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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 144039 volte)
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« Risposta #285 inserito:: Giugno 11, 2013, 05:28:51 pm »

Il Porcellum di Tronchetti e Vegas lo sceriffo


Formidabili questi anni. Nonostante la crisi, il povero capitalismo italiano se la cava sempre, dietro il salvacondotto delle 'operazioni di sistema'. L'affare Camfin-Pirelli è da manuale. Un brutale salvataggio, scaricato sulle spalle dei risparmiatori e spacciato per 'progetto industriale'. Qualche giorno fa, commentando l'esito del duello tra Tronchetti Provera e Malacalza, un grande giornale titolava, con malcelata soddisfazione: 'La pace tra i soci farà bene a Pirelli'. Verissimo. Ma sullo sfondo c'è da porsi un altro paio di domande. La prima: quella 'pace' farà bene anche al mercato? La seconda: quella 'pace' ha un prezzo, e quel prezzo chi lo paga? Di questo nessuno parla. Non i grandi soloni della misera finanza nazionale. Non i grandi signori della sciatta business community tricolore. E nemmeno i grandi tutori delle regole di trasparenza del mercato, cui la legge assegna un compito sistematicamente e colpevolmente inevaso. Alessandro Penati, su 'Repubblica' di mercoledì scorso, ha scritto parole definitive sulla natura di questa operazione. Un patto di sindacato occulto, del quale il mercato e stato tenuto scientemente all'oscuro. Scambi azionari tra Malacalza e Tronchetti da una parte, Pirelli e Allianz-Unipol dall'altra, tutti effettuati rigorosamente a valori inferiori ai prezzi correnti di Borsa. Malacalza che vende Camfin a monte e compra Pirelli a valle, evitando l'Opa a cascata. Unicredit e Intesa (le famose e sempre amiche 'banche di sistema') che strozzano le piccole imprese sane ma non lesinano 100 milioni di capitale al 'cliente eccellente'. Il campionario degli errori e degli orrori è infinito, in questa brutta pagina di finanza italiana. Compreso il fatto che, ancora una volta, mentre il Tronchetti-manager continua la sua brillante 'carriera', il Tronchetti-azionista continua la sua costante discesa. Dalla fusione Pirelli-Pirellina, fino all'ultimo aumento di capitale da 40 milioni di Gpi completato a fine anno, la sua partecipazione nella Bicocca si è progressivamente ridotta. Prima dell'ingresso dei Malacalza era al 5%, ora è al 2, dopo l'opa di Camfin scenderà ancora. Insomma, un capolavoro. Nessuno contesta a Tronchetti il merito di aver rimesso in carreggiata Pirelli dal 2008 in poi. Ma su quello che è accaduto prima, e sulle alchimie finanziarie che gli hanno consentito di mantenere il controllo del gruppo senza mai aprire il portafoglio, meglio non parlare. Ma il velo più pietoso, stavolta, bisogna stenderlo sulla Consob, che ancora una volta non ha visto, non ha sentito, non ha parlato. Il nuovo corso di Giuseppe Vegas sembrava promettente. Ma su questo 'porcellum' finanziario ci ha riportato indietro di qualche anno. Ai bei tempi di Lamberto Cardia che, mentre Ligresti e i suoi cari spolpavano Fonsai, dormiva il sonno dei giusti. Sveglia, sceriffo, o quando riaprirai gli occhi nel saloon di Piazza Affari staranno solo i cocci!

m.giannini@repubblica.it

(10 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/06/10/news/il_procellum_di_tronchetti_e_vegas_lo_sceriffo-60774482/
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« Risposta #286 inserito:: Luglio 07, 2013, 11:28:21 am »

Le larghe intese non parlano l'inglese

Massimo GIANNINI

MILANO - Più che il "governo del fare", sembra il "governo del dire". Le parole sono chiare, ma i fatti possono aspettare. Le Larghe Intese si confermano un laboratorio di lunghe attese. Si decide di decidere, ma ogni decisione vera è rinviata all'autunno. La Legge di Stabilità si trasforma nel momento della verità: in quell'imbuto dovranno confluire decisioni fondamentali per le tasche dei cittadini: l'aumento delle aliquote Iva, la riformulazione dell'Imu, la ridefinizione della Tares, il destino della Tobin Tax e dei ticket sanitari, il finanziamento delle missioni all'estero e il perfezionamento dell'acquisto dei cacciabombardieri da 150 milioni a pezzo. Un ingorgo spaventoso, e pericoloso. Una specie di "fiscal cliff" tricolore. La strana maggioranza lo affronta senza una strategia precisa. Compra tempo. La Grande Coalizione all'italiana, come nella poesia di Montale, solo questo può dirti: cioè che non è, ciò che non vuole essere. Non è una Grande Coalizione alla tedesca, dove destra e sinistra si uniscono per fare insieme ciò che non riuscirebbero mai a fare divisi. Non vuole essere un governo del cambiamento, che impone al Paese le riforme di struttura di cui ha davvero bisogno. Enrico Letta, giustamente, ripete "non vogliamo sfasciare il bilancio pubblico perché siamo ancora dentro una tempesta finanziaria". Ha perfettamente ragione. Ma al premier è richiesto uno sforzo di fantasia e un supplemento di coraggio. Non si può scongiurare l'aumento di un'imposta anticipando il versamento di un'altra imposta. Non si può rispostare il prelievo dalle cose alle persone, dopo aver professato per anni l'esigenza di fare l'esatto contrario. Soprattutto, non si può più rimandare un piano serio per ridurre la pressione fiscale e per abbattere la spesa pubblica. Non la spesa sociale, che semmai va ottimizzata e in qualche caso persino aumentata. Ma la spesa corrente, che invece dal 2000 è aumentata al ritmo del 3% l'anno. In Europa c'è un modello da seguire. La Gran Bretagna di Cameron sta svolgendo un ruolo nefasto sull'integrazione europea e sull'Unione bancaria, ma sul taglio alla spesa corrente sta facendo miracoli. Il governo di Londra ha appena varato la sesta manovra che riduce il perimetro delle uscite dello Stato per 11,5 miliardi di sterline. Si riduce il costo del lavoro dei dipendenti pubblici, si riduce il costo della macchina dello Stato, si tagliano persino i rimborsi sul carburante e il riscaldamento per i cittadini britannici che vivono nei Paesi caldi. In compenso, con i risparmi si riducono le imposte e si aumenta addirittura la spesa per la sanità. È un buon esempio, che l'Italia non seguirà. Le Larghe Intese non parlano il tedesco, ma neanche l'inglese.

m.giannini@repubblica.it

(01 luglio 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/07/01/news/le_larghe_intese_non_parlano_l_inglese-62180505/
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« Risposta #287 inserito:: Luglio 10, 2013, 11:49:57 am »

Le baruffe chiozzotte tra i pattisti di casa Rcs

Massimo GIANNINI

C’è grande confusione nei cieli della ex Galassia del Nord. Ma come al solito, la situazione non è eccellente. Generali e Mediobanca celebrano
l’epicedio del vecchio catoblepismo, e celebrano l’epinicio del moderno capitalismo. Ma la transizione è lenta, macchinosa, contraddittoria.
Lo scioglimento dei patti che per decenni hanno blindato il sistema è tormentato e, in qualche caso, avvelenato. Il caso Rcs è paradigmatico.
Dopo mesi di baruffe chiozzotte, di contese verbali e di intese virtuali, in uno degli ultimi salotti buoni milanesi esplode una strana guerra.
John Elkann, memore dell’eredità morale dell’Avvocato, si ricorda di essere un Agnelli, innamorato dei «suoi» giornali. Rastrella il 20%, e non già lanciando la Exor (come sarebbe più naturale, vista la liquidità appena entrata in cassa grazie alla vendita di Sgs ai belgi per la bellezza di 2 miliardi) ma schierando direttamente la Fiat (non proprio nelle condizioni ottimali per un’operazione del genere, oberata com’è dal crollo delle vendite auto e dalla fusione con Chrysler).

Una mossa a sorpresa, spiegata sommariamente sul piano industrial-finanziario, ancorché illustrata preventivamente al presidente della Repubblica.
Una mossa che forse ne prepara altre, e forse apre le porte ad altri futuri alleati (magari travestiti da squali australiani).

Gli altri azionisti sembrano spiazzati. Mediobanca temporeggia, Banca Intesa sdottoreggia. Ma Diego Della Valle non indietreggia.
Mister Tod’s attacca, ma non spacca. Sfruculia Alberto Nagel e Giovanni Bazoli, per capire se spalleggiano l’offensiva della Real Casa sabauda o sono pronti a sciogliere il patto e rinegoziare le quote di tutti. E si dice pronto ad arrivare a sua volta al 20%, sottoscrivendo la sua quota di aumento di capitale (pari all’8,7%) e prendendosi anche l’eventuale inoptato. È tutto un fiorire di annunci e di controannunci sui giornali.
 
È tutto un alternarsi di discese ardite e di risalite in Borsa. Con la solita Consob impegnata ad accendere i suoi soliti «fari», che abbagliano molto ma illuminano poco. Cosa non funziona, in questa resa dei conti? Più che gli eventuali fattori critici sui quali si potranno esercitare le autorità di vigilanza, qui colpisce la coazione a ripetere comportamenti e accomodamenti che hanno poco a che vedere con le logiche di un mercato libero e aperto. In un Paese normale, un caso come Rcs avrebbe avuto un decorso naturale: sciolto consensualmente il patto di sindacato, la famiglia Agnelli avrebbe lanciato un’Opa, e Della Valle avrebbe lanciato la sua contro-Opa. A quel punto, gli azionisti avrebbero emesso il loro «verdetto», premiando l’una o l’altra offerta secondo la pura e semplice convenienza economica dell’investimento. Fine del gioco: semplice, pulito, lineare. Ma nel Belpaese, ancora una volta, non andrà così.

m.giannini@repubblica.it

(08 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/07/08/news/le_baruffe_chiozzotte_tra_i_pattisti_di_casa_rcs-62591930/
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« Risposta #288 inserito:: Luglio 13, 2013, 10:44:09 am »


Un atto di viltà

di MASSIMO GIANNINI


C'è uno scandalo politico da illuminare, nella linea d'ombra che attraversa gli Stati e gli apparati, la diplomazia e la burocrazia, i diritti e gli affari.

Solo in Italia può succedere che cittadini stranieri, ma domiciliati qui, possano essere "sequestrati" in gran segreto dalle autorità di sicurezza e rispediti nel Paese di provenienza, dove si pratica abitualmente la tortura.

Solo in Italia può accadere che questi cittadini siano rispettivamente la moglie e la figlia minorenne di un noto dissidente del Kazakistan, rimpatriati a forza con il pretesto di un passaporto falso per fare un "favore" a un premier "amico" come Nazarbayev, con il quale si fa business ma del quale si parla come di un dittatore violento e senza scrupoli.

Solo in Italia può avvenire che un simile strappo alle regole dei codici nazionali e internazionali sia scaricato, tutto intero, sulle spalle dei funzionari della pubblica amministrazione, mentre i ministri del governo della Repubblica si lavano serenamente le mani e le coscienze. Perché questo è, alla fine, il comunicato con il quale Palazzo Chigi prova a chiudere l'oscuro caso Ablyazov-Shalabayeva: un atto di viltà politica e di inciviltà giuridica, che invece di ridimensionare lo scandalo, lo ingigantisce.

Il testo, redatto alla fine di un vertice tra il presidente del consiglio Letta e i ministri Alfano, Bonino e Cancellieri, è un concentrato di buone intenzioni e di clamorose contraddizioni. Chiarisce che le procedure che hanno portato all'espulsione di Alma Shalabayeva e della sua figlioletta di sei anni sono state assolutamente regolari sul piano formale. Trasferisce sulla Questura di Roma e sulla Digos la colpa "grave" di non aver comunicato ai vertici del governo e ai ministri competenti "l'esistenza e l'andamento delle procedure di espulsione". Riconosce l'errore, revoca il provvedimento e si premura di verificare "le condizioni di soggiorno della donna" ora detenuta nella capitale kazaka, auspicando che possa al più presto "rientrare in Italia per chiarire la propria posizione".

