LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. => Discussione aperta da: Admin - Settembre 26, 2008, 12:59:51 pm



Titolo: ALBERTO BISIN -
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2008, 12:59:51 pm
26/9/2008
 
La catena della sfiducia
 
 
 
 
 
ALBERTO BISIN
 
Le decisioni che il Congresso e il Senato americano stanno per prendere saranno determinanti nel limitare, o meno, l’effetto che la crisi dei mercati finanziari avrà sull’economia reale. Il mondo politico ha reagito alla crisi con una prontezza che è frutto di responsabilità, ma anche di panico.

Il piano di salvataggio proposto dal Tesoro e dalla Fed, e discusso ieri dalle Camere, è molto poco popolare presso l’opinione pubblica. È visto infatti come l’espressione di una classe dirigente dalla dubbia reputazione morale che presenta il conto ai contribuenti. Anche moltissimi economisti hanno espresso riserve. Vi sono infatti ragioni per dubitare che il piano abbia i risultati sperati, che possa rilanciare il mercato del credito e quindi l’economia americana.

Per comprendere queste riserve è bene chiarire quali sono gli elementi fondamentali di questa crisi. La politica monetaria della Fed ha garantito dal 2001 bassi tassi di interesse, permettendo alle banche di offrire credito a condizioni estremamente favorevoli. I consumatori si sono indebitati per finanziare l’acquisto di beni durevoli, in particolar modo immobili. Non solo: le banche hanno fatto enorme uso della leva finanziaria, mantenendo il rischio del credito in minima parte e distribuendolo nei mercati finanziari in forma cartolarizzata. A loro volta vari titoli derivati hanno permesso ai detentori di assicurare il valore delle cartolarizzazioni (Aig aveva posizione prevalente in questo mercato), e così via; costruendo una complessa catena di posizioni finanziarie legate soprattutto ai valori degli immobili su cui sono stati accesi mutui. Il crollo dei valori immobiliari negli Stati Uniti ha provocato il crollo di valore di questi titoli.

Molte banche e istituzioni finanziarie detengono ora attività il cui valore è crollato. Inoltre, la catena finanziaria è così vasta e complessa che nessuno realmente conosce il valore delle proprie attività e tantomeno di quelle di altre banche. In queste condizioni il mercato del credito si congela: nessuno si fida a prestare danaro a nessun altro per timore che quest’ultimo sia particolarmente esposto, alla fine della catena, al rischio dei rendimenti sui mutui.

Per limitare i danni della crisi sull’economia reale è quindi necessario ristabilire la trasparenza delle posizioni finanziare di banche e altre istituzioni finanziarie per permettere al mercato del credito di tornare a operare efficientemente. Solo dopo che abbiano individuato le proprie perdite in modo trasparente le banche potranno ricapitalizzarsi e tornare a investire nell’economia reale. In un certo senso, questo è l’obiettivo del piano appena approvato da Senato e Congresso: comprare buona parte delle cartolarizzazioni sui mutui e dei titoli derivati ad essi legati oggi in portafoglio alle banche così da renderne trasparenti i bilanci.

Sembra una grande idea. Ma ci sono due ordini di problemi. Il primo è il prezzo a cui questi strumenti finanziari saranno acquistati. Il piano originario prevedeva che fossero comprati a prezzi superiori a quelli oggi di mercato, considerati frutto del panico e lontani dai loro «valori reali». Questo sarebbe un diretto sussidio alle banche a spese dei contribuenti, una ricapitalizzazione a fondo perduto. È invece bene distinguere l’operazione di salvataggio immediata dal processo di ricapitalizzazione delle banche, così da incentivare le banche stesse a ristrutturarsi per meglio operare la ricapitalizzazione sul mercato. Il secondo problema che il Tesoro si troverà ad affrontare è che le banche conoscono meglio del Tesoro stesso il valore dei titoli in proprio possesso. Avranno incentivo quindi a vendere al Tesoro quelli di minor valore e più rischiosi, in modo da poter esse stesse godere del loro futuro incremento di valore una volta che la crisi sia risolta. Questo incentivo potrebbe limitare l’effetto del piano sulla trasparenza dei bilanci delle banche e potrebbe invalidare il meccanismo di salvataggio stesso.

Il piano approvato è certamente perfettibile in sede legislativa. Ma soprattutto sarà importante valutarne l’attuazione, una volta scomparsa l’emergenza di questi giorni.
 
da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN. Macchè Roosevelt
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 10:16:43 am
7/11/2008
 
Macchè Roosevelt
 
ALBERTO BISIN

 
I mercati finanziari non sembrano condividere le emozioni dei giovani che martedì sera a New York hanno invaso le piazze, felici e inebriati, all’urlo di «Yes, We did» (a Union Square, dov’ero io, sotto un’immensa bandiera). Ma quella di Wall Street non è mancanza di fiducia nei confronti di Obama. La verità è che i mercati sono in una fase di volatilità elevatissima. Scontano una grande incertezza: quanto profonda sarà la recessione? Quanto cambierà la politica economica?

