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Autore Discussione: HENRY KISSINGER Il doppio paradosso della globalizzazione  (Letto 5628 volte)
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« inserito:: Giugno 02, 2008, 05:19:26 pm »

2/6/2008
 
Il doppio paradosso della globalizzazione
 
 
 
 
HENRY KISSINGER
 
Per la prima volta nella storia è apparso un sistema economico davvero globale, con prospettive di benessere finora inimmaginabili. Allo stesso tempo - paradossalmente - il processo di globalizzazione provoca un nazionalismo che minaccia la sua realizzazione completa. La premessa di base della globalizzazione è che la competizione selezionerà i più efficienti, un processo che, per definizione, implica vincitori e vinti. Il perdente andrà a cercare sollievo nelle istituzioni politiche che gli sono familiari e non si placherà certo apprendendo che i benefici della crescita globale superano di gran lunga i costi. In più, per restare competitivi, molti Paesi sono obbligati a ridurre la legislazione sociale - un compito destinato a generare proteste interne. In periodi di difficoltà economiche, queste tendenze vengono amplificate.

Nei Paesi industrializzati, la globalizzazione ha un doppio impatto sulla politica interna: il paradosso che il benessere creato dalla maggior produttività si accompagna a un aumento della disoccupazione e la fuga dai lavori più umili, che vengono svolti da lavoratori stranieri. Risultato: uno scontro di culture e un nazionalismo che fa da zoccolo al protezionismo. Questa tendenza si manifesta anche all’interno dei settori produttivi del mondo industrializzato.

Le imprese transnazionali, connesse tra loro via Internet, operano sul mercato globale servendosi di staff che spesso hanno più durata e meno restrizioni di quelli al servizio dei governi. Le imprese che dipendono dall’economia nazionale generalmente non hanno le stesse opportunità. Nel complesso, impiegano la forza lavoro con le paghe più basse e le prospettive più magre. Tendono ad affidarsi a mercati più limitati e a processi politici nazionali. Le società transnazionali chiedono libertà di commercio e di movimento dei capitali; le società nazionali (e i sindacati) spingono per il protezionismo.

Le crisi economiche ovviamente amplificano queste tendenze. E il sistema finanziario globalizzato ha prodotto crisi periodiche prevedibili quasi quanto i picchi di crescita: in America Latina negli anni 80, in Messico nel 1984, in Asia nel 1997, in Russia nel 1998, negli Stati Uniti nel 2001 e di nuovo a partire dal 2007. Ogni crisi ha avuto una sua causa scatenante peculiare, ma tutte hanno due tratti comuni: una speculazione sregolata e una sottostima sistematica del rischio.

A ogni decennio il ruolo del capitale speculativo è aumentato. L’agilità è il suo attributo essenziale: buttandosi quando vede un’opportunità e cercando un’uscita al primo segno di guai, il capitale speculativo ha spesso trasformato una ripresa in una bolla e cicli bassi in crisi.

L’impatto strategico della globalizzazione solleva due temi importanti: ci sono industrie indispensabili per la sicurezza nazionale, nelle quali gli investimenti stranieri dovrebbero essere limitati o addirittura vietati? Quali industrie devono essere salvate dal fallimento per salvare la capacità difensiva della nazione? Il sistema internazionale si trova in una condizione paradossale. La sua prosperità dipende dal successo della globalizzazione, ma questo processo produce una dialettica che può lavorare in senso contrario alla sua aspirazione. I manager della globalizzazione hanno poche occasioni per gestire i suoi processi politici. I manager dei processi politici hanno moventi non necessariamente coerenti con quelli dei manager economici. Questo gap va eliminato o almeno ridotto. Come spunto di riflessione offro queste proposte: Il primo imperativo è riconoscere che questi problemi sono il piccolo risvolto negativo di un grande successo e che il dibattito non dovrebbero degenerare in attacco alla sua cornice concettuale. I leader politici devono evitare - non incoraggiare - il protezionismo, che ha portato al disastro degli anni 30.

I parametri dei limiti che la sicurezza nazionale deve porre alla globalizzazione dovrebbero essere stabiliti su base nazionale anziché essere lasciati a gruppi di pressione, lobbisti e politici in campagna elettorale. E si dovrebbe decidere in base a che cosa è essenziale per la sicurezza nazionale, non in base alla volontà di proteggere le imprese dalla competizione globale.

Le istituzioni economiche mondiali devono essere all’altezza delle sfide attuali, economiche e sociali. L’annuale G8 nacque nel 1975 come incontro informale delle sei democrazie industrializzate per pianificare il loro futuro economico e sociale durante la prima crisi energetica (il Canada venne aggiunto nel 1976, la Russia nel 1998). Al primo incontro, a Rambouillet, per facilitare una discussione franca e completa ogni Paese poteva portare tre sole persone e un membro dello staff. Da allora gli incontri sono degenerati in ampie assemblee che hanno soltanto funzioni politiche. Il G8 dovrebbe tornare al suo scopo originario, dedicandosi soprattutto ai temi che riguardano la salute a lungo termine dell’economia globale, compreso il recupero delle società lasciate indietro nella corsa alla crescita globale. In quel processo andrebbero coinvolte India, Cina e potenzialmente Brasile. Il gruppo originario delle sette democrazie industrializzate continua a incontrarsi durante i G8 a livello di ministri delle Finanze. Questo G7 andrebbe incaricato soprattutto di affrontare in modo sistematico le distorsioni interne e sociali causate dal processo di globalizzazione.

Il Fondo Monetario Internazionale, così com’è oggi, è un anacronismo. Era stato creato per affrontare le crisi derivate dai prestiti ai o dai governi. Ha cercato di adattarsi alle nuove circostanze ma troppo lentamente. Va riformato.

I prestiti che hanno prodotto la crisi economica negli Usa richiedono attenzione urgente e maggiore collaborazione internazionale. Sperperi e pratiche oscurantiste erano evidenti assai prima che la crisi esplodesse. Sono state possibili per l’invenzione di strumenti finanziari che hanno incoraggiato la speculazione e nascosto la natura degli obblighi. C’è una contraddizione interna quando a organi finanziari viene permesso di mietere profitti straordinari e gestire risorse enormi e poi, quando le condizioni cambiano, vengono dichiarati troppo grandi per essere lasciati fallire e i contribuenti devono pagarne il salvataggio. Le istituzioni finanziarie, siano banche d’investimento o hedge fund, richiedono una supervisione che protegga gli interessi dei contribuenti.

Riassumendo: se il gap tra l’ordine mondiale economico e quello politico non viene sostanzialmente ridotto, le due strutture finiranno con l’indebolirsi reciprocamente

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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 06, 2008, 09:59:01 am »

6/12/2008
 
La squadra di Barack, capitano coraggioso
 

HENRY KISSINGER

 
Il presidente eletto Barack Obama ha nominato una straordinaria squadra di politica estera.

In apparenza essa viola alcune regole basilari della prudenza.


Ovvero: nominare persone di forte individualità, e difficili da licenziare, limita il controllo presidenziale; scegliere un Consigliere per la sicurezza, un segretario di Stato e un segretario alla Difesa con visioni politiche precise può generare dispute e contrapposizioni che alla fine assorbono troppe energie. Obama ha dimostrato coraggio e fiducia in se stesso con queste nomine. Qualità essenziali per la sfida che gli si apre davanti: mettere ordine in un sistema internazionale frammentato. Date le circostanze ignorare le regole convenzionali è segno di forza creativa. Obama e Hillary Clinton devono essere arrivati alla conclusione che il loro incarico al servizio del bene pubblico e degli Stati Uniti richiede che collaborino.