Il cortocircuito è evidente: si prova a coprire questa vergognosa "rendition all'amatriciana", ma di fatto si sconfessa senza ammetterlo l'operato di Alfano, che ne aveva negato l'esistenza. Sommerso dalle critiche internazionali e dalle polemiche interne, l'esecutivo prova a dire l'indicibile all'opinione pubblica: di questa vicenda non sapevamo niente, ha fatto tutto la polizia senza avvertirci, ma ha fatto tutto secondo le regole, e nonostante questo ci rimangiamo l'espulsione. Un capolavoro di ipocrisia pilatesca, che non regge alla prova dei fatti e meno che mai a quella dei misfatti. Basta ricapitolarli, e incrociarli con le spiegazioni farfugliate in queste settimane dai ministri, per rendersi conto che la linea difensiva non tiene. Le domande senza risposta sono tante, troppe, per non chiamare in causa direttamente il vicepremier e responsabile del Viminale Angelino Alfano, e in subordine le "colleghe" Bonino e Cancellieri.

Come si può credere che la Digos organizzi di propria iniziativa un blitz imponente, che nella notte tra il 28 e 29 maggio impegna non meno di 50 uomini, per arrestare Muktar Ablyazov, "pericoloso" oppositore del regime kazako di Nursultan Nazarbayev, inseguito da "quattro ordini di cattura internazionale" (in realtà ne risulta uno solo)? Come si può credere che la Questura di Roma e poi il prefetto decidano di propria iniziativa il decreto di espulsione a carico della moglie del dissidente Alma, per poi trasferirla insieme alla figlia Alua al centro di accoglienza e infine imbarcarla su un aereo per il Kazakistan con il pretesto di un passaporto della Repubblica centrafricana falso (che in realtà si rivelerà autentico)?

Pensare che un affare di questa portata politica, che va palesemente al di là della dimensione della pubblica sicurezza, possa esser stato gestito in totale autonomia dal capo della Digos Lamberto Giannini e dal dirigente dell'ufficio Immigrazione Maurizio Improta, è un'offesa al buonsenso e alla dignità delle istituzioni. Eppure è quello che si legge ora nel comunicato di Palazzo Chigi. I fatti si sono svolti ormai quasi un mese e mezzo fa. Da allora, i ministri coinvolti hanno taciuto, e manzonianamente troncato e sopito.

Dov'era Alfano, mentre per ragioni ignote si rispedivano nelle mani di un governo accusato da Amnesty International di "uso regolare della tortura e dei maltrattamenti" le familiari di un dissidente che vive tuttora in esilio a Londra? Dov'era Alfano, mentre l'ambasciatore kazako Andrian Yelemessov tempestava il Viminale di telefonate, per sollecitare l'operazione di polizia poi conclusa con l'arresto di Alma e Alua? Dov'era la Bonino, giustamente sempre così attenta ai diritti umani, mentre un aereo messo a disposizione dalla stessa ambasciata kazaka imbarcava madre e figlia a Ciampino, per ricacciarle nell'inferno di Astana? Dov'era la Bonino, mentre il Financial Times e i giornali internazionali denunciavano  su tutte le prime pagine lo scandalo di una doppia "deportazione" che viola apertamente la Convenzione del 1951 sui rifugiati politici?

 A queste domande non c'è risposta, se non l'omertoso comunicato ufficiale. I ministri coinvolti non sentano il dovere di assumersi uno straccio di responsabilità. "Non sapevamo", dicono, mentendo e ignorando che in politica esiste sempre e comunque una responsabilità oggettiva, e che la politica impone sempre e comunque doveri precisi connessi alla funzione. Non sentono il dovere di rendere conto, e di spiegare chi e perché ha esercitato pressioni, e chi a quelle pressioni ha ceduto, in una notte della Repubblica che ricorda alla lontana un'altra notte del 2010, alla Questura di Milano, quando un presidente del Consiglio chiedeva per telefono ai funzionari presenti di rilasciare una ragazza perché era "nipote di Mubarak". Chi ha telefonato a chi, questa volta? E con quale altra ridicola scusa di "parentela eccellente" ha trasformato un'operazione di polizia contro un rifugiato politico in un gesto di cortesia a favore di un despota asiatico ricchissimo di gas e petrolio, a suo tempo in amicizia con il Berlusconi premier e tuttora in affari con il Berlusconi imprenditore?

Altrove, per molto meno, saltano teste e poltrone. In Italia, com'è evidente, non funziona così. Sul piano etico, il minimo che si può chiedere è che a quella madre e a quella figlia, purtroppo cacciate con il fattivo contributo delle nostre autorità, sia restituito il diritto di tornare nel Paese in cui avevano deciso di vivere. Sul piano politico, il massimo che si deve pretendere è che chi ha sbagliato, chi ha mentito, o anche solo chi ha taciuto, ne risponda di fronte all'Italia e agli italiani.

m. gianninirepubblica. it


(13 luglio 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/13/news/un_atto_di_vilt-62890334/?ref=HREA-1
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« Risposta #289 inserito:: Luglio 19, 2013, 11:46:56 am »

   
Il padrone kazako

di MASSIMO GIANNINI


UNA democrazia non può e non deve avere paura della verità. Per questo lo scandalo kazako segna una pagina nera della democrazia. E per questo la scelta della «strana maggioranza », che chiude gli occhi di fronte alla colossale operazione di manomissione della realtà e blinda l’esecutivo solo in nome della realpolitik, non aiuta la causa della buona democrazia. Angelino Alfano ha mentito al Parlamento e al popolo sovrano. «È un fatto gravissimo: non ero stato informato io, né i miei colleghi, né il presidente del Consiglio». Questo dice al Senato, il ministro dell’Interno, dando lettura puntigliosa e testuale delle sei cartelle che compongono, da pagina 8 a pagina 13, la parte della relazione del prefetto Pansa intitolata “Il flusso informativo”. Nulla sapeva, dunque, di ciò che è avvenuto tra il 28 e il 31 maggio, quando l’ambasciatore kazako Adrian Yelemessov chiede e ottiene dal Viminale che la moglie e la figlia di un noto dissidente siano «sequestrate» e rispedite, con procedure contrarie al diritto interno e internazionale, in un Paese il cui regime pratica abitualmente la tortura.

Quello che invece non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, è ciò che è scritto nelle sette cartelle precedenti di quel rapporto, intitolate “Cronologia dei fatti”, dove alla pagina 2 si può leggere ciò che accadde davvero «il 28 maggio», «nella serata»: «Il ministro dell’Interno, a seguito di ulteriori telefonate dell’Ambasciatore, cui non ha risposto, fa incontrare lo stesso con il suo Capo di gabinetto». Quello che non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, e ciò che invece riconosce il suo stesso Capo di Gabinetto, ora costretto alle dimissioni e finora unico capro espiatorio dell’intera vicenda, nell’intervista non smentita rilasciata ieri a “Repubblica”. Alla domanda di Carlo Bonini: «Era stato il ministro Alfano a chiederle di ricevere l’ambasciatore kazako?», Giuseppe Procaccini testualmente risponde: «Sì. Ero stato informato che l’ambasciatore doveva riferirmi una questione molto delicata ». E poco più avanti, alla domanda: «Dunque il 29 maggio il ministro dell’Interno sapeva che la diplomazia kazaka aveva chiesto l’arresto di un latitante? », il funzionario ammette: «Sì. Di un pericoloso latitante».

Eccole, se ancora ce ne fosse bisogno, le prove dell’omertà che rendono indifendibile Alfano, e non più sostenibile la sua posizione dentro il governo. Per un mese e mezzo il ministro dell’Interno, e con lui quello degli Esteri, hanno vissuto o hanno fatto finta di vivere in un vuoto politico e pneumatico, dove la sovranità statuale è stata sospesa, e dove la potestà ministeriale è stata disattesa. Alfano e Bonino non hanno visto, sentito o parlato. E hanno lasciato che, a ordinare, a gestire e a decidere della sorte di due cittadine straniere, sul territorio italiano, fosse il «padrone kazako», cioè il satrapo dispotico Nursultan Nazarbaeyev, attraverso i suoi messi diplomatici. Lo dicono i fatti, e lo confermano i documenti ufficiali.

È Yelemessov, la sera del 28 maggio, a irrompere al Viminale, ad esigere il blitz nella villetta di Casal Palocco, a prendere parte insieme ai funzionari della Ps alla «riunione operativa» nell’ufficio di Procaccini, che lo stesso (ex) Capo di Gabinetto, nell’intervista a “Repubblica” di ieri, racconta sia «finita molto tardi».

È Yelemessov, attraverso il suo consigliere Khassen, a forzare la Questura di Roma per avviare l’operazione, spiegando che il dissidente Ablyazov «è un criminale pericoloso in contatto con gruppi armati terroristici ». È Yelemessov, attraverso Khassen, a concordare il 30 maggio (dopo il blitz che non ha portato alla cattura di Ablyazov, ma al sequestro di sua moglie e sua figlia) le procedure di espulsione di Alma e di Alua, a «rappresentare alla Questura il timore che un transito a Mosca possa diventare l’occasione per un attacco organizzato dal ricercato», e a comunicare alla stessa Questura che la Shalabayeva «potrebbe usare un passaporto falso della Repubblica del Centro Africa» (comunicazione poi rivelatasi a sua volta falsa). È Yelemessov, attraverso Khassen, a fornire il 31 maggio alla Questura i documenti di viaggio di Alma e Alua e a proporre «la possibilità di un volo diretto verso la capitale del Kazakhstan, in partenza dall’aeroporto di Ciampino alle ore 17». E infine è ancora Yelemessov, attraverso Khassen, a prendere direttamente in carico madre e figlia poco prima delle 17 del 31 maggio, e ad imbarcarle «sul volo della compagnia austriaca Avcon Jet, proveniente da Lipsia e diretto ad Astana».

Com’è evidente, per ragioni che vanno al di là della pura e semplice inefficienza delle burocrazie amministrative, un bel pezzo di sicurezza nazionale è stata nelle mani delle autorità kazake, mentre quelle italiane si bagnavano nell’acqua di Ponzio Pilato. Il “padrone kazako” è stato il vero gestore di questa «rendition all’amatriciana », che ha ridicolizzato l’Italia di fronte al mondo e l’ha esposta a una più grave violazione dei diritti umani nei confronti di una donna e della sua figlioletta di sei anni. Può ritenersi soddisfatto, l’ambasciatore kazako, che ora un’indignata Bonino convoca inutilmente alla Farnesina. Yelemessov se n’è già andato in ferie: un meritato «viaggio premio», perché lui la sua «missione» può dire di averla a tutti gli effetti compiuta.

Sono le autorità politiche e amministrative italiane che, invece, la loro missione l’hanno miseramente fallita, o volutamente sfuggita. Bisognava ammetterlo subito, senza rifugiarsi dietro l’ormai solita scusa tartufesca del misfatto «a mia insaputa». Bisognava che Alfano lo riconoscesse subito, assumendosi fino in fondo e a viso aperto le sue responsabilità, senza scaricarle sulla tecnostruttura che comunque dipende da lui, e senza la penosa e pelosa «chiamata di correo» nei confronti di Enrico Letta. «Né io né il premier sapevamo nulla», ribadisce il ministro. A sproposito, perché nessuno ha mai insinuato che il presidente del Consiglio sapeva o avrebbe dovuto sapere fin dall’inizio cosa successe in quei frenetici giorni di fine maggio, nel quadrilatero oscuro Viminale- Casal Palocco-Ponte Galeria-Ciampino.

Questa colpa «in vigilando», o questo dolo «in agendo», pesa tutto intero sulle spalle del ministro dell’Interno. Che se non sapeva è stato negligente, e se sapeva è stato reticente. Forse ha agito in base a ordini superiori, vista la spregiudicata disinvoltura con la quale la «falange kazaka» ha orchestrato e diretto le operazioni italiane, certa di poter pretendere un «sequestro di persona» in cambio dei buoni affari conclusi a suo tempo dall’ex premier Berlusconi con gli zar del petrolio ex sovietico. Forse è stato addirittura scavalcato dal suo leader, che di Nazarbayev è molto più amico di quanto non riconosca lui stesso nell’intervista al “Corriere della Sera” di ieri, in cui il Cavaliere blinda Alfano e il governo definendo «assurde queste mozioni di sfiducia presentate dalle opposizioni, che impegnano il Parlamento e fanno perdere tempo in un momento così difficile e preoccupante». Non male, detto dal capo-popolo di un partito che solo una settimana fa, dopo la semplice fissazione di un’udienza della Cassazione, ha minacciato l’Aventino chiedendo la «serrata » delle Camere per tre giorni consecutivi.