I progetti che hanno maggiormente contribuito all’elezione di Obama sono progetti di lungo periodo: importanti e visionarie riforme di sanità e scuola di cui gli Stati Uniti hanno grande bisogno. Meno si sa invece di come Obama intenda intervenire sull’economia nel breve periodo. La crisi finanziaria ha colto entrambi i candidati di sorpresa alla fine della campagna elettorale. Obama è apparso intelligente, freddo, riflessivo, responsabile nella sua analisi della crisi, a differenza di McCain. Ma ora tutti, e i mercati finanziari con particolare ansia, attendono i dettagli di un piano d’intervento anti-congiunturale. Nemmeno il taglio dei tassi della Banca Centrale Europea di ieri sembra poter calmare l’attesa.

Non ci sono dubbi che Obama annuncerà uno stimolo fiscale a breve (che il Congresso voterà prima della sua inaugurazione). Nessun presidente, democratico o repubblicano, può fare a meno di questo tipo di interventi nel corso di una recessione. Ma l’elezione di un democratico ha rinvigorito coloro che suggeriscono interventi massicci, sia sul piano degli incentivi fiscali che su quello della spesa pubblica. I consulenti economici di Obama parlano di tagli fiscali immediati per 65 miliardi di dollari e di maggiore spesa per 135 miliardi. Molti suggeriscono un piano ancora più ambizioso per 300 miliardi di dollari in totale, che includa trasferimenti agli stati, un grosso sforzo di rinnovamento delle infrastrutture, spese nel settore energetico, oltre a interventi ai programmi di Welfare.

Questo è proprio ciò che temono i mercati. E per ottime ragioni. Politiche fiscali espansive anti-congiunturali hanno effetti minimi su consumi e investimenti. Durante una recessione i consumatori risparmiano per assicurarsi contro perdite di reddito nell’immediato futuro. Nella crisi presente, inoltre, le famiglie devono rivedere piani di consumo e investimento basati su stime della loro ricchezza, specie immobiliare, rivelatesi gravemente erronee. Ovvio quindi che lo stimolo fiscale di Bush, 107 miliardi di dollari nel gennaio 2008, sia stato in gran parte (circa l’80% secondo stime recenti) risparmiato dalle famiglie o utilizzato per ripagare debiti pregressi. Anche politiche di spesa hanno effetti limitati in una recessione: la spesa pubblica infatti non può che essere finanziata con future tasse, che i consumatori in gran parte anticipano e per cui risparmiano. Inoltre investimenti pubblici, per quanto produttivi, tendono semplicemente a «spiazzare» la spesa privata.

L’idea che politiche fiscali espansive possano limitare le recessioni non ha fondamento. Difficile ammetterlo ma è così. Le recessioni sono momenti in cui il sistema economico si «ripulisce». Le imprese che non producono reddito falliscono e liberano risorse che sono riallocate alle imprese più produttive. Questo processo è necessario perché un’economia sia sana e produttiva nel lungo periodo: non va assolutamente impedito. Nello stesso tempo, questo processo di «ripulitura» ha costi umani e sociali notevoli. Le risorse che sono liberate per essere riallocate non sono solo capitale finanziario, ma anche capitale umano, lavoratori. È qui che la politica economica deve intervenire, per finanziare interventi che «socializzino» nel breve periodo i costi di questa riallocazione, come ad esempio la disoccupazione.

Ogni altra forma di spesa ha effetti reali limitati sulla recessione oggi, e ha invece costi notevoli in termini di tasse, e quindi di attività economica, in futuro. A questo proposito è bene chiarire, ad esempio, che le politiche di Roosevelt, il New Deal che molti oggi raccomandano a Obama, non hanno affatto salvato il paese dalla crisi del 1929 come molti pensano, ma hanno piuttosto avuto un effetto fondamentale nell’allungare la recessione dopo il 1933.

Saprà Obama distanziarsi dalle politiche classiche «tassa e spendi» del partito democratico? Tutto gioca contro di lui, la crisi finanziaria, la recessione, il Congresso a maggioranza democratica, gli intellettuali organici del partito. Ma Obama ha dimostrato abilità, intelligenza, e capacità analitiche e critiche fuori dal comune in questa campagna. Dopotutto tornare a Roosevelt, saltando non solo Reagan ma anche Clinton, che cambiamento sarebbe?

da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN -
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2008, 03:36:09 pm
17/12/2008
 
