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Autore Discussione: FABIO MARTINI.  (Letto 118637 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Gennaio 18, 2013, 11:33:05 pm »

Politica
18/01/2013

“Le liste personali sono un cancro” Bersani e la tattica delle parole forti

Il doppio obiettivo del leader Pd: togliere il monopolio a Berlusconi E conquistare l’elettorato di sinistra

Fabio Martini
Roma

Pier Luigi Bersani ha riconquistato il centro del ring mediatico. Grazie ad una metafora decisamente hard («I partiti personali sono il cancro della democrazia») è riuscito a ritrovare spazio nelle prime pagine dei giornali e sui social network, al punto che stamattina ha rincarato la dose, specificando che anche il professor Monti è coinvolto nel suo “j’accuse”. Il leader del Pd aveva bisogno di una esternazione forte, che fosse capace di togliere il monopolio dei riflettori a Berlusconi e al tempo stesso “parlasse” al proprio elettorato. Il primo obiettivo l’ha sicuramente raggiunto, il secondo non è facilmente misurabile. Ma è l’assunto di partenza che, paradossalmente, chiama in causa chi ha scagliato la prima pietra. 

I partiti personali, nella accezione bersaniana, sono anzitutto quelli che inseriscono il nome del leader nel simbolo elettorale. Ma se bastasse una “debolezza” come questa per prendersi l’ accusa di essere un untore di cancri, anche il Pd non potrebbe sottrarsi: nel 2008 il Pd chiese voti, esponendo il nome di Veltroni nel suo simbolo e allora non risulta che dentro il partito si fossero levate voci discordi.

Naturalmente non c’è nulla di più personalizzato (e di più democratico) della pre-investitutura popolare di un leader attraverso lo strumento delle Primarie. Da questo punto di vista Bersani è il più “americano” dei leader in campo e, tra l’altro, è anche l’unico che esponga il proprio viso nei manifesti appesi su cartelloni, paline e autobus di tutta Italia. Con una identificazione forte tra partito e leader che, sinora, nessuno degli altri leader ha abbracciato. Neppure Berlusconi. Ovviamente il Cavaliere è l’espressione di declinazione tutta speciale del partito personale: un modello sudamericano di leadership solitaria, che in Italia ha ricevuto diversi riscontri elettorali e che il Pd ha tutto il diritto di avversare. Ma se Bersani allarga il tiro oltre Berlusconi, a quel punto non può non esporsi ad una controprova che lo riguarda. Personalmente.

da - http://lastampa.it/2013/01/18/italia/politica/le-liste-personali-sono-un-cancro-bersani-e-la-tattica-delle-parole-forti-1SYZvryrEAIYpkgRRStbzJ/pagina.html
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« Risposta #91 inserito:: Febbraio 28, 2013, 11:20:40 am »

Elezioni Politiche 2013
28/02/2013 - retroscena

La carta segreta: un nuovo “Governo del Presidente”

Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, possibile candidato di un governo di emergenza

Fabio Martini
Roma

In 67 anni di Repubblica un post-elezioni così enigmatico e così incerto non c’era mai stato e in queste ore il compito di provare ad aprire un primo varco se l’è preso il leader del partito di maggioranza relativa, Pier Luigi Bersani.

Il segretario del Pd ha fatto la prima mossa, l’apertura a Grillo e su questa linea intende giocarsi le sue carte, ma in attesa che i partiti (compreso il Pdl) completino il loro lavoro istruttorio, sono iniziati a tutti i livelli i primi sondaggi per una soluzione diversa. Di tipo tecnico. Una soluzione di emergenza che si imporrebbe nel caso in cui i partiti non trovassero la «quadra» e lo spread tornasse ad impennarsi. A quel punto la palla tornerebbe nelle mani del Capo dello Stato, al quale non resterebbe che esplorare la strada per un nuovo «Governo del Presidente». Nelle ultime ore un primo, informalissimo sondaggio è stato compiuto per verificare la (eventuale) disponibilità di Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, l’istituzione italiana più prestigiosa all’estero. 

Contatti super-riservati , destinati ad intensificarsi nei prossimi giorni e a cambiare di qualità nel caso in cui il contesto finanziario ed economico dovesse cambiare. Naturalmente l’ipotesi di un incarico al Governatore non ha nulla di concreto, appartiene alla sfera degli scandagli preliminari e dunque va presa con le molle anche la perplessità al riguardo attribuita al presidente della Bce Mario Draghi, che considera Visco una garanzia assoluta per la Banca d’Italia. Ma l’approdo ad un nuovo governo tecnico è soltanto l’extrema ratio, in un rosario che contempla altre due soluzioni.

La prima è quella manifestata dal Pd nella conferenza stampa di due giorni fa: governo guidato da Pier Luigi Bersani e incardinato su una maggioranza Pd-Grillo. Uno scenario destinato ad incagliarsi davanti ad un ostacolo che al momento pare invalicabile: l’iniziale voto di fiducia al governo che però, proprio Grillo, ieri, ha escluso tassativamente. Di fatto chiudendo questa esplorazione, anche se nei prossimi giorni Bersani potrebbe insistere. Il secondo scenario è quello delle elezioni anticipate. A parole non le vuole nessuno. Nel Pd e nel Pdl ripetono quasi tutti che in questo momento esporsi ad un nuovo giudizio elettorale equivarrebbe ad offrire a tanti elettori l’arma per lo sfregio finale ai partiti tradizionali. Anche se, ad esempio, nel Pd, c’è chi non teme questa soluzione. Su «Left wing» il sito dei «Giovani turchi» (Stefano Fassina, Matteo Orfini), si scrive che il Pd «deve scartare ogni ipotesi di larghe intese», puntare su un governo Bersani che punti all’«appoggio esterno» dei grillini e se questo scenario dovesse fallire, «si tornerà inevitabilmente al voto». Un approccio non condiviso né da personaggi come Dario Franceschini ed Enrico Letta, ma neanche da Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Entrambi, si dice, potrebbero presto convergere sulla ipotesi del «Governo del Presidente», un’eventualità che marcherebbe le distanze in modo irreversibile da Bersani.

Uno scenario che potrebbe essere favorito dal deterioramento del contesto finanziario. Lo spread ha già ricominciato a salire, la Borsa a scendere, la Consob a vietare le vendite allo scoperto, anche se la partita più grande si gioca sull’asse Berlino-Francoforte: la Germania, in vista delle elezioni di settembre, finora ha coperto Draghi ma se nei prossimi giorni e nelle prossime settimane la Bce fosse costretta ad interventi per tamponare una nuova emergenza-Italia, da Berlino potrebbe partire lo stop e quel circolo «virtuoso» (per l’Italia e la per la Spagna) potrebbe interrompersi. Creando di nuovo le condizioni per un governo tecnico di «scopo», a scadenza predeterminata,con l’astensione di Pd, Pdl e Area Monti e chiamato - nell’arco di un anno - ad interventi d’urto, altamente simbolici, sia nel campo della «Casta» (dimezzamento dei parlamentari, abolizione del Senato, revisione del sistema di finanziamento dei partiti), ma anche interventi molto energici nel campo economico. È a quel punto che tornerebbero in campo candidati che oggi appaiono improbabili o poco allineati con lo «spirito del tempo». E dunque Ignazio Visco, Fabrizio Saccomanni, che di Banca d’Italia è il direttore generale. E se lo spread si dovesse impennare fino a vette mai raggiunte finora, ieri nel Palazzo c’era chi cominciava a fare un nome che attualmente sembra bruciato da una competizione elettorale poco gratificante: quello di Mario Monti. 

da - http://lastampa.it/2013/02/28/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/la-carta-segreta-un-nuovo-governo-del-presidente-AReL43l2ig7V07y7u9B5nJ/pagina.html
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« Risposta #92 inserito:: Marzo 04, 2013, 06:12:21 pm »

RETROSCENA
04/03/2013

Renzi in campo: vertice coi fedelissimi

Il sindaco è deciso ad avere un ruolo “attivo” nella politica nazionale in vista di un ritorno alle urne

FABIO MARTINI
ROMA

Per ora Matteo Renzi si limita ad ascoltare e motivare i suoi «ragazzi». Domani il sindaco incontrerà i cinquantun parlamentari a lui vicini in una saletta di convegni a Firenze. Nessun piano di guerra, Renzi e i 51 si sono già visti altre due volte, ma la vera novità è un’altra. 
 
Il sindaco - dopo aver spalleggiato Bersani in campagna elettorale - ha deciso di rientrare attivamente in campo, stando quotidianamente «dentro» la vicenda politica. Nella settimana post-elettorale Renzi è intervenuto di continuo, facendo proposte (sul rimborso elettorale), proponendo una lettura del risultato elettorale («abbiamo perso») che proprio ieri anche Bersani ha fatto esplicitamente propria nell’intervista a «Che tempo che fa». Il Renzi in campo - leale in campagna elettorale e propositivo in queste ore - ha già fatto maturare negli informalissimi pourparler tra i principali notabili del Pd una sintesi che un dirigente vicino a Bersani compendia così: «Se la situazione dovesse precipitare verso le elezioni anticipate, il Pd non potrebbe che presentarsi con Renzi leader». 
 
Una sintesi per nulla scontata sino a qualche giorno fa, per non parlare dei mesi scorsi quando il sindaco di Firenze, nel Pd e nei giornali fiancheggiatori, incarnava «una mutazione genetica», veniva criminalizzato come il «nuovo Craxi». Per nulla scontata la futura, eventuale incoronazione, perché incontra resistenze anche dentro la squadra bersaniana: l’ala sinistra fa sapere che una campagna elettorale-bis dovrebbe essere guidata sempre dal segretario e Stefano Fassina ieri lo ha detto chiaro e tondo: «Per quanto mi riguarda, Bersani rimane la figura più forte per la campagna elettorale». 
 
