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Autore Discussione: BERNARDO VALLI  (Letto 7266 volte)
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« inserito:: Novembre 28, 2007, 05:50:55 pm »

ESTERI IL COMMENTO

Un assegno in bianco

di BERNARDO VALLI


IL palestinese Mahmud Abbas e l'israeliano Ehud Olmert hanno firmato ieri ad Annapolis un assegno in bianco.

Si sono impegnati ad avviare nelle prossime settimane dei negoziati di pace e a concluderli entro la fine del 2008, vale a dire a realizzare per quella data le basi di una coesistenza tra lo Stato israeliano e lo Stato palestinese da creare. Quindi di fatto la nascita di quest'ultimo. Né l'uno né l'altro, né Abbas né Olmert, avevano in quel momento, né li avranno nel futuro scrutabile, i mezzi per mantenere l'impegno. Ne erano ben coscienti.

Entrambi hanno infatti esitato a sottoscrivere il documento fino a poco prima che il presidente americano ne annunciasse con solennità la firma. È stato un gesto avventato? Un bluff politico? Una decisione estorta da George W. Bush che forzando la sorte tenta di far coincidere la fine del suo secondo ed ultimo mandato con un successo che darebbe lustro alla sua deludente presidenza?

Penso che Abbas ed Olmert abbiano anzitutto compiuto un atto di ragione e di coraggio. Una volta arrivati ad Annapolis non avevano scelta. Ripartendo con un nulla di fatto avrebbero scatenato di nuovo, subito, i demoni annidati in quella Terra Santa che non cessa di essere una terra di morte e ingiustizia. Firmando l'impegno, pur non avendo i mezzi per mantenerlo, non li hanno certamente esorcizzati. Un'altra delusione, un altro fallimento farà versare altro sangue e appesantirà soprusi e umiliazioni. Ma a confortare Abbas e Olmert, e al tempo stesso a spingerli a sottoscrivere l'assegno in bianco, c'erano ad Annapolis i rappresentanti di quarantanove Stati sovrani e organizzazioni internazionali.

C'erano l'Europa, la Russia, la Lega araba. C'erano l'Arabia Saudita e la Siria, insieme a Israele e alla Palestina. Uno spettacolo raro. Bisogna riconoscere che Condoleezza Rice ha fatto le cose in grande. Ha capito che la debolezza di Olmert e di Abbas doveva essere compensata da quell'assemblea internazionale, la quale doveva funzionare in qualche modo da garante. E infatti essa ha avuto questa funzione politica: ha garantito con la sua presenza l'impegno assunto dal leader palestinese e dal primo ministro israeliano che non avevano i mezzi per assumerlo.

È qualcosa di molto simile a una santa alleanza che gli Stati Uniti sono riusciti a raccogliere ad Annapolis. Una santa alleanza anti-iraniana. L'avversione per l'Iran sciita ha mobilitato i paesi arabi sunniti, in particolare l'Arabia Saudita, preoccupati di vedere gli eredi di Khomeini nella veste di campioni della causa palestinese, oltre che candidati all'arma nucleare.

Risale al 2002 la risoluzione della Lega Araba in cui si contempla il riconoscimento di Israele in cambio della nascita di uno Stato palestinese. Condoleezza Rice ha acciuffato quel filo e ha saputo tessere una situazione eccezionale. Dopo uno sguardo all'assemblea di nazioni raccolta ad Annapolis, Abbas e Olmert hanno sottoscritto il documento che dovrebbe mettere fine a sette anni di paralisi dei negoziati di pace.

Quello che hanno firmato è un assegno in bianco perché né l'uno né l'altro hanno oggi la forza per condurre trattative che implicano enormi rinunce. Ehud Olmert è un primo ministro debole. Non solo impigliato personalmente in fastidiose questioni giudiziarie, ma anche contestato in seno alla sua coalizione di governo. I sondaggi d'opinione non gli lasciano scampo.

In concreto ha soprattutto due enormi ostacoli da superare: l'opposizione dell'esercito, garante della sicurezza e quindi contrario a un ritiro dai territori occupati che, stando ai militari, potrebbe metterla in pericolo; e l'opposizione delle centinaia di migliaia di coloni (all'incirca mezzo milione, tra la zona di Gerusalemme e la Cisgiordania), che rifiutano di evacuare anche gli insediamenti ritenuti illegali dalle stesse autorità israeliane. E dovrebbero essere proprio i militari a sloggiarli. Senza contare l'inevitabile rinuncia a una parte di Gerusalemme, da tempo proclamata dalla Knesset capitale irrinunciabile dello Stato ebraico. Questi ostacoli, sommariamente riassunti, che Olmert deve superare in Israele, illustrano quelli che rischiano di paralizzare Abbas. Il quale non gode neppure lui di un grande prestigio in Palestina. Una Palestina frantumata dalla secessione di Gaza, controllata da Hamas. Il movimento islamico che rifiuta ogni concessione a Israele e può facilmente approfittare dei cedimenti del moderato e laico capo di Al Fatah.

Il documento firmato in extremis non precisa i problemi che i negoziatori devono affrontare. Disegna soltanto la cornice entro i quali essi devono svolgersi. La decisione è saggia. La vaghezza era indispensabile. Ma rivela quanto sia fragile il progetto. Anche gli accordi di Oslo, nel 1993, lasciarono aperti i punti al momento irrisolvibili, pensando che col tempo sarebbe stato più facile affrontarli. Tutto però fallì.

Esplosero due intifada e tanti altri drammi. Ma il Medio Oriente nel frattempo è cambiato. L'emergere della minaccia iraniana ha creato nuovi schieramenti. Nuove alleanze di fatto. E vale l'insegnamento della "scuola del cimento": provando e riprovando. In questo caso con il coraggio e la ragione di due personaggi deboli, con alle spalle una santa alleanza, che era impensabile quando Rabin e Arafat, firmarono pure loro, quattordici anni fa, un assegno in bianco, rimasto tale.

(28 novembre 2007)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Marzo 24, 2011, 05:12:19 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 30, 2008, 05:15:32 pm »

IL COMMENTO

Una trincea per Obama

Spetta al nuovo presidente imporre un vero dialogo tra palestinesi e israeliani

di BERNARDO VALLI

 

È proprio in questi giorni, anzi in queste ore, che i negoziati israelo-palestinesi più auspicati che annunciati dalla conferenza di Annapolis, organizzata da George W. Bush nel novembre 2007, avrebbero dovuto dare i primi frutti. È con un misto di sarcasmo e di collera che uno ricorda l'ultimo degli innumerevoli tentativi falliti di gettare le basi per una pace in Medio Oriente. Il fallimento di quei negoziati (in realtà mai cominciati) è adesso celebrato nel sangue. L'iniziativa lanciata con solennità dal presidente degli Stati Uniti nascondeva un bluff di cui tutti erano consapevoli, ben sapendo in cuor loro i presenti alla cerimonia di Annapolis (americani, arabi, palestinesi compresi, e israeliani) che non era consentita alcuna speranza. I due campi a confronto erano, e sono, frantumati al loro interno: vale a dire divisi in fazioni o partiti in aperta concorrenza e quindi incapaci di affrontare compatti un negoziato. È da questo dato che bisogna partire per capire come si è giunti al massacro cominciato sabato e ancora in corso.

Il conflitto israelo-palestinese, uno dei più dolorosi della nostra epoca, è anche il più complesso. Va ben oltre il braccio di ferro tra due popoli che si contendono la stessa terra. Lo complicano le religioni, le culture, le opposte interpretazioni di fatti storici. "Due versioni divergenti della stessa storia" dice Elie Bernavi. Per tutto questo la terra tre volte santa suscita passioni roventi nei più remoti angoli del Pianeta.

Ma adesso, dopo decenni di estenuanti tentativi, e di finte illusioni, è morta l'idea secondo la quale negoziati bilaterali tra israeliani e palestinesi potrebbero sfociare da soli in un accordo finale. È morta, o ibernata, perché le situazioni politiche in Israele e in Palestina non conoscono né l'una né l'altra la coerenza e la coesione indispensabili. L'obiettivo ideale di due Stati sopravvive, non può sparire, ma la sua realizzazione è affidata a eventi che è impossibile immaginare. O a forze depositarie di saggezza e di mezzi che non si sono ancora manifestate. Gli Stati Uniti hanno finora deluso. George W. Bush non è stato il solo a sottrarsi al compito. La soluzione dei due Stati resta, come un miraggio.

In campo palestinese il movimento nazionale vive le lacerazioni interne più profonde da quando Yasser Arafat ne prese le redini più di quarant'anni fa. L'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), una volta rappresentante unico e legittimo del suo popolo, dispone di scarso prestigio. Con la nascita e l'affermazione della corrente islamica incarnata da Hamas (vincitrice delle ultime elezioni) l'autorità dell'Olp è largamente contestata. Il suo principale movimento, il laico Al Fatah, un tempo ritenuto la principale forza riformatrice (ma anche la più corrotta e per questo sconfitta alle ultime elezioni), è in preda a lotte intestine, inasprite dalla secessione di Gaza, sotto il controllo di Hamas dal giugno 2007. La tenzone tra Hamas e Al Fatah è aperta e spietata, nonostante i tentativi di mediazione, in particolare attraverso personaggi egiziani.

La decisione di Hamas di rompere la tregua e di intensificare i tiri di missili artigianali sui vicini territori israeliani tendeva con tutta probabilità a convincere il governo di Gerusalemme ad attenuare il rigore del blocco decretato nel gennaio scorso. Comunque a smuovere una situazione divenuta insostenibile per il milione e mezzo di uomini e donne ingabbiati a Gaza. Se questo era il calcolo si è rivelato sbagliato. Un altro obiettivo ben visibile era ed è di creare all'interno del campo palestinese una forte opposizione ad Abu Mazen, leader di Al Fatah e presidente dell'Autorità Palestinese installata a Ramallah, in Cisgiordania, il cui mandato scade nei prossimi giorni di gennaio. La repressione su Gaza accende gli animi della popolazione di Cisgiordania, occupata dall'esercito israeliano e amministrata dall'Autorità palestinese. E fa apparire Abu Mazen, in buoni rapporti col governo di Gerusalemme, un collaborazionista. Giusta o ingiusta, l'accusa rischia di funzionare. Ecco la prova, dicono i suoi avversari: se l'esercito israeliano dovesse nelle prossime ore o giorni mettere fine con la forza alla secessione di Gaza, l'Autorità Palestinese di Abu Mazen si accoderebbe e ritornerebbe al seguito degli occupanti.

L'instabilità cronica del sistema politico israeliano costituisce l'altro versante della paralisi quasi strutturale. I governi di Gerusalemme arrivano di rado alla fine dei loro mandati e quindi dei loro progetti riguardanti i rapporti con i palestinesi. Il caso estremo è l'assassinio nel novembre 1995 del primo ministro Yitzhak Rabin, promotore degli accordi di Oslo, che riconobbero per la prima volta un'autonomia palestinese. Il caso più recente sono le dimissioni di Ehud Olmert, in seguito ad accuse di corruzione, il quale resta primo ministro in esercizio fino alle elezioni anticipate del 10 febbraio. La nascita di coalizioni in cui i piccoli partiti possono dettar legge, rende i governi terribilmente fragili. Inoltre l'enorme squilibrio militare, che separa Israele dai suoi avversari, è un'arma a doppio taglio. Dà fiducia ma non spinge al compromesso, che, come dice Amos Oz, è un elemento essenziale dell'esistenza umana. I militari sono i garanti della sicurezza e la sicurezza chiede il rispetto del vecchio principio del "muro di ferro", da opporre ai nemici per disilluderli dall'idea di poter piegare Israele. L'influenza dei coloni installati nei territori occupati costituisce un ulteriore ostacolo.
Donna stimata ed equilibrata, Tzipi Livni, attuale ministro degli Esteri, è candidata primo ministro del suo partito (Kadima) alle elezioni di febbraio. Se lei e il ministro della difesa Ehud Barak avessero dato, o dessero, prova di debolezza rischierebbero di perdere la gara con Benjamin Netanyahu, che corre per il Likud, il partito dei falchi. Ma il calendario ricorda un altro appuntamento di grande importanza: l'ingresso alla Casa Bianca, il 20 gennaio, del nuovo presidente. Non si poteva riservare a Barack Obama, come cerimonia inaugurale del suo mandato, il bagno di sangue di Gaza. La repressione israeliana è stata comunque approvata in anticipo dallo stesso Obama. Durante la visita in Israele, nel luglio scorso, egli disse infatti: "Se qualcuno lancia dei missili sulla mia casa dove la notte dormono le mie due figlie, io faccio qualsiasi cosa per fermarlo".