Comunque siano andate le cose, Alfano aveva il dovere di dimettersi da ministro dell’Interno. E quel dovere lo ha ancora. Non è troppo tardi, per un gesto di serietà istituzionale e di onestà intellettuale di fronte al Paese. E il Pd non dovrebbe dividersi né provare imbarazzi inutili, nell’invocare ed esigere quel gesto. Non dovrebbe rassegnarsi alla logica che lega inestricabilmente la sorte personale di Alfano a quella del governo. E invece è esattamente quello che fa: scivolando sempre di più, in nome di una governabilità a qualsiasi costo, sul piano inclinato del compromesso al ribasso. Si dice che la richiesta delle dimissioni di Alfano indebolisce il governo, o addirittura lo espone al rischio di una crisi.

Ma proviamo a rovesciare la visuale. È quello che è accaduto, cioè lo scandalo kazako, ad aver indebolito irrimediabilmente il governo e ad averlo esposto al pericolo di una caduta. Non è quello che dovrebbe accadere, cioè la doverosa uscita di scena di chi ha sbagliato, a minacciare la sopravvivenza della Grande Coalizione. Se non si erigono le barricate dell’ideologia, è possibile separare il destino del ministro dell’Interno dal futuro delle Larghe Intese. Il governo Letta potrebbe persino rafforzarsi, se riuscisse ad uscire da questo pasticcio kazako con una soluzione decorosa. L’autoassoluzione della politica, che per durare insegue di volta in volta l’impunità formale e sostanziale, non lo è affatto. Se la «pacificazione» produce assuefazione, non ci rimette solo la sinistra. Ci rimette l’Italia.

m.giannini@repubblica.it

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/18/news/il_padrone_kazako-63210562/?ref=HRER1-1
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« Risposta #290 inserito:: Luglio 19, 2013, 11:48:15 am »


Polis
      
Grasso e Boldrini alla cena dei "carini"

    Massimo Giannini

Ribolle da giorni, e giustamente, il magma della rabbia «padrona». Fare impresa in Italia è sempre più difficile. Stato leviatano e sindacato cileno. Tasse micidiali e infrastrutture medievali. Burocrazia opaca e giustizia lumaca. Come dare torto alle grida del ceto imprenditoriale, colpito da una recessione che in cinque anni ha mietuto la caduta di otto punti di pil e il fallimento di 70 mila aziende solo nella manifattura? A sentire Giorgio Squinzi il punto di rottura non è affatto lontano. Nell’ultima settimana gli anatemi del presidente di Confindustria sono piovuti ogni giorno. Il 5 luglio, da Padova: «Non penso come Saccomanni che a fine anno vedremo la luce, se tutto va bene nel 2014 cresceremo di uno 0,4%...». L’8 luglio, da Milano: «Non c’è nessuna luce in fondo al tunnel ma solo un flebile lumicino: abbiamo il dovere di protestare contro le vessazioni...». Il 9 luglio, alla Camera: «Il rimbalzino della fine dell’anno non creerà occupazione...». L’11 luglio, all’Ance: «La situazione è preoccupante, siamo ancora lontani dalla fine della stagione nera...». Dunque si avvicina anche in Italia quella che Christopher Lasch chiama «la rivolta delle élite»? Sarebbe quasi bello da pensare. Un establishment gagliardo e tosto, pronto a dare battaglia e a difendere i propri interessi nel cuore di una crisi epocale e globale. Una borghesia in parte illuminata, e in parte anche un po’ sgangherata, ma comunque moderna. Capace di concepirsi addirittura come «classe» particolare, ma portatrice di una visione generale da far valere nel confronto con la politica e con il governo. Purtroppo in Italia non c’è niente di tutto questo. L’organo di rappresentanza del mondo produttivo non esce dalle logiche asfittiche e minimaliste di un corporativismo situazionale. Piccola lobby, grandi costi. Volete la prova? È la cena che proprio Confindustria ha organizzato mercoledì scorso, con le alte cariche dello Stato, i presidenti di Camera e Senato, e i capigruppo dei partiti di Montecitorio e Palazzo Madama. Iniziativa irrituale, ma proprio per questo interessante, che lo stesso Squinzi ha giustificato così: «La politica non percepisce le difficoltà dell’economia reale: dobbiamo trovare insieme un percorso di crescita nel più breve tempo possibile». Buon proposito. Ma chi ha partecipato all’evento, racconta di un convivio sconfortante. Squinzi vicino a Boldrini, Grasso vicino a Formigoni, tutti attovagliati alla Foresteria di Via Veneto, a chiacchierare del più e del meno. Brevi cenni sull’universo, e poi un paio d’ore di leggiadro nulla, alla faccia della stagione nera e dell’emergenza industriale e occupazionale. La cena dei «carini», per usare la formula di Crozza. No, questa borghesia italiana non passerà alla storia. Tutt’al più alla geografia.

m.giannini@repubblica.it

(15 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/07/15/news/grasso_e_boldrini_alla_cena_dei_carini-63001090/
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« Risposta #291 inserito:: Agosto 10, 2013, 07:10:19 am »

L'analisi - La bandiera dell'equità fiscale

di MASSIMO GIANNINI


SOMMERSA dalle grida berlusconiane contro la magistratura, riaffiora dunque l’“altra emergenza”. Quella che morde la carne viva di famiglie e imprese, che incide sul futuro collettivo di un’intera nazione e conta molto di più del destino personale di un pregiudicato eccellente.

Entro il 30 agosto il governo deve decidere se confermare l’eliminazione dell’Imu, o se rimodulare il prelievo sugli immobili. È una scelta fondamentale, che può decidere la vita del governo quanto una sentenza di condanna per il Cavaliere. A dispetto di un “pensiero debole” ricorrente e purtroppo dominante, incline ad annullare le distanze e ad azzerare le differenze, il Fisco è una frontiera che può dividere la sinistra dalla destra. Esattamente come la Giustizia, che esige tutti i cittadini uguali di fronte alla legge, anche il Fisco è uno strumento che aiuta a combattere le disuguaglianze.

La “cifra” politica dell’Imu è dunque elevatissima. E il documento diffuso dal ministro dell’Economia lo conferma plasticamente, e quasi drammaticamente. In un testo di oltre cento pagine, Saccomanni fotografa la realtà, e poi descrive i nove possibili scenari di cambiamento, che vanno dalla “totale abolizione” dell’imposta fino alla “derubricazione della revisione Imu sulla prima casa con destinazione di risorse per la parziale abolizione dell’imposta all’allentamento del patto di stabilità dei comuni e la service tax”. Per depotenziare la questione dalla sua alta intensità politica, sembra quasi che il governo ne voglia aumentare di proposito la densità “tecnica”. Ciascuna delle ipotesi esaminate viene valutata in base al costo per le casse dello Stato, all’efficienza, all’equità nell’impatto redistributivo, alla responsabilizzazione dei livelli di governo, al costo della “compliance” per i contribuenti e ai costi amministrativi.

Qui sta, allo stesso tempo, la forza e la debolezza del documento. La forza è nell’oggettività dei numeri che espone e che finalmente, dopo tante chiacchiere, definisce in modo esaustivo e definitivo la base tecnica e l’oggetto della “contesa” politica. La debolezza sta nella neutralità del testo, che si limita a squadernare doviziosamente le opzioni, senza privilegiarne esplicitamente una. Ma questo limite non deve stupire. È per così dire “strutturale”. Va al di là dell’Imu. È intrinseco alla natura anomala di questo governo di Larghe Intese. La difficoltà di scegliere tra una o l’altra misura di revisione del prelievo sugli immobili (come quella di decidere se rinviare definitivamente l’aumento dell’Iva, di stabilire se si debba riformare l’amministrazione giudiziaria o di accordarsi su come si possa cambiare la legge elettorale) riflette geometricamente la difficoltà di conciliare le diverse idee, e persino le diverse costituency elettorali, che dominano i due schieramenti.

Come spiega lo stesso Saccomanni, il confronto tra i partiti sull’Imu, cominciato dopo l’istituzione della cabina di regia e gli incontri bilaterali, ha fatto emergere distanze siderali tra Pd e Pdl. Per questo il ministro ha deciso di mettere tutti di fronte ai dati della realtà, descrivendo costi e benefici di tutte le scelte possibili che la politica, di qui alla fine del mese, sarà chiamata a fare. Può sembrare una mossa pilatesca. Ma lo è solo in parte. Basta leggere il dettaglio delle singole misure proposte, nel quadro sinottico di pagina 74 del testo, per rendersi conto che nella valutazione del governo le due opzioni peggiori, sul piano economico e sociale, sono quelle sostenute dal Pdl. L’abolizione totale dell’imposta sull’abitazione principale ha un costo in termini di gettito “alto” (4 miliardi), un’efficienza “scarsa, un “impatto regressivo rispetto al reddito”, una responsabilizzazione dei livelli di governo “scarsa”, un costo di “compliance” per i contribuenti “nullo” e un costo amministrativo “alto”. L’abolizione della prima rata dei versamenti Imu sospesi per decreto a maggio ha le stesse caratteristiche negative, con la sola differenza di un costo più basso in termini di gettito (2,43 miliardi).

È dunque improbabile che l’Imu sia cancellata per sempre, come chiedono i liberisti alle vongole passati dalla scuola di Chicago al doposcuola di Arcore. Con un debito pubblico al 130,3% del Prodotto interno lordo, e nonostante un avanzo primario al 2,4%, l’Italia purtroppo non può permettersi di ridurre drasticamente le tasse, e meno che mai tornando ad allargare il suo deficit. Gli impegni assunti con l’Europa continuano a pesare, e se ne avrà una prima traccia già al G-20 di San Pietroburgo del 5-6 settembre, e poi all’Ecofin immediatamente successivo. Lo spread a quota 250 è una bella nota estiva, ma non può e non deve ingannare. Come ricorda la Bce di Mario Draghi, che invita i Paesi periferici dell’Eurozona a “non vanificare gli sforzi già compiuti allo scopo di ridurre i disavanzi pubblici”.

Se sarà confermato il parziale miglioramento del Pil del secondo trimestre (diminuito dello 0,2% invece del temuto 0,4%) e se l’andamento delle entrate del secondo semestre confermerà il trend di quelle del primo, l’eventuale extra-gettito da 8-10 miliardi dovrà essere impiegato per ridurre il cuneo fiscale, non certo per eliminare un’imposta sugli immobili che (sia pure graduata in modo diverso e magari in funzione della condizione economica del nucleo familiare) esiste in tutti i Paesi d’Europa.

Chi ha case d’altissimo pregio e redditi molto elevati è giusto che paghi un tributo. Ne va dell’equità sociale del sistema che il governo tecnico di Monti ha colpevolmente ignorato e che invece il governo politico bipartisan non può assolutamente dimenticare. Ma questo, nei prossimi giorni e spurgata la prima ondata di polemiche, l’esecutivo dovrà dirlo chiaro, e scriverlo nero su bianco in un decreto legge. Per quanto completo e accurato, un documento non basta a salvarsi l’anima. Letta e Saccomanni dovranno assumersi le loro responsabilità di fronte alla maggioranza e di fronte agli italiani.

