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Autore Discussione: Gandhi e il figlio ribelle Storia di un cattivo padre  (Letto 2230 volte)
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« inserito:: Agosto 04, 2007, 10:11:22 am »

Gandhi e il figlio ribelle Storia di un cattivo padre

In un film il dramma familiare del grande leader

E in India i tradizionalisti lo vogliono bloccare 
 

«Nel tuo laboratorio di esperimenti io sarei quello venuto male?». Gandhi contro Gandhi. Il figlio ubriacone che per dispetto s’è convertito all’Islam per poi tornare all’induismo, il primogenito che aveva sognato di percorrere le orme del sommo genitore andando a studiare Legge in Occidente si scaglia in una lettera contro il padre non più suo (è stato ripudiato) ma della patria intera (tutti lo chiamano Bapuji, piccolo padre), il profeta della non-violenza, il Mahatma, la «Grande Anima» che ha saputo condurre l’India all’indipendenza. Odio senza perdono, in casa di un santo. Uno dei giganti del ’900, il «fachiro sedizioso» come lo chiamava Churchill, seppe piegare gli inglesi ma non riuscì a «raddrizzare» il primogenito Harilal. Che fino all’ultima sbornia mortale mai gli perdonerà il dolore di quando, ragazzo, si vide rifiutare la possibilità di andare a Londra, diventare avvocato. Come lui.

Il Mahatma non voleva favorire i figli, ne aveva 4, rispetto ai ragazzi meno fortunati. Avendo assorbito e rigettato la civiltà occidentale li indirizzava su strade più tradizionali, il contadino, il tessitore. Harilal ebbe la forza di ribellarsi. I suoi fratelli abbozzarono: non passarono la vita zappandoma fecero i direttori di giornali, si sposarono bene, girarono il mondo. L’ultimo, il preferito, versò nel Gange le ceneri del Mahatma, ucciso da un fanatico indù il 30 gennaio ’48. Nella foto del funerale a cui parteciparono 2 milioni di indiani Harilal è il figlio che non c’è: morirà appena cinque mesi dopo, alcolizzato, come un intoccabile in una strada di Bombay. Storia oscura e meravigliosa, questa raccontata in «Gandhi, My Father» uscito ieri in Gran Bretagna, India e Sudafrica. Si apre con Harilal agonizzante, raccolto per strada: «Chi è tuo padre?», gli chiedono. Lui risponde con un filo di voce: «Gandhi». I soccorritori: «Gandhi è il padre di noi tutti. Ma tu di chi sei figlio?». Halilal ancora: «Gandhi...». Nelson Mandela alla prima del film qualche giorno fa a Johannesburg l’ha definito istruttivo ed emozionante: «Tutte le battaglie di libertà richiedono sacrifici, anche personali, è il prezzo che dobbiamo pagare ».

Grandi uomini, famiglie sacrificate. Mandela era forse troppo impegnato contro l’apartheid per crescere i suoi ragazzi poi morti di Aids? Troppo facile moraleggiare su quanti oggi rifiuterebbero di «dare una mano» agli eredi come fece il Mahatma? L’accusa che gli muoveva Harilal era sottile: aver anteposto la sua gloria al bene dei figli. Difetti su un ritratto immacolato, che ogni tanto qualcuno prova a macchiare ad arte (nel ’95 la rivista «Studi Cattolici» sostenne che tutti i suoi scioperi della fame eran dovuti alla stitichezza). Certo il Gandhi hollywoodiano incarnato 25 anni fa da Ben Kingsley qui lascia spazio alla figura più umana di Darshan Jariwala, attore di teatro. Nelle scorse settimane in India si son levate le proteste dei più tradizionalisti, che hanno chiesto (scrivendo al premier e al presidente) di bloccare la pellicola. Perché «Gandhi, mio padre» racconta anche le piccole vendette, le ripicche familiari. Come quando il figlio si converte all’Islam, dopo aver ponderato anche il cristianesimo, e il padre ha parole al veleno: «Non è una perdita per l’induismo, si è venduto al miglior offerente».

O quando invita coloro che sono stati truffati da Harilal in un’operazione finanziaria che ha usato come scudo il nome di famiglia a denunciare tutto alla polizia. Gandhi insensibile: lui che si era votato alla castità a 37 anni disapprova duramente che Harilal possa risposarsi, dopo che il colera s’è portato via la moglie e il neonato. Harilal fu uno dei pochi capaci di far uscire il peggio dal guru della non-violenza, a rendercelo per un istante più vicino. E di questo gli siamo grati.

Michele Farina
04 agosto 2007
 
da corriere.it
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