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Autore Discussione: IRENE TINAGLI  (Letto 32716 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Agosto 18, 2011, 05:42:10 pm »

18/8/2011

Un mondo che guarda al futuro

IRENE TINAGLI

Pochi giorni fa si è concluso l’anno internazionale dei giovani indetto dall’Onu, e subito è partita la Giornata Mondiale della Gioventù della Chiesa Cattolica, che quest’anno si celebra a Madrid. Quest’attenzione alle nuove generazioni non fa che mettere in luce un triste paradosso. Quello di una gioventù tanto seguita con apprensione da buona parte della società, civile e religiosa, quanto ignorata e penalizzata dalle politiche pubbliche e dai governi. I giovani sono la fascia di popolazione che è stata più colpita dalla crisi economica internazionale, e quelli che ne subiranno maggiormente le conseguenze anche in futuro. Eppure, quasi niente di ciò che è stato fatto, discusso e proposto in questo periodo da governi e organi politici ha tenuto in debita considerazione la necessità di ridisegnare un sistema economico e sociale sostenibile nel tempo.

Un sistema che dia più opportunità e speranza alle nuove generazioni. Basta pensare a ciò che abbiamo visto in queste settimane. Una manovra finanziaria che mette una pezza ad anni di politiche economiche di corto respiro semplicemente aumentando tasse e tagliando dove capita, rimandando a comitati e date future tutte le riforme che davvero servirebbero oggi: dalle liberalizzazioni dei servizi a quelle delle professioni, dal funzionamento dello Stato a quello del mercato del lavoro. E anche tra questa accozzaglia confusa di tagli e tasse assistiamo allo spettacolo desolante di rappresentanti di ogni genere di interessi che corrono per salvare qualche provincia o qualche ente, per eliminare o rimandare quei tagli che li riguardano più da vicino, o quelli che più fanno arrabbiare i propri rappresentati o elettori, siano essi pensionati o ereditieri, allevatori o calciatori.

Gli unici che non hanno lobby o rappresentanti che si affannano a inseguire i politici nei palazzi del potere sono proprio loro, i giovani. Gli unici senza un richiesta specifica un interesse precostituito da difendere perché hanno ancora tutto da costruire e chiedono solo un’opportunità per farlo. Ma soprattutto chiedono una motivazione per andare avanti, per non mollare, per credere in qualcosa su cui investire le proprie energie e il proprio entusiasmo. E quindi cercano riferimenti e supporto altrove: nelle piazze, tra i coetanei, nelle istituzioni laiche o religiose che in qualche modo si rivolgono a loro, offrendogli un’opportunità di ascolto, di azione, di speranza. Lo hanno fatto tre mesi fa i migliaia di ragazzi che si sono ritrovati nelle piazze spagnole per chiedere una politica più giusta e provare a stilare una piattaforma di proposte.

Lo fanno oggi centinaia di migliaia di giovani che da ogni angolo del mondo si stanno dirigendo a Madrid con i loro zaini in spalla per ritrovare quello che non trovano più nelle nostre società avvizzite: la voglia di condividere una speranza e un’idea di futuro. Al di là delle diverse credenze o prospettive, quello che queste manifestazioni di giovani ci stanno indicando, religiose o laiche che siano, è che i ragazzi hanno una terribile voglia di ritrovarsi e di discutere non solo di piccole misure e manovre, ma un’idea di società nuova, una società che recuperi e dia un nuovo significato a concetti come solidarietà, giustizia, opportunità, felicità.

E questa grande vitalità, questa energia che arriva dal mondo giovanile non fa che rendere ancora più lontana e odiosa l’immagine di tutti quei potenti che da settimane stanno chiusi nei loro palazzi a mercanteggiare su una o l’altra misura, con un occhio all’andamento delle Borse e un altro agli equilibri di poltrone tra i propri accoliti. Quegli stessi politici, esperti e commentatori che così tante volte si sono scagliati proprio contro i più giovani, accusati d’essere inetti, egoisti, viziati; causa e al tempo stesso sintomo di una società senza ideali,

senza esempi e modelli virtuosi. Ecco, dopo tante parole, oggi siamo di fronte a due immagini concrete e quanto mai stridenti: quella di centinaia di migliaia di giovani che affrontano lunghi viaggi, sacrifici e piazze assolate per ritrovarsi e immaginare il futuro e quella di tanti grandi vecchi da troppo tempo tesi solo a difendere il presente. E viene da chiedersi: chi è che sta dando l’esempio?

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9102
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« Risposta #46 inserito:: Settembre 15, 2011, 10:36:17 am »

15/9/2011

I passi obbligati per la crescita

IRENE TINAGLI

Approvata la manovra, si apre il capitolo crescita.

Ne ha parlato pochi giorni fa Napolitano, ricordando quanto questo tema sia «stringente e drammatico».

E ne ha fatto cenno Tremonti dal G8 di Marsiglia, annunciando un «dossier crescita» che dovrebbe aprirsi già questa settimana.

E’ un tema ineludibile, e finalmente tutti sembrano averlo capito. Tuttavia, nonostante tutti ne parlino, nessuno sembra avere le idee chiare su come ottenerla. Tra le voci più ricorrenti quando si parla di crescita troviamo le infrastrutture e le opere pubbliche, oppure gli aiuti alle imprese: da incentivi settoriali al supporto alla capitalizzazione e alla crescita dimensionale. Tutte misure trite e ritrite, di cui è stato ampiamente fatto uso in passato e che non hanno mai portato risultati duraturi. Si tratta infatti di misure limitate, soggette ad abusi a distorsioni, incapaci di autosostenersi nel lungo periodo perché troppo gravose sui bilanci pubblici. Una possibilità di cui si sente parlare poco, su cui sarebbe necessario un dibattito più approfondito, è quella di creare le condizioni per nuovi processi imprenditoriali, nuove imprese attive in settori innovativi e mercati ad alte prospettive di crescita.

Il tema è stato flebilmente affrontato dal governo, che ha inserito in finanziaria un’agevolazione fiscale per imprese e partite Iva di nuova creazione, ma il dibattito su questa misura o su eventuali altre misure di supporto è stato quasi inesistente. Lo scrittore ed ex imprenditore Edoardo Nesi ha rilanciato questo argomento con un lungo e appassionato editoriale sul Corriere della Sera di martedì, in cui sosteneva che per ricominciare a crescere servono migliaia di giovani imprenditori, che fondino aziende «protese a creare il nuovo (…), che vendano prodotti che oggi non esistono». Come realizzarlo? La ricetta di Nesi è semplice: prendere l’un per cento dei capitali scudati rientrati dall’estero e con quel miliardo di euro finanziare queste nuove imprese, «dandogli fiducia prima ancora che la meritino».

Al di là della sua fattibilità tecnica, la proposta merita attenzione perché affronta la questione del rilancio economico senza fare appello alle solite richieste di aiuti e protezioni per una struttura produttiva che non tiene più, e perché lo fa enfatizzando la necessità di dare fiducia ai giovani attraverso un’immagine molto bella e molto vera (dare fiducia prima di vedere risultati, altrimenti che fiducia è?). Tuttavia la proposta, pur validissima nelle intenzioni, lascia trapelare alcune convinzioni fortemente radicate nella nostra cultura, che permeano le nostre politiche economiche rendendole spesso deboli e poco efficaci.

Innanzitutto l’idea che ci sia una relazione univoca e quasi lineare tra investimenti o sgravi da un lato e creazione di innovazione o nuove imprese dall’altro. Come se a un certo investimento in ricerca corrisponderà, prima o poi, un certo aumento di innovazione, o se a un certo aiuto o sgravio alle nuove imprese corrisponderà un ricambio di struttura produttiva. Purtroppo non ha mai funzionato così, né in Italia né altrove. I processi innovativi ed imprenditoriali richiedono condizioni assai più ampie, a partire, per esempio dal sistema dell’istruzione. Un sistema che, nel nostro Paese, non è minimamente attrezzato per trasmettere una vera cultura imprenditoriale e per dare quegli strumenti necessari a valutare criticamente opportunità, tecnologie e mercati, e a misurarsi col rischio e la competizione internazionale. Raramente si «nasce» imprenditori di successo.

Serve un ambiente che stimoli, formi e supporti certe attitudini, oggi più di prima. In Italia si è perso. Non è un caso se in Italia i giovani imprenditori ormai sono sempre più figli di altri imprenditori. Abbiamo finito per rendere chiusa ed ereditaria l’attività che più dovrebbe servire a rivoluzionare società e mercati. E non basterà dare un finanziamento ai figli dei disoccupati e dei cassintegrati affinché questi diventino i prossimi Bill Gates.

L’altro punto debole è legato all’idea che per supportare nuove imprese o tecnologie siano necessari soldi pubblici. Si sente parlare spesso del problema dell’accesso al capitale e dei fondi, e si sono persino diffuse proposte di «venture capital pubblico». Eppure negli ultimi venti anni le possibilità di accesso a finanziamenti sul mercato globale sono cresciute esponenzialmente. E non solo i venture capitalists: dai network di business angels alle fondazioni private, dai concorsi imprenditoriali al crowdfunding. Se in Italia queste opportunità non sono ancora ai livelli internazionali, non possiamo pensare di sopperire con fondi pubblici (erogati da chi? Con quali criteri?). Semmai, dovremmo chiederci come mai gli investitori stranieri fanno fatica ad arrivare e ad investire sui nostri ragazzi o come mai produciamo pochi investitori in casa nostra.