Le reazioni della destra sono già furenti, anche se inconcludenti. Prima, in campagna elettorale, il Pdl ha trasformato la soppressione della tassa sulla prima casa in un vessillo ideologico e demagogico, da agitare al cospetto di un elettorato disincantato e deluso, dopo l’ubriacatura bugiarda degli anni 2000, quando Berlusconi sbancava le urne promettendo “meno tasse per tutti”. Poi, dopo il voto, l’ha trasformata nell’atto “fondativo” della Grande Coalizione, giudicandola indiscutibile e irrinunciabile per recuperare terreno nelle categorie più abbienti, dove l’emorragia elettorale è stata più copiosa. Per le tasse come per le condanne del Cavaliere, il partito berlusconiano, disperato e disarticolato, continua dunque a far crescere le tensioni, anche se non riesce a farle esplodere. Di qui al 30 agosto sentiremo ripetere fino alla noia “o salta l’Imu, o salta Letta”. Per ora non saltano né l’uno né l’altro. Ma resistere a questo logoramento continuo, e a questo stillicidio quotidiano di penultimaum, è sempre più difficile. Anche per un governo che non ha alternative. Non basta una necessità per fare una virtù.

m.giannini@repubblica.it

(09 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #292 inserito:: Agosto 23, 2013, 11:42:00 pm »


La proposta irricevibile

di MASSIMO GIANNINI


Ora tutto è chiaro, al di là di ogni ragionevole dubbio. La rottura consumata a Palazzo Chigi sulla fantasmatica "agibilità politica" di Berlusconi apre gli occhi anche a chi, per mesi, settimane e giorni, ha fatto finta di non vedere. O ha provato a manomettere la realtà dei fatti e a manipolare la verità delle parole con la fumisteria delle formule. Alfano, pena la sopravvivenza stessa della "strana maggioranza", chiede al governo di farsi carico di ciò che al governo non compete: salvare il Cavaliere, condannato in via definitiva per frode fiscale, dalla decadenza e dall'incandidabilità. Una proposta indecente. E dunque irricevibile.

Si disvela così, finalmente, la vera natura della Grande Coalizione. Per questa destra italiana, dominata dalla figura del padre totemico che la "massa primaria" ama senza se e senza ma, il governo di Larghe Intese non riflette un equilibrio politico transitorio ma più avanzato, utile a risolvere le emergenze finanziarie del Paese. È invece solo uno strumento "tecnico", utile a risolvere le urgenze giudiziarie di Berlusconi. Per questa destra italiana, incapace di accettare le regole dello Stato di diritto e di affrancarsi da una leadership autocratica e totalizzante, il governo è in effetti "di scopo". Ma lo "scopo", a dispetto della propaganda bugiarda del dopo-elezioni, non è la tutela dell'interesse nazionale ma la difesa di un interesse personale. Se questo interesse non può essere difeso, perché le sentenze sono esecutive e non c'è presidente della Repubblica né presidente del Consiglio che ne possano vanificare gli effetti, allora il governo non serve più. E si può anche sciogliere il vincolo che lo fa nascere e lo tiene insieme.

Questo è il senso del Pdl per le istituzioni. Dopo il fallimento dell'assedio al Quirinale, dove Napolitano custodisce con cura la Costituzione repubblicana, e dopo l'ultima riunione del "gabinetto di guerra" a Villa San Martino, dove l'armata berlusconiana decide la nuova offensiva, Alfano osa l'inosabile. Garantisce la tenuta del governo, solo a condizione che Letta (e attraverso Letta il Pd) faccia votare no alla Giunta per le autorizzazioni, e poi all'aula del Senato, alla decadenza del Cavaliere, che la legge Severino prescrive in automatico. O solo a patto che il premier (e attraverso il premier il centrosinistra) accetti quanto meno uno slittamento del voto di Palazzo Madama. I Dottor Stranamore di Arcore esigono un "approfondimento". Lo chiamano così.

Questo, in realtà, è più volgarmente un ricatto. Un ricatto che serve a tenere in ostaggio non solo il governo, ma un intero Paese, che invece di arrovellarsi sui salvacondotti di Berlusconi avrebbe un disperato bisogno di concentrarsi sulle strategie per la crescita e per il lavoro. E se questo non accade non è colpa delle ossessioni coltivate dall'anti-berlusconismo, ma delle devastazioni prodotte dal berlusconismo. Disposto, come sempre, a giocare al "tanto peggio tanto meglio". A scambiare la stabilità solo con l'impunità. E a dare corpo purtroppo alle profetiche preoccupazioni formulate dal Capo dello Stato nella sua nota di Ferragosto, quando si chiede di non accettare le decisioni della magistratura, e di evitare "ritorsioni" improprie sulle altre istituzioni.

È esattamente quello che sta per succedere. Dopo lo strappo di Palazzo Chigi, com'era prevedibile, la crisi si avvicina a grandi passi.
Una crisi quasi al buio, dove non si vedono spiragli per elezioni anticipate (che il Colle non vuole espressamente concedere), ma dove non si vedono margini per maggioranze alternative (che Grillo non è palesemente in grado di assicurare). Nell'arca del Pdl, che molla gli ormeggi tra sentenze dei tribunali e pronunce del Senato, c'è ormai posto solo per caimani, falchi e pitonesse. Ma il diluvio universale, purtroppo, investirà l'Italia, e non solo i naufraghi, disperati e irresponsabili, della "nuova" Forza Italia.


(22 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #293 inserito:: Agosto 29, 2013, 04:22:03 pm »

L'ultimo compromesso

di MASSIMO GIANNINI


Dunque, le Larghe Intese non moriranno per l'Imu. Non è ancora escluso che possano "morire per il Twiga", come vorrebbero le pitonesse del Pdl, sempre pronte a immolare se stesse e l'Italia sull'altare della decadenza e dell'incandidabilità del pregiudicato Silvio Berlusconi.
La cancellazione totale dell'imposta sulla prima casa per il 2013 è un compromesso che allunga la vita del governo. Resta da capire se salva anche quella dei molti italiani che soffrono i morsi della recessione e della disoccupazione. Quando si riducono le tasse, in un Paese che vanta il peggior livello di servizi e la maggior pressione fiscale d'Europa, una boccata d'ossigeno arriva comunque.

Se si considera che fino al 2012 molte famiglie hanno ipotecato persino la tredicesima per pagare la stangata sugli immobili, un risparmio di 4 miliardi non è poca cosa. È condivisibile la soddisfazione di Enrico Letta, che parla di "scelta coraggiosa ed equilibrata". Il coraggio va apprezzato: rinunciare a un intero anno di imposta, in un'Italia che combatte con il più alto debito pubblico del mondo e che oscilla pericolosamente intorno al tetto del 3% di deficit concordato con l'Europa, è un bell'azzardo.
L'equilibrio va dimostrato: che l'Imu fosse iniqua è oggettivo, ma il modo in cui la si cambia è decisivo.

C'è un groviglio tecnico, ancora tutto da districare. Come sarà coperto il buco enorme che si apre quest'anno nelle casse dei Comuni, private del gettito Imu? Per la prima rata è più o meno chiaro: qualche taglio di spesa (benché ancora vago), un prelievo su giochi e scommesse, un po' di Iva in più grazie alla nuova tranche di pagamenti dello Stato alle imprese. Per la seconda rata è buio pesto: tutto è rinviato alla legge di stabilità di ottobre, che promette di essere ricca di incognite e povera di risorse. E cosa succederà l'anno prossimo? L'Imu sarà sostituita dalla Service Tax, sulla quale gli enti locali scaricheranno tutti i tributi attualmente in vigore per i servizi connessi agli immobili. Vedremo come funzionerà. Ma Prima e Seconda Repubblica insegnano: cambia il nome, non cambia il senso. Tra la vecchia e la nuova, sempre di tassa stiamo parlando.

C'è un nodo politico, ancora tutto da sciogliere. Il premier sostiene che l'accordo sulla cancellazione dell'Imu "è merito di tutti".
È comprensibile che lo dica: non vuole lasciare che la destra si intesti la titolarità esclusiva del risultato, e che alla sinistra resti il "premio di consolazione" di una manciata di spiccioli per la Cassa integrazione e per altri 6.500 esodati. Ma è Berlusconi che canta vittoria, parlando di "promessa mantenuta" e addirittura, con un impeto di comicità involontaria per un condannato, di "etica della politica". È Alfano che, a Consiglio dei ministri ancora in corso, "cinguetta" su Twitter "missione compiuta". Sono i ministri del Pdl che, a fine giornata, ringraziano il Cavaliere "per questo successo", che "senza di lui sarebbe stato impossibile".

È evidente che sull'Imu il premier e il Pd hanno giocato in difesa, finendo per cedere al "primo ricatto berlusconiano". L'hanno fatto su un terreno nel quale tutti gli italiani hanno qualcosa da guadagnare, come le tasse, e dunque pagando un prezzo politico modesto. Ma questo non può non pesare, sui prossimi appuntamenti che aspettano la maggioranza. Vincendo sull'Imu, Berlusconi ha perso un alibi: per far cadere il governo che non risolve i suoi problemi di "agibilità politica" voleva usare l'inciampo dell'odiata tassa sulla casa. Ora non può più farlo. Se vuole "assassinare" le Larghe Intese, che non gli garantiscono l'impunità giudiziaria, deve farlo a viso aperto, e deve avere la faccia tosta di spiegarlo agli italiani.

Non è escluso che lo faccia, conoscendo la dismisura culturale e istituzionale dello Statista di Arcore. Ma adesso è per lui oggettivamente più difficile. Non a caso Letta può osare e può dire che a questo punto il governo "è senza scadenza". Non è detto che sia vero. Ma certo tutto questo conferisce al Pd il massimo di libertà e di responsabilità, nel maneggiare il "secondo ricatto berlusconiano". Sull'abolizione dell'Imu il compromesso è possibile. Sulla concessione del salvacondotto è inaccettabile.

m.giannini@repubblica.it

(29 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #294 inserito:: Settembre 20, 2013, 04:41:28 pm »


La corruzione come metodo

di MASSIMO GIANNINI



I bardi della corte di Arcore, ancora una volta, la sparano grossa. Gridano al "golpe rosso", all'"attacco concentrico", all'"esproprio proletario". Molto più banalmente, depurate dal falso ideologico e politico al quale ci ha abituato la propaganda populista e vittimista del quasi Ventennio berlusconiano, le motivazioni della Cassazione sul Lodo Mondadori sono solo l'ovvia conseguenza civilistica di una verità giudiziale ormai acquisita. Una verità definitiva, al di là di ogni ragionevole dubbio, che a questo punto diventa anche storica. Una verità che sveste il Sovrano di tutti i suoi finti orpelli e i suoi falsi scudi. E lo espone, nudo, di fronte alla legge e al Paese.

Cos'altro deve accadere, perché si debbano considerare vere e non più contestabili le accuse provate in ben sei gradi di giudizio, e infine sanzionate con una condanna dalla Corte d'appello di Milano il 9 luglio 2011? A cos'altro ci si può appigliare, per contestare quella sentenza esemplare in cui ora la Cassazione, trova come unico e paradossale "difetto" quello di essere "fin troppo analiticamente argomentata"? Eppure non basta, ai falchi e alle colombe del Pdl che insieme ai familiari difendono il Capo, in una rituale confusione di ruoli in cui come sempre il partito si fa azienda e l'azienda si fa partito.

I giudici di allora, come quelli di oggi, hanno scritto e ampiamente dimostrato due dati di fatto oggettivi, e non più controvertibili. Il primo: nella contesa che nel 1991 portò il gruppo Mondadori nelle mani del Cavaliere si produsse un episodio gravissimo di corruzione di magistrati, di cui Berlusconi fu l'ideatore iniziale e Previti l'esecutore materiale. Il secondo: se quel reato corruttivo non si fosse verificato, la casa editrice di Segrate sarebbe rimasta a pieno diritto nella proprietà del gruppo De Benedetti (editore di questo giornale).
Basterebbe questo a dare la misura dell'enorme responsabilità penale che, nella vicenda specifica, grava sulle spalle della sedicente "vittima" del "complotto" e giustifica il risarcimento danni cui è adesso costretto. Ma qui c'è molto di più. Nelle carte del Lodo Mondadori come in quelle delle altre sentenze passate in giudicato (da All Iberian ai diritti tv Mediaset) c'è riassunto lo stigma dell'intera parabola berlusconiana, e insieme il paradigma della sua avventura imprenditoriale e politica. Un vero e proprio "metodo di governance" (e poi anche di governo), che risale a molti anni prima dell'epica "discesa in campo" del '94 ed è in buona parte alla base delle fortune iniziali del tycoon della televisione commerciale, fin dai tempi dei primi decreti "ad aziendam" varati dall'amico Craxi negli anni '80. Un "sistema di potere" collaudato, in cui gli affari privati si mescolano agli interessi pubblici. Gli strumenti della mala-finanza sono usati per assicurarsi i buoni uffici della mala-giustizia. Il Cavaliere evade il fisco, crea fondi neri, realizza falsi in bilancio. Tutto serve per alimentare una "provvista" segreta, con la quale si comprano magistrati compiacenti e finanzieri renitenti, e poi anche faccendieri senza scrupoli e parlamentari senza vergogna.