E d’altra parte proprio il segretario del Pd, ospitato da Fabio Fazio («non voglio perdere neanche un secondo», il suo incipit), ha ribadito un concetto hard: se Grillo non ci sta, tutti a casa. Come dire: o passa il monocolore hard, oppure per il Pd la soluzione ottimale è ridare la parola agli elettori. Ma se davvero la situazione dovesse precipitare, che qualcosa di grosso si stia muovendo nel Pd (si sussurra che sarebbe favorevole anche Massimo D’Alema, sempre sensibile alla tenuta del partito) lo conferma proprio Bersani che, davanti ad una domanda su Renzi, risponde con queste parole: «Deciderà lui, che ruolo avrà, quando vorrà, con la direzione del partito. Ma sicuramente un ruolo lo avrà».
 
Ma lo scenario delle elezioni bis per il momento è ancora lontano. Prima ci sono molti passaggi da espletare. Sul primo - maggioranza Pd-Cinque Stelle - Bersani ieri ha tenuto il punto e una mano in questo senso gliela dà il solito Fassina, che con energia fa fuoco preventivo su Giorgio Napolitano, o meglio su una delle possibili soluzioni che il Capo dello Stato potrebbe proporre in caso di fallimento di Bersani: «Deve stare a Palazzo Chigi chi ha ricevuto il consenso, se non é possibile, si deve tornare a chiedere il consenso agli elettori» e sull’ipotesi che il capo dello Stato sia «costretto» ad indirizzarsi su un governo del Presidente, Fassina è durissimo: «Se qualcuno pensa di riproporre un “governo tecnico”, sarebbe un suicidio per la democrazia. Spero che ci sia una rivolta di massa di tutta la base del Pd. Sarebbe una proposta becera, suicida». 
 
Tagliente il commento del costituzionalista, ex senatore Pd, Stefano Ceccanti: «Rammento a Fassina che il potere di dare l’incarico spetta al Capo dello Stato, non a lui». Ma la proposta di un governo del Presidente, il Capo dello Stato potrebbe avanzarla al termine di una lunga sequenza. Nessuno può fare illazioni su come si muoverà da metà marzo, non appena le Camere avranno eletto i loro Presidenti. In base ai precedenti, al Pd in modo molto informale azzardano un iter così scandito. Primo passaggio: mandato esplorativo a Bersani per verificare se sia possibile mettere assieme una maggioranza con l’appoggio esterno del 5Stelle o del Pdl. Con una formula inedita e improbabile: nelle votazioni nelle quali si configura un passaggio fiduciario, uno dei due partiti uscirebbe dall’aula. 
 
Se questa verifica dovesse fallire, il Capo dello Stato potrebbe incaricare il presidente del Senato per un incarico esplorativo con un mandato più ampio. E soltanto a conclusione di questo tragitto, potrebbe prendere forma il tentativo finale, quello di verificare la fattibilità di un «governo del Presidente», affidato ad una personalità esterna alla politica. Un sondaggio molto preliminare, come anticipato da «La Stampa», è stato fatto presso il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, soluzione ad alta garanzia per i mercati.

da - http://www.lastampa.it/2013/03/04/italia/politica/e-renzi-raduna-i-suoi-fedelissimi-y06G8x8WaSWbKx7pxWHcdO/pagina.html
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« Risposta #93 inserito:: Marzo 18, 2013, 05:10:46 pm »

Editoriali
18/03/2013

Bersani, il rischio d’innovare

Fabio Martini

Il «metodo Francesco» può portare lontano. La suggestione uscita dalla Cappella Sistina è subito diventata potente per la politica domestica: i cardinali del sacro collegio sono riusciti a riassorbire l’inedita «crisi istituzionale» ai vertici di Santa Romana Chiesa, scegliendo di portare un outsider al soglio di Pietro. 

Consapevoli che il più autorevole tra i cardinali italiani, forse, non sarebbe bastato per rigenerare il corpo stanco della Chiesa. Una scelta controcorrente che si è consumata in ventiquattro ore: soltanto otto in più sono servite ai parlamentari italiani per scegliersi i Presidenti delle due Camere: un magistrato di lungo e apprezzato corso, una funzionaria dell’Onu, impegnata da anni nella difesa dei diritti umani. Anche loro scelti fuori dal mazzo delle carte tradizionali. Anche loro estranei alle Curie politiche. Certo, «tecnici d’area», ma privi di identità partitiche. Poco importa che la scelta di Pier Luigi Bersani sia l’effetto di una serie di rimpalli e non di un’opzione programmata. Quel che conta è la qualità della scelta finale. E il leader del Pd può rivendicare di esserne l’artefice: i due Presidenti, per la forte personalità e per storia personale, sembrano in grado di garantire in autonomia la funzione di garanzia che li attende. Ma sono anche due personalità scelte dal Pd perché capaci di «parlare» alla vastissima opinione pubblica disgustata dalla politica dei partiti tradizionali. 

Così adatti a questa missione che alcuni senatori grillini - dieci, forse dodici - nel segreto della cabina-catafalco di palazzo Madama, hanno votato per Pietro Grasso. Facile immaginare che se il Pd avesse proposto per le Presidenze personaggi capaci ma collaudati, visti mille volte in tv, come Anna Finocchiaro e Dario Franceschini, la secessione grillina non si sarebbe manifestata. Beppe Grillo ha immediatamente scomunicato i misteriosi senatori «ribelli». E lo ha fatto con un lessico lapidario, la prova che da quelle parti hanno accusato il colpo. Dalla rete sono piovute severe reazioni all’anatema. Bersani ha fatto due volte centro. Ecco perché nei prossimi giorni tutto ruoterà attorno ad un enigma: quello proposto dal leader del Pd è un metodo o una eccezione? Finocchiaro e Franceschini: hanno saputo rinunciare alle prestigiose collocazioni loro promesse con uno stile esemplare e lo spirito del tempo rischia di far apparire anacronistico un loro ritorno alle caselle di partenza, la presidenza dei loro Gruppi parlamentari. E Bersani? 

Fuoriuscire dalla propria identità è impresa davvero complessa. Per chi, come lui, è il leader del Pd, uno dei due partiti-guida della Seconda Repubblica. E dunque il segretario democratico non può non essere consapevole del rischio che lui stesso corre: la potente innovazione da lui avviata potrebbe coinvolgere, per eccesso di successo, anche il suo artefice. Per scongelare una decina di senatori grillini è bastato proporre Pietro Grasso, ma per provare a convincerne altri trenta, bisognerà potenziale la qualità della proposta innovativa. Certo, l’operazione Presidenti può risultare, in ogni caso, un buono spot in vista di elezioni anticipate. Ma come reagirebbero i parlamentari del Cinque Stelle se il partito di maggioranza relativa proponesse una personalità indipendente e dello stesso spessore del presidente del Senato? Col sottinteso che, a questo punto, sono cambiate anche le regole di ingaggio per partecipare alla partita del Quirinale. Dopo la coppia Boldrini-Grasso rischiano di apparire vieppiù invecchiate anche alcune delle più autorevoli riserve della Prima e della Seconda Repubblica. 

da - http://lastampa.it/2013/03/18/cultura/opinioni/editoriali/bersani-il-rischio-di-innovare-Mann1BxSzokilolBMqTPfL/pagina.html
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« Risposta #94 inserito:: Marzo 25, 2013, 04:42:10 pm »

politica
25/03/2013

Il governo del Presidente Ecco l’incubo del segretario

Il punto fermo resta l’impossibilità di accordi con il Pdl

Questa sera è convocata la direzione del partito, ma non si prevedono scontri

Fabio Martini
ROMA


Il passo volutamente flemmatico, da montagna, col quale il leader del Pd Pier Luigi Bersani sta provando a scalare la più impervia delle vette, è stato interrotto da un’improvvisa fiammata polemica, tutta interna al Pd. Apparentemente una delle tante che sovente agitano il più democratico e vivace dei partiti. Ma non è così: dietro i fumi dell’ennesima diatriba, per la prima volta ha preso corpo un oggetto sino ad oggi misterioso: il governo del Presidente. 

 

La proposta che ha fatto scandalo l’ha avanzata il presidente dell’Anci, Graziano Delrio: in caso di fallimento di Bersani, si vada senza indugi ad un «governo di scopo», della durata di pochi mesi, sostenuto all’esterno da Pd e Pdl. Raccontano che Pier Luigi Bersani si sia molto irritato: ma come proprio in queste ore si lanciano subordinate così insidiose? 

 

Ma non c’è soltanto l’irritazione per il fuoco amico in un frangente così delicato. Ad «armare» le repliche dure degli uomini del segretario c’è altro. 

Graziano Delrio non è un personaggio qualunque. Oltre ad essere il presidente apprezzato dell’Anci, Delrio è il sindaco (cattolico) di Reggio Emilia, la più rossa delle città emiliane, è buon amico di Matteo Renzi (col quale ha concordato la mossa), è apprezzato al Quirinale.
E soprattutto la sua proposta è dettagliata, disarmante, pericolosa vista da «casa Bersani». Ha detto Delrio, in una intervista di due giorni fa: «Non possiamo siglare alleanze organiche col Pdl dopo una campagna elettorale finita 15 giorni fa», «non penso ad una larga coalizione organica sul modello tedesco», «non spetta ai politici la proposta», ma «se la richiesta arriva dal Colle, si può fare un governo del Presidente di cinque, sei mesi per il bene del Paese». Chiude: «Non c’è possibilità di sottrarsi».

 

Ecco il punto. Delrio dice per la prima volta in modo chiaro quel che Bersani teme: come sarà possibile dire di no a Giorgio Napolitano? Il modello al quale allude Delrio sembra riproporre un precedente, non a caso citato una volta proprio da Giorgio Napolitano. Quello del governo Pella. Era il 1953, dopo la sconfitta di De Gasperi nella battaglia per la legge truffa, in Parlamento non si riusciva a coagulare una maggioranza. E il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, senza consultazioni, diede l’incarico di formare il governo a Giuseppe Pella, un democristiano di seconda linea ma di solida cultura.

