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Autore Discussione: MAFIA - MAFIE - CORRUZIONE  (Letto 67684 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Ottobre 26, 2010, 06:55:43 pm »

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Corruzione, l'Italia sempre peggio Per Transparency International è al 67mo posto

Il Bel Paese, nella classifica dei Paesi onesti, scivola di quattro posizioni rispetto al 2009 e ne perde ben 12 rispetto al 2008.

Gli Stati Uniti escono dalla top venti, conquistando solo il 22mo gradino



ROMA - Brutte notizie per il Bel Paese in tema corruzione. Secondo la classifica stilata dall'ong Transparency International, elaborata analizzando 178 Paesi e presentata stamane, l'Italia scivola al 67esimo posto nell'indice sulla corruzione. Il nostro Paese è arretrato di quattro posizioni rispetto al 2009 e di ben 12 sul 2008.

Il Corruption Perceptions Index (CPI) è considerato la misura più credibile al mondo per misurare la corruzione nel settore pubblico. Oltre ai casi di corruzione in senso stretto, influiscono sul CPI tutte le questioni di malgoverno della cosa pubblica in senso lato che si manifestano nel Paese, in larghissima misura a livello locale. Infatti, la sanità (gestita dalle Regioni) appare il settore dove tale malgoverno più si manifesta. E proprio il CPI registra che la credibilità esterna dell'Italia riguardo la corruzione è in calo e che l'allarme sociale interno sul tema è in crescita.

I Paesi ottengono un punteggio da zero a 10 (con zero che indica livelli elevati di corruzione e 10 bassi). L'Italia è al 67esimo posto, con un punteggio di 3,9 peggiorato rispetto al 2009 (quando era al 63esimo posto, con punteggio di 4,3) e al 2008 (alla 55esima posizione, con 4,8).

Meglio di noi fanno il Rwanda e Samoa. I Paesi più onesti sono quelli più pacifici: Danimarca e Nuova Zelanda. In fondo alla classifica, Paesi devastati dalla guerra (Iraq, Afghanistan e Somalia) o governati da una giunta militare come la Birmania. Gli Stati Uniti sono usciti dalla top 20 dei meno corrotti, collocandosi al 22esimo posto.

(26 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/10/26/news/corruzione_l_italia_sempre_peggio_per_transparency_international_al_67mo_posto-8442331/?ref=HRER1-1
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« Risposta #91 inserito:: Novembre 17, 2010, 06:25:48 pm »

La relazione al Parlamento della Direzione investigativa antimafia

Lombardia: la 'ndrangheta influenza la vita politica, sociale ed economica

Pubblici amministratori e tecnici hanno agevolato l'assegnazione di appalti alle cosche

   
MILANO - Le famiglie storiche della 'ndrangheta presenti in Lombardia influenzano la vita economica, sociale e politica della regione. Lo rileva la relazione al Parlamento della Direzione investigativa antimafia (Dia) riferita al primo semestre 2010. La «consolidata presenza» in alcune aree lombarde di «sodali di storiche famiglie di 'ndrangheta» ha «influenzato la vita economica, sociale e politica di quei luoghi», riporta la Dia. La relazione sottolinea il «coinvolgimento di alcuni personaggi, rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore che, mantenendo fede a impegni assunti con talune significative componenti, organicamente inserite nelle cosche, hanno agevolato l'assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative».

CONSENSO E ASSOGGETTAMENTO - Per penetrare nel tessuto sociale, le cosche - che in Lombardia godono di una certa autonomia ma dipendono sempre dalla «casa madre» calabrese come ha dimostrato l'inchiesta «Crimine» che ha ricostruito l'organigramma della 'ndrangheta - si muovono seguendo due filoni: «quello del consenso e quello dell'assoggettamento». Tattiche che, sottolineano gli esperti della Dia, «da un lato trascinano con modalità diverse i sodalizi nelle attività produttive e dall'altro li collegano con ignari settori della pubblica amministrazione, che possano favorirne i disegni economici».

MOVIMENTO TERRA E OPERE DI URBANIZZAZIONE - Con questa strategia, e favorita da «una serie di fattori ambientali», si consolida la «mafia imprenditrice calabrese» che con «propri e sfuggenti cartelli d'imprese» si infiltra nel «sistema degli appalti pubblici, nel combinato settore del movimento terra e, in alcuni segmenti dell'edilizia privata» come il «multiforme compartimento che provvede alle cosiddette opere di urbanizzazione». Secondo la Dia dunque, si assiste ad un vero e proprio «condizionamento ambientale» da parte della 'ndrangheta, che è riuscita «a modificare sensibilmente le normali dinamiche degli appalti, proiettando nel sistema legale illeciti proventi e ponendo le basi per ulteriori imprese criminali». E la penetrazione nel sistema legale dell'area lombarda, è favorita, dice la Direzione investigativa antimafia, da «nuove e sfuggenti tecniche di infiltrazione, che hanno sostituito le capacità di intimidazione con due nuovi fattori condizionanti: il ricorso al massimo ribasso» nelle gare d'appalto e la «decisiva importanza contrattuale attribuita ai fattori temporali molto ristretti per la conclusione delle opere».

Redazione online
17 novembre 2010
http://www.corriere.it/cronache/10_novembre_17/lombardia-ndrangheta-dia_8abc6930-f24b-11df-a59d-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #92 inserito:: Novembre 22, 2010, 01:25:48 pm »

LA BOMBA DELL'ADDAURA

Riina dovrà risarcire i familiari di Falcone "Ma la delegittimazione arrivò dallo Stato"

Il tribunale civile di Palermo condanna solo a metà il capo di Cosa nostra per il fallito attentato del 1989.

Per il tritolo nella borsa lasciata sulla scogliera, non per le "umiliazioni" e le "calunnie".

Per la sentenza, le delegittimazioni furono architettate da "ambienti delle istituzioni", non dalla mafia.

E il "corvo" era "uomo delle istituzioni, non di Cosa nostra"

di SALVO PALAZZOLO


Totò Riina dovrà risarcire le sorelle di Giovanni Falcone, Anna e Maria, per il fallito attentato all’Addaura, del 21 giugno 1989. Il tribunale civile di Palermo ha condannato il capo di Cosa nostra a pagare 144.048,47 euro. Ma è un risarcimento solo per la borsa di tritolo lasciata sulla scogliera, non per l’opera di delegittimazione che colpì il giudice prima e dopo il fallito attentato davanti alla sua villa.

Le sorelle di Falcone chiedevano un risarcimento anche per questo: per le “umiliazioni”, le “calunnie”, gli “sleali attacchi e i torbidi giochi di potere”. Un risarcimento per la “macchina del fango”, come l’ha chiamata qualche giorno fa lo scrittore Roberto Saviano durante il programma “Vieni via con me”: prima, le lettere del Corvo, poi un tam tam di false notizie che sembrava inarrestabile. Un “infame linciaggio” lo definisce nella sentenza il giudice Paola Proto Pisani, della terza sezione civile del tribunale di Palermo. Ma non fu Cosa nostra a mettere in atto l’infame linciaggio. Piuttosto, “ambienti delle istituzioni”, scrive il giudice.

È una sentenza destinata a riaprire le polemiche attorno alla vita e alla morte di Giovanni Falcone. Paola Proto Pisani spiega nelle motivazioni della sentenza: “Brusca ha riferito espressamente che a fronte delle svariate notizie e voci che nell’immediatezza correvano sulla matrice dell’attentato dell’Addaura, Riina suggerì di “cavalcare” tale confusione, mantenendo il più stretto riserbo sulla matrice mafiosa dell’attentato, anche e proprio all’interno dell’ambiente degli uomini d’onore e di alimentare all’interno della stessa organizzazione le voci false che già correvano all’esterno sul tale fatto". In quei giorni, il venticello della calunnia disse pure che Falcone si era organizzato da solo il fallito attentato sugli scogli.
 
