi stavano nascondendo l’epidemia. Il governo, solo a quel punto, «autorizzò» la stampa a parlarne, ma giurò che l’errore non si sarebbe ripetuto. Nel 2004 la polizia proibì ai giornalisti stranieri di recarsi nelle province colpite da un’epidemia di aviaria.
Nell’aprile del 2007, le autorità della provincia di Shandong (Est del paese) cercarono di censurare informazioni su un’epidemia di afta epizootica. Per la stampa è tuttora molto difficile accedere a quei villaggi dell’interno del paese in cui agonizzano migliaia di cinesi malati di cancro o aids.
Nel 2006 il governo cinese rese ufficiale questa censura criminale: promulgò una legge sulle situazioni di crisi, punendo con multe pesanti i media che avessero pubblicato, senza autorizzazione, informazioni su incidenti nelle industrie, catastrofi naturali o sanitarie e moti sociali. In un primo momento, le autorità erano arrivate persino a prevedere pene carcerarie per i contravventori, ma in seguito fecero marcia indietro.
Nel caso del latte contraffatto, i censori hanno fatto in modo che venisse ritirata da Internet la testimonianza del capo redattore che non volle pubblicare la ricerca sul latte. E ora stanno facendo pressioni su di lui.
Alcuni giornalisti cinesi sono stati espulsi dalla regione in cui ha sede la Sanlu. Il gruppo neozelandese Fonterra, azionista di Sanlu, ha tardato nel consegnare i dati alle autorità. Ora lo Stato si mobilita per aiutare i neonati intossicati e individuare i responsabili della crisi. Il presidente cinese è arrivato addirittura a chiedere alle società che traggano lezione dallo scandalo. E cosa fanno i governi stranieri? Preferiscono restringere l’importazione di prodotti cinesi anziché dire chiaramente al governo di Pechino che ha un atteggiamento irresponsabile. E l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità)? Conta le vittime. Alla Direttrice Generale, Margaret Chan, non è venuto altro in mente che consigliare alle donne cinesi di ricorrere più spesso al latte materno.
La stampa cinese, su pressione di blogger sempre più inquieti, cerca di trasformarsi in un anti-potere. Ma per prima cosa dovrà ottenere la chiusura del Dipartimento di Propaganda, bastione del conservatorismo, il cui unico obiettivo è di continuare a imbavagliare l’informazione. A qualsiasi costo.
Reporters sans frontières

Pubblicato il: 16.10.08
Modificato il: 16.10.08 alle ore 10.26   
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« Risposta #35 inserito:: Marzo 10, 2009, 12:00:51 pm »

2009-03-10 09:16


TIBET: DALAI LAMA,CHIEDO AUTONOMIA LEGITTIMA E SIGNIFICATIVA

 DHARAMSALA (INDIA) - Il Dalai Lama ha chiesto stamani alla Cina una "autonomia legittima e significativa" per il Tibet e non l'indipendenza. Il leader spirituale tibetano si è espresso così nel corso di un discorso dalla sua sede di Dharamsala, in India, in occasione del 50/o anniversario della rivolta anti-cinese del 1959 che lo costrinse all'esilio. "Noi, i tibetani - ha detto - siamo alla ricerca di una autonomia legittima e significativa che ci permetta di vivere nel quadro della Repubblica popolare della Cina. Io non ho alcun dubbio: la giustizia prevarrà riguardo alla causa tibetana".
Il Dalai Lama ha accusato la Cina di aver ucciso "centinaia di migliaia di tibetani" in questi 50 anni e di aver gettato gli abitanti del paese "in tali abissi di sofferenza e privazioni da far loro letteralmente provare l'inferno in terra".: "Questi ultimi 50 anni - ha detto il Dalai Lama - sono stati quelli della sofferenza e della distruzione per il popolo del Tibet". "Una volta che il Tibet è stato occupato - ha proseguito - il governo comunista cinese ha condotto lì una serie di campagne di violenze e di repressione... Conseguenza immediata di queste campagne: la morte di centinaia di migliaia di tibetani".
Un portavoce del ministero degli esteri cinese ha affermato che le accuse rivolte a Pechino dal Dalai Lama si basano su ''voci'' e non sono dimostrate. Il portavoce, Ma Zhaoxu, ha sostenuto che la ''cricca del Dalai Lama diffonde menzogne e confonde il bianco col nero''.