Tra le priorità di Obama (oltre la crisi economica, l'Iraq e l'Afghanistan) c'è adesso anche il conflitto israelo-palestinese, che sembrava relegato nell'ombra. E spetta proprio al presidente degli Stati Uniti, di cui Israele è il principale alleato in Medio Oriente, ed anche qualcosa di più, riproporre, anzi imporre, l'idea di un vero dialogo tra palestinesi e israeliani. Idea per ora morta o ibernata. La difficoltà per Obama, come per i suoi predecessori, anche democratici, consisterà nel sapere e potere essere un arbitro deciso e imparziale.

(29 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 19, 2009, 06:40:23 pm »

L'ANALISI

L'elefante e le formiche

di BERNARDO VALLI


NON BASTA guardare a quel che accade in Afghanistan per afferrare tutti i risvolti del conflitto. Quest'ultimo deve essere osservato da almeno due punti di vista. Si deve ovviamente studiare, anzitutto, la situazione sul terreno, entro i confini del Paese.

Un paese indomito, o incontrollabile, nel senso che tante potenze straniere vi hanno lasciato le penne, negli ultimi secoli, nel vano tentativo di sottometterlo, o di imporvi, come adesso, le regole di un ordine internazionale. Al tempo stesso va tenuta d'occhio la simultanea, ampia azione politico-diplomatica destinata a rendere possibile quel che sul solo piano militare è di difficile soluzione. I due punti di osservazione finiscono col sovrapporsi; e comunque, nell'attesa di esiti non ancora immaginabili, già da adesso non possono essere disgiunti. È significativo l'atteggiamento di Barak Obama per capire i dubbi, le perplessità della superpotenza che guida il conflitto.

Il presidente non è venuto meno al principio di una "war of necessity", ossia di una guerra irrinunciabile per gli interessi americani, e occidentali in generale, tenuto conto della indispensabile stabilità della regione, infestata di terroristi e jihadisti, tra i quali i responsabili dell'11 settembre. Una regione in cui vi sono due grandi Paesi, in permanente tensione e dotati di armi atomiche, quali sono l'Unione Indiana e il Pakistan. Quest'ultimo contagiato dai taliban e ospitante i residui di Al Qaeda. Si dirà che allargando, con le speculazioni, un'area di crisi si sconfina spesso nella fantapolitica. È vero, ma la storia dell'Asia centrale non è un'opinione.

Senza venir meno al principio della "war of necessity", Barak Obama esita adesso a soddisfare le esigenze dei militari, espresse dall'ammiraglio Mike Mullen, capo di stato maggiore generale delle forze armate americane. Mullen ha fatto capire con chiarezza che il generale Stanley A. McChrystal, comandante delle truppe Nato in Afghanistan, non sarà nelle condizioni di promuovere una efficace azione contro i taliban, sempre più aggressivi, se non sarà confortato da un cospicuo rinforzo di uomini e di mezzi, prima o al più tardi entro l'inverno. Obama ha preso tempo. Ha detto di non voler affrettare la decisione. Vuol conoscere prima la nuova strategia che i responsabili militari e civili vogliono applicare. Nessun precipitoso invio di altre truppe.

A frenarlo, prima di ampliare il coinvolgimento americano, contribuiscono le perplessità sempre più evidenti tra gli stessi democratici, e quelle altrettanto evidenti nell'opinione pubblica, sempre meno favorevole a un conflitto che si dilunga troppo, e che ha perduto di vista l'obiettivo originale. Nel 2001 gli americani sbarcarono in Afghanistan all'inseguimento di Al Qaeda, alla caccia dei mandanti, dei complici dell'11 settembre. Ma adesso Al Qaeda, secondo gli uomini dell'intelligence disposti a parlare, non sarebbe più in Afghanistan. Quel che resta dell'organizzazione di Bin Laden si troverebbe in Pakistan. Il crampo di Obama è di tipo vietnamita.

Senza stabilire un nesso tra i due conflitti egli ha nella memoria la drammatica scalata dei suoi predecessori, in particolare di Lyndon Johnson, che negli anni Sessanta riversarono via via mezzo milione di uomini nella penisola del Sud Est asiatico (dove all'inizio c'erano soltanto esperti e consiglieri), cadendo nella trappola delle guerre asimmetriche. Guerre in cui gli insorti mal armati ma con radici nella popolazione possono tenere in scacco eserciti stranieri, dotati di mezzi sofisticati.

Non li sconfiggono militarmente ma li riducono al ruolo di elefanti che non riescono a schiacciare le formiche annidate nelle pieghe del terreno, vale a dire, appunto, della popolazione. Un'intelligence capace di spiare guerriglieri e terroristi, ma anche di studiare la società, in tutti i suoi risvolti, piscologici, religiosi, economici, conta più degli squadroni corazzati. O dei reparti che vivono come nel "deserto dei tartari".

Siamo comunque ben lontani dal numero di GI che componevano l'armata americana, ritiratasi dal Vietnam nei primi giorni del '73, lasciandosi alle spalle esperti poi evacuati, nell'aprile del '75, da Saigon, con drammatici voli di elicotteri. Su uno degli ultimi decollati dal tetto dell'ambasciata c'era il capo missione Graham, con la bandiera a stelle e a striscie sotto il braccio.

Entro la fine di questo mese ci saranno in Afghanistan circa 68 mila americani e 39 mila altri soldati della Nato (tra i quali gli italiani). Appena entrato alla Casa Bianca, dopo avere deplorato l'iniziativa di Bush jr che aveva dirottato in Iraq non pochi reparti operanti in Afghanistan, Obama ha deciso un'operazione in senso inverso, mandando 17 mila 500 uomini da Baghdad a Kabul. E con loro quattromila militari incaricati di addestrare esercito e polizia afgani. Un rinforzo che non ha dato, per ora, gli effetti sperati. Da qui la cautela del presidente.

E adesso un'occhiata all'avvenimento politico - diplomatico in programma il 1° ottobre, lontano dall'Afghanistan, ma con possibili conseguenze dirette su quel conflitto. Tra neppure un paio di settimane cominciano i colloqui tra l'Iran e il P5 + 1, vale a dire i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e in più la Germania. Di fatto, senza tenere conto dell'opposizione dei neo-conservatori di Washington e del governo di Gerusalemme, ostili al dialogo e favorevoli alle sanzioni contro Teheran, gli americani si siedono allo stesso tavolo degli iraniani.

Quest'ultimi hanno posto come condizione che la questione nucleare non debba essere trattata. Ma lo sarà. È inevitabile. Mohammed El Baradei, responsabile dell'Agenzia atomica (IAEA) di Vienna, e veterano della vicenda, lo sa benissimo. Per questo ha accolto con entusiasmo la decisione americana di avviare un dialogo "senza precondizioni e sulla base del reciproco rispetto".

L'offensiva diplomatica di Obama verso il mondo musulmano passa obbligatoriamente per l'Iran. La rielezione contestata, forzata di Ahmedinejad è stato un contrattempo. È stata giustamente condannata, e resta come una macchia, una delle tante sul regime teocratico, ma Teheran è un interlocutore indispensabile per disinnescare la situazione mediorientale. Ed anche per l'Asia centrale. In Afghanistan l'Iran esercita un'influenza crescente, sul piano militare, economico, politico e religioso.

Pur avendo costanti, intensi rapporti con il presidente Karzai (che è stato in visita ufficiale a Teheran) gli iraniani forniscono armi agli insorti: armi leggere, mine, esplosivi vari, lancia granate ed anche missili SA-14, capaci di colpire gli elicotteri. E si prodigano presso gli afgani nel condannare la presenza straniera nel loro paese, in particolare quella americana. L'influenza iraniana è visibile soprattutto nella provincia occidentale di Herat, dove imprenditori di Teheran hanno contribuito alla creazione dei servizi pubblici e dove si propongono di costruire una fabbrica di automobili.

Lungo l'interminabile confine (600 miglia) il passaggio di uomini e droghe è intenso. L'Iran è il principale consumatore dell'oppio afgano ed è una zona di transito verso l'Asia e l'Europa. L'esercito e la polizia antinarcotici cercano di fermare quel traffico, con variabile successo e con tutte le inevitabili ambiguità che accompagnano un commercio tanto redditizio. Le autorità religiose temono gli effetti della droga nella loro società e sono severi nel proibirne la diffusione. Ma è come tentare di fermare un fiume in piena.

Nel conflitto afgano la teocrazia di Teheran ha spesso fatto un doppio gioco. Non ha amato Al Qaeda, pur avendo ospitato alcuni suoi affiliati (perché con la nazionalità saudita), né aveva una particolare simpatia per il regime dei taliban, tanto che autorizzò gli aerei americani a sorvolare il territorio iraniano nel 2001. Adesso sorride a Karzai ma arma gruppi di insorti. Se i colloqui che cominciano il 1° ottobre conducessero a un'intesa sull'Afghanistan, l'offensiva diplomatica di Obama darebbe i suoi primi importanti frutti.

(19 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 13, 2010, 05:30:05 pm »

IL COMMENTO

L'incubo iraniano

di BERNARDO VALLI

L'Iran è diventato un incubo. Roba da psicanalisti. La competenza di politici, diplomatici e militari non basta più. Ci vuol altro per dissipare il senso di affanno, di apprensione che la Repubblica islamica provoca nelle cancellerie e negli stati maggiore di superpotenze, potenze ordinarie e mezze potenze, occidentali o orientali. Insomma, in più di mezzo mondo: da Washington, passando per l'Europa, l'Arabia Saudita, gli Emirati arabi e sunniti, e Israele. Tutti gli occhi sono puntati sull'Iran. E tutte le "medicine" possibili, finora studiate, dal dialogo alle sanzioni, molli o severe, alle incursioni aeree preventive, dopo accurate simulazioni appaiono inefficaci o non appropriate. L'Iran è un rompicapo. L'incubo resta là. Inamovibile. Gli psicanalisti potrebbero aiutarci anche a distinguere, nel groviglio dei nostri affanni iraniani, i fantasmi dalla realtà.

Neppure il senso della cronaca quotidiana è subito afferrabile. Non è sufficiente una prima ed unica lettura dei fatti. Ieri ci sono state manifestazioni davanti a tre ambasciate europee, quelle d'Italia, di Francia e di Germania. Alcune decine di miliziani chiaramente mobilitati per l'occasione hanno scandito qualche slogan e sono poi stati mandati a casa dalla polizia.

Una messa in scena da teatro di provincia. Davanti alla nostra ambasciata le comparse hanno gridato "morte all'Italia" e "morte a Berlusconi", e hanno lanciato una pietra. Il significato non era trascurabile. La prima lettura va subito scartata. Sarebbe ingenuo pensare a reazioni nazionaliste spontanee. Le manifestazioni avrebbero avuto ben altre dimensioni, sarebbero state più vistose, se si fosse trattato di una risposta alle severe posizioni assunte di recente da Italia, Francia e Germania, in merito alle sanzioni allo studio al fine di indurre il regime iraniano ad accettare la disciplina nucleare. Quelle manifestazioni erano ad uso interno.

