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Autore Discussione: ROBERTO MANIA. Montezemolo rilancia "Tocca alla società civile"  (Letto 2627 volte)
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« inserito:: Aprile 03, 2011, 11:43:08 pm »

IL PERSONAGGIO

Montezemolo rilancia "Tocca alla società civile"

Non mancano i segnali positivi: dalla piazza delle donne alle proteste della cultura.

"Chi tace ha paura della macchina del fango"

di ROBERTO MANIA


RICOMINCIARE dalla società civile. Perché questo è il "serbatoio" per ricostruire una classe dirigente e anche una nuova classe politica. Luca Cordero di Montezemolo è ormai dentro la politica.

Venerdì a Napoli al congresso del sindacato di Polizia ha fatto un altro passo in avanti. Per il prossimo - probabilmente - bisognerà aspettare le elezioni politiche, quando ci saranno. "Ci vuole un ricambio", ripete guardando al bilancio "disastroso" della seconda Repubblica, quella nata proprio sotto la spinta di un nuovo protagonismo della società civile, contro Tangentopoli, contro la corruzione, le clientele. Contro la partitocrazia. E' da lì che si deve ripartire perché con questo governo Berlusconi "la società civile è sparita", diventata "suddita".

Sostiene Montezemolo: "Assistiamo a un indecoroso e inaccettabile disfacimento del senso delle istituzioni e della responsabilità pubblica. Il tutto accompagnato dal silenzio assordante della società civile, delle associazioni di rappresentanza e della classe dirigente del paese, che rischia di diventare complice del degrado". E' il sostanziale silenzio della Confindustria, delle grandi banche, degli intellettuali, degli imprenditori di peso, delle stesse fondazioni bancarie, ricche e potenti. Dalla retorica della società civile al disimpegno. E' la grande ritirata della società civile, appunto, dalla scena della politica. Con praterie sconfinate a vantaggio dei politici di professione. Quelli che ormai - secondo Montezemolo - non rendono più conto delle proprie scelte: non nell'economia, non nei temi istituzionali, non nella politica estera. Irresponsabili. "Non ci sono più argini se non quello del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano", dice Montezemolo.

Anche se qualche segnale positivo qua e là è affiorato. Il presidente della Ferrari pensa alla manifestazione delle donne del 13 febbraio scorso, alle proteste del mondo della cultura contro i tagli lineari decisi dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, alla "rivolta" di Diego Della Valle contro le vecchie pratiche che governano pezzi del nostro asfittico capitalismo finanziario, infine al marchionnismo. Ma certo c'è da domandarsi il perché del silenzio dei ceti dirigenti. Italia Futura, la fondazione di Montezemolo, è nata anche per ridare ruolo alla società civile, per ritrovare spazi di discussione, per avanzare proposte come fanno da sempre i think tank nelle democrazie anglosassoni senza contrapposizioni con i partiti perché le reciproche funzioni sono distinte. E i collaboratori di Montezemolo che lavorano nella Fondazione dicono che è la "paura" il motivo del grande silenzio.

Paura di finire nella "macchina del fango". "Il caso Fini - spiegano - è emblematico. Un modo in cui il potere ha voluto manifestare la sua faccia feroce". Paura, probabilmente, che paralizza le associazioni di rappresentanza (Confindustria in testa) di fronte al dilagare dell'interventismo del governo nell'economia. "Assistiamo al ritorno di un'influenza fortissima del governo nell'economia, mentre è calato il livello dell'indipendenza. Vale per le banche, come per le fondazioni stesse. Eppure avrebbero dovuto svolgere un'azione di compensazione rispetto allo strapotere di un presidente del Consiglio che controlla quote significative dei mezzi di comunicazione di massa". Di anomalia in anomalia. Come quella di un governo "sedicente liberale" che ha cancellato molte delle liberalizzazioni fatte, che ripropone le tariffe minime e fa scrivere le riforme alle corporazioni delle professioni.

Montezemolo riflette sul caso Parmalat, sul ritorno dell'Iri attraverso lo snaturamento della Cassa depositi e prestiti che vuole e che celebra Tremonti da Cernobbio. Eppure di fronte allo "yogurt diventato uno strategico interesse nazionale" dal mondo dell'economia non si è praticamente alzata una voce critica. E' anche questa quella sorta "complicità con un blocco di potere conservatore, nel senso etimologico del termine, che rende silenti le elite italiane". Ma nello stesso tempo è "la sottomissione della società civile". A Italia Futura la chiamano la "nuova monocrazia": non si decide in base alle esigenze delle imprese bensì in base alle esigenze del governo, o addirittura del ministro Tremonti. Colpa anche dell'Europa che sembra aver esaurito la sua spinta modernizzatrice. "Così - afferma l'ex presidente della Confindustria - mai come ora gli imprenditori che esportano si sono sentiti soli". Anche per questo gli argini non possono essere solo quelli di Napolitano e del cardinal Bagnasco.
Serve la società civile.