E allora cominceremmo ad accorgerci di quanto ci penalizzi, per esempio, un sistema di norme che fanno sì che per chiudere un’impresa ci voglia quasi più tempo che per aprirla – un aspetto chiave per i venture capital che devono aprire e chiudere decine di imprese ogni anno. O quanto ci abbia penalizzato avere imprenditori che appena l’economia ha iniziato a frenare si sono rifugiati nell’immobiliare (incentivati da un regime di tassazione che rende più conveniente avere 100 case che tenere in piedi un’azienda), smettendo di imparare, misurarsi con le nuove tecnologie e i nuovi mercati. Ecco, già unendo come in un gioco enigmistico i punti emersi sin qui - dall’istruzione ai mercati di capitali, dal diritto fallimentare al sistema fiscale e così via - si cominciano a delineare i contorni di ciò che serve per ripartire. Non una misura miracolosa o un grappolo di eroi, ma un Paese intero che decide di pensare e agire come tale. E soprattutto un Paese in cui tutti siano chiamati a fare la loro parte. Una parte già difficile in fase di tagli e risparmi, doppiamente critica in fase di rilancio, investimenti e azione.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9200
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« Risposta #47 inserito:: Settembre 26, 2011, 09:33:18 am »

25/9/2011

Il futuro è più forte della crisi

IRENE TINAGLI

La settimana che ci lasciamo alle spalle non solo ha bruciato miliardi di euro sui mercati internazionali, ma sembra aver intaccato anche le speranze dei più tenaci ottimisti. In un momento simile è davvero urgente, come ha suggerito Christine Lagarde, che tutti i Paesi mettano da parte campanilismi ed esitazioni ed inizino a lavorare in modo più armonico e coordinato per ritrovare, in tempi più brevi possibili, stabilità finanziaria senza penalizzare ulteriormente la crescita.

Tuttavia, anche in un momento così critico, è importante essere in grado, di tanto in tanto, di alzare la testa e saper intravedere le trasformazioni e le opportunità che si dispiegano nel lungo periodo. Provare a leggere i fatti di oggi non con la lente della cronaca, ma con quella della storia, per capire se e come questa fase si può inserire in un’evoluzione più ampia che abbia, alla fine, uno sbocco positivo.

D’altronde la storia economica dell’occidente è costellata da crisi continue e da alcune fasi di grandi cambiamenti epocali, fasi in cui cambia il paradigma produttivo, l’organizzazione industriale e sociale di un Paese. Ogni volta che ci troviamo di fronte a tali trasformazioni ci sentiamo minacciati, in pericolo, pensiamo d’essere di fronte alla fine del nostro mondo e della nostra società. Ma la verità è che poi il nostro mondo è sempre andato avanti. E sempre in meglio. Noi siamo probabilmente di fronte ad uno di questi cambiamenti «paradigmatici». Un cambiamento che, però, siamo incapaci di vedere e accettare. Uno dei motivi per cui siamo così incapaci di coglierlo è che siamo ancorati ad una visione dello sviluppo economico come di un fenomeno limitato, che non può durare all’infinito perché in fondo le risorse stesse sono limitate ed esauribili. È la stessa convinzione che ci fa credere che lo sviluppo sia un gioco a somma zero, in cui se uno guadagna l’altro perde. Ed è una visione miope e antistorica, che ci rende inutilmente catastrofici. Le risorse certamente sono finite, ma le modalità con cui si possono combinare ed utilizzare per creare prodotti e sviluppo (e occupazione) non lo sono. Per fare un esempio, agli inizi dell’Ottocento l’illuminazione si basava sull’olio di balena, una risorsa costosa e limitatissima. Molti all’epoca avranno pensato che nel giro di pochi anni sarebbero tornati tutti al buio, oppure che se i cinesi cominciavano a volere più lampade, avrebbero lasciato l’Europa e l’America al buio. Ma non è stato così. E non lo è stato grazie ad un geologo canadese che nel 1849 ha ideato un modo per distillare il cherosene dal petrolio, una risorsa più economica e abbondante delle balene. E così si è aperta una nuova era per l’illuminazione: più accessibile e duratura. Sostituita poi dall’elettricità, ancora più accessibile e «pulita». E trasformazioni così sono accadute e continuano ad accadere per i trasporti, l’industria, l’agricoltura. Anche solo ripercorrendo questi banali esempi ci rendiamo conto di come le possibilità di crescita e di trasformazione economica siano potenzialmente illimitate. Basta saper dar spazio all’innovazione e al cambiamento tecnologico, perché queste sono l’unica vera molla che nel corso della storia ha guidato questi processi di sviluppo. Innovazione nei modi di usare e organizzare le risorse naturali, il lavoro, ma anche l’istruzione, l’intelligenza umana, e persino i nostri sistemi politici. E’ per questo che, pur nell’esigenza di trovare soluzioni-tampone all’emergenza attuale, è importante non perdere di vista i grandi processi che guidano la crescita nel lungo periodo e tenere un occhio sempre attento a tutti i segnali di innovazione che si annidano nel lavoro di ricercatori, scienziati e imprenditori visionari. Perché questi sono già pezzetti di futuro che ci germogliano in seno.

Purtroppo, mentre le innovazioni che potrebbero disegnare il nostro futuro stanno prendendo forma in qualche angolo del mondo, noi sembriamo incapaci di uscire dai vecchi paradigmi. E continuiamo a chiederci quali industrie sovvenzionare, quali accordi commerciali o quali dazi o incentivi ripristinare per tenere in vita le nostre vecchie fabbriche sempre più vuote. E pensare che nel 1948 l’economista americano Edgar Hoover scrisse: «L’importanza relativa della manifattura come fonte di occupazione ha raggiunto ed esaurito il suo picco una generazione fa». E certamente la manifattura che conosceva Hoover andò progressivamente scemando. Ma l’economista non sapeva che proprio in quegli anni nei laboratori di alcune aziende e università americane stavano germogliando innovazioni che hanno portato ad una nuova rivoluzione industriale, quella dei computer e dell’elettronica. Una rivoluzione che ha cambiato radicalmente non solo le nostre aziende ma le nostre vite e la nostra società, con una spinta espansiva che era inimmaginabile nel momento in cui Hoover scriveva.

Certamente oggi è importante e urgente tamponare l’emergenza dei debiti sovrani, cercando magari di riattivare un po’ di occupazione con i mezzi e nelle realtà oggi disponibili. Ma non è lì che giace il nostro futuro. Cerchiamo di non abbassare troppo lo sguardo altrimenti rischiamo di farcelo sfuggire quando ci passerà davanti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9238
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« Risposta #48 inserito:: Ottobre 08, 2011, 06:03:24 pm »

8/10/2011

Crescere senza paternalismi

IRENE TINAGLI

Volete costruire un’azienda di successo? Assumete giovani ben preparati. Perché giovani? Semplice: perché sono più svegli». Con la sua solita schiettezza Mark Zuckerberg si rivolse così, pochi mesi fa, ad una platea di imprenditori riunitasi all’Università di Stanford. I giovani sanno destreggiarsi con le tecnologie, non hanno bisogno di ricorrere sempre ai manuali d’istruzione, sanno risolvere da soli un sacco di cose, imparano alla svelta e hanno voglia e curiosità di farlo. E poi hanno vite più semplici, di solito non posseggono automobili, case o famiglie e possono concentrarsi sulle grandi idee, i progetti veramente interessanti e di lungo periodo. Insomma: competenze, entusiasmo, voglia di imparare e orizzonti lunghi. Ovvero tutto quello di cui avrebbe bisogno l’Italia e a cui invece rinuncia lasciando a casa milioni di giovani.

E’ questo quello che anche Mario Draghi ci ha ricordato ieri. Ribaltando il paradigma di senso comune secondo cui «non c’è lavoro per i giovani perché non c’è crescita», Draghi ha sottolineato che la relazione causale tra occupazione giovanile e crescita va anche in direzione opposta: più emarginiamo i giovani e meno crescita avremo. Perché con loro teniamo fuori dal sistema produttivo un gran potenziale di innovazione, di energie e competenze.

Ma quanto pesa questa emarginazione sulla nostra economia? Uno studio condotto dall’Istituto per la Competitività (iCom) e presentato la settimana scorsa a Roma stima che la disoccupazione giovanile (sotto i trenta anni) fa mancare oltre 5 miliardi di euro all’anno in termini di redditi netti. E se includiamo anche tutti quelli che non figurano nelle liste di disoccupazione ma che comunque non fanno niente (i cosiddetti Neet: non occupati né impegnati in alcun piano di studio o formazione), il reddito a cui rinuncia l’Italia sale a circa 23 miliardi l’anno. Riuscire a trovare un lavoro per questi giovani dovrebbe essere, quindi, la grande priorità dell’Italia.