Tutto quel che accade a Teheran è, in questo momento, a uso interno. Da una settimana Mahmud Ahmadinejad compie contorsioni che sarebbero indecifrabili, incomprensibili se non fossero destinate a contenere, a disperdere, a imbavagliare l'opposizione alla vigilia del trentesimo anniversario dell'insediamento al potere dell'ayatollah Khomeini. L'appuntamento è importante. Potrebbe rivelarsi decisivo. Il suo svolgimento svelerà la stabilità del regime più di sei mesi dopo le truffate elezioni di giugno.

Domani, 11 febbraio, l'opposizione intende infiltrarsi, irrompere nella grande celebrazione in programma.
Equivarrà a un suo ultimo assalto. Se dovesse fallire sarebbe abbandonata alla repressione. Dimostrando la sua forza, rianimerebbe gli scontri interni, tra chi difende la Repubblica islamica, vale a dire lo strapotere dei religiosi, e chi, senza venir meno ai principi islamici, vuole una vera Repubblica, con i religiosi non direttamente al potere, secondo la tradizione sciita interrotta da Khomeini. La posta in gioco è grossa.

Denunciando le nazioni europee con quella manciata di miliziani travestiti da manifestanti, accusandole di osteggiare la marcia iraniana verso il nucleare, la guida suprema Khamenei e il suo sottoposto Ahmadinejad hanno sottolineato la tesi del complotto internazionale. Un complotto per loro appoggiato dall'opposizione. Khamenei e Ahmadinejad usano il problema nucleare contro gli avversari, additati come traditori della patria, poiché negano insieme agli stranieri il diritto a quell'energia, diventata il simbolo dell'indipendenza nazionale.
Nulla di più falso, ma è cosi.

La settimana di Ahmadinejad è stata dominata da un clamoroso voltafaccia. Soltanto in apparenza incomprensibile.

Martedì si è detto favorevole a un arricchimento dell'uranio in Russia e poi in Francia, accettando un livello che esclude l'uso militare. Venerdì il suo ministro degli esteri ha annunciato l'accordo come imminente. Domenica Ahmadinejad ha cambiato idea: ha ordinato al suo direttore dell'agenzia atomica di arricchire lui stesso, in patria, l'uranio al 20%, per uso farmaceutico. Così è sfumato il compromesso che sembrava raggiunto in ottobre. Ed è inutile cercare una logica, anche sul piano tecnico, alla decisione di Ahmadinejad. Pur controllando il processo di arricchimento dell'uranio egli potrà difficilmente portarlo al livello indispensabile per dotarsi di una bomba, se mai ne avesse l'intenzione, in uno spazio di tempo ragionevole, e senza un duro intervento esterno.
C'è una sola spiegazione immediata: inasprendo la polemica sul piano internazionale, è più facile accusare l'opposizione di collusione con le potenze straniere, e quindi screditarle e disperderle con una pesante e decisiva repressione.

Quest'ultima si è già abbattuta con maggior severità sugli amici di Mir Hossein Moussavi e di Mehdi Karubi, i due sfortunati candidati alla presidenza.

Moussavi ha invitato lo stesso i suoi seguaci a unirsi alla manifestazione ufficiale per contestare il regime. E l'ex presidente Mohammad Khatami ha riassunto l'obiettivo dell'opposizione: "Se Dio vuole, tutti parteciperanno al corteo, per difendere la rivoluzione e i diritti dell'uomo". Diverso il tono dell'ayatollah Khamenei. La Guida suprema ha detto che "la nazione iraniana dimostrerà, con la sua unità, come riempire di pugni in faccia tutti gli arroganti del mondo". Dall'America ai sionisti.

Tante sono le scuole di pensiero che si incrociano nel proporre soluzioni all'incubo iraniano. La più diretta è quella israeliana: sanzioni severe e immediate, e in prospettiva azioni militari preventive, in caso di recidiva, se Teheran fosse sul punto di realizzare l'arma nucleare. Quella americana appare incerta, si limita alle sanzioni, pur sapendo che esse danno scarsi frutti, e che possono essere il preludio a un conflitto. Quel che accadrà nelle prossime ore a Teheran avrà un'influenza su queste due scuole. Ed anche sulla terza, incline a pensare che gli interventi esterni non possono che radicalizzare la situazione iraniana. E accelerare persino la scelta (forse, finora in sospeso) di un nucleare a scopi militari.

© Riproduzione riservata (10 febbraio 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 15, 2010, 09:46:18 am »

IL COMMENTO

Il logoramento di un leader

di BERNARDO VALLI


ERA ANNUNCIATA, scontata, ma la sconfitta elettorale non sarà facile da digerire per Nicolas Sarkozy. Nel mezzo del mandato il presidente francese  si scopre con una sinistra maggioritaria, e con il suo partito retrocesso in  seconda posizione rispetto al partito socialista. Un partito socialista adesso non solo principale formazione della sinistra ma anche prima formazione di Francia. Una pillola non meno amara per Sarkozy è il riemergere del Front National, il partito xenofobo che aveva ridimensionato, recuperando molti suoi elettori nel 2007. Elettori che avevano contribuito in modo determinante al suo ingresso nel Palazzo dell'Eliseo, e che adesso sono ritornati all'ovile.

Uno dei suoi meriti era di avere neutralizzato Jean-Marie Le Pen. Ma ieri il vecchio Le Pen si è preso una rivincita: a Nizza, dove era capolista del suo partito, un elettore su cinque ha votato per lui. E sul piano nazionale il quoziente del FN si aggira sul 12 per cento. Assomiglia a una resurrezione. A due anni e mezzo dalla fine del mandato, Nicolas Sarkozy si trova stretto in una morsa: da un lato la sinistra che recupera e dall'altro l'estrema destra di Le Pen (affiancato dalla figlia Marine) che riemerge. "L'apertura a sinistra", attuata con il recupero di qualche personaggio socialista, in particolare di Bernard Kouchner, il ministro degli Esteri, non ha dato i frutti sperati. E, sull'altro versante, le iniziative, come il dibattito sull'"identità nazionale", tese ad ammansire e ad attirare l'elettorato ostile all'immigrazione, in particolare a quella musulmana, hanno avuto l'effetto contrario. Col tempo le tattiche ecumeniche di Sarkozy hanno dato scarsi risultati.

La sola consolazione per il centro destra sconfitto è la modesta affluenza alle urne: un anemico 48 per cento, stando ai dati non ancora definitivi. Neppure un francese su due. Uno dei motivi dell'astensione di massa è stato senz'altro lo scarso interesse che suscitano le regioni, e quindi l'elezione dei ventidue presidenti e consigli che le riguardano, in un paese centralizzato, di antica tradizione giacobina. Ed è questo l'argomento usato dai frustrati rappresentati dell'Ump (il partito del presidente, l'Unione per un movimento popolare) nei loro tentativi di minimizzare il valore dei desolanti risultati. L'evidente modesta affluenza degli elettori di centro destra è stata motivata anche dal loro scarso entusiasmo nei confronti di un presidente che li entusiasma sempre meno. Era infatti chiaro che oltre al carattere regionale, quello di domenica era anche un classico voto di mezzo termine: l'ultimo prima di quello presidenziale del 2012. Quindi rischiava di essere un voto - sanzione per il presidente. Ma i suoi elettori non se ne sono preoccupati. Altra annotazione inevitabile riguarda l'entusiasmo del centro destra quando alle elezioni europee dello scorso anno il partito presidenziale ottenne un ottimo quoziente e il partito socialista usci praticamente dimezzato. Allora l'astensione fu ancora più forte, raggiunse il 60 per cento.
Ma non fu sottolineata per togliere valore al risultato.

La crisi ha senza dubbio contribuito a logorare l'immagine di Nicolas Sarkozy. Eletto come un campione del liberismo (sia pure di stampo francese, quindi con forti venature colbertiane), è poi diventato un ardente interventista in economia. Un campione keynesiano. Ha promesso riforme che la crisi ha reso impossibili. Molte sue generose promesse sono rimaste tali. E ambigue sono apparse le posizioni su un problema cruciale come la sicurezza e l'immigrazione. Le parole non corrispondevano sempre ai fatti. Il ritratto, con qualche ritocco, potrebbe essere usato per altri leader occidentali messi a confronto con la crisi finanziaria ed economica, e le sue conseguenze sociali.

Per la sinistra è una rivincita. Una rivincita da concretizzare ai ballottaggi di domenica prossima, quando si tratterà di completare la conquista delle ventidue regioni. Ne controllava già venti e l'obiettivo iniziale, non facile, era di infliggere un "cappotto" alla destra. Sul piano nazionale il risultato di ieri ha comunque già aperto prospettive, che dopo il voto europeo, quando il partito socialista ottenne il 16 per cento, il più basso quoziente della sua storia, sembravano svanite. Il quasi 30 per cento raggiunto poche ore fa, al primo turno delle regionali, non garantisce certo un identico risultato alle presidenziali del 2012. Anzi, di solito i quozienti ottenuti alle amministrative non si ripetono alle politiche. E in due anni e mezzo Nicolas Sarkozy e il suo partito, benché abbiano esaurito molte risorse, possono sempre recuperare. Sarkozy non è certo un uomo incline alla rassegnazione. Per lui le regionali rappresentano un infortunio.

Per i socialisti rappresentano al contrario una fortuna inaspettata ma non immeritata. Dalla litigiosità che tormentava il partito prima della campagna elettorale, sono infatti riusciti a raggiungere un'intesa, almeno apparente, o provvisoria, e a dare un'impressione di rassicurante compattezza.
Il merito viene adesso attribuito a Martine Aubry. La neo segretaria del partito, e sindaco di Lilla, ha saputo imporsi e, dopo il successo elettorale, appare di diritto come uno dei probabili candidati di sinistra alla presidenza della Repubblica. Il suo personaggio viene spesso paragonato a Angela Merkel, considerata la più riuscita donna politica del momento.

La preparazione delle presidenziali, ancora lontane ma sempre al centro di ogni manovra politica, occuperà molto presto Martine Aubry. E il suo interesse non si limiterà al solo partito socialista. I Verdi (Europe Ecologie), che alle europee del 2009 avevano raggiunto e in molti collegi superato il partito socialista, si sono confermati domenica sera come la terza formazione politica di Francia. Hanno ottenuto un quoziente più modesto (circa il 12% per cento contro il 16 dello scorso anno), ma sufficiente per rappresentare una forza indispensabile alla sinistra per raggiungere il grande traguardo presidenziale. I risultati di un'elezione snobbata da tanti francesi hanno cambiato l'intero quadro politico.

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« Risposta #5 inserito:: Giugno 02, 2010, 11:54:20 am »

GAZA

L'ossessione di un Paese

Il dramma al largo di Gaza è devastante per Israele e favorisce i suoi avversari.

Tra chi ha segnato punti a proprio vantaggio, in queste ore, c'è anche l'Iran di Ahmadinejad


di BERNARDO VALLI

IL SANGUINOSO arrembaggio alle navi dei pacifisti dirette a Gaza non può che avere conseguenze politiche devastanti per chi l'ha promosso, quindi per Israele. Commentatori israeliani avveduti avevano già definito "stupido", alla vigilia del dramma, l'atteggiamento intransigente, minaccioso, insomma eccessivo, delle autorità politiche e militari di Gerusalemme nei confronti della "Flotta della pace". Quasi fosse un'armada nelle acque del Mediterraneo pronta a sfidare lo Stato ebraico. E quasi fosse capace di comprometterne sia la sicurezza sia l'onore. Insomma come se fosse un convoglio di terroristi. Certo, la spedizione pacifista sfidava l'embargo imposto a Gaza e quindi si proponeva di infrangere i divieti israeliani. Ma non si affronta una manifestazione pacifista con un arrembaggio, armi alla mano, come se si trattasse appunto di sventare, prevenire un attacco di terroristi corsari. Terroristi corsari che, stando alle denunce di Gerusalemme, possedevano in tutto due rivoltelle (non mostrate), coltelli e sbarre di ferro, usate dai passeggeri quando sono stati sorpresi dal commando israeliano. Il convoglio della "Flotta della Pace" poteva essere bloccato in modo meno rischioso. Meno sanguinoso.