 

Ecco perché un personaggio bonario come Bersani si è irritato assai per la sortita di Delrio. Avendo impostato le sue consultazioni con un ritmo sapientemente rallentato - oggi oltre ai sindacati, Bersani incontrerà, tra gli altri, anche la Gioventù federalista europea - il presidente incaricato ha trovato intempestiva e scorretta la proposta lanciata dal presidente dell’Anci. Bersani ha chiesto ai suoi un fuoco di sbarramento, che spazzasse la suggestione prima della direzione del Pd, convocata per questa sera. Non accadrà nulla di trascendentale nella riunione alla quale parteciperanno i notabili del partito: Bersani li ha convocati per ricevere un ulteriore viatico al suo tentativo e sotto questo aspetto avrà piena soddisfazione. 

 

Come dimostra la telefonata di amicizia fatta ieri da Matteo Renzi al segretario. Ma la sortita di Delrio, al di là della controversa tempestività, ha acceso i riflettori sull’unico scenario che, in caso di fallimento di Bersani, potrebbe impedire le elezioni anticipate: il governo del Presidente. E a questo punto la direzione del Pd di questa sera ruoterà tutta attorno ad un interrogativo: Bersani chiederà ai massimi dirigenti del partito di sfidare il Quirinale? Certo, per un obiettivo di questo tipo non servirebbe chiamare in causa direttamente il Capo dello Stato. Basterebbe dire chiaro e tondo che in caso di fallimento di Bersani, il Pd non vede altre strade, se non quella di elezioni anticipate.

 

Oggi, intanto proseguono le consultazioni del presidente del Consiglio incaricato. Gli incontri, alla Camera dei deputati, inizieranno con le delegazioni di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, seguite da Rete Imprese Italia e da una rappresentanza del mondo ambientalista. Nel pomeriggio sarà la volta di Don Luigi Ciotti, del Forum delle associazioni giovanili, del Consiglio nazionale degli studenti, del Consiglio Italiano del Movimento Europeo, insieme al Movimento Federalista Europeo e alla Gioventù Federalista Europea. Dei partiti, per ora, non si parla. Aspettando e confidando che qualcosa si muova. Dal fronte grillino. Dal fronte leghista. E da quello del centrodestra. Anche se Silvio Berlusconi lo ha ripetuto a tutti gli sherpa del Pd: se non ci accordiamo su un Presidente della Repubblica a me gradito, non si comincia neppure a discutere.

DA - http://lastampa.it/2013/03/25/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/il-governo-del-presidente-ecco-l-incubo-del-segretario-pl6dgfUYhF03lelBIg9wMK/pagina.html
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« Risposta #95 inserito:: Aprile 08, 2013, 11:09:54 am »

politica
08/04/2013 - retroscena

E Marini scatta in testa nella top list per il Quirinale

Il cattolico che piace anche nell’entourage del segretario

Fabio Martini
Roma


A dieci giorni dall’inizio della scalata al Colle, c’è un uomo solo al comando, il suo nome è Franco Marini. Dopo una settimana di sondaggi informalissimi con lo staff di Silvio Berlusconi, nel ristretto entourage di Pier Luigi Bersani si sono fatti un’idea precisa. Marini è il migliore dei candidati possibili per diversi motivi interni al Partito Democratico e per uno esterno.

 

E’ cattolico e dopo 14 anni di presidenti «laici», il dettaglio non guasta; è fortemente appoggiato dall’area dei Popolari (Franceschini, Letta, Fioroni, Bindi), risvegliatisi dopo lunghi anni di «letargo» e d’altra parte dopo due presidenti delle Camere di sinistra, una «poltronissima» per gli ex Dc aiuta il Cencelli interno; tra i grandi elettori parlamentari del Pd, Marini è meno osteggiato rispetto a quello che resta il candidato più prestigioso dell’area democratica, Giuliano Amato.

 

Ma c’è una ragione di più che ha spinto Franco Marini in testa al «gruppone» dei favoriti, a dieci giorni dall’inizio della scalata: l’ex presidente del Senato non è sgradito a Berlusconi. Lo hanno capito gli sherpa di Bersani (Maurizio Migliavacca e Vasco Errani) che si sono parlati con gli uomini di fiducia di Silvio Berlusconi e d’altra parte nella memoria di Marini non si è mai cancellato il ricordo di quanto gli disse il Cavaliere il 4 febbraio del 2008. A Marini, dopo la caduta del secondo governo Prodi, era stato affidato un incarico esplorativo da Giorgio Napolitano, per verificare se fosse possibile far nascere un governo per completare la legislatura. Berlusconi, nel negare a Marini il suo appoggio, si congedò con queste parole: «Caro Presidente, mi spiace non potere appoggiare il suo tentativo, ma d’altra parte noi non possiamo mettere a rischio una vittoria elettorale sicura. Ma le assicuro che ci ricorderemo di questo suo sacrificio». E infatti un ex ministro di Berlusconi come Gianfranco Rotondi è pronto scommettere: «Se la situazione resta quella di questi giorni, per Marini potrebbe riproporsi il “metodo Ciampi”: elezione alla prima votazione».

 

Certo, in politica la memoria di solito è molto corta, ma nelle promesse interpersonali Berlusconi ha sempre mostrato una generosità fuori dall’ordinario. Da parte sua, un tipo come Marini non è uno che si aspetti regali o riconoscenze postume. Nel 1999, quando Massimo D’Alema si impegnò a favorire la sua scalata al Quirinale, salvo poi «glissare» su Carlo Azeglio Ciampi, Marini non se la prese: la sua freddezza è proverbiale. E la dimostra anche in questi giorni, nei contatti che intreccia nel suo studio a Palazzo Giustiniani: mai un’emozione, mai una speranza lasciata trapelare con i suoi interlocutori. 

 

E’ sempre stato fatto così e non cambia certo adesso che sta per compiere (domani) 80 anni. Certo, Marini si tiene in contatto con i protagonisti (pochissimi) della trattativa, ma non è tipo da brigare. Anche perché il suo principale sponsor dall’altra parte della barricata, Gianni Letta, ancora per qualche giorno si muove con l’aura del candidato.

 

E d’altra parte Marini sa quali siano le regole del gioco: Pd e Pdl eleggono assieme un Presidente soltanto se si trova una «quadra» sul futuro governo e sotto questo punto di vista non stanno maturando novità significative, nonostante il dialogo tra i due poli si stia normalizzando.

 

Ecco perché dietro all’uomo solo al comando, nei contatti informalissimi tra le diplomazie si sono formati due gruppi di «inseguitori», pronti allo scatto laddove cambiasse il «percorso» per arrivare al traguardo. Il gruppo della «grande intesa» è guidato da Giuliano Amato, che qualche giorno fa, durante una lezione agli studenti del liceo Tasso di Roma, ha spiazzato tutti, parlando della Tav: «È legittimo chiedersi se il progetto in Val Susa abbia ancora senso, considerato che i flussi di merci si sono spostati e non si muovono più lungo la direttrice Barcellona Lione Torino come si pensava vent’anni fa». 

 

Amato, ma anche Massimo D’Alema, Luciano Violante sono candidati molto quotati nel Palazzo ma deboli nei sondaggi professionali e sul web. E poi c’è il gruppo degli outsider, che potrebbero scattare nel caso in cui il surplace dovesse prolungarsi: Emma Bonino, Romano Prodi, Stefano Rodotà, che invece sono tutti molto competitivi e in modo costante nei veri tipi di sondaggio.

da - http://lastampa.it/2013/04/08/italia/politica/e-marini-scatta-in-testa-nella-top-list-per-il-quirinale-QjaK5gFXlhIVSrXc258qiO/pagina.html
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« Risposta #96 inserito:: Maggio 02, 2013, 06:37:40 pm »

Cronache
01/05/2013

Letta con Hollande e Merkel senza complessi di inferiorità


Per il nuovo premier esordio in Europa senza soggezione

Fabio Martini

Per il suo esordio in un palazzo onusto di storia come l’Eliseo, Enrico Letta ha deciso di pronunciare in francese la rituale introduzione alla conferenza stampa a fianco del padrone di casa, il presidente Hollande. E martedì pomeriggio, al Bundeskanzleramt di Berlino , sede della Cancelleria tedesca, con la Merkel al suo fianco, Letta ha usato parole nette: «L’Imu? Forme e modi con i quali troveremo le risorse, questo è un fatto di casa nostra, non ho da spiegarlo a nessuno». E in entrambi i casi, sia a Parigi che a Berlino, mentre i rispettivi interlocutori parlavano ai giornalisti, Letta ha evitato di annuire platealmente, da sempre proverbiale segno di soggezione.

 

Un esordio senza complessi di inferiorità, quello di Enrico Letta nelle due capitali dell’Europa. Non era scontato. Certo, Letta ha studiato e si è formato nei luoghi “giusti” e con maestri dotati di visione - Andreatta e Prodi - ma fino ad oggi aveva sempre affettato uno stile da numero due, da secchione che resta sempre un passo indietro, per non fare ombra al leader di turno. Ma evidentemente Enrico Letta ha imparato la lezione: in poche ore si è calato nei panni del capo di governo, dismettendo quella ostentata semplicità che era diventata un secondo vestito.

 

“Vestirsi” di aplomb non è soltanto una questione di immagine, che pure conta nella costruzione di una leadership. A Berlino e a Parigi, dove oramai si decidono i destini dell’Italia più di quanto non credano tanti italiani, Letta doveva farsi conoscere, conquistando la fiducia dei due leader e lasciando un’impronta di sé nei mass media. Mario Monti, diventando interlocutore apprezzato dell’opinione pubblica tedesca, indirettamente aveva reso più “digeribili” le aperture che la signora Merkel (a dispetto di tante caricature) ha pur fatto all’Italia. E questa è una grande novità: in una Europa sempre più interdipendente, il capo di un governo come quello italiano ha molte più chances di essere incisivo nel suo Paese, se sa “parlare” alle opinioni pubbliche dei Paesi più influenti. 


da - http://lastampa.it/2013/05/01/italia/cronache/letta-con-hollande-e-merkel-senza-complessi-di-inferiorita-kc29hpZACSqAGvniITRQOP/pagina.html
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« Risposta #97 inserito:: Maggio 14, 2013, 05:57:32 pm »

Editoriali
14/05/2013

Il passo che spetta al Cavaliere

Fabio Martini


Un flagrante squilibrio sta minando i primi passi del governo Letta: mentre nel Pd sono usciti di campo, volenti e nolenti, tutti i leader del ventennio - da Prodi a D’Alema, da Veltroni a Bersani - sul fronte di centrodestra il capo resta sempre lo stesso: il settantaseienne Silvio Berlusconi.
Uomo vitalissimo, ma costretto ad inseguire vicende giudiziarie che toglierebbero serenità anche ad un titano. 