Chi prende alla lettera il termine «squadra di rivali» non comprende l’essenza della relazione tra il presidente e il segretario di Stato. Io non conosco eccezioni al principio che i segretari di Stato possono essere influenti solo se sono e appaiono come estensioni del presidente, altrimenti quest’ultimo rischia di essere indebolito e il segretario emarginato.

Una politica estera efficace richiede che il presidente e il segretario di Stato abbiano una stessa visione strategica dell’ordine internazionale. Come Obama ha sottolineato, nessuna delle persone coinvolte avrebbe potuto accettare questo nuovo genere di relazione se non fosse arrivato alle stesse conclusioni. Il Foreign Service negli Stati Uniti è uno strumento incomparabile garantito da gente che vi ha speso la vita. Come ogni unità di élite non rifugge da un certo spirito di corpo. I pareri degli «estranei» non sono sempre presi abbastanza sul serio, per lo più partendo dal presupposto che non sarebbero mai stati ammessi nei suoi ranghi. I segretari di Stato sono regolarmente frustrati dalle complesse regole interne e i presidenti nelle loro memorie ne hanno spesso lamentato la lentezza delle reazioni.

Nell’andamento quotidiano il Dipartimento di Stato è in effetti una grande macchina di trasmissione dati che deve rispondere di migliaia di rapporti provenienti da tutto il mondo. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di interazioni immediate, senza alcun filtro istituzionale. Passando per i vari assistenti, solo una piccola percentuale di queste comunicazioni raggiunge il Segretario e un numero ancora minore arriva fino alla Casa Bianca.

Ora, nessuno può dubitare della capacità del segretario di Stato designato di rompere i soliti schemi o della sua formidabile efficacia nella negoziazione. Le sfide che l’aspettano sono imprimere una direzione strategica al Dipartimento e riorganizzarlo in modo da ottimizzare le sue straordinarie capacità di documentazione. Al consigliere nazionale per la Sicurezza spetta il compito di sorvegliare il processo. E’ istituzionalmente indispensabile benché trattato con qualche riserva dai dipartimenti tradizionali. Il punto di vista comune in base al quale il consigliere per la Sicurezza non dovrebbe frapporsi fra il presidente e i membri dei dicasteri vale fino a quando si parla di rapporti personali. Ma non può estendersi alla pianificazione o alla supervisione sull’esecuzione dei disegni di carattere generale.

L’incarico del consigliere per la Sicurezza così com’è oggi emerse nel 1961 durante l’amministrazione Kennedy perché nessuna squadra di carattere puramente amministrativo avrebbe potuto gestire i flussi informativi alla Casa Bianca. Le informazioni devono essere organizzate secondo un ordine definito, altrimenti il presidente perderebbe troppo tempo a dirimere le dispute interne. In realtà quando il consigliere per la Sicurezza è debole il tasso di litigiosità tra i dipartimenti s’intensifica.

Nessuno ha mai nominato un consigliere per la Sicurezza con l’esperienza di comando del generale James Jones, che è stato a capo della Nato e dei Marine. In teoria il compito del consigliere per la Sicurezza è assicurarsi che nessuna politica fallisca per ragioni che avrebbero dovuto essere previste e che nessuna opportunità sia mancata per scarsa lungimiranza. Suo compito è vigilare affinché al presidente siano riferite tutte le opzioni di rilievo e quindi controllare che l’esecuzione degli ordini rifletta lo spirito originario della decisione.

La conferma di Robert Gates come segretario alla Difesa è un importante elemento di equilibrio. Solo, fra quelli che detengono ruoli chiave, è alla fine invece che all’inizio del suo mandato politico. Avendo accettato di rimanere in un momento di transizione non è interessato ai giochi di ruolo che accompagnano la nascita di ogni nuova amministrazione. Obama deve averlo scelto nella consapevolezza che non abdicherà alle sue precedenti convinzioni. A lui spetta di compiere il difficile passaggio da un’amministrazione all’altra: un tributo alla natura bipartisan nello svolgimento del suo compito durante il governo Bush. E’ il garante della continuità ma anche l’apripista per la necessaria innovazione.

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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 12, 2009, 05:31:59 pm »

12/1/2009
 
Solo Kennedy suscitò tante aspettative
 
HENRY A. KISSINGER
 

Mentre la nuova amministrazione americana si prepara a insediarsi, nel mezzo di una gravissima crisi finanziaria e internazionale, potrebbe apparire contraddittorio azzardare l’ipotesi che proprio la natura estremamente instabile del sistema internazionale apra un’opportunità unica per una diplomazia creativa. Questa opportunità nasconde un’apparente contraddizione. Su un piano, il collasso finanziario rappresenta un duro colpo alla posizione degli Stati Uniti. Mentre le decisioni politiche dell’America si sono spesso dimostrate controverse, le ricette americane per un ordine mondiale finanziario di regola non sono mai state contestate. Oggi, invece, la delusione per la gestione statunitense è molto diffusa.

La portata della débâcle rende impossibile per il resto del mondo rifugiarsi dietro il predominio americano. Ogni Paese dovrà dare il proprio contributo al superamento della crisi. Ciascuno cercherà di rendersi indipendente dalle condizioni che hanno prodotto il collasso. Ma allo stesso tempo ciascuno sarà obbligato ad affrontare la realtà, e cioè che i dilemmi prodotti dalla crisi possono essere risolti solo da un’azione congiunta. Perfino i Paesi più ricchi dovranno affrontare una scarsità di risorse. Ciascuno dovrà dare una nuova definizione delle proprie priorità. Ne verrà fuori un ordine internazionale solo se si arriverà a un sistema di priorità compatibili. Altrimenti, l’ordine internazionale andrà in pezzi, provocando un disastro.

Alla fine il sistema, sia politico sia economico, può venire armonizzato solo in due modi: creando un sistema internazionale di regolazione politica con la stessa portata di quello economico, oppure riducendo le entità economiche a un livello gestibile dalle strutture politiche esistenti, strada che probabilmente porterebbe a un nuovo mercantilismo, forse a livello di associazioni regionali. Un nuovo accordo globale sul modello di Bretton Woods sarebbe di gran lunga preferibile come soluzione.

Il ruolo dell’America in questa impresa sarà decisivo. Paradossalmente, l’influenza americana sarà molto grande rispetto alla modestia della sua condotta. Dobbiamo modificare il nostro atteggiamento da gente che è sempre nel giusto, che ha caratterizzato troppi comportamenti americani, soprattutto dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Quel fatto cruciale e il successivo periodo di quasi ininterrotta crescita globale ha indotto troppe persone a equiparare l’ordine globale con l’accettazione dei progetti americani, incluse anche le nostre scelte di politica interna. Il risultato è stato un certo unilateralismo - lamentato regolarmente dai critici europei -, oppure, detto altrimenti, l’istituzione di una sorta di competizione in cui le nazioni venivano invitate a dimostrare di essere all’altezza dell’adesione al sistema internazionale conformandosi alle ricette americane.