Ma è sufficiente inventarsi qualche posto di lavoro in più, magari siglando accordi sindacali con ministeri o altri enti per allungare qualche lista d’assunzione o sbloccare qualche concorso, per poter sprigionare questo potenziale di crescita e innovazione? No.

Provvedimenti di questo genere possono servire ad aumentare in parte l’impatto sul monte stipendi con qualche ripercussione sui consumi. Ma non garantiscono quella valorizzazione delle competenze, dell’energia, del potenziale innovativo di cui parlava Draghi. Non è cercando di replicare all’infinito il modello economico e sociale su cui ci siamo basati fino ad oggi che valorizzeremo fino in fondo le nuove generazioni. Per poterlo fare dovremo ripensare e ridisegnare molti aspetti del nostro sistema economico e sociale. Non a caso Draghi ha parlato di «riforme strutturali». Cosa significa? Significa mettere mano al funzionamento del mercato del lavoro, a quello degli ammortizzatori sociali, e anche a quello dell’istruzione, della formazione, della cultura. Tutte cose che, in questi ultimi 15 anni, non hanno saputo o voluto fare né i governi di destra né quelli di sinistra, che invocavano o tagli o allargamenti dei sistemi di protezione, lavoro e formazione, ma non un loro ridisegno organico. E invece è quello il nodo che prima o poi dovremo affrontare. Perché se Paesi come la Germania, l’Olanda o la Danimarca hanno tassi di disoccupazione giovanile che sono un terzo o un quarto del nostro è anche perché hanno sistemi di formazione e servizi sociali più radicati, che coinvolgono scuole, amministrazioni pubbliche e aziende, nel tentativo non solo di offrire delle opportunità, ma di fornire a tutti le capacità per poterle cogliere. I giovani, per quanto bravi e svegli possano essere, non nascono né scienziati né imprenditori: hanno bisogno di competenze, di sviluppare capacità critiche e di padroneggiare i linguaggi del futuro, non solo l’inglese o l’economia, ma anche i linguaggi delle nuove tecnologie e di programmazione. Per non parlare poi delle competenze relazionali e imprenditoriali, sapersi muovere in contesti diversi ed internazionali. E tutte queste capacità non si trasmettono ripristinando il 7 in condotta, le pagelle numeriche alle elementari o le classi senza stranieri.

Né continuando a trattare i giovani con compiaciuto paternalismo come fanno tanti politici, sindacalisti e anche tanti «buoni padri di famiglia». Persone che, mentre mostrano tanto accorato dispiacimento per i giovani che non avranno casa né pensioni, o che non riescono ad aprire uno studio o una farmacia, restano però aggrappati con le unghie e con i denti alle proprie piccole grandi protezioni, che siano vitalizi o pensioni prese a 40 anni, professioni super protette o studi e aziende che stanno in piedi grazie a stagisti, precari o clandestini che lavorano fuori da ogni regola. E se da un lato elogiano gli appelli di Draghi o Napolitano, dall’altro fanno pressioni sui loro rappresentanti perché nulla cambi. Non è così che risolleveremo il nostro Paese.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9296
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« Risposta #49 inserito:: Ottobre 30, 2011, 05:39:12 pm »

30/10/2011

Se l'opzione generazionale non arriva mai

IRENE TINAGLI

Se pensiamo alla velocità con cui il mondo sta cambiando e la confrontiamo con la lentezza con cui pensano e agiscono i nostri politici, ci accorgiamo che qualcosa non torna. E' stridente il contrasto tra il mondo reale, fatto di fenomeni nuovi che ci colgono alla sprovvista, di Paesi emergenti che esplodono strappandoci quote di mercato, e il mondo della nostra politica, fatta di signori attempati che periodicamente si siedono attorno a un tavolo, scambiandosi scartoffie in attesa del prossimo meeting.

Cosi come colpisce il contrasto tra l'immagine di giovani manager, analisti e imprenditori che fanno e disfanno le sorti dei mercati internazionali, e le immagini dei nostri politici vecchi e stanchi che non sanno più capire ciò che gli passa sopra la testa né dare risposte a nulla. Politici appesantiti non solo da acciacchi e ceroni, ma ancora più da decenni di compromessi, irrigiditi dal cinismo più che dall'artrosi. Sono i politici navigati, scaltri, che cercano di minimizzare energie e sforzi per arrivare al prossimo piccolo traguardo.

E così vanno avanti a forza di rinvii, palleggiandosi lettere d'intenti, lanciando proclami che tengano impegnata l'opinione pubblica per tre o quattro giorni, seguiti da smentite che ne occupano altri tre. Così un'altra settimana è andata in chiacchiere. Con sollievo di tutti gli schieramenti politici. Perché tutti ormai hanno alle spalle decenni di onorata carriera da cui hanno imparato che la politica conviene (a loro) farla così. Di fronte a questo avvilente scenario viene da chiedersi se tutto questo sia davvero inevitabile.

Possibile che non esista una chance di ricambio, un’«opzione generazionale» in grado di farci riprendere il passo col mondo? Fino ad oggi l'Italia non sembra aver maturato gli strumenti per una tale opzione. I pochi giovani che riescono a farsi spazio tra i vari Berlusconi, Bersani, Bossi o D'Alema sono stati accuratamente selezionati in modo da neutralizzare ogni possibile cambio sostanziale. E quando capita qualche eccezione, come il caso di Matteo Renzi che ha sfidato i «dinosauri» del Pd, viene isolata e ignorata come una cellula impazzita, un cancro da estirpare. Perché, chiaramente, è troppo giovane (!), deve imparare a «non scalciare», e, soprattutto, deve dimostrare ciò che vale.

E' vero: le persone devono dimostrare sul campo quello che valgono. Ma questo vale per i giovani come per i vecchi. E non è chiaro come mai quelli che sono sulla stessa poltrona da venti o trent’anni, senza essere riusciti a cambiare quasi niente, non possano, per la stessa teoria, farsi da parte. Così come non è chiaro come mai un quarantenne o un trentenne che sia più fresco di studi, che abbia vissuto in prima persona cosa significhi studiare o cercare lavoro nel mondo di oggi, debba essere più inadeguato di un politico che, nella migliore delle ipotesi, ha preso una laurea agli inizi degli anni Settanta, non ha mai dovuto neanche scrivere o inviare un curriculum nella sua vita, e biascica tre parole d’inglese.

Perché quindi abbiamo tanta paura a dare un'opportunità a qualche volto nuovo? Questa diffidenza verso i giovani e il cambiamento è un atteggiamento tipico italiano, e forse delle culture più tradizionali come quelle mediterranee. In Spagna, per esempio, dopo l'esperimento Zapatero si è registrata una nuova chiusura. Carme Chacón, la trentanovenne ministra della Difesa che avrebbe voluto essere il candidato socialista alle prossime elezioni, è stata subito fatta fuori dai baroni di partito, che hanno ripiegato su Rubalcaba, uomo di più consolidata tradizione partitica. I Paesi del Nord Europa, invece, sono più abituati a cambi anche radicali, a dare fiducia a volti e generazioni nuove. E proprio il loro esempio potrebbe farci capire che cambi generazionali anche radicali possono essere un'opportunità e non devono far paura.

E il riferimento non è solo all'Inghilterra che ha eletto il quarantacinquenne David Cameron o che, a suo tempo, elesse il quarantaquattrenne Tony Blair. Anche i Paesi scandinavi offrono ottimi spunti. Jens Stoltenberg, attuale primo ministro norvegese, fu eletto quando aveva 41 anni, dopo essere stato, all'età di 36 anni, ministro dell'Economia e delle Finanze. Il nuovo primo ministro danese, Helle Thorning-Schmidt, ha 44 anni, ed è tra le più anziane della sua squadra di governo. La Thorning-Schmidt, infatti, non ha avuto paure o esitazioni ad affidare il ministero delle Finanze al trentottenne Bjarne Corydon o il ministero degli Interni alla ventottenne Astrid Krag Kristensen. Per dare un'idea di ciò che questo possa significare in termini di cambiamento culturale, basta pensare che quando Susanna Camusso è diventata dirigente della Fiom milanese, la trentaquattrenne ministro del Lavoro danese, Mette Frederiksen, non era ancora nata.

E quando il nostro ministro Sacconi veniva eletto per la prima volta in Parlamento, Mette non andava neppure all'asilo. Certo, non è detto che tutti questi giovani ministri e primi ministri facciano un buon lavoro. E finché non avranno completato il loro mandato non sapremo con certezza dove avranno condotto i loro Paesi. Ma sappiamo con certezza dove i nostri grandi politici tanto esperti e navigati hanno portato il nostro.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9378
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« Risposta #50 inserito:: Novembre 14, 2011, 07:29:11 pm »

14/11/2011
 
Responsabilità collettive della crisi
 
IRENE TINAGLI
 
I grandi festeggiamenti che hanno accompagnato l’uscita di scena di Silvio Berlusconi fanno molto pensare. Si sente parlare di liberazione nazionale, come se fosse caduto un dittatore che da solo ha rovinato un Paese intero. Eppure quest’uomo che oggi nessuno, neppure tanti suoi alleati, pare abbia mai voluto, è stato votato non una ma ben tre volte dagli italiani. Tra l’altro l’ultimo suo successo risale alle amministrative del 2010, poco più di un anno fa, già in piena crisi economica e dopo vari scandali. Dimenticarsi questo dettaglio impedisce di fare un’analisi profonda del Paese e di operare una corretta distribuzione di responsabilità, sia rispetto a chi lo ha supportato così a lungo sia nei confronti di chi, avversandolo, non ha evidentemente saputo offrire agli italiani un’alternativa più convincente.