Scuola, il bicchiere mezzo vuoto
 
ALBERTO BISIN
 
In questi giorni il governo ha deciso di rallentare la marcia della riforma della scuola. Il raffreddamento degli animi forse permetterà un’analisi pacata dei nuovi dati riguardanti il confronto internazionale dei risultati scolastici in matematica e scienze, pubblicati in questi giorni (TIMSS. Trends in International Mathematics and Science Study, 2007). All’indagine hanno partecipato più di 400 mila studenti di quarta elementare e di terza media, da 59 nazioni. I risultati sono comparabili con quelli delle precedenti indagini: 1995, 1999 e 2003. Una mole importante che merita un’analisi approfondita. Alcuni indicazioni di massima riguardo all’Italia si possono però già trarre: 1) i ragazzi italiani di quarta elementare fanno meglio di quelli di terza media, in termini relativi rispetto agli altri paesi; 2) i risultati dei ragazzi italiani non sono significativamente cambiati rispetto al 2003 in matematica, ma sono migliorati in scienze, significativamente solo alle elementari; 3) l’Italia si trova nella media dei Paesi sviluppati solo per quanto riguarda le scienze, alle elementari; assolutamente non in matematica, né alle elementari né alle medie; 4) i pochi dati disaggregati disponibili dimostrano notevole variabilità dei risultati, molto meglio al Nord (specie al Nord-Est) che non al Sud e Isole (per un’analisi più approfondita riferisco al post di Andrea Moro, economista di Vanderbilt University, su noisefromamerika.org).

O forse un’analisi pacata è invece semplicemente impossibile in Italia. In riferimento a questi dati la Cisl Scuola annuncia nel sito: «La scuola primaria italiana si conferma su livelli di eccellenza nel confronto internazionale». Lo stesso Invalsi (l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo d’Istruzione e Formazione) definisce i risultati nelle scienze di «assoluta eccellenza». Giudizi sempre soggettivi. E c’è chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi mezzo vuoto. Ma il bicchiere contiene al più i risultati in scienze in quarta elementare. Come può essere mezzo pieno? Che valore ha un vantaggio nelle conoscenze scientifiche in quarta elementare che è poi perso in terza media? A che servono buone conoscenze scientifiche se quelle matematiche sono scarse? La realtà è che i dati Timss 2007 dipingono una scuola italiana abbastanza in difficoltà ma in modo molto eterogeneo, con punte di assoluto rispetto e casi davvero drammatici. La riforma della scuola elementare e media in Italia non può consistere nell’imposizione all’intero sistema scolastico di procedure didattiche come il maestro unico, su cui non si ha nemmeno rilevante evidenza statistica. È necessario invece identificare cosa funziona e cosa non funziona nelle singole scuole e nei singoli insegnamenti. È qui che questi dati, soprattutto nella versione disaggregata per scuola che sarà resa pubblica a febbraio, dovrebbero essere utili. A cosa si deve il successo relativo delle scienze alle elementari? A cosa i pessimi risultati della scuola media? A cosa si deve il successo relativo del Nord-Est? A cosa il miglioramento significativo dei ragazzi sloveni in matematica dal 2003 al 2007? E quello dei ragazzi inglesi o del Minnesota? È necessaria molta flessibilità d’intervento per evitare di distruggere quello che c’è di buono. Nessuna ragione d’imporre nulla di nuovo, per esempio, alle scuole del Veneto o dell’Emilia Romagna, i cui risultati sono in media tra i migliori d’Europa (in scienze alle elementari sono a livello di Cina e Hong Kong).

Una vera riforma consiste invece nel lasciare più indipendenza alle scuole, ai presidi, alle famiglie. I presidi devono essere messi in condizione di trasferire risorse significative dagli insegnanti incapaci a quelli capaci. Devono poter assumere bravi insegnanti, anche tra quelli ora a tempo determinato, e devono poter limitare ore e salario di quelli che lavorano poco e male. I presidi di scuole in difficoltà devono anche essere messi nelle condizioni di innovare e sperimentare nuovi strumenti didattici. Naturalmente è necessario prima di tutto rendere i presidi responsabili delle proprie decisioni: mettere in piedi sistemi di valutazione delle scuole standardizzati, sulla base dei quali dare loro incentivi anche estremi (ottimi salari in caso di successo, licenziamento in caso di risultati inadeguati rispetto a standard nazionali da definirsi). Questi incentivi devono servire ad attrarre menti fresche, idee nuove, e buone capacità organizzative anche nelle scuole peggiori. È opportuno infine lasciare alle famiglie la massima libertà di scegliere la scuola che ritengano più appropriata per i figli: non tutti i ragazzi sono uguali, non tutte le famiglie hanno le stesse idee. Ed è pensando a quanto una riforma di questo tipo sia necessaria e al contempo impossibile e improponibile in Italia che non riesco nemmeno a vederlo mezzo vuoto il bicchiere.

alberto.bisin@nyu.edu
 
da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2009, 04:36:01 pm
7/1/2009
 