(03 aprile 2011) © Riproduzione riservata
DA - repubblica.it/politica/2011/04/03/
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 13, 2011, 05:19:06 pm »

COPERTINA

Confindustria e il dopoFiat costi e benefici di una lobby

ROBERTO MANIA

Il Re è nudo. La Confindustria si è rotta. Come un partito, come i sindacati. Ha compiuto cent’anni e si scopre un potere debole. L’uscita della Fiat da Viale dell’Astronomia segna uno spartiacque: c’è un prima, ci sarà un dopo. Perché la globalizzazione continua, senza sosta, a fare le sue vittime. Una dopo l’altra, quasi una selezione darwiniana: ora è la volta della lobby dei padroni.
Non poteva che essere uno come Sergio Marchionne a far saltare il banco. Nulla lega il manager italocandese, bilingue, con doppio passaporto, residente in Svizzera, alla novecentesca Confindustria nata per fare i contratti di lavoro diventati poi "nazionali" nella storia italiana. È la globalizzazione l’assassino che ha travolto, spazzato via, le vecchie logiche di allocazione dei fattori produttivi, capitale e lavoro. Le regole, ora, vanno riscritte. È una questione di rapporti di forza. Marchionne, più di altri, ha accettato o esaltato questa logica, capo, ormai, di una multinazionale italoamericana. «Conosco bene la realtà che sta al di fuori del nostro Paese» ha detto l’anno scorso al Meeting di Rimini.

«Ed è questa conoscenza ha aggiunto il ceo della FiatChrysler che ho cercato e sto cercando di mettere a disposizione della Fiat perché non resti isolata da quello che accade intorno al mondo». Eppure sempre Marchionne «ho l’impressione, sfortunatamente, che in Italia non ci sia interesse né fiducia verso questo straordinario bacino di informazioni. O forse, più semplicemente, non ne vogliamo sapere perché manca la voglia o abbiamo paura di cambiare». E ancora: «Molto spesso le ragioni del declino sociale ed economico di un Paese hanno a che fare con ciò che non abbiamo saputo o voluto trasformare, con l’abitudine di mantenere le cose come stanno». Questo è un pezzo dell’apparato ideologico di Marchionne. Che può piacere o meno, ma questo è. Ed è per questo che la Confindustria è per lui diventata un vincolo, un fattore di compressione della libertà di movimento aziendale, in particolare nelle relazioni sindacali. Qui è il nocciolo. Non è tanto la postilla al noto accordo del 28 giugno tra Emma Marcegaglia e i leader di Cgil, Cisl e Uil, ad avere provocato la sua clamorosa decisione di andarsene da Viale dell’Astronomia, bensì la cultura concertativa sulla quale si è fondata. Una Confindustria così potrebbe non servire più a chi non ha un territorio di riferimento. È un gigante con i piedi d’argilla per il manager che vive tra Torino e Detroit.
Tuttavia altre grandi multinazionali da tempo non nascondono il loro malessere, al pari di quello più rumoroso dei piccoli (si pensi alla rivolta vicentina del 2006), ma tendono ancora a rimanere in Confindustria. Solo l’Ibm, qualche tempo fa, ha anticipato la mossa di Marchionne. Difficile, comunque, pensare che possa esserci l’esodo di cui qualcuno parla. Uscire da Confindustria per i piccoli significa aprire i cancelli al sindacato per negoziare il contratto aziendale (al posto di quello nazionale) e poi rinunciare all’azione di lobby collettiva, per esempio sui temi fiscali, l’ambiente, le infrastrutture, le politiche per il lavoro e quelle per l’accesso al credito. E fare la lobby da solo per un piccolo è praticamente impossibile a tutti i livelli, a Bruxelles come nel proprio Comune; per un grande diventa più difficile e, comunque, lo costringe ad esporsi molto di più (il Lingotto ha fatto spesso chiedere a Viale dell’Astronomia gli incentivi alla rottamazione). La Fiat non ha certo bisogno di Confindustria per muoversi all’estero, un piccolo fa fatica anche a costruire un nuovo impianto in una Regione diversa da quella di riferimento.

Se si entra nella blasonata Confindustria la si scopre molto diversa da come la si può immaginare. Le aziende iscritte sono esattamente 148.952 per un totale di circa 5,5 milioni di lavoratori alle loro dipendenze. Più che dei padroni, è la casa dei "padroncini": il 52,1 per cento delle aziende iscritte ha al massimo quindici dipendenti. Segue la classe 1650 dipendenti che rappresenta circa il 24 per cento, e poi i medi e grandi. Insomma, l’83 per cento dei confindustriali ha tra zero e 50 dipendenti, il 14 per cento tra i 50 e i 250, e solo il 3 per cento supera i 250 dipendenti. È non a caso l’Italia della piccola industria in affanno a reggere la competizione globale.

