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La legge russo-georgiana

di Enrico Mario Storchi

Attualità & Politica IMMODERATI Opinione

17/05/2024

    Tempi difficili per la Georgia, il piccolo Stato post-sovietico della Transcaucasia. Sin da fine aprile nella capitale del Paese, Tbilisi, sono in corso grandi proteste e manifestazioni di piazza contro la proposta di legge sugli «agenti stranieri». La proposta, che martedì è stata definitivamente approvata dal Parlamento, ricalca quasi alla perfezione una legge russa approvata nel 2012 dal Governo allora presieduto da, tanto per cambiare, Vladimir Putin.

Fonte: Flickr

La legge, come quella russa, obbligherebbe ogni media e ONG georgiano a registrarsi come «entità che persegue gli interessi di una potenza straniera» nel caso riceva più del 20% dei suoi finanziamenti dall’estero. Fin qui, niente di inaudito: in molti Paesi, Stati Uniti d’America inclusi, esistono leggi che vigilano sulle attività di ONG estere che operano nel Paese. È comprensibile che un Paese sovrano voglia conoscere le attività di queste organizzazioni. Il FARA (Foreign Agents Registration Act), creato nel 1938 negli USA per contrastare la propaganda nazista negli States, è ancora in vigore ma si concentra solo sulle attività di lobbying e non si applica ad associazioni umanitarie e/o religiose[1]. Il “precedente” della legge statunitense è molto utilizzato dai sostenitori della proposta di legge georgiana; in un leitmotiv già noto anche in Italia sin dall’inizio della guerra in Ucraina, ogni legge autoritaria viene giustificata cercando precedenti “ipocriti” nel mondo occidentale che si professa liberale e democratico. Peccato che questo ragionamento, nel caso della legge georgiana, non stia in piedi.

In primo luogo la legge statunitense non riguarda le organizzazioni umanitarie, mentre queste ultime, nel caso georgiano, sarebbero anch’esse oggetto di indagini. Quindi, mentre il FARA persegue criminali, corrotti e terroristi, la legge georgiana perseguirebbe anche individui che operano in ONG umanitarie. Organizzazioni con fini scientifici, religiosi, artistici e persino avvocati sono considerati, dalla legge georgiana, «agenti stranieri».

L’altra grande differenza risiede nel contesto storico: mentre la legge statunitense venne creata nel 1938 per combattere la propaganda nazista, quella georgiana considera come nemici del Paese l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Un fatto alquanto curioso dato che proprio l’UE e gli USA sono stati, in questi trent’anni di indipendenza georgiana dall’ex URSS, i principali sostenitori economici del Paese, il quale ha visto innalzare la qualità della vita dei propri cittadini in modo esponenziale. Vi è inoltre una grande differenza sui criteri adottati per definire una persona, o un’organizzazione, un «agente straniero»: mentre negli USA vi è bisogno della prova che la persona sia «under the control of, or acts at the direction of, a foreign power[2]», quindi sotto diretto controllo di una potenza straniera, in Georgia basterà ricevere più del 20% dei fondi dall’estero per essere considerato «agente straniero». Se un lavoratore georgiano di una ONG umanitaria ricevesse più del 20% del suo stipendio dall’estero, sarebbe automaticamente considerato un «agente straniero», senza bisogno di ulteriori prove e senza possibilità di fare ricorso, esattamente come accade oggi in Russia. Proprio in Russia, tuttavia, la legge sugli «agenti stranieri» esenta le organizzazioni religiose le quali sono invece incluse in quella georgiana: la legge del Governo di Tbilisi quindi sarebbe ancora più stringente di quella russa.

Abbiamo già ricordato come la legge georgiana consideri solo l’Unione Europea e gli Stati Uniti (insieme al Giappone) come Paesi nemici, mentre la Russia di Putin non viene mai nominata, nonostante abbia invaso il Paese per ben due volte sottraendogli il 20% del suo territorio. Ma perché questa differenza di trattamento? La legge sugli «agenti stranieri» è stata proposta dal Partito “Sogno Georgiano”, il quale è al potere in Georgia dal 2013. Fondato solo un anno prima da Bidzina Ivanishvili, l’uomo più ricco del Paese, il Partito si è contraddistinto per avere adottato nel corso degli anni un atteggiamento sempre più filorusso. Ivanishvili, arricchitosi in Russia nel periodo delle privatizzazioni selvagge a seguito della dissoluzione dell’URSS, è considerato da molti analisti politici come l’uomo di fiducia di Putin in Georgia. Nelle ultime settimane, insieme ad altri membri del Partito, ha sostenuto che le proteste di piazza siano comandate da potenze straniere che vogliono destabilizzare la Georgia, aggiungendo, tanto per cambiare, teorie del complotto che coinvolgono il movimento LGBTQ+.

I georgiani, soprattutto i giovani, hanno però fiutato il pericolo insito in una legge simile che, come avvenuto in Russia, servirà al Governo per perseguire ogni attività “scomoda” e aumentare il controllo sulla società civile per reprimere ogni forma di dissenso. L’aver ribattezzato la proposta di legge come «Legge Russa» ha creato un grande spauracchio in una popolazione che, per l’80%, desidera l’ingresso nell’Unione Europea per difendersi dall’influenza del gigante russo[3]: ingresso che, nel caso la legge entrasse in vigore, diventerebbe estremamente difficile.

Viene tuttavia da chiedersi come sia possibile che vi siano folle oceaniche nelle proteste di piazza mentre “Sogno Georgiano”, alle ultime elezioni del 2020, ha vinto con una grande maggioranza. Le elezioni parlamentari georgiane del 2020 sono state caratterizzate dal boicottaggio delle opposizioni che hanno invitato i propri elettori a non presentarsi alle urne, denunciando brogli da parte di “Sogno Georgiano

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Da - https://www.immoderati.it/manifesto-immoderati/

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 inserito:: Oggi alle 05:24:10 pm 
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Meloni alla convention di Vox: "L'Europa può cambiare identità"
La presidente del Consiglio ha partecipato nelle vesti di presidente dei Conservatori Ue (Ecr Party) alla 'convention dei patrioti' Europa Viva 24, organizzata da Vox ed Ecr a Madrid in vista delle prossime elezioni europee

19 maggio 2024

VOX

AGI - "L'Europa può cambiare identità" e noi "siamo il motore del Rinascimento dell'Europa". Lo ha affermato la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel suo intervento nelle vesti di presidente dei Conservatori Ue (Ecr Party) alla 'convention dei patrioti' Europa Viva 24, organizzata da Vox ed Ecr a Madrid, al Palacio de Vistalegre, in vista delle prossime elezioni europee. "Abbiamo il dovere di lottare fino all'ultimo giorno di campagna elettorale - ha proseguito la premier - perché nessun cambiamento in Europa è possibile senza i Conservatori europei, e questo è un dato di fatto. Siamo noi il motore e i protagonisti della rinascita del nostro Continente".

Meloni ha sottolineato che "Siamo alla vigilia di un voto decisivo, perché per la prima volta l'esito delle elezioni europee potrebbe sancire la fine di maggioranze innaturali e controproducenti. Dobbiamo restare concentrati, tenere i piedi per terra e lo sguardo rivolto lontano. È il tempo della mobilitazione, è il tempo di andare a testa alta per le strade e guardare negli occhi i nostri compatrioti, per spiegargli cosa vogliamo fare nei prossimi cinque anni. È il tempo di alzare la posta in gioco".