Obama gioca la carta delle tasse
 
ALBERTO BISIN
 

Il piano economico dell’amministrazione Obama contro la crisi sarà ufficialmente presentato domani sera, ma già lo si discute sulla base di anticipazioni precise. Nessuna sorpresa riguardo all’entità dell’intervento pubblico che richiederà una (a mio parere eccessiva) esposizione fiscale per circa 750 miliardi di dollari in due anni. Le maggiori sorprese riguardano invece la composizione dell’intervento. Pur senza entrare nei dettagli, si nota un importante riaggiustamento rispetto a quanto proposto da Obama in campagna elettorale: la spesa pubblica diretta è sostituita in modo sostanziale da sgravi fiscali a famiglie e imprese (per circa 300 miliardi di dollari in due anni). Il piano sarà per questo aspramente criticato. Si dirà (e già si dice) che sgravi fiscali hanno generalmente effetti limitati in una recessione qualora famiglie e imprese tendano a risparmiare invece che a spendere il nuovo reddito disponibile. Si dirà che proprio questo è accaduto in occasione dei tagli fiscali di Bush la scorsa primavera. Queste critiche sono dovute all’idea comune ma incorretta che in una recessione sia compito principale della politica economica sostenere i consumi: se i consumatori non cambiano l’auto, lo Stato provveda ad acquistare, ad esempio, nuove auto per i dipendenti pubblici (o ad assumere nuovi dipendenti pubblici a cui fornire auto).

Non è così. Innanzitutto è ovviamente importante dare impulso anche agli investimenti, non solo ai consumi. Le imprese in difficoltà, in una recessione, non sono solo quelle che producono auto, scarpe, medicinali ma anche quelle che producono tondini di acciaio, semi-lavorati in pelle, nuove molecole chimiche. Ma questa è precisazione ovvia, si dirà. Perché non lasciare comunque allo Stato il compito di sostenere direttamente consumi e investimenti durante una recessione? Perché intervenire per mezzo di tagli fiscali che sono solo in parte consumati e investiti? Per due ragioni fondamentali. Primo, perché il risparmio non resta inutilizzato, ma è reinvestito dal sistema finanziario. E poi perché i consumatori conoscono meglio dello Stato i propri bisogni e le imprese sanno meglio discriminare i progetti di investimento più produttivi data la domanda dei consumatori.

Il Pil non è tutto. Un’economia efficiente produce i beni che i consumatori desiderano, anche in recessione. Se i consumatori non cambiano l’auto, produrre e dare loro auto è inefficiente. E così è produrre beni pubblici (ponti, strade, parchi) in eccesso rispetto a quanti se ne sarebbero prodotti in assenza della recessione. Un esempio estremo può forse chiarire questo punto: la Germania prima della prima guerra mondiale e l’Unione Sovietica dopo la seconda avevano livelli di Pil relativamente elevati, ma non erano certo economie efficienti: producevano soprattutto armamenti, non beni di consumo per soddisfare i bisogni dei cittadini.

Intervenire sul reddito disponibile dei consumatori attraverso sgravi fiscali, invece che non sul consumo, ha un altro vantaggio fondamentale: permette alle famiglie di ridurre nella misura che esse desiderino il proprio indebitamento. L’eccessivo indebitamento delle famiglie americane è una delle cause prime della crisi economica. E per questo gli Stati Uniti non usciranno dalla crisi fino a che il debito accumulato dalle famiglie non sia ridotto in misura almeno comparabile alla perdita di valore della loro ricchezza, specie immobiliare.

In altre parole, agendo per mezzo di sgravi fiscali si permette al sistema finanziario di allocare consumi e investimenti a quei consumatori e a quelle imprese che non avrebbero potuto consumare e investire in assenza del piano anti-crisi. Limitare il ruolo dei mercati finanziari nell’allocazione efficiente dell’intervento pubblico è possibile solo in parte, ad esempio mirando direttamente una parte dei tagli e sussidi fiscali alle famiglie in difficoltà, a quelle più colpite dalla crisi. È bene invece lasciare ai mercati la decisione riguardo a quali imprese sia opportuno sostenere e quali lasciare fallire, per evitare quei meccanismi di scelta politica inefficiente che noi italiani ben conosciamo.

Gli sgravi fiscali previsti dal piano di Obama sono visti dai democratici come un compromesso per avere il supporto di una parte dei Repubblicani al Congresso. Ma se anche così fosse, resta il fatto che questa amministrazione sembra capace di ridare un significato positivo alla parola «compromesso», adottando le idee migliori dell’avversario politico per guadagnarne il supporto.

alberto.bisin@nyu.edu
 
da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN Presidente Obama, basta Keynes
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2009, 11:06:38 pm
29/1/2009
 
Presidente Obama, basta Keynes
 
ALBERTO BISIN
 

Ieri è apparsa sul New York Times una lettera aperta al presidente Obama. Ha l’obiettivo di rimarcare che il consenso al piano di stimolo fiscale proposto dalla sua amministrazione è meno vasto di quanto egli non creda, almeno tra gli economisti accademici.