La società israeliana rispetta al suo interno le regole democratiche, applica di solito, sempre entro i suoi confini, metodi civili per affrontare le proteste disarmate, ma quando agisce fuori dalle sue legittime frontiere il governo israeliano e le sue forze armate non ne tengono sempre conto. L'ossessione della sicurezza, in parte giustificata dalla storia dello Stato ebraico e dalla situazione in cui si trova, conduce a eccessi e abusi che l'opinione internazionale, compresa quella favorevole, rifiuta o stenta ad accettare. L'arrembaggio a navi disarmate nelle acque internazionali, che si è concluso con morti e feriti, è uno di questi eccessi. Lo è al di là dei dettagli che le invocate e più o meno attendibili inchieste accerteranno.

Il dramma al largo di Gaza è devastante per Israele e favorisce i suoi avversari. Né il ministro della difesa Ehud Barak, un laburista, che ha certamente studiato e approvato l'operazione, né il primo ministro Benjamin Netanyahu, un falco che quando vuole sa essere pragmatico, avevano previsto le conseguenze di un'azione tanto carica di rischi. Entrambi hanno offerto un'occasione insperata al principale nemico di Israele, in campo palestinese. Hamas in queste ore trionfa. Le piazze arabe si riempiono per manifestare in suo favore e contro Israele. Non solo. Nella Cisgiordania occupata, dove da tempo l'Olp collabora con gli israeliani nel dare la caccia alla gente di Hamas, sono stati decretati tre giorni di lutto e si manifesta in favore di Gaza. Gli integralisti esultano. In quanto ai negoziati indiretti tra l'Olp e Israele ci vorrà del tempo prima di riparlarne. Dopo il dramma al largo di Gaza, Mahmud Abbas, presidente dell'Autorità palestinese, e il suo primo ministro, Salam Fayed, non sono certo disponibili per un dialogo. In queste ore è come se il loro avversario, Ismail Haniyeh, leader di Hamas a Gaza, avesse vinto una battaglia.

La prima nave ad essere attaccata dai commandos israeliani esponeva sulle fiancate un'enorme bandiera turca accanto a quella palestinese. E gli uccisi durante l'arrembaggio erano quasi tutti turchi. Questo non fa che peggiorare i già cattivi rapporti tra Istanbul e Gerusalemme. Da due anni ormai l'alleanza strategica, politica e militare, tra i due Paesi è entrata in crisi. Israele e Turchia sono le due potenze mediorientali più legate agli Stati Uniti. Nel '96 hanno firmato un accordo di cooperazione militare con grande soddisfazione degli americani. Il vincolo tra la Turchia, vecchio pilastro della Nato, e Israele, alleato irrinunciabile, appariva ai loro occhi prezioso. E lo era. Ma dopo l'operazione israeliana a Gaza, alla fine del 2008, l'amicizia israelo - turca si è trasformata in un'ostilità (finora verbale) sempre più aspra. Istanbul ha condannato l'intervento israeliano e le dichiarazioni critiche di Recep Tayyip Erdogan, alla testa di un governo islamo - conservatore, si sono moltiplicate, fino ad affermare che lo Stato ebraico è "la principale minaccia per la pace" in Medio Oriente. La tensione si è poi accentuata, quando la Turchia (insieme al Brasile) ha concluso con l'Iran un accordo sul problema nucleare. Erdogan è cosi diventato il paladino dei palestinesi e un interlocutore privilegiato dell'Iran. Insomma, un amico degli avversari di Israele. I turchi uccisi dagli israeliani al largo di Gaza potrebbero condurre, col tempo, anche a un rottura dei rapporti diplomatici.

Per Barak Obama è un disastro assistere al divorzio politico e militare dei suoi due (sia pur difficili) alleati in Medio Oriente. Come è un disastro in queste ore assistere alla vampata anti-israeliana nelle capitali arabe. Si era quasi creata obiettivamente un'intesa tra i Paesi sunniti (in particolare l'Arabia Saudita e l'Egitto) e Israele in funzione anti iraniana. Un'intesa tacita, non confessabile, ma implicita, perché basata su un comun denominatore: l'ostilità nei confronti di Teheran. Gli arabi sunniti sono ossessionati dall'influenza dell'Iran sciita; gli israeliani dalla minaccia nucleare iraniana. Nel tentativo di disinnescare quest'ultima, vale a dire la minaccia nucleare iraniana, la diplomazia americana si aggirava nel labirinto mediorientale con fatica. Un accordo israelo - palestinese, o perlomeno la ripresa di un vero dialogo, poteva rappresentare un avvenimento propiziatorio. La ventata anti-israeliana, provocata nella regione dal sanguinoso arrembaggio al largo di Gaza, rende le cose più difficili. Quel che è anti-israeliano in Medio Oriente assume spesso, per riflesso condizionato, accenti anti-americani. Tra chi ha segnato punti a proprio vantaggio in queste ore, c'è anche l'Iran di Ahmadinejad, protettore di Gaza e nemico di Israele.

(01 giugno 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 25, 2011, 06:21:04 pm »

LA MEMORIA

Quella colonia d'oro macchiata di sangue

di BERNARDO VALLI

 
UN secolo fa gli avvenimenti di Tripoli occupavano, come oggi, le prime pagine dei giornali. La storia non si ripete mai, dicono suoi autorevoli cultori . Questo non esclude somiglianze tra avvenimenti distanti decenni o secoli, che si verificano in contesti politici e sociali che non si assomigliano affatto. Così gli anniversari fanno a volte scherzi, di sapore sinistro. Cent'anni or sono, nel 1911, il 3 ottobre, unità della marina italiana sbarcavano nella capitale libica, seguite il 12 da più consistenti reparti dell'esercito. Nelle ore precedenti i cannoni della flotta al largo avevano bombardato l'As-saraya al-amra, il Forte Rosso, dal quale ancora oggi si può dominare la città affacciata sul mare. Ed altre bombe erano cadute sul forte di Bengasi, in Cirenaica.

Così il Regno d'Italia, mentre a Roma governava il liberale Giovanni Giolitti, metteva in atto la dichiarazione di guerra fatta quattro giorni prima all'Impero ottomano che occupava quella sponda del Mediterraneo. E proprio come accade nel 2011, l'opinione pubblica internazionale condannò allora le atrocità commesse nella città appena conquistata. Nelle capitali dei grandi imperi coloniali (non certo senza macchia nei loro ampi possedimenti africano o asiatici), a Londra e a Parigi, ma anche a New York, si moltiplicarono le manifestazioni contro il bagno di sangue. Di cui l'Italia era colpevole.

Tripoli aveva a quei tempi trentamila abitanti ed era la principale città di un vasto paese ricco di deserti bellissimi e popolato
da meno di un milione di uomini e donne dispersi lungo la costa. Giolitti, uomo politico "punto fantasioso e retore", secondo Benedetto Croce, aveva voluto quella conquista coloniale, sempre per Croce, come un padre che si avvede che la figliola, cioè l'Italia, è ormai innamorata e provvede a darle dopo le debite informazioni e con le debite cautele, lo sposo che il suo cuore ha scelto. Insomma Giolitti dà agli italiani quel che vogliono.

Lui alla Libia ci pensava da tempo, anche se l'impresa non lo entusiasmava. Il momento sembrava però propizio e non rinviabile. Anche problemi di politica interna lo spingevano ad agire. Voleva promuovere importanti riforme politiche e sociali, in particolare l'estensione del suffragio universale e l'introduzione dell'assicurazione obbligatoria sulla vita, bene accette ai socialisti, che voleva conquistare. Si può persino azzardare che molti libici hanno perduto la vita per permettere a molti italiani, spesso analfabeti, di conquistare il diritto al voto. La guerra avrebbe soddisfatto conservatori, nazionalisti e cattolici, e quindi attenuato la loro opposizione alle riforme. Ed anche quelle di importanti settori economici. Tra i pretesti esibiti nel dichiarare la guerra alla Turchia c'erano i provvedimenti ottomani contro le numerose succursali del Banco di Roma presenti in Libia.

La conquista della Libia è per i militari una rivincita poco più di un decennio dopo la disfatta di Adua, in Abissinia, e le precedenti deludenti prove nelle guerre del Risorgimento. E' l'acquisizione di una colonia di popolamento per l'emigrazione italiana, che in quegli anni è al massimo ed è fonte di frustrazione nazionale. Offre inoltre l'impressione di alzarsi al rango di francesi, inglesi e spagnoli, che si distendono sulla costa africana senza che in nessun tratto sorga la bandiera italiana. Francia e Germania si sono appena contese il Marocco. Persino Antonio Labriola, socialista e marxista (ma promotore della grandezza d'Italia e della prosperità e arricchimento della sua borghesia, sottolinea ancora Croce) fin dall'inizio del secolo esortava all'occupazione di Tripoli. Lo considerava un buon affare. Ottant'anni prima Karl Marx aveva accolto con soddisfazione la conquista francese dell'Algeria. Come poi Labriola, Marx pensava che con l'arrivo degli europei sarebbero sorte fabbriche, e con le fabbriche si sarebbe formata una classe operaia, indispensabile per fare la rivoluzione.

In realtà le debite informazioni e le altrettanto debite cautele non erano state sufficienti. E l'impresa libica si rivelò subito più complicata del previsto. Anzitutto la popolazione, al contrario delle previsioni, non accolse gli italiani come liberatori. A Sciara Sciat (il 23 ottobre 1911), un sobborgo di Tripoli, reparti dell'esercito italiano caddero in un'imboscata tesa da ufficiali turchi e gruppi di partigiani tripolini, e furono annientati. Tre giorni dopo, in un'altra località, sempre in prossimità della capitale, a El-Messri, seicento soldati italiani colti di sorpresa furono uccisi. La reazione fu severa. La città fu messa a ferro e fuoco e (secondo lo storico Nicola Labanca), forse mille ottocento, sui trenta mila abitanti di Tripoli, furono fucilati o impiccati per rappresaglia. E migliaia di tripolini furono arrestati e deportati in Italia. Ci sono voluti anni, e una lunga sanguinosa repressione, prima che la Tripolitania, e soprattutto la Cirenaica e il Fezzan potessero accogliere migliaia di coloni italiani.
Le tracce italiane sono ben visibili nella Tripoli d'oggi. Negli anni in cui fu governatore dal 1921 al 1925, Giuseppe Volpi (diventato conte di Misurata, località in cui promosse un'operazione militare contro i ribelli arabi) ha compiuto i primi grandi lavori destinati a lasciare un'impronta coloniale italiana in Libia. Ha restaurato la cittadella, senza rispettarne troppo le forme originali, ha costruito grandi edifici tra le case modeste: il palazzo di giustizia, la Banca d'Italia, la cattedrale, la moschea di Sidi Hamuda, il Grand Hotel Municipal, il vicariato apostolico.

L'altro governatore che ha dato a Tripoli un carattere italiano, "littorio", secondo i canoni dell'architettura fascista, è stato Italo Balbo. Dal 1934 al 1940 (anno in cui mori precipitando con l'aereo colpito "per sbaglio dall'antiaerea italiana, mentre sorvolava Tobruk) il gerarca ferrarese portò ingegneri e architetti dalla sua città emiliana affinché erigessero edifici e tracciassero strade. Balbo era contrario all'alleanza con i tedeschi e non voleva la guerra, anche perché sapeva che la Libia era un fronte indifendibile.

