Commento Coronavirus
La morale e il capitalismo
18 MAGGIO 2020
Non si tratta di controllare un modello economico, ma di gestirlo. Se non lo faremo, a essere in pericolo sarà la democrazia stessa
DI JUAN LUIS CEBRIÁN
Le conseguenze del Covid 19 andranno ben al di là delle questioni legate alla salute. Il comportamento personale, i rapporti umani, l'organizzazione delle città, il ruolo degli Stati, il sistema di lavoro, i cambiamenti climatici, la rivoluzione tecnologica, le relazioni internazionali, il futuro della democrazia e i conflitti tra generazioni saranno alcuni fra i tanti ambiti che subiranno forti tensioni per il cambiamento.
La paralisi della produzione sta già originando una crisi dell'offerta nei Paesi industrializzati, che si accompagna a una crisi della domanda conseguenza dell'aumento della disoccupazione: centinaia di milioni di nuovi disoccupati. Gli aiuti e i sussidi dei governi a imprese sull'orlo della bancarotta e alle classi sociali più svantaggiate finiranno per spingere l'indebitamento globale a vette finora sconosciute, pari al 300 per cento della produzione mondiale.
La diminuzione del commercio e del turismo internazionale colpirà tutta la catena dei servizi, incluse le esportazioni di materie prime. Il mondo è entrato in recessione e passeranno anni prima di riuscire a ripristinare gli stessi livelli di crescita e benessere sociale. Quando avevamo appena finito di riprenderci dalla crisi finanziaria provocata dalla bolla immobiliare e dal fallimento della Lehman Brothers, questa nuova catastrofe minaccia il futuro dei sistemi di governance politica e crescita economica.
In seguito al crac finanziario del 2008, i leader mondiali riuniti a Londra e a Pittsburgh per i vertici del G20 ascoltarono rappresentanti di ideologie diversissime come Gordon Brown e Nicolas Sarkozy sostenere la necessità di intraprendere una riforma radicale del capitalismo. Furono prese decisioni sulla lotta contro i paradisi fiscali, la riforma del sistema di agenzie di rating o la sostenibilità del sistema finanziario e bancario.
Salvo quest'ultimo ambito, dove la trasformazione non è stata portata interamente a compimento, quelle dichiarazioni giacciono ora nel cimitero delle buone intenzioni. La crescita del capitalismo finanziario, sospinta dalla rivoluzione tecnologica a detrimento di quella che alcuni definiscono l'economia reale, ha contribuito ad aumentare le differenze sociali, mentre le politiche di contenimento della spesa pubblica e austerità hanno eroso il potere d'acquisto dei ceti medi. Ma i ceti medi sono la base su cui poggiano le democrazie.
Favoriti dalla protesta sociale propiziata da questa situazione, prima che il virus si espandesse si erano già disseminati nella società patogeni politici diversi come il nazionalismo e il populismo, che hanno alimentato la polarizzazione ed esaltato il conflitto come metodo per accedere al potere. Movimenti come Occupy Wall Street hanno contribuito, paradossalmente, alla vittoria elettorale di Trump, rappresentante tipico del capitalismo speculativo, che si è issato fino alla Casa Bianca con il sostegno dell'americano medio, risentito per il fatto che il suo potere d'acquisto non era minimamente migliorato negli ultimi quarant'anni mentre un ristretto numero di persone si accaparrava una grossa fetta della ricchezza nazionale.
Molti osservatori ritengono che il deterioramento progressivo del sistema, dopo che la caduta del Muro di Berlino aveva suscitato un'esplosione di speranze, sia dovuto all'abbandono delle politiche socialdemocratiche che i partiti principali, nella maggioranza delle democrazie, hanno praticato per decenni, con fasi di alternanza fra centrodestra e centrosinistra.
Nell'Europa del dopoguerra, l'accordo e la collaborazione fra partiti socialisti e partiti democristiani, insieme all'appoggio finanziario degli Stati Uniti, ha favorito la costruzione dello Stato sociale, l'elemento che ha generato la stabilità politica di cui abbiamo goduto per decenni. Questo modello, che Obama cercò in parte di imitare con i suoi progetti sul sistema sanitario nazionale, alla fine è stato minato dalle politiche ultraliberiste inaugurate da Margaret Thatcher e Ronald Reagan e anche dalla perdita di identità della socialdemocrazia, i cui postulati fondamentali sono stati incorporati dai partiti di destra moderati.
La rivoluzione digitale e la globalizzazione in seguito hanno configurato le basi di una nuova realtà. Nei Paesi democratici più avanzati, rispetto all'affermazione di John Kenneth Galbraith che l'economia è una branca della politica si è invertito il processo, trasformando la politica in una branca dell'economia. Con i governi incapaci di regolamentare i mercati, e in assenza di un'autorità globale che lo faccia, i mercati hanno finito per controllare e organizzare i processi politici. È l'inesistenza di un'autorità mondiale che ne regoli l'economia all'origine del fatto che molti cittadini oggi hanno l'impressione che dittature come quella cinese siano più efficienti delle nostre democrazie per fronteggiare le crisi. Inoltre, è la dimostrazione tangibile che anche se non può esistere democrazia senza libero mercato, il secondo, da solo, non presuppone il trionfo della prima.
Il futuro del capitalismo passa per il recupero dei suoi valori iniziali, radicati non soltanto nell'impulso individuale al profitto e al miglioramento personale, ma nella necessità di una regolamentazione, che preconizzò già lo stesso Adam Smith. Ai tempi della globalizzazione, è necessario reinventare una morale del capitalismo. Per dirla con le parole di Paul Collier, autore di un memorabile saggio sull'argomento, non si tratta di controllarlo, ma di gestirlo. Se non lo faremo, a essere in pericolo sarà la democrazia stessa.
Traduzione di Fabio Galimberti
Juan Luis Cebrián è giornalista e saggista spagnolo, co-fondatore di "El País"
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