L’iniziativa, originata dai premi Nobel Ed Prescott e Vernon Smith, è stata sottoscritta da numerosi altri economisti, oltre 200, tra cui io stesso.

Sebbene la lettera sia formalmente indirizzata al Presidente, essa ha anche altri destinatari. L’elezione di un democratico alla Casa Bianca in un momento di grave crisi economica ha infatti indotto molti economisti di scuola keynesiana ad argomentare sulla stampa sempre più apertamente a favore di politiche economiche di espansione fiscale. Queste politiche comportano una maggiore spesa pubblica e vari interventi diretti di sostegno a industrie in difficoltà. Alcuni commentatori, tra cui purtroppo Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia 2008 ed editorialista del New York Times, hanno preso a sostenere pubblicamente che la professione degli economisti sia concorde nel ritenere necessari questi tipi di intervento. Krugman (sul New York Times del 26 gennaio) è giunto a tacciare di «malafede» qualunque economista sostenga il contrario.

In realtà sono ormai più di vent’anni che le teorie economiche keynesiane, su cui è fondata la necessità di grossi stimoli fiscali durante una recessione, sono completamente screditate in accademia. Lo sono da un punto di vista teorico, perché presuppongono comportamenti severamente miopi e irrazionali da parte dei consumatori e degli imprenditori. Lo sono anche da un punto di vista empirico, semplicemente perché non funzionano. Anche gli economisti neo-keynesiani, molti dei quali alla Federal Reserve come Ben Bernanke, hanno abbandonato gli studi di politica fiscale e ormai da anni si occupano essenzialmente di politica monetaria.

Ma, naturalmente, la lettera non vuole unicamente aprire una battaglia all’interno dell’accademia. Questa battaglia è stata persa dai keynesiani da ormai molto tempo. Il suo obiettivo è piuttosto quello di influenzare le scelte del Presidente su quali tipi di spesa inserire nel piano di stimolo fiscale. Non credo di azzardare sostenendo che molti firmatari della lettera non siano affatto contrari in linea di principio al piano. Molti ritengono che alcuni capitoli di spesa possano provvedere a colmare delle importanti carenze nei servizi pubblici americani, dalla sanità all’istruzione. Se questa è la motivazione vera del piano, però, gli interventi fiscali debbono essere il più possibile limitati a migliorare quei servizi pubblici che davvero siano carenti.

Spendere per spendere, tanto in recessione qualunque spesa aumenta la domanda e sostiene l’economia, è una ricetta fallimentare. Tagli fiscali a famiglie e imprese sono interventi di gran lunga più efficienti. È vero che, ora come ora, i tagli fiscali andrebbero in larga parte a incrementare i risparmi, non a sostenere i consumi. Ma questo perché le famiglie e le imprese americane negli ultimi dieci anni hanno consumato tanto e risparmiato poco, godendo di capitale a buon mercato dalla Cina e da altri investitori internazionali. Inoltre, i loro pochi risparmi sono stati ridotti del 20-30% dal crollo dei valori immobiliari e del mercato azionario nel corso dell’anno passato. Sostenere artificialmente i consumi delle famiglie e rallentare il declino di industrie malate non è la via alla soluzione della crisi. Da questa crisi si esce solo facilitando la riallocazione di capitale e lavoro alle industrie più produttive. Quali queste siano è compito dei mercati finanziari identificare. Per questo gli interventi dell’amministrazione Obama e della Federal Reserve sui mercati dei capitali saranno critici nel favorire o no la rapida soluzione della crisi. Molto più che non qualsiasi intervento di spesa pubblica.

Questa è una crisi economica profonda e in un certo senso di nuova natura, perché nata sulle ceneri della finanza e del mercato immobiliare. Non è bene affrontarla con idee e politiche vecchie, che hanno già ripetutamente dimostrato i propri limiti.

alberto.bisin@nyu.edu
 
da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN -
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2009, 11:52:09 am
Usa, finanziare le banche non gli azionisti
 
9/2/2009
 
 
ALBERTO BISIN
 

Il ministro del Tesoro dell’amministrazione Obama, Tim Geithner, presenterà domani al Paese il prossimo piano di intervento sui mercati finanziari. Il piano precedente, cui Geithner aveva contribuito in veste di governatore della Fed di New York, ha avuto alcuni successi e molti insuccessi. Il successo principale è che ha domato il panico sui mercati finanziari dell’autunno scorso. L’insuccesso principale è che il credito delle banche al settore privato è rimasto ingessato.

