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Autore Discussione: Giuliano Compagno. Marcello Veneziani e... la sindrome del tradimento  (Letto 2921 volte)
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« inserito:: Marzo 14, 2010, 03:38:05 pm »

Risposta alla critiche del giornalista-filosofo che ha fatto un migliaio di cose

Marcello Veneziani e... la sindrome del tradimento


di Giuliano Compagno

Abbiamo letto con un senso di umana simpatia l’ultima invettiva di Marcello Veneziani. Abbiamo apprezzato lo sforzo massimo di far coesistere una certa rinuncia all’utilizzo dei concetti con quella tipica attitudine di chi sopperisca al proprio smarrimento fendendo l’aria con il piglio del giudice universale, il che ci ha ricordato il personaggio di una canzone di Francesco Guccini: «Io Filemazio protomedico, astronomo, matematico, forse saggio, ridotto come un cieco a biancicare attorno, non ho la conoscenza o il coraggio, per fare quest’oroscopo, per divinar responso, e resto qui a aspettare che ritorni giorno».

Da questa nebbia, talvolta, può anche emergere un egotismo disperante, attraverso il quale si concede a se stessi e alle proprie esperienze un’importanza davvero eccessiva, da cui, alla gentilezza di chi gli concede qualche scritto interessante - sebbene datato - si arriva a replicare con un’autocelebrazione da manuale del narcisismo (evidentissima risposta a un trauma, commenterebbe Christopher Lasch…): «… ho fondato e diretto riviste e fondazioni; ho scritto una quindicina di libri che qualche effetto hanno avuto… ho scritto su svariati giornali, ho fatto qualche altro migliaio di cose». Ora, vorremmo rassicurare Veneziani circa la sua discreta notorietà ma allo stesso tempo prospettargli una duplice possibilità, forse dolorosa ma inevitabile: la prima è che quel migliaio di cose da lui fatte non abbiano più di tanto intaccato né il mondo contemporaneo né tanto meno il pensiero politico occidentale; la seconda è che chi scrive non abbia mai letto un suo libro. E, parrà incredibile, sta benissimo. Le ragioni che hanno motivato tale esenzione non sono esattamente dovute a una propensione per il genere comico o per il bricolage. È potuto accadere infatti che, negli anni Ottanta, alla lettura de La rivoluzione conservatrice in Italia qualcuno preferisse trascorrere il tempo in compagnia di Jünger, Bataille, Foucault, Eliade, Girard, Culianu… Oppure che nel 1996, invece di scapicollarsi per acquistare L'antinovecento, un qualsiasi studioso di media curiosità potesse essere più attratto da una copia del bellissimo Aesthetic Politics di Franklin Rudolph Ankersmit.

Questo non per sminuire in alcun modo la volenterosa bibliografia di un poliedrico filosofo prestato al giornalismo ma per fargli notare, sommessamente, che la vita è una sola e che a volte non c’è tempo per conoscenze sussidiarie (sentenza anche autoreferenziale, sia ben chiaro…). Quanto alle critiche al Secolo di Veneziani, non è ovviamente questione di legittimità ma forse pure di sostanza. Cerchiamola dunque con buona volontà. Qui e là egli rimprovera a Gianfranco Fini di aver cambiato opinione. Gli pare «roba da pagliacci definire razzista una posizione in tema di immigrazione condivisa e sostenuta fino a tre anni fa». Di questo si tratta o dell’indispensabile commento a certe becerate leghiste? E non era stato lo stesso Veneziani a denunciare con un’amara dose di ironia che «nel nostro paese c’è un razzismo inquisitorio e poliziesco»? Lui che, per via della carnagione scura da bel volto meridionale, incorreva - come scrisse - in continui controlli sulla sua persona? Ora, supponiamo che non sia così terribile modulare le proprie convinzioni sulla base di successive modificazioni della realtà e che ad esempio non sia tanto deprecabile che un intellettuale, vent’anni orsono sognasse «una destra non di destra» - lo scriveva sul Sabato - e oggidì auspichi una destra fortemente identitaria. Per lui l’Italia sarà cambiata in un certo verso… D’altronde, argomentava il buon Pasternak nel Dottor Zivago, nel corso di una vita non si sostiene un solo ruolo, non si occupa un medesimo posto, altrimenti si è «un’irrimediabile nullità», e non è il caso di alcuno dei citati.