Mai dai tempi dell’insediamento di John F. Kennedy mezzo secolo fa si è vista una nuova amministrazione che arrivasse con un tale bagaglio di aspettative. È una situazione senza precedenti in cui tutti i protagonisti della scena internazionale riconoscono il desiderio di affrontare i cambiamenti imposti dalla crisi globale in collaborazione con gli Usa. Lo straordinario impatto del presidente eletto sull’immaginario dell’umanità è un elemento importante nella definizione del nuovo ordine mondiale. Ma esso apre un’opportunità, non delinea una politica. La sfida finale consiste nel trasformare le preoccupazioni comuni della maggioranza dei Paesi (e di tutti i Paesi maggiori) riguardo alla crisi economica, insieme a una paura condivisa del terrorismo jihadista, in una strategia congiunta rafforzata dalla consapevolezza che dossier come la non proliferazione, l’energia e il cambiamento climatico non concedono soluzioni nazionali o regionali.

La nuova amministrazione non può commettere errore peggiore di quello di adagiarsi sulla propria popolarità iniziale. L’atteggiamento cooperativo del momento deve venire incanalato in una grande strategia che vada oltre le controversie del passato recente. La carica di unilateralismo americano aveva un qualche fondamento, ma è diventata anche un’alibi per la differenza chiave tra l’America e l’Europa: gli Usa si comportano ancora come uno Stato nazionale in grado di chiedere ai propri cittadini sacrifici in nome del futuro, mentre l’Europa, sospesa tra l’abbandono degli assetti nazionali e un nuovo sistema politico ancora da definire, trova molto più difficile rinunciare ai propri benefici, preferendo quindi un «potere morbido». La maggior parte delle controversie tra le due sponde dell’Atlantico sono state di sostanza, e solo in misura minore di carattere procedurale: si sarebbero manifestate indipendentemente dall’intensità delle consultazioni. Il partenariato atlantico poggerà in gran parte su politiche condivise, piuttosto che su procedure concordate.

Anche il ruolo della Cina nel nuovo ordine mondiale è cruciale. Una relazione che, da entrambe le parti, è iniziata essenzialmente come un piano strategico per mettere in difficoltà un avversario comune, si è evoluta nei decenni fino a diventare un pilastro del sistema internazionale. La Cina ha reso possibile l’esplosione dei consumi americani comprando il debito Usa: l’America ha aiutato la modernizzazione e le riforme dell’economia cinese aprendo il suo mercato ai beni prodotti da Pechino.

Entrambe le parti sopravvalutano la durevolezza di questa intesa. Ma fino a che è durata, essa ha alimentato una crescita globale senza precedenti, mitigando anche le preoccupazioni sul ruolo della Cina una volta che sarebbe emersa in piena forza come superpotenza. Un’ostilità tra questi due pilastri del sistema internazionale distruggerebbe più di quando conquisterebbe, senza alla fine portare benefici a nessuno. Questa consapevolezza va preservata e rinforzata. Ognuna delle due sponde del Pacifico necessita della cooperazione dell’altra per affrontare le conseguenze della crisi finanziaria. Ora che il collasso finanziario internazionale ha devastato il mercato delle esportazioni cinesi, Pechino sta incentivando lo sviluppo delle infrastrutture e i consumi domestici. Non sarà facile cambiare rapidamente direzione, e il tasso di crescita cinese può flettere provvisoriamente sotto il 7,5% che gli esperti cinesi hanno sempre indicato come la soglia oltre la quale si rischia la stabilità politica. L’America ha bisogno della collaborazione cinese per rimediare al proprio squilibrio della bilancia dei pagamenti, e impedire che il suo deficit deflagrante inneschi un’inflazione devastante.

Il modello di ordine economico mondiale che emergerà in futuro dipende in gran parte dall’intesa che la Cina e l’America elaboreranno nei prossimi anni. Una Cina frustrata potrebbe farsi tentare dalla costruzione di una struttura asiatica esclusivamente regionale, il cui nucleo esiste già nella costruzione dell’Asean+3, l’Associazione dei Paesi del Sud-Est asiatico più Cina, Giappone e Corea del Sud. Nello stesso tempo, se in America aumenta il protezionismo o se si comincia a vedere la Cina come un avversario a lungo termine, una profezia che si autoinvera potrebbe oscurare le prospettive di un ordine globale. Un simile ritorno al mercantilismo e alla diplomazia dell’800 spaccherebbe il mondo in entità regionali in competizione, con conseguenze pericolose per il futuro.

Le relazioni sino-americane devono essere portate a un nuovo livello. L’attuale crisi può venire superata soltanto sviluppando il senso degli obiettivi condivisi. Dossier come la non proliferazione delle armi di distruzione di massa, l’energia e l’ambiente richiedono legami politici più stretti tra Cina e Usa. L’attuale generazione di leader ha l’opportunità di trasformare le relazioni transpacifiche in un disegno di destino comune, come avvenne per le relazioni transatlantiche nel dopoguerra, con l’unica differenza che le sfide di oggi sono più politiche ed economiche che militari.

Questa visione deve includere anche Paesi come il Giappone, la Corea, l’India, l’Indonesia, l’Australia e la Nuova Zelanda, o come parti integranti delle strutture transpacifiche, oppure attraverso accordi regionali su argomenti specifici come l’energia, la non proliferazione e l’ambiente.

La complessità del mondo emergente richiede dall’America un approccio più storico dell’insistenza che ogni problema ha una soluzione finale esprimibile in programmi con limiti temporali spesso vincolati ai processi politici interni. Dobbiamo imparare a operare nei limiti del possibile, e prepararci a conseguire gli obiettivi finali attraverso una serie di sfumature. Un ordine internazionale diventa permanente solo se i suoi partecipanti ne hanno condiviso non solo la costruzione, ma anche la difesa. In questo modo, l’America e i suoi partner potenziali avranno un’opportunità unica di trasformare un momento di crisi in una finestra di speranza.


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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 27, 2009, 10:15:44 am »

27/2/2009
 
A Kabul i timidi perdono
 
HENRY KISSINGER
 

Nelle prime settimane del proprio mandato, la nuova amministrazione americana ha preso due importanti decisioni riguardo l’Afghanistan. Le forze combattenti americane sono aumentate del 50% ed è stato nominato un eminente ambasciatore come rappresentante del presidente, al quale è stata affidata la regione Afpak (il che comporta che Afghanistan e Pakistan vengono considerati come un’unica unità geopolitica).

Queste decisioni rispecchiano la dichiarazione del presidente Obama nel suo discorso sullo stato dell’Unione, cioè che «egli non consentirà ai terroristi di complottare contro il popolo americano da sicuri rifugi sparsi nel mondo». Il risultato, tuttavia, dipenderà dalla strategia con la quale affronteremo le inevitabili complessità.

La sfida principale islamica si è spostata verso l’area tribale pashtun nella regione montagnosa al confine fra Pakistan e Afghanistan, dove i terroristi rifugiati sul lato del confine del Pakistan si preparano e si addestrano all’assalto in Afghanistan. Nessuna guerriglia è mai stata vinta nei confronti dei santuari immuni agli attacchi.

L’amministrazione si trova pertanto ad affrontare questa situazione come un singolo problema. Tuttavia, il fatto è che i santuari esistono non tanto per proposito del governo pachistano quanto per la sua incapacità politica e militare di controllare il territorio lungo il confine afghano, che non è mai stato sotto l’amministrazione civile, persino durante il dominio britannico.