Lo squilibrio politico, emotivo e generazionale che si sta determinando tra i due principali partiti della maggioranza in pochi giorni ha già messo il governo a rischio di caduta immediata. 

La sequenza delle ultime ore è esplicita: all’ora di pranzo, dall’Abbazia di Spineto, presidente e vicepresidente del Consiglio, uno a fianco
dell’altro, hanno lanciato messaggi distensivi, ma tre ore più tardi la richiesta di condanna pronunciata dal Pm di Milano Ilda Boccassini per il processo Ruby ha inevitabilmente rimesso in ansia il leader del Pdl. 

Per un governo, anche per il più robusto dei governi di coalizione, è complicato assumere decisioni dirimenti e costruire una narrazione efficace, se uno dei pilastri della maggioranza può traballare in qualsiasi momento. 

In un Paese ferito e angosciato, la tessitura di leggi efficaci è assai più difficile che in tempi di «pace» e l’impresa può diventare impossibile se qualcuno disfa l’ordito per pulsioni improvvise e incoerenti con l’aspirazione a migliorare un provvedimento. 

Ovviamente Silvio Berlusconi ha tutto il diritto di difendersi, gridando le sue ragioni e rivendicando la sua innocenza. Dal suo primo avviso di garanzia, nel 1994, Berlusconi ha sempre denunciato un complotto giudiziario ai suoi danni, facendo leva più sul vittimismo che sulla asserita debolezza delle istruttorie. In perfetta coerenza con questo approccio, il Cavaliere ha affidato la sua difesa a legali-legislatori che si identificavano anche politicamente con lui, figure comprensibilmente sgradite ai magistrati. Non è del tutto casuale che soltanto da poche settimane Berlusconi abbia scelto per la sua difesa l’avvocato Franco Coppi, che non è soltanto il più autorevole penalista italiano. E’ anche una personalità priva di connotazioni politiche. Adatto come nessun altro, a denunciare – se ci sono – le opacità dei processi ai danni di Berlusconi.

Naturalmente il governo guidato da Enrico Letta e da Angelino Alfano deve scontare anche le profonde inquietudini politiche del Pd. Un partito che in queste settimane ha subito il dissenso di tanti suoi elettori, di tanti suoi dirigenti e l’analisi dissacrante degli osservatori indipendenti.
Ma il Pd, dopo lo sbandamento post-elettorale, ha saputo imporsi un percorso trasparente e democratico: Pier Luigi Bersani si è assunto le sue responsabilità, il partito ha un nuovo segretario e fra poche settimane si avvierà un dibattito destinato a coinvolgere milioni di italiani.
Un travaglio che certo non aiuterà il tragitto del governo. Ma due giorni fa, quando il presidente del Consiglio Enrico Letta e il suo vice, Angelino Alfano, si sono ritrovati a discutere su un pulmino che li portava all’Abbazia di Spineto sull’inopportunità per i ministri di partecipare a manifestazioni elettorali di partito, i due hanno trovato un’intesa di massima. Ma mentre Letta si è consultato con se stesso e ha deciso da solo, Angelino Alfano ha ritenuto di dover informare Berlusconi. Da anni il Cavaliere ha dimostrato più volte generosità, umana e materiale, verso i suoi collaboratori: ora è chiamato a dimostrarla non soltanto nei confronti di Angelino Alfano, l’uomo che lui stesso ha voluto a Palazzo Chigi, ma del governo che ha contribuito a far nascere. Un escamotage che Berlusconi non può permettersi sarebbe quello di logorare il governo, facendosene scudo.

da - http://lastampa.it/2013/05/14/cultura/opinioni/editoriali/il-passo-che-spetta-al-cavaliere-SbFm91DtMV2LC30M2nquVK/pagina.html
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« Risposta #98 inserito:: Giugno 01, 2013, 04:18:30 pm »

Politica
01/06/2013

La Roma dei poteri forti che ostacola il “marziano”

Lo stile spiazzante di Marino alla prova di imprenditori e politica

Fabio Martini
Roma

C’è un marziano che in questi giorni si aggira a Roma. Fa e dice cose inaudite: ad ogni comizio invoca l’irruzione del «merito», parola tabù nella capitale del pubblico e del para-pubblico; svela che il Pd non lo ha spalleggiato; chiede «trasparenza» nelle nomine comunali dopo le lottizzazioni di Alemanno, precedute da quelle della sinistra romana. 

 

Difficile prevedere se il professor Ignazio Marino, candidato sindaco del Pd, seguirà le orme del «marziano a Roma» che nella celebre piéce di Ennio Flaiano viene accolto nella capitale come un messia, con «la speranza che tutto cambierà» e via via viene assorbito nei cocktail party, in Vaticano, nei caffè di via Veneto, fino a passare inosservato nel giro di poche settimane. Ma intanto, in vista della probabile vittoria di Marino nella sfida con Gianni Alemanno, i poteri forti della città stanno cominciando a prendere le misure con un personaggio che per ora sentono estraneo. 

 

Il primo segnale di fumo è stato lanciato: ha parlato il terzo arrivato nella sfida del Campidoglio, Alfio Marchini, ultimo rampollo di una dinastia di «palazzinari» e ottimo amico di Francesco Gaetano Caltagirone, il più ricco e potente imprenditore romano. Ha detto Marchini: «Ora serve discontinuità». Traduzione dei mass-media: il bell’Alfio pencola verso Marino e chiude ad Alemanno. C’è qualcosa in più: l’espressione lessicale usata da Marchini è stata preceduta da un lavorio dietro le quinte degli «ambasciatori» di Marino e personalmente suggerita da Goffredo Bettini, da 20 anni il regista della sinistra romana. Sulla parola «discontinuità» Marchini era d’accordo, non ha avuto problemi a pronunciarla e proprio quel segnale può aiutare a riaprire un dialogo tra il potere forte per eccellenza della città, Francesco Gaetano Caltagirone, e il professor Marino. Raccontano che nelle settimane scorse l’ingegnere non abbia per nulla gradito la candidatura di Ignazio Marino e se ne sia molto lamentato con il suo artefice, il solito Bettini. D’altra parte a Roma è difficile ignorare l’umore dell’ingegnere, unica, vera potenza rimasta in una città nella quale gli altri poteri forti - esclusi i partiti con i loro potentati clientelari - si sono via via spenti. Negli anni Ottanta, nella vulgata della Roma bene, il ricco costruttore Francesco Gaetano era «quello buono dei Caltagirone», ma poi negli anni Novanta, l’ingegnere acquisisce la Vianini, compagnia internazionale di costruzioni, il quotidiano «Il Messaggero» e successivamente entra in Rcs. Ora però il tanto invenduto dell’edilizia sconsiglia nuovi investimenti nelle costruzioni, ma a Roma resta difficile fare il sindaco «contro» Caltagirone. Eppure, per ora, il professor Marino non ha cercato un vis-à-vis con l’ingegnere. 

 

Ma anche l’altra potere forte della città, la politica, diffida del «marziano». Cinquantasette anni, genovese, chirurgo di trapianti delicati, americano negli anni più importanti della sua formazione professionale, entrato in politica sette anni fa, Ignazio Marino ha avuto un «talent scout» (Massimo D’Alema), dopodiché è stato Goffredo Bettini ad investire su di lui, candidandolo alle Primarie Pd 2009 e poi lanciandolo nella corsa al Campidoglio. Ma al partito non lo amano. Durante la campagna elettorale si è favoleggiato di uno scontro con Enzo Foschi, uno dei notabili del Pd romano e Marino stesso ammette: «Prima di Epifani, da parte del Pd c’è stata una situazione di attesa, di non-operatività» Bettini, che lo ha voluto, ne apprezza «il profilo di autonomia e libertà». E nell’apprezzare Marino perché è un «irregolare», allude ad un giudizio espresso in privato: il professore gli appare incontrollabile. Ma nella fase finale della campagna elettorale Marino ha dietro di sé tutto il Pd, due personaggi che hanno vinto tutte le loro sfide, il presidente della Regione Nicola Zingaretti e il segretario laziale Enrico Gasbarra. Ma è molto significativa la motivazione dell’endorsement del professor Stefano Rodotà: «Voterò per Marino perché ne apprezzo l’indipendenza di giudizio in una città nella quale gli interessi particolari hanno spesso avuto la meglio».

da - http://lastampa.it/2013/06/01/italia/politica/la-roma-dei-poteri-forti-che-ostacola-il-marziano-JdNCIkxN4yyaZrzk49AhtI/pagina.html
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« Risposta #99 inserito:: Giugno 26, 2013, 12:08:28 am »

Cronache
25/06/2013

Letta: “Il Cavaliere lo sa se cadiamo, non si va al voto”

Il premier vorrebbe rispondere «coi fatti» all’uno-due di ieri: condanna dell’alleato Berlusconi e dimissioni della Idem

Il premier resta defilato ma a Palazzo Chigi si dice convinto di “riuscire a tenere distinte questione giudiziaria e questione politica”

Fabio Martini
ROMA

Alle cinque della sera, a palazzo Chigi, nello studio del Presidente che fu di Prodi (ma non di Berlusconi), Enrico Letta sta ascoltando lo sfogo della statuaria Josefa Idem e proprio mentre la ministra sta dicendo al suo premier che per lei «è finita», in quel preciso momento sopraggiunge la notizia della sentenza di Berlusconi. Un ministro che si dimette e un leader della maggioranza duramente condannato: due “botte” nel giro di pochi minuti, roba da destabilizzare chiunque. Ma Letta, si sa, è una sfinge e anche in questa occasione non tradisce emozioni. Più tardi si premurerà di non farne trapelare e d’altra parte in queste circostanze il mantra lettiano di tradizione democristiana - il silenzio è d’oro - diventa una sorta di imperativo categorico. 