La premier si è detta convinta che "Noi vogliamo, e possiamo costruire, non sperare, ma costruire un'Unione Europea diversa e migliore di quella di oggi. Capace di concentrare le sue iniziative e le sue risorse economiche solo su alcune materie importanti, quelle sulle quali può offrire davvero un valore aggiunto. Il nostro Continente sta vivendo una fase di grande incertezza, di declino, e ha bisogno di noi. La sinistra europea, principale responsabile di quel declino -ha rimarcato - ci accusa di voler distruggere l'Europa. Ma la menzogna è sempre una buona notizia, perché mente chi ha bisogno di nascondere qualcosa. E quello che la sinistra ha bisogno di provare a nascondere agli occhi dei cittadini è che sono stati loro, con le loro ricette folli, il loro centralismo ideologico, la loro assenza di visione, i principali artefici dei fallimenti di questa Unione Europea, un gigante burocratico - prosegue la premier - che pretende di regolamentare ogni aspetto della nostra vita mentre è ancora incapace di darsi una missione geopolitica".
L'Unione europea "deve mettere le sue aziende in condizioni di competere con quelle del resto del mondo. Tutti noi vogliamo una maggiore sovranità europea, un'autonomia strategica che ci renda meno dipendenti. Ma non potremo mai avere alcuna autonomia e alcuna sovranità - ha osservato la presidente di Ecr - se continueremo a massacrare le nostre imprese con regole che vengono imposte solo a loro. Perché il mercato può essere libero soltanto se è anche equo. Tutto il resto sono politiche suicide che ci impoveriranno e ci impediranno di mantenere i nostri sistemi di protezione dei più fragili".
E ancora: "Contrasteremo soprattutto chi, come la sinistra, accecato dal desiderio di cancellare le identità, intende usare Bruxelles per imporre la sua agenda globalista e nichilista, dove le nazioni sono ridotte a incidenti della storia, le persone a meri consumatori, dove multiculturalismo e relativismo etico sono spacciati come i pilastri necessari dell'integrazione europea".
"L'Unione europea che abbiamo in mente deve ritrovare l'orgoglio della sua storia e della sua identità. Continueremo a opporci con forza a tutti i tentativi di negare o cancellare le nostre radici culturali, a partire da quelle cristiane. Perché è un fatto che furono i monasteri i primi mattoni dell'Europa, e dimenticarlo, negarlo, sminuirlo significa negare il senso stesso dell'Europa come civiltà, e non intendiamo consentirlo".
"Ci opporremo, allo stesso modo, a chi vuole mettere in discussione la famiglia, quale pilastro della nostra società, a chi vuole introdurre la teoria gender nelle scuole, a chi intende favorire pratiche disumane come la maternità surrogata. Perché nessuno mi convincerà mai - ha ribadito Meloni - che si possa definire progresso consentire a uomini ricchi di comprare il corpo di donne povere, o scegliere i figli come fossero prodotti del supermercato.
Non è progresso, è oscurantismo, e sono fiera che al parlamento italiano sia in approvazione, su proposta di Fratelli d'Italia, una legge che vuole fare dell'utero in affitto un reato universale, cioè perseguibile in Italia anche se commesso all'estero".
"Voi siete l'unico futuro possibile per l'Europa - ha concluso la presidente del Consiglio - un continente stanco, remissivo, viziato, che ha pensato di poter barattare l’identità con l'ideologia, la libertà con la comodità, e oggi inevitabilmente paga il prezzo delle sue scelte. Ma non tutto è perduto. Quando la storia chiama, quelli come noi non si tirano indietro. Non lo abbiamo fatto finora e non lo faremo, a maggior ragione, ora".

Da - https://www.agi.it/politica/news/2024-05-19/meloni-a-vox-europa-puo-cambiare-identita-26446317/


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 inserito:: Oggi alle 12:05:34 am 
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Etica e morale 
 
"L’opinione su noi stessi è, e dovrebbe essere, per noi indifferente. Eppure, ancora oggi, non è così"
 Arthur Schopenhauer, "L'arte di ignorare il giudizio degli altri "

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 Schopenhauer esamina le cause e gli effetti dell'opinione altrui sulla nostra felicità e ci offre dei consigli su come liberarcene.
Molti di noi si preoccupano troppo di ciò che gli altri pensano nei nostri confronti.
Questa preoccupazione ci rende infelici, insicuri, ansiosi. Ci fa dipendere dalla valutazione altrui che spesso è superficiale, ingiusta, invidiosa. Ci fa perdere di vista ciò che conta davvero: la nostra essenza, i nostri valori, i nostri obiettivi.
Schopenhauer, il grande filosofo tedesco, ci insegna che l'opinione su noi stessi è, e dovrebbe essere, per noi indifferente. Eppure, ancora oggi, non è così. Perché? Perché siamo esseri sociali e abbiamo bisogno di appartenere, di essere accettati, di essere amati. Ma questo non significa che dobbiamo sacrificare la nostra autenticità, la nostra libertà, la nostra felicità.
Come possiamo allora ignorare il giudizio degli altri e vivere secondo la nostra natura? Schopenhauer ci suggerisce alcune strategie:
- Sviluppare la nostra autostima, basata su ciò che siamo e non su ciò che rappresentiamo. L'autostima è la consapevolezza del nostro valore, delle nostre qualità, dei nostri talenti. È la fiducia nelle nostre capacità, nei nostri sogni, nelle nostre scelte. È la fonte della nostra forza interiore che ci permette di affrontare le sfide, i fallimenti, le critiche.
- Concentrarci sui nostri bisogni primari, ovvero quelli più vicini alla nostra sopravvivenza. Schopenhauer ci ricorda che siamo innanzitutto "dentro la nostra pelle, e non nell'opinione delle persone". I bisogni primari sono quelli che riguardano la nostra salute, la nostra sicurezza, il nostro benessere. Sono quelli che ci fanno sentire vivi, soddisfatti, grati. Sono quelli che ci fanno apprezzare le piccole cose, le bellezze della vita, le gioie semplici.
- Coltivare la nostra saggezza, basata su ciò che sappiamo e non su ciò che crediamo. La saggezza è la conoscenza approfondita della realtà, di noi stessi, degli altri. È la capacità di discernere il vero dal falso, il bene dal male, l'essenziale dal superfluo. È la virtù che ci guida verso la verità, la giustizia, la bontà. È la luce che ci illumina il cammino, che ci mostra la via, che ci fa vedere il senso.
Queste sono alcune delle vie che Schopenhauer ci propone per ignorare il giudizio degli altri e vivere felici. Non sono facili, non sono immediate, non sono scontate. Richiedono impegno, coraggio, pazienza. Ma sono possibili e realizzabili.

da FB 19 maggio 2024

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 inserito:: Maggio 18, 2024, 12:41:36 pm 
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Il sonno dell’Europa La Georgia, l’Ucraina e la fuga degli intellettuali
Quello che succede oggi a Tbilisi è la replica di quanto successo dieci anni fa nella piazza principale, Maidan, di Kyjiv. L’imperialismo russo stringe le maglie, ma il mondo libero pensa ad altro, e i giornali tacciono