Non hanno ancora un nome ben definito gli uomini delle istituzioni che delegittimarono Falcone. Il mistero più grande resta quello del Corvo, l’autore delle lettere anonime che all’inizio di giugno dicevano di un progetto ordito da Falcone e dal superpoliziotto Gianni De Gennaro per far ritornare in Sicilia il pentito Salvatore Contorno con una missione di Stato: stanare i grandi latitanti di mafia. Per quelle lettere era finito sotto accusa l’allora sostituto procuratore Alberto Di Pisa, oggi procuratore a Marsala, ma è stato assolto definitivamente. Nella sentenza del processo Di Pisa si parla di un altro complotto, ordito negli ambienti dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia, finalizzato a incastrare il magistrato, attraverso la fotografia di una sua impronta. Misteri su misteri.

Il giudice Proto Pisani ricorda ancora le parole di Brusca: "Speriamo che il dottor Di Pisa si penta. Questo diceva Riina quando sentiva le notizie sulla sua incriminazione. Ma non perché poteva favorire Cosa nostra, perché il dottor Di Pisa era uno di quelli pure duri contro Cosa nostra. Ma credo che lui sapeva che all’interno della Procura c’era qualche spaccatura. "Speriamo che si pente" nel senso "speriamo che sapremo qualcosa di più". Gli faceva piacere che venivano fuori queste cose".

Sono parole che fanno dire al giudice Proto Pisani: il corvo non era un "uomo della mafia sapientemente infiltrato nelle istituzioni", piuttosto un "uomo delle istituzioni, non collega a Cosa nostra, in contrasto con Falcone per questioni attinenti alla modalità di gestione dei collaboratori o più in generale per le tecniche di investigazione relative alla criminalità organizzata, o anche per motivi di invidia o contrapposizione personale, che poi nei fatti ha concorso a realizzare l’interesse comune a Cosa nostra di delegittimare Falcone".

Dice l'avvocato Francesco Crescimanno, che ha assistito le sorelle Falcone assieme al collega Antonio Coppola: "Bisogna ancora fare luce sull'isolamento attorno a Giovanni Falcone. In molti dovrebbero fare autocritica".


(22 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://palermo.repubblica.it/cronaca/2010/11/22/news/addaura_riina_dovr_risarcire_falcone_ma_a_delegittimarlo_fu_lo_stato_non_la_mafia-9327296/?ref=HREC1-6
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« Risposta #93 inserito:: Giugno 18, 2011, 11:01:59 pm »

«P2-P4, Bisignani è l'anello di congiunzione»

di Roberto Brunelli


Giuliano Turone è il magistrato che insieme a Gherardo Colombo scoprì gli elenchi della loggia massonica di Licio Gelli. P2, P3, P4... una ragnatela di poteri occulta che sembra allargarsi dal passato a oggi.

Dottor Turone, pare una specie di maledizione italiana quella di dover convivere continuamente con qualche antistato... Si finisce col pensare che sia un fattore endemico al modo d’essere della politica italiana.

«Premetto che sugli avvenimenti di questi giorni so solo quello che leggo dai giornali. Ma certo possiamo considerare un anello di collegamento la presenza in questa inchiesti di Luigi Bisignani, il cui nome era contenuto negli elenchi P2. D’altronde è innegabile che vi sia continuità in certe situazioni nella storia del paese. Il cosidetto “Fattore K”, innanzitutto, la paura atlantica per la presenza di un Pci così forte in Italia, che ha contribuito a far venire fuori un miscuglio che ha portato a molte situazioni aberranti. In questo si inserisce la nascita della loggia P2, ma anche il rapporto di questa con la mafia...»

Per esempio?

«Eccolo. Negli anni ‘90, al processo di Palermo su Andreotti, i collaboratori di giustizia raccontano molto sul rapporto tra Cosa Nostra e P2. Raccontavano di una riunione con molti elementi di spicco di Cosa Nostra, ai primi di settembre del ‘79, a cui partecipò anche Licio Gelli, che li convinse a mollare Sindona perché sia lo Ior che la loggia volevano passare tutta la gestione finanziaria a Calvi...».

Sì, però molti dicono che la P4 di oggi abbia meno ambizioni della P2, che voleva mutare geneticamente le istituzioni italiane. Ma la capacità di condizionare il funzionamento dello Stato rimane....

«È un equivoco da cui bisogna uscire: P2, P3, P4... in realtà si tratta di una cosa che ci trasciniamo da tempo. D’altronde, una volta scoperta la P2, con le sue documentazioni su Corriere, Rizzoli, Banco Ambrosiano, molto di quel sistema di potere è rimasto in piedi pur modificandosi, anzi in parte quel potere occulto è in parte divenuto palese, e molti personaggi che gli gravitavano intorno sono rimasti o sono tornati in auge. Ogni tanto salta su uno e dice “ecco la P3”. Ma in realtà la chiave la dà lo stesso Licio Gelli, quando due anni fa, in unatv privata, decanta orgogliosissimo il suo “Piano di rinascita democratica” affermando, con unabattuta, che avrebbe fatto meglio a depositarlo alla Siae: aggiunse anche che oggi l’unico in grado di portarlo a compimento è Silvio Berlusconi, non tanto perché affiliato alla P2, ma perché “è un grand’uomo”.

Sono molti, se ci sono, i risvolti della vicendaP2 di cui oggi ancora non abbiamo piena consapevolezza?

«Ci sono ancora tante zone d’ombra. Troppe volte i procedimenti sono stati spostati da una città all’altra per impedire che si potesse indagare puntigliosamente».


18 giugno 2011
da - unita.it/italia/p2-p4-bisignani-e-l-anello-di-congiunzione-1.305365
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« Risposta #94 inserito:: Gennaio 30, 2012, 11:51:02 am »

26 gennaio 2012 - 14:34

Beppe Pisanu: le mafie mangiano alle 4 regioni del Sud il 20% del loro Pil – Il silenzio della società civile

Circola in questi giorni la proposta di relazione sulla prima fase dei lavori della commissione con particolare riguardo al condizionamento delle mafie sull'economia, sulla società e sulle istituzioni del Mezzogiorno, presentata nei giorni scorsi alla Commissione Parlamentare antimafia dal suo presidente Beppe Pisanu.

Gli spunti sono moltissimi e – con questo primo post – comincerò a darvi conti di quelli più interessanti. E’ datata 12 luglio 2011 – in vero – ma l’analisi ovviamente è attualissima.

Lo stesso Pisanu, in premessa scrive che: “Non è tempo di fare bilanci. Possiamo però affermare che nonostante talune difficoltà, compresa la non favorevole organizzazione dei lavori parlamentari, la nostra Commissione giunge a oltre metà mandato con un consistente patrimonio di conoscenze, analisi e proposte”.

La relazione sembra quasi scusarsi nel ricordare una cosa ovvia. Anzi due. La prima indigesta a molti osservatori del Nord:  il progressivo spostamento delle pratiche e degli interessi mafiosi ben oltre i confini del Mezzogiorno. “Possiamo dunque affermare che esse – scrive Pisanu - si sono, a loro modo, globalizzate e che in Italia sono entrate a far parte anche della cosiddetta questione settentrionale".

La seconda è drammatica: la Commissione antimafia ha stimato che l’attività mafiosa nella quattro regioni di origine causa un mancato sviluppo equivalente al 15-20% del Pil delle stesse regioni. “Come abbiamo ampiamente documentato – scrive Pisanu - gli investimenti e le speculazioni mafiose giungono in ogni settore di attività del Mezzogiorno e si confondono sempre più con l'economia legale. Va detto che, mentre l'accumulazione dei capitali illeciti procede per le vie consuete del racket, dell'usura, della droga, del gioco illegale e legale, della contraffazione e dei numerosi traffici di esseri umani, armi e rifiuti, si registra una evidente evoluzione dei comportamenti criminali: nel senso che i reati tradizionali sono in diminuzione e quelli di nuova specie in aumento. Ma va anche detto che se molto sappiamo su come i capitali mafiosi vengono raccolti, ancora poco sappiamo su come vengono occultati e investiti nell'economia legale e nei circuiti finanziari nazionali ed internazionali”.

Per intercettare e stroncare le reti e gli affari della criminalità organizzata lo Stato ha fatto e sta facendo molto. Nonostante ciò, le statistiche mandano segni allarmanti. Il 53% dei referenti del sistema Confindustria del Mezzogiorno reputa la propria area territoriale molto insicura; e il 42% attribuisce questa insicurezza alla criminalità organizzata e alla illegalità diffusa (con la seconda spesso preordinata o subordinata alla prima).