La Guerra di Segrate e il "dominus" della corruzione
Nella guerra di Segrate "l'apparato corruttivo" berlusconiano dispiega tutta la sua geometrica potenza. All'inizio degli anni '90 la contesa tra due industriali per il possesso della Mondadori volge a favore di De Benedetti, dopo che un collegio di arbitri gli assegna la titolarità della maggioranza delle azioni della casa editrice. Berlusconi impugna il Lodo davanti alla Corte d'Appello di Roma. E qui, nel "porto delle nebbie" della Capitale, accade il misfatto. Il giudice relatore Vittorio Metta deposita una sentenza di 167 pagine (scritta non da lui ma da "ignoti", pare nello studio Previti) che sovverte il Lodo e riassegna la Mondadori al Cavaliere. Si scoprirà poi, più di dieci anni dopo, che quella sentenza Berlusconi l'ha comprata, facendo depositare 400 milioni di lire sul conto di Metta, attraverso i buoni uffici di Previti. Anche questa è una verità giudiziale, scritta in una sentenza passata in giudicato, dopo le pronunce della Corte d'Appello di Milano del 23 febbraio 2007 e della Cassazione il 13 luglio dello stesso anno.

Quella condanna penale costa la galera a Previti e agli avvocati Acampora e Pacifico. Berlusconi si salva solo perché, nel frattempo, è già diventato presidente del Consiglio nel 2001, e ha fatto approvare dal Parlamento un paio di leggi che gli servono a salvare la faccia e la poltrona. A lui, premier, i magistrati di secondo grado applicano la pena della "corruzione semplice" (non quella "aggravata" che invece inchioda Previti) e gli riconoscono le "attenuanti generiche". Grazie a queste, e alla nuove norme che nel frattempo hanno accorciato i tempi della prescrizione, il Cavaliere è riconosciuto a tutti gli effetti colpevole, ma non viene condannato perché il reato è ormai prescritto. Lo schema è sempre il solito. Ed è lo stesso che, attraverso l'abuso autoritario del potere esecutivo e l'uso gregario del potere legislativo, lo salva dalle sanzioni del potere giudiziario. È andata quasi sempre così: dal processo Sme-Ariosto a Mills, dal processo Mediatrade a All Iberian 1.

Di fronte a tutto questo, solo i teoreti bugiardi della Grande Menzogna possono gridare al "tentativo di annientamento totale" del Cavaliere ad opera delle toghe politicizzate. Sulla base di quelle sentenze penali, la giustizia civile non fa altro che il suo corso. I giudici della Cassazione non possono che ribadire solennemente le due evidenze che già decretarono quelli della Corte d'Appello due anni fa. Prima evidenza: Berlusconi è "il corruttore", perché è stato "indiscusso beneficiario delle trame illecite materialmente attuate da altri sodali", e Previti è l'ufficiale pagatore, perché "doveva ritenersi organicamente inserito nella struttura aziendale", al punto che tra le sue varie incombenze "rientravano anche l'attività di corruzione di alcuni magistrati". Seconda evidenza: la corruzione del giudice Metta ha privato De Benedetti non solo e "non tanto della chance di una sentenza favorevole, ma senz'altro della sentenza favorevole". La posta perduta dalla Cir, in altri termini. È stata molto più grande della "chance": è stata la Mondadori stessa, perché secondo la Corte "con Metta non corrotto l'impugnazione del lodo sarebbe stata respinta".

Questo passaggio, ormai "res iudicata", rende risibile l'ira di Marina Berlusconi, che tuona contro l'"autentico esproprio politico" e l'accanimento di "una certa magistratura" che "assieme al gruppo editoriale di Carlo De Benedetti, tentano di eliminare dalla scena politica" suo padre. La politica, in questa vicenda processuale come nelle tante altre che lo riguardano, non c'entra nulla. Il Cavaliere paga in denaro per i reati comuni che ha commesso quando era solo un imprenditore e l'epifania di Forza Italia era ancora di là da venire. Paradossalmente, Marina avrebbe quasi ragione quando sostiene che Fininvest non "deve un euro" alla Cir. Perché gli dovrebbe molto di più: cioè la Mondadori stessa, quella di allora, con tutto il potenziale economico e finanziario che rappresentava e avrebbe potuto rappresentare nell'arco di questi vent'anni. Un'occasione persa per sempre. Per questo, riafferma la Cassazione, il danno subito dalla Cir è "ingiusto".

Il sistema di potere e l'essenza del berlusconismo
Ma il Lodo Mondadori è solo un capitolo di una "narrazione" molto più vasta, e molto più inquietante. Come ha scritto Giuseppe D'Avanzo su "Repubblica" il 10 luglio 2011, questa vicenda giudiziaria, insieme a tutte le altre che lo hanno visto e lo vedono ancora coinvolto, riflette il rifiuto delle regole e il disprezzo della legge che il Cavaliere ha sempre dimostrato, da imprenditore illiberale e poi anche da leader di una destra anti-costituzionale. È lui il simbolo dell'Italia tangentara degli anni '80 e '90, e poi dell'Italia corrotta del nuovo millennio. Il meccanismo corruttivo è intrinseco alla gestione aziendale, ed è quasi consustanziale al raggiungimento dei risultati. Va al di là del solito principio secondo il quale il Cavaliere "non poteva non sapere". Scrive la Cassazione: "Un'analisi ricomposta dell'intera vicenda (costituzione della provvista all'estero ed utilizzo della stessa a fini corruttivi) consentiva di concludere in termini di consapevolezza necessaria di quanto andava accadendo in capo al dominus societario".

Qui, come sui diritti tv Mediaset, è sempre lui il "dominus", che architetta e sovrintende al sistema. E lo fa con una logica ferrea, che D'Avanzo ricostruiva ricordando la sentenza Mills, l'avvocato inglese che per conto e nell'interesse di Berlusconi e con il suo coinvolgimento diretto e personale crea e gestisce "64 società estere offshore del "group B very discret" della Fininvest", dove transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri. I 21 miliardi che hanno ricompensato Craxi per l'approvazione della legge Mammì. I 91 miliardi destinati a politici "ignoti" (che "costano molto perché è in discussione la legge Mammì"). E ancora il controllo illegale dell'86% di Telecinco. L'acquisto fittizio di azioni per conto di Leo Kirch. Le risorse destinate appunto da Previti per la corruzione di Metta nel Lodo Mondadori. Gli acquisti di azioni che in violazione delle regole favorirono le scalate a Standa e Rinascente. All'elenco di allora si potrebbero aggiungere ora i miliardi spesi nel frattempo per comprare i silenzi dei Tarantini e i Lavitola, spacciatori di olgettine nelle "cene eleganti" di Palazzo Grazioli e Villa Certosa, o per comprare i voti dei De Gregorio e altri "responsabili", congiurati necessari per far cadere il governo Prodi nel 2008.
Eccola, al fondo, la vera essenza del berlusconismo. Un potere che sfrutta senza scrupoli la sua funzione pubblica, con l'unico scopo di proteggere i suoi affari privati. Aspettiamo l'alba di un nuovo video-messaggio, per capire se lo Statista di Arcore farà saltare il tavolo. Ma intanto assistiamo basiti al suo ultimo, disperato travestimento: il ladro che si urla perché l'hanno "rapinato".

m. giannini@repubblica. it

(18 settembre 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #295 inserito:: Settembre 20, 2013, 05:04:44 pm »


Sedici minuti, sei bugie

di MASSIMO GIANNINI


Il video-messaggio di Berlusconi non è solo un concentrato di dolori personali e di rancori collettivi. Come sempre, i suoi sedici minuti di "discorso alla nazione" racchiudono anche una micidiale sequenza di falsità. Dalla ricostruzione delle sue vicende politiche alla "narrazione" delle sue vicissitudini giudiziarie, la menzogna domina la scena e scandisce il plot della fiction berlusconiana. La menzogna, ancora una volta, è "instrumentum regni" del Cavaliere, utile a sovvertire il senso e a generare il consenso.

Nel triste, solitario e finale comizio televisivo, registrato come nel 1994 nella location di Villa San Martino, si possono contare almeno sei bugie, che vanno dal bilancio della crisi economica al rilancio della "moderata" Forza Italia. Omissioni della realtà, manomissioni della verità: vale la pena di ripercorrerle una per una, con una esegesi testuale e contro-fattuale, per capire ancora una volta i meccanismi che fanno funzionare la "macchina" del potere berlusconiano.

1) La crisi economica senza precedenti
Dice il Cavaliere agli italiani: "Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere... Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo...".
Berlusconi parla come un passante, non come il presidente del Consiglio che solo dal 2001 ad oggi ha governato il Paese per ben otto anni. I risultati economici dei suoi due governi sono stati rovinosi. Lo dice Ignazio Visco, governatore della Banca d'Italia, nelle Considerazioni finali del maggio 2012 (il governo Berlusconi è caduto nel novembre 2011): "Le condizioni economiche si deteriorano da un anno. La produuzione industriale, che aveva a stento recuperato nel secondo trimestre dello scorso anno,... è da allora caduta del 5%. Il Pil è diminuito dalla scorsa estate per tre trimestri consecutivi, con una perdita complessiva di 1,5 punti percentuali. Il tasso di disoccupazione è salito, da luglio, da poco più dell'8 a quasi il 10%, fra i giovani con meno di 25 anni dal 28 al 36%". Quanto alle tasse, la pressione fiscale è sempre aumentata durante i governi del Cavaliere: dal 40,6 al 41,4% tra il 1994 e il 1996, dal 40,5 al 41,7% tra il 2001 e il 2006 e dal 42,7 al 44,8% tra il 2008 e il 2011.

2) La magistratura "contropotere irresponsabile"
L'attacco più veemente, come al solito, è contro le toghe: "Siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercè di una magistratura politicizzata che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità... si è trasformata da Ordine dello Stato in un Contropotere in grado di condizionare il potere legislativo e il potere esecutivo e si è data come missione quella di realizzare la via giudiziaria al socialismo".
A quali "fonti" abbia attinto il Cavaliere è un vero mistero. La Costituzione prevede che "i giudici rispondono soltanto alla legge" (articolo 101), che spettano al Csm "secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati (articolo 105), ma che "il ministro della Giustizia ha facoltà di promuovere l'azione disciplinare" e che il pm "gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario" (articolo 107). Com'è evidente, la magistratura è un "organo dello Stato", che gode di autonomia secondo il principio della separazione dei poteri, ma non della "totale irresponsabilità" lamentata dallo Statista di Arcore: risponde alle leggi, come avviene in tutti i "Paesi civili". Quanto al "Contropotere" che condiziona "il potere legislativo e il potere esecutivo", il Ventennio berlusconiano dimostra l'esatto contrario: con 18 leggi ad personam sulla giustizia su un totale di 37 fatte approvare a forza dal Parlamento, è stato Berlusconi a usare il potere esecutivo per imporre al legislativo un vincolo al giudiziario. Infine, la "missione di realizzare la via giudiziaria al socialismo" è un inedito assoluto del Cavaliere: qualche solerte azzeccagarbugli deve avergli spacciato come documento di Magistratura Democratica un vecchio dispaccio di Andrej Vishinsky, procuratore dell'Unione Sovietica degli anni '30.

3) La caduta del primo governo del 1994
Per sostenere la tesi del "complotto politico" e della "Guerra dei Vent'anni" dichiarata contro di lui dai giudici rossi, Berlusconi risale ai tempi di Mani Pulite, alla sua discesa in campo e al suo primo trionfo elettorale del '94: "Immediatamente, i Pm e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Md si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo".