CINA A USA, NO A RISOLUZIONE
PECHINO - La Cina ha chiesto oggi al congresso americano di non esaminare un progetto di risoluzione per manifestare il sostegno americano al Tibet in occasione del 50/o anniversario della rivolta contro la presenza cinese. "La risoluzione proposta al congresso americano da qualche parlamentare anti-cinese va contro la storia e la realtà del Tibet", ha detto il portavoce del ministero degli esteri Ma Zhaoxu chiedendo ai deputati americani "di respingere quest'iniziativa". La risoluzione, che sarà introdotta dal deputato democratico Rush Holt, prevede "il riconoscimento della disperazione del popolo tibetano in occasione del 50/o anniversario dell'esilio del Dalai Lama" e invita a "compiere uno sforzo multilaterale per trovare una soluzione duratura e pacifica alla questione del Tibet". La risoluzione, in corso d'esame al congresso, rivolge inoltre un appello al governo cinese "affinché risponda alle iniziative del Dalai Lama per trovare una soluzione alla situazione tibetana". 

da ansa.it
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« Risposta #36 inserito:: Maggio 15, 2009, 12:34:14 pm »

I segreti di Tiananmen, escono le memorie di Zhao Ziyang

di Marina Mastroluca


«La notte del 3 giugno, mentre mi trovavo in cortile con la mia famiglia, ho sentito un’intensa sparatoria. Una tragedia pronta a scioccare il mondo non era stata evitata». 
Vent’anni dopo Tienanmen, era il 1989, le parole di Zhao Ziyang gettano sale su una ferita che ancora brucia.

Trenta ore di registrazione. Nastri contrabbandati all’estero, in posti sicuri, nella più assoluta segretezza. Sono nate così le memorie del segretario riformatore del Partito comunista cinese, epurato e messo agli arresti domiciliari all’indomani della carneficina di Tienanmen e rimasto prigioniero tra le pareti di casa fino alla morte avvenuta nel 2005. Il materiale raccolto in clandestinità è finito in un libro pubblicato in questi giorni nella sua versione inglese per la Simon & Schuster e in uscita in cinese il prossimo 29 maggio. Il titolo: «Prigioniero dello Stato, diario segreto del premier Zhao Ziyang».

«Quando Zhao morì, alcune persone che conoscevano l’esistenza del materiale hanno compiuto uno sforzo complesso e clandestino per raccogliere tutto il materiale in un unico posto e trascriverlo per la pubblicazione», ha spiegato Adi Ignatius, direttore dell’Harvard Business Review, che ha curato la prefazione delle memorie.

Protagonista di questo lavoro pericoloso e sotterraneo è stato Bao Tong, ex segretario di Zhao, che ha passato sette anni in carcere per il coinvolgimento nei fatti di Tiananmen ed è tuttora agli arresti domiciliari a Pechino. E rischia molto, perché per Pechino Tiananmen è ancora un nervo scoperto. È di questi giorni la notizia dell’arresto, vent’anni dopo, di un ex leader studentesco arrestato a suo tempo e poi emigrato negli Stati Uniti: rientrato in patria nel settembre scorso, Zhou Yongjun da mesi è detenuto con l’accusa di «frode».

Zhao non avrebbe voluto vedere i carri armati schierati contro ragazzi disarmati, che - questo è il racconto dello Zhao prigioniero - non volevano una rivoluzione ma solo riforme. Nell’imminenza della tragedia giurò che «qualunque cosa fosse accaduta» si sarebbe «rifiutato di diventare il segretario generale che mobilitò l’esercito per reprimere gli studenti».

L’ala conservatrice del partito, ispirata da Deng Xiaoping, era ormai determinata ad usare la forza. La notte del 19 maggio, per porre fine alla protesta, venne approvata la legge marziale e Zhao fu l’unico dirigente a votare contro, spingendosi al punto di sfidare il Partito presentandosi tra gli studenti di Piazza Tiananmen: per convincerli a terminare l’occupazione della piazza al più presto, evitando il peggio. Non servì a nulla se non ad isolarlo definitivamente nel Partito, che lo cancellò dalla vita pubblica. Senza però riuscire a spegnerne del tutto la voce, riemersa oggi con le memorie.

Nel libro, Zhao parla anche della necessità per il suo Paese di riformarsi secondo un concetto occidentale di democrazia. «Se non ci muoviamo verso questo obiettivo, sarà impossibile risolvere le anomale condizioni dell’economia di mercato in Cina».