E' accertato, inoltre, che circa un terzo delle imprese meridionali subisce una qualche influenza delle mafie, con dati che oscillano tra il 53% della Calabria e il 18% della Puglia.

Pisanu non le manda a dire e rileva come alla forte iniziativa dello Stato sul terreno della repressione della criminalità organizzata, non sia ancora partita un'azione egualmente forte per distruggere il suo brodo di coltura, cioè il sottosviluppo. “Ciò che più sgomenta – si legge nella bozza di relazione - è l'enorme impronta che le attività mafiose, la dilagante corruzione, il deterioramento dell'etica pubblica e della stessa morale privata continuano a scavare nella società civile e nelle istituzioni del Mezzogiorno. E non di meno sgomentano i troppi silenzi e la diffusa indifferenza di fronte a questi fatti. Se si prospetta una manovra finanziaria biennale di circa 38 miliardi, l'opinione pubblica entra in fibrillazione. Ma se si afferma che solo sui giochi e le scommesse le organizzazioni criminali lucrano almeno 50 miliardi all'anno, pochi se ne curano!”

Alla stoccata segue una pillola più “dolce”: “Non si spezza la spirale della criminalità, il suo crescente e oscuro reclutamento, se non si riformano l'economia e la società del Mezzogiorno. Bisogna riconoscere senza mezzi termini che la debolezza e la scarsa attrattiva del Sud dipendono in buona parte dalla presenza soffocante della criminalità organizzata. In talune aree, controllando il territorio e le stesse forze produttive, essa riesce perfino a plasmare l'economia locale sui propri disegni criminali.    A questo fine intimidisce i cittadini, scoraggia l'autonoma volontà di intraprendere e la orienta verso le sue imprese, ponendosi in alternativa allo Stato. In cambio offre i suoi "sostituti assicurativi": e cioè una generale protezione nei confronti delle amministrazioni e delle burocrazie locali, dei sindacati e della concorrenza. Si formano così dei monopoli o quasi monopoli mascherati che impongono le loro scelte anche sulle forniture, i mercati di sbocco e il reclutamento della manodopera”.

Per il momento mi fermo qui ma torno prestissimo.

r.galullo@ilsole24ore.com

1 – to be continued

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« Risposta #95 inserito:: Gennaio 30, 2012, 11:52:40 am »

27 gennaio 2012 - 9:22

Beppe Pisanu: “La zona grigia diventa nera – Dai professionisti solo 223 segnalazioni antiriciclaggio su 26.947!”

Se certe cose le scrivono –propria sponte – i giornalisti, vengono accusati di diffamare le categorie. Se a metterle nero su bianco è il presidente della Commissione parlamentare antimafia Beppe Pisanu nella proposta di relazione sulla prima fase dei lavori della stessa Commissione con particolare riguardo al condizionamento delle mafie sull'economia, sulla società e sulle istituzioni del Mezzogiorno, magari le cose cambiano (si veda in archivio il post di ieri).

E già, perche Pisanu, - ma in realtà questa proposta sarà, al massimo con ritocchi, fatta propria dall’intera Commissione parlamentare antimafia e dunque si può parlare di un idem sentire collegiale  e di una relazione sostanzialmente approvata - con riferimento alla cosiddetta zona grigia scrive che certamente una quota non insignificante di popolazione meridionale partecipa in forme diverse alle attività criminali. Ma quella che più inquieta è la cosiddetta “zona grigia” che spesso la Commissione ha incontrato nelle sue indagini. Ne fanno parte persone generalmente insospettabili e dotate di competenze imprenditoriali, finanziarie, giuridiche, istituzionali e politiche che, nel loro insieme, costituiscono il filtro indispensabile per far passare enormi capitali dall'economia criminale all'economia legale.

“Cito a questo proposito un solo dato – si lancia ben sapendo di cogliere nel giusto Pisanu – e cioè nel 2010 sono state segnalate alla Guardia di Finanza e alla Dia 26.947 operazioni sospette, delle quali ben 4.700 sono poi confluite in procedimenti penali per riciclaggio, usura, estorsione, abusivismo finanziario, frode fiscale eccetera. Però quasi tutte le segnalazioni sono arrivate dal sistema bancario, mentre da operatori non finanziari e liberi professionisti ne sono arrivate solo 223”. La zona grigia è dunque nera e complice: attenzione non sono parole mie ma proprio quelle testuali del presidente della Commissione parlamentare.

Individuare e rompere i legami occulti tra zona grigio-nera e ambienti criminali è uno dei grandi compiti che la Commissione si propone dopo il giro di boia dei prima anni di lavoro. Anche sul piano legislativo. “A questo fine – scrive Pisanu - forse dovremo puntare di più sul reato di "favoreggiamento" specificamente aggravato, superando quei limiti del "concorso esterno in associazione mafiosa" che le statistiche giudiziarie evidenziano impietosamente. Mi riferisco al fatto che fino al 2008 di circa 7.000 indagati a questo titolo, il 60% é stato archiviato, mentre solo l'8% è arrivato a condanna. Mi chiedo, onorevoli colleghi, come sia possibile battere militarmente la mafia se non la si sconfigge contemporaneamente sul terreno dell'economia, delle relazioni sociali, della pubblica amministrazione e della stessa moralità politica.          Non si sono mai visti tanti interessi criminali scaricarsi pesantemente, senza neanche il velo della mediazione, sugli enti locali, sulle istituzioni regionali e sulla rappresentanza parlamentare. Gli organi di informazione, le indagini della magistratura, i primi controlli sulla formazione delle liste ci hanno dato in questo senso conferme inequivocabili”.

Un ragionamento che non fa una grinza e che – nel mio piccolo – sottoscrivo.

r.galullo@ilsole24ore.com

2 – to be continued (la prima puntata è stata pubblicata ieri 26 gennaio)

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da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/01/beppe-pisanu-la-zona-grigia-diventa-nera-dai-professionisti-solo-223-segnalazioni-antiriciclaggio-su-26947.html
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« Risposta #96 inserito:: Gennaio 30, 2012, 11:53:35 am »

27 gennaio 2012 - 16:49

Commissione antimafia: 25 miliardi per Expo 2015 fanno gola – Pisanu: “Lotta alle mafie? Tempi lunghi”


Certo che fa male scoprire – a distanza di decine di anni dalla presa coscienza del fenomeno, migliaia di indagine della magistratura e decine di migliaia di operazioni delle Forze dell’Ordine - che per avere ragione delle mafie “occorrerà sferrare un’offensiva di medio-lungo periodo, mettendo in campo risorse adeguate e combinando ciò che oggi è invece sterilmente disgiunto: e cioè la forza della repressione con la forza dello sviluppo economico e del rinnovamento sociale”.

Nero su bianco è quanto scrive Beppe Pisanu nella relazione sulla penetrazione delle mafie nell’economia della Commissione parlamentare antimafia di cui sto scrivendo da alcuni giorni (si vedano post in archivio ieri e oggi).

Fa male scoprire che siamo non dico all’anno zero ma…insomma…Certo la commissione antimafia ha ragione nel battere sul nervo scoperto: senza sviluppo economico, come può il Sud allontanare l’ombra lunga delle mafie?

Solo il Sud? Eh no ragazzi miei.

Una parte invero molto interessante della relazione è quella relativa alla “cruciale e fruttuosa” missione a Milano (così testualmente la definisce Pisanu) che la Commissione parlamentare antimafia ha condotto il 21 e 22 gennaio 2011.

Cruciale perché Milano, "capitale economica d'Italia", non può non essere obiettivo dell'espansione economica delle mafie di ogni tipo e di ogni provenienza, sempre interessate a qualunque fonte di arricchimento, con strumenti leciti o illeciti.

Fruttuosa perché i dati acquisiti nel corso della missione hanno delineato un quadro chiaro delle problematiche in gioco ed un altrettanto chiaro quadro delle possibili soluzioni.