Le straordinarie immagini della folla pacifica ed europea di Tbilisi, in Georgia, incredibilmente ignorate dalle televisioni e dai grandi giornali, sono la prova drammatica dell’ennesimo svarione morale che l’Europa e il mondo libero continuano a commettere, non riuscendo mai a imparare dal recente e tragico passato.
L’errore ricorrente è quello di trascurare il desiderio vitale dei popoli delle ex repubbliche sovietiche e dei paesi del defunto Patto di Varsavia di liberarsi dal giogo imperialista di Mosca, e di avvicinarsi ai valori europei fondati sulla democrazia liberale e sullo stato di diritto. Eppure questa che scende in piazza Tbilisi e resiste a Kyjiv è l’Europa in purezza, la definizione esatta di Occidente libero. Sarebbe sufficiente leggere i classici della letteratura ucraina, almeno quella sopravvissuta al genocidio culturale operato dai russi, dal cantico di Lesja Ukrajnka alle riflessioni del filosofo di Volodymyr Yermolenko, all’opera di Victoria Amelina. E sul perché i georgiani vogliono liberarsi dai russi basterebbe leggere la formidabile saga storica sul secolo rosso raccontata dalla scrittrice Nino Haratischwili in L’Ottava vita, un romanzo di oltre 1200 pagine edito da Marsilio.
E invece niente, il silenzio, anzi la fuga degli intellettuali dalla battaglia di idee più importante della nostra epoca. Neanche il precedente dell’invasione dell’Ucraina ha destato le coscienze europee.
Quello che sta succedendo oggi in Georgia è la replica, per il momento ancora senza vittime, ma temo ancora per poco, di quanto successo tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 nella piazza principale, Maidan, di Kyjiv. Allora gli ucraini scesero in piazza, sventolando le bandiere europee, per protestare contro il presidente Yanukovych, un fantoccio del Cremlino, che aveva rinunciato a firmare, su ordine di Mosca, gli Accordi di associazione dell’Ucraina con l’Unione europea.
Oggi, a Tbilisi, i georgiani riempiono le strade della capitale per protestare contro la cosiddetta “legge russa” imposta dal partito di governo, il cui nome orwelliano è “Sogno georgiano” mentre quello reale è “Incubo russo”, che reprimerà il dissenso interno e limiterà il raggio d’azione dell’opposizione. Putin ha ordinato il passaggio di questa legge non solo per reprimere la libertà di espressione, ma soprattutto perché sa benissimo che, adottando questa legge liberticida, la Georgia non potrà entrare in Europa, per ragioni evidenti di violazione dei diritti politici in una società democratica, da qui le proteste della popolazione civile che da settimane riempie le piazze della capitale senza riuscire a fare notizia in un’Europa che non vuole parlare di altri potenziali conflitti a un mese dal rinnovo del Parlamento europeo.
A Maidan, gli ucraini riuscirono a far dimettere il presidente fantoccio di Putin, al costo di decine e decine di vittime civili, e il Cremlino rispose occupando illegalmente la Crimea e due regioni dell’est ucraino nell’indifferenza generale del mondo libero, che poi otto anni dopo, il 24 febbraio 2022, si è stupito che la concessione territoriale alla Russia non avesse saziato gli appetiti imperialisti di Mosca.
Che tutto ciò non sia sulle prime pagine dei giornali né argomento principale della campagna elettorale europea è incredibile, ma c’è un’altra questione che su Linkiesta, da soli, abbiamo più volte sottolineato: l’assoluta apatia della popolazione russa, l’assenza di una collera di massa dei cittadini russi, limitatasi a cinque minuti di proteste contro la guerra e a mezza giornata di omaggio alla salma di Navalny.
E non raccontiamoci che fare opposizione in Russia è pericoloso, intanto perché le proteste russe non si vedono nemmeno tra la diaspora russa in Occidente (con eccezioni che si contano sulle dita di una mano, come la “russa libera” Maria Mikaelyan, che però è di origine armena, oggi candidata alle Europee con Renzi e Bonino nel nord-ovest).
Il governo georgiano non è così repressivo come quello russo, d’accordo, ma solo perché i georgiani sono sempre scesi in piazza a difendere la libertà e non hanno permesso a nessun governo di trasformarsi in quello che oggi è il Cremlino, esattamente come è successo in Ucraina con le proteste civili di Maidan. Al contrario, la passività russa ha permesso a Putin di diventare un dittatore sanguinario.
Andate a raccontare ai resistenti ucraini il pericolo che si corre a opporsi alla violenza russa, o ai commoventi georgiani che coraggiosamente sfilano per le vie di Tbilisi.

Da – l’Inchiesta


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 inserito:: Maggio 18, 2024, 12:39:22 pm 
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M. grazie.
Io sono convinto che Ognuno di Noi "ha addosso da solo la responsabilità di un futuro possibilmente migliore".

Il problema é che spesso neppure tra i "tanti noi", vogliamo o possiamo ipotizzarlo con "altri noi".
O non ti ascoltano, o non abbiamo noi voglia di parlarne, o siamo occupati a fare altro "tra noi" di più piacevole.
Oppure come accaduto a me, parti con il culo per terra e ti devi impegnare a sollevarti da una posizione che non ti va di mantenere oltre i tuoi 14/15 anni.
Allora ti alzi, guardi più lontano quello che ti lasciano vedere, vai all’oratorio, servi messa da chierichetto, scopri che non sopporti le regole, le disobbedisci come imposizioni da catechismo.
Ti allontani in silenzio, senza rompere nulla e dopo aver cantato al meglio di sempre e a voce alta nella messa per il funerale di Ezio, un amico morto di non sai cosa a scuola, forse il motivo del perché era sempre pallido.
Te ne vai, salutando i preti.     
Passi al Circolo comunista.
È di fronte a casa ma non ci sei mai andato prima, incontri o rivedi tre quattro ragazzi, fai gruppo con loro, si beve la Spuma, si gioca al calcio balilla o a boccette senza stecche per non fare danni, si guardano i nonni che giocare a bocce oppure a carte, fumano sigari non sigarette.
Verso sera si chiudono in una stanza, con la porta a vetri, che si riempie del loro discutere, ma mai con toni alti e capisci da fuori che c’è chi parla e chi ascolta, soltanto.
Poi arriva il 56 (1956)  dopo i fatti d’Ungheria mi compro una spilla distintivo dell’Ungheria Libera, la metto in bella vista sul petto della camicia e continuo ad andare al circolo comunista.
Non mi succede nulla!
Soltanto, una sera E. un gigante nemmeno tanto buono, mi ferma e mi “consiglia” di toglierla, quella spilla.
Gli rispondo di NO!
Ne parlo con il gestore del bar ma senza farne un problema, … continuo a frequentarlo quel Circolo/sezione e a non succedermi più nulla.
Dopo l’Ungheria non fu più libera, messa sotto dai carri armati russi.
Qualcosa cambiò nell’animo di molti di noi.
Bisognava cercare un altro impegno, ben OLTRE IL COMUNISMO FEDIFRAGO.
ggg

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 inserito:: Maggio 18, 2024, 12:31:20 pm 
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Tempi di attesa infiniti e gli italiani rinunciano a curarsi
Secondo un sondaggio Ipsos sono tre cittadini su 4 a rinunciare alle prestazioni del servizio nazionale per le attese troppo lunghe. Il dato peggiora al Centro sud

30 aprile 2024
 Saverio Scattarelli / SIPA / AGF - Operatori sanitari nell'ospedale Miulldi di Acquaviva delle Fonti

SANITA CURE SONDAGGIO
AGI - Tre cittadini su quattro hanno rinunciato a curarsi nel Servizio Sanitario Nazionale ma due su tre sperano ancora in una Sanità totalmente pubblica. È questo uno degli aspetti più significativi a emergere dal sondaggio condotto da Ipsos in occasione della giornata mondiale della Salute. In particolare, ben il 74% del campione ha dovuto rinunciare almeno una volta ad una prestazione del SSN a causa dei tempi di attesa (è accaduto più frequentemente al 65% dei cittadini).
Si aggiunga che il 57% degli intervistati ha dovuto rinunciare perché la prestazione non era erogata nella propria zona. Il dato è più preoccupante nelle regioni del centro nord e del centro sud, ma si tratta di un fenomeno diffuso in tutto il Paese. L'80% dei cittadini che hanno rinunciato a curarsi nel Servizio Sanitario Nazionale ha avuto comunque la possibilità di rivolgersi a un servizio privato per ottenere la prestazione, mentre il 16% ha del tutto rinunciato alle cure, una percentuale che tende a raddoppiare tra le fasce della popolazione più in difficoltà economiche e socialmente più marginali.
Nonostante queste evidenti lacune, il 64% del campione sostiene che la sanità debba essere esclusivamente pubblica "ad ogni costo" (metà dell'intera popolazione accetterebbe anche un aumento delle tasse se finalizzate a sostenere il SSN) mentre il 26% accetterebbe un sistema misto pubblico-privato.
"L'offerta specialistica risente in tutto il Paese di una insufficiente disponibilità di risorse economiche ed organizzative per garantire i livelli essenziali di assistenza - sottolinea Silvestro Scotti, Segretario Nazionale della FIMMG - e a questo si aggiunge la difficoltà per molti cittadini di raggiungere il luogo in cui la prestazione viene offerta, spesso troppo lontana dai luoghi di vita delle persone. La Medicina Generale si riconferma ancora una volta l'unico vero baluardo del Servizio Sanitario Nazionale strutturalmente adeguato a fornire ai cittadini un'assistenza di prossimità, gratuita e accessibile a tutte le fasce socioeconomiche, trasversalmente in tutto il Paese.
L'accesso alle prestazioni indifferibili dal proprio medico non prevede liste di attesa, mentre le visite programmate vengono effettuate entro pochi giorni. Per questi motivi i cittadini non rinunciano alle prestazioni del proprio medico di famiglia, a differenza di quello che accade in altri ambiti. La difesa del servizio sanitario pubblico - conclude Scotti - passa attraverso la difesa della medicina generale, che è ancora oggi espressione compiuta dei principi che ne hanno ispirato l'istituzione".
"Il valore della sanità pubblica è riconosciuto e difeso dagli italiani, nonostante il rammarico per tempi di attesa e scarsa capillarità dei servizi sul territorio - afferma Andrea Scavo, Direttore dell'Osservatorio Italia Insight di Ipsos che ha curato l'indagine. Su questo tema le nostre indagini registrano costantemente una grande sensibilità degli italiani, che considerano la sanità una delle priorità nazionali e, aspetto più unico che raro, si dichiarano disponibili anche a sostenere un aumento delle tasse pur di migliorarne i servizi".