14 maggio 2009
da unita.it
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« Risposta #37 inserito:: Ottobre 09, 2010, 03:53:53 pm »

9/10/2010

"Mi vietate di parlare però io non vi odio"
   
LIU XIAOBO


Il giugno 1989 ha segnato il punto di svolta nella mia vita. Prima, la mia carriera era stata una tranquilla cavalcata dal liceo al dottorato alla cattedra all’Università di Pechino, dov’ero popolare e ben accetto agli allievi. Contemporaneamente ero un intellettuale pubblico.

Negli Anni 1980 avevo pubblicato articoli e libri di impatto, ero spesso invitato a parlare qua e là ed ero ospitato come visiting professor in Europa e negli Stati Uniti. Avevo però un impegno con me stesso: vivere con onestà, responsabilità e dignità. Di conseguenza, tornato dagli Stati Uniti per partecipare al movimento del 1989, sono stato incarcerato per «propaganda contro-rivoluzionaria e incitamento al crimine», e da quel momento non sono mai più stato autorizzato a pubblicare o parlare in Cina. Per il semplice fatto di aver espresso opinioni diverse da quelle ufficiali e aver preso parte a un movimento pacifico e democratico, un professore perde la cattedra, uno scrittore il diritto di pubblicare e un intellettuale la possibilità di parlare in pubblico, il che è ben triste, sia per me come individuo sia per la Cina dopo tre decenni di riforme e aperture.

Le mie più drammatiche esperienze dopo il 4 giugno 1989 sono tutte legate ai tribunali; le due opportunità che ho avuto di parlare in pubblico mi sono state fornite dai due processi contro di me, quello del 1991 e quello attuale. Sebbene le accuse fossero diverse, nella sostanza erano identiche: reati di opinione. Vent’anni dopo, le anime innocenti del 4 giugno non riposano ancora in pace e io, spinto sulla strada della dissidenza dalle passioni di quei giorni, dopo aver lasciato nel 1991 il carcere di Qincheng, ho perso il diritto di parlare apertamente nel mio Paese e l’ho potuto fare solo sui media stranieri, controllato da vicino per anni, rieducato con i lavori forzati e adesso ancora una volta portato in tribunale dai miei nemici dentro il regime. Ma ancora una volta voglio dire a quel regime che mi priva della mia libertà, che io rimango fermo a quanto dissi vent’anni fa nella mia «Dichiarazione del 2 giugno sullo sciopero della fame»: non ho nemici e non ho odio.

Nessuno dei poliziotti che mi hanno controllato, arrestato e controllato, nessuno dei giudici che mi hanno processato e condannato, sono miei nemici. Mentre non posso accettare che mi abbiate sorvegliato, arrestato, processato o condannato, rispetto le vostre professioni e le vostre personalità. L’odio corrode la coscienza di una persona; la mentalità del nemico può avvelenare lo spirito di un Paese, istigarlo a una vita brutale e a lotte mortali, distruggere la tolleranza e l’umanità di una società, bloccare il progredire di una nazione verso la libertà e la democrazia. Spero perciò di saper trascendere le mie vicissitudini personali replicando all’ostilità del regime con l’amore...

Aspetto con ansia il momento in cui il mio Paese sarà terra di libera espressione, dove i discorsi di tutti i cittadini siano trattati allo stesso modo; dove valori, idee, opinioni politiche competano l’una con l’altra e coesistano pacificamente; dove le opinioni della maggioranza e della minoranza abbiano le stesse garanzie, in particolare siano pienamente rispettate e difese le idee politiche diverse da quelle di chi detiene il potere; dove tutti i cittadini possano esprimere le loro idee politiche senza paura e non siano mai perseguitati per le loro voci di dissenso. Spero di essere l’ultima vittima dell’inquisizione letteraria cinese e che dopo di me nessun altro sarà più incarcerato per aver detto quello che ha detto.
Discorso pronunciato il 23 dicembre 2009 in apertura del processo per «incitamento alla sovversione del potere dello Stato»

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7935&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #38 inserito:: Ottobre 16, 2010, 09:01:22 am »

16/10/2010

Cina più ricca, ma non più libera

FANG LI-ZHI

Ho applaudito di cuore il Comitato del Nobel quando ha assegnato il premio per la Pace al detenuto Liu Xiaobo per la sua lunga battaglia nonviolenta a favore dei diritti umani fondamentali in Cina. Con questo atto il Comitato ha sfidato l’Occidente a riesaminare un’idea pericolosa, che si è sempre più radicata negli anni successivi al massacro della Tienanmen.