Né al contrario ci persuade l’incoerenza creativa da surrealisti dell’ultim’ora. Epperò ci può stare il fatto che dopo sette anni e mezzo la composizione etnica e sociale di un paese sia andata modificandosi al punto da convincere il firmatario di una legge a interrogarsi profondamente sulla sua efficacia… o no? Ed è parimenti comprensibile che il crescente rischio di desocializzazione di molti individui, unito a fattori di insicurezza sociale inducano un’alta carica dello Stato a riflettere sulla validità e sulla praticabilità di modelli più complessi che non siano l’insulto e il disprezzo sistematici nei confronti dei diseredati della Terra. Si dice che questa forma problematica di sensibilità nasconda un bieco opportunismo in mancanza di idee. Che sarebbe robetta presa a prestito da una sinistra sempre più riconoscente, mentre occorre far pesare «la cultura, il senso dello Stato e i valori» di una presunta destra.

Ma siamo certi che cultura, senso dello Stato e valori siano andati al macero in quelle grandi nazioni europee che pure hanno saputo attuare un credibile progetto di integrazione religiosa ed etnica? Nessuno che vada mai a Londra a dare un’occhiata? Che domandi a uno dei circa 30mila pakistani residenti in Norvegia come va la vita, magari il 17 di maggio, quando in tutto il paese sventolano le bandiere nazionali? Possono mai essere i signori Borghezio e Gentilini due validi interlocutori su un problema tanto articolato? Quanto ai valori identitari della destra, l’impressione è che a volte se ne invochi la formidabile inattualità invece di cercarne il senso più vivo. Dalla Lega, per dirne un’altra, non solo ci distingue una passionaccia pattriottica ma anche quello sguardo deterritorializzato che ci ha fatto credere, per decenni, a quanto ci fossero più prossimi i destini di un irlandese o di un indiano d’america che non quelli di un nostro condomino iracondo.

Siamo più complessi di quanto pensiamo per cui non c’è motivo alcuno di rinnegare l’elevata tradizione della nostra cultura e egualmente non c’è ragione di disconoscere la «forma sovrana dell'eterogeneità», ossia quella capacità di riassorbire le componenti escluse della società che Bataille aanalizzò ne La struttura psicologica del fascismo. Ragionare su questo e altro può infine servire a rimuovere le sindromi da tradimento. Sono slogan, se manca tutto il resto.

9 gennaio 2010

Tratto dal Secolo d'Italia
da ffwebmagazine.it
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 14, 2010, 03:39:58 pm »

Gazzetta del profeta: altro che "fare futuro", c'è chi il domani l'ha già visto...

È nato il giornalismo di Maga Magò

di Filippo Rossi


Oggi è nato ufficialmente un tipo di giornalista tutto nuovo. Bravissimo, non c’è che dire. Impeccabile nei suoi racconti, preciso nei particolari. Un giornalista che si vanta di essere un cronista, che svela retroscena, che riesce a mettere in relazione avvenimenti che agli occhi dei più appaiono distinti e separati. Un giornalista un po’ commissario Colombo e un po’ signora in giallo. Un po’ Marco Travaglio e un po’ Milena Gabanelli. Un po’ Dylan Dog e un po’ Martin Mystère, insomma.

E sì, perché il giornalista in questione è troppo bravo per accontentarsi di quel che è avvenuto, di quel che è stato. Deve allargare il suo sguardo là dove nessuno sa vedere. Non gli basta spiegare il dove, il come, il perché, il chi, il quando. Deve fare di più. E allora, ecco la trovata, da un po’ di tempo il suo “quando” si applica al futuro. Non nel modo più scontato, ovviamente. Perché non è da lui cercare di prevederlo, quel futuro, analizzando il presente e il passato. Troppa fatica. No, lui va per le spicce: è fatto così, non guarda in faccia a nessuno.

E così ha deciso di utilizzare una macchina del tempo, come quella del film anni Ottanta “Back to the future”. Non racconta quel che è stato, ma quel che sarà: le sue sono vere e proprie “cronache dal futuro”, alla stregua di quelle del buon Isaac Asimov. Perché lui ha visto cose che noi umani potremo vedere solo quando avverranno veramente.

E le vedremo senz’altro, ce lo garantisce lui. D’altra parte lo ripete sempre, a ogni evenienza: «Io racconto notizie». È il suo mantra, la sua giustificazione ultima, il suo credo estremo. Ma le notizie devono essere talmente nuove, sempre più nuove, che alla fine è quasi ovvio che il nostro giornalista abbia deciso di raccontarci quelle che devono ancora materializzarsi. Che poi hanno anche un altro grande pregio: nessuno le può smentire fino in fondo. Perché nessuno ha potuto vedere, ancora, quel che solo lui ha intravisto nella sua personalissima sfera di cristallo. Questione di fede. E di preveggenza: un po’ Mago Merlino, un po’ Maga Magò. Altro che “fare futuro”, lui il futuro lo racconta direttamente.
 
Ps. Solo un consiglio. A questo punto potrebbe cambiare nome al quotidiano che fu del grande Indro Montanelli. Potrebbe chiamarla direttamente Gazzetta del profeta…

14 marzo 2010
da www.ffwebmagazine.it

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