Da - https://www.agi.it/cronaca/news/2024-04-30/salute-italiani-rinunciano-cure-servizio-nazionale-tempi-attesa-lunghi-26211630/

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 inserito:: Maggio 18, 2024, 12:26:03 pm 
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Benvenuti alla newsletter che è il nostro appuntamento settimanale, ogni sabato mattina. Vi prometto una lettura molto personale di alcuni eventi globali che selezionerò come "la chiave" per dare un senso alla settimana. Con una particolare attenzione alle mie due sedi di lavoro, l'attuale e la precedente: New York e Pechino. "The place to be, and the place to look at..."
 Non esitate a scrivermi: commenti o domande, contestazioni e proposte.

Classe 2024 o Generazione Gaza: e ora cosa succede all'America?

Prima di giudicare, cerchiamo di capire  i campus
Classe 2024 ovvero Generazione Gaza. Per i disagi e le perturbazioni che provocano nella vita quotidiana di molte famiglie e in molte città, le proteste studentesche di questi giorni forse sono il tema più dibattuto fra gli americani (molto più del processo newyorchese a Donald Trump). L’America intera s’interroga sul significato di quest’agitazione, le sue ragioni o i suoi torti, l’impatto e le conseguenze che potrà avere in varie direzioni. Politica interna, politica estera, battaglia delle idee, egemonia culturale: tutto s’intreccia. Oltre ovviamente alla tragedia in corso in Medio Oriente. Vorrei cercare di vederci chiaro al di là del giudizio specifico sui contenuti di questo movimento, i suoi slogan, i suoi metodi di lotta.

La protesta si sta allargando
Prima constatazione, obiettiva: la protesta dilaga. Era cominciata in alcuni bastioni dell’accademia più élitaria come Harvard Columbia Yale, luoghi dove – nonostante la meritocrazia e le borse di studio – si formano soprattutto i figli della classe dirigente, con rette dai settantamila dollari annui in su (ormai si arriva facilmente a quota centomila). Ora le manifestazioni, gli accampamenti di occupazione, gli scontri con la polizia (quando questa viene chiamata a intervenire dalle autorità) si estendono ben oltre. A New York è entrato in agitazione anche il City College, che costa poco ed è frequentato dai figli dei ceti medio-bassi inclusi molti immigrati. Se i focolai iniziali erano concentrati soprattutto nell’America delle due coste dove domina la sinistra, ora si segnalano proteste in Stati del Sud che votano repubblicano.

Classi in remoto come nella pandemia
Le prime conseguenze, più immediate e facilmente verificabili, incidono sullo studio. Queste ragazze e ragazzi, appartenenti alla più ampia Generazione Z (i nati fra il 1997 e il 2012), spesso sono gli stessi che finirono il liceo o iniziarono il percorso universitario con la pandemia; pertanto hanno già sofferto un deficit di apprendimento oltre che di socializzazione. Ora alcuni atenei tornano ai corsi in remoto, quindi si rischia una sorta di prolungamento dell’esperimento Covid che non fu certo felice. In certe università si discute se cancellare la cerimonia della “graduation”, la consegna solenne e festosa dei titoli di laurea, un appuntamento molto sentito nella tradizione e molto partecipato dalle famiglie. Tutto ciò contribuisce a creare un’atmosfera di emergenza, che resterà scolpita nella memoria della Generazione 2024 o Generazione Gaza.

Autorità accademiche nella tempesta
Attorno a queste turbolenze, a cerchi concentrici, si agitano anche la vita politica e la classe di governo, a livello locale e nazionale. Presidenti e rettori delle università sono sotto assedio da più parti. Molti di questi leader sono donne, appartenenti a minoranze etniche, ed erano abituati ad amministrare sofficemente le regole del gioco della cultura “woke”, in ambienti accademici dall’egemonia culturale progressista. Gli studenti filo-palestinesi ora accusano presidenti/rettori di limitare la libertà di espressione se cercano di sgomberare i campus e di garantire l’agibilità delle aule. Fino a ieri però le stesse autorità accademiche erano accusate di aver consentito un clima di censura e intimidazione imposto dalla sinistra radicale, l’esclusione di voci conservatrici, e dal 7 ottobre 2023 avevano tollerato un’escalation di aggressioni antisemite. Se chiamano la polizia le autorità accademiche sono descritte come repressive, se non la chiamano sono succubi di frange estremiste e violente. Un altro argomento polemico che affiora da sinistra è il "ricatto" esercitato dai ricchi donatori della Jewish community per penalizzare università che hanno condonato l'antisemitismo. Ma nessuno storceva il naso quando gli stessi miliardari ebrei finanziavano centri studi e cattedre controllati dalla sinistra radicale. Su Gaza si sta consumando, tra l'altro, anche un divorzio tra due anime storiche del partito democratico Usa: ebrei progressisti e sinistra filo-araba.
Il mondo politico è coinvolto in tutti i modi. A New York è stato un sindaco democratico e black, Eric Adams, a chiamare la polizia al City College. Poco prima il presidente della Camera, il repubblicano Mike Johnson, aveva visitato la Columbia University per denunciarvi l’antisemitismo.

L' "altro Sessantotto" fece avanzare le destre
Nei sei mesi da qui alle elezioni l’uso politico di queste proteste è destinato a crescere. A metà strada (agosto) c’è un appuntamento come la convention democratica di Chicago che evoca inquietanti analogie con quella convention che nella stessa città si tenne nel 1968, in un crescendo di scontri fra la polizia e i manifestanti contro la guerra del Vietnam.
Se questo sia destinato a passare alla storia come un nuovo Sessantotto americano, oppure qualcosa di meno importante, è presto per dirlo. I bilanci sono prematuri e del resto anche la storia di 56 anni fa continua ad essere reinterpretata da revisionismi di ogni colore ideologico. Di sicuro quello che sta accadendo quest’anno è rilevante. A prescindere dalle nostre opinioni sul merito della questione – cioè su Gaza – questo movimento ci dice qualcosa sullo stato della società americana, e sullo stato dell’America nel mondo. L’agitazione studentesca rafforza l’influenza che la politica estera può avere nell’elezione del 5 novembre. D’altronde non riesco a ricordare in vita mia un anno elettorale con due guerre della gravità di Ucraina e Medio Oriente. I cortei violenti e gli scontri rilanciano anche temi più domestici come la sicurezza e l’ordine pubblico. Qui ricordo che il Sessantotto originario fa vincere le elezioni americane al conservatore Richard Nixon e quelle francesi al conservatore Charles De Gaulle: allora si parlava di una rivincita della “maggioranza silenziosa” contro la minoranza che occupava le piazze. In Italia il riflusso a destra arriva solo un po’ più tardi, con il governo Andreotti-Malagodi nel 1972.