È la famosa leggenda dell'avviso di garanzia recapitato all'allora premier dal Pool di Milano durante il vertice Onu sulla criminalità a Napoli. Fatto vero, che si verifica il 22 novembre 1994. in relazione all'inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza. Ma il primo governo del Polo non cade affatto per questo: si sfarina a causa della lotta fratricida sulla riforma Dini, che porta la Lega di Bossi a decidere il ribaltone e Berlusconi ad aprire la crisi il 22 dicembre, con un durissimo discorso alla Camera in cui accusa l'ex alleato Senatur di "rapina elettorale". Quanto all'esito di quel processo sulle tangenti alla Guardia di Finanza, non è vero che il Cavaliere viene "assolto, con formula piena, sette anni dopo". Intanto in quel processo, nel 2001, viene condannato Salvatore Sciascia, dirigente Fininvest, che le tangenti le ha pagate. Berlusconi viene assolto su tre capi d'imputazione, ma per un quarto se la cava grazie all'"insufficienza probatoria". Non solo: nella sentenza di condanna definitiva per David Mills la Cassazione accerta che l'avvocato inglese fu corrotto "per testimoniare il falso nel processo sulle tangenti alla Gdf", favorendo così l'assoluzione dell'ex premier.

4) Cinquanta processi, quarantuno assoluzioni
È un classico della vulgata berlusconiana: "Mi sono stati rovesciati addosso 50 processi che hanno infangato la mia immagine... ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di estromettermi dalla politica con una sentenza che è politica ed è mostruosa... sottraendomi da ultimo al mio giudice naturale, cioè a una delle sezioni ordinarie della Cassazione che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte...".

Il vero numero dei processi di Berlusconi non è 50, come dice ora, né meno che mai 106, come sparò nel novembre 2009. I suoi processi sono finora 18. Quelli conclusi sono 14 (di questi uno è una condanna definitiva per frode fiscale, quello sui diritti tv Mediaset, e solo un altro è un'assoluzione con formula piena; quanto al resto, 2 sono assoluzioni con "formula dubitativa", e 10 sono assoluzioni dovute all'effetto delle leggi ad personam, tra legge Cirielli sulla prescrizione e depenalizzazione del falso in bilancio). Quelli ancora in corso sono 4: due di questi si sono conclusi con una condanna in primo grado (nastri Unipol e Ruby 1) mentre per altri 2 il procedimento è solo agli inizi (Ruby 2 e compravendita dei senatori a Napoli). Quanto alla condanna definitiva sui diritti tv Mediaset, la sentenza non è politica, poiché si riferisce a fatti che precedono la discesa in campo, e non c'è stata alcuna sottrazione al "giudice naturale": l'assegnazione alla "Sezione feriale" della Cassazione, invece che alle sezioni seconda e terza, rientra nella normale applicazione della legge e della prassi. La procedura d'urgenza nella discussione delle cause è prevista dall'articolo 169 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale e dal "decreto organizzativo" varato dalla stessa Corte nel 2012.

5) L'evasione inesistente sui diritti tv
Sulla condanna nel processo Mediaset il Cavaliere si difende così: "Sono riusciti a condannarmi per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola... Io non ho commesso alcun reato, io sono assolutamente innocente...".

L'evasione fiscale, con la quale il gruppo Mediaset ha creato fondi neri necessari al pagamento di tangenti, non è affatto "inesistente". Secondo i giudici, che l'hanno confermato in tre gradi di giudizio, la frode fiscale effettivamente sanzionata si riferisce al biennio 2002/2003, ed ammonta a 7 milioni di euro. Ma quella originariamente contestata era pari a 370 milioni di dollari, perché risaliva indietro fino agli anni '80. Se questa imputazione è caduta è solo grazie, ancora una volta, alle leggi ad personam, che hanno fatto cadere le accuse di appropriazione indebita e di falso in bilancio. Ma la frode fiscale, ormai, è "res iudicata". Se questo è un innocente.

6) Forza Italia partito della tolleranza
Il mesto finale da Caimano attinge all'antico repertorio azzurro: "Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita e della famiglia, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari...".

Sul "valore della famiglia" come caposaldo etico-morale dei valori forzisti, la sentenza di condanna in primo grado per prostituzione minorile patita dal Cavaliere per la vicenda di Ruby, la "nipote di Mubarak", sembra raccontare tutt'altra storia. E non si tratta di intrusione nella vita privata, ma del dovere di un uomo pubblico di rendere conto dei propri comportamenti, soprattutto quando questi rivelano l'abuso e la dismisura. Sulla "tolleranza verso gli avversari", a parte la sterminata letteratura sui "comunisti che coltivano l'odio e l'invidia sociale" e i numerosi "editti" emessi per cacciare dalla Rai i vari Biagi, Santoro e Luttazzi, fa fede una frase memorabile che proprio Berlusconi pronunciò il 6 aprile 2006, all'assemblea di Confcommercio: "Non credo che ci siano in giro così tanti coglioni che votano per la sinistra...". Questo perché, oggi come allora, Forza Italia è "il partito dei moderati". L'eterno ritorno. O, forse, l'eterno riposo.

m.giannini@repubblica.it

(19 settembre 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #296 inserito:: Settembre 22, 2013, 04:35:37 pm »


La corruzione come metodo

di MASSIMO GIANNINI



I bardi della corte di Arcore, ancora una volta, la sparano grossa. Gridano al "golpe rosso", all'"attacco concentrico", all'"esproprio proletario". Molto più banalmente, depurate dal falso ideologico e politico al quale ci ha abituato la propaganda populista e vittimista del quasi Ventennio berlusconiano, le motivazioni della Cassazione sul Lodo Mondadori sono solo l'ovvia conseguenza civilistica di una verità giudiziale ormai acquisita. Una verità definitiva, al di là di ogni ragionevole dubbio, che a questo punto diventa anche storica. Una verità che sveste il Sovrano di tutti i suoi finti orpelli e i suoi falsi scudi. E lo espone, nudo, di fronte alla legge e al Paese.

Cos'altro deve accadere, perché si debbano considerare vere e non più contestabili le accuse provate in ben sei gradi di giudizio, e infine sanzionate con una condanna dalla Corte d'appello di Milano il 9 luglio 2011? A cos'altro ci si può appigliare, per contestare quella sentenza esemplare in cui ora la Cassazione, trova come unico e paradossale "difetto" quello di essere "fin troppo analiticamente argomentata"? Eppure non basta, ai falchi e alle colombe del Pdl che insieme ai familiari difendono il Capo, in una rituale confusione di ruoli in cui come sempre il partito si fa azienda e l'azienda si fa partito.

I giudici di allora, come quelli di oggi, hanno scritto e ampiamente dimostrato due dati di fatto oggettivi, e non più controvertibili. Il primo: nella contesa che nel 1991 portò il gruppo Mondadori nelle mani del Cavaliere si produsse un episodio gravissimo di corruzione di magistrati, di cui Berlusconi fu l'ideatore iniziale e Previti l'esecutore materiale. Il secondo: se quel reato corruttivo non si fosse verificato, la casa editrice di Segrate sarebbe rimasta a pieno diritto nella proprietà del gruppo De Benedetti (editore di questo giornale).
Basterebbe questo a dare la misura dell'enorme responsabilità penale che, nella vicenda specifica, grava sulle spalle della sedicente "vittima" del "complotto" e giustifica il risarcimento danni cui è adesso costretto. Ma qui c'è molto di più. Nelle carte del Lodo Mondadori come in quelle delle altre sentenze passate in giudicato (da All Iberian ai diritti tv Mediaset) c'è riassunto lo stigma dell'intera parabola berlusconiana, e insieme il paradigma della sua avventura imprenditoriale e politica. Un vero e proprio "metodo di governance" (e poi anche di governo), che risale a molti anni prima dell'epica "discesa in campo" del '94 ed è in buona parte alla base delle fortune iniziali del tycoon della televisione commerciale, fin dai tempi dei primi decreti "ad aziendam" varati dall'amico Craxi negli anni '80. Un "sistema di potere" collaudato, in cui gli affari privati si mescolano agli interessi pubblici. Gli strumenti della mala-finanza sono usati per assicurarsi i buoni uffici della mala-giustizia. Il Cavaliere evade il fisco, crea fondi neri, realizza falsi in bilancio. Tutto serve per alimentare una "provvista" segreta, con la quale si comprano magistrati compiacenti e finanzieri renitenti, e poi anche faccendieri senza scrupoli e parlamentari senza vergogna.

La Guerra di Segrate e il "dominus" della corruzione
Nella guerra di Segrate "l'apparato corruttivo" berlusconiano dispiega tutta la sua geometrica potenza. All'inizio degli anni '90 la contesa tra due industriali per il possesso della Mondadori volge a favore di De Benedetti, dopo che un collegio di arbitri gli assegna la titolarità della maggioranza delle azioni della casa editrice. Berlusconi impugna il Lodo davanti alla Corte d'Appello di Roma. E qui, nel "porto delle nebbie" della Capitale, accade il misfatto. Il giudice relatore Vittorio Metta deposita una sentenza di 167 pagine (scritta non da lui ma da "ignoti", pare nello studio Previti) che sovverte il Lodo e riassegna la Mondadori al Cavaliere. Si scoprirà poi, più di dieci anni dopo, che quella sentenza Berlusconi l'ha comprata, facendo depositare 400 milioni di lire sul conto di Metta, attraverso i buoni uffici di Previti. Anche questa è una verità giudiziale, scritta in una sentenza passata in giudicato, dopo le pronunce della Corte d'Appello di Milano del 23 febbraio 2007 e della Cassazione il 13 luglio dello stesso anno.

Quella condanna penale costa la galera a Previti e agli avvocati Acampora e Pacifico. Berlusconi si salva solo perché, nel frattempo, è già diventato presidente del Consiglio nel 2001, e ha fatto approvare dal Parlamento un paio di leggi che gli servono a salvare la faccia e la poltrona. A lui, premier, i magistrati di secondo grado applicano la pena della "corruzione semplice" (non quella "aggravata" che invece inchioda Previti) e gli riconoscono le "attenuanti generiche". Grazie a queste, e alla nuove norme che nel frattempo hanno accorciato i tempi della prescrizione, il Cavaliere è riconosciuto a tutti gli effetti colpevole, ma non viene condannato perché il reato è ormai prescritto. Lo schema è sempre il solito. Ed è lo stesso che, attraverso l'abuso autoritario del potere esecutivo e l'uso gregario del potere legislativo, lo salva dalle sanzioni del potere giudiziario. È andata quasi sempre così: dal processo Sme-Ariosto a Mills, dal processo Mediatrade a All Iberian 1.

Di fronte a tutto questo, solo i teoreti bugiardi della Grande Menzogna possono gridare al "tentativo di annientamento totale" del Cavaliere ad opera delle toghe politicizzate. Sulla base di quelle sentenze penali, la giustizia civile non fa altro che il suo corso. I giudici della Cassazione non possono che ribadire solennemente le due evidenze che già decretarono quelli della Corte d'Appello due anni fa. Prima evidenza: Berlusconi è "il corruttore", perché è stato "indiscusso beneficiario delle trame illecite materialmente attuate da altri sodali", e Previti è l'ufficiale pagatore, perché "doveva ritenersi organicamente inserito nella struttura aziendale", al punto che tra le sue varie incombenze "rientravano anche l'attività di corruzione di alcuni magistrati". Seconda evidenza: la corruzione del giudice Metta ha privato De Benedetti non solo e "non tanto della chance di una sentenza favorevole, ma senz'altro della sentenza favorevole". La posta perduta dalla Cir, in altri termini. È stata molto più grande della "chance": è stata la Mondadori stessa, perché secondo la Corte "con Metta non corrotto l'impugnazione del lodo sarebbe stata respinta".