La posta in gioco va oltre il futuro dell’Afpak. La vittoria talebana in Afghanistan darebbe un enorme incoraggiamento al jihadismo a livello globale. Il Pakistan sarebbe minacciato dalla presa di controllo jihadista. L’India, con la popolazione musulmana al terzo posto per ordine di grandezza su scala mondiale, potrebbe trovarsi a fronteggiare un incremento del terrorismo, di cui sono esempio gli attacchi al Parlamento indiano nel dicembre 2001 e a Mumbai lo scorso novembre. Russia, Cina e persino l’Indonesia sono state bersaglio dell’islam jihadista. Il governo islamico sciita dell’Iran è un acerrimo nemico dei talebani sunniti che considerano gli iraniani degli eretici.

L’amministrazione Obama si trova di fronte a dilemmi familiari a molti dei suoi predecessori. Gli americani non possono ritirarsi ora, ma neppure possono sostenere la strategia che ci ha portati a questo punto. Finora l’America ha perseguito tattiche tradizionali anti-guerriglia: per creare un governo centrale le risulta utile estendere la propria autorità sull’intero Paese, dando origine al processo di formazione di una moderna società democratica.

Questa strategia non può riuscire in Afghanistan, soprattutto non come uno sforzo essenzialmente solitario. Il Paese è troppo vasto per questo, il territorio troppo impervio, la composizione etnica troppo varia, la popolazione troppo armata. Nessun conquistatore straniero è mai riuscito a occupare l’Afghanistan. La Gran Bretagna ha fallito due volte nel XIX secolo, perdendo in una sola volta letteralmente tutto il suo corpo di spedizione. L’Unione Sovietica ha inviato 100 mila soldati negli Anni 80 e ha abbandonato il territorio frustrata e vinta dopo nove anni inutili, anche se la sua ritirata è stata certamente accelerata dal sostanziale supporto americano e in parte cinese.

Anche i tentativi di stabilire un controllo afghano centralizzato hanno raramente avuto successo e non per lungo tempo. Gli afghani sembrano definire il loro Paese in termini di un comune impegno all’indipendenza, ma non di autogoverno unitario o centralizzato. Una volta liberi dalle forze straniere, i vari gruppi etnici e regionali riprenderebbero le proprie autonomie, sottomettendosi solo con riluttanza a un’autorità centrale e unicamente in modo limitato. Quando, nel 2002, l’allora nuovo presidente afghano Hamid Karzai ha convocato una loya jirga, una specie di assemblea costituzionale, i capitribù regionali hanno manifestato resistenza al governo centrale che la loya jirga aveva contribuito a creare. Molte difficoltà di Karzai sono strutturali. Mi inquieta la dissociazione ostentata da un leader nel mezzo di una guerra civile e di uno che ha ricevuto il nostro aiuto per assumere la carica. Senza una sostituzione ovvia, le nostre precedenti imprese di questo tipo si sono solitamente rivelate controproducenti.

La verità lapalissiana che la guerra, in effetti, è una battaglia per i cuori e le menti della popolazione afghana è concettualmente abbastanza valida. Il basso standard di vita di gran parte della popolazione è stato esacerbato da trent’anni di guerra civile. L’economia è sulla soglia di trovare un sostegno nella vendita di narcotici. Non esiste una tradizione democratica significativa. La riforma è una necessità morale, ma la scala cronologica della riforma è sfalsata dagli imperativi dell’anti-guerriglia urbana. Ci vorranno decenni e dovrebbe essere conseguente e perfino parallela al conseguimento della sicurezza, ma non può esserne il presupposto. L’impegno militare si svilupperà inevitabilmente a un ritmo diverso dall’evoluzione politica del Paese, ma quello che possiamo fare immediatamente è di garantire che i nostri sforzi di aiuto, ora diffusi e inefficienti, siano coerenti e pertinenti alle esigenze della popolazione. Inoltre, andrebbe attribuita maggior importanza alle entità locali e regionali.

La strategia militare dovrebbe incentrarsi sulla prevenzione dell’emergenza di uno Stato contiguo, all’interno di uno Stato di jihadisti. In pratica, questo significa il controllo di Kabul e della regione dei pashtun. Un’area base jihadista su entrambi i lati del confine Afghanistan-Pakistan potrebbe diventare una minaccia permanente per le speranze di un’evoluzione moderata e per tutti gli Stati confinanti con l’Afghanistan. Il generale David Petraeus ha sostenuto che, con il rinforzo delle truppe americane da lui raccomandato, sarebbe in grado di controllare il 10% del territorio afghano dove, secondo lui, ha origine l’80% delle minacce militari. Questa è una regione dove è particolarmente applicabile la chiara strategia di «resistere e costruire» che ha avuto successo in Iraq.

Nel resto del Paese, la nostra strategia militare dovrebbe essere più fluida, tesa a prevenire l’emergenza di qualsiasi punto forte terrorista. Dovrebbe basarsi su una stretta cooperazione con i capi locali e sul coordinamento con le loro milizie, addestrate dalle truppe statunitensi, cioè il tipo di strategia che ha riscosso grande successo nella provincia di Anbar, la roccaforte sunnita in Iraq.

Questa è una strategia plausibile, sebbene sembra improbabile che 17 mila rinforzi siano sufficienti. In definitiva, la questione fondamentale non è tanto come sarà condotta la guerra, ma come si concluderà. L’Afghanistan è quasi l’archetipo del problema internazionale che richiede una soluzione multilaterale per la creazione di una struttura politica. Nel XIX secolo, la neutralità formale è stata talvolta negoziata per imporre una battuta d’arresto degli interventi nei e dai Paesi in posizione strategica. Questo non è sempre stato valido, ma ha fornito una struttura per disinnescare relazioni internazionali quotidiane. (La neutralità belga, per esempio, non è stata toccata per quasi 100 anni). È possibile inventare una soluzione equivalente moderna?

In Afghanistan, un risultato analogo è acquisibile solo se i principali vicini dell’Afghanistan concorderanno una politica di freno e opposizione al terrorismo. La loro recente condotta sembrerebbe contro queste prospettive. Tuttavia, la storia dovrebbe insegnare loro che gli sforzi unilaterali tesi al predominio hanno la probabilità di fallire di fronte all’intervento compensativo di altri attori esterni. Per sondare questo tipo di visione, gli Stati Uniti dovrebbero proporre un gruppo di lavoro composto dai Paesi confinanti con l’Afghanistan, l’India e i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Questo gruppo dovrebbe avere il ruolo di assistere la ricostruzione e la riforma dell’Afghanistan e di stabilire principi per lo stato internazionale del Paese e gli obblighi per contrastare le attività terroristiche. Nel tempo gli sforzi unilaterali dell’America potranno convergere con quelli diplomatici di questo gruppo. Quando la strategia prevista dal generale Petraeus avrà successo, le prospettive di una soluzione politica che segua queste linee cresceranno in modo corrispondente. Il presupposto di questa politica è la cooperazione con Russia e Pakistan. Per quanto riguarda la Russia, è necessaria una chiara definizione delle priorità, soprattutto una scelta tra partnership o comportamento ostile, per quanto ci riguarda.