C’è un altro aspetto che molti sembrano dimenticare nell’agitazione euforica di questi giorni. Ovvero la responsabilità non solo individuale ma collettiva della situazione economica attuale. È verissimo: oggi Berlusconi lascia un debito pubblico al 120%, una disoccupazione giovanile quasi al 30%, un tasso di attività femminile fermo al 46%, nonché un Paese ancora ostaggio di burocrazia, sprechi e corruttele.

Ma la disoccupazione giovanile era già un problema quindici anni fa: per quasi tutti gli Anni Novanta è stata attorno al 30%; così come il debito già in quegli anni aveva raggiunto e superato quota 120, per non parlare dei problemi cronici relativi all’occupazione femminile, alla burocrazia e agli sprechi. Insomma, più che di aver creato certe situazioni, questo governo ha la responsabilità (enorme) di non averle affrontate con sufficiente serietà, incisività e coerenza. E per quanto sia giusto e naturale che la responsabilità di questo fallimento ricada per primo su chi questo governo l’ha formato e guidato, sarebbe un errore ignorare che alla radice di questo fallimento c’è una responsabilità che va oltre quella personale di Berlusconi. Molte delle misure e riforme che sarebbero state necessarie in questi anni, e che sono contenute nella famosa lettera della Banca Centrale Europea (pensioni, lavoro, liberalizzazioni degli Ordini e dei servizi pubblici etc.), sono state aspramente osteggiate sia all’interno del centro-destra che del centrosinistra, vedendo più di una volta schierati sullo stesso fronte sia alcuni dei più fedeli alleati di Berlusconi, come Bossi, che i suoi storici nemici, come Di Pietro o Vendola. Senza contare che iniziative legislative come quella per l’abolizione delle province o dei vitalizi sono state bocciate con voto quasi unanime dei parlamentari di entrambi gli schieramenti.

È importante ricordarsi queste dinamiche, perché sono le stesse che in passato hanno frenato e fatto cadere anche altri governi. E continueranno a frenare l’Italia se ogni volta crediamo di risolvere tutto attribuendo responsabilità o poteri salvifici a singoli individui dimenticando queste responsabilità collettive. Un atteggiamento che ci condannerà a rivedere sempre lo stesso film e a non riuscire mai ad aprire una stagione veramente nuova. La vera sfida di Monti sarà proprio questa. Non solo riallineare l’economia italiana, ma anche le numerose e divergenti voci che hanno finito per sfibrare il tessuto sociale e la cultura politica del Paese. Un compito che richiederà la capacità di parlare non solo ai mercati internazionali ma agli italiani, riaprendo un canale di comunicazione onesto, chiaro, e coerente con i cittadini, capace di ricreare fiducia senza però cadere in tutte le facili demagogie che hanno reso i partiti prigionieri di se stessi e incapaci di dare al Paese la guida lungimirante di cui aveva bisogno. Un compito difficile, ma, speriamo, non impossibile.
 
da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9435
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« Risposta #51 inserito:: Novembre 23, 2011, 12:26:54 pm »

23/11/2011

I vantaggi di una risorsa trascurata

IRENE TINAGLI

Nel momento in cui molti sono in tensione, aspettando di vedere se e quanto le prossime manovre toccheranno stipendi, case o pensioni, il Presidente Napolitano ci stimola ad alzare lo sguardo.

Ci invita, finalmente, a pensare anche agli «altri». Alle minoranze religiose, culturali, e, in particolare, a tutti quei bambini nati in Italia da stranieri che l’Italia si ostina a non voler considerare suoi cittadini. E così facendo Napolitano ci fa riflettere su cosa significa essere comunità inclusiva, che accoglie, che cresce senza discriminazioni e senza chiusure. Una riflessione importante non solo per il suo lato profondamente umano e valoriale, ma anche per il suo aspetto sociale ed economico.

Da sempre chiusura e protezionismo, tanto nelle società quanto in economia, portano isolamento e regressione. L’apertura non solo porta al proprio interno nuove energie, nuove idee e più dinamismo, ma proietta all’esterno l’immagine di una comunità forte, attrattiva, che non teme il confronto e le influenze esterne, ma che le integra e si alimenta di esse. E’ stata questa, per esempio, la grandissima forza degli Stati Uniti nei due secoli passati. Un Paese che ha accolto milioni di immigrati, spesso senza che nemmeno conoscessero la lingua inglese. E questo contributo ha reso gli Stati Uniti non solo un’economia più forte, ma un riferimento per milioni di persone nel resto del mondo. E oggi, anche se molti dei vecchi immigrati parlano ancora i loro dialetti di origine, l’inglese è diventato la lingua passepartout di tutto il mondo. Una sorta di divertente contrappasso, non avvenuto per caso.

Ma per capire il valore che gli immigrati possono portare in una società non c’è bisogno di guardare alla storia e al passato degli Stati Uniti: basta aprire gli occhi e saper vedere l’Italia di oggi. Gli immigrati rappresentano ormai una componente fondamentale della nostra economia e della nostra società, molti settori crollerebbero senza di loro. Come ci dicono i dati dell’Istituto Tagliacarne, che assieme a Unioncamere monitora il contributo degli stranieri alla nostra economia, ci sono settori, come quello delle costruzioni, in cui addirittura un quarto del valore aggiunto prodotto è dovuto agli stranieri. Sempre secondo le stime del Tagliacarne, il contributo complessivo degli stranieri al valore aggiunto prodotto in Italia è stato, nel 2009, di oltre 165 miliardi di euro, il 12,1% del totale.

Non solo, ma attraverso il loro lavoro gli immigrati contribuiscono anche ai nostri servizi e alle nostre pensioni. Pochi sanno che i contributi versati dagli immigrati all’Inps ammontano a sette miliardi e mezzo di euro, ovvero il 4% di tutte le entrate dell’Inps, una cifra altissima soprattutto se si considera che sono pochissimi gli immigrati che, invece, beneficiano di pensione dallo Stato italiano. E sono pochi non solo perché molti devono ancora maturarla, ma perché sono tanti quelli che dopo alcuni anni tornano poi nel loro Paese di origine lasciandoci in dote i loro contributi. Questo significa, come ben documenta l’ultimo libro di Walter Passerini e Ignazio Marino («Senza Pensioni», Chiarelettere), che gli immigrati stanno supportando in modo sostanzioso anche il nostro sistema di welfare sociale oltre che economico. E possiamo immaginare quanto maggiore potrebbe essere tale contributo se riuscissimo finalmente ad affrontare questo tema con meno foga ideologica e meno paure, aiutando molti stranieri ad integrarsi, cominciando dal rendere i loro figli, che di fatto sono italiani, cittadini a tutti gli effetti.

Le conseguenze di un’apertura di questo genere sarebbero molto importanti, e non solo in termini economici. Pensiamo a cosa possa significare per una famiglia, e soprattutto per dei bambini e dei giovani, sentirsi parte integrante della società in cui vivono e lavorano, sentirsi portatori degli stessi diritti e doveri di chi gli sta intorno. L’emarginazione genera rancore, odio, rende inevitabilmente arrabbiati contro chi ti esclude. L’integrazione, quella piena e sincera, dà e genera fiducia, coesione, identità collettiva. E questo aiuta a prevenire malesseri sociali, conflitti, criminalità. E aiuta a fare fronte comune contro i problemi e le crisi, in nome di un Paese che non è soltanto di quelli che in qualche modo se lo sentono nel sangue, ma di tutti quelli che lo hanno scelto con passione, determinazione e amore.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9470
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« Risposta #52 inserito:: Novembre 27, 2011, 03:20:54 pm »

27/11/2011

Scommettere su qualità e preparazione

IRENE TINAGLI

E’ prassi comune, soprattutto tra i politici, additare gli economisti come i responsabili della crisi, della precarietà e dei milioni di giovani senza prospettive. Eppure molti economisti da anni non fanno che ripetere, proprio ai nostri politici, la necessità di investire di più nella formazione e nell’integrazione dei giovani nel mercato del lavoro. Lo ha fatto anche ieri il neo Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nell’intervista a La Stampa mettendo in evidenza tutte le contraddizioni dell’Italia.

Un Paese che per reagire alle pressioni di un’economia globalizzata ha scaricato le sue debolezze sui più giovani. Col risultato paradossale che in un’economia mondiale sempre più trainata da conoscenza e innovazione, in cui la domanda ed il valore di competenze fresche tendono ad aumentare, l’Italia vede diminuire i salari d’ingresso dei suoi giovani laureati, persino di quelli di cui ha più bisogno, come gli ingegneri. Ma Visco non cerca di accattivarsi le simpatie dei movimenti studenteschi o dei sindacati.

