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Autore Discussione: Siegmund Ginzberg - Corea del Nord: il buio oltre l’accordo  (Letto 2877 volte)
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« inserito:: Ottobre 06, 2007, 10:43:05 pm »

Corea del Nord: il buio oltre l’accordo

Siegmund Ginzberg


Ci siamo commossi alle immagini del fiume color zafferano dei monaci scalzi. Abbiamo reagito nel vedere come venivano caricati dai soldati, indignati alla scena dell’assassinio di un fotografo. Ma è bastato che per qualche giorno dalla Birmania di immagini non ne arrivassero più, tranne quelle ufficiali, dell’incontro tra l’inviato dell’Onu e i generali, perché l’attenzione cadesse a piombo.

Potrebbe succedere qualsiasi cosa, quei monaci potrebbero arrestarli, o anche ammazzarli tutti, e non ce ne accorgeremmo. La Birmania è ridiventata un buco nero. La Corea del Nord non ha mai smesso di esserlo.

I buchi neri cosmici sono la cosa più spaventosa che si possa immaginare - dico immaginare, perché la concentrazione della materia è tale che non ne scappa nemmeno la luce. I "buchi neri" della geo-politica mondiale, i paesi di cui non si sa nulla, non filtra nulla tranne quello che lasciano filtrare mi fanno molto più paura di quelli che esplodono. Non c’è inferno più brutto di quello che riesce a produrre indifferenza, perché non se ne sa più nulla. Quello che non si sa mi inquieta più di quello che si viene a sapere. Sono portato per istinto a diffidare. Anche quando quel che filtra sono in tutta evidenza buone notizie.

Altro che buone, ottime. Nell’ottobre di un anno fa la Corea del Nord ci aveva fatto correre un brivido lungo la schiena annunciando la sua prima esplosione nucleare. Nemmeno 12 mesi dopo la notizia che arriva da Pechino, sede del tavolo di negoziato a sei (Le due Coree, Cina, Stati uniti, Giappone, Russia) è che Pyongyang ha deciso di smantellare le componenti del suo programma nucleare, chiudere entro l’anno il principale dei suoi siti atomici, il complesso attorno al reattore di Yongbon, ha promesso di fornire indicazioni su quanto plutonio ha, per tranquillizzare il timore che le venda al miglior offerente terrorista.

Tutto verificabile, pare, con tanto di invito agli esperti Usa ad assistere allo smantellamento del reattore. In cambio, Stati Uniti e vicini asiatici si sono impegnati a fornire alla Corea del Nord il combustibile e i generi di prima necessità di cui ha bisogno, Washington ha promesso di togliere la sanzioni, depennarli dalla lista nera degli Stati sponsor del terrorismo, procedere verso una normalizzazione dei rapporti. Con George W. Bush che ora non esclude che il modo in cui è stata risolta l’impasse nucleare in Corea possa fungere da «modello» ("case-study") per risolvere l’impasse sul nucleare con l’Iran.

In contemporanea, dalla Corea vengono immagini rassicuranti, dai colori quasi pastello, festose se non altrettanto rassicuranti: il presidente eletto della Corea del Sud. Roh Moo-hyum che, atteso magnanimamente dal suo omologo per successione famigliare Kim Jong-il, varca a piedi quello che l’ex presidente Bill Clinton il confine «più terrificante al mondo», e poi procede con lui alla volta di Pyongyang, conclusosi con l’impegno di mettere fine allo stato di guerra nella penisola coreana, firmare finalmente un trattato di pace a oltre mezzo secolo dall’armistizio con cui le due parti in guerra, Cina e Corea del Nord da una parte, Onu, Usa e Corea del Sud dall’altra erano tornate esattamente al punto di prima, sul 38mo parallelo, dopo milioni di morti, armate all’attacco e in ritirata che più volte avevano attraversato l’intero paese dall’estremo nord all’estremo sud. Anche questo con la benedizione di Bush, che da tempo aveva incaricato i suoi esperti di cominciare a studiare concretamente il modo di arrivare alla firma di un trattato di pace, pur sapendo che ciò implica che i soldati americani stazionati in Corea del Sud dal 1950 se ne vadano, portandosi via anche i loro cannoni atomici.