Questo passaggio, ormai "res iudicata", rende risibile l'ira di Marina Berlusconi, che tuona contro l'"autentico esproprio politico" e l'accanimento di "una certa magistratura" che "assieme al gruppo editoriale di Carlo De Benedetti, tentano di eliminare dalla scena politica" suo padre. La politica, in questa vicenda processuale come nelle tante altre che lo riguardano, non c'entra nulla. Il Cavaliere paga in denaro per i reati comuni che ha commesso quando era solo un imprenditore e l'epifania di Forza Italia era ancora di là da venire. Paradossalmente, Marina avrebbe quasi ragione quando sostiene che Fininvest non "deve un euro" alla Cir. Perché gli dovrebbe molto di più: cioè la Mondadori stessa, quella di allora, con tutto il potenziale economico e finanziario che rappresentava e avrebbe potuto rappresentare nell'arco di questi vent'anni. Un'occasione persa per sempre. Per questo, riafferma la Cassazione, il danno subito dalla Cir è "ingiusto".

Il sistema di potere e l'essenza del berlusconismo
Ma il Lodo Mondadori è solo un capitolo di una "narrazione" molto più vasta, e molto più inquietante. Come ha scritto Giuseppe D'Avanzo su "Repubblica" il 10 luglio 2011, questa vicenda giudiziaria, insieme a tutte le altre che lo hanno visto e lo vedono ancora coinvolto, riflette il rifiuto delle regole e il disprezzo della legge che il Cavaliere ha sempre dimostrato, da imprenditore illiberale e poi anche da leader di una destra anti-costituzionale. È lui il simbolo dell'Italia tangentara degli anni '80 e '90, e poi dell'Italia corrotta del nuovo millennio. Il meccanismo corruttivo è intrinseco alla gestione aziendale, ed è quasi consustanziale al raggiungimento dei risultati. Va al di là del solito principio secondo il quale il Cavaliere "non poteva non sapere". Scrive la Cassazione: "Un'analisi ricomposta dell'intera vicenda (costituzione della provvista all'estero ed utilizzo della stessa a fini corruttivi) consentiva di concludere in termini di consapevolezza necessaria di quanto andava accadendo in capo al dominus societario".

Qui, come sui diritti tv Mediaset, è sempre lui il "dominus", che architetta e sovrintende al sistema. E lo fa con una logica ferrea, che D'Avanzo ricostruiva ricordando la sentenza Mills, l'avvocato inglese che per conto e nell'interesse di Berlusconi e con il suo coinvolgimento diretto e personale crea e gestisce "64 società estere offshore del "group B very discret" della Fininvest", dove transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri. I 21 miliardi che hanno ricompensato Craxi per l'approvazione della legge Mammì. I 91 miliardi destinati a politici "ignoti" (che "costano molto perché è in discussione la legge Mammì"). E ancora il controllo illegale dell'86% di Telecinco. L'acquisto fittizio di azioni per conto di Leo Kirch. Le risorse destinate appunto da Previti per la corruzione di Metta nel Lodo Mondadori. Gli acquisti di azioni che in violazione delle regole favorirono le scalate a Standa e Rinascente. All'elenco di allora si potrebbero aggiungere ora i miliardi spesi nel frattempo per comprare i silenzi dei Tarantini e i Lavitola, spacciatori di olgettine nelle "cene eleganti" di Palazzo Grazioli e Villa Certosa, o per comprare i voti dei De Gregorio e altri "responsabili", congiurati necessari per far cadere il governo Prodi nel 2008.
Eccola, al fondo, la vera essenza del berlusconismo. Un potere che sfrutta senza scrupoli la sua funzione pubblica, con l'unico scopo di proteggere i suoi affari privati. Aspettiamo l'alba di un nuovo video-messaggio, per capire se lo Statista di Arcore farà saltare il tavolo. Ma intanto assistiamo basiti al suo ultimo, disperato travestimento: il ladro che si urla perché l'hanno "rapinato".

m. giannini@repubblica. it

(18 settembre 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #297 inserito:: Settembre 27, 2013, 07:45:08 pm »

La ballata dei poteri morti

di MASSIMO GIANNINI


Nella grandiosa svendita di fine stagione che si sta consumando su Telecom non si salva nessuno. Al dolo di un capitalismo indecente, che scappa col malloppo e lucra i suoi ultimi affarucci sulla pelle di utenti, risparmiatori e lavoratori, si somma la colpa di una politica impotente, che piange le solite lacrime di coccodrillo sul latte già versato. All'inconcludenza dei controllori, che assistono silenti alle nefandezze di un "mercato" sospeso tra Far West e parco buoi, si somma l'impudenza dei manager, che bruciano risorse umane e finanziarie senza mai pagare dazio ma facendosi pagare bunus milionari. È agghiacciante scoprire che una delle ultime grandi aziende del Paese, per quanto fiaccata dalla concorrenza e schiantata dai debiti, possa passare di mano dall'oggi al domani senza che nessuno abbia saputo o abbia visto alcunché. Non sapeva niente il presidente del Consiglio Letta, che adesso promette la sua tardiva "vigilanza". Non sapeva niente il presidente di Telecom Bernabè, che dichiara addirittura di aver appreso la notizia del blitz spagnolo dai comunicati stampa.

Non sapeva niente la Consob, che annuncia di aver acceso il solito "faro", dopo quelli già inutilmente puntati su Fonsai o Mps, utili solo a far lievitare la bolletta energetica pagata all'Enel. Non sapeva niente il Parlamento, che adesso leva alti e vacui lai, danzando mestamente intorno al polveroso totem dell'"italianità" e invocando platealmente la difesa della "sicurezza nazionale".

Tutti bugiardi. Perché tutti sapevano tutto, da mesi se non addirittura da anni. Non c'è fine più annunciata di quella che sta per portare Telecom nelle braccia di Telefonica. Sui quotidiani e sui settimanali, negli ambienti politici e in quelli borsistici, il dramma dell'ex colosso tricolore è all'ordine del giorno da tempo. E l'opzione spagnola era già quasi scontata dal 2007, quando Telefonica fu imbarcata dentro la holding di controllo Telco, spacciata come "operazione di sistema" dagli improbabili architetti di Mediobanca, Generali e Banca Intesa.

Per scongiurarla, i soci "eccellenti" dell'ex Salotto Buono avrebbero dovuto avere in tasca i miliardi necessari ad una robusta iniezione di capitali freschi. I manager avrebbero dovuto avere in testa un piano di sviluppo del business telefonico e delle alleanze globali. I politici avrebbero dovuto avere in mano un progetto di politica industriale degna della quinta potenza del pianeta.

E invece, dopo la spoliazione della Stet successiva alla "madre di tutte le privatizzazioni", la truffa dei nocciolini duri perpetrata dalle nobili casate sabaude pronte a controllare le aziende con una fiche di pochi spiccioli, il saccheggio realizzato dalla squadra tronchettiana, non c'è stato quasi più nulla. Solo la prosecuzione della razzia con altri mezzi: dal 2007 ad oggi, nella cinica accidia della comunità finanziaria e politica, Telecom ha subito un ulteriore drenaggio di risorse per circa 24 miliardi. A chi millantano la loro meraviglia e la loro indignazione, oggi, i controllanti e i controllati?

A giugno Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, a chi gli chiedeva lumi sul destino di Telecom annunciava già che a settembre ci sarebbe stato lo "show down". Solo due settimane fa Bernabè, a chi andava a trovarlo nel quartier generale di Corso d'Italia, spiegava che "la situazione patrimoniale di Telecom, tra debiti e goodwill, è tremenda" e che "gli azionisti erano informati". E da mesi i queruli esponenti di partito discettano a vanvera sullo scorporo della rete, sognando un'altra Iri custodita nei forzieri della Cassa depositi e prestiti. Ripescando e riabilitando post mortem il dossier del povero Angelo Rovati, crocifisso senza pietà ai tempi del governo Prodi per aver prospettato un "disegno criminale", oggi considerato geniale.

Dunque su Telecom (come su Alitalia, su Parmalat, su Ligresti e presto chissà forse anche su Enel o su Finmeccanica) non si celebra la saga dei Poteri Forti, ma la ballata dei Poteri Morti. Questo è ciò che resta del famoso "capitalismo di relazione" (e in qualche caso "di corruzione"). Capace di regalare la telefonia italiana a un indebitatissimo Cesar Alierta per un piatto di lenticchie. Di consentire agli spagnoli di portarsi via l'intera posta senza fare l'Opa, senza far arrivare neanche un euro nelle casse svuotate di Telecom e nei portafogli delusi di una Borsa trattata come una bisca. E questo è ciò che resta dell'establishment economico e dell'élite finanziaria. Mosche del capitale, che succhiano i loro ultimi dividendi sulle spoglie delle aziende e di chi ci lavora.

Ma questo declino, per quanto terribile, non è un destino. Questa operazione può ancora essere fermata, se c'è ancora in giro un po' di buon senso e buon gusto. E non perché si deve rispettare l'italianità: un mantra demagogico, auto-assolutorio e di per sé anti-moderno, da non cavalcare a priori perché i buoni affari non hanno passaporto. Almeno per questo, si può immaginare l'imbarazzo del premier, che dovrebbe gridare "non passi lo straniero" nelle stesse ore in cui è a New York per promuovere il Made in Italy e per convincere le multinazionali a investire in Italia. Questa operazione va fermata perché è rovinosa per il sistema industriale e dannosa per il mercato finanziario.

Telefonica prenderà il controllo di Telecom senza consolidare il suo debito. Lascerà che siano gli altri, nel frattempo, a fare il "lavoro sporco". Cioè smembrando l'azienda e avviando uno spezzatino selvaggio, attraverso il sacrificio della attività più redditizie in Brasile e in Argentina, mercati dove il gruppo italiano dava fastidio a Telefonica perché competeva alla pari sul mobile. Alla fine delle tre tappe fissate dall'operazione, Alierta ingoierà Telco, finalmente alleggerita dai debiti. Il tutto avverrà a un prezzo di 1,09 euro ad azione, di cui beneficeranno solo i "compagnucci della parrocchietta" milanese, messa in piedi dalla Galassia del Nord sei anni fa. Il 78% degli altri azionisti, comuni mortali che hanno comprato in Borsa, non vedranno un centesimo.

Questo è il doppio scempio che va impedito. Può farlo il governo, accelerando il varo del decreto attuativo che estende anche alle telecomunicazioni la nuova "golden power", lo strumento che sostituisce la vecchia golden share e che conferisce al Tesoro il diritto di vincolare con una quota minoritaria, ma dotata di poteri speciali, la governance di aziende "strategiche". C'è tempo per farlo, prima che Telefonica perfezioni il delitto perfetto. E per mettere almeno al sicuro la rete, garantendone la crescita in una prospettiva coerente con l'investimento sulla banda larga e sull'Agenda digitale. Può farlo la Consob, se nel frattempo il Parlamento avrà la forza e il coraggio di correggere la legge sull'Opa riducendo, o congegnando in modo diverso, la soglia di controllo del 30% sopra la quale scatta l'obbligo di lanciare un'offerta pubblica d'acquisto.

Ci vorrebbe un soprassalto di dignità. Un sussulto di responsabilità. In una formula trita, ma ancora efficace: ci vorrebbe un Sistema Paese. È difficile crederci. Ma non tutto è perduto, in questa Italia a saldo e alla mercé dei Poteri Morti. Tranne l'onore.

m.giannini@repubblica.it

(26 settembre 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #298 inserito:: Ottobre 06, 2013, 12:19:04 am »

Fine Corsa
di MASSIMO GIANNINI

Non c'è una ragione al mondo, se non il sonno della ragione stessa che ormai acceca il Cavaliere, per definire il voto della Giunta del Senato "un colpo al cuore della democrazia". La decadenza di Silvio Berlusconi, decisa a maggioranza a Palazzo Madama, è l'esatto contrario: l'affermazione di un principio che fa vivere la democrazia. L'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, come ricorda la nostra Costituzione. Il rispetto di una sentenza definitiva di cui non si deve solo "prendere atto", ma che si deve soprattutto "applicare", come ricorda il capo dello Stato nella sua nota del 13 agosto. È vero: quello della Giunta è un voto annunciato. Ma non perché questo organismo istituzionale, come recitano le bugiarde geremiadi berlusconiane, sia stato proditoriamente trasformato in un "plotone d'esecuzione", o sia stato inopinatamente animato dal "fumo" della persecuzione.