L’area metropolitana di Milano è il territorio più ricco ed economicamente sviluppato d’Italia: le 338.659 imprese attive nel 2007 costituiscono circa il 42% delle imprese lombarde e il 6,5% delle imprese italiane. Anche il reddito disponibile pro capite si attesta su livelli molto alti (21.660 euro) e lo stesso dicasi per i consumi finali interni pro capite (19.392 euro).

La leadership nel settore economico del territorio milanese è confermata dai dati relativi alla produzione di ricchezza: nel 2007 l’area metropolitana di Milano ha generato un Pil di 153.384,8 milioni di euro (pari a circa il 10% del Pil nazionale), con una quota di Pil pro capite di 39.557,08 euro. “Non stupisce, pertanto, che il territorio milanese, come tutte le aree produttive del Paese - si legge nella relazione -  sia obiettivo privilegiato di espansione e radicamento di strutture associative di tipo mafioso, che tendono sempre di più ad infiltrare la attività produttive, economiche, imprenditoriali sane, per reinvestire (e così riciclare) attraverso l'uso di strumenti economico-giuridici "puliti" e formalmente legali - capitali provento di attività illecite”.

Le imprese non hanno difficoltà di accesso al credito, atteso che hanno un surplus di liquidità, ovviamente di provenienza illecita; non hanno difficoltà a superare concorrenti o ad imporsi nei rapporti commerciali, anche senza l'uso della violenza ma con la semplice "spendita del nome mafioso"; hanno facilità a trovare manodopera senza incorrere in episodi di conflittualità sindacale, potendo contare su un notevole numero di soggetti disposti a lavorare per essa e potendo vincere le resistenze dei contraddittori con metodi eterodossi).

Negli ultimi anni molte cosiddette "grandi opere" sono state progettate, finanziate e poste in esecuzione nella regione Lombardia: sistemi stradali come l'Autostrada Pedemontana e l'Autostrada Brescia-Bergamo, la Tangenziale Est esterna di Milano, il Raccordo Autostradale della Valtrompia; sistemi ferroviari quale l'Alta velocità ferroviaria Torino-Lione.

Certamente, però, il grande evento è rappresentato dall'Expo 2015, assegnato dal Bureau International des Expositions proprio a Milano. Come vero e proprio traino, l'Expo comporta da solo la realizzazione di ben 17 grandi opere infrastrutturali connesse (viarie, ferroviarie e metropolitane, contemplate o direttamente indicate nel dossier di candidatura), alcune delle quali sono in realtà opere già avviate indipendentemente dall'Expo e poi rifinanziate con i fondi stanziati per la manifestazione internazionale.

L' elenco delle opere previste fa percepire concretamente che è in arrivo su Milano una marea di denaro pubblico, stimato fino a 25 miliardi tra opere e costi diretti (ossia creazione degli spazi espositivi e gestione, che rappresentano tuttavia la voce minore, pari a circa 4 miliardi) e costi indiretti (infrastrutture connesse). “Per questo l'Expo 2015 – afferma la Commissione parlamentare antimafia - rappresenta una vera e propria emergenza di legalità per i concreti e notevoli rischi di infiltrazione delle imprese mafiose nelle procedure di aggiudicazione ed esecuzione dei lavori, come confermato dall'emanazione da parte del Governo di un decreto-legge che ha esteso all'Expo milanese la normativa di verifica e di prevenzione antimafia già utilizzata per prevenire infiltrazioni di tipo mafioso nelle opere di ricostruzione in Abruzzo”.

Per ora mi fermo qui.

r.galullo@ilsole24ore.com

3 – to be continued (la prima puntata è stata pubblicata ieri 26 gennaio, la seconda oggi)

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« Risposta #97 inserito:: Gennaio 30, 2012, 11:55:37 am »

30 gennaio 2012 - 8:51

Criminal mind/4

San Marino come Scampia: propositi omicidi e minacce ai bambini per costringere i padri a cedere ai ricatti!

C’è un altro aspetto che mi ha colpito molto dell’operazione “Criminal mind” della Procura e della Guardia di finanza di Rimini (rimando ai precedenti post in archivio). Un altro dettaglio, oltre a quelli già evidenziati nei giorni scorsi, che “racconta” ancora la pericolosa china nella quale sta scivolando San Marino. Un aspetto già portato alla luce dai bravi colleghi dell’Informazione, quotidiano sammarinese, che è degno di essere riproposto ad una platea ampia.

L’episodio coinvolge uno degli arrestati, il napoletano Riccardo Ricciardi, secondo il quale, per come si legge nell’ordinanza, l’imprenditore sammarinese Claudio Vitalucci aveva un debito con la Finanziaria Fingestus per 8,5 milioni. Di tale somma aveva (avrebbe perché ovviamente le indagini non sono certo esaurite) restituito solamente 110 mila euro in quanto non aveva neppure sbloccato un non meglio precisato libretto di deposito che aveva consegnato a garanzia dell’esatto adempimento delle obbligazioni assunte con la Finanziaria sammarinese.

La sintesi riepilogativa con cui si chiude la conversazione (di cui, in parte, darò ora conto) “illuminava” secondo  i pm i definitivi contorni della vicenda estorsiva: Vitalucci tramite una sua società, aveva venduto a Petra Immobiliare Spa (società controllata dal Gruppo Karnak), un immobile per una somma nell'ordine di circa 4 milioni di euro, ma che a dire di Vitalucci aveva un valore immobiliare nettamente superiore, stimato da un suo consulente intorno agli 8 milioni di euro. Vitalucci pretendeva dunque i 3 milioni quale differenza del prezzo.

In una girandola di telefonate da perderci la testa, ad un certo punto l’imprenditore sammarinese Marco Bianchini, ex presidente del cda di Fingestus e socio Karnak, ribadisce a Ricciardi di essere vittima di un tentativo di estorsione: "Lo lo so… io lo so già, io sono oggetto di una estorsione per cui ne abbiam già parlato, io non ...".

Ricciardi ne è consapevole e per questo motivo lo avrebbe protetto: “ Perfetto! Allora siccome io so benissimo. sto al tuo fianco. non mi sono spostato, perché io potevo benissimo dire ''Andatevi a prendere il signor Bianchini e ammazzatelo, visto che vi state atteggiando tanto!" ma posso fare anche al contrario!"

Io qui mi fermerei un attimo perché non so se è chiaro quel che dice (o spaccia e millanta) Ricciardi: vale a dire la possibilità, la capacità o la volontà di ordinare ad altri (chi?) un omicidio. Ma lui questo – che millanti o meno non è compito mio appurare - non lo fa e si schiera al fianco dell’imprenditore.

Bianchini, almeno secondo quanto ricostruiscono i pm, sapeva di essere in pericolo di vita e lo si capisce da questo stralcio intercettato: "Si. ma io... ma che mi ammazzino!”  Se non è uno sfogo è la consapevolezza che non si scherza con il fuoco.

Ricciardi intanto ribadisce l’ammontare del debito di Vitalucci e sottolinea che allo stesso erano state riconsegnate anche le caparre confirmatorie. Ecco cosa dice: "E pagherà! Vitalucci si deve andare avanti come si sta andando avanti  molto semplice, per vie legali. lui deve dimostrare davanti a delle persone e deve dire "Non ci saranno venti discussioni o alterazioni, o si o no!" se le carte dicono "Hai mai pagato ... "quante ... allora quante rate ci sono tra la casa e il capannone? Da quanti anni ce l'hai? Da due anni? Quanto hai pagato su 10 milioni di euro di rate? 110.000 euro? "Scusa un attimo. Su 8 milioni di euro di rate hai pagato 110 mila euro, hai avuto anche le caparre confirmatorie indietro? Apposto, cosa minchia vuoi di più”!".

Ricciardi è sicuro che Vitalucci pagherà, Lo stesso Ricciardi che ancor più sicuro dirà: “Con la legge, non per quello che la gente dice e l'ennesima dimostrazione che Marco Bianchini e i suoi collaboratori visibili e non visibili non fanno gli stronzi, perché non ci chiamiamo Benito Rese che siamo a società con i Casalesi e abbiamo mandato ... noi non abbia... tu non li sei mai permesso di andare a dire o dire e andare vicino a qualcuno a dire "Mi vai a picchiare i figli di Benito... del fìglio di Benito Rese", lui ti voleva fare a menare i fìgli tuoi' che hanno l'età dei figli miei, eh! Cioè stiamo parlando di bambini di otto e sei anni che la registrassero la telefonata, che la registrassero la telefonata, ma io non posso avere delle persone a me estremamente care a repentaglio per colpa di un pezzo di merda come Della Vedova che butta la pietra e nasconde la mano ".