Con lui si intensificò, e fu ampiamente propagandato, l'insediamento di coloni italiani, del quale il veneziano Volpi aveva gettato le basi, con criteri imprenditoriali. La vicenda dei coloni in Libia fu un'iniziativa alla quale il fascismo dette toni spettacolari. Il deserto trasformato in orti e in campi di grano diventò ben presto un teatro di guerra seminato di mine e di tombe. Il petrolio che giaceva in profondità sotto gli ortaggi, orgoglio dei coloni, cominciò a sgorgare quando il fascismo era già defunto. E la Libia non era più una colonia italiana. Non era più la " quarta sponda" di Mussolini.

Sconfitto l'esercito italo-tedesco di von Rommel, dal 1943 Tripoli è passata sotto l'amministrazione britannica. E otto anni dopo è diventata capitale della Libia indipendente. Con un monarca. Re Idris. Il quale era il nipote di Sayyid Muhammad bin Ali al-Senussi, fondatore della confraternita dei Senussi. Come emiro della Cirenaica, con Bengasi capitale, Idris è venuto a patti con gli italiani, ma quando il regio esercito coloniale si è mosso dalla costa e ha cominciato ad occupare, dopo il 1920, i territori dell'interno, Idris si è rifugiato in Egitto, da dove ha ispirato la guerriglia contro gli invasori. Si è poi schierato con gli inglesi, durante la Seconda guerra mondiale, ed è ritornato a Bengasi con loro. Promosso anche emiro della Tripolitania, quando la Libia unificata è diventata indipendente lui, Idris, ne è diventato il sovrano.

Un sovrano debole, indeciso, che ha stentato a mantenere il ritmo di un paese ormai con una popolazione in rapido, travolgente aumento (oggi conta almeno sette milione di abitanti), e diventato, grazie al petrolio, un eldorado affollato di società internazionali. La sua neutralità, o indifferenza, durante la guerra del '67, il terzo conflitto tra arabi e israeliani, ha provocato sommosse, ed anche un pogrom contro la comunità ebraica, che viveva in Libia da quattro secoli. I seimila ebrei sono dovuti partire da Tripoli con una valigia e venti sterline, lasciandosi tutti i beni alle spalle.

Nel '69, il 4 agosto, re Idris ha gettato la spugna. Ha annunciato che tra un mese, il 5 settembre avrebbe abdicato in favore del principe ereditario, Sayyid Hasan al-Rida al-Mahdi el Senussi. Ma il primo settembre, mentre Idris si faceva curare in Turchia, il colonnello Gheddafi ha preso il potere. Ha cancellato la monarchia. Il nuovo re ha regnato un solo giorno. La bandiera di re Idris è rispuntata in questi giorni in Cirenaica, a Tobruk e a Bengasi, al posto di quella verde di Gheddafi che ha sventolato sugli edifici pubblici per più di quarant'anni. 

(25 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #7 inserito:: Marzo 06, 2011, 11:35:42 am »

LO SCENARIO

L'Occidente soffia sul vento della rivolta ma la caduta dei raìs rafforza Teheran

La democrazia può germogliare nelle piazze, ma chiede tempo per radicarsi e prendere forma.

In alcuni paesi europei è arrivata dopo la guerra e milioni di morti.

L'Iran ha intensificato le sue infiltrazioni nei paesi che circondano l'Arabia Saudita

di BERNARDO VALLI

L'Occidente soffia sul vento della rivolta ma la caduta dei raìs rafforza Teheran Oppositori a Gheddafi nell'est della Libia
Non accade spesso, anzi è raro, che gli interessi degli Stati Uniti, e in generale dei Paesi occidentali, coincidano con i principi che professano. Gli avvenimenti libici creano questa ideale armonia, la quale sprona ad intervenire nel paese che si avvia a una guerra civile. Se viene spontaneo sottolineare il dovere imposto dalle convinzioni, alla base delle società liberali, diventa poi più arduo indicare come si possa passare a un'azione concreta.

Un'azione tesa ad evitare le stragi e a stabilizzare una regione strategicamente importante per le sue ricchezze minerali. Un'azione che intervenga in un mondo arabo in preda a un'esplosione di rivendicazioni, tra le quali non è certo ultima quella riguardante le libertà individuali. In cui è al momento vivo l'orgoglio di decidere il proprio destino; quindi forte il rifiuto di cedere quel diritto ad altri, siano essi tiranni indigeni travestiti da liberatori, o soccorritori stranieri, incolpevoli eredi di un vecchio imperialismo. Anche se l'America d'oggi ha un presidente che tra i suoi nomi ha anche Hussein, e tra i suoi parenti non pochi musulmani. E nel giugno di due anni fa, dall'Università del Cairo, lo stesso presidente lanciò un forte messaggio al mondo arabo. Forse un messaggio che ha favorito le rivolte contro i raìs.

Anche se umanitaria, una missione sul terreno implica un impegno militare, sia pur misurato ma di fatto in sostegno a una popolazione in lotta contro il vecchio, inaffidabile Gheddafi. È un intervento in terra araba.
Una presenza araba appare dunque indispensabile. Per togliere atavici sospetti o infondati pregiudizi. Indispensabile sarebbe, in tutti i casi, una concertazione con la Lega araba, che ha appena espulso il colonnello Gheddafi e al tempo stesso condannato ogni intervento straniero. Alla guerra del Golfo, quella del '91, contro Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait, una terra araba, parteciparono reparti di vari eserciti, sia pur simbolicamente, da quello egiziano a quello saudita a quello marocchino. Gli occidentali, americani e inglesi, si impegnarono invece da soli nella impopolare, disastrosa impresa irachena del 2003. E sembrò una crociata.

Gheddafi era già screditato da tempo agli occhi delle altre capitali arabe. Non a caso ad esprimergli solidarietà in questi giorni sono stati leader lontani: Manuel Ortega dal Nicaragua, Fidel Castro da Cuba, Hugo Chavez dal Venezuela. Il destino personale del colonnello libico non sta a cuore ufficialmente a nessuno, né nel Maghreb né nel Maschrek, nei paesi dell'Occidente e dell'Oriente arabo. Ma gli avvenimenti libici tolgono il sonno ai raìs e ai monarchi politicamente sopravvissuti alla ventata rivoluzionaria che ancora investe, o sfiora, le terre abitate da trecento milioni di arabi tra il Mar Rosso e l'Atlantico. I rumori della guerra civile, in Tripolitania e in Cirenaica, raggiungono come un incubo le dimore reali dei Saud, dei Khalifa, degli Haschemiti, degli Alauiti, le varie dinastie che regnano da Riad a Rabat. Con il terremoto ancora in corso, nessuno è in grado di sapere come sarà il paesaggio politico dopo l'ultima scossa. E quali raìs saranno sopravvissuti politicamente. Non tutti, malgrado l'avversione per Gheddafi, sono disposti a partecipare con slancio a un'eventuale spedizione, destinata ad alimentare il vento della rivolta. Poiché contribuirà alla caduta di un altro raìs.

L'Egitto e la Tunisia sono ancora in fermento. Avanzano con fatica verso modelli politici con ambizioni democratiche ma ancora imprecisi. I primi ministri da poco nominati si sono dovuti dimettere, al Cairo e a Tunisi, sotto la pressione di opinioni pubbliche appena emerse, che esigono volti nuovi. La democrazia può germogliare nelle piazze, ma chiede tempo per radicarsi e prendere forma. Agli amici tunisini ed egiziani che, a qualche settimana soltanto dalla destituzione dei rispettivi raìs, lamentano la lentezza con cui si forma il nuovo sistema politico, ricordo che la democrazia è arrivata in alcuni paesi europei dopo una guerra di cinque anni e milioni di morti. La reazione è immediata. Da loro, dicono, tutto avverrà rapidamente; cosi come è stata veloce l'insurrezione nel dare risultati. Nell'epoca del web tutto va di fretta, e la loro è stata appunto la rivoluzione del web. Gli amici tunisini ed egiziani dimenticano che il computer è uno strumento. È soltanto un mezzo.

Gli americani non si fanno troppe illusioni. Le rivolte annunciano democrazie, sono un avvenimento storico, e gli Stati Uniti le hanno favorite, ma i mutamenti politici che quelle rivolte provocano sono carichi di insidie. Gli esperti mediorientali vedono la lunga mano dell'Iran teocratico che cerca di radicarsi, soprattutto nei paesi limitrofi all'Arabia Saudita. E' come se fosse in corso una grande sfida tra Teheran e Riad. Da un lato il regno saudita, custode dei luoghi santi, La Mecca e Medina, ad anche baluardo dell'Islam arabo e sunnita; dall'altro la Repubblica islamica fondata da Khomeini, persiana e sciita. Due roccaforti di fondamentalismi rivali.

Il vento della protesta ha raggiunto anche l'Iran, al punto da spingere il regime a mettere sottochiave i capi dell'opposizione, l'ex primo ministro Hussein Moussavi e l'ex presidente del Parlamento, Mehdi Karroubi. Ma la Repubblica islamica ha intensificato le sue infiltrazioni nei paesi che circondano l'Arabia Saudita. Nello Yemen le manifestazioni contro Ali Abdullah Saleh continuano nonostante le concessioni fatte dall'inamovibile raìs. Più insidiose ancora sono le crisi nell'Oman, e, soprattutto, a Bahrein, dove la maggioranza sciita chiede di essere riconosciuta come tale dalla monarchia sunnita (degli al-Khalifa). E rischia di trascinare nella protesta la minoranza sciita in Arabia Saudita. Una minoranza di notevole importanza perché popola le regioni petrolifere. Inoltre Bahrein è sede dello stato maggiore della Quinta flotta americana, alla quale è affidata la sorveglianza del Golfo, quindi dell'Iran, e che in questi giorni ha mandato due unità nel Mediterraneo, affinché restino al largo della Libia.

Di quanto sia forte il malessere nel Regno dei Saud, grande storico alleato degli Stati Uniti dai tempi di F. D. Roosvelt, lo prova il rientro precipitoso, il 23 febbraio, di re Abdullah. Il vecchio monarca, 87 anni, era assente da tre mesi. Era stato operato a New York e trascorreva una convalescenza in Marocco, quando è ritornato in patria per raffreddare le impazienze dei sudditi con una pioggia d'oro. Trentasei miliardi di dollari di elargizioni; un aumento del 15 per cento dei salari dei funzionari; premi per studenti e disoccupati; e 400 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni per rinnovare il sistema scolastico e universitario. La monarchia saudita conosce seri problemi per quel che riguarda la successione. La corona passa di fratello in fratello, o di fratello in fratellastro, tutti figli (37) di Ibn Saud, il fondatore della dinastia. Nell'attesa che accedano al trono i nipoti cinquantenni, a re Abdullah dovrebbe succedere Sultan, il quale ha 83 anni e pare soffra della malattia di Alzheimer. Per un regno che vive tempi difficile non è l'ideale. Sultan era a sua volta in convalescenza in Marocco, quando in autunno è dovuto rientrare a Riad, per sostituire Abdullah che partiva a New York per farsi operare.

Secondo i coniugi Leverett, Flynt e Hillary, entrambi ex membri del National Security Council, l'Iran starebbe conquistando l'influenza che l'Arabia Saudita ha perduto nella regione. Le spedizioni militari del presidente Bush jr hanno fortemente contribuito a rafforzare l'Iran, vale a dire il peggior nemico degli Stati Uniti. Intervenendo in Afghanistan nel 2001, per inseguire invano i capi di Al Qaeda, mandanti dell'attentato alle Torri Gemelle, Bush jr ha sconfitto i Taliban, che in quanto integralisti sunniti erano nemici implacabili degli iraniani, considerati eretici sciiti. Poi nel 2003, sempre Bush jr, ha eliminato Saddam Hussein, avversario acerrimo dell'Iran khomeinista. Il riconoscimento della maggioranza sciita in Iraq, avvenuto grazie alle giuste elezioni volute dagli americani, ha inoltre creato a Bagdad un governo sciita che ha inevitabili buoni rapporti con Teheran.