La condotta del Pakistan sarà fondamentale. I leader pachistani devono affrontare il fatto che la continua tolleranza dei santuari, o la costante impotenza nei loro confronti, finiranno per attirare il loro Paese ancora più profondamente in un vortice internazionale. Se i jihadisti riuscissero a prevalere, il Pakistan rappresenterebbe sicuramente il loro prossimo obiettivo, come già si può vedere lungo i confini esistenti e persino nella valle dello Swat vicino a Islamabad. Se ciò dovesse accadere, i Paesi interessati dovrebbero iniziare a consultarsi fra loro riguardo le implicazioni che comporterebbe l'arsenale nucleare di un Pakistan a livello di essere sommersi o persino minacciati dai jihadisti. Come ogni Paese impegnato in Afghanistan, il Pakistan deve prendere decisioni che influiranno sulla sua posizione internazionale per decenni.

Altri Paesi si trovano ad affrontare scelte analoghe, specie i nostri alleati Nato. Simbolicamente la partecipazione dei partner Nato è significativa. Ma salvo alcune notevoli eccezioni, il supporto della popolazione per operazioni militari è trascurabile in quasi tutti i Paesi Nato. Ovviamente è possibile che la popolarità di Obama in Europa possa modificare questi atteggiamento, ma con tutta probabilità solo in misura molto limitata. Il Presidente dovrà allora decidere fino a che punto potrà farsi carico delle inevitabili differenze e affrontare la realtà che i disaccordi riguardano questioni fondamentali del futuro e del raggio d'azione della Nato. Una migliore consultazione faciliterà il processo. È probabile tuttavia che le differenze da risolvere non siano di tipo procedurale. Potremmo quindi concludere che un maggior contributo Nato alla ricostruzione dell’Afghanistan è più utile di un marginale sforzo militare ottenuto con intimidazioni. Ma se la Nato si rivela in questo modo un’alleanza «à la carte», si costruisce un precedente che può inserirsi in entrambi i modi. Coloro che auspicano una ritirata americana con la loro indifferenza o titubanza eludono la prospettiva che questo sarà il preludio a una lunga serie di crisi frequenti e gravi.

Il nuovo gruppo per l’Afghanistan affronta scelte temibili. Qualsiasi strategia scelgano deve essere perseguita con determinazione. Non è possibile evitare l’insuccesso con un atteggiamento esitante.

(c) 2009 TRIBUNE MEDIA SERVICES, INC. traduzione a cura del Gruppo LOGOS
 
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 02, 2009, 03:49:51 pm »

ECONOMIA     

Parla l'amico americano del Lingotto, dall'Avvocato a Marchionne

Due case molto diverse ma proprio per questo complementari

Kissinger: "Tra Fiat e Chrysler le nozze ideali per battere la crisi"

Giusta la linea dura di Obama con i vertici delle aziende Usa


di EUGENIO OCCORSIO
 

ROMA - "Quello fra Fiat e Chrysler è un ottimo matrimonio, una perfetta alleanza fra due case molto diverse come prodotto e mercati, ma proprio per questo assai complementari. E questo l'ho detto anche a Sergio Marchionne quando siamo andati l'altra sera a cena". Ma le ha chiesto una consulenza? "Oh no, niente di formale. Mi sono limitato a dirgli quanto sia importante per tutte e due le aziende questa joint-venture". Henry Kissinger, che quand'era consigliere per la sicurezza nazionale (dal 1968 al '75) e Segretario di Stato (1973-77) era uno degli uomini più potenti del mondo, è tuttora, a 85 anni, un ascoltatissimo esperto di politica estera. Ma anche, a suo modo, un esperto di auto e in particolare di Fiat, per il semplice fatto che per lui Giovanni Agnelli era "il miglior amico che abbia mai avuto: per trent'anni - ci dice lo stesso Kissinger al telefono dal suo ufficio di New York - ci siamo sentiti due-tre volte a settimana, e ci siamo incontrati spessissimo in qualche parte del mondo". Insieme dalla Trilateral alle partite della Juventus, dai concerti di Pavarotti al Metropolitan fino al consiglio d'amministrazione della Fiat di cui Kissinger è stato a lungo consulente. Mai uno screzio, o un gesto che indicasse meno di un grande rispetto reciproco. E lacrime sincere al funerale dell'avvocato nel gennaio 2003.

Insomma quello fra Fiat e Chrysler è un buon accordo?
"Direi proprio di sì. Quanto di meglio le due aziende si potessero augurare per risolvere la situazione attuale che è terribile".

Chi può dirsi più fortunata, la Fiat o la Chrysler?
"Entrambe. La Fiat ha fatto un eccezionale lavoro di risanamento, che ha colpito moltissimo tutti qui in America. Guardi, questa potrebbe essere la mossa giusta per dare una svolta alla crisi, almeno quella industriale, e dare una scossa di ottimismo all'intero settore. Mi creda, l'avvocato Agnelli sarebbe felicissimo di vedere com'è andata a finire. Era un suo grande rimpianto che la Fiat non avesse sfondato sul mercato americano, e non riuscisse ad entrarci. Ricordo quando riflettevamo insieme su quanto erano diverse le macchine americane da quelle italiane, e più e più volte ci siamo messi insieme a pensare a come sarebbe stato possibile architettare un ritorno, ma purtroppo non c'è mai stato il momento adatto".

Ora questo momento sembra arrivato, proprio al fondo della crisi più spaventosa. Ma Obama ha fatto bene ad assumere un atteggiamento così duro verso i dirigenti di Gm e Chrysler?
"Certo. Non perché volesse accanirsi contro di loro, né perché volesse addossargli tutte le colpe, ma perché qui si tratta di elargire miliardi di dollari pubblici, e in questa situazione l'amministrazione non può permettersi di sprecare nemmeno un centesimo. Né su questo né su tutti gli altri fronti su cui è impegnata. L'auto è un settore troppo cruciale, per l'America e per il mondo, e il momento è davvero difficilissimo per tutti".

Gli azionisti della Fiat, memori della volontà dell'avvocato, tengono più di ogni altra cosa all'identità dell'azienda. Pensa che la Fiat manterrà la sua indipendenza?
"Naturalmente. La Fiat non ha perso la sua indipendenza, così come non l'ha persa la Chrysler. La Fiat era la cosa più importante della vita di Agnelli, me l'ha ripetuto decine di volte. La Fiat e, direi, l'arte: Gianni voleva "educarmi" all'Italia, farmela apprezzare fino in fondo, e così in sua compagnia ho visitato Siena, Venezia, Firenze, ma soprattutto Napoli, la città di sua moglie, ricca di musei, vestigia, citazioni. Amava Napoli, la trovava eccitante e stimolante. E io mi divertivo moltissimo ad andarci in sua compagnia".

Ricorda quand'è stata la prima volta che vi siete incontrati?
"Fu al Quirinale, durante un ricevimento di Stato all'inizio degli anni '70. Io ero venuto in Italia insieme al presidente Nixon. Da allora siamo rimasti sempre in contatto. Ci vedevamo nelle sue case in Italia e a New York, andavamo in vacanza insieme a St. Moritz e Aspen. Parlavamo anche di politica, ovviamente, e lui mi diceva spesso che invidiava il pragmatismo dei dirigenti americani. Ma non mi ha mai detto che voleva trasferirsi in America: amava il vostro paese, e Torino prima di tutto".

Nel 2002 in un discorso tenuto al Senato di Roma lei disse: venni nel vostro paese per la prima volta nel 1946 e se qualcuno mi avesse detto allora che l'Italia sarebbe diventata così sviluppata, avrei pensato che scherzasse. Ripeterebbe oggi le stesse parole?
"Sì, e con grande convinzione. L'Italia ha raggiunto traguardi straordinari, e non c'è nessun motivo perché non debba restare all'altezza. La crisi attuale riguarda tutto il mondo, e l'Italia è attrezzata alla pari dei migliori paesi per superarla".