Uno guarda l’aquilotto, simbolo della confederazione, e pensa all’industria, agli operai con la tuta blu, alla catena di montaggio. Poi si va a leggere i dati sugli iscritti e si vede la trasformazione profonda del nostro sistema produttivo. Nel 1996 il 65,3 per cento degli iscritti apparteneva al manifatturiero, il restante 34,7 per cento ai servizi, commercio e costruzioni. Ora dati del 2010 la torta è quasi divisa a metà: il 52,5 per cento è manifatturiero contro il 47,5 per cento delle altre categorie. Più che la cavalcata del terziario avanzato, questi sono dati che segnano il nostro progressivo declino industriale. Negli anni, dal 1998 in poi, sono cresciuti tutti i settori ma a ritmi ben diversi: dal +544 per cento del turismo e dal +386 per cento della sanità, si scende a un modesto +123 per cento nelle attività manifatturiere. Sono arrivate a partire dalla metà degli anni Novanta anche le ex aziende pubbliche, Eni, Enel, Ferrovie, Finmeccanica, Terna e Poste. Il relativo contributo associativo non va oltre il 4 per cento, ma cresce il loro ruolo politico "inquinando" con il Tesoro, quale azionista di riferimento, la "purezza" della confederazione degli industriali privati.

Resta il fatto che le imprese continuano a iscriversi alla Confindustria, nonostante la crisi: a settembre c’è stato un incremento del 2 per cento rispetto allo scorso anno. Il 2010 aveva segnato un +2,3 per cento, il 2009 addirittura un +5,5 per cento.

Ma quanto costa iscriversi alla Confindustria? In media circa 90 euro annui per ciascun dipendente. Tanto per le grandi imprese, poco per i piccoli. Che con le varie convenzioni possono finire per andare quasi in pareggio. Ma non c’è una regola unica. Ogni struttura territoriale stabilisce da sé le quote associative. Perché la Confindustria è una confederazione alla quale aderiscono le associazioni. Dunque nessun imprenditore è formalmente iscritto alla confederazione, bensì all’unione territoriale o alla federazione di categoria (Federmeccanica, Federchimica, ecc...). Si può scegliere l’una, l’altra o entrambe. Chi assume cariche elettive (per esempio presidente di una categoria) deve iscriversi obbligatoriamente a tutte e due. La quota risente di più criteri: dipendenti, fatturato, Iva, settore merceologico. Sono, dunque, le associazioni aderenti a Confindustria a girare alla casa madre parte dei contributi. Più iscritti si hanno, più contributi si versano, più si pesa all’interno dell’Assemblea dove si vota "per censo" e non "per testa" e dove si determina la distribuzione dei seggi negli organismi rappresentativi, Giunta e Direttivo dove il voto, allora, torna capitario.

Questa complessità organizzativa impedisce di sapere quanto effettivamente costi in totale il "sistema Confindustria". Non c’è un bilancio consolidato e ciascuna associazione è autonoma. Si stima ma è un calcolo a spanne che il costo complessivo sia di circa 500 milioni l’anno (i 90100 euro per lavoratore moltiplicati per i 5,5 milioni di dipendenti totali). Si può sapere, però, quando costano Viale dell’Astronomia, la sede della confederazione e la sua rappresentanza a Bruxelles. Il 2010 (l’anno in corso dovrebbe finire allo stesso modo) si è chiuso con un bilancio in attivo di 2,6 milioni. Un risultato sul quale pesano in negativo i mancati incassi sotto forme di dividendi provenienti dal Sole 24 Ore: nel 2010 6,4 milioni in meno rispetto al 2009. Le spese sono state ridotte tra il 17 e il 18 per cento. Il palazzone fumè di Viale dell’Astronomia drena risorse per 39 milioni e 129 mila euro, più o meno ai livelli di inizio secolo. Quasi 20 milioni se ne vanno per il personale, 16,4 per i servizi, il resto per gli acquisti di beni e gli oneri finanziari e patrimoniali.

Questa è la Confindustria che prova a convivere con la globalizzazione. Grande, costosa, complicata. E molto meno potente di un tempo. Incerta nella fisionomia. Voleva ristrutturarsi dall’alto, poi ha scelto di cambiare dal basso con accorpamenti, fusioni, alleanze tra le strutture provinciali. La lunga stagione della distribuzione delle risorse pubbliche, d’altra parte, è finita pure per i nostri piccoli industriali. I governi nazionali non hanno più nulla da dare. E questo, però, vale anche per Marchionne. Destini incrociati?

da - http://www.repubblica.it/supplementi/af/2011/10/10/copertina/001dakota.html
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