Così gli Stati Uniti hanno favorito il loro peggior nemico, l'Iran, e hanno fragilizzato l'Arabia saudita, il loro miglior alleato arabo. Adesso l'Arabia saudita potrebbe essere a sua volta colpita dalla "primavera dei popoli", che fiorisce in Medio Oriente, ma che per il Regno dei Saud, ben lungi dall'essere un esempio di democrazia, non sarebbe una buona stagione. Né lo sarebbe, nel caso saudita, per l'America di Obama, che rischierebbe di perdere un alleato devoto. La Libia è geograficamente lontana, ma terribilmente vicina come tragedia in atto, che potrebbe ripetersi.

(04 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 22, 2011, 10:29:54 pm »

BENGASI

Gli insorti tornano all'offensiva nella strada del deserto si decide il futuro

L'intervento della coalizione ferma le truppe lealiste.

La "Nuova Libia" è ancora in cerca di una leadership che possa colmare il vuoto di potere.

Nella città ribelle regna la paura

di BERNARDO VALLI


BENGASI - Sul terreno è evidente quello che sulla lontana ribalta politica internazionale può essere fonte di dubbio o di ambiguità. Basta avanzare sulla strada che porta a Tripoli. È sufficiente un breve tratto dei 1200 chilometri che separano la capitale della Libia dal capoluogo della Cirenaica.

Le truppe di Gheddafi li avevano percorsi tutti arrivando venerdì sera alle porte di Bengasi. Non dico che li avessero interamente occupati e li avessero sotto controllo. Lungo il tragitto, nel deserto, e in alcuni centri abitati, medi e piccoli, c'erano sacche di resistenza e gli insorti davano filo da torcere perfino a Misurata, che non è tanto distante da Tripoli. Lo danno ancora. Si poteva comunque sostenere che gli uomini dei raìs avessero messo le mani sul 70 per cento del territorio che conta. Venerdì sera era così.

Poi la decisiva controffensiva degli insorti e il successivo intervento dei Mirage e Rafale francesi, i cui primi bersagli sono stati alcuni mezzi blindati alle porte di Bengasi, hanno ricacciato indietro i gheddafisti (d'ora in poi li chiamerò così) di 50 chilometri. Adesso sulla strada di Tripoli non se ne vedono per più di 200 chilometri, forse 250, fin quasi ad Ajdabiya, loro ultima, contrastata conquista. Si incontrano invece gli uomini armati della Libia libera.

La conclusione è che l'operazione Alba dell'Odissea, il cui compito è di garantire una no-fly zone, al fine di impedire all'aviazione gheddafista di imperversare sulla popolazione, è servita e serve non tanto indirettamente d'appoggio agli insorti. I quali hanno cominciato a recuperare il terreno perduto a ovest. E la conseguenza logica. L'intervento deciso dal consiglio di sicurezza non è asettico. Non può esserlo. Per i principi che l'hanno ispirato non è neutrale. Anche se gli hanno formalmente imposto dei limiti. Limiti che alcuni membri della coalizione sono pronti tuttavia a superare, puntando apertamente sull'eliminazione del regime di Gheddafi.
Gli aerei della coalizione e i missili della Us Navy riducono drasticamente la logistica dei gheddafisti. Tagliano le loro vie di rifornimento e date le enormi distanze è impossibile per loro conservare tutte le città che hanno conquistato lungo la costa. Brega, Ras Lanuf, la stessa Sirte (centro della tribù del raìs) e tante altre località rischiano quindi di cambiare padrone di nuovo. Fino a che le linee di rifornimento, in prossimità di Tripoli, non si accorceranno. Allora la tenuta dei gheddafisti sarà più efficace. E, tolta la no-fly zone, potrebbero ricominciare la riconquista e la repressione.

Quanto durerà l'operazione Alba dell'Odissea? L'equivalente intervento in Serbia è durato a lungo, e il regime serbo, quello di Milosevic, è durato ancora di più. La Libia libera e il suo approssimativo esercito potrebbero non avere il tempo di riorganizzarsi sul serio, nonostante la consulenza, l'appoggio di esperti militari (si dice) inglesi, e l'arrivo di armi dall'Egitto. Alba dell'Odissea potrebbe finire prima del crollo dei ghedafisti. Se non accade qualcosa all'interno del bastione in cui è arroccato il Rais. I suoi potrebbero destituirlo o eliminarlo, visto il disperato isolamento, senza via d'uscita.

A Bengasi è stata festeggiata la risoluzione dell'Onu.

E l'intervento aereo è stato accolto con entusiasmo, ma l'inquietudine sussiste. Molti negozi hanno ancora le saracinesche abbassate, esclusi quelli degli alimentari. E la città non è più imbandierata come i primi giorni dell'insurrezione. La gente non si fida. Molti commercianti preferiscono essere prudenti, si adeguano alle voci che prospettano punizioni a chi osa riprendere un'attività normale, nel caso di un ritorno di Gheddafi. Il quale suscita l'angoscia di un fantasma. E' durato più di quarant'anni e non si sa come e quando sparirà.
Saleh Al Gazal è un commerciante. E' un signore elegante di mezz'età, molto garbato, ma non abbastanza per non ricordarmi che sono un connazionale di Berlusconi, l'uomo del baciamano a Gheddafi. É il presidente del consiglio nazionale della città di Bengasi. Il suo ufficio, nel palazzo del tribunale, era quello di un giudice. Adesso sembra che vi abbia bivaccato una compagnia di "chabab", di giovani combattenti.

Saleh Al Gazal cerca di convincere i negozianti ad aprire i battenti. Ma dice che ci vuole tempo per rassicurare la gente. Il trauma dei giorni scorsi, provocato dai gheddafisti alle porte della città ha lasciato tracce. Neppure lui crede che la guerra civile finirà con l'imposizione della no-fly zone. E non riesce ad immaginare la sorte riservata a Gheddafi. "Quando non ci saranno più gli aerei amici resteremo con i nostri cuori e con poche armi".

La via Gamal Nasser è nel cuore di Bengasi. La percorro lentamente per vedere se c'è qualche negozio aperto. Tutte le saracinesche sono abbassate e non c'è una sola bandiera appesa alle finestre. Pochi pedoni. Qualche automobile. Il mio nuovo amico, un ex ufficiale di Marina, mi ricorda che proprio in via Gamal Nasser "è cominciata la rivoluzione". Un avvocato, Fathi Turbil, era stato arrestato da Abdullah Senussi, capo dei servizi segreti e cognato di Gheddafi, per la sua insistente attività di difensore delle famiglie delle vittime del massacro avvenuto nella prigione di Busalim, a Tripoli. A metà degli anni Novanta un gruppo di islamisti reduci dall'Afghanistan aveva organizzato sulle Montagne Verdi (luogo storico della lotta contro il colonialismo italiano) un gruppo di resistenza al regime dell'"infedele" Gheddafi.

Tutti i congiurati erano stati arrestati e poi trucidati (in 1270) nella prigione di Busalim, come rappresaglia in seguito a una rivolta dei detenuti. L'avvocato Fathi Turbil chiedeva la restituzione dei corpi alle famiglie quando è finito a sua volta in prigione. Il 15 febbraio, in Via Gamal Nasser, quattordici suoi colleghi chiedevano la sua liberazione. La partecipazione popolare alla protesta fu sorprendente. E la polizia non esitò a sparare. Due giorni dopo, il 17 febbraio, i sopravvissuti e i familiari del massacro nella prigione di Busalim promossero un'altra protesta, e così, quel 17 febbraio, ispirata dai fatti di Tunisia e di Egitto è esplosa l'insurrezione.
Le notizie provenienti da Tunisi e dal Cairo hanno fatto emergere gruppi clandestini, più latenti che operativi, e hanno attizzato la collera della gente fino allora soffocata. Una collera che ha coinvolto reparti dell'esercito e unità della polizia dalle quale sono arrivate le prime armi. Questa sommaria cronaca, di avvenimenti destinati alla storia nazionale, vuole sottolineare la spontaneità, ed anche la fragilità, della rivoluzione democratica, libica. Il suo attuale capo, più simbolico che reale, presidente del Consiglio nazionale di transizione, è un anziano giudice fino al 21 febbraio ministro di Gheddafi. Mustafa Abdel-Jallil è un personaggio schivo e rispettabile la cui base è a Beida, residenza della monarchia soppressa da Gheddafi nel 1969. Riesce difficile pensare che Mustafa Abdel-Jallil sia in grado di colmare il vuoto di leadership. Al suo fianco, nel consiglio nazionale, che funge da comitato di liberazione da governo provvisorio, alcuni membri hanno rifiutato di rendere pubblica la loro identità per paura di rappresaglia non si sa mai. Come dice Saleh Al Gazal, nel suo sgangherato ufficio di Bengasi, affacciato sul mare, dopo quarant'anni di Gheddafi ci sono "soprattutto i cuori" per combatterlo. Gli aerei della coalizione dovrebbero lasciare il tempo di creare il resto.

(22 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 23, 2011, 11:29:32 am »

Libia, anatomia degli insorti

Al fronte in sella a una Kawasaki i sorridenti guerrieri della rivoluzione

Un inno ispirato a Jim Morrison per l'esercito della nuova Libia.

Gli shabab sanno anche essere spietati.

Dei loro prigionieri non c'è più traccia

di BERNARDO VALLI


BENGASI - È un reduce della battaglia di Ras Lanuf, città perduta giorni fa e adesso in mano a Gheddafi: ma lui, Ali, è sicuro di riconquistarla  presto. Come molti shabab, ragazzi combattenti, Ali tiene in scarso conto la realtà. È un po' sbruffone. Non sarà infatti facile riprendere Ras Lanuf perché quel centro petrolifero, uno dei più importanti, in bilico sulla costa mediterranea, si trova a più di duecento chilometri, è dopo Brega, anch'essa occupata da Gheddafi, sulla strada per Tripoli. E prima di raggiungere Brega, bisogna recuperare Ajdabiya, un osso duro con il quale sono alle prese in queste ore gli insorti, rinfrancati dagli aerei della provvidenziale coalizione dell'Onu in volo nel cielo della Libia.

Ali è a cavallo di una Kawasaki immobile, con il motore acceso, davanti al palazzo del Tribunale, dove si trova il Consiglio nazionale di Bengasi. Ha un kalashnikov a tracolla e dimostra la sua impazienza tormentando l'acceleratore. Ha fretta di raggiungere il fronte. Gli chiedo se parte in guerra da solo e mi risponde che ha con sé il Tnt. Mi indica le due sacche posteriori della motocicletta. Sono gonfie. Sono piene di bastoni di dinamite. Dinamite per la pesca nel Mediterraneo che adesso serve da artiglieria (Ali dice proprio così) contro i gheddafisti.

Ali non deve avere vent'anni, la barba lo invecchia un po', indossa camicia a scacchi e blue jeans. L'esercito della Libia libera non ha una divisa. Non ha avuto il tempo di disegnarne una. Neanche ci ha pensato. Non ha avuto neanche il tempo di organizzarsi in unità di stampo militare. È un esercito sbrindellato, con cappelli da cowboy, giubbotti di cuoio, kefiah alla palestinese, berretti da malavita, ma anche abiti borghesi, composti, da gente anonima, perbene. C'è di tutto.

Alcuni reparti sembrano disciplinati, come possono esserlo studenti, operai, contadini, professionisti, funzionari, offertisi volontari, e messi insieme a casaccio, di gran fretta, dopo un addestramento di poche ore, con armi d'occasione, abbandonate o consegnate dai disertori della polizia e dell'esercito. Oppure arrivate dall'Egitto e fornite non si sa da chi. In quanto ai mezzi di trasporto, per percorrere le grandi distanze tra una città e l'altra, nel deserto, ognuno si arrangia come può. Ali è un privilegiato. Il padre è medico. Può andare al fronte sulla sua moto. Ma su quale fronte e agli ordini di chi? Non credo lo sappia neppure lui. Vedrà sul posto.
Gli ufficiali di Gheddafi, passati agli insorti, hanno cercato di raccogliere camion e altri mezzi, furgoni o trattori con rimorchio, per formare colonne in grado di trasportare decine, a volte centinaia di shabab. O sui quali montare mitragliatrici e batterie antiaeree recuperate nelle caserme abbandonate o conquistate. È raro imbattersi in quelle colonne, ma quando ti capita dubiti che le truppe trasportate possano affrontare un combattimento.