Naturalmente, ad incontro finito, il presidente del Consiglio si affretta ad informarsi, chiede a chi di dovere come Berlusconi l’abbia presa e d’altra parte in casa Pdl, Letta non manca di interlocutori e informatori affidabili, a cominciare dallo zio Gianni. I resoconti che arrivano a palazzo Chigi in qualche modo sono incoraggianti: il Cavaliere è furibondo e offeso, ma poiché ritiene che la condanna sia palesemente persecutoria, lui stesso sta accarezzando la suggestione di proporsi più che mai come «un martire», per usare una delle espressioni usate dal Cavaliere. Arrivando a notare, ma questo non è arrivato alle orecchie di Letta: «Anche Mandela è stato in carcere». Un tipo di reazioni che - nella sfera privata, come in quella pubblica - escludono rappresaglie a breve scadenza sul governo. 

E, a fine giornata, dalle riflessioni a voce alta di Letta con i ministri amici, emergeva un certo ottimismo e un’analisi interessante. Assieme a considerazioni ispirate ad un fisiologico istinto di sopravvivenza («giorno per giorno facciamo parlare i fatti e non le polemiche»), si faceva strada anche un ragionamento politico: «Berlusconi sa bene che, mettendo in crisi questo governo, non interrompe automaticamente la legislatura», perchè resterebbe aperta la possibilità di un governo del Pd con i delusi del Cinque Stelle, in quel caso destinati a moltiplicarsi. Di più: Berlusconi sa che se si precipita verso elezioni, si candida Matteo Renzi, in questo momento “baciato” dai consensi. E dalle chiacchierate a palazzo Chigi di Letta, emergeva una considerazione fuori dal seminato: «Sta accadendo, nei partiti, quel che sembrava impossibile: riuscire a tenere distinte questione giudiziaria e questione politica».

La rappresentazione abbastanza ottimistica fatta a palazzo Chigi è indirettamente dimostrata dalla conferma dell’incontro, previsto per questa sera, tra Letta e Berlusconi, per parlare di agenda di governo. E d’altra parte lo stesso Letta, anche nei colloqui informali, continua a pensarsi sul medio periodo. Da questo punto di vista «è davvero interessante il discorso fatto che ha fatto a noi della delegazione Anci», come racconta uno dei sindaci presenti. Nel corso di uno degli incontri pomeridiani, quello con la delegazione Anci guidata dal sindaco di Livorno Alessandro Cosimi, Letta ha tratteggiato in modo pragmatico e sincero lo scenario dei prossimi mesi: «Ci troviamo in una congiuntura difficile e un primo passaggio importante sarà la decisione dell’Ecofin, che dovrà formalmente accogliere la richiesta della Commissione di chiudere la procedura di infrazione nei confronti dell’Italia». Un traguardo - ecco il primo punto interessante dell’analisi - dopo il quale l’Italia non potrà assumere un atteggiamento da finanza allegra, ma dovrà continuare a muoversi «con responsabilità», anche perché il contesto resta critico, con lo spread che è tornato a livelli di guardia. In altre parole il messaggio di Letta è stato questo: dobbiamo attraversare l’estate con le cinture di sicurezza allacciate e poi in autunno, dopo le elezioni in Germania, si potrà ricominciare a ragionare, compreso lo sblocco del patto di stabilità che tanto sta a cuore all’Anci. E a fine anno con una situazione dei conti pubblici che dovrebbe essere stabile, si inizieranno a vedere i segni di una ripresa e nei primi mesi del 2014 dovrebbe «ripartire l’economia». Un’analisi sincera che ha finito per convincere i sindaci di diverse tendenze, come ha fatto capire il capofila della delegazione, Cosimi: «L’incontro di oggi è stato soddisfacente, soprattutto per il metodo usato».

DA - http://lastampa.it/2013/06/25/italia/cronache/letta-il-cavaliere-lo-sa-se-cadiamo-non-si-va-al-voto-W7H7DaZjkn87rAjTG326aO/pagina.html
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« Risposta #100 inserito:: Settembre 06, 2013, 09:19:05 am »

Esteri
06/09/2013 - gli incontri del premier Letta placa l’irritazione Usa dopo lo strappo della Bonino

Nei giorni scorsi Washington si era mossa informalmente chiedendo un cambio di rotta

Fabio Martini
INVIATO A SAN PIETROBURGO


Gli americani c’erano rimasti molto male e lo avevano fatto sapere ad Enrico Letta. Una settimana fa, quando il ministro degli Esteri Emma Bonino aveva detto che «per la Siria una soluzione militare non esiste» e si corre «il terribile rischio di una deflagrazione addirittura mondiale», dal Dipartimento di Stato avevano fatto un passo ufficioso, chiedendo riservatamente, al capo del governo italiano una correzione di rotta rispetto alla evocazione di un terzo conflitto globale. Da quel momento Enrico Letta ha condito le sue dichiarazioni di distanza dalla missione militare con ripetute attestazioni di amicizia verso gli Stati Uniti, ma ieri mattina, con l’apertura ufficiale del G20, è arrivato il momento del redde rationem per il capo di un governo nel quale c’è un ministro degli Esteri schierato apertamente contro l’intervento e un ministro della Difesa, Mario Mauro, pronto a fare lo sciopero della fame a favore di una soluzione pacifica. 

 

Prima dell’inizio dei lavori, Letta si è visto (sotto un tendone) con il presidente russo Vladimir Putin e in quella occasione si è soltanto accennato anche alla questione siriana, dopodiché il presidente del Consiglio si è presentato davanti ai giornalisti italiani e, rispondendo alle ripetute domande sulla questione, ha spiegato la sofferta posizione italiana. Dopo un incipit di tenuta sulle posizioni note («Confermerò la nostra impossibilità per motivi di quadro giuridico a partecipare ad eventuali azioni senza l’egida dell’Onu») e un passaggio in chiaroscuro («l’Italia rifugge sempre gli unilateralismi e ricerca i multilateralismi»), Letta ha iniziato a sfumare. Diventando più comprensivo verso le ragioni degli americani, sostenendo che non ci può essere «impunità» per chi ha usato armi chimiche, che «questa è vicenda complicata e complessa» e che «l’Italia non ha alcuna intenzione di strappare rispetto all’Alleanza strategica con gli Stati Uniti». Ma poi alla domanda clou («appoggerete comunque l’America?»), Letta si rifugia di nuovo in corner: «Dipende da cosa succederà. C’è chi interpreta l’intervento militare come una sanzione rispetto alle armi chimiche e chi come l’inizio di qualcosa di cui non si sa la fine», in questa vicenda ci sono stati «cambi di scenario improvvisi», «potrebbero essercene ancora», per questo serve «una gestione della crisi passo passo».

 

Morale della storia: Letta ha ricucito lo strappo della Bonino e questo è un fatto («a me non risulta freddezza con gli Stati Uniti»), ma al tempo stesso mette l’Italia alla finestra, con un atteggiamento da «wait and see» (aspetta e guarda). Naturalmente sempre e comunque dalla parte degli alleati americani: è questo il primo messaggio di Letta da San Pietroburgo, un modo per andare incontro all’amministrazione Usa che in questi giorni, attraverso i canali diplomatici, aveva fatto sapere anche agli italiani che quel che serve a Washington è un appoggio politico, non certo un supporto militare. 

 

Alla grande coalizione delle armi, che Bush era riuscito a creare per l’Iraq, gli Stati Uniti hanno rinunciato quasi subito dopo aver incassato il no della Merkel, un no non urlato ma netto, e ora non vogliono restare isolati politicamente in Europa. D’altra parte Letta, che è cattolico e non può essere insensibile all’iniziativa del Papa, comprende le ragioni del ministro degli Esteri Emma Bonino che nei giorni scorsi era uscita allo scoperto in modo netto, anche in virtù della conoscenza molto approfondita e di prima mano della questione mediorientale. Facendo un’analisi allarmata e allarmante sui rischi strategici di un intervento americano, analisi che in verità la Bonino ha esternato senza filtri, uno stile franco ribadito anche a Parigi, dove ha detto: «Con i francesi siamo d’accordo sul fatto che non siamo d’accordo».

 

Nella breve conferenza stampa che ha preceduto l’inizio dei lavori del G20 Letta ha indirettamente alluso a Silvio Berlusconi, quando ha detto: «È il primo G20 che si svolge senza che l’Italia sia il sorvegliato speciale, per me è fonte di grande soddisfazione e vorrei che tutti in Italia fossero consapevoli e convinti di quanto questo sia un fatto importante». A fianco di Letta, nel corso del bilaterale con Putin, era seduto anche Paolo Scaroni l’amministratore delegato di Eni, una potenza mondiale nel campo energetico, che in Russia lavora con profitto da molti anni e che è impegnata nella realizzazione del gasdotto South Stream.


da - http://lastampa.it/2013/09/06/esteri/letta-placa-lirritazione-usa-dopo-lo-strappo-della-bonino-MCE7iaPEfMoWPo5ty1JUoO/pagina.html
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« Risposta #101 inserito:: Settembre 08, 2013, 07:23:25 am »

ESTERI
07/09/2013

Il dilemma di Letta

Strattonato da Putin poi “sposa” Obama

L’Italia firma la condanna del raiss per l’uso dei gas

FABIO MARTINI
INVIATO A SAN PIETROBURGO


Sono le due della notte, a San Pietroburgo è una di quelle serate mozzafiato che fecero scrivere a Fedor Dostoevskij: «Può vivere sotto un simile cielo gente iraconda e bizzosa?». 
 