Politica estera Usa, i problemi sono reali
La politica estera americana è un bersaglio proclamato di questo movimento studentesco. Non l’Ucraina, che lascia indifferenti i giovani, ma la Palestina. Sorvolo qui sui tanti (troppi) segnali di ignoranza o disinformazione tra i ragazzi di questa generazione (onestamente non erano meglio istruiti i ragazzi del ’68 né quelli del ’77). Invece voglio sottolineare due questioni serie e ineludibili, che sollevano i meglio preparati tra di loro. La prima va al cuore di una contraddizione di Joe Biden. Questo presidente eredita decenni di una politica di sostegno “incondizionato” a Israele (dal 1967). Quell’aggettivo messo tra virgolette è stato contestato a lungo e da più parti: l’America ha continuato a fornire aiuti militari ed economici a Israele anche quando i governi di Tel Aviv ignoravano le pressanti richieste di Washington e facevano scelte contrarie agli interessi veri degli Stati Uniti. Oggi quella contraddizione è esplosa più che mai. Pur difendendo il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele, Biden è in forte contrasto con Netanyahu, sulla questione dello Stato palestinese, sugli aiuti umanitari, sulla condotta della guerra contro Hamas e sugli insediamenti di coloni in Cisgiordania. Però Biden non osa cancellare nei fatti l’aggettivo “incondizionato”: da una parte critica duramente Netanyahu, dall’altra continua a fornire aiuti militari decisivi alle forze armate israeliane. Gli studenti vorrebbero farli cessare subito. I contestatori considerano Biden politicamente e moralmente corresponsabile di quello che definiscono il genocidio dei civili a Gaza. Comunque si veda la questione, è un dato oggettivo che Gaza sta diventando “la guerra di Biden” come il Vietnam fu “la guerra di Lyndon Johnson”. Con le dovute e significative differenze: dal Vietnam ogni giorno tornavano delle bare con salme di giovani americani caduti al fronte. Nel 2024 l’America non combatte direttamente, o almeno non a Gaza, anche se alcune sue basi militari e le sue flotte sono intervenute: contro i missili e droni iraniani, contro gli Hezbollah, contro gli Houthi nel Mar Rosso.

"Disinvestimento" come in Sudafrica contro l'apartheid
In parallelo alle accuse a Biden, c’è un’altra campagna portata avanti dal movimento studentesco, quella sui “disinvestimenti”: i manifestanti esigono dalle loro ricchissime istituzioni universitarie (e in prospettiva dall’America tutta intera: aziende, banche) che chiudano ogni investimento suscettibile di aiutare gli insediamenti illegali di coloni israeliani in Cisgiordania o altre forme di sfruttamento della popolazione palestinese. Si ispirano esplicitamente alla campagna di disinvestimento che colpì il Sudafrica ai tempi del dominio razzista della minoranza bianca. Quel movimento di boicottaggio economico contribuì alla fine dell’apartheid e alla vittoria di Nelson Mandela contro l’apartheid (anche se non fu così decisivo come si tende a credere).
A ispirare la Classe 2024 o Generazione Gaza c’è una visione etica della politica estera: l’America dovrebbe comportarsi nel mondo intero in conformità con i valori e gli ideali a cui dice di ispirarsi nella sua Costituzione. Questo movimento si iscrive in una tradizione antica e nobile, radicata soprattutto nel partito democratico. E’ quella che ispirò il presidente Woodrow Wilson a fondare la Società delle Nazioni dopo la prima guerra mondiale e il presidente Franklin Roosevelt a fondare le Nazioni Unite dopo la seconda, per far rispettare principi di legalità a livello globale.

I peccati originali di questo movimento
All’interno di questa ispirazione molto apprezzabile, il movimento studentesco però si è macchiato di un peccato originale, o più d’uno. Il primo è ben noto e divenne evidente fin dalle prime ore successive al massacro di Hamas il 7 ottobre. Una miriade di associazioni studentesche presero posizioni ignobili, immorali, inaccettabili: approvarono subito e con entusiasmo la strage di civili israeliani, lo stupro in massa di donne, il rapimento di bambini. Molto prima che arrivasse la controffensiva israeliana a fare un'ecatombe a Gaza. La violenza feroce, le torture crudeli, gli stupri, tutto fu assolto in quanto giusta vendetta per i torti subiti dai palestinesi. Quell’usare due pesi e due misure – la violenza israeliana è orribile, quella di Hamas è sacrosanta – continua tuttora e perseguita il movimento. Lo espone alle accuse di antisemitismo, che sono giustificate da innumerevoli atti di aggressione avvenuti nei campus, molti dei quali sono diventati dei luoghi non solo inospitali ma perfino insicuri per studenti di origini ebraiche o di nazionalità israeliana. 

Indottrinamento e fanatismo
Questa macchia si collega ad un altro peccato originale, che non si riferisce solo a Gaza ma all’ideologia prevalente nella Generazione 2024. Ne ho scritto altre volte, è un’ideologia che risale a cattivi maestri come Michel Foucault o Toni Negri. Interpreta l’intera storia delle civiltà e l’universo mondo attraverso il trittico Potere Oppressione Privilegio; divide l’umanità in oppressi e oppressori, sfruttati e sfruttatori; schiaccia la complessità dentro categorie manichee (buoni-cattivi, bianco-nero); riduce quindi il mondo contemporaneo a una massa di vittime (il Grande Sud globale, gli ex-colonizzati, le minoranze etniche dei nostri paesi) e un unico carnefice che è la razza bianca, dominatrice, aggressiva. Fanatismo, intolleranza, perfino l’apologia della violenza (quella di Hamas) derivano da questa visione del mondo.
Non è una novità. Tutte le rivoluzioni di ogni colore, dai giacobini di Robespierre ai bolscevichi di Lenin, dagli squadristi di Mussolini nella marcia su Roma alle Guardie rosse di Mao Zedong, fino alle rivoluzioni religiose come quella di Khomeini in Iran, tutte senza eccezioni hanno avuto bisogno di disumanizzare la storia, demonizzare l’avversario, dividere il mondo in buoni e cattivi, per aizzare le masse e giustificare la violenza.

Leggete questa intellettuale progressista, e poi Musk
Se pensate che esagero nell’avvicinare quel tipo di precedenti storici alla società americana del 2024, ecco cosa scrive una brava opinionista del New York Times, una “progressista critica”, Pamela Paul, in un commento efficacemente intitolato Hai subito un torto, non vuol dire che tu abbia ragione.: “Viviamo in un’età dell’oro della lamentela per i torti subiti. … Se sei di sinistra sei stato oppresso, escluso, emarginato, silenziato, cancellato, ferito, sottorappresentato, traumatizzato e danneggiato. Se sei di destra sei stato ignorato, disprezzato, sottovalutato, zittito, caricaturizzato e irriso. … Gli esseri umani si sono sempre combattuti per l’accesso ineguale a risorse scarse. Però mai come oggi la nostra cultura ha fatto della lamentela una forza motrice così vigorosa, e un gioco a somma zero in cui ciascuna parte si sente lesa. … Riflettiamo su un fenomeno progressista: la gerarchia del privilegio viene rovesciata così che le voci marginalizzate in precedenza ora hanno la priorità. Valido, in teoria. Ma chi decide, e su quali basi? Chi è più oppresso: un vecchio bianco veterano dell’esercito e portatore di handicap, o un giovane gay di origini latinos? Individui o tribù vengono classificati secondo categorie binarie: colonizzatore contro colonizzato, oppressore contro oppresso, privilegiato e non. Nelle università e nelle ong, nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni statali, la gente può recitare la propria lamentela e vittimizzazione, trasformandola in un’arma, sa che può appellarsi allo Stato, all’ufficio del personale o al tribunale dei social, dove sarà ricompensata con attenzione”.
Sul versante opposto dello spettro politico rispetto a Pamela Paul, l’anarco-libertario-capitalista Elon Musk scrive su X: “L’assiomatico errore che mina alle fondamenta gran parte della civiltà occidentale è il concetto che la debolezza ti dà ragione. Se si accetta che gli oppressi sono sempre i buoni la conclusione naturale è che i forti sono cattivi”.