In Cina lo sviluppo economico porterà inevitabilmente alla democrazia. Negli ultimi Anni 90 e soprattutto con il nuovo secolo, questa tesi ha guadagnato spazi. Qualcuno ci ha creduto davvero; altri forse l’hanno trovata utile ai loro interessi commerciali. Molti hanno avuto fiducia nei politici cinesi, che cercavano di convincere il mondo esterno che se avesse continuato a investire senza imbarazzanti «collegamenti» con i principi dei diritti umani, tutto sarebbe andato per il meglio, secondo il passo della Cina. Più di vent’anni sono trascorsi dai fatti della Tienanmen e la Cina è diventata ufficialmente la seconda potenza economica mondiale. Eppure Liu Xiaobo - che non è certo un radicale - e con lui migliaia di persone marciscono nelle carceri per aver semplicemente chiesto l’applicazione di quei diritti di base custoditi come una reliquia dalle Nazioni Unite e dati per scontati da tutti gli investitori occidentali nei loro Paesi. È evidente che i diritti umani non sono «inevitabilmente» migliorati nonostante l’economia alle stelle.

Quanto è successo a Liu negli ultimi vent’anni dovrebbe bastare per demolire finalmente l’idea che la democrazia emergerà automaticamente come risultato di una crescente prosperità. Io ho conosciuto Liu negli Anni 80, quand’era un giovane impegnato. Nel 1989 prese parte alle proteste pacifiche nella Piazza Tienanmen e per questo fu condannato a due anni. Da allora e fino al 1999 è entrato e uscito dai campi di lavoro forzato, dalle prigioni, dai centri di detenzione, dagli arresti domiciliari. Nel 2008 fu tra i promotori della Carta 08, il manifesto che chiedeva alla Cina di attenersi alla Dichiarazione universale dell’Onu sui diritti umani. Fu nuovamente arrestato e questa volta condannato a undici anni di carcere duro per «istigazione alla sovversione dei poteri dello Stato» - nonostante la Cina sia tra i firmatari di quella Dichiarazione.

Secondo le organizzazioni per i diritti umani che seguono la situazione in Cina, nelle carceri o nei campi di lavori forzati ci sono circa 1400 prigionieri politici, religiosi o «di coscienza». I loro «crimini» includono l’appartenenza a gruppi clandestini politici o religiosi o la partecipazione a scioperi e dimostrazioni, o opinioni di dissenso politico pubblicamente espresse. L’innegabile realtà dovrebbe svegliare chiunque ingenuamente creda che gli autocrati che governano la Cina modificheranno il loro disprezzo per i diritti umani solo perché il Paese è più ricco: non hanno fatto un solo passo indietro nella loro politica repressiva. Anzi, sono diventati ancora più sprezzanti. È vero che sotto la pressione internazionale, nei dieci anni successivi alla Tienanmen, il governo comunista, per migliorare la sua immagine, ha liberato cento prigionieri politici. Dal 2000 però, a mano a mano che l’economia cresceva e la pressione internazionale calava, sono tornati alla repressione più dura.

La comunità internazionale dovrebbe essere preoccupata soprattutto per le violazioni degli accordi internazionali che la Cina ha firmato, come la Convenzione Onu contro la Tortura del 1988. Eppure torture, maltrattamenti e manipolazioni mentali sono ampiamente usate nelle carceri cinesi. Con il crescere della prosperità, il partito comunista si sente sempre più sicuro della sua immunità anche se viola la sua stessa Costituzione. L’articolo 35, ad esempio, dice che «i cittadini della Repubblica popolare cinese godono della libertà di parola, assemblea, associazione, dimostrazione». Eppure, si può dubitare del giro di vite del governo su questi diritti, a cominciare dai filtri per oscurare i siti Internet imbarazzanti? Il Comitato del Nobel ha assolutamente ragione nel collegare il rispetto dei diritti umani con la pace mondiale. Come aveva perfettamente capito Alfred Nobel, i diritti umani sono il pre-requisito per la «fraternità tra le nazioni».

*Fisico dissidente, considerato il «Sakarov della Cina», è stato il mentore degli studenti della Piazza Tienanmen nel 1989. Espulso dalla Cina, vive in esilio negli Stati Uniti, dove insegna all’Università dell’Arkansas.