A quell’ora della notte pare se lo sia chiesto anche Enrico Letta, da pochi minuti reduce da una discussione memorabile con i grandi della Terra sul destino della Siria e - subito dopo - sempre lui, il capo del governo, si è ritrovato a chiedere aggiornamenti circa le ultime intenzioni di Silvio Berlusconi: rompe, non rompe? In questa scissione c’è tutto l’originale destino di un capo del governo che si è ritrovato, nel giro di poche ore, a fare i conti con due situazioni estreme. Da una parte l’alleato americano determinatissimo a bombardare la Siria, una decisione che non convince il governo italiano, ma neanche il Pentagono; dall’altra un leader della maggioranza domestica come Silvio Berlusconi, impegnato in una resistenza a oltranza ad una decisione della magistratura, atteggiamento senza precedenti nella storia delle democrazie occidentali. 
 
Per Letta un conflitto interiore che si è riverberato nella difficile gestione delle due giornate del G20, tutte dominate dalla questione siriana. Per 48 ore Enrico Letta ha camminato sul filo e non a caso, proprio in extremis, si è ritrovato a essere idealmente strattonato di qua e di là da, sia da Obama che da Putin. Con un intermezzo dai tratti paradossali: tra le 17 e le 20 ora russa, l’Italia è comparsa in due liste. In quella scandita dal presidente russo nella conferenza stampa finale, durante la quale Putin ha indicato il nostro Paese tra quelli del fronte anti-guerra; ma poi (a sorpresa) anche in un documento ufficiale di segno opposto, uscito a G20 concluso, quello voluto dalla Casa Bianca come forte sostegno politico (ma non militare) alla propria azione e che è stato sottoscritto da undici Paesi su venti. 
 
Quello politico era l’unico appoggio che Obama voleva e l’ha ottenuto, con l’apporto determinante dell’Italia ma non della Germania. Ovviamente, a quel punto, l’equivoco della doppia lista si è sgonfiato: l’unica lista che contava era quella in calce al documento filo-Usa e anti-Assad, non quella, a voce, di Putin. E soprattutto, ecco il punto vero, l’Italia ha scelto di nuovo gli Stati Uniti, alla vigilia di una missione militare altamente controversa. Una scelta condivisa dalla Spagna di Rajoy: in zona Cesarini gli spagnoli hanno sottoscritto il documento promosso dalla Casa Bianca, ma anche uno bilaterale con l’Italia, che chiede un impegno comunitario a tutti gli altri Paesi europei per una soluzione politica.
 
Letta ha dato una motivazione alta delle ragioni che hanno portato l’Italia ad appoggiare gli Stati Uniti. Con una premessa: «La condanna contro le armi chimiche come crimine contro l’umanità è un punto inequivocabile», «l’aver gasato bambini e civili non può ripetersi» e per punire questa terribile violazione, con gli Stati Uniti «la distinzione non è sugli obiettivi ma sugli strumenti da usare». Anche perché il rapporto con gli americani resta «forte e fondamentale». Tanto è vero che, palando con Obama, Letta ha raccontato di aver ribadito la posizione italiana e il mio impegno - ecco il punto - a «far sì che questa vicenda non allarghi l’Atlantico», «per non ripetere i disastri di dieci anni fa». 
 
Dunque, l’Italia non si è allontanata politicamente dagli Stati Uniti per effetto delle pressioni americane, ma anche perché a palazzo Chigi ritengono pernicioso una nuovo divorzio dagli Stati Uniti, come quello seguito alla guerra in Iraq: per sanare quello strappo, «per ritrovare un linguaggio comune» ci sono voluti anni. E le ondate di antiamericanismo già si annunciano, con le manifestazioni non contro chi ha portato alla morte centomila siriani, ma contro gli Usa.
 
E d’altra parte l’Italia si è mossa con prudenza verso gli Stati Uniti anche nell’accostarsi al G20. Nei giorni scorsi, su impulso della Farnesina ma con l’accordo di palazzo Chigi, si era accarezzata l’idea - come anticipato da «La Stampa» - di esercitare una pressione sugli altri Paesi del G20 per indurre la Siria a siglare la Convenzione contro le armi chimiche del 1993, visto che il regime di Damasco è uno dei cinque - con Angola, Egitto, Corea del Nord e Somalia tra le nazioni Onu - a non averla né firmata né ratificata. Ma poi si è preferito soprassedere. Per non rallentare le operazioni militari degli Stati Uniti? A palazzo Chigi negano: non era queste la sede e l’occasione «giuste» per una iniziativa importante ma che richiede un suo corredo formale.

da lastampa.it
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« Risposta #102 inserito:: Ottobre 20, 2013, 11:21:58 pm »

Politica
18/10/2013 - retroscena

Il ministro “traditore” e il sospetto del voto contro la decadenza

Il Prof messo all’angolo dall’asse tra ex Dc e alfaniani

Fabio Martini
Roma

L’ira gelida del gesuita è montata tra le mura ovattate di Palazzo Giustiniani, senza che nulla trapelasse all’esterno. Alle quattro del pomeriggio Mario Monti - una volta letto il documento «frondista» degli undici senatori - ha maturato l’idea di dimettersi seduta stante dalla presidenza di Scelta Civica. Da quel momento, nel suo studio di palazzo Giustiniani, il Professore ha iniziato una faticosa stesura del comunicato col quale avrebbe reso pubblica la sua decisione. Una corsa contro il tempo, anche perché alle 19,30 Monti aveva già fissato un incontro chiarificatore, a tu per tu, con Mario Mauro, il «suo» ministro della Difesa, che negli ultimi giorni lo aveva ripetutamente «tradito». Alla fine il Professore ce l’ha fatta, è riuscito a licenziare il comunicato poco prima di andare all’incontro con Mauro. 
Un incontro - e in questo dettaglio c’è tutto Monti - che era stato fissato a palazzo Baracchini, sede del ministero della Difesa: «Vengo io da te», aveva preannunciato il Professore a Mauro e il ministro aveva interpretato il gesto come un segno di elegante deferenza. Ma ad incontro in corso, le agenzie battevano il testo del comunicato col quale Monti si dimetteva dalla presidenza del partito da lui voluto e fondato.
Era da almeno un mese che il professor Monti scrutava con sospetto le mosse del «ciellino» Mario Mauro, che nei mesi precedenti si era conquistato la fiducia dell’ex premier sia per le evidenti doti politiche e di competenza dimostrate al Parlamento europeo, ma anche in virtù di un rapporto personale improntato alla reciproca fiducia. Certo, già in estate, il Professore aveva capito che dentro il suo partito l’area cattolico-moderata raccolta attorno a Pier Ferdinando Casini puntava a mettersi in proprio. A fine luglio, al Tempo di Adriano a Roma, si era svolto un convegno a porte chiuse di questa area e proprio il ministro Mauro si era segnalato con un gesto significativo: impegnato in Corea, aveva mandato un video. Nell’ultimo mese l’area Mauro-Casini è uscita allo scoperto. Soprattutto dopo lo strappo di Angelino Alfano e dell’ala «ministeriale» dal resto del Pdl. Non avendo messo in pratica una scissione, da due settimane si è aperto un cantiere, si sono intensificati i rapporti tra gli «alfaniani» e Casini-Mauro. 
Per fare una Dc bonsai, concorrenziale con Forza Italia? O per diventare la plancia di comando di una futura sezione italiana del Ppe, con Berlusconi padre nobile? Nell’incertezza Mauro è uscito allo scoperto. Il 16 ottobre il ministro si è visto a pranzo con Silvio Berlusconi (sempre al ministero della Difesa, dove Monti forse con intenzione è andato ieri sera) e tra i tanti boatos smentiti, uno non lo è stato: si sarebbe parlato anche della ipotesi che, nel prossimo, decisivo voto a palazzo Madama sulla decadenza del senatore Berlusconi, il gruppo Mauro-Casini (che conta su 14 unità) possa votare nel segreto per salvare il Cavaliere. Un progetto che potrebbe diventare la prima mission del nuovo gruppo parlamentare destinato a nascere la prossima settimana dalla confluenza di Mauro-Casini con gli ex Pdl che non entreranno in Forza Italia, a cominciare da Carlo Giovanardi e Roberto Formigoni. Quanto a Scelta Civica, se le dimissioni di Monti fossero senza ritorno, per la successione, i favoriti sono tre: Benedetto Della Vedova, Linda Lanzillotta, Alberto Bombassei.

http://lastampa.it/2013/10/18/italia/politica/il-ministro-traditore-e-il-sospetto-del-voto-contro-la-decadenza-Tsk6L3KVnjPIWlSRC1YjYJ/pagina.html
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« Risposta #103 inserito:: Novembre 04, 2013, 11:54:46 am »

Politica
04/11/2013 - centrosinistra

“Nei 101 contro Prodi c’erano anche i renziani”

In un libro dei due collaboratori di Bersani i retroscena su Colle e formazione del governo. “Napolitano spiegò che la sua rielezione era una non soluzione”

Fabio Martini
Roma

La lettera riservata di Giorgio Napolitano ai capi della maggioranza fu recapitata con urgenza dai motociclisti del Quirinale. Era il 15 aprile del 2013, mancavano tre giorni all’inizio delle votazioni per il nuovo Capo dello Stato e in quelle ore non c’era un’idea che fosse una, su come dare un governo al Paese e neanche su chi eleggere al posto di Napolitano. 

Il Presidente uscente volle scrivere a Pier Luigi Bersani, Mario Monti e Angelino Alfano una missiva eloquente (cinque fogli in forma di appunto, siglati GN), inesorabile nell’indicare le ragioni che impedivano una sua rielezione, «una soluzione di comodo, una non soluzione», anche perché in passato i partiti nei suoi confronti erano stati prodighi di attestazioni di stima «talvolta contraddette nella pratica». E d’altra parte, insisteva Napolitano, non era possibile che un Paese come l’Italia non riuscisse ad esprimere una personalità per la presidenza della Repubblica. E in una lettera inviata al solo Bersani, il Capo dello Stato uscente autorizzava il segretario del Pd ad utilizzare come «circolare» per tutti i parlamentari democratici, una indisponibilità che lo stesso Napolitano aveva pubblicamente espresso a Renato Schifani. 