Se sei ricco hai rubato a un povero? Marx se la ride...
L’assioma descritto da Musk comanda la Generazione Gaza. Di fronte a qualsiasi evento storico ci si chiede prima di tutto qual è la parte meno forte o meno ricca; quindi, ci si schiera in sua difesa perché quella è la parte moralmente superiore.
Traducendo Musk, la Generazione Gaza è cresciuta nella certezza che “se sei ricco devi aver derubato un povero”: grottesca caricatura del marxismo, che non è così banale. Da quando le università hanno smesso di insegnare una storia positiva del Progresso? (Risposta: dagli anni Sessanta, basta verificare l’evoluzione dei programmi e dei titoli dei corsi nelle università Usa). Nella demonizzazione del Progresso, oggi obbligatoria, è proibito studiare se alcune nazioni, civiltà, classi dirigenti abbiano adottato ricette efficaci per creare e diffondere prosperità e diritti; mentre i popoli poveri possono anche essere vittime di leader oppressivi autoctoni, sistemi di valori retrogradi.
Applicato ai palestinesi questo meccanismo impedisce di addentrarsi nei meandri di una storia labirintica, evita di fare i conti con i molteplici errori commessi dagli stessi palestinesi (leader e popolo) fino alla tragica impasse attuale, sorvola su forze potentissime che aizzano i deboli (l’Iran con il suo petrolio, i suoi arsenali e il suo fanatismo religioso, le varie milizie terroristiche che hanno fatto della violenza una rendita politica). Ignora che gli ebrei residenti nel territorio d’Israele non sono tutti “bianchi”. Eccetera eccetera. Non è questo il luogo per accennare ai mille capitoli controversi della storia mediorientale e della questione israelo-palestinese. Il luogo adatto sarebbero proprio le aule universitarie. Dove però da molti anni non si dibatte, si indottrina e si fa lavaggio del cervello.
Quella situazione descritta da Pamela Paul chiama in causa non solo la Generazione Gaza bensì pure i suoi cattivi maestri.

6 gennaio 2021, la destra "legittimata"?
Richiamo l’attenzione su un passaggio iniziale della Paul, in cui si riferisce alla destra trumpiana. Lei ci torna con questa frase: “Cosa fu in fondo il 6 gennaio 2021 se non una gigantesca esplosione di rabbia da parte di coloro che si sentivano ingannati e volevano ottenere risarcimenti, con qualsiasi mezzo?”
Ecco, quel che accade nei campus universitari in questi giorni come viene visto dagli elettori repubblicani? Come una conferma che la sinistra in fatto di violenza ha due pesi e due misure, vede una violenza “fascista” e una violenza “giusta” perché viene dagli “oppressi”. Fu così anche in quella terribile estate del 2020 che precedette l’insurrezione del 6 gennaio al Campidoglio. Dopo l’assassinio dell’afroamericano George Floyd per settimane fu normale vedere commissariati di polizia e altre sedi istituzionali assaltati e incendiati da manifestanti di Black Lives Matter. Poi per altri mesi alcune zone del paese (ad esempio il centro di Portland nell’Oregon) divennero ufficialmente delle zone “liberate dalla polizia”, dove le forze dell’ordine non potevano più mettere piede.

Oggi corriamo il rischio che la Generazione Gaza si senta legittimata all’uso della violenza, a tal punto da farvi ricorso in modo sistematico? L’altro Sessantotto, quello di 56 anni fa, vide la diffusione della lotta armata negli Stati Uniti, in Italia, Francia, Germania. Onestamente, non siamo ancora arrivati a questo punto, non mi pare proprio.

Forza dell'economia Usa, un fattore di pace sociale

Una delle ragioni che prevengono il contagio delle proteste e della violenza, forse, è l’ottima situazione economica di cui l’America ha goduto finora: alta crescita, piena occupazione. L'altroieri è uscito un dato che segnala un rallentamento della crescita, e l'inflazione non è stata debellata. Però nell'insieme il quadro rimane positivo, migliore che in molte parti del mondo. E ne beneficiano un po' tutti.

La Generazione Z è ricca, economicamente sta meglio di come stavano le generazioni dei suoi fratelli maggiori o dei suoi genitori quando avevano la stessa età. E’ turbata, è sofferente, per mille motivi, ma non vive in un periodo di crisi economica o di ingiustizie sociali acute. Gli aumenti salariali e gli aiuti pubblici del periodo pandemico hanno perfino attenuato certe diseguaglianze. I lavoratori appartenenti a minoranze etniche – black, latinos – non sono mai stati così bene. Le tensioni politiche e culturali sono acute, ma non poggiano su problemi materiali.

Non è detto che questa situazione duri, però. La forza dell’economia americana in parte è virtuosa, è legata alla sua capacità d’innovazione e al dinamismo delle sue imprese. In parte invece è drogata da una spesa pubblica in deficit che aumentò a dismisura sotto Trump per il Covid, e ha continuato a crescere sotto Biden (ivi compreso per un “voto di scambio” a vantaggio degli studenti universitari: la generosa, costosa e iniqua cancellazione dei loro debiti a carico del contribuente). Non ho la capacità di distinguere quanta parte della crescita economica Usa sia “sana” e quanta “malsana”.

Il quadro mondiale: perdita di consensi

Alla forza di questa economia si contrappone un crescente isolamento dell’America rispetto al resto del mondo. Isolamento relativo, s’intende: la comunità transatlantica rimane un blocco straordinariamente ricco e influente. Se all’Europa si aggiungono i numerosi alleati asiatici – Giappone, Corea del Sud, Filippine – più Australia e Nuova Zelanda, “l’Occidente allargato” è molto grosso. Però in termini di popolazione il resto del mondo è ancora più grosso, e cresce di più.

Come il Vietnam negli anni Sessanta segnò una ferita grave per la legittimità, credibilità, autorevolezza degli Stati Uniti nel mondo, così in una certa misura sta avvenendo oggi per Gaza. “La guerra di Biden” fa perdere all’America consensi preziosi nel Grande Sud globale. Non è del tutto casuale che altri due paesi africani – Niger e Ciad – abbiano appena cacciato i militari americani.

La sorpresa "finale" degli anni Sessanta

I paragoni storici vanno maneggiati con prudenza e umiltà. Voglio ricordare tuttavia che negli anni Sessanta l’America sembrava “perduta”: sia agli occhi della sua Generazione Sessantotto, sia agli occhi di gran parte del mondo affascinato dal comunismo sovietico o cubano, dal maoismo cinese, dalle varie rivoluzioni post-coloniali, dalle rivolte studentesche. Poi invece dell’America fu l’Unione sovietica a implodere, e fu la Cina ad abbandonare il maoismo.

L’America lacerata e sgomenta degli anni Sessanta senza saperlo stava soffrendo anche le doglie di un parto molto speciale: la rivoluzione informatica, l’avvento del computer, la primavera della Silicon Valley. Nonché tante forme di ambientalismo, femminismo, anti-razzismo che la Generazione Gaza forse crede di avere inventato.

Il confronto-sfida tra l’America di questi giorni e i suoi grandi rivali come la Cina, continuerà a dipanarsi per anni, con chissà quanti colpi di scena. Un frammento di lezione dagli anni Sessanta forse è questo: le crisi che esplodono alla luce del sole, quelle crisi visibili e rumorose che vengono recitate in piazza nelle nostre democrazie, non sono necessariamente quelle più pericolose per la sopravvivenza di un sistema. Quando un sistema è stato disegnato all'origine per essere elastico e assorbire gli urti.
 
Perché non ci sono "cure economiche" per la denatalità (e cosa ci unisce alla Cina)

Gli allarmi sulla denatalità si susseguono e si assomigliano: in Italia come in tante altre parti del mondo, Cina inclusa. In genere nei paesi democratici chi sta all’opposizione accusa chi sta al governo di non fare abbastanza per aiutare le donne, per sostenere le famiglie, per promuovere le nascite. (In Cina non può esistere un’opposizione, ma il governo è preoccupato lo stesso).

I cosiddetti esperti, che pochi anni prima gridavano al disastro per la “bomba demografica” e la “sovrappopolazione”, ora lanciano urli di terrore per lo “spopolamento”, e così via.

In mezzo a tanto frastuono inutile, è una bella sorpresa trovare un’analisi lucida, precisa, fattuale. L’ha scritta John Burn Murdoch sul Financial Times. E’ una sintesi di vari studi sulla denatalità, che convergono su questa conclusione: gli aiuti alle giovani donne, alle future mamme, o alle coppie, sono una bella cosa in sé ma non influenzano affatto la decisione di fare figli. L’aspetto economico è irrilevante, in quella decisione.