(2 aprile 2009)
da repubblica.it
« Ultima modifica: Aprile 21, 2009, 03:14:39 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 20, 2009, 04:42:40 pm »

20/4/2009
 
La sfida diplomatica di Obama
 
HENRY A. KISSINGER
 
Il primo viaggio intercontinentale di un nuovo presidente americano assume sempre un significato che va al di là dell’itinerario. Per il presidente è l’occasione per saggiare l’impatto della propria politica, per i suoi interlocutori l’opportunità di conoscere il leader col quale dovranno trattare nei prossimi quattro anni.

Obama ha approfittato della circostanza per tracciare il suo approccio personale alla politica estera: multilateralismo, una reiterata presa di distanza pubblica dal suo predecessore, negoziati ad ampio spettro su più fronti, enfasi sulla costruzione di relazioni personali con i suoi interlocutori. Mai dalla visita di John Kennedy in Europa nel 1961 un presidente americano ha conquistato tali manifestazioni di sostegno.

La sfida di Obama consiste ora nell’articolare le sue iniziative ad ampio respiro in una strategia di politica estera coerente. Per lanciare negoziati su una tale varietà di dossier ci vuole coraggio. Alcune iniziative, come il dialogo strategico con la Cina, sono dibattiti già in corso ma elevati a un livello più alto. Altre, come il negoziato sul controllo delle armi con la Russia, sono rimaste in letargo per più di un decennio.

L’apertura all’Iran non ha precedenti. I negoziati mediorientali hanno una lunga storia di iniziative fresche sconfitte da difficoltà sempre nuove. Ciascuno di questi negoziati ha una componente politica, ma anche strategica. Ciascuno rischia di incontrare ostacoli che oscureranno gli obiettivi finali, o di lasciar seppellire la sostanza dalla tattica. Tutti sono strettamente legati. Il dialogo sul controllo delle armi con la Russia influirà sul ruolo di Mosca nella non-proliferazione iraniana. Il dialogo strategico con la Cina aiuterà a dare forma al negoziato sulla Corea del Nord. Il negoziato con l’Iran verrà influenzato pesantemente dal progresso dell’Iraq verso la stabilità, altrimenti il vuoto che si verrebbe a creare potrebbe indurre in tentazione lo spirito d’avventura di Teheran.

L’ampia agenda dell’amministrazione Obama dovrà diventare un test della sua capacità di armonizzare gli interessi nazionali con problemi globali e multilaterali. Obama è entrato in carica in un momento di opportunità unica. La crisi economica assorbe le energie delle maggiori potenze, che nonostante i contrasti hanno tutte bisogno di una pausa nel confronto internazionale. Sfide soverchianti come il clima, l’ambiente e la proliferazione riguardano tutti, aprendo un’opportunità senza precedenti per soluzioni globali. Ma questa realtà deve venire trasferita in un concetto operativo di ordine mondiale. E questo dipende in larga misura dalle prospettive dell’amministrazione. Per ora il suo approccio sembra puntare verso una diplomazia concertata sul modello del dopo-1815, in cui gruppi di grandi potenze lavorano insieme per consolidare le norme internazionali. In questa visione la leadership americana deriva dalla disponibilità ad ascoltare e dalla capacità di ispirare. L’azione comune deriva da convinzioni condivise. Il potere emerge da un senso di comunione e non da azioni unilaterali, e viene esercitato attraverso una distribuzione di responsabilità in base alle risorse del Paese. È una sorta di ordine mondiale senza una potenza dominante, o dove essa si autovincola nella leadership.

La crisi economica favorisce questo approccio, anche se la storia conosce pochi esempi di una simile concertazione. Di solito i membri di un gruppo hanno una disponibilità diversa a correre rischi, e quindi a compiere sforzi in nome dell’ordine internazionale. Nel frattempo, l’amministrazione dovrà navigare tra due tipi di pressione dell’opinione pubblica caratteristici dell’America, e che cercano entrambi di bypassare il paziente dare e prendere della diplomazia tradizionale. Il primo riflette l’avversione a negoziare con società che non condividono i nostri valori e rifiuta il tentativo di alterare il comportamento dell’interlocutore attraverso un dialogo. In questa visione il compromesso è considerato appeasement e si cerca la conversione dell’avversario, o il suo rovesciamento. I critici di questo approccio - ora prevalenti - privilegiano invece la psicologia. Considerano l’apertura di un negoziato come atto di trasformazione, per loro i simboli e i gesti rappresentano la sostanza.

La diplomazia deve cercare di trasformare un vicolo cieco in oggetto di negoziato. Ma i cambiamenti di posizione devono essere dettati da obiettivi chiari piuttosto che da tecniche negoziali. Storicamente, gli Usa hanno la tendenza a iniziare un negoziato con gesti che rendono più fragili le circostanze stesse che l’hanno reso possibile. Nel 1951 in Corea hanno fermato l’offensiva all’inizio dei negoziati sull’armistizio. Nel 1968 in Vietnam hanno cessato di bombardare il Nord come prezzo per iniziare i colloqui. In entrambi i casi, il negoziato che ne è seguito è durato anni e il numero delle vittime è stato paragonabile a quello di una guerra su larga scala. Nel negoziato a sei sul programma nucleare nordcoreano, dopo che Pyongyang ha accettato in linea di principio di rinunciare al suo arsenale nucleare, abbiamo concesso la restituzione unilaterale di 25 milioni di dollari bloccati dal Tesoro americano a Macao. Questo passo ha dato ai coreani spazio di manovra per rinviare la discussione del problema a monte per un altro anno.

Forse l’illustrazione più lampante del rapporto tra ordine mondiale e diplomazia è la proliferazione. Se Corea del Nord e Iran riusciranno a dotarsi di arsenali nucleari nonostante il no di tutte le maggiori potenze dell’Onu e non solo, l’idea di un ordine omogeneo verrebbe seriamente colpita. Se Usa, Cina, Giappone, Corea del Sud e Russia non riescono a ottenere risultati, tutti insieme, con un Paese come la Corea del Nord, dall’influenza pressoché nulla sul commercio internazionale e privo di risorse che interessino a qualcuno, la frase «comunità mondiale» diventa un suono vuoto.

Ho sempre considerato il miglior modo di trattare quello di esporre una lista completa e onesta dei propri obiettivi finali. Il mercanteggiare tattico, attraverso una serie di concessioni minime, rischia di produrre incomprensioni sullo scopo finale. Prima o poi, gli argomenti fondamentali vanno comunque affrontati, soprattutto quando si tratta con un Paese come l’Iran, col quale non ci sono stati contatti per tre decenni.

Per contrasto, la questione della non-proliferazione è intrinsecamente multilaterale, e il prezzo del consenso trovato da Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia e ora pure dagli Usa è stato quello di lasciare irrisolti - o nemmeno affrontati - i problemi chiave, anche fattuali. Quanto è vicino l’Iran a produrre materiale arricchito a sufficienza per una testata nucleare? Quanto è vicino alla costruzione della testata per un missile? Fino a che punto gli ispettori internazionali riescono a controllare il limitato programma di arricchimento dichiarato pacifico? Mentre l’amministrazione cerca di convincere l’Iran a dialogare, deve anche energicamente cercare di risolvere questo dibattito sui fatti in corso tra i nostri partner. Se non ci sarà accordo su questi dossier, l’agognato negoziato finirà in uno stallo.