Nessuna condanna della legge Biagi, nessuna invocazione per posti fissi o salari minimi e università gratis per tutti. Il problema è investire per dare qualità e valore all’istruzione dei giovani, in modo da renderli più forti sul mercato del lavoro. Il dramma dell’Italia non è stata l’introduzione di strumenti di flessibilità, ma l’incompletezza delle riforme e l’uso che ne è stato fatto. Quegli strumenti avrebbero dovuto aiutare le imprese ad investire in tecnologie e formazione. Ma così non è stato, e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Ora è tempo di rimboccarsi le maniche e invertire rotta. Il tempo e’ scaduto e gli alibi pure.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9487
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« Risposta #53 inserito:: Dicembre 08, 2011, 12:55:38 am »

4/12/2011

Senza confini

IRENE TINAGLI

«Buona fortuna figliolo!», così si salutavano un tempo i giovani che decidevano di fare le valigie e andarsene in cerca di opportunità lontano da casa.

Oggi invece è a quelli che restano che bisogna augurare buona fortuna, perché per chi resta inchiodato nel proprio Comune di residenza le prospettive sono sempre più ristrette. Non è tanto la mobilità geografica, di per sé, a far la differenza, ma la possibilità di accedere ad opportunità diverse e qualificanti, di maturare esperienze più variegate. Perché oggi è finita l’era delle carriere «verticali», le storie degli impiegati che da semplici fattorini finiscono la loro carriera come dirigenti o presidenti di quella stessa azienda. Oggi è l’era delle «boundaryless careers», le carriere senza confini, come scrisse qualche anno fa la professoressa Denise Rousseau, esperta di organizzazioni e lavoro.

Sono le carriere che sconfinano, che travalicano settori tradizionali, che rompono le gerarchie aziendali dalle linee verticali per muoversi lateralmente da un’organizzazione all’altra accumulando in pochi anni esperienze che vecchi top manager non sono riusciti ad accumulare in una vita. E sono carriere che sempre più travalicano anche confini geografici.

L’esplosione di mercati emergenti come la Cina, l’India o il Brasile, per esempio, non dà solo lavoro alla manodopera di quei Paesi, ma sta aprendo molte opportunità anche a progetti di altissimo livello nei settori dell’ingegneria, dell’economia, dell’architettura, dell’informatica, della comunicazione.

Certo, per chi cresce in città come New York o Londra, esposto a mille opportunità diverse, è possibile costruire percorsi interessanti e gratificanti anche senza spostarsi geograficamente. Ma per i milioni di giovani cresciuti nella provincia italiana, difficilmente queste opportunità si materializzano sotto casa, e la capacità e la volontà di rincorrere opportunità altrove diventa fondamentale. Eppure, nonostante le difficoltà crescenti di chi si muove in contesti più locali e tradizionali, i sondaggi ci dicono che sono ancora relativamente pochi i giovani italiani che sono disposti a muoversi, soprattutto al centro e al Nord Italia. A bloccarli non sono soltanto gli affetti familiari, ma la scarsità di informazioni, la mancanza di una guida, l’incertezza e la lunghezza dei percorsi.

A pesare in queste scelte vi è anche l’influenza di mèntori e genitori ancorati ad altre epoche, abituati a considerare una laurea sotto casa uguale a quella presa a Duke, Eton o Carnegie Mellon (anche perché la maggior parte dei nostri genitori, diciamo la verità, non ha idea di cosa sia Duke o Carnegie Mellon), a temere lunghe lontananze e difficoltosi rientri. Una cosa è vera: nonostante chi vada all’estero sia spesso tacciato di cercare scorciatoie, di solito accade l’esatto opposto. I percorsi e le esperienze fuori confine sono spesso lunghi e faticosi.

Lo sanno bene anche tutti i giovani ricercatori che negli anni passati hanno scelto la strada del dottorato negli Stati Uniti. Anche se oggi qualcosa è cambiato, fino a tempi molto recenti la differenza è stata netta: un dottorato in Italia durava tre anni, non aveva esami, e dava subito la possibilità di mettere un piede nella porta dell’accademia italiana.

Un PhD americano invece durava in media 5-6 anni, ti massacrava di corsi ed esami, e ti faceva perdere contatti per un eventuale rientro in patria. Tant’è che in certi casi erano gli stessi professori italiani che sconsigliavano ai propri studenti di partire. Ma di fronte a scelte che possono cambiare radicalmente la nostra formazione e il nostro futuro sono altre le considerazioni da fare. L’unico criterio da seguire deve essere la qualità e la rispondenza ai propri bisogni, necessità e attitudini. Se l’opportunità che si presenta «sotto casa» risponde a queste caratteristiche, sarebbe sciocco andarsene. Ma quando così non è, è sciocco restare.

Ed è questo il mantra che dovrebbe accompagnare ogni giovane nelle proprie scelte di studio, di lavoro e di crescita personale: la scelta della qualità, oggi più che mai. Perché anche se ci lamentiamo spesso dello scarso riconoscimento dei «meriti», tuttavia col tempo la qualità viene sempre fuori ed è la miglior assicurazione contro crisi e globalizzazione, perché è l’unica carta spendibile in ogni parte del mondo.

Non è facile entrare in quest’ottica; molti genitori incitano ancora i giovani a scegliere le strade che sembrano più brevi, più rapide, che danno un «titolo» sicuro, che sono o appaiono più comode. Ma sono quasi sempre scelte sbagliate. Perché c’è sempre qualcosa che si sacrifica sull’altare della comodità e della scorciatoia. E questo qualcosa è quell’approfondimento, quel sacrificio che ci consente di imparare e capire non solo il settore in cui lavoriamo, ma qualcosa riguardo a noi stessi, a ciò che sappiamo fare meglio, e che ci aiuta a forgiare e indirizzare meglio il nostro percorso futuro.

Il talento non è innato, e non ci viene rivelato come un’apparizione. Lo si scopre così, col tempo, le esperienze, il confronto con gli altri, i progetti e le sfide sulle quali ci misuriamo. Sono queste esperienze che ci aiutano a scoprire cosa veramente amiamo, cosa ci distingue dagli altri nel complesso e competitivo mercato del lavoro. E su queste consapevolezze è più semplice non solo costruire carriere gratificanti, che ci aiutano a trovare un lavoro che ci piace, ma anche dispiegare tutto il nostro potenziale umano e personale.

Certo, percorsi del genere implicano anche molti errori, ripensamenti e sconfitte. Ma l’epoca delle carriere fulminanti degli Anni 80 è finita almeno quanto l’era dei lavori fissi degli Anni 70. E per quanto possa spaventare, questa era di «carriere senza confini» è anche ricca di opportunità, basta non perdersi nella ricerca di scorciatoie, ma investire in se stessi e non aver paura di guardare fuori.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9513
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« Risposta #54 inserito:: Dicembre 29, 2011, 03:59:52 pm »

29/12/2011

Il destino dato in appalto

IRENE TINAGLI


Non c’è giorno in cui non siamo bombardati da qualche dato negativo su consumi, produzione, povertà ed occupazione.

È l’immagine, si dice, di un Paese che si impoverisce sotto la scure della crisi e di manovre recessive. In questo scenario è difficile spiegare il dato del 2011 sulla raccolta del settore dei giochi (gratta e vinci, lotterie, lotto, slot machine, scommesse sportive e così via) appena reso noto: 76,5 miliardi di euro. Un aumento rispetto al 2010 di 15 miliardi di euro, ovvero il 24,3% in più. Questo significa che nell’anno della crisi più nera, della disoccupazione giovanile al 30%, dello spread alle stelle e dei tagli indiscriminati, gli italiani hanno speso in giochi e scommesse oltre 1200 euro non a famiglia, ma a testa - includendo nel calcolo persino i neonati!
Con un aumento di spesa di circa 250 euro a persona rispetto all’anno precedente. Un dato veramente sorprendente.

Che l’industria del gioco e delle scommesse sia relativamente più resistente alle crisi rispetto ad altri settori è cosa nota.
Così com’è noto che la diffusione dei giochi online e la progressiva liberalizzazione avvenuta in numerosi Paesi (prima tra tutti l’Italia, che negli ultimi anni ha rilasciato migliaia e migliaia di nuove licenze) hanno dato impulso a questo settore a livello globale.

Tuttavia risultati di queste dimensioni in un Paese come l’Italia, che proprio nel 2011 si è vista quasi sull’orlo del baratro, destano più di un interrogativo. Persino in Gran Bretagna, patria delle scommesse, gli anni della crisi hanno visto un sensibile calo di queste spese (-12,2% nel 2009 e situazione pressoché stazionaria nel 2010).

Come mai gli italiani spendono in giochi e scommesse non il doppio, e nemmeno il triplo ma otto volte di più di quanto spendono in istruzione? Come mai di fronte alla crisi hanno diminuito i consumi di moltissimi beni, inclusi quelli alimentari, e hanno persino rinunciato ad iscrivere i propri figli all’Università, ma non al gratta e vinci o al lotto? E come mai rivendicano un sistema fiscale e sociale più redistributivo, che tolga ai pochi per dare ai più, e poi si affidano a meccanismi di redistribuzione opposti, in cui i più mettono soldi che verranno elargiti a pochissimi a prescindere dalle loro necessità?