Perché le banche tornino a offrire credito ai privati è necessario che il governo intervenga con chiarezza sui loro bilanci, che le obblighi a dichiarare e a vendere al Tesoro le attività «tossiche» che esse possiedono. Su questo verterà il piano Geithner. L’elemento discriminante sarà il prezzo a cui queste attività verranno acquistate. Più alto il prezzo, rispetto ai valori di mercato, minore sarà l’ammontare della ricapitalizzazione di cui le banche necessiteranno per poter tornare nel mercato del credito. Gli azionisti delle banche vogliono naturalmente limitare il più possibile l’entità di questa ricapitalizzazione: essa implica diluire - far scendere di valore - il loro capitale.

Per questo essi chiedono che il Tesoro intervenga puramente acquistando le attività «tossiche» a valori sopra mercato, senza assumere capitale azionario in proporzione al sussidio implicito nell’intervento. Questo farebbe, almeno in parte, la «bad bank» di cui si parla con insistenza in questi giorni come figura centrale del nuovo piano Geithner.

Sarebbe un enorme errore. La «bad bank» dovrebbe favorire, non limitare, la ricapitalizzazione delle banche. Per questo il capitale del Tesoro dovrebbe essere offerto a fronte di capitale di rischio, diluendo direttamente il capitale degli azionisti. In altre parole, gli azionisti delle banche non dovrebbero essere sussidiati. Non solo per una questione etica, che pure esiste, ma per una fondamentale questione economica. Deve essere chiaro agli azionisti presenti e futuri che il rischio azionario è reale, che non può essere addossato ai contribuenti. Se così non fosse ci troveremmo a breve con un mercato finanziario ancora fuori controllo. I prezzi delle attività «tossiche» sono bassi perché gli investimenti sottostanti sono in larga parte falliti. Nuovo capitale deve servire a finanziare investimenti nuovi, non a coprire le perdite degli azionisti sugli investimenti falliti.

Il Tesoro e la Fed sono apparsi sin dall’autunno troppo preoccupati nel difendere Wall Street. Purtroppo le indiscrezioni che trapelano sul nuovo piano non paiono indicare un cambiamento di rotta. Questa resistenza a costringere le banche ad affrontare le proprie perdite fa sì che esse non abbiano incentivi a capitalizzarle fino a che non sia chiaro quanta parte ne assumerà il Tesoro. È anche questa situazione di stallo a essere responsabile della scarsa attività delle banche nel mercato del credito privato. Una situazione simile, che si è protratta per anni, ha costituito una delle cause principali per cui la recessione dell’inizio degli anni 90 in Giappone è durata un decennio. Il Tesoro argomenta che il fallimento delle grandi banche avrebbe tali conseguenze sistemiche sui mercati da essere catastrofico. Ma non è necessario farle fallire. Entrando nel loro capitale azionario il governo ne eviterebbe il fallimento e allo stesso tempo eviterebbe di sussidiare gli azionisti. Sarebbe una «nazionalizzazione» delle banche? Il termine «nazionalizzazione» è usato da chi difende Wall Street, perché nulla terrorizza gli americani come l’economia socialista. Ma se il capitale privato non entra nelle banche, lo fa il capitale pubblico, fino a che non torni il privato. Non c’è nulla di socialista in questo, a patto che il governo non ostacoli il capitale privato qualora esso diventi disponibile in futuro.

Il presidente Obama fa ora la voce grossa contro i manager delle grandi banche, agendo contro i loro salari milionari. Ma la battaglia economica più importante si gioca sugli azionisti, non sui manager. Coprire le perdite agli azionisti oggi significa incoraggiare i futuri manager ad assumere rischi irresponsabili, visto che non dovranno risponderne agli azionisti. Questo punto è tanto evidente che è difficile supporre che gli economisti dell’amministrazione Obama non lo comprendano. Perciò si parla sempre più ad alta voce del controllo di Wall Street sul Tesoro e la Fed, di una sorta di conflitto di interessi. La banca di investimenti Goldman Sachs, ad esempio, ha avuto un ruolo centrale al Tesoro durante l’amministrazione Bush e sembra averlo mantenuto nell’amministrazione Obama. Se fossimo in Italia penserei già male. Se continua così non resterà altro da pensare nemmeno qui.
 
da lastampa.it
 


Titolo: ALBERTO BISIN A una condizione
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2009, 11:29:56 am
24/2/2009
 
A una condizione

 
ALBERTO BISIN
 
In questi giorni si parla sempre più con insistenza di nazionalizzare le banche. Negli Stati Uniti hanno preso posizione a favore di una qualche forma di nazionalizzazione una gran parte degli economisti, sia keynesiani che liberisti, da Paul Krugman ad Alan Greenspan. Ma anche in Italia grande eco è stata data alle parole del presidente del Consiglio, che sembravano voler preparare il Paese a una discussione sulla questione. Purtroppo la parola «nazionalizzazione » genera reazioni emotive violente: evoca il sol dell’avvenire in alcuni e la collettivizzazione forzata e i kulaki in altri.