Quando riprenderanno i colloqui sulle armi con la Russia, il bisogno di definire una posizione negoziale con la strategia sottostante diventerà altrettanto acuto. Obama e Medvedev hanno deciso di estendere il trattato Start-1, che scade quest’anno, e di ridurre le testate dalle 2200 concordate da Bush e Putin nel 2001 nel trattato Sort. Il problema è che le regole del conteggio tra i due trattati sono diverse. Lo Start conta i missili in base alla loro capacità di potenziali testate, mentre il Sort calcola solo quelle effettivamente installate. In base allo Start, l’arsenale Usa supera le 5 mila testate, e per raggiungere anche solo il numero di 2200 bisognerebbe smantellare quasi tutte le testate multiple. A quel punto si porrebbe la domanda: è lecito immagazzinarle o devono venire distrutte? Prima che ricominci l’inevitabile gioco dei numeri che ricorda gli Anni 70, bisogna accelerare la verifica dei siti strategici per dare una base per la diplomazia.

L’amministrazione Obama ha lanciato il Paese in una importante impresa diplomatica. Ma ora deve aggiungere alla sua visione anche un piano diplomatico.


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« Risposta #6 inserito:: Giugno 23, 2009, 09:55:15 am »

22/6/2009
 
La sfida nordcoreana agli Usa minaccia per il Medio Oriente
 
HENRY KISSINGER
 

L’Amministrazione Obama finora ha trattato la sfida nordcoreana in modo sommesso, quasi sottotono. Ponendo l’enfasi sull’immutata fiducia nella diplomazia multilaterale, ha invitato Pyongyang a ritornare al tavolo delle trattative anche quando la Corea del Nord ha minacciato azioni militari e fatto test missilistici e nucleari, a dispetto del giudizio unanime dei maggiori poteri internazionali che trovano tali azioni «inaccettabili».

La sfida va ben oltre i temi della sicurezza nell’area. Il ritorno ai test nucleari da parte del Nord Corea rappresenta una brusca marcia indietro rispetto al processo negoziale che è andato avanti, solo con qualche interruzione, per quasi due decadi.

Dal 2004 gli incontri a sei a Pechino hanno incluso tutti i Paesi (Nord e Sud Corea, Cina, Russia, Giappone e Stati Uniti) direttamente minacciati dai missili e dagli ordigni nucleari nordcoreani. Per un po’ si era detto che trattative bilaterali tra Stati Uniti e Nord Corea sarebbero stati più efficaci. Quel dibattito ormai è accademia. Entrambi gli approcci sono stati tentati e hanno contribuito allo stato di cose ereditato dall’Amministrazione Obama.

Il forum a sei ha prodotto un accordo di cornice a febbraio 2007 in base al quale la Corea del Nord avrebbe abbandonato il suo programma nucleare in cambio di una serie di reciproci passi di riconoscimento e legittimazione. Gli sviluppi dell’accordo sono stati ampiamente negoziati fra Usa e Nord Corea nel cosiddetto forum bilaterale. C’è stato qualche progresso: ad esempio il congelamento dell’impianto di produzione del plutonio di Pyongyang, in cambio di concessioni politiche da parte dell’America come la cancellazione della Corea del Nord dalla lista degli Paesi fiancheggiatori del terrorismo. Gli Stati Uniti hanno dedicato così tanta attenzione a questi progressi da mettere quasi in crisi i rapporti con Giappone e Sud Corea, che hanno lamentato di essere state marginalizzate.

Io ho favorito i negoziati con Pyongyang e occasionalmente partecipato ai colloqui con funzionari coreani al di fuori dei canali ufficiali. Ma con la Corea del Nord che ha ripetutamente mandato all’aria tutti gli accordi, il processo alla fine ha perso coerenza. Gli sforzi sono sempre stati tesi a eliminare le scorte nordcoreane di materiale fissile e armi nucleari. Ma queste continuavano a crescere mentre i negoziati segnavano il passo. Il rischio ora è di legittimare il programma nucleare coreano di fronte al fatto compiuto.

Obama ha dato ogni mezzo alla Corea del Nord per accelerare i negoziati, ma queste aperture sono state respinte in modo vergognoso e Pyongyang ha usato il cambio ai vertici dell’Amministrazione Usa per accelerare i tempi. Bosworth è stato respinto durante una visita nell’area e rifiutando di tornare al tavolo delle trattative Pyongyang ha anche revocato tutte le concessioni precedenti. Ha fatto ripartire gli impianti e condotto un altro test nucleare. Molte spiegazioni sono state tentate per motivare questo comportamento, ad esempio la lotta interna per la successione al «caro leader» Kim Jong-il, anche se non è chiaro quali siano le fazioni in campo. Ma l’unico motivo parzialmente razionale è che i leader nordcoreani abbiano capito che, per quanto conciliatori possano essere i toni, il prossimo passo della diplomazia americana sarà chiedere la distruzione della potenzialità nucleare nordcoreana. E devono aver concluso che nessun riconoscimento politico potrebbe compensare l’abbandono dell’unico successo capace di giustificare l’oppressione e lo sfruttamento senza precedenti imposti alla popolazione. Possono aver pensato che un periodo di ostracismo sia il prezzo da pagare per emergere di fatto come una potenza nucleare.

Allora il punto non è più quale sede usare per i negoziati, ma piuttosto il loro fine ultimo. La precondizione minima per riesumare la trattativa dovrebbe essere il recupero di tutti gli accordi già raggiunti e cancellati. In particolare il congelamento dell’impianto di produzione del plutonio. Ma non basta.

Gli Stati Uniti devono riconoscere che non c’è più alcun gradino intermedio rispetto all’abbandono del programma nucleare da parte della Corea del Nord. E che ogni politica che non tenga conto di questo di fatto si rivela acquiescente alla sua continuazione. Un piano di marginali sanzioni aggiuntive, seguito da un altro tira-e-molla, avrebbe questo come conseguenza.

La sfida nordcoreana pone questa amministrazione di fronte a due opzioni:

a) accettare tacitamente o apertamente che il programma nucleare nordcoreano è oltre il punto di non ritorno e intercettare e proibire ogni attività di proliferazione oltreconfine;

b) cercare di fermarlo con un aumento significativo della pressione, il che richiede la partecipazione attiva dei Paesi confinanti e in particolare della Cina.

La prima eventualità farebbe perdere la faccia agli Usa e minerebbe ogni negoziato con l’Iran. Se i metodi nordcoreani diventano un modello, per il Medio Oriente sarà il caos. Inoltre occorrerebbe ridisegnare la strategia di deterrenza americana dando più spazio alla difesa missilistica e adattandola a un mondo di molteplici potenze nucleari, una minaccia nuova e senza precedenti.

