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Autore Discussione: Jim Thompson, la vita in fuga di un grande scrittore di miserabili  (Letto 2006 volte)
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« inserito:: Marzo 07, 2010, 10:09:59 am »

Jim Thompson, la vita in fuga di un grande scrittore di miserabili
 
               
 di Enzo Di Mauro

ROMA (6 marzo) - Jim Thompson aveva un fiuto straordinario per i fallimenti. Anche quando fu chiamato da Stanley Kubrick come sceneggiatore di Rapina a mano armata e di Orizzonti di gloria, nel complesso guadagnò meno di quanto gli spettasse o di quanto si aspettasse.
Il grande regista lo scoprì nel 1952, quando trascorse un’intera notte sveglio a leggere L’assassino che è in me, storia imperniata sulle sanguinose azioni di unno sceriffo paranoico. Di sicuro, commentò Kubrick, si tratta del “più grande romanzo su una mente criminale che sia mai stato scritto”.

Di romanzi Thompson ne compose una trentina, tutti pubblicati in edizioni popolari. Libri da treno, magari da abbandonare sul sedile alla fine del viaggio. Bad boy – opera apertamente autobiografica – comincia così: “I miei primi ricordi sono i pizzicotti che ho ricevuto. Non in senso metaforico, ma letterale. Ero un bambino goffo, con la testa grossa, incline alla balbuzie e a farmi lo sgambetto da solo”. Un buon inizio, non c’è che dire. Era nato nel 1906 in Oklahoma, e fin da ragazzo fu costretto a fare di tutto, dal manovale al fattorino, dall’operaio nei pozzi petroliferi al gestore di sale cinematografiche. La scrittura arriva tra la fine degli anni Trenta e l’inizio del decennio successivo.

Ora gli viene dedicata una bellissima biografia firmata da Robert Polito intitolata Jim Thompson. Una biografia selvaggia (Alet, traduzione di Sebastiano Pezzani, pagg. 637, euro 20, 00) che è anche un ritratto dell’America lungo alcuni decenni del Novecento. L’America di Thompson era quella degli emarginati e dei devianti, dei miserabili e dei duri. Era l’America feroce, anche, e priva di speranza. Thompson – che di quella marginalità era parte – la descrive senza veli e senza maschere.

Maestro di trame, di dialoghi e di ambienti (spettacolari quelli che raccontano gli anni Cinquanta), egli è sempre antiretorico e disincantato, come molti dei suoi protagonisti. Mentre moriva – era il 1977 – non pronunciò battute memorabili o alate parole adatte a farsi incidere sulle lapidi. Invece, rivolto alla moglie, spese le forze residue per rassicurarla circa il destino postumo dei suoi libri. Si disse certo, in quegli attimi estremi, della fortuna di quell’opera che, sino ad allora, aveva conosciuto solo la scomoda, precaria postura dell’edicola.

Per una volta si rivelò un buon profeta e un uomo assai pratico. Dopo la sua scomparsa, infatti, alcuni dei suoi romanzi si sono trasformati in pellicola, grazie a registi del calibro di Bertrand Tavernier (Colpo di spugna, 1981) e di Stephen Frears (Rischiose abitudini, 1990). Ma, più in generale, sia David Linch che i fratelli Coen si sono nutriti dell’immaginario narrativo di Thompson. Né va dimenticato – ancora nel 1972, vale a dire prima della morte – Getaway di Sam Peckimpah, tratto dall’omonimo libro del 1958.

Scrisse Thompson: “La fuga è tante cose. Qualcosa di pulito e rapido, come un uccello che lambisce il cielo. O qualcosa di sudicio e strisciante, una serie di movimenti da granchio in una melma simbolica e reale, un procedere furtivo, saltando di lato, correndo all’indietro”. Lui conosceva alla perfezione l’arte della fuga. Nella sua vita non aveva fatto che fuggire, senza un attimo di tregua e di respiro. Dalla famiglia, ad esempio, riuscendoci benissimo. E dal delirium tremens, però con scarsi risultati.

 
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