Non è facile rispondere a queste domande, anche perché dietro al fenomeno collettivo vi sono scelte individuali difficilmente penetrabili e, naturalmente, assolutamente libere e insindacabili.

L’impressione che ne emerge tuttavia è quella di milioni di persone che si sentono sempre meno padrone del proprio destino, che non sanno o non vedono come poter migliorare la propria posizione, costruire il proprio futuro. E in questo vuoto si affidano, semplicemente, al caso. L’unico fattore che non chieda né impegno né sacrifici ma anche una delle poche cose che non faccia favori a nessuno. Uno dei pochi meccanismi che appare trasparente nella sua totale casualità. Una logica che non dà né per necessità né per merito, ma solo per fatalità. Ecco, il pensiero che milioni di italiani ripongano maggiore fiducia nella fortuna come mezzo per risollevare le proprie sorti piuttosto che nelle loro capacità o in quelle dei loro governanti dovrebbe farci riflettere. E farci capire che il grande lavoro di ricostruzione che ci attende nel 2012 non riguarda soltanto le casse dello Stato.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9593
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« Risposta #55 inserito:: Gennaio 06, 2012, 09:56:55 am »

6/1/2012

Se l'Europa non pensa al futuro

IRENE TINAGLI

Il 2012 dovrà essere l’anno dei giovani. Dovrà esserlo per forza, perché non è più tollerabile che Paesi che si sciacquano tanto la bocca con parole come crescita e futuro accettino in silenzio milioni di giovani sempre più soli, senza lavoro, senza protezioni sociali né prospettive. In Italia la disoccupazione tra i giovani sotto i 25 anni ha oltrepassato il 30%. E anche se i sindacati gridano all’emergenza licenziamenti e disoccupazione complessiva, non è così: il problema sta nella fascia giovanile.

Il tasso di disoccupazione degli adulti è più o meno lo stesso di un anno fa. Quello dei giovani in un solo anno è passato dal 26% al 30%. Prima della crisi era al 20%. E spesso non si è trattato nemmeno di licenziamenti, perché la maggior parte di questi giovani non hanno mai visto un contratto a tempo indeterminato, non hanno mai visto indennità di disoccupazione, cassa integrazione, né supporto per maternità o malattia. Si sono semplicemente visti chiudere progetti, scemare le commesse, non rinnovare incarichi.

Nessuna violazione dello statuto dei lavoratori, niente di cui i sindacati abbiano da lamentarsi, tutto regolare. Delle specie di morti rosa, che non fanno rumore, che si consumano nel silenzio dei nuclei familiari e che non mobilitano la piazza. E nessuno ha mai saputo o voluto dare risposta a questo esercito crescente di inoccupati o sottoimpiegati. Come spiega benissimo Pietro Ichino nel suo ultimo libro (Inchiesta sul Lavoro, Mondadori), ha fatto comodo a tanti, a troppi, che ci fosse questa valvola di sfogo: alle imprese come ai sindacati. Per questo è importante che il nuovo governo metta mano ad una vera riforma del lavoro che elimini questo odioso dualismo che c’è oggi nel mercato del lavoro: una parte completamente ingessata e una parte abbandonata a se stessa.

Non possiamo continuare a pensare che i posti per i giovani si creino con i prepensionamtenti. Non solo perché l’ultima riforma non lo consente più, ma perché questa soluzione, ampiamente abusata in passato (in Italia ma anche in altri Paesi europei), ha dimostrato quanto sia fallimentare in un mercato del lavoro rigido e chiuso. Tutto quello che queste politiche hanno generato sono decine di miliardi da pagare in pensioni evitabili e quasi nessun posto di lavoro «buono» creato per i giovani.

Né ci possiamo illudere che semplicemente aumentando il costo del lavoro «flessibile», senza toccare niente del restante mercato, possiamo scoraggiarne l’uso. Tali aumenti non faranno che scaricarsi sui redditi dei giovani (il cui salario di ingresso nel mondo del lavoro continua a calare) e incentivare un ulteriore migrazione da contratti a progetto alle partite Iva (assai più costose per i giovani), come già è ampiamente avvenuto negli ultimi anni.

Quello che è necessario è qualcosa che questo governo sa benissimo, ovvero misure per la crescita attraverso liberalizzazioni e alleggerimento degli oneri (fiscali e burocratici) per far nascere e crescere le imprese, e riforme del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. Perché è così difficile farle? Perché non tutte sono a costo zero, soprattutto il ridisegno degli ammortizzatori sociali in un modo che includa anche i giovani. Non è impossibile, potrebbe essere fatto rivedendo da un lato gli attuali aiuti alle imprese (circa trenta miliardi di aiuti iscritti a bilancio, molti dei quali di dubbia utilità) e dall’altro gli attuali sistemi di protezione sociale (a partire dalla cassa integrazione a zero ore a fondo perduto). Non c’è quindi bisogno di troppe spiegazioni per capire perché né imprese né sindacati scalpitino per tali riforme. Eppure qualcuno a un certo punto dovrà cominciare a pensare non solo ai propri iscritti, associati ed elettori, ma al Paese tutto intero, incluso coloro che non hanno né voto né tessere in tasca.

Si tratta di un problema che dovrà affrontare non solo l’Italia, ma anche molti altri governi. In molti Paesi, infatti, le politiche economiche e sociali hanno fatto fatica a rispondere adeguatamente ai rapidi cambiamenti internazionali dell’economia e del lavoro degli ultimi anni, non solo per incompetenza, ma spesso perché frenati da forti resistenze interne e interessi di gruppi più o meno grandi. Basta guardare alla Spagna. Un Paese dove la disoccupazione giovanile ha superato il 42%, ma dove tale tema è stato sopravanzato in campagna elettorale dalla questione delle pensioni. E infatti, nonostante il deficit, i tagli alla ricerca e gli aumenti delle tasse, l’unica concessione del nuovo governo è stata fatta ai pensionati, sbloccando le indicizzazioni e rivalutando le pensioni. Ma il problema non è solo in Spagna. La disoccupazione giovanile in Francia è al 23%, in Belgio al 18%, in Svezia al 22%, in Gran Bretagna al 20%. Ovunque si fatica a trovare il bandolo della matassa (nonostante a pochi chilometri ci siano Paesi in cui le cose funzionano assai meglio, ma che, per qualche motivo, sembrano impossibili da seguire).

Mario Monti inizia oggi il suo «tour» europeo: c’è da sperare che oltre a convincere gli altri Paesi che l’Italia sta cambiando e migliorando gli faccia capire che qualcosa dovranno cambiare anche loro, e che dovremo impegnarci tutti insieme se vogliamo che questo continente da vecchio non diventi decrepito

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« Risposta #56 inserito:: Gennaio 21, 2012, 10:56:49 pm »

21/1/2012

E' in gioco un cambiamento profondo

IRENE TINAGLI

Attese e polemiche, sono arrivate le liberalizzazioni. Molte critiche erano già partite prima ancora del decreto, figuriamoci adesso.
Ogni dettaglio sarà scandagliato, ogni partito metterà i propri paletti, ogni lobby si armerà fino ai denti. In tutto questo rumore l'opinione pubblica rischia di restare confusa e divisa. A cosa servono davvero, chi ci guadagnerà e chi ci perderà?

Fioriscono stime e tabelle, ma essendo le previsioni incerte per definizione, alla fine molti temono che chi ci perde sia più di chi ci guadagna. Le tariffe dei professionsiti diminuiranno, anzi no, aumenteranno. Si creeranno nuovi posti di lavoro, anzi no, la concorrenza li distruggerà. E così via. E su queste confusioni e paure giocano molte lobby e molti politici. Il rischio però è che si perda di vista la vera essen- za delle liberalizzazioni e l’impatto complessivo che possono avere sul Paese.

Liberalizzare significa semplicemente rendere più semplice e meno vincolata la concorrenza, ovvero creare le condizioni perché nuovi concorrenti possano organizzarsi per entrare ed operare sul mercato. Tutto qua. Non è detto che ogni città verrà invasa da edicole, farmacie, negozi e professionisti, né che all’improvviso tutti i prezzi crolleranno o aumenteranno. Ma il punto, nonostante molti giochino su queste argomentazioni, non è questo, non è se qualcuno alza o abbassa la tariffa. Il punto è che ci sia un’offerta sufficientemente variegata che consenta al cittadino di scegliere il rap- porto qualità/prezzo che fa al caso suo.

E creare un mercato che consenta ad un negoziante o ad un professionista di decidere come prefe- risce competere. Questo implica un cambia- mento profondo di come si muovono i consumatori, i produttori, ma anche del ruolo dello Stato. Il compito del regolatore pubblico in al- cuni settori non sarà più decidere quanta e quale offerta e a quale prezzo è disponibile al cittadino,masarà vigilare che i cittadini abbia- no accesso ad un’informazione chiara e trasparente su prezzi e caratteristiche di tutta l’offerta disponibile, e strumenti efficaci per potersi difendere da eventuali frodi o abusi. Questa è la vera novità che potrebbe cambiare profondamente non solo la nostra economia ma an- che la nostra società. Che poi questo si traduca in un determinato aumento o diminuzione dei prezzi medi in certi settori non possiamo saperlo con certezza.