Ecco questo – ripeto anche qui: sempre che non si tratti di millanterie – sarebbe davvero uno spaccato di intimidazioni che avvengono (avvenivano) perlopiù al Sud: la minaccia di picchiare i figli per portare a più miti consigli i padri!

Ricciardi e Bianchini sapevano che Vitalucci era fallito e per questo il primo afferma: "Se io stipulo con te un contratto, questo e quest'altro, allora gli assegni sono risultati tutti indietro e ci sono stati problemi, e uno, lo sconto assegni, quest'altro la casa questo, quest'altro questo, fino adesso tu hai pagato una rata di 110.000 euro, va bene, e hai avuto indietro una parte di una fideiussione bancaria, i 110.000 euro ne hai avuti 60.00.0 i...” Bianchini risponde: “E' tutto, è tutto scritto”. Di nuovo Ricciardi: “Caparra confìrmatoria, fammi capire come cazzo tu devi avere 3 milioni, sono io che t'ho ridato i soldi per riprendere aria”. Bianchini è d’accordo: “Si, si, si “ e Ricciardi: “Sperando che eri un uomo”

A presto.

4 – the end (le prime tre puntate sono state pubblicate il 18, 19 e 20 gennaio)

r.galullo@ilsole24ore.com

da - http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com/2012/01/criminal-mind4-san-marino-come-scampia-propositi-omicidi-e-minacce-ai-bambini-per-costringere-i-padr.html
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« Risposta #98 inserito:: Febbraio 10, 2012, 11:17:15 am »

IL RACCONTO di ENRICO DEAGLIO

Tangentopoli, Falcone e Borsellino 1992, l'anno che cambiò l'Italia


Tutto accade vent'anni fa, quando una serie di eventi cambiarano il volto del nostro Paese. Prima la sentenza del maxiprocesso contro la Mafia. Poi l'uccisione di Salvo Lima e la stagione delle grandi stragi di Cosa Nostra.

Negli stessi giorni, a Milano, Mario Chiesa intascava tangenti, Di Pietro lo covinse a confessare e il 'mariuolò fu arrestato.

Poi ci fu il boom della Lega e, due anni dopo, Berlusconi scese in campo. Così finì un epoca e si affermò l'idea che fosse una rivoluzione
Il 1992 - giusto vent'anni fa - fu l'anno che cambiò l'Italia. Davvero. Ma non fu una rivoluzione, gli italiani non fanno rivoluzioni. Tutti coloro che all'epoca avevano l'età della ragione ricordano quell'anno, se lo vedono balzare di fronte alla memoria. Le serate passate alla tv per sapere in diretta chi era stato arrestato a Milano: un mondo politico che sembrava immortale che crollava sotto i nostri occhi. E poi le bombe: tutti ci ricordiamo dove eravamo quando qualcuno ci disse che era stato ucciso Falcone. E Borsellino? Eravamo già in vacanza, mi sembra... Comunque, faceva molto caldo.

Subito dopo vennero le immagini dell'esercito italiano in Sicilia: ufficiali con le mimetiche e i Ray-Ban a specchio, a mezzo busto fuori dalle torrette dei blindati, in mezzo a sacchi di sabbia, palazzi di tufo, bambini curiosi: andavamo a mettere mano su una colonia irrequieta. Alla fine dell'anno il governo operò un improvviso e non indifferente prelievo dalle tasche di tutti, per evitare all'Italia di fare la fine dell'Argentina (vent'anni fa la Grecia si chiamava così).

Eppure quando cominciò, il 1992 sembrava tranquillo, ancorché "bisestile". Il solito rissoso governo pentapartito guidato dal solito Giulio Andreotti; un ex Pci sempre più diviso in due dopo la caduta del Muro, grande successo per la canzone di Battiato, Povera patria, schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame... La normalità di un Paese ricco, insomma. E invece, la cronaca prese il sopravvento. A dare inizio alla valanga fu la pubblicazione, il 30 gennaio, della Sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione nel maxiprocesso contro Cosa Nostra. Era la più grande mazzata che la mafia avesse mai avuto nella sua storia: 360 condanne, 19 ergastoli da scontare in carceri di massima sicurezza, sequestro delle ricchezze accumulate con il delitto. Poteva essere la fine della nostra vergogna nazionale, ed invece la storia ricominciò proprio da lì. Guidata da Salvatore Riina e da Bernardo Provenzano - due contadini semianalfabeti del paese di Corleone, latitanti da decenni - Cosa Nostra passò all'attacco.

Il primo a cadere (a Palermo, il 12 marzo) fu l'eurodeputato Salvo Lima, braccio destro di Giulio Andreotti in Sicilia, il suo granaio elettorale. Freddato sul lungomare di Mondello da due killer in motocicletta: inaudito. E successe un fatto strano: nonostante fosse un uomo potente, solo il suo capo, Andreotti, scese a Palermo per i funerali: tutto il restante mondo politico disertò, annusando l'aria che tirava. Giovanni Falcone, il magistrato che aveva sconfitto Cosa Nostra nel maxiprocesso, capì immediatamente quello che stava succedendo: Cosa Nostra aveva avuto assicurazioni politiche su una sentenza favorevole; non l'aveva ottenuta e si stava vendicando. Non solo, andava alla ricerca di un altro referente politico. Si preparavano tempi di guerra.

Negli stessi giorni, qualcosa di grosso stava maturando nella capitale morale, Milano. Una signora divorziata, tale Laura Sala, si era rivolta al giudice perché l'ex marito, l'ingegner Mario Chiesa, personaggio in ascesa della nomenclatura socialista meneghina, presidente del benemerito Pio Albergo Trivulzio (vanto dell'assistenza sociale), le passava poco di alimenti. E dire che era ricchissimo. Guarda, guarda, pensarono i carabinieri. Che furono molto zelanti e arrestarono Mario Chiesa, il 17 febbraio, mentre intascava una tangente di sette milioni e altrettanti li stava eliminando nel water. La pratica era seguita da un pubblico ministero sconosciuto, un ex poliziotto molisano, tale Antonio Di Pietro, 42 anni, sanguigno e dal linguaggio colorito, di simpatie democristiane, e che indossava improponibili cravatte di pelle. Di Pietro convinse Mario Chiesa a confessare.

E così si scoperchia la più grossa storia di corruzione della Repubblica italiana, passata alla storia come "Tangentopoli " (una specie di Paperopoli di Walt Disney); o "Mani pulite". Ogni giorno qualche pezzo grosso finisce nel carcere di San Vittore; ogni giorno qualcuno denuncia qualcun altro; gli industriali raccontano che non possono lavorare se non danno il 5-10 per cento ai partiti. Il procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, affianca altri due magistrati a Di Pietro; Gherardo Colombo (che dieci anni prima aveva scoperto l'esistenza della P2) e Piercamillo Davigo, un forte conoscitore del codice. Il neonato Tg4, diretto dal giornalista ex Rai Emilio Fede, ha l'idea di piazzare un telegiornale in diretta dal Palazzo di giustizia, per dar conto di arresti e confessioni. E le notizie non mancano: crollano dirigenti politici cittadini, regionali, nazionali di quasi tutti i partiti; affondano la Dc e il Psi, vengono ridotte a zero antiche e storiche formazioni come il Pli e il Pri, e più recenti come il Psdi; rimane un po' contuso, ma sostanzialmente salvo il Pds, erede del Pci; estraneo solo il Msi, perché piccolo ed escluso dalla torta degli appalti. Gli italiani fanno un corso accelerato di procedura penale: imparano che cos'è un avviso di garanzia, le differenze tra pm e gip, quella strana cosa che si chiama concussione. La satira di ispirazione comunista raggiunge il suo apice quando può pugnalare i compagni alleati. Settimanale Cuore, titolo a tutta pagina: "È scattata l'ora legale, panico tra i socialisti".