Bene, benissimo. L’Iraq è la dimostrazione più eloquente di come le guerre non sono il modo più indicato per impedire la proliferazione delle armi di distruzione di massa, soprattutto perché ormai è assodato che si può tentare di farla a chi, come Saddam, l’atomica non ce l’aveva ancora, si può discutere i pro e i contro del farla a chi non si sa se la stia facendo o no (l’Iran giura e spergiura che arricchisce uranio a fini pacifici), diviene impossibile farla a chi sia la bomba già ce l’ha. E i 50 e passa anni di stallo nella penisola coreana, erano stati la dimostrazione più eloquente di come ci siano situazioni impossibili da risolvere con una guerra, così come in Europa si è riusciti a spazzare via decenni di cortina di ferro e di Muro di Berlino non perché c’è stata una guerra ma proprio perché non c’è stata.

Finalmente buone notizie. Buone per tutti, anche per la Birmania, anche per l’Iran, perché è chiaro che è stato decisivo il ruolo e l’intervento della Cina, e se la Cina ha avuto argomenti che Pyongyang «non poteva rifiutare», c’è motivo di ritenere che ne possa trovare di altrettanto convincenti per Rangoon e per Teheran.

A patto però di non farsi prendere da euforie fuori luogo. Non solo perché le cose annunciate sono ancora tutte da fare e da verificare, e c’è una lunga strada ancora in salita da percorrere. E non solo perché si ha l’impressione cha da qui si era già passati. Nel 1994 Bill Clinton aveva firmato con Pyongyang un accordo anche più promettente: i nordcoreani avevano promesso di sospendere a tempo indeterminato ogni attività nucleare, in cambio di un paio di reattori civili non militarizzabili e di un reciproco riconoscimento. Poi tutto era andato a farsi benedire, Kim Jong Il non aveva mantenuto la sua promessa, e non l’avevano mantenuta nemmeno gli americani. Nel 2000 c’era già stato un viaggio «storico», spettacolare, di un presidente sudcoreano Pyongyang. Ma poi le cose si erano fermate sostanzialmente lì, ai simboli, alle strette di mano.

Sette anni fa Kim Dae Jong avrebbe potuto avere anche più abbrivio, perché aveva il prestigio derivante dall’essere stato uno dei padri della democrazia, dopo anni di dittature militari nel Sud. Mentre il mandato di Roh scade a dicembre, e c’è chi dice che abbia insistito su questo viaggio perché è l’unica cosa che gli consente di lasciare una traccia «storica» di una presidenza per il resto non memorabile. E per giunta, il suo interlocutore Kim ha detto no secco, senza neanche un grazie, a quella che era la sua offerta più forte: una sorta di Piano Marshall, in appoggio ad una apertura «alla cinese» dell’economia del Nord. Insomma, non bastasse il fatto che le promesse di un dittatore valgono quel che valgono, c’è anche il problema che le promesse non sono nemmeno tanto nuove.

Come se non bastasse, a tutto questo si aggiunge il fattore «buco nero». Il black out dalla Corea del Nord è totale, si tratta di un paese anche letteralmente del tutto al buio, avvolto da tenebre che neanche i più sofisticati satelliti spia riescono a squarciare. Non si sa nulla sullo stato della sua economia (si calcola che il prodotto interno sia oggi un terzo appena di quello, già non particolarmente florido, di 20 anni fa), nulla di come vive la gente, nemmeno quanti siano, quanto ne nascano, quanti ne muoiono.

Non si sa quanti siano i detenuti nei numerosi gulag (kwan-si-lo, campi controllati) che costellano il territorio nazionale, e forse non è neanche così importante perché l’intero paese viene considerato come un immenso campo di concentramento. La cosa terribile è che dalla Corea del Nord non escono nemmeno immagini di repressione e brutalità: l’unica foto di dissenso venuta fuori in questo ultimi anni è un manifesto di Kim con su scarabocchiata una protesta, l’unica immagine dai campi di concentramento sono alcuni terribili disegni di profughi bambini. Possiamo solo immaginare che si tratta di un regime molto più brutale di quello dei generali birmani: non vi sarebbero sopravissuti del monaci, tanto meno una Aung San Suu Ky.