Potrebbe anche semplicemente tradursi in un aumento di qualità ed efficienza a parità di prezzo. Ma non sarebbe comunque un ottimo risultato che cambia la qualità della vita e del lavoro nel nostro Paese? Stesso ragionamento per gli effetti occupazionali. Prendiamo l’esempio dei servizi pubblici. Una maggiore concorrenza e trasparenza nei settori pubblici non necessariamente porterà un aumento di posti di lavoro. Potrebbe capitare che certe aziende erogatrici che fino ad oggi hanno assunto centinaia di figli di amici e parenti, si trovino costrette, per poter competere, ad assumerne un po’ meno, persone che siano però veramente competenti e produttive. Ma non sarebbe forse un risultato positivo? E’ vero, la concorrenza, nei settori pubblici come altrove, dovrebbe favorire la creazione di nuove aziende e quindi nuovi posti di lavoro che vadano a compensare la perdita che avrà luogo nelle aziende meno efficienti. Ma non è facile stimare di quanto sarà l’impatto netto nel prossimo anno o due, soprattutto in un contesto di forte contrazione dell’economia nazionale e internazionale come quello attuale. La domanda che dobbiamo porci non è soltanto «quanti posti di lavoro» creeremo quest’anno, ma quali logi- che cambieremo, quale Paese vogliamo costruire e quali condizioni stiamo creando affinché ciò si realizzi.

Recuperare efficienza, eliminare sacche di inefficienza e posizioni di rendita, da- re alle persone la libertà di potere scegliere se, quando e come produrre un certo servizio op- pure se, quando e come consumarlo, significa dare più opportunità ai cittadini. E anche questa è equità. Anche questa è redistribuzione. Non si redistribuisce solo dando assegni di assistenza, ma anche creando spazi ed opportunità per chiunque abbia voglia e capacità di mettersi in gioco, a prescindere dalle persone di cui è figlio, amico o parente. Quanti consumatori o quanti aspiranti imprenditori, professionisti, farmacisti e commercianti decidano poi di cogliere davvero queste opportunità nel giro di un anno o due è un altro discorso. Che dipende da fattori economici congiunturali, da fattori culturali (non è detto che tutti gli aspi- ranti professionisti o farmacisti italiani decida- no di investire i loro risparmi in un’attività im- prenditoriale e rischiosa), e anche da una serie di altri fattori di contesto (riforma della giusti- zia civile, del mercato del lavoro, della burocrazia e del fisco, perché anche questi fattori in- fluenzano le scelte d’investimento e di consumo).

Ma il cambiamento che è in gioco è più profondo e va ben oltre il 2012. E per quanto sia giusto discutere e valutare anche gli effetti immediati di questi provvedimenti, occorre fa- re molta attenzione. Per anni siamo stati vitti- madi riforme fallite perché vincolate agli inte- ressi di breve periodo, affossate dal «chi ci gua- dagna e chi ci perde». Dimostriamo che abbia- moimparato dagli errori passati.
Ci guadagneremo tutti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9674
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« Risposta #57 inserito:: Febbraio 01, 2012, 09:57:27 am »

1/2/2012

Se non ora quando?

IRENE TINAGLI

Ormai non fa più nemmeno notizia: la disoccupazione giovanile in Italia non accenna a scendere. Anzi, su base annua, continua a salire. Secondo i dati resi noti ieri dall’Istat è al 31%. Fin dove dovrà arrivare perché questo Paese si decida a far qualcosa e a farlo subito?

Forse qualcuno dovrebbe ricordare a politici, sindacalisti e amministratori di vario livello e colore che continuare ad ignorare il problema, ricordandosene solo per qualche slogan nei comizi, non farà cambiare direzione a questo trend. Ma soprattutto qualcuno dovrebbe ricordare loro che questo andamento ci porterà dritti dritti verso una situazione di gravissima insostenibilità sociale ed economica. Non si tratta solo dei giovani, ma di tutti noi. Per capirsi: dire che stiamo mangiando il futuro dei giovani è una sciocchezza. Perché in realtà stiamo mangiando quello di tutta la nazione, incluso quello di tante signore e signori che oggi guardano con compassione e commiserazione questi «poveri ragazzi». Perché tra dieci-quindici anni avremo qualche milione di adulti con scarsi stipendi, poca e probabilmente cattiva esperienza lavorativa, e quasi zero contributi cumulati. E avremo, di conseguenza, un Paese che non riuscirà a sostenere né crescita né spese sociali, perché avrà una forza lavoro che non sarà in grado, suo malgrado, di contribuire sufficientemente alla produttività, alle entrate e alla crescita. E che, anzi, avrà probabilmente bisogno di assistenza sociale. Continuare a dire che stiamo danneggiando il loro futuro, quindi, è miope e fuorviante. È come guardare un orto che avvizzisce e pensare «povere piantine», scordandoci che senza quelle piantine resteremo presto tutti senza mangiare.

È stupefacente come nessuno sembri rendersi conto della bomba che stiamo confezionando e su cui siamo seduti. E come molti ancora pensino che semplicemente mantenendo le tutele dei padri possiamo tutelare sia i padri che i figli, senza rendersi conto che così facendo rimandiamo solo il momento in cui entrambi salteranno con le gambe all’aria. E i primi assaggi li avremo presto, quando migliaia di lavoratori da anni in cassa integrazione resteranno scoperti. Perché la cassa integrazione straordinaria, lo sappiamo bene, non ha fatto che finanziare una lenta agonia, ma non ha reso né le aziende né i lavoratori più forti e competitivi sul mercato. E anche quella bomba, presto, esploderà.

Domani inizia il tavolo tra ministro del Welfare e parti sociali. I segnali «preparatori» di questi giorni non sono molto incoraggianti, con le parti sociali che hanno già lanciato veti e allarmi preventivi. I sindacati hanno messo le mani avanti su cassa integrazione e articolo 18, intoccabile perché questione di «civiltà» (qualcuno dovrà prima o poi dire a Francia, Danimarca, Spagna, Inghilterra e a molti altri Paesi europei quanto siano incivili). E anche Confindustria pare molto allarmata per l’ipotesi di riformare la cassa integrazione straordinaria - un costo di miliardi di euro che lo Stato si sta sobbarcando da anni per dare tempo alle imprese di «ristrutturarsi» (un tempo che però sembra non arrivare mai). La convergenza di interessi tra sindacati e industria su alcuni dei temi chiave della riforma che da domani sarà in discussione dà un’idea abbastanza chiara delle cause dell’ingessamento della nostra economia, e dell’incapacità di una buona parte del nostro sistema produttivo di aprirsi ai giovani così come alle nuove tecnologie e all’innovazione.

È in parte comprensibile che una parte sociale che ha impostato tanta parte della sua ragion d’essere sul tema della difesa del posto di lavoro prima ancora che del lavoratore in sé (perché prima si difende il posto, l’«inamovibilità», poi si parla di formazione, crescita, competenze etc.) sia pronta a dar battaglia sul comma di un articolo. Così come può essere comprensibile che un’associazione di industriali che tanto hanno beneficiato (e spesso approfittato) degli aiuti dello Stato siano adesso spaventati da riforme che potrebbero rendergli la strada più difficoltosa. E c’è da riconoscere che la crisi non ha aiutato: con essa sono aumentate paure e insicurezze, ed è più facile per rappresentanti politici e di categoria cavalcare certe paure che assumersi la responsabilità di un’azione coraggiosa che le sfidi.

Ma quando domani si troveranno tutti allo stesso tavolo per discutere una riforma che, pur non essendo l’unica soluzione al problema dei giovani, rappresenta un tassello fondamentale dell’insieme di misure che il governo sta attuando, c’è da sperare che le varie parti ritrovino questo coraggio. E che preferiscano sfidare le paure e gli interessi di parte per il bene comune, piuttosto che restare schiavi di un copione che l’Italia legge ormai da troppi anni.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9719
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« Risposta #58 inserito:: Febbraio 03, 2012, 12:11:50 pm »

3/2/2012

Nuove regole per vivere senza il posto fisso

IRENE TINAGLI

La realtà è questa: in Italia ci sono oltre 10 milioni di persone, tra cui moltissimi giovani, che vivono situazioni di lavoro inesistenti oppure estremamente precarie. E per precarie, sia ben inteso, non si intende semplicemente un contratto a tempo determinato, ma si intende una posizione di lavoro in cui non si ha alcuna forma di tutela, dove non ci si può permettere di ammalarsi né tantomeno una gravidanza, dove non ci sono ferie pagate né indennità di fine rapporto e dove, come nel caso delle migliaia di persone costrette ad aprirsi una partita Iva pur non essendo professionisti, bisogna anche pagarsi da soli i contributi che normalmente paga il datore di lavoro. Per queste persone il miraggio non è tanto il posto fisso, ma condizioni di lavoro degne di questo nome, e un qualche supporto che le aiuti quando un contratto finisce e hanno bisogno di tempo o di nuova formazione per trovarne un altro. Milioni di giovani di fatto chiedono questo. Quello che già hanno gran parte dei loro coetanei nel resto d’Europa.