Questo del resto dovrebbe essere abbastanza ovvio, è una conclusione di buon senso, di fronte a un’osservazione empirica: i tassi di fertilità e natalità rimangono più elevati in paesi più poveri, quindi non è certo la mancanza di mezzi a giustificare il crollo delle nascite nei paesi ricchi.

Sono fondamentali invece dei fattori culturali. Il più importante di tutti sembra essere la fiducia nel futuro. Una generazione convinta di essere alla vigilia dell’Apocalisse, o di vivere in una civiltà malvagia, in un mondo infernale segnato dalle peggiori ingiustizie, perché mai dovrebbe fare figli? Per condannarli all’inferno?

Un altro fattore culturale si può riassumere nel concetto esagerato e iperprotettivo dei diritti del nascituro: se questa creatura deve assorbire il massimo dell’attenzione, delle cure, degli investimenti in educazione, l’asticella forse è un po’ troppo alta, la responsabilità genitoriale fa tremare le vene ai polsi. Fin qui ho riassunto con parole mie.

Ecco invece la sintesi degli studi su natalità e demografia raccolti da Burn-Murdoch. Dal 1980 al 2019 l’insieme dei paesi ricchi e sviluppati ha triplicato (al netto dell’inflazione, quindi in potere d’acquisto reale) gli aiuti pro-capite per la natalità: assegni familiari, asili nido gratuiti, permessi di maternità-paternità, e altri sussidi pubblici. Nello stesso periodo il numero di nascite è sceso inesorabilmente, in media da 1,85 a 1,53 per ogni donna.

La Finlandia è un paese egualitario, con un Welfare generosissimo. Ha uno dei sistemi più avanzati al mondo per assistere e sostenere le famiglie (tradizionali e non) che vogliono avere figli. Nonostante questo il tasso di fertilità finlandese è caduto di un terzo dal 2010. L’Ungheria, che per motivi ideologici fa di tutto per promuovere le nascite, ha toccato il suo minimo storico. In Corea del Sud il governo ha lanciato un programma munifico di pagamenti a chi fa figli, detto “baby bonus”: il bilancio è semplice, quel programma ha pagato donne che avevano già deciso di farli per conto proprio, mentre non ha spostato il trend di calo della natalità che prosegue imperterrito. Come si vede non ci sono differenze tra politiche di sinistra (Finlandia) e di destra (Ungheria), né tra Oriente e Occidente.

L’autore di questa sintesi commenta: “Il legame tra le nascite e la spesa pubblica per politiche in favore della famiglia, è trascurabile. Si scopre che la decisione se avere figli oppure no, e quanti farne, è influenzata da molte altre cose anziché dal denaro”. Questo non significa che sia sbagliato dare aiuti alle mamme o future mamme. Può essere giusto per tante ragioni. Può rendere la vita un po’ più facile a quelle donne che hanno comunque deciso di avere figli, un obiettivo in sé lodevole. Può servire a ridurre la povertà infantile nelle famiglie a basso reddito. Tutte cose buone, basta non illudersi che servano a invertire la tendenza alla denatalità. “I fattori culturali intervengono a monte nelle decisioni, molto prima che i costi di allevare un figlio siano presi in considerazione”.

Uno studio di Matthias Doepke e Fabrizio Zillibotti del 2019, intitolato “Money and Parenting: How Economics Explain the Way We Raise Our Kids”, viene usato per le sue conclusioni illuminanti. Cita la convinzione diffusa tra le giovani generazioni, che per dare a un figlio un futuro soddisfacente bisogna occuparsi moltissimo di lui o lei, garantirgli la massima attenzione dei genitori, e investire in un’istruzione di livello superlativo, in concorrenza sfrenata con i figli degli altri. La sfida, descritta in termini così impegnativi da risultare quasi spaventosi, finisce per apparire irraggiungibile a molti. Meglio accontentarsi di una vita “normale”, da single o da sposati senza figli, anziché sobbarcarsi una responsabilità simile. In parallelo, un’altra evoluzione culturale ha spostato le priorità della vita per i giovani adulti. Nel 1993 il 61% degli americani intervistati in un’indagine del Pew Research diceva che avere figli è importante per una vita appagante; oggi solo il 26% condivide quell’affermazione. Le giovani donne in particolare hanno spostato le priorità mettendo al vertice la “crescita personale” e la “carriera professionale”. Le paure legate all’eccesso di responsabilità come genitori figurano in modo rilevante tra le ragioni per non avere figli. I costi economici appaiono solo al 14esimo posto.

Infine interviene il livello di angoscia delle giovani generazioni. “Più una potenziale mamma è preoccupata sul futuro, meno vuole avere figli. In America, in Europa, in Estremo Oriente, la generazione sotto i trent’anni è più impaurita dal futuro e più stressata rispetto alle altre generazioni”.

Concludo con la Cina, stavolta attingendo al racconto di Peter Hessler sul magazine The New Yorker dell’8 aprile 2024. Prima ancora di essere stato un corrispondente in Cina per quel settimanale, Hessler aveva insegnato l’inglese in una università del Sichuan. E’ rimasto in contatto con i suoi ex-studenti e spesso li consulta per capire lo stato d’animo della gioventù cinese. Quasi nessuno di loro ha avuto o vuole avere figli. Le risposte negative raggiungono il massimo tra le ragazze: 76%. Questo suo sondaggio empirico, su un campione limitato, coincide con i risultati di altre indagini più vaste. Del resto è noto che la Cina è entrata in una fase di decrescita della popolazione per effetto di un crollo delle nascite. A nulla sono serviti i provvedimenti presi dal governo. Le autorità di Pechino sono passate a gran velocità dalla politica del “figlio unico” alla libertà di fare due, tre figli. Infine dalla libertà il regime è passato agli incentivi: ora paga le mamme perché facciano bambini. I risultati sono insignificanti. Ecco la spiegazione offerta da una ex-studentessa di Hassler: “Io penso che i bambini cinesi sono stressati e turbati. Siamo già noi una generazione turbata. Allevare dei figli richiede lunghi periodi di affiatamento e di osservazione e di guida, tutte cose difficili da garantire in un contesto di pressione sociale intensa. Il futuro della società cinese è un’incognita. I bambini non ci chiedono di essere messi al mondo. Io ho paura che i miei figli potenziali non siano dei guerrieri, e finiscano per perdersi”.

La Cina in cui abitai io era una nazione molto più ottimista e fiduciosa nel suo futuro. Quella di oggi, nella mentalità dei giovani, sembra molto più simile all’Occidente. Le politiche in favore della natalità sono un falso problema.           
 
Perché l'Africa caccia gli americani (c'entra Putin)

In poco più di una settimana, l'America ha perso due alleati africani, o quantomeno due presenze militari in questo continente. Prima il Niger poi il Ciad hanno dato il benservito ai militari Usa. Sono destinati a essere sostituiti dai russi: quasi certamente in Niger, mentre la situazione in Ciad è più aperta.

Il contraccolpo è stato sentito a Washington che vede arretrare la sua strategia africana. Accade in parallelo con le bocciature subite nei mesi e anni precedenti dalla Francia, i cui militari sono stati anch'essi espulsi da molti paesi. Spesso per essere sostituiti dai russi o dal Gruppo Wagner, i mercenari controllati da Mosca.

L'espulsione dei militari americani dal Niger è stata definita da diversi esperti Usa come un duro colpo alla strategia di Washington contro le forze jihadiste in Africa occidentale. Il Niger era un pilastro di quella strategia, ospitava la più grossa base militare Usa di tutta l'Africa occidentale, con mille soldati; e una base di droni costruita ad Agadez con un investimento di 110 milioni di dollari. Fino all'anno scorso i Berretti Verdi americani di stanza in Niger addestravano le truppe locali a combattere contro una delle più ampie guerriglie jihadiste del mondo, e i droni made in Usa contribuivano a spiare le milizie islamiste. A questo punto l'America deve ripiegare su un piano B, più limitato e difensivo: cercando di arginare il contagio jihadista in paesi vicini che ancora accolgono la presenza Usa, anziché andare all'offensiva contro il cuore delle forze islamiste.