Le lettere riservate di Giorgio Napolitano, che oltre ogni dubbio testimoniano la sua ostilità ad un bis, rappresentano uno dei documenti più interessanti contenuti nel libro “Giorni bugiardi”, scritto (per Editori Internazionali Riuniti) da Stefano Di Traglia e Chiara Geloni, i due principali collaboratori di Pier Luigi Bersani nel campo della comunicazione. Instant book che, dalla visuale dei due autori, punta a ricostruire le vicende del Pd, dalle Primarie del dicembre 2012 alla ripetute sconfitte successive. Vicende incandescenti sulle quali Di Traglia e Geloni - da attori-spettatori - in qualche modo sono svincolati (e si vede) da obblighi di obiettività («il Pd non ha perso le elezioni»), ma sulle quali portano a conoscenza episodi significativi e inediti, frammenti destinati a comporre un compendio dei fatti realmente accaduti, premessa per una successiva interpretazione degli eventi che non sia scritta dai soli “vincitori”. Si parte dalle Primarie, volute da Bersani e subito osteggiate dalla sua nomenclatura, impaurita che il leader diventi troppo forte. I notabili terrorizzati si riuniscono con lui a casa della Bindi, ci sono anche D’Alema, Letta, Finocchiaro e Franceschini, che racconta: «Gli ripetevamo che era un rischio inutile...». 

Si legge nel libro che D’Alema arriva ad affidare «ad un emissario una previsione terribile: Arriverai terzo». Aneddoto, che assieme ad altri, conferma la rovinosa rottura tra gli ultimi due “comunisti” del Pd, Bersani e D’Alema. A dispetto di “Baffino”, Bersani invece vincerà le Primarie contro Renzi, ma poi perde clamorosamente le elezioni. Si intestardisce nel tentare di fare lui un governo, nella speranza che il Cinque Stelle possa dare un appoggio esterno. Per sfatare la diceria di un Bersani solipsista, disinteressato ad un rapporto personale con Grillo, Di Traglia e Geloni raccontano: «In Liguria si cercano contatti a tutto campo, anche il futuro senatore a vita Renzo Piano è della partita» e la ricerca di intermediari fu così accurata che si arrivò «a parlare col dentista» del comico. Non è l’unico dettaglio vivido e un po’ impietoso che gli autori propongono nel raccontare l’epopea bersaniana. I due raccontano di avere ritrovato in uno scatolone una cartellina piena di bozze di decreti legge che nei mesi precedenti, senza dirlo a nessuno, Bersani si era fatto preparare in vista del suo ingresso a palazzo Chigi, testi «dettagliatatissimi» su divorzio breve, fecondazione assistita, unione civili, Welfare, pronti ad essere approvati alla prima botta: «Avevo in mente un governo destabilizzante, di rottura», da far partire con «un primo Consiglio dei ministri» convocato con la scusa di «conoscerci un po’ tra noi, ma poi avrei chiuso la porta» e l’indomani mattina «gli italiani si sarebbero ritrovati con tutta quella roba». 

Un racconto ex post che potrebbe scivolare sul patetico, ma è Bersani stesso che evita la deriva, coniando una definizione spiritosa e al tempo stesso profonda: «Governare è tenere un ritmo sincopato, avete presente Keith Richards? Lui batte sempre un nanosecondo prima. Bisogna prendere la gente un attimo prima di quando se lo aspetta». Gustosa la descrizione dell’incontro tra Bersani e Berlusconi che, come al solito, per simpatizzare, parla d’altro, «racconta aneddoti sulla sua condizione di fidanzato con suocera» e «rivela di essere sul punto di sostituire Allegri con Seedorf». Sul tormentone dei 101 grandi elettori del Pd che nel segreto non votarono per Prodi, poche novità di fatto, ma un giudizio bruciante: «E’ convinzione di chi conosce la composizione dei gruppi parlamentari che in nessun modo sia possibile raggiungere quota 101, senza includere i 41 renziani». Un’ affermazione apodittica senza supporto fattuale, mentre è drammatico il racconto della resa di Bersani. Nel giorno dei 101, sconfitto dai suoi errori e da Napolitano, improvvisamente dice: «Io stasera mi dimetto e domattina vado da Napolitano a chiedergli di restare». 

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/04/italia/politica/bersani-nei-contro-prodi-cerano-anche-i-renziani-QqlKBB342MHwLCRJpfl4dP/pagina.html
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« Risposta #104 inserito:: Novembre 19, 2013, 05:14:57 pm »

Politica
01/11/2013 - intervista nell’ambito del progetto Europa - Letta: “Combattere i populismi o distruggeranno l’Europa”

Il premier: “La Ue alzi la bandiera per il lavoro dei giovani e sia unita sull’immigrazione.
La risposta italiana è eliminare il finanziamento ai partiti e cambiare legge elettorale”

Fabio Martini
Roma

Una chiamata alle armi politiche contro i tanti populismi che si aggirano per l’Europa. Il presidente del Consiglio Enrico Letta si rivolge alla opinione pubblica dei più grandi paesi della Ue attraverso una intervista concessa allo spagnolo «El Pais» , al polacco «Gazeta Wyborcza», al francese «Le Monde», al tedesco «Suddeutsche Zeitung», all’inglese «The Guardian» e a «La Stampa», invitando a scuotersi, ad abbandonare ogni «timidezza», perché se i movimenti euro-scettici dovessero ottenere un buon risultato alle elezioni Europee, l’Europarlamento ne uscirebbe «azzoppato». Menomato nella capacità di imprimere una svolta, di incidere nella vita quotidiana dei cittadini. Al tempo stesso Letta rassicura l’Europa, dicendo che è sicuro di andare avanti e affermando con più nettezza del solito che il traguardo del suo governo è il 2015, anno in cui si tornerà a votare, con una competizione tra centro-sinistra e centro-destra. E in Italia la politica potrà recuperare forza, soltanto se saprà auto-riformarsi, con le modifiche costituzionali e legislative ma anche con la capacità dei partiti di «ringiovanire» le proprie leadership. 

 Nel suo studio di palazzo Chigi, Enrico Letta accoglie i giornalisti con un incipit scherzoso: «Su Berlusconi non vi dirò nulla, perché altrimenti titolate tutti su di lui!». Ma poi entra subito sulla questione che più gli sta a cuore: «Voglio cogliere questa occasione per lanciare un messaggio all’opinione pubblica europea: c’è una grande sottovalutazione del rischio di ritrovarsi nel prossimo maggio il più anti-europeo Parlamento europeo della storia, con una crescita di tutti i partiti e movimenti euro-scettici e populisti, in alcuni grandi Paesi e anche in altri più piccoli. E con un effetto molto pericoloso sul Parlamento europeo. Nella prossima legislatura la scommessa di fondo è passare dalla austerità alla crescita, una scommessa che il Parlamento più euroscettico della storia rischia di azzoppare. Un rischio del quale nei diversi paesi europei si parla, ma timidamente. Urge una grande battaglia europeista: l’Europa dei popoli contro l’Europa dei populismi. Questa è la posta in gioco nei prossimi sei mesi. E quando dico europeismo, so bene che non basta dire “più Europa” per avere un’Europa migliore». 

Quale è la soglia oltre la quale i populisti europei diventano protagonisti e, per lei, pericolosi? 

«Se i populisti in Europa superassero una percentuale del 25 per cento questo sarebbe molto preoccupante. Tutte le elezioni europee, dal 1979 fino ad oggi, sono state vissute come appuntamenti nei quali ogni Paese guardava il “suo” risultato , senza mai uno sguardo d’assieme. Stavolta sarà diverso e questo paradossalmente è la dimostrazione del successo del progetto europeo. Anch’io andrò a vedere il risultato del partito di Alternative in Germania».

 

In Italia è possibile che il Cinque Stelle risulti il primo partito alle Europee? 

«Questo rischio è molto forte. Le elezioni europee rappresentano il terreno migliore sul quale il Movimento Cinque stelle può esprimere il suo populismo. Non possiamo limitarci ad essere timidi con Grillo, o soltanto placcarlo».

Berlusconi va messo nel campo dei populisti? 

«Be’, un po ’ sì...».

Un po’? 

«Il Pdl, secondo me, è un mix. Berlusconi in questi anni ha tenuto insieme pulsioni populiste e altre più istituzionali e moderate. Ora, nella divisione tra falchi e colombe sarebbe interessante sapere cosa pensano le due anime sui temi dell’Europa».

In Italia il populismo ha avuto una lunga incubazione: Bossi è entrato in Parlamento nel 1987 e 23 anni dopo un elettore su tre ha votato “populista”, tra Cinque Stelle e Lega. Per essere più credibili nel contrastarli, non fareste bene a fare un’autocritica sugli errori e sulle tante non-scelte che hanno favorito questa escalation? 

«Certamente. Non voglio essere malinteso: quando parlo di populismi, mi riferisco alle politiche e ai suoi rappresentanti, ma so che tra gli otto milioni che hanno votato per il Movimento Cinque Stelle ci sono tantissimi elettori che prima avevano votato per il Pd o per le formazioni moderate del centrodestra. È vero, il giudizio sul populismo non può essere auto-assolutorio e io non dirò mai: noi siamo i buoni e loro i cattivi. Ma il 90 per cento del successo dei partiti populisti in Italia è dato da una politica che ha impiegato troppo tempo a rinnovarsi e a tagliare i propri costi. Una delle chiavi del risultato delle prossime Europee sta nella capacità di far diventare leggi entro quella data, l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti e la riforma elettorale. Sono ottimista: il governo ha varato (e la Camera approvato) un testo che abolisce il finanziamento pubblico e lo sostituisce con un incentivo al contributo personale del cittadino».

Basta per ridare l’onore alla politica italiana? 

«No, serve anche un generale rinnovamento e ringiovanimento delle leadership dei partiti. Dobbiamo dimostrare che la politica in Italia è capace di auto-riformarsi e non serve la presa della Bastiglia».

I partiti anti- sistema hanno buon gioco nel dimostrare che le riforme istituzionali restano chiacchiere... 