Di fronte a questa realtà possiamo fare due cose. Possiamo dire a questi giovani che non devono stare a guardare questi «dettagli», ma che devono aspettare e puntare al posto fisso, come i loro nonni e i loro padri, perché quando ce lo avranno vivranno felici e protetti per il resto dei loro giorni. Poco importa se la competizione internazionale ha reso i mercati talmente instabili che le aziende non assumono più con contratti fissi. Poco importa se quel posto arriverà tra venti anni o forse mai. L’importante è tenere vivo l’obiettivo. Nel frattempo alle aziende che non riescono a sopravvivere offrendo contratti vecchio stampo si concede una serie di possibilità contrattualistiche ad altissima «deregolamentazione». In questo modo le aziende sono più o meno contente, i sindacati pure. I giovani un po’ meno, ma pazienza. Gli resta comunque il sogno di entrare prima o poi a far parte dei lavoratori «veri».

Oppure possiamo dire a questi giovani che, viste le turbolenze economiche attuali e con aziende che aprono e chiudono nel giro di pochi mesi, sarà sempre più difficile avere un posto che duri tutta la vita. Che se continua così si ritroveranno in milioni a scannarsi per poche migliaia di posti che arriveranno quando saranno impoveriti e stremati. E possiamo quindi provare a rendere questo percorso meno logorante. Da un lato, cercando di stimolare le imprese ad assumere, allentando le incertezze più gravose (come quelle delle cause di lavoro per reintegro che durano anni), alleggerendo la burocrazia e provando a rilanciare un po’ di investimenti. Dall’altro lato creando per questi giovani lavoratori, col coinvolgimento di Stato e aziende, nuove reti di sicurezza che in caso di malattia, gravidanza o ricerca di nuovo lavoro, non li lascino soli con la promessa che «quando avranno il posto fisso sarà tutto diverso».

La prima strada è quella che abbiamo perseguito sino ad oggi. La seconda è quella che il governo Monti dice di voler intraprendere. Si può certamente discutere sui bei tempi che furono, e, più seriamente, sugli strumenti che verranno adottati e sul come implementarli. Ma non si può dire che cercare di riformare un mercato del lavoro e del welfare squilibrato come il nostro sia sbagliato. Perché l’obiettivo, almeno per come è stato presentato fino ad oggi da Monti e da Fornero, non è smantellare un sistema di tutele, ma ridisegnarle per fare in modo che milioni di persone che oggi hanno poco lavoro e zero protezioni, possano finalmente ritrovare un po’ di speranza. Non ci dimentichiamo che oggi, al di là dei due milioni e duecentoquarantamila disoccupati, più della metà dei lavoratori italiani non è protetta né dall’articolo 18 né, molto spesso, da forme di tutela assai più basilari: quattro milioni e centomila dipendenti di imprese con meno di 15 addetti, un milione e mezzo di collaboratori autonomi tipo cocopro, un milione e mezzo di interinali o con contratti a termine, mezzo milione di stagist, un milione di collaboratori domestici, e due milioni e mezzo di irregolari. Per non contare la marea di partite Iva che di fatto operano come lavoratori dipendenti. E’ chiaro che ridisegnare un sistema in questo senso chiama in causa tutti: le aziende - che non potranno più avere l’alibi di regole troppo rigide per andare a questuare sussidi allo Stato; i sindacati - che dovranno trovare un modo di fare lotta sindacale incentrato sulla persona, la sua formazione e crescita più che sul posto di lavoro; e infine lo Stato - che dovrà garantire formazione e servizi efficienti e vigilare sul funzionamento del mercato. Certamente questo ridisegno richiede estrema cura, per evitare gli errori e le distorsioni delle riforme passate. Ma proprio questa cura e questo concorso di forze sono necessarie per ridare a tante persone una serenità che un tempo veniva trovata da molti nel lavoro fisso ma che oggi ha bisogno di nuovi strumenti per essere raggiunta da tutti.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9728
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« Risposta #59 inserito:: Marzo 07, 2012, 05:22:19 pm »

7/3/2012

L'Italia non sa dare valore ai suoi laureati

IRENE TINAGLI

Per tutti quelli che da tempo si accalorano nel dire quanto inutile sia la nostra università, gli ultimi dati dell’indagine Almalaurea potrebbero sembrare una conferma delle loro opinioni. Aumenta infatti il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea, sia per coloro che escono dalla triennale (dal 16% al 19%) che per quelli che hanno intrapreso la specialistica (dal 18% al 20%). Mentre tra i laureati che invece lavorano aumenta il tasso di «precarietà» e diminuisce, in termini reali, il salario di ingresso. E’ prevedible quindi che adesso riemergano interpretazioni che leggono in questi dati i sintomi dell’inutilità del titolo di studio, della cattiva qualità delle nostre università o delle cattive abitudini dei nostri giovani, che cercano la laurea quando non è necessaria, o che si rifiutano di spostarsi o di fare lavori più umili e via dicendo.

Questa lettura non solo è parziale e incompleta (perché comunque l’occupabilità e gli stipendi dei laureati restano complessivamente migliori che per gli altri) ma anche profondamente ipocrita, soprattutto quando a farla non sono accademici in vena autocritica, ma rappresentanti del mondo delle imprese, della politica e del lavoro. Infatti, nonostante le indubbie debolezze del nostro sistema universitario, non possiamo ignorare che l’Italia ha un sistema economico-produttivo che non ha mai compiuto fino in fondo quel processo di trasformazione e riqualificazione produttiva avvenuto in altri Paesi, ed è in larga parte incapace di valorizzare e assorbire competenze, talenti e nuove tecnologie.

Questa incapacità la si coglie, per esempio, dalle previsioni di assunzione delle imprese raccolte ogni anno da Unioncamere, che mostrano un’incidenza della domanda di laureati del 12.5% su tutta la domanda di lavoro (contro il 31% degli Stati Uniti, per esempio). Ma la si coglie soprattutto osservando, più in generale, la composizione dell’occupazione in Italia e il suo andamento nel tempo. Gli ultimi decenni hanno visto, in tutti i Paesi industrializzati, un enorme cambiamento nella struttura occupazionale, con un progressivo svuotamento delle fasce operaie ed impiegatizie e un aumento di tutte le occupazioni più qualificate: tecnici specializzati, manager, imprenditori, professionisti (accompagnato anche da un parallelo aumento delle occupazioni senza alcuna qualifica). Un fenomeno legato all’avvento delle nuove tecnologie, alla crisi della vecchia industria e all’emergere di nuovi settori economici più smaterializzati: informatica, nanotecnologie, telecomunicazioni e via dicendo, fino all’intrattenimento e ai videogames. L’aumento di queste occupazioni di fascia alta è stato consistente in tutti i Paesi industrializzati, ed il loro peso sulla forza lavoro è arrivato, in casi come Inghilterra e Olanda, a superare il 30% della forza lavoro, assorbendo e attraendo grandi dosi di «capitale umano», ovvero laureati, specialisti e dottorandi.

Tutto questo in Italia non è avvenuto: la crescita delle occupazioni di fascia alta è stata abbastanza contenuta negli Anni Novanta, e negli ultimi anni ha avuto un trend negativo che, come mostrano i dati Eurostat, l’ha riportata sotto il 18% dal 19% di qualche anno fa. Un calo moderato, ma che colpisce di fronte agli andamenti positivi di tutti i più grandi Paesi europei.

E sulla mancata riqualificazione del sistema economico italiano i nostri politici, imprenditori, e sindacalisti non possono incolpare studenti e professori, ma devono assumersi le proprie, enormi responsabilità. Perché sanno benissimo come in Italia per troppo tempo questo processo sia stato temuto e osteggiato dalla maggior parte delle forze sociali e politiche in campo. Ed è noto come ogni investimento in nuove tecnologie e ricerca sia stato visto spesso come accessorio, e come ogni industria che non fosse sufficientemente «pesante», che non fosse «manifattura» sia stata considerata minore, o come ogni discussione sul ruolo dei servizi avanzati, delle industrie creative e culturali sia stato spesso derubricato come «fuffa». Una fuffa che negli altri Paesi non solo genera milioni di posti di lavoro qualificati, dando opportunità di crescita a tanti giovani laureati, ma che aiuta le stesse industrie tradizionali ad essere più efficienti, internazionalizzate e creative nel modo di riorganizzarsi e competere nei mercati internazionali. Recuperare il tempo perduto non sarà semplice. E non si dica che il salto si potrà fare aggiungendo nuovi e costosi incentivi: non serviranno. La situazione si cambia facendo dell’Italia un Paese dinamico e competitivo, con un mercato del lavoro che supporta efficacemente le riorganizzazioni aziendali e le riqualificazioni dei lavoratori, che si apre agli investimenti stranieri, che cambia i criteri con cui da decenni si appaltano servizi nella pubblica amministrazione e con cui si distribuiscono sussidi, incentivi e protezioni varie alle imprese, e che introduca una concorrenza chiara e trasparente che dia la possibilità alle imprese davvero più brave di competere e crescere. Perché la meritocrazia e la competenza di cui tanti amano parlare non si instaurano né per decreto né per incentivo, ma creando un sistema in cui diventino necessità.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9851
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