Possiamo quindi rallegrarci delle buone notizie ad una sola condizione: che, complice il «buco nero», non ci facciano dimenticare il resto, quello che non si vede, ma non si può far finta non ci sia.

Pubblicato il: 06.10.07
Modificato il: 06.10.07 alle ore 9.50   
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 23, 2007, 11:39:30 pm »

Il Kurdistan e il teorema turco

Siegmund Ginzberg


Appare sempre più inevitabile un’invasione turca del Kurdistan iracheno. Anche se nessuno è convinto che possa servire davvero a qualcosa. L’operazione militare che l’esercito turco si appresta a compiere al di là dei confini con l’Iraq settentrionale somiglia un po’ a quella che l’esercito israeliano lanciò due estati fa al di là dei confini col Libano meridionale contro i campi di hezbollah. Stesso l’obiettivo dichiarato: farla finita con i “santuari” in Iraq da cui partirebbero i guerriglieri curdi del PKK che compiono attentati in territorio turco. Stesso il rischio: che l’operazione sia non solo inutile ma terribilmente dannosa.

In quel caso la decisione israeliana era stata accelerata dallo stillicidio di attentati, ma soprattutto del fatto che erano stati fatti prigionieri dei soldati israeliani. I guerriglieri di hezbollah erano accusati di lanciare missili dal territorio libanese, come i guerriglieri curdi sono accusati di sparare coi mortai dal territorio iracheno. Ma la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stato l’aver fatto prigionieri. Ieri Ankara ha confermato che, dopo l’agguato e i sanguinosi scontri di sabato notte, in territorio turco, ma a pochi chilometri dal confine, hanno perso le tracce di otto dei propri soldati. Una emittente radio curda li aveva già rivendicati come prigionieri e aveva dato i nomi di sette di loro, aggiungendo che l’ottavo si era rifiutato di dare le generalità. Solo un paio di settimane fa il Parlamento turco aveva dato l’autorizzazione richiesta dai militari all’intervento oltre confine, dando via libera al governo circa il come e il quando. Gli agguati in cui erano stati uccisi una dozzina di soldati turchi, e, più ancora, il sequestro dei soldati, presumibilmente portati dai loro rapitori in territorio curdo iracheno, sembrano fatti apposta per provocare l’incursione al più presto.

Nessuno, forse nemmeno i generali turchi, pensa che un’invasione possa essere risolutiva. Certo non lo pensa il primo ministro Recep Tayyip Erdogan: «Di operazioni di questo tipo - blitz oltre confine - ne abbiamo fatte già 24 in tutti questi anni. E forse che abbiamo ottenuto? Non direi proprio», aveva detto appena qualche giorno fa in un’intervista alla Cnn. Il premier e capo del partito islamico al governo continua a frenare. Prima di entrare alla riunione di emergenza di domenica coi militari aveva fatto sapere di aver parlato con Condoleezza Rica, la segretario di Stato di George W. Bush, e che questa, pur dando «completamente ragione» ai turchi nel condannare gli attentati, aveva chiesto alla Turchia di pazientare «ancora qualche giorno». Qualche giorno per convincere gli iracheni a dar soddisfazione ai turchi dando loro lo sfratto ai guerriglieri del Pkk. Certo però non a consegnargli i responsabili degli attentati, come vorrebbero i turchi. «No, non gli daremo curdi in mano ai turchi, nemmeno un gatto curdo», ha già detto il presidente iracheno, il curdo Talabani.