Cos'ha provocato la cacciata? L'anno scorso in Niger c'è stato un colpo di Stato militare, condannato dalla Casa Bianca. L'Amministrazione Biden ha fatto pressione sulla giunta golpista perché ristabilisca un governo civile e legittimo. A quel punto i generali, guidati dal presidente Mohamed Bazoum, hanno cominciato a spostarsi verso un'alleanza con Mosca. Di recente la capitale del Niger Niamey è stata il teatro di manifestazioni anti-americane, probabilmente orchestrate dal regime. Ed è arrivata la richiesta formale di riportare a casa i mille soldati americani.

La situazione nel Ciad sembra più fluida. Lì la presenza militare Usa era molto più limitata: 75 soldati dei reparti speciali a Ndjamena, capitale del Ciad. Al momento sono stati rimpatriati anche loro. Come nel Niger, pure questi Berretti Verdi (del 20th Special Forces Group, un reparto della Guardia Nazionale dell'Alabama) erano lì come consiglieri e addestratori anti-terrorismo. Il Ciad ha un ruolo essenziale nelle operazioni contro Boko Haram. Pentagono e Dipartimento di Stato hanno l'impressione che la loro cacciata possa essere temporanea, una mossa negoziale con cui il presidente del Ciad potrebbe alzare il prezzo della sua cooperazione, mettendo in concorrenza Stati Uniti e Russia.
La Francia a sua volta era stata allontanata da Mali e Burkina Faso, in favore dei russi.
Federico Rampini, New York 27 aprile 2024

 
 

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 inserito:: Maggio 18, 2024, 12:19:05 pm 
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Siamo tutti sovranisti?

Enrico Cerrini
 
18 aprile 2024
“Siamo tutti keynesiani” è una famosa frase che il presidente americano Richard Nixon pronunciò nel 1971. Nixon era profondamente di destra, ma non poteva ignorare il consenso delle politiche economiche che auspicavano l’intervento dello stato in economia. Nel 1992, il saggista Francis Fukuyama proclamava “La fine della storia”, perché il capitalismo aveva sconfitto il comunismo grazie alla sua forma più aggressiva, il liberismo. Oggi, il discorso di Mario Draghi nel comune belga di La Hulpe potrebbe intitolarsi “Siamo tutti sovranisti”.

Il discorso di Draghi
Ursula von der Leyen ha incaricato Mario Draghi di redigere un rapporto sulla competitività nell’Unione Europea. La presidenza di turno belga ha chiesto di anticipare i risultati del rapporto all’ex primo ministro, che ne ha approfittato per delineare la sua idea di Unione Europea. Molti hanno interpretato il discorso di Draghi, incentrato su un cambio radicale, con la volontà di scalzare von der Leyen e diventare il prossimo presidente della
Commissione europea.
Infatti, il discorso ha avuto tanti plausi da tante parti, anche da quei sovranisti che fino a pochi mesi fa lo vedevano come un banchiere affamatore di popoli. Anche il centro si è sperticato in lodi, mentre la sinistra è apparsa più fredda. Ma sappiamo bene come la sinistra non potrebbe mai farsi sfuggire l’occasione di accodarsi a un ennesimo governo tecnico. Quindi, le elezioni europee del 9 giugno potrebbe davvero trasformare Mario Draghi in una sorta di super primo ministro UE, il più potente dai tempi di Jacques Delors.
Tutto ciò non sorprende, perché l’ex presidente BCE ha dato prova di essere un uomo ambizioso che gode di un’ottima reputazione. L’elemento di rottura è invece la sua piattaforma programmatica, così distante dal progetto europeo, profondamente intriso dalla cultura liberista che ha plasmato il trattato di Maastricht firmato nel 1992, nel pieno de “La fine della storia”. Un liberismo che Mario Draghi ha spesso sostenuto, malgrado qualche ripensamento dopo la crisi dell’euro del 2012.
Oggi, l’ex primo ministro ci aggiorna che il mondo è cambiato e il vecchio paradigma non è più valido a causa di eventi come la pandemia e l’aggressione russa all’Ucraina. L’analisi è corretta, solo che il paradigma liberista era già obsoleto dopo la crisi del 2008 e stiamo ancora pagando le conseguenze della mancanza di un cambio radicale tra il 2009/2010.

Il cambio radicale
Senza rinnegare niente di quanto fatto, Mario Draghi ha attaccato la logica della competitività che affligge le istituzioni europee. Per anni, l’Europa ha dato priorità ai consumatori e al libero scambio interno. Le aziende non dovevano essere troppo grandi per combattere posizioni monopolistiche e favorire la concorrenza. I lavoratori dovevano abbassare salari e tutele per contenere il costo del lavoro e dei prodotti finiti.
Questo modello è fallito perché la crisi del 2008 ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori e la domanda interna è calata. Quindi, le imprese hanno dovuto confrontarsi con i mercati internazionali senza avere la forza per competere con i giganti statunitensi o asiatici.
Secondo Draghi, la competitività non può essere un fattore di mercato interno, ma deve rivolgersi all’esterno. All’interno dell’Unione Europea, il problema principale è la crescita della domanda aggregata, per cui è necessario redistribuire la ricchezza facendo aumentare i salari. Nei mercati internazionali le aziende europee devono diventare più grandi, supportate sia dai governi che dai produttori di semilavorati e di componenti. E soprattutto c’è la grande partita della ricerca applicata, che deve sostenere il sistema produttivo.

Il sovranismo
Per attuare questo programma servono però tante operazioni che piacciono ai sovranisti. L’Europa deve diventare più autarchica, ripensando il sistema di approvvigionamento delle materie prime e dei semilavorati. Inoltre, deve creare grandi aziende, campioni nazionali che si confrontino con le multinazionali.
L’ex presidente BCE ha anche trattato il tema della difesa comune, necessaria per fronteggiare le sfide militari che arrivano dall’esterno. Oggi l’intera Europa si sente minacciata, ma gli eserciti nazionali appaiono frammentati e inadeguati di fronte al nemico. Il tema piace molto ai liberali, visto che l’esercito comune europeo è il pallino del presidente francese Emmanuel Macron, ma non è disdegnato dai sovranisti, che hanno sempre un debole per la divisa.
Il discorso programmatico di Draghi implica quindi un cambio di paradigma. Nelle sue parole traspare l’uscita dalla fase liberista che si basava su un mondo interconnesso in cui era possibile approvvigionarsi all’infinito grazie alla filiera internazionale. Inizia invece una fase sovranista dove si fa politica industriale per avvantaggiare le imprese e le produzioni nazionali, si pongono dazi, si investe in ricerca applicata e si utilizzano i risparmi dei propri cittadini per attuare tali programmi.

E la sinistra?
Le idee sono compatibili con un ritrovato buon senso a seguito della sbornia liberista che ha pervaso l’Europa e i principali partiti di governo. Una sbornia insostenibile che ha alimentato il populismo e il nazionalismo mettendo in crisi le nostre democrazie. La svolta delineata sarebbe quindi necessaria, ma ci sono tanti modi per realizzarla. Se la sinistra riuscisse a influenzarla, potrebbe trarre utilità da un governo di coalizione, almeno una volta.
Infatti, la sinistra potrebbe indirizzare quest’agenda verso non solo l’aumento dei salari, ma includendo anche la lotta al cambiamento climatico, la distensione internazionale e l’affermazione dei diritti individuali, a partire dal riconoscimento delle minoranze etniche, religiose e sessuali. Il rischio è infatti quello di lasciare campo alla destra che chiaramente non è tanto interessata al benessere dei lavoratori, quanto a negare il cambiamento climatico e ingaggiare un nefasto scontro frontale con la Cina, oltre che alimentare razzismo, sciovinismo e oscurantismo.


TAG: liberismo, mario draghi, sovranismo, Unione europea, U

Da - https://www.glistatigenerali.com/istituzioni-ue_politiche-comunitarie/siamo-tutti-sovranisti/

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 inserito:: Maggio 18, 2024, 11:44:37 am 
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