Nessuna soluzione a lungo termine del problema è sostenibile senza i Paesi chiave dell’Asia del Nord-Est e questo significa Cina, Sud Corea, Stati Uniti e Giappone, senza dimenticare la Russia. Fin qui ci si è troppo concentrati sul deus ex machina delle pressioni cinesi e sul fatto che Pechino non abbia usato tutte le sue possibilità di persuasione. Ma per la Cina si tratta anche di fare i conti con le conseguenze della sua mediazione. Se il regime di Pyongyang sarà destabilizzato, questo potrebbe mettere in crisi l’intera regione. E la Cina deve affrontare sfide ancora più complesse di quelle americane. Se si mantiene l’attuale scenario, la proliferazione nucleare probabilmente si estenderà dall’Asia fino al Medio Oriente e Pechino si troverà circondata da Stati nucleari. Ma se al contrario mette in opera tutti i suoi mezzi, dovrà temere caos lungo le frontiere e lungo le tradizionali vie di accesso percorse in passato dagli invasori. Occorre quindi un dialogo sensibile e attento con Pechino piuttosto che una richiesta perentoria. L’esito di questo dialogo è difficile da predire, ma non potrà avvenire se anche l’America non chiarirà a se stessa le proprie intenzioni riguardo al programma nucleare nordcoreano.

L’ultimo punto riguarda l’ordine mondiale. In questo mondo multipolare temi come la proliferazione nucleare, le risorse energetiche e il cambio climatico richiedono un approccio condiviso. Le potenze del XXI secolo si sono invece fin qui rivelate eterogenee e non molto collaborative. Ma un accordo s’impone, se il mondo vuole evitare la catastrofe della proliferazione senza controlli.

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« Risposta #7 inserito:: Agosto 23, 2009, 10:58:35 am »

23/8/2009
 
Ma un G2 sarebbe un errore
 

HENRY KISSINGER
 
A una recente cena a Washington che concludeva l’annuale incontro economico e strategico tra Stati Uniti e Cina, il rituale impegno a cooperare è stato espresso con un calore che non avevo mai visto da quando i due Paesi hanno ripreso i rapporti, quasi quarant’anni fa, nel 1971. E’ bene che sia così, perché i prossimi dieci anni vedranno grandi sfide alla loro capacità di adattamento e di visione di un nuovo ordine mondiale.

Pensare che la fine della recessione ristabilirà il vecchio sistema economico globale significa ignorare lo sconvolgimento psicologico e politico che c’è stato. Un mare di liquidità unito alla fame americana di beni di consumo aveva fatto affluire in Cina un’enorme quantità di dollari.

Poi Pechino ci aveva prestato ancora altro denaro perché potessimo fare ulteriori acquisti. Prima della crisi, la Cina aveva inviato negli Stati Uniti un certo numero di esperti e investito nei principali istituti finanziari americani per apprendere i segreti di un sistema che sembrava produrre una crescita permanente a basso rischio.

La crisi economica ha scosso quella fiducia. I leader economici cinesi hanno visto il sistema finanziario americano esporre i loro risparmi di un decennio a fluttuazioni potenzialmente catastrofiche. Per proteggere il valore degli investimenti del suo Tesoro e sostenere la sua economia spinta dalle esportazioni, la Cina si è vista costretta a trattenere il patrimonio del suo Tesoro, circa un miliardo di dollari. Inevitabile conseguenza di tutto ciò è l’ambivalenza che serpeggia in entrambi i Paesi. Da una parte, le due economie sono strettamente interdipendenti. La Cina ha un fortissimo interesse a un’economia americana stabile e possibilmente in crescita, ma è anche interessata a ridurre la sua dipendenza dalle decisioni di Washington. Da quando l’inflazione e la deflazione americana sono diventate per la Cina un incubo grave quanto lo sono per l’America, i due Paesi devono assolutamente coordinare le loro politiche economiche. Come massimo creditore di Washington, la Cina ha una leva economica che non ha precedenti nell’esperienza americana. Al tempo stesso, esiste in entrambe le parti, e in una combinazione ambivalente, il tentativo di allargare lo spazio delle decisioni indipendenti.

Un certo numero di mosse cinesi riflette questa tendenza. I funzionari di Pechino si sentono più liberi di offrire agli Stati Uniti consigli pubblici e privati. La Cina ha cominciato a fare affari con India, Russia e Brasile non più in dollari ma nelle loro monete. La proposta del governatore della Banca centrale cinese di creare gradualmente una valuta di riserva alternativa è un esempio interessante: l’idea ritorna in molti forum e la Cina ha una tale tradizione di pazienza nel perseguire i suoi obiettivi che va presa molto sul serio. Per evitare una lenta deriva in politiche conflittuali, va intensificata l’influenza cinese nei processi decisionali economici globali.

Secondo la visione tradizionale delle politiche economiche di lungo periodo, l’economia mondiale ritroverà la sua vitalità quando la Cina consumerà di più e l’America di meno. Se però entrambi i Paesi rispetteranno questa ricetta, verrà inevitabilmente alterata la cornice politica: un’America che consuma meno, importerà meno dalla Cina. E se la Cina, a mano a mano che si riducono le esportazioni in America, sposterà la sua economia sui consumi interni e le infrastrutture, emergerà un diverso ordine economico. La Cina sarà meno dipendente dal mercato americano, mentre la crescente dipendenza dei Paesi vicini dai mercati cinesi aumenterà l’influenza politica di Pechino.

Definire una collaborazione a lungo termine non è facile. Storicamente Cina e Stati Uniti sono state potenze egemoniche che stabilivano la propria agenda in modo unilaterale. Non sono abituate ad alleanze strette né a procedure consultive che restringono la loro libertà d’azione su una base di parità. Quando sono state in un’alleanza, tendevano a dare per scontata la loro leadership ed esibivano un livello di dominio inconcepibile nell’emergente partnership sino-americana. Per farla funzionare, i leader americani devono resistere al canto delle sirene della politica di contenimento secondo gli schemi della Guerra Fredda, mentre la Cina si deve guardare da una politica che miri a ridurre i presunti disegni egemonici americani per creare alla fine un blocco asiatico. Uno scontro svuoterebbe entrambe le società a detrimento del benessere globale, come ha fatto la Prima Guerra Mondiale in Europa. Problemi risolvibili solo su base globale - come l’energia, l’ambiente, la proliferazione nucleare - richiederanno una visione comune del futuro.

Quanto alla costituzione di un G2, io ritengo che un tacito corpo dirigente globale sino-americano non sia nell’interesse di nessuno dei due Paesi né del mondo. I Paesi che si sentissero esclusi potrebbero piombare in un rigido nazionalismo proprio quando si richiede una prospettiva universale.

Il grande contributo degli Stati Uniti negli Anni 1950 è stato quello di prendere le redini dello sviluppo di una serie di istituzioni grazie alle quali la regione atlantica poté fronteggiare sconvolgimenti senza precedenti. Una regione fino allora guidata da rivalità nazionali trovò meccanismi per istituzionalizzare un destino comune, riducendo di molto le probabilità di una nuova guerra e portando a un migliore ordine mondiale.

Ora il XXI secolo richiede una struttura istituzionale all’altezza dei nuovi tempi. I Paesi che si affacciano sul Pacifico hanno un senso dell’identità nazionale più forte di quello che avevano i Paesi emersi dalla Seconda Guerra Mondiale. Non devono scivolare in una versione aggiornata della classica politica dell’equilibrio dei poteri. Sarebbe particolarmente dannoso se sulle due sponde del Pacifico si formassero blocchi opposti.

Mentre il centro di gravità degli affari internazionali si sposta in Asia e l’America trova un nuovo ruolo distinto dall’egemonia ma compatibile con la leadership, abbiamo bisogno di immaginare una struttura sul Pacifico basata sulla stretta collaborazione tra America e Cina ma anche abbastanza ampia da consentire agli altri Paesi della regione di realizzare le loro aspirazioni.

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