Sugli schermi di Al Jazeera, la televisione araba (del Qatar) più seguita e apertamente in favore dell'insurrezione, i miliziani della Libia libera hanno facce grintose. Agitano i kalashnikov e cantano inni di guerra. Nella realtà, a contatto diretto, umano, il loro entusiasmo risulta autentico. Ma le grinte televisive diventano sorrisi. Di guerriglieri così accoglienti, disponibili, direi cordiali, non riesco a trovarne nella mia lunga memoria. E penso sia così, altrettanto candida e confusa la loro insurrezione. Senza rabbia apparente. Una rivoluzione elementare, semplice, senza sofisticazioni ideologiche. Con, almeno per ora, un unico obiettivo, sbarazzarsi della dittatura, schiodare Gheddafi dal potere, e conquistare una libertà che assomiglia a quella diffusa dalle televisioni e dai siti web occidentali. Non si ricava altro dalle conversazioni con i responsabili o i semplici combattenti.

Ma shabab sono anche ragazzi imberbi, armati di un bastone, che su una strada del deserto ti offrono un pezzo di pane o una tavoletta di cioccolato, se pensano che tu sia un profugo. Ci sono anche shabab che cercano di dirigere il traffico. Sto offrendo un'immagine candida della rivolta libica, che pure sa essere feroce. Pochi mercenari africani al servizio di Gheddafi, catturati dagli insorti, sono stati risparmiati. Ed è inutilmente che ho chiesto di vedere i prigionieri fatti dal 17 settembre in poi. Non è un buon segno.

Il misto di generosità e di spietatezza è tipico di molte insurrezioni. In quella libica c'è un elemento particolare. Il paesaggio politico è stato per quarant'anni un deserto. Ma quel che è rimasto vitale è il tessuto tribale. Durante il suo regno, anche nei momenti di popolarità, e certamente ce ne sono stati durante i primi vent'anni, Gheddafi si è destreggiato nel panorama tribale distribuendo i soldi del petrolio o reprimendo brutalmente. Comprando l'appoggio di clan e tribù o isolando quelli irriducibili. Ma negli anni successivi si sono inseriti nel mosaico delle tribù, nonostante l'isolamento, molti elementi della modernità. E il raìs è apparso vecchio, obsoleto, superato. Il giovane Ali, sulla Kawasaki e il kalashnikov a tracolla, e i suoi compagni, sono il prodotto di quel miscuglio: da un lato l'ospitalità tribale e l'implicito senso della rivalità che può essere spietato, crudele, dall'altro l'aspirazione a una libertà, a un'indipendenza individuale, alimentata dalle informazioni con sempre meno frontiere. Così il carattere tribale si è sposato con la modernità.

Anche Jim Morrison è entrato a suo modo nella rivoluzione del deserto. Come il movimento occidentale dei diritti civili ha avuto Morrison, così l'insurrezione libica ha adesso Adil Mashaiti, un dottore di 37 anni, un tempo studente a Londra e poi ospite delle prigioni di Gheddafi, dove ha composto, ispirato appunto da Morrison, quello che può essere considerato un inno della rivoluzione. Con voce sommessa, sullo sfondo di grida e spari, Mashaiti canta: "Staremo qui fino a quando il nostro dolore sarà sparito. Resteremo vivi cantando con amore. Nonostante tutte le vendette, arriveremo sulla vetta e ci rivolgeremo al paradiso. Staremo insieme con un balsamo e una penna". Era singolare ascoltare queste parole su una piazza di Bengasi dopo un mese di guerra civile. Di solito, quando Gheddafi appare su un televisore, esplodono grida come "a morte subito".
 

(23 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 24, 2011, 05:13:27 pm »

IL REPORTAGE

Con i mitra contro le mura di Ajdabiya la Rivoluzione impigliata in un borgo

I missili dell'Occidente non sbloccano l'avanzata ribelle verso Ovest.

I gheddafisti hanno perso l'aviazione ma resistono grazie ai loro cannoni

di BERNARDO VALLI


BENGASI - Ajdabiya rischia di diventare un nome maledetto. Adesso, nella guerra civile promossa a crisi internazionale, quel banale borgo, che se ha un'anima l'ha ben nascosta, è una località strategicamente rilevante. I giovani combattenti (shabab) della Libia libera dovrebbero espugnarlo. Dovrebbero riuscirci al più presto. Se non ce la fanno sono guai per tutti. Salvo per Gheddafi che lo controlla.

Per ora le notizie non sono buone. Ajdabiya era un grosso centro senza alcun interesse. Uno non ci pensava neppure di passare un week-end all'hotel Amal, appostato a nord della città, in direzione di Tripoli. Soltanto per i mercanti provenienti dal Sahara era una meta ambita. Dopo estenuanti cammellate potevano bagnarsi i piedi nel Mediterraneo che è a due passi. Per i camionisti era un incrocio importante perché da lì si diramano le strade per Bengasi, Kufra, Tobruk, Sirte. Inoltre a ovest, sempre di Ajdabiya, ci sono gran parte dei giacimenti petroliferi.

Gli insorti hanno perduto Ajdabiya quando i gheddafisti sono partiti alla riconquista delle città ribelli. Se adesso riuscissero a recuperarla la grande operazione aerea benedetta dall'Onu potrebbe segnare un importante punto in proprio favore. Sarebbe un successo. Significherebbe che l'appoggio degli aerei della coalizione ai giovani combattenti della Libia libera serve a qualcosa; e che i tempi della no-fly zone non rischiano di allungarsi troppo, perché dopo Ajdabiya gli insorti risalirebbero verso ovest e recupererebbero Brega, Ras Lanuf, e, perché no? Sirte, fino a ridurre lo spazio di Gheddafi, arroccato a Tripoli.

Ma i combattenti della Libia libera sono insabbiati davanti ad Ajdabiya. Non avanzano. Non ce la fanno. Sono lì nel deserto che guardano le mura della città con i kalashnikov puntanti, svelti nel disperdersi al primo missile o colpo di mortaio. Non c'è ombra di un comando, sembra che ogni combattente agisca di propria iniziativa, come e quando vuole. Si ha l'impressione che uno shabab si alzi dal letto quando gli conviene, vada al fronte, poi a casa all'ora di pranzo, con un mezzo proprio se ce l'ha e, poi ritorni davanti ad Ajdabiya fino al tramonto. I tempi rischiano di allungarsi, e l'impegno delle potenze occidentali di diventare più pesante.

Sarebbe ingiusto dare addosso a giovani, spesso imberbi, perché non mettono abbastanza in gioco la loro vita. L'entusiasmo e il coraggio che non mancano, sono insufficienti per affrontare una forza militare addestrata e meglio armata qual è l'esercito di Gheddafi. Non c'è shabab che non avanzi le stesse ragioni per spiegare i motivi dello sconforto generale. L'impotenza davanti a Ajdabiya, benché spiegabile, è umiliante. Loro, i gheddafisti, hanno le "cavallette". Le cavallette sono i razzi che piovono come la grandine sugli attaccanti armati di soli mitra, armi utili soltanto in scontri di città, di casa in casa, di strada in strada e non per espugnare una città. Hanno anche qualche carro armato, "quei figli di sharmutta", puttana, che tengono a distanza i nemici grazie ai loro cannoni con gittate senza concorrenza.

Hanno perduto l'aviazione; anche gli aerei risparmiati dai Mirages e dai Tornado della coalizione sono infatti inchiodati a terra dalla no-fly zone; la quale non consente loro di decollare. Ma resistono lo stesso, "quei figli di sharmutta", e bloccano quella che doveva essere la grande controffensiva degli insorti. Dall'America è arrivato un generale, libico s'intende, che dovrebbe porre rimedio alla scarsa preparazione militare dei giovani combattenti, più manifestanti armati che soldati. Si chiama Khalifa Hefter e, prima di litigare con Gheddafi ha comandato le truppe libiche nel Ciad. Molti contano su di lui. Ma il generale Hefter ha bisogno di tempo e il tempo scarseggia.

Da Bengasi è partito un Sos diretto alla delegazione libica dell'Onu, di New York, passata da tempo con la Libia libera, affinché chieda un impegno più forte della coalizione contro i gheddafisti. Più incursioni, più bombe. La tattica prevista era probabilmente quella di tagliare le linee di rifornimento alle città conquistate dai gheddafisti e allineate lungo la costa mediterranea di milleduecento chilometri, da Tripoli a Bengasi. Città, in particolare quelle orientali, a grande distanza una dall'altra, quindi con una logistica vulnerabile. Una volta isolate dovevano diventare una facile presa per gli insorti. La resistenza di Ajdabiya ha dimostrato che non è così i giovani della Libia libera non sono in grado, almeno per ora di lanciare un'offensiva efficace.

La nuova tattica chiede più impegno da parte della coalizione, più spregiudicatezza nella scelta degli obiettivi, e soprattutto più tempo. Perché adesso bisogna attendere che le guarnigioni gheddafiste soffrano dell'isolamento al punto da non poter resistere alla popolazione ostile. Oppure aspettare un'erosione dell'alleanza tribale su cui Gheddafi si appoggia. Quelli della tribù Warfalla, numerosa e potente, non sempre fedele a Gheddafi, ma una decisiva componente del suo schieramento, potrebbe riservare sorprese. Si tratta tuttavia di semplici ipotesi avanzate in soccorso della debolezza militare obiettiva della Libia libera.

Finora non si può certo dire che la coalizione abbia fallito i suoi primi obiettivi. I Mirages e i Rafales francesi hanno sparato con precisione i colpi iniziali alle porte di Bengasi, dove ci sono ancora i carri armati sventrati dai loro missili. I jet francesi hanno di fatto salvato Bengasi, dove venerdì sera si erano già infiltrate le avanguardie gheddafiste. Adesso nella città domina l'angoscia. Si teme che le incursioni aeree della coalizione non siano sufficienti e che la Libia libera non sia in grado di difendersi da sola, quando quelle incursioni cesseranno. Si teme, insomma, che il ritorno di Gheddafi non sia affatto scongiurato. A Bengasi ritornerà la tranquillità quando il raìs non sarà più di questa terra.

(24 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 28, 2011, 06:15:48 pm »

IL REPORTAGE

La lunga marcia degli insorti

di BERNARDO VALLI

La Libia rivela l'Italia. E gli italiani. Riflessi nello specchio libico, periodicamente riscopriamo alcuni caratteri che ci rendono riconoscibili a noi stessi e al mondo. Purtroppo non i migliori. La prima volta fu cent'anni fa, quando la "Grande Proletaria" volse alla conquista di Tripolitania e Cirenaica. E gli automezzi carichi di munizioni e viveri, e le armi automatiche, mitragliere e lancia razzi, che si lasciano alle spalle sono segni concreti di un fuga, e non di una ritirata strategica, come affermano i portavoce di Tripoli.

In poche ore, da quando hanno dovuto abbandonare Ajdabiya, la città che sembrava imprendibile a centosessanta chilometri da Bengasi, le truppe lealiste sono state costrette ad allontanarsi precipitosamente dalla Cirenaica in rivolta, della quale stavano per riprendere il controllo.