Il 7 aprile si va alle urne: la Dc perde due milioni di voti, il Psi se la cavicchia, il Pds di Achille Occhetto è ridotto al sedici per cento dei consensi. Il bottino è della Lega lombarda di Umberto Bossi, che conquista tre milioni di voti (nel giro di cinque anni questo partitino ha moltiplicato per trenta il suo elettorato in Lombardia e Veneto). L'ideologo della Lega è un vecchio professore universitario, Gianfranco Miglio, che ama vestirsi come un borghese sudtirolese nei giorni di festa, tutto loden e cappellini. La sua proposta è netta: l'Italia va divisa in tre regioni, Padania, Etruria e Mediterranea, e aggiunge che quest'ultima andrebbe governata direttamente dalla mafia, dato che esprime la migliore classe dirigente.

Il 25 aprile, con un interminabile messaggio televisivo (45 minuti), si dimette, con sei mesi di anticipo, Francesco Cossiga, ottavo presidente della Repubblica. Negli ultimi anni del suo mandato si era reso famoso per le sue esternazioni; proclami populistici, attacchi, spesso oscuri, a magistrati, minacce di rivelazioni di segreti di Stato si accompagnavano alla difesa di massoni e carabinieri, dei quali ultimi il presidente invocava una maggiore presenza nella vita pubblica. Di lui si diceva che era pazzo; il bello era che lui confermava.

E così arriviamo alla primavera del 1992. Le elezioni per il nuovo presidente (in genere più lunghe di un conclave vaticano) sono fissate per il 13 maggio. Il favorito dai bookmaker è la vecchia volpe Giulio Andreotti, anche se segnata dal delitto siciliano. Il 23 maggio è un giorno come gli altri. I milioni di appassionati di ciclismo aspettano l'inizio del Giro d'Italia scommettendo su Chiappucci contro il favorito Indurain; gli appassionati di politica seguono le elezioni presidenziali che si trascinano da dieci giorni (Forlani, l'ex pallido segretario della Dc era sembrato farcela, ma Andreotti è pronto al balzo finale). Quasi nessuno presta attenzione a un dispaccio dell'agenzia Agir datata 22 maggio (Agir è una delle decine di foglietti del sottobosco politico romano), diretta da Vittorio Sbardella, potente ex andreottiano. Questi prevede uno stato di improvvisa emergenza per un "bel botto esterno, qualcosa di drammaticamente straordinario". Alle 17.55 questo avviene.

L'autostrada Palermo Punta Raisi, in località Capaci, si solleva come un muro di fuoco al passaggio del convoglio che trasporta il giudice Giovanni Falcone. Nel più grande attentato mai visto in Europa dalla fine della guerra - 800 chili di esplosivo in un canale di scolo, un telecomando azionato a 400 metri di distanza - muoiono Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, gli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo. Si salva l'autista Giuseppe Costanza e la sua vicenda chiama in causa l'esistenza del Fato. Falcone aveva chiesto di guidare "per rilassarsi" Costanza si era seduto sul sedile posteriore, nel posto che sarebbe stato del giudice (se fosse rimasto alla guida, la Storia sarebbe cambiata). Nella notte, il centro di Palermo si riempie di lenzuola bianche appese ai balconi, "No alla mafia". Il 25 maggio Oscar Luigi Scalfaro, novarese, tradizionalista, democristiano "senza correnti", presidente della Camera, viene eletto nono presidente della Repubblica con 672 voti. La sua prima presenza pubblica sarà a Palermo ai funerali delle vittime di Capaci, in una tremenda tensione emotiva. Quando tutto sembrava essere finito, quando il paese era in vacanza, ecco il 19 luglio, di nuovo a Palermo.

Un'autobomba in una caldissima domenica pomeriggio distrugge la vita del giudice Paolo Borsellino (il magistrato che avrebbe dovuto prendere il posto di Falcone alla guida della Procura nazionale antimafia) e della sua scorta. È a questo punto - quando veramente sembra che l'Italia non esista più - che arriva l'esercito in Sicilia e un ponte aereo trasporta centinaia di mafiosi incarcerati nell'isola di Pianosa, una specie di Guantanamo ante litteram. Ma, davvero, il 1992 non era ancora finito.

Il livello di corruzione che l'Italia politica aveva espresso (tale che nemmeno la magistratura di Milano sembrava comprenderlo appieno); il livello di violenza terroristica che la mafia aveva scatenato; le pulsioni secessioniste di un Nord economicamente annichilito e senza rappresentanza politica; tutto questo ebbe il suo esito nella più grave crisi finanziaria italiana dal dopoguerra, prima dell'attuale. I Bot non venivano sottoscritti, la Banca d'Italia riusciva, ma solo con l'esborso di 40.000 miliardi, ad impedire il crollo della nostra moneta. Toccò al governo di Giuliano Amato (il socialista che era succeduto a Giulio Andreotti) imporre, in una notte, un prelievo forzoso da tutti i conti correnti; toccò ai sindacati firmare un accordo in cui rinunciavano per due anni ad aumenti salariali e alla indicizzazione della scala mobile. La lira, svalutata del 7 cento, ridiede così un po' di competitività alle esportazioni e ci salvò dal baratro. Ad ottobre, il grande pentito di mafia Tommaso Buscetta - ormai una specie di oracolo - tornò dagli Stati Uniti per annunciare anche agli italiani quello che aveva già detto dieci anni prima all'Fbi; e cioè che Giulio Andreotti era il capo politico di Cosa Nostra.

Il 3 dicembre il magistrato Domenico Signorino, uno dei giudici che aveva retto l'accusa contro Cosa Nostra al maxiprocesso di Palermo, si suicidò, dopo essere stato accusato di essere al soldo della mafia. Il 15 dicembre il segretario del Psi, Bettino Craxi ricevette l'avviso di garanzia che determinò la sua fine politica e personale (pochi mesi dopo, partendo per la Tunisia, dichiarò: "Non starò qui a prendermi le bombe"). La Democrazia cristiana, da sempre il partito di riferimento degli italiani, nello stesso periodo cessò, anche formalmente, di esistere. Alla vigilia di Natale, Bruno Contrada, il capo dei nostri servizi segreti con competenza sulla Sicilia, fu arrestato con l'accusa di avere protetto, per anni, la mafia. E, finalmente, l'anno finì.

Il 1993 sarebbe stato ancora più drammatico e violento. Si aprì con l'arresto spettacolare di Salvatore Riina (il latitante imprendibile viveva da sempre e tranquillamente a casa sua a Palermo, con moglie e quattro figli; e la sua cattura - oggi si sa - fu una colossale farsa); continuò con l'incriminazione di Andreotti per mafia; i suicidi eccellenti (il potentissimo presidente dell'Eni Gabriele Cagliari e il più ricco industriale italiano, Raul Gardini); fu costellato dalle tremende bombe mafiose di Firenze, Roma e Milano e terminò con la più inattesa delle novità: la discesa in campo in politica di Silvio Berlusconi, uno dei pochissimi industriali milanesi che era passato indenne dalle inchieste di Mani pulite, e che godeva di solidi appoggi finanziari nella Sicilia di Cosa Nostra. Il suo (imprevisto) dominio sull'Italia è durato diciassette anni. Un altro beneficiato dagli eventi fu il magistrato Antonio Di Pietro, che divenne prima un "eroe italiano", poi un uomo politico di una certa importanza che dura tuttora. La cronaca è il racconto degli avvenimenti così come si susseguono nel tempo. La storia è il senso di quegli avvenimenti. Ma purtroppo, il "senso di quel 1992" ancora non lo conosciamo.