Per comprendere di cosa si stia discutendo è necessario tornare alla razionalità economica. Negli Stati Uniti quando si parla oggi di nazionalizzazione delle banche si intende la seguente operazione finanziaria.

Il Tesoro acquista una quota di maggioranza del capitale di alcune grosse banche in difficoltà, scorpora le attività tossiche dai loro bilanci, e infine favorisce l’immissione nelle banche stesse di capitale fresco privato, a nuovi prezzi di mercato. La nazionalizzazione è in effetti un controllo temporaneo delle banche, per favorirne la ricapitalizzazione privata: una pura operazione di mercato che si può concludere brevissimamente, nel giro settimane o mesi, non anni. Se il prezzo a cui il Tesoro acquista le partecipazioni nelle banche è inferiore al prezzo a cui le vende alla fine dell’operazione, i contribuenti ne ricevono un profitto. Coloro che si oppongono a questa operazione, come ad esempio Francesco Giavazzi sul Corriere della sera di ieri l’altro, argomentano che i prezzi di mercato cui il Tesoro acquisterebbe oggi sono troppo bassi, inferiori al «valore reale» delle banche stesse. E che quindi il governo dovrebbe sì acquistare, ma a un prezzo sopra mercato. Ma è sempre pericoloso in economia distinguere il «valore» dal prezzo di mercato: le banche sono quotate in Borsa; se gli azionisti pensano che esse siano sottovalutate non hanno che da comprare nuove azioni, invece di vendere quelle che già possiedono come stanno facendo. Nessuno gli vieta di farlo. Perché invece costringere i contribuenti a pagare un prezzo superiore al mercato e così sussidiare gli azionisti delle banche?

Su queste colonne ho preso posizione contro le politiche di stimolo fiscale keynesiane, contro la sindacalizzazione della scuola e dell’università, contro la «nazionalizzazione » di Alitalia (questa sì una nazionalizzazione, anche se presentata come una privatizzazione). Non sono certo uno di quelli che pensano che questa crisi segni la fine del capitalismo e che sia finalmente giunto il momento eroico del socialismo. Ma l’operazione finanziaria che i detrattori chiamano «nazionalizzazione » è l’intervento che mi pare più desiderabile oggi dal punto di vista della razionalità economica.

Ciononostante, la «nazionalizzazione» delle banche comporta un problema fondamentale: manca la garanzia che il controllo del Tesoro sia davvero temporaneo. Questo è un problema perché lo Stato è pessimo banchiere, perché la politica fatica a rilasciare il potere, e perché poche attività economiche concedono più potere che non il controllo dei mercati finanziari. Nel caso degli Stati Uniti, Paese con un sistema politico aperto, un’economia di mercato ben sviluppata, e una larga parte dell’opinione pubblica dalle provate preferenze anti-stataliste, non c’è molto da preoccuparsi. Non è così per l’Italia, purtroppo. A differenza di quella americana, infatti, l’economia italiana è caratterizzata da poco mercato e molte rendite. E l’opinione pubblica e la classe politica del nostro Paese si distinguono in una sinistra statalista e una destra corporativista.

L’Italia ha anche una lunga tradizione di controllo politico dei mercati finanziari e un diretto precedente storico: la nazionalizzazione «temporanea» delle banche negli Anni 30, che ci ha portato l’Iri e l’Imi fino agli Anni 90. Proprio a questo precedente storico si può ricondurre tanta parte dell’arretratezza economica italiana prima e dopo la guerra. Ma l’esperienza fallimentare del ruolo dello Stato nello sviluppo industriale in Italia, attraverso anche il controllo delle banche, non pare aver generato sufficienti anticorpi nell’opinione pubblica e nella classe politica, nemmeno in quella «liberale». Venerdì scorso ad esempio sono apparsi su Libero due articoli fortemente elogiativi dell’esperienza delle nazionalizzazioni delle banche degli Anni 30, con annesso accostamento di Berlusconi a Mussolini.

Non oso nemmeno pensare che sia l’esperienza di Beneduce e dell’Iri che il presidente del Consiglio ha in mente quando parla di nazionalizzare le banche.Ascanso di equivoci, poiché «a pensar male si fa peccato, ma...», sarebbe bene che ogni operazione finanziaria di questo tipo, in Italia, fosse accompagnata da chiare garanzie contrattuali sulla temporaneità del controllo di Stato. Dormiremmomeglio la notte.
 
da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Un aiuto solo a chi lo merita
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2009, 03:35:33 pm
26/2/2009
 
Un aiuto solo a chi lo merita
 
ALBERTO BISIN
 
Le autorità monetarie e finanziarie di tutto il mondo stanno elaborando piani d’intervento sul sistema bancario per incentivarne la ricapitalizzazione, con la speranza che il capitale fresco si traduca in nuovo credito all’economia reale. In Italia le operazioni di ricapitalizzazione saranno incentrate sulla sottoscrizione da parte del Tesoro di obbligazioni emesse dalle banche a tassi tra il 7,5 e l’8,5%.