«Questo è il motivo per il quale io insisto tanto sul fatto che noi dobbiamo cambiare le regole istituzionali e lo dico contro i conservatori di casa nostra. Da noi ci sono tanti conservatori che dicono che questo Parlamento è delegittimato e quindi non può cambiare la Costituzione. In Italia serve un sistema, nel quale quando si vota, il cittadino elegge un Parlamento e non due con gli stessi poteri, come è oggi e nel quale siano presenti molti meno parlamentari. Obiettivi - lo ribadisco - che si raggiungono solo cambiando la Costituzione e dunque facendo le riforme, come del resto ci sprona a fare il presidente della Repubblica, Napolitano. Penso che entro l’estate possiamo chiudere la partita, con la riduzione dei parlamentari, la fine del bicameralismo, una nuova legge elettorale».

La grande coalizione può diventare un modello? 

«In Italia noi stiamo vivendo un momento straordinario nel vero senso della parola. L’ordinarietà è il confronto centro-destra e centro-sinistra con regole e istituzioni che lo consentano. Io lavoro perché si cambino le regole e si torni nel 2015... quando sarà, nel 2015 si torni a un confronto elettorale nel quale i cittadini possano scegliere tra due opzioni e questa scelta porti poi alla espressione di un governo. Questo l’ho detto nel discorso con il quale ho preso il voto di fiducia alle Camere, l’ho ridetto anche il 2 ottobre, sono fermamente intenzionato e convinto di andare avanti su questa strada. Anche perché i risultati si cominciano a vedere. Nel 2014 l’Italia sarà uno dei Paesi più virtuosi d’Europa: centreremo contemporaneamente cinque obiettivi. Per la prima volta, dopo 5 anni, il debito generale scenderà. Avremo il deficit di nuovo sotto il 3% per il secondo anno di fila. Avremo per la prima volta la spesa pubblica primaria che scende. Si fermerà la crescita delle tasse, avviando il calo. Avremo il segno più sulla crescita e speriamo di fermare l’aumento della disoccupazione. Un incubo, come confermano i dati di ieri. È la battaglia cui voglio dedicare il massimo della determinazione».

Dunque, lei oggi è più sicuro di restare fino al 2015? 

«Il primo ottobre, quando Alfano mi ha comunicato che i ministri del Pdl si dimettevano su richiesta di Berlusconi, io ho iniziato a fare gli scatoloni. Perché ho sempre pensato che in una situazione così complessa come quella italiana, non si può governare con un voto di maggioranza. Poi invece il Parlamento mi ha dato una fiducia larga e abbiamo vinto una battaglia molto complessa: dal 2 ottobre abbiamo maggiori forze e guardo al futuro con fiducia».

In mezzo ci sono le elezioni europee di maggio, per le quali lei chiama a raccolta gli europeisti di tutta Europa: concretamente come immagina questa battaglia? 

«La battaglia deve essere fatta a testa alta, rivendicando le ragioni di un europeismo del quale stiamo sottovalutando la portata positiva. La profonda crisi economica e finanziaria è dovuta, non all’Europa o alle sue colpe, ma semmai ad un deficit di Europa. Per dirne una: sono serviti 27 Vertici europei, dal 2008, prima di arrivare alla frase di Mario Draghi sul salvare l’euro «whatever it takes», una dichiarazione che ha cominciato a farci uscire dalla crisi. Poca Europa significa che non ci sono le istituzioni giuste. Chi è l’Europa? Chi ci rappresenta? La risposta è sempre balbettante e questo è il tema vincente di Grillo, Marine Le Pen, Farage, di tutti i populisti europei. Lo dico francamente: le istituzioni europee sono molto, troppo frammentate: il presidente del Consiglio, della Commissione, il presidente di turno del semestre, l’Eurogruppo, il rappresentate permanente. Quando ho parlato con Obama a Washington gli ho detto: è importante che tu venga a Bruxelles. Finora, in cinque anni, Obama non è mai venuto».

Cosa le ha risposto Obama? 

«Mi ha detto che verrà, ma il fatto che non sia mai venuto, mi dà l’idea che pure nella percezione americana, c’è una difficoltà nell’interpretare Bruxelles come luogo della rappresentanza europea. Provate a fare un sondaggio tra i cittadini europei con questa domanda: dimmi chi è il capo dell’Europa? Sarebbe interessante scoprire quanti rispondono Merkel, quanti Barroso. quanti Van Rompuy....».

Gli americani dicono da sempre che, se si vuole parlare con l’Europa, non c’è un numero di telefono... 

«Certo, è il tema che ha sempre posto Henry Kissinger. Paradossalmente - e lo dico alla luce di quel che ho visto in sei mesi - io sono un grande tifoso di Van Rompuy e di Barroso, due personalità che stanno facendo bene, che hanno dimostrato una grande conoscenza delle istituzioni europee. Il problema non è legato alle singole personalità. Ad esempio, i 18 Paesi dell’Euro - a gennaio entrerà anche la Lettonia - non hanno “proprie” istituzioni e così finiscono per scaricare sulla Bce, l’unica istituzione forte a 18, responsabilità e pesi che dovrebbero essere delle politiche economiche. Avremmo bisogno di un ministro permanente dell’Economia dei 18, di politiche economiche a 18, di un bilancio, di un’istituzione che ci unifichi. Tutto ciò premesso l’Europa è una storia di successo. A me colpisce che nessuno rilevi con forza che l’Unione, per la prima volta, è presieduta in questo semestre da un Paese, la Lituania, che 23 anni fa faceva parte dell’Unione sovietica. Una straordinaria storia di successo che stiamo rovinando con una timidezza nella battaglia politica».

Ma per l’autoriforma dell’Europa servono decenni mentre le elezioni europee sono fra pochi mesi: come se ne esce? 

«Sarà essenziale alzare la bandiera dell’Europa che lotta contro la disoccupazione, lanciando nei prossimi Consigli un grande Progetto giovani: questo parlerebbe a tutto il continente. E ancora: il Consiglio europeo di febbraio si occuperà di politiche economiche legate all’industria. In quella occasione potremo dare un messaggio burocratico, oppure dopo un “girone di andata” nel quale per 10 anni si era teorizzato che esistevano soltanto finanza e servizi, iniziare un virtuoso “girone di ritorno” per reindustrializzare, internazionalizzando le imprese: un’azienda va in Cina perché le interessa quel mercato e non per riportare i prodotti uguali in tutto e per tutto come li ha fatti lì».
L’Europa non continua ad essere affetta da lentocrazia? 

«Mettiamola così. Se fossi dittatore europeo per mezzora, farei due editti. Col primo proporrei una cosa che sarebbe immediatamente comprensibile e condivisa dall’opinione pubblica, l’unificazione del presidente della commissione e del presidente del consiglio europeo in un’unica figura, una modifica che si può fare senza cambiare i trattati. Basterebbe nominare la stessa persona. Una unione personale, diciamo così delle due funzioni. So benissimo che dal punto di vista della perfezione giuridica bruxellese, dico una specie di bestemmia perché il presidente del consiglio svolge un ruolo di gestione, mentre il presidente della commissione ha un altro ruolo. Tra l’altro un ruolo che Barroso - come ho visto nell’ultimo consiglio europeo - sta svolgendo con un approccio europeista molto forte, che mi è molto piaciuto».

Col secondo editto cosa farebbe? 

«Abolirei tutti gli acronimi europei, una cosa che fa impazzire noi e voi, sono incomprensibili per tutti. Sono la bussola per la burocrazia di Bruxelles, con la quale tu invece ti perdi: Efs,Esm, Sixpack, twopack. Bisogna chiamare le cose col loro nome».

L’emigrazione clandestina e i migranti sono un ottimo propellente per i populisti... 

«Con una gestione malaccorta di questi temi si rischia di perdere le elezioni Europee. Non è un caso che Grillo, restio su tante questioni a seguire politiche classicamente di destra, su tale questione abbia completamente sconvolto la sua bussola, prendendo la posizione che è stata di Bossi, Fini e anche di Berlusconi. Spiazzando i suoi stessi elettori. Sapendo che, in un Paese solidale come l’Italia, la paura del diverso è ancora molto forte. Eppure, ora che sono trascorsi sei mesi dalla nascita del mio governo, resto molto fiero della decisione di aver scelto Cecile Kyenge come ministro dell’Integrazione, una decisione che presi in solitudine. La chiave è questa: o lo risolviamo tutti assieme in Europa, oppure questo problema non si risolve. Nell’ultimo Consiglio il tema è stato affrontato in maniera più consapevole».

Al termine del recente Consiglio europeo perché lei ha giudicato «sufficiente» la risposta dell’Ue? 

«Sufficiente non vuol dire ottimo, ma mi aspetto che si possa migliorare. Però ho già visto il Consiglio europeo diventare un po’ come un consiglio dei ministri di uno stato membro, dove se scoppia un problema all’improvviso, cambi l’ordine del giorno, lasciando perdere le altre questioni. Finalmente è accaduto anche a livello europeo. Nella decisione di Barroso di venire a Lampedusa e di mettere alcune risorse in più, ho visto una reale volontà di affrontare la questione. Ho detto sufficiente perché penso che dobbiamo fare di più sia a livello nazionale che a livello europeo. E anche con i paesi terzi noi dobbiamo avere un approccio molto più forte di quello tenuto in questi mesi». 

Quale sarà l’impatto di Datagate nei rapporti con gli Stati Uniti? 

«Noi ci aspettiamo che ci sia il massimo disclosure e son sicuro che ci sarà, dopo ciò che ho ascoltato dagli interlocutori americani con cui ho parlato, a cominciare dal segretario di stato Kerry. I chiarimenti arriveranno perché l’alleanza tra Stati Uniti ed Europa è fondamentale, deve assolutamente continuare».

È vero che su questo tema lei e Cameron avete litigato? 

«Questa storia è girata, ma non so come sia uscita e non è vera. Mentre eravamo a cena, entrambi ci siamo detti: ma ti risulta che abbiamo litigato?».

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/01/italia/politica/letta-combattere-i-populismi-o-distruggeranno-leuropa-sPgGW767vq2R3IF1p57EeJ/pagina.html
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