La magistratura di Milano salvò il Pci-Pds? Bettino Craxi (il cattivo numero uno dell'epoca) fu affossato perché si era opposto agli americani ai tempi di Sigonella? Cosa Nostra determinò l'eliminazione di Andreotti dalla competizione per il Quirinale? Paolo Borsellino fu ucciso perché si era opposto ad una trattativa tra lo Stato e la mafia? Marcello Dell'Utri, il fondatore del nuovo partito di Forza Italia, agiva come emissario di Cosa Nostra? La Lega e Cosa Nostra perseguivano l'obiettivo comune della divisione dell'Italia? O gli avvenimenti si susseguirono senza alcuna regia? Ognuno metta in una busta la sua spiegazione. La verità - ma solo almeno tra cinquant'anni - sarà premiata dalle autorità competenti. Nel frattempo, in occasione del ventennale, ricordiamo commossi il 1992, gli eroi uccisi, l'indignazione popolare, la società civile, l'anelito risorgimentale. E pazienza se la corruzione e la mafia sono più forti di venti anni fa.

09 febbraio 2012
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« Risposta #99 inserito:: Febbraio 10, 2012, 05:07:19 pm »

LA TRATTATIVA

di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO

La lista nera che spaventò lo Stato

Così un accordo salvò ministri e politici


Dal 2009 si indaga su "strategie destabilizzanti" ed "eventi omicidiari" che nel 1992 avrebbero potuto insanguinare il Paese. Secondo i magistrati, la trattativa tra Stato e mafia non è dipesa da Totò Riina, ma dalla volontà di evitare episodi stragisti, assassinii e sequestri di leader di partito e di governo: da Andreotti a Mannino, da Vizzini a Martelli, ecco chi era nel mirino delle cosche. I segreti di quei giorni in un documento del Viminale
PALERMO - Oggi sappiamo perché, al tempo delle stragi, c'è stata una trattativa con la mafia. Sappiamo che non l'ha voluta Totò Riina, ma l'ha voluta lo Stato: per salvare la vita di alcuni uomini politici. Erano in una lista nera. Un elenco di ministri.  E fra loro c'era anche - come riportava una nota del Viminale alla fine dell'inverno 1992 - quello che veniva considerato "il futuro presidente della Repubblica", ossia Giulio Andreotti.

Dopo diciannove anni avvolti nell'omertà e nei depistaggi, su quel patto segreto i procuratori di Palermo stanno seguendo una pista che porta dritta a una conclusione: dopo l'uccisione dell'eurodeputato siciliano Salvo Lima e dopo quella del giudice Giovanni Falcone, qualcun altro era finito nel mirino dei Corleonesi e così ha ordinato - a uomini di fiducia dei reparti investigativi - di agganciare i boss per fermare i sicari e salvarsi la pelle. Pezzi da novanta della politica che i mafiosi, a torto o a ragione, consideravano "traditori". Amici o complici che non avevano rispettato accordi antichi, gente che in passato (nel migliore dei casi) si era presa i voti di Cosa Nostra e poi aveva voltato le spalle dimenticando tutto.

La lista nera che hanno ricostruito i magistrati siciliani è il risultato di una lunghissima attività istruttoria iniziata nella primavera del 2009 e che è stata completata con l'acquisizione, un mese e mezzo fa, di un documento del ministero dell'Interno su "strategie destabilizzanti" e "eventi omicidiari" che nel 1992 avrebbero insanguinato il Paese. Il documento - di cui leggerete alcuni stralci qualche riga più sotto - è diventato pubblico il 10 ottobre scorso, depositato dai pm al processo contro il generale Mario Mori, accusato di avere favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Un dibattimento che è diventato, di fatto, un "pezzo" della trattativa fra Stato e mafia.

...

Ma torniamo all'elenco dei bersagli della mafia scoperti dagli investigatori. Si apre con quello che era allora il ministro per gli Interventi Straordinari per il Mezzogiorno, Calogero Mannino, un ras in Sicilia. E poi Carlo Vizzini, palermitano, ministro delle Poste e Telecomunicazioni. Il ministro della Giustizia Claudio Martelli, che da poco più di un anno aveva chiamato accanto a sé Giovanni Falcone come direttore generale degli Affari penali al ministero di via Arenula. E Salvo Andò, catanese, socialista craxiano, ministro della Difesa. C'era anche Sebastiano Purpura, un politico siciliano che diciannove anni fa era assessore regionale al Bilancio e soprattutto era un fedelissimo di Salvo Lima.

Sono loro i primi nomi che compaiono nell'indagine dei magistrati di Palermo. L'inchiesta sulla trattativa sembra arrivata a una svolta decisiva. Dalla montagna di carte - centinaia di interrogatori, confronti all'americana, deposizione di pentiti, sequestro di atti - sul negoziato cominciato subito dopo la strage Falcone e poco prima della strage Borsellino è affiorato il "movente", probabilmente è stata individuata la ragione che ha portato uomini degli apparati ad avvicinare personaggi come l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino e che ha convinto successivamente lo stesso Totò Riina a scrivere il "papello", quella piattaforma di rivendicazioni giudiziarie e carcerarie in favore di Cosa Nostra da sottoporre allo Stato. Sconti di pena, revisione del maxi processo, abolizione del carcere duro in cambio del silenzio delle armi.

Il filo che seguono i pm siciliani - indagano Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Paolo Guido - parte dagli omicidi Lima e Falcone. Lima, uomo vicino a Cosa Nostra e vicerè siciliano di Giulio Andreotti, viene ucciso il 12 marzo 1992 fra i vialetti di Mondello. Colpito alle spalle, proprio come un traditore. Fatto fuori dai Corleonesi perché "non ha rispettato i patti". In sostanza, Lima paga il conto per non avere più "garantito" Cosa Nostra, in particolare muore "per non essere riuscito a far aggiustare il maxi processo in Cassazione".

L'omicidio Lima cambia per sempre la storia di Palermo e fa saltare tutti gli equilibri politici in Italia. Il primo che paga un altro conto - che poi è sempre lo stesso - è Giulio Andreotti, presidente del Consiglio per la settima volta in quel 1992 e in pole position per l'elezione di fine primavera alla Presidenza della Repubblica. Ma il delitto Lima lo "brucia", gli sbarra per sempre la strada per il Quirinale, dove il 24 maggio - dopo tante fumate nere e a ventiquattro ore dalla strage di Capaci - salirà Oscar Luigi Scalfaro.

E' comunque già all'indomani del delitto Lima che il ministero dell'Interno, a firma del potentissimo capo della polizia Vincenzo Parisi, dirama un telegramma di due pagine indirizzato a tutti i prefetti e a tutti i questori, all'alto commissario per la lotta alla mafia, al direttore della Dia, ai capi del servizio segreto civile e a quello militare "e per conoscenza al comando generale dell'Arma dei carabinieri e al comando generale della Guardia di finanza". Porta la data del 16 marzo del 1992, appena quattro giorni dall'omicidio di Palermo. Il capo della polizia cita alcune fonti che annunciano "nel periodo marzo luglio corrente anno, campagna terroristica con omicidi esponenti Dc, Psi et Pds, nonché sequestro et omicidio futuro presidente della Repubblica. Quadro strategia comprendente anche episodi stragisti". Più avanti il telegramma di Parisi invita "at più attenta vigilanza" per il ministro Calogero Mannino e per il ministro Carlo Vizzini.

Quello di Parisi non è un "avviso" di routine. Ed è subito evidente. Passano altri quattro giorni e il ministro dell'Interno Vincenzo Scotti riferisce di "un piano destabilizzante" in un'audizione alla commissione Affari Costituzionali del Senato. Ma tutti danno addosso a Scotti. Non gli credono. C'è anche una misteriosa fuga di notizie sul telegramma di Parisi e salta fuori il nome di una delle "fonti confidenziali" che segnala gli attentati: è un detenuto, tale Elio Ciolini, con un passato di depistatore e calunniatore. Ciolini in quel momento è nel carcere di Sollicciano, dove sconta una pena a nove anni per false rivelazioni sulla strage alla stazione di Bologna. Tutti dicono che è un bluff. Tutti tranne il ministro Scotti e il capo della polizia Parisi che nel suo dispaccio scrive di "fondati indizi sull'esistenza di un progetto di destabilizzazione del sistema democratico del nostro Paese". Probabilmente Parisi, oltre a Ciolini, ha altre "fonti". Ma il suo allarme cade incredibilmente nel vuoto.