Con i Tremonti-bond il Tesoro non entra quindi negli organi di controllo delle banche, anche se chiede una serie di vincoli di destinazione del capitale come contropartita alla sottoscrizione delle obbligazioni e promette un «attento monitoraggio». Nessun salvataggio a spese dei contribuenti quindi, ma piuttosto un’operazione «leggera», coerentemente con le ripetute rassicurazioni che il sistema bancario italiano è relativamente solido. L’operazione è anche coerente con i vincoli che ci impone la situazione della finanza pubblica italiana. Il nostro debito pubblico e i differenziali di tasso che su di esso paghiamo, saliti dai 25 punti base alla fine del 2007 ai 120 punti base circa di oggi, suggeriscono enorme cautela negli interventi di spesa. L’attenzione del ministro Tremonti a questi aspetti, anche in sede di politica fiscale, è garanzia di responsabilità. È difficile però esprimere un giudizio più articolato sull’operazione del Tesoro senza una chiara valutazione della situazione patrimoniale delle banche. I Tremonti-bond saranno sufficienti a ricapitalizzare con successo le banche solo se queste sono davvero in condizioni di relativa solidità. Altrimenti ci troveremmo di fronte a una manovra di temporeggiamento, all’anticamera di un intervento più sostanziale del Tesoro nei mercati bancari, una prospettiva questa molto preoccupante vista la storia del Paese.

Come stanno quindi le banche italiane? Appaiono davvero meno esposte di quelle europee e americane nei confronti di attività finanziarie strutturate oggi illiquide, le cosiddette attività tossiche. Ciononostante, specie quelle di grandi dimensioni, sono sotto la media europea in termini del coefficiente di solvibilità, una media delle attività ponderata per il loro rischio, richiesta dagli accordi Basilea II (da un’analisi Ricerche e Studi Mediobanca, ottobre 2008). Più in generale, la valutazione della situazione patrimoniale delle banche è resa complessa dalla notevole opacità dei bilanci, situazione addirittura peggiorata dall’avvento di Basilea II e dei nuovi principi contabili. A questo proposito, le partecipazioni non di maggioranza delle banche rappresentano un elemento di particolare preoccupazione, perché non è chiaro se e quanto siano sopravvalutate.

Il mercato non sembra purtroppo condividere l’ottimismo del governo italiano. La capitalizzazione di Borsa di Unicredit è scesa dai 75 miliardi di euro del dicembre 2007 ai meno di 14 di oggi, a fronte di una valutazione di bilancio del patrimonio netto di circa 56 miliardi (al 30 settembre 2008). Nel caso di Unicredit il mercato sconta la sua esposizione in Europa Centro-orientale, il cui valore è difficile da valutare correttamente a causa della particolare fragilità macroeconomica e finanziaria di questi Paesi. Ma il Monte dei Paschi di Siena ha visto la propria capitalizzazione ridursi da 15 a 5,5 miliardi di euro circa e il Gruppo Intesa Sanpaolo da 57 a 20 circa.

In conclusione, i Tremonti-bond rappresentano una cauta operazione finanziaria per ricapitalizzare le banche, di cui esse hanno enorme bisogno. Ciononostante gli istituti di credito hanno ad oggi tentato di fare a meno dell’intervento del Tesoro. Può essere che i tassi richiesti sui Tremonti-bond siano reputati troppo elevati. O può anche essere che le banche temano che l’emissione di bond le esponga a indesiderati interventi di controllo politico da parte del Tesoro. Non credo che le banche abbiano oggi altra scelta. La congiuntura finanziaria non potrebbe essere peggiore in tutto il mondo. Tentativi di ricapitalizzazione sui mercati finanziari sono destinati a fallire, così come sono falliti recentemente. Ma una maggiore trasparenza sui piani finanziari del governo, soprattutto il riferimento a un chiaro e vincolante piano di uscita del Tesoro dalle banche una volta che la crisi finanziaria sia risolta, potrebbe rendere i Tremonti-bond più appetibili per le grandi banche maggiormente esposte. Infine, una maggiore trasparenza nei bilanci delle banche sarebbe anche opportuna per limitare l’incertezza che i mercati in questo momento scontano enormemente. A questo proposito il Tesoro e la Banca d’Italia potrebbero vincolare la sottoscrizione dei Tremonti-bond a un’esplicita pubblica attività di valutazione e