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« Risposta #39 inserito:: Dicembre 19, 2010, 10:54:30 am »

19/12/2010

Pechino fa da terzo incomodo tra Pakistan e Usa

SYED SALEEM SHAHZAD

Nel nuovo grande gioco centro-asiatico la coppia di ferro Pakistan-America rischia di trasformarsi in un ménage-à-trois, con la Cina nel ruolo dell’incomodo rivale per le ambizioni statunitensi. La visita del premier cinese Wen Jiaobao in questi giorni a Islamabad è solo l’ultimo segnale di un riavvicinamento. Già con il viaggio di Asif Ali Zardari a Pechino, l’11 novembre scorso, era chiaro che il presidente pakistano cercava una sponda per potersi emancipare dalla tutela di Washington e giocare la sua partita con maggiore libertà. A questo si aggiungono due mosse che possono scompaginare i piani americani: la reticenza pakistana nel lanciare un’offensiva contro i guerriglieri di Sirajuddin Haqqani e la clamorosa denuncia di un cittadino pakistano contro il capo della Cia a Islamabad.

Cominciamo da quest’ultimo episodio. La scorsa settimana Kaim Khan, un abitante della turbolenta provincia del Nord Waziristan, è arrivato nella capitale, sotto la tutela delle forze di sicurezza pakistane. Ha tenuto una conferenza stampa per spiegare il motivo del suo arrivo. Khan ha perso il figlio diciottenne e un fratello in un raid di un drone della Cia nella cittadina di Mir Ali, una delle zone più bersagliata dal cielo in questi mesi nell’offensiva americana contro i santuari terroristici al confine con l’Afghanistan. Niente di nuovo. Questa volta, però, c’è qualcuno, Khan, che ha deciso di denunciare il capo della Cia in Pakistan. E ha fatto il suo nome, Jonathan Banks. Un fatto gravissimo, tant’è che la Cia ha fatto rientrare di corsa Banks in patria. Ma il messaggio è chiaro: se oggi può essere esposto, con il consenso dell’establishment pakistano, il nome del capo della Cia, un domani potrebbe essere rivelato il suo domicilio, per la gioia degli islamisti!

E’ altrettanto chiaro che il Pakistan non si limiterà più a protestare contro i continui raid aerei sul suo territorio. E qui si inserisce la seconda mossa, il dialogo di Islamabad con Haqqani, leader del più potente gruppo di guerriglieri che combattono gli americani in Afghanistan. Washington chiede che il Pakistan lanci un’offensiva militare anche contro i suoi rifugi oltre confine, senza essere ascoltata. Perché Sirajuddin Haqqani, figlio del leggendario comandante Jalaluddin, incubo dei sovietici, ha legami stretti e di lunga data con l’establishment militare e politico del Pakistan, oltre che con gli Stati arabi del Golfo e con l’Arabia Saudita.

Più che combatterlo Islamabad vorrebbe usarlo come pedina in quello che si annuncia un complicatissimo dopo guerra a Kabul, per non perdere la sua influenza nel suo retroterra strategico. Anche la sequenza degli attentati islamisti mostra che qualcosa è cambiato, da settembre in poi. Se nella prima metà dell’anno c’era state 15 grandi stragi di marca jihadista, da allora ci sono stati solo due grossi attentati, ma di marca settaria, contro gli sciiti. Vuol dire che Islamabad e le reti jihadisti, quella di Haqqani in testa, stanno di nuovo dialogando, anche se bisogna fare in conti con le pressioni statunitensi, militari e non solo.

All’inizio di novembre il vice direttore Middle East and Central Asia departement del Fondo monetario internazionale, Adnan Mazarie ha minacciosamente avvertito che i finanziamenti al Pakistan potrebbero essere tagliati, così come quelli della potente Asian Development Bank. A rischio soprattutto i grandi investimenti nelle infrastrutture e nelle reti energetiche. Ma qui è entrata in gioco, con tempismo impressionante, la carta cinese. Dopo pochi giorni Islamabad ha annunciato di aver annullato la gara internazionale per la costruzione di centrali elettriche nel Paese e di aver affidato a una ditta cinese, senza gara d’appalto, la costruzione di un impianto idroelettrico da 1100 megawatt in Kashmir. E senza che, presumiamo, Pechino facesse nemmeno menzione del problema delle reti islamiste attive in Pakistan.

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