Il presidente del Consiglio Andreotti si precipita a parlare "dello scherzo di un pataccaro", il presidente della Repubblica Cossiga ridimensiona il pericolo. In quegli stessi giorni qualcuno, sfidando un imponente servizio di sicurezza, entra nello studio romano del ministro Scotti in via Pietro Cossa, a Prati, e mette a soqquadro tutto senza rubare nulla. Un avvertimento. Come siano andate le cose poi, è noto. Dopo Lima, il 23 maggio 1992 c'è la strage di Capaci. Dopo Falcone, il 19 luglio 1992, c'è la strage di via Mariano D'Amelio. E' fra Capaci e via Mariano D'Amelio - ne sono convinti i procuratori di Palermo - che inizia la trattativa fra Stato e mafia. Paolo Borsellino ne viene a conoscenza, si mette di traverso e lo uccidono.

Alcuni di quegli uomini politici indicati nella lista dei pm siciliani sono sempre più spaventati, prendono contatti negli stati maggiori dei reparti investigativi e qualcuno trova il modo di "dialogare" con Cosa Nostra. Prima con l'ex sindaco Vito Ciancimino, poi con altri personaggi che sono ancora nell'ombra. Ma nei giorni e nei mesi successivi accade molto altro, fra Roma e Palermo. Vincenzo Scotti, che l'8 giugno insieme al Guardasigilli Martelli firma un decreto (il 41 bis) per il carcere duro ai mafiosi, a inizio luglio è improvvisamente dirottato alla Farnesina e il suo posto all'Interno è preso da Nicola Mancino. Neanche un anno dopo Giulio Andreotti finisce sotto processo per mafia, e alla fine si salverà con una prescrizione. Totò Riina viene venduto e catturato in circostanze misteriosissime nel gennaio 1993. E così Cosa Nostra, senza più delitti eccellenti, assicura allo Stato italiano una lunga stagione di "pace". Tutti gli uomini politici di quella lista nera sono vivi. E scomparsi dalla grande scena politica.


16 ottobre 2011
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da - http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2011/10/16/news/la_lista_nera_che_spavent_lo_stato_cos_un_patto_salv_ministri_e_politici-23317301/?inchiesta=%2Fit%2Frepubblica%2Frep-it%2F2011%2F10%2F15%2Fnews%2Fmafia-stato_all_origine_del_patto-23284820%2F
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« Risposta #100 inserito:: Giugno 15, 2012, 11:57:40 pm »

Ciancimino, Dell'Utri e gli ex ministri i 12 indagati per la trattativa Stato-mafia

Con le cosche un patto in tre fasi.

Chiuse le indagini, le responsabilità di Ros e polizia

di SALVO PALAZZOLO


PALERMO - Dopo quattro anni di indagini, la Procura di Palermo e la Dia ritengono di aver ricostruito i retroscena della trattativa fra uomini dello Stato e i vertici di Cosa nostra. Quel dialogo segreto avrebbe avuto tre fasi: ecco la novità contenuta nell'avviso di chiusura delle indagini firmato ieri dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene. Nel documento non c'è invece la firma di un altro componente del pool, Paolo Guido, che non ha condiviso la sintesi finale dell'inchiesta. L'atto d'accusa della Procura dice adesso che nei primi mesi del 1992, i contatti Stato-mafia sarebbero stati avviati dall'ex ministro Calogero Mannino, che temeva di essere ucciso. I magistrati ritengono che l'esponente democristiano avrebbe messo in allerta gli uomini del Ros, ma avrebbe dialogato anche con alcuni boss, per "avviare una trattativa con i vertici dell'organizzazione mafiosa  -  scrivono i pm  -  finalizzata a sollecitare eventuali richieste di Cosa nostra e far cessare la programmata strategia omicidiario-stragista già avviata con l'omicidio Lima".

LE FASI
Nell'estate 1992, dopo la strage Falcone, i carabinieri del Ros avrebbero poi tentato di fermare la strategia di morte dei corleonesi
iniziando un dialogo segreto con l'ex sindaco Vito Ciancimino. In questi delicati passaggi, l'inchiesta della Procura di Palermo sulla trattativa si interseca con quella di Caltanissetta sul movente della strage Borsellino: è ormai un dato acquisito dalle inchieste che Paolo Borsellino avrebbe saputo della trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia, avrebbe anche tentato di opporsi, e per questa ragione la sua morte sarebbe stata "accelerata", come ha spiegato il pentito Giovanni Brusca.
La Procura di Palermo crede in parte al racconto di Massimo Ciancimino a proposito degli incontri fra il generale Mori e l'ex sindaco Vito Ciancimino: sarebbero avvenuti anche prima della strage Borsellino, circostanza sempre negata dal generale Mori. La Procura è convinta pure che ai carabinieri Mori e De Donno sarebbe stato consegnato, tramite Vito Ciancimino, il papello con le richieste di Totò Riina: era il prezzo che Cosa nostra chiedeva per interrompere la stagione delle bombe. Revoca del carcere duro, revisione dei processi, annullamento dei processi più importanti già conclusi. È un altro dei punti centrali dell'inchiesta, anche questo sempre respinto dai carabinieri.

La terza fase della trattativa sarebbe iniziata dopo l'arresto di Riina, nel gennaio 1992. Secondo la Procura di Palermo, a condurla sarebbe stato Bernardo Provenzano. E dato che Ciancimino era in carcere, la trattativa sarebbe stata portata avanti da un altro colletto
bianco: Marcello Dell'Utri. Scrivono i pm che Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca avrebbero "prospettato al capo del governo in carica Silvio Berlusconi, per il tramite di Vittorio Mangano e di Dell'Utri una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti a Cosa nostra". Sostiene Brusca che una "risposta " sarebbe poi arrivata, sempre per il tramite di Mangano, l'ex stalliere di casa Berlusconi.

GLI INDAGATI
In cima alla lista degli indagati ci sono padrini del calibro di Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca
Bagarella, Giovanni Brusca e Antonino Cinà. Seguono i nomi di rappresentanti delle istituzioni e di politici: Antonio Subranni, Mario e Giuseppe Donno, all'epoca il vertice e l'anima del Ros dei carabinieri; Calogero Mannino era ministro; Marcello Dell'Utri, il braccio destro di Silvio Berlusconi, uno dei padri fondatori di Forza Italia. "Hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato Italiano", recita il capo d'imputazione. "In concorso con l'allora capo della polizia Vincenzo Parisi e il vice direttore generale del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria Francesco Di Maggio, entrambi deceduti".
L'atto d'accusa della Procura prosegue con il nome dell'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: "Deponendo come testimone al processo Mori, in corso al tribunale di Palermo  -  scrivono i pm  -  anche al fine di assicurare ad altri esponenti delle istituzioni l'impunità ha affermato il falso e comunque taciuto in tutto o in parte ciò che sapeva".

CIANCIMINO JR
C'è anche Massimo Ciancimino nella lista dei dodici predisposta dalla Procura: è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, per il ruolo di tramite che lui stesso ha descritto fra il padre e il vertice di Cosa nostra. Il figlio dell'ex sindaco dovrà però rispondere anche di calunnia, per aver accusato  -  "sapendolo innocente ", scrive la Procura  -  l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro, anche tramite un biglietto contraffatto attribuito al padre Vito.
Questi dodici nomi compongono un avviso di chiusura delle indagini, che prelude alla richiesta di un processo. Ma l'inchiesta sulla trattativa non è ancora chiusa: risultano indagati per false dichiarazioni al pubblico ministero l'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, l'ex capo del Dap Adalberto Capriotti e l'europarlamentare Giuseppe Gargani. Come prevede il codice per questo tipo di reato, la loro posizione è al momento sospesa, in attesa della definizione del procedimento principale.

Nell'indagine restano anche le posizioni dell'ex capitano Antonello Angeli e dell'agente dei servizi segreti Rosario Piraino, chiamati in causa da Massimo Ciancimino: il primo, per aver trafugato una copia del papello durante una perquisizione; il secondo, perché sarebbe stato un collaboratore del misterioso "signor Franco", lo 007 che secondo Ciancimino avrebbe intrattenuto i contatti fra la mafia e lo Stato. Ma il signor Franco non si è ancora trovato, e su Ciancimino aleggiano ormai da mesi pesanti dubbi.

(14 giugno 2012) © Riproduzione riservata

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