È un voto annunciato perché così prescrive una legge dello Stato, approvata con il solenne consenso del Pdl durante il governo Monti, e considerata a tutti gli effetti "perfettamente costituzionale" dalla sua stessa firmataria, la ex Guardasigilli Severino. Quella legge stabilisce in automatico l'incandidabilità e la decadenza dalle cariche elettive per chiunque abbia riportato una condanna definitiva con pene superiori ai due anni di reclusione. Il Cavaliere è stato condannato a quattro anni nel processo sui diritti tv Mediaset in tutti e tre i gradi di giudizio, per un reato grave come la frode fiscale finalizzata alla creazione di fondi neri dai quali attingere per pagare tangenti. Per questo la Giunta del Senato non può che prendere atto, e decidere di conseguenza: il Cavaliere decade, ed è incandidabile.

In un Paese normale e occidentale tutto finirebbe qui. Non ci sarebbe scandalo politico-istituzionale, se non quello di un leader che si ostina a sfuggire al suo giudice e al suo "giudicato". Non ci sarebbe "attentato allo stato di diritto", se non quello perpetrato nel Ventennio dello Statista di Arcore a colpi di leggi "ad personam" e "ad aziendam". Ma l'Italia è ormai "altro", non solo dal mondo normale ma a volte persino dal canone occidentale. Così, in vista del voto dell'aula del Senato che dopo la Giunta dovrà ratificare in via definitiva la decadenza di Berlusconi, infuriano la consueta canea contro le istituzioni, la rituale minaccia alle toghe, la solita aggressione preventiva contro gli organi di garanzia. E per un giorno, in nome della "lesa maestà" del Sovrano e dello scempio arrecato alla sua sacra figura, tutti si ritrovano a corte. Lealisti e complottisti. Eternamente berlusconiani e diversamente berlusconiani.

Non stupisce, ora, che sfascisti impenitenti e moderati sedicenti urlino insieme, ancora una volta, all'"assassinio politico". La svolta del 2 ottobre c'è stata, ed è stata a suo modo storica. Per la prima volta dall'epifanica discesa in campo del 1994 il capo assoluto e carismatico del Pdl è stato messo in minoranza, e costretto a una clamorosa ritirata. Per la prima volta la sua anomala "creatura" politica, artificiale e personale, ha somigliato un po' più a un partito e un po' meno ad un'azienda. Ma per quanto drammatica, la disfatta sulla fiducia al governo Letta non è ancora il 25 luglio del Cavaliere. E per quanto coraggioso, lo strappo di Alfano non è ancora l'ordine del giorno Grandi. La destra italiana è entrata in una terra incognita. Forse già non più berlusconiana, ma certo non ancora post-berlusconiana. Una terra in cui la faglia di un estremismo urlato ed esibito incrocia ancora quella di un moderatismo vagheggiato ma inibito. La rottura "governista" imposta dalle colombe si è consumata intorno a un atto che poteva essere davvero "fondativo", ma che al momento non lo è e non promette di esserlo.

Ha ragione chi si aspetta che il prossimo passo dell'ala ministeriale dei pentiti di Forza Italia sia la formazione dei gruppi parlamentari autonomi. E ha ragione Dario Franceschini, quando sostiene che se il Pdl non si spacca sarà stata tutta una "finzione" dal chiaro sapore doroteo. Come insegna la storia migliore e purtroppo minoritaria della Dc, la "moderazione" è una cultura politica e dunque una pratica, non una semplice estetica. Ammesso che esistano davvero, misureremo i "diversamente berlusconiani" dai prossimi passaggi della legislatura. A cominciare proprio dal voto dell'assemblea di Palazzo Madama sulla decadenza. Ma certo non lascia ben sperare uno Schifani che rilancia la sfida al Pd e a Scelta Civica, chiedendo per quel voto, ancora una volta, un "sussulto di responsabilità". Ci manca solo un nuovo attacco frontale a Giorgio Napolitano, e poi torniamo al copione di sempre, che cancella con un colpo solo la "rivoluzione" del 2 ottobre.

Di fronte ai tormenti della destra, il centrosinistra deve avere senz'altro un "sussulto di responsabilità", ma in tutt'altro senso. Il Pd si è miracolosamente riscoperto unito intorno alla "linea della fermezza", proprio sulla decadenza del Cavaliere. Per quella via, la via del costituzionalismo e del principio di legalità, ha riattivato la connessione con buona parte del suo elettorato deluso da tanta, troppa "intelligenza col nemico". Si tratta di non smarrire quella via, e di non cadere nelle trappole ordite da un Movimento 5Stelle sempre più impresentabile e sempre più irriducibile alle logiche di una politica che vuol provare a costruire qualcosa, e non si limita a distruggere tutto. Il comportamento di Vito Crimi che in Giunta "posta" i suoi insulti a Berlusconi dice tutto: è sconcertante sul piano istituzionale, perché tratta una delicata seduta in Commissione come una truce assemblea di condominio, ed è ributtante sul piano umano, perché svilisce la dignità della lotta politica alla gratuità dell'offesa personale.

Per il Pd, ancora, si tratta di non prestare il fianco alle tribali divisioni che hanno devastato l'assemblea di due settimane fa. Si tratta di non lacerarsi tra le pastoie neo-centriste coltivate intorno alla figura di Letta e le scorciatoie movimentiste ritagliate sul profilo di Renzi. Si tratta insomma di non aprire un congresso permanente, e anticipato, sulla pelle del Paese. Sarebbe un favore enorme, regalato ancora una volta a un Berlusconi che a questo punto non ha davvero più nient'altro da aspettare. Comunque andranno le cose, nell'aula del Senato e nelle aule dei tribunali, la sua parabola politica volge ormai al termine. C'è solo da accompagnarlo, senza inutili vendette ideologiche, negli archivi della Repubblica.

5 ottobre 2013
Da – repubblica.it
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« Risposta #299 inserito:: Ottobre 16, 2013, 05:03:10 pm »


Legge stabilità, né stangata né frustata

di MASSIMO GIANNINI
16 ottobre 2013

La prima legge di stabilità della Grande Coalizione all'italiana riflette i limiti della strana maggioranza che l'ha prodotta. Non si può giudicare rivoluzionaria: non aggredisce il Leviatano della spesa pubblica improduttiva e non aziona le leve di un'economia competitiva. Ma non si può neanche definire rinunciataria: azzarda qualche timido tentativo di introdurre politiche redistributive senza alimentare ulteriori dinamiche recessive. Il risultato è una manovra di mantenimento. O di galleggiamento, secondo i punti di vista.

Ci mette "al sicuro con l'Europa" (e questo il premier Letta fa bene a rivendicarlo). Ma non "ci porta fuori dalla recessione" (e questo il ministro Saccomanni esagera a sottolinearlo). Con questo pacchetto di misure da 11,5 miliardi non abbandoniamo il sentiero stretto del rigore, perché con un debito pubblico che viaggia al 135% nei prossimi tre anni non possiamo permettercelo. Ma non imbocchiamo la via larga dello sviluppo, perché con una caduta di Pil del 9% negli ultimi cinque anni servirebbe tutt'altro coraggio. La Finanziaria delle Larghe Intese brilla soprattutto per quello che non c'è (cioè i malefici che evita) piuttosto che per quello che c'è (cioè i benefici che porta).

Non c'è la temuta "stangata" sulla sanità, e di questo va dato atto al presidente del Consiglio che se ne intesta il merito. Un salasso di 4 miliardi di tagli ulteriori sarebbe stato obiettivamente insostenibile. Questa è una voce del Welfare in cui si spende malissimo ma non tantissimo (9,3% del Pil in Italia, contro il 12% dei Paesi Bassi o l'11,6% di Francia e Germania), e in cui l'ideologismo dei tagli lineari decisi negli ultimi dieci anni dai governi Berlusconi-Tremonti ha fatto danni incalcolabili (come del resto è accaduto anche sull'istruzione e la ricerca). Ma aver evitato questo ennesimo atto di macelleria sociale non basta a "qualificare" la manovra.

Si coglie qua e là una ricerca di soddisfare il bisogno crescente di equità che monta nel Paese. Ma è quasi rabdomantica, e in alcuni casi contraddittoria. Anche qui, pesano chiaramente le diverse costituency politico-elettorali dei partiti di governo, che frappongono veti incrociati e giustappongono richieste. Senza elaborare una sintesi avanzata, senza enucleare una priorità definita. L'esempio più lampante è la seconda rata dell'Imu: quest'anno non la verseremo perché così ha preteso il Cavaliere nel "patto costitutivo" del governo, ma l'anno prossimo la pagheremo con gli interessi. Cambierà solo il nome, ma non la sostanza: si chiamerà "Trise", e costerà in media 370 euro a famiglia. Un altro esempio è la tassazione del capitale: manca la forza di ripensare in modo definitivo la struttura squilibrata del prelievo sulle rendite finanziarie (tuttora colpite con aliquote pari alla metà esatta di quelle che gravano sul lavoro). Ma si supplisce con l'ulteriore inasprimento della "patrimonialina " sui bolli del deposito titoli.

Manca la determinazione di rimodulare il perimetro dello Stato sociale, allargandolo dove serve e restringendolo dove si può, ma si concede qualche risorsa aggiuntiva al Fondo dei non autosufficienti, alla Social card e alla cassa integrazione in deroga. Manca la fantasia di strutturare una fiscalità di vantaggio per i nuclei familiari, ma si prolungano gli eco-bonus sull'energia e sulle ristrutturazioni immobiliari. Si introduce un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte, ma si impongono nuovi sacrifici al pubblico impiego, sul quale non si interviene con una riforma radicale volta a un vero recupero di efficienza (come ci sarebbe un disperato bisogno), ma con un altro giro di vite sui rinnovi contrattuali e sulle prestazioni straordinarie (come nella peggiore tradizione forzaleghista).

Il risultato di questa complessa alchimia politico-finanziaria ha almeno il pregio di non essere una "mannaia" sulla testa dei contribuenti. Su questo non si può dare torto a Letta. Ma se non c'è la stangata, appunto, purtroppo non c'è neanche la "frustata". Gli stimoli allo sviluppo si intuiscono, ma sono obiettivamente modesti. "Pagheremo meno tasse", dicono in coro premier e vicepremier. Ma non ce ne accorgeremo, se lo sgravio si sostanzia in un calo della pressione tributaria di meno di un punto di Pil nel prossimo triennio. E qui c'è il limite più serio di questa manovra. La grande operazione di abbattimento del cuneo fiscale è deludente. E ancora una volta, nell'affannosa mediazione tra le pressioni dei sindacati e le pretese di Confindustria, non vince nessuno, e rischiano di perdere tutti.

Il taglio vale sì 10 miliardi, diviso tra imprese e lavoratori, com'era stato annunciato. Ma sarà spalmato sull'arco dei tre anni. Questo vuol dire che in una busta paga da 15 mila euro di reddito medio, per il 2014, arriveranno  poco più di 100 euro di aumento delle detrazioni all'anno. Meno di 10 euro al mese. Il costo di una napoletana in pizzeria, o di dieci cappuccini al bar. La stessa cosa vale per gli sgravi Irap sui neo-assunti a beneficio delle imprese, che varranno 15 mila euro l'anno per ogni nuovo contratto stabilizzato. Alla fine prevale la stessa logica, falsamente egualitaria, che condannò l'operazione sul cuneo fiscale compiuta dal governo Prodi nel 2006/2008. Meglio di niente, ma non generò un solo centesimo di punto in più di prodotto lordo. Non è così che si sostengono i consumi e si rilanciano gli investimenti.

Questa è la vera occasione mancata. Anche per un esecutivo "anomalo" come quello di Letta e Alfano. Ma era inutile illudersi troppo. Nelle condizioni date, mai come questa volta l'obiettivo della legge è quello di garantire ciò che recita il suo "titolo": la stabilità. Probabilmente non più de-crescita, ma certamente non ancora crescita. Solo stabilità. Stabilità dei conti pubblici, che in questo momento è specchio e garanzia degli equilibri politici. Tutto questo soddisferà i "governisti" dei due poli. Piacerà alla matrigna Europa, e forse anche ai mercati tiranni. Per carità, non è poco. Ma agli italiani serve molto di più.
m.giannini@repubblica.it

16 ottobre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/10/16/news/legge_stabilita_commento_giannini-68697144/
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