Erdogan sa benissimo che un blitz militare a caccia di curdi in Iraq imbarazzerebbe terribilmente gli Stati uniti e raggelerebbe i rapporti con Washington. Sa benissimo che porterebbe acqua agli argomenti dei paesi che come l’Austria e la Francia di Sarkozy si sono già pronunciati perché la Turchia rinunci a far parte a pieno titolo dell’Europa e si accontenti di una umiliante «partnership privilegiata». Sa che anche sul piano strettamente militare rischia di produrre più guai che vantaggi. Anche i migliori eserciti rischiano di essere impantanati su quelle montagne, e di farsi sfuggire coloro cui danno la caccia: ne sanno qualcosa prima i russi poi gli americani, nelle montagne dell’Afghanistan. Sarebbe anche peggio se l’obiettivo fosse una vera e propria occupazione dell’ex provincia ottomana di Mosul, che comprende anche i campi petroliferi e cui la Turchia moderna non ha mai formalmente rinunciato. Eppure, a questo punto Erdogan non ha più scelta, è obbligato a decidere qualcosa, anche se in quella cosa non ci crede e la ritiene dannosa: col clima che si sta creando sulla vicenda in Turchia, se non dà il via libera all’incursione, rischia che siano i generali laici a prendere al volo l’occasione per far fuori lui e il suo partito islamico. Deve mangiare la minestra o saltare la finestra: incursione o golpe.

I nervi sono a fior di pelle. La Turchia sembra più che mai in preda ai bizzarri teoremi, alla più strane conspiracy theories contrapposte. Tra le più curiose, c’è quella per cui l’islamico Erdogan sarebbe una sorta di “ebreo-travestito”, una quinta colonna di Israele. No, non è uno scherzo. Si tratta della tesi esplicitamente sostenuta in una serie di libri di gran successo di un sedicente “kemalista” e “laico” ultrà, Ergun Poyraz. Il primo della serie, intitolato «I figli di Mosé», ha sulla copertina appunto il ritratti di Erdogan incorniciato da una stella di Davide. Pare che questa sorta di aggiornamento contemporaneo dei famigerati «Protocolli dei Savi di Sion» abbia già venduto oltre mezzo milione di copie in Turchia.

Le paranoie si incrociano. I laici temono che gli islamici, fingendosi democratici, cospirino a trasformare la Turchia in una repubblica islamica. C’è chi accusa l’Europa di voler umiliare la Turchia e tenerla costantemente ad elemosinare fuori dalla porta. E chi accusa l’America di intenzioni ancora peggiori. C’è chi vede riemergere il complotto con cui l’Occidente cercò di spartirsi i resti dell’impero ottomano dopo la Prima guerra mondiale. I fantasmi del passato si intrecciano con quelli nuovi.

L’opinione pubblica ultra-nazionalista aveva subito come un insulto tremendo la legge sulla penalizzazione del «negazionismo» del genocidio armeno approvata lo scorso anno in Francia. Ma hanno preso molto peggio, alla stregua di un tradimento da parte di amici da cui non ce lo si aspetta, l’intenzione del Congresso Usa di dichiarare ufficialmente genocidio la persecuzione degli armeni negli ultimi anni dell’impero ottomano. La risoluzione, presentata dai democratici, probabilmente non sarà approvata, non è detto abbia la maggioranza. C’è una tale levata di scudi da parte di chi la ritiene particolarmente «inopportuna in questo momento», che i democratici potrebbero fare a Bush, che osteggia la risoluzione, lo stesso favore che i repubblicani fecero a Clinton nel 2000 quando ritirarono un’analoga loro risoluzione. «Se passano una risoluzione del genere, i rapporti tra Usa e Turchia non saranno mai più quelli di prima», aveva minacciato il capo di Stato maggiore turco Buyukanit. Il generale Paetreus, che comanda le truppe Usa in Iraq è comprensibilmente allarmato: dalla Turchia passa il 70 per cento dei rifornimenti per le sue truppe, il 95 per cento dei mezzi blindati, un terzo del carburante che consumano. L’ultima cosa che gli Stati uniti possono permettersi è rompere con la Turchia. Al punto da dar via libera al blitz in Iraq, o addirittura da dar via libera ad un blitz dei generali contro gli islamici?

Pubblicato il: 23.10.07
Modificato il: 23.10.07 alle ore 8.36   
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