Gli shabab, i ragazzi delle bande ribelli, sono entrati nella tarda mattina di ieri a Ras Lanuf, l'importante centro petrolifero, dopo avere occupato Brega ed altre due località minori. Più che una battaglia è stata una corsa di almeno trecento chilometri. La strada costiera sembra quella di una città all'ora di punta. Colonne di autocarri e camionette made in Japan corrono verso Ovest, portando ribelli che sparano per aria in segno di vittoria, E adesso l'obiettivo più ambizioso è la provincia della Sirte, dove è nato Gheddafi, e dove si trova la sua tribù d'origine. Quando covava grandi sogni, il colonnello voleva fare del modesto capoluogo la capitale degli Stati Uniti d'Africa. Se i suoi soldati dovessero abbandonarlo, sarebbe per lui una dura umiliazione.

Questa cronaca, con accenti in apparenza trionfalistici, deve essere accompagnata da un'analisi assai meno ottimista. Comunque ricca di incognite. La situazione si è rovesciata perché la dinamica degli interventi aerei della coalizione, in particolare quelli francesi e inglesi, è cambiata. Si è intensificata e inasprita. Gli attacchi non hanno più come bersagli l'aviazione e gli altri mezzi militari impegnati a colpire o a minacciare la popolazione civile. Questo è accaduto in generale all'inizio dell'operazione no-fly zone. Poi sono state prese di mira le truppe a terra. E' quel che è accaduto ad Ajdabiya. I soldati di Gheddafi erano asserragliati nella città con i loro carri armati e tenevano a distanza con qualche razzo o tiro di mortaio gli shabab non abbastanza armati per promuovere un vero assedio. Gli aerei della coalizione sono intervenuti e hanno ridotto al silenzio con i loro missili l'artiglieria e i mezzi blindati dei gheddafisti. I quali sono stati costretti ad abbandonare la città, dove gli shabab sono entrati quando era praticamente vuota. Senza l'appoggio degli aerei francesi e inglesi sarebbero rimasti inchiodati alle porte di Ajdabiya. Con i loro poveri kalasnikov e qualche vecchia mitragliatrici non avrebbero potuto fare altro. Molto più a Ovest, non lontano da Tripoli, nella città portuale di Misurata un coraggioso gruppo di shabab tengono testa ai gheddafisti. La sorte di quella città isolata dove si combatte da settimane tiene in ansia i libici dei due campi. Da alcune ore gli aerei francesi scaricano missili sui gheddafisti. Il loro è un appoggio diretto agli shabab, che lo meritano.

L'interpretazione della risoluzione dell'Onu lascia aperto un ampio campo d'azione. L'obiettivo della no-fly zone è di proteggere i civili. Ma l'intero apparato militare di Gheddafi è destinato a reprimere la popolazione insorta in febbraio contro la dittatura del raìs di Tripoli. Quindi l'attività degli aerei della coalizione può, o deve, essere implicitamente estesa a tutte le forze armate lealiste. Comprese quelle di terra al momento non impegnate contro la popolazione civile. Sul terreno la nuova dinamica adottata da francesi e da inglesi interpreta la risoluzione del Consiglio di Sicurezza in senso lato. In breve: per proteggere la popolazione civile bisogna eliminare l'apparato militare di Gheddafi. E questo implica la messa fuori gioco dello stesso Gheddafi.
Ogni eventuale trattativa deve condurre non solo all'allontanamento di Gheddafi, al suo esilio, quindi alla sua definitiva messa fuori gioco, ma anche allo smantellamento di quel che resta del suo regime. Poiché i successori, i figli o gli stretti alleati tribali, potrebbero facilmente ripartire alla riconquista della Libia perduta, una volta che questa non fosse più protetta dalla coalizione, tra poche ore affidata alla direzione militare della Nato. La ribellione, che ha la sua sede a Bengasi, ha bisogno di tempo per creare le necessarie strutture politiche e un esercito in grado di competere con quello di Tripoli, sia pur dimezzato. Un portavoce della Nato ha previsto che la no-fly zone potrebbe durare tre mesi. Sembrano molti, ma non mi paiono sufficienti.
Bengasi conta su un intervento più forte della coalizione. Soprattutto nei prossimi giorni e settimane, quando i suoi shabab, avvicinandosi ai capisaldi occidentali di Gheddafi, dovranno affrontare una resistenza ad oltranza, e l'impegno di Mirages, Rafales e Tornado, e dei missili americani, saranno essenziali, come lo sono stati del resto nell'ultima settimana. Finora la guerra civile si è svolta sulla striscia di terra che si stende tra il Mediterraneo e il deserto, nelle rare città distanti una dall'altra spesso centinaia di chilometri. Le battaglie calano dal cielo, come nell'Apocalisse. E si spandono in un paesaggio per lunghi tratti vuoto, lunare. Sono micidiali e irreali.

Il cronista che ha seguito per decenni le tragedie arabe, che ha raccontato le vicende dei raìs avidi o generosi, crudeli o illuminati, odiati o amati, ma sempre subiti dalla loro gente, stenta a seguire con freddezza professionale questa insurrezione araba. Anche se ha imparato a detestare la violenza, come un chirurgo il cancro che cura, gli capita di vedere negli shabab dei paladini in lotta contro l'ingiustizia e il despotismo. Paladini disordinati, confusi e chiassosi, spesso armati di solo entusiasmo, in marcia sulla lunghissima, interminabile strada per Tripoli, dove forse non arriveranno mai.

(28 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/esteri/2011/03/28/news
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 12, 2011, 06:45:28 pm »

IL REPORTAGE

Negoziati segreti e tradimenti l'ultima battaglia del raìs

La guerra in fase di stallo: ribelli e lealisti non riescono a dare il colpo decisivo.

La coalizione non accelera: teme che la caduta della capitale porti a un bagno di sangue

di BERNARDO VALLI


BENGASI - È una tragedia classica. Sembra ricalcata su un testo antico. Manca soltanto il finale. Nessuno sa ancora quale sarà la fine del tiranno. Né chi gli vibrerà l'ultimo colpo, quello decisivo. Politico o fisico. Forse un collaboratore tra i più vicini, giudicato tra i più fedeli. Oppure una tribù che l'abbandona. Il tradimento estremo potrebbe essere ordito anche da un familiare. Nulla è escluso. Soltanto i tempi sono incerti. Nella realtà il sipario non cala a un'ora fissa.

Certa è la scena. Tutto ruota attorno al rifugio di Tripoli da dove Muhammar Gheddafi conduce la sua ultima battaglia di raìs. Ieri, poco prima dell'alba, si sono udite sparatorie nelle vicinanze e due testimoni hanno poi giurato di avere visto pozze di sangue sul selciato, presto cancellate. E quando la città si è svegliata ha scoperto che gli uomini armati si erano moltiplicati per le strade. Le armi erano più numerose dei cellulari in una contrada pacifica. Ne erano state distribuite nelle ore precedenti, senz' altro a persone fidate, non ancora incorporate nelle milizie e mobilitate per affrontare un'emergenza ormai estrema. Di miliziani non se ne erano mai visti tanti in giro, sulla Piazza Verde, nel suk della medina, nelle vicinanze della moschea Gurgi o dell'Arco di Marcaurelio. Era il segno evidente che il livello della tensione, del sospetto, della paura si era bruscamente alzato.

Il laccio infatti si stringe. Gheddafi lo sente ormai sul collo. Conta poco quel che accade sulla strada tra il Mediterraneo e il deserto, dove lealisti e ribelli si contendono una manciata di città vuote. Che Brega sia ancora nelle mani dei primi (come è ancora adesso), o sia sul punto di essere ripresa dai secondi, ha ormai scarsa rilevanza. I ribelli non hanno la forza di arrivare a Sirte, città natale di Gheddafi e punto strategico di primo piano, e ancor meno a Tripoli; e i lealisti non possono sottomettere la Cirenaica, e conquistare Bengasi dove c'è di fatto un governo provvisorio, con un ambasciatore accreditato, quello francese, e non pochi diplomatici che gli ronzano intorno nell'attesa di imitare Parigi. Un diplomatico italiano è tra questi. Gli aerei occidentali, sotto il comando della Nato, impongono dei confini a quel campo di battaglia, dove non si gioca la partita decisiva. Quel che si aspetta è lo sgretolamento del regime di Tripoli, il suo crollo, e non la conquista militare di Tripoli, che gli occidentali vorrebbero non avvenisse, per evitare vendette e conseguente spargimento di sangue.

Per Gheddafi e i suoi non sembra esistere una via di scampo. Tenuto conto del carattere del raìs, non è escluso che il fatto di essere isolato, in un mondo in larga parte ostile, sia per lui una situazione esaltante. Tragica, ma eccitante. Al tempo stesso terribilmente infida. Chi tradisce o chi pensa di tradire tra i cortigiani, tra i fedelissimi che lo circondano? La diserzione di Mussa Kussa, collaboratore fedele per decenni e complice di innumerevoli complotti e delitti, ministro al di sopra di ogni sospetto, è stata per il raìs una pugnalata alle spalle. Non è stata soltanto una fuga. Mussa Kussa ha portato a Londra i segreti del regime e anche vitali informazioni sull'apparato di sicurezza attorno al raìs di Tripoli. Mussa Kussa è senz'altro il più importante dei disertori, ma non è il solo. Rinuncio a elencare ministri ed alti ufficiali passati ai ribelli, perché non sono in grado di distinguere le notizie vere da quelle false, tra quelle diffuse dalle emittenti arabe, o dagli stessi responsabili del Consiglio nazionale di transizione, basato a Bengasi e ad Al Beida.

Il clima che regna attorno al raìs è rivelato dai tentativi di prendere contatto con le potenze occidentali. È la prova che si cerca una via d'uscita. Dei ribelli Gheddafi non si fida. Non li vuole come interlocutori. Potrebbero diventare giustizieri. Del resto i ribelli si sono dichiarati pronti a discutere, ma non con Gheddafi. Per questo Seif el Islam, il più ragionevole dei suoi figli, un tempo indicato anche come possibile successore, ha mandato a Londra un amico fidato, Mohammed Ismail, affinché getti le basi per una trattativa. Mohammed Ismail sarebbe già ritornato a Tripoli, e si ignora la disponibilità degli inglesi alle sue proposte. Né si conosce quel che lui, Mohammed Ismail, ha chiesto. La sua destinazione è tuttavia indicativa. La famiglia Gheddafi preferisce avere a che fare con gli occidentali. I quali sono però, almeno sul piano formale, nell'impossibilità di agire in prima persona. Spetta ai libici decidere gli affari interni al loro paese. Al massimo possono essere intermediari (e in quanto tali gli italiani potrebbero avere un ruolo).

Non sono gli avvenimenti militari sulla strada litoranea, che fanno comunque salire la (già alta) tensione a Tripoli. È la diffidenza, non certo nuova, che regna all'interno del regime. La sensazione è che il raìs abbia intensificato l'epurazione. Il sostegno su cui poteva contare all'inizio della crisi aveva tre fonti. Anzitutto i Warfalla, i quali sono installati a centottanta chilometri a sud-ovest di Tripoli, e costituiscono la tribù più numerosa del paese. Essi hanno inoltre una forte comunità nella capitale, e occupano posti di rilievo, come professionisti, commercianti e funzionari.

Altro sostegno di Gheddafi è la sua stessa tribù, concentrata nella provincia della Sirte a cinquecento chilometri a est di Tripoli. L'alleanza (definita "di sangue") tra Warfalla e la tribù di Gheddafi è precedente al colpo di Stato del '69. È antica e quindi difficile da sciogliere. Gheddafi ha potuto finora contare su quelle tribù e sul loro pregiudizio (a volte ostilità) nei confronti delle altre comunità libiche. In particolare di quella di Misurata. E questo spiega la gagliarda resistenza della popolazione di quel porto mediterraneo assediato da tutte le parti.

Per ora Gheddafi si è appoggiato sull'alleanza delle tribù a lui fedeli, che dominano un triangolo con base il Mediterraneo, e una profonda punta nell'interno del paese, dice il giornalista libico Mustafa Feturi. Ed è all'interno di quel triangolo che il raìs vive la sua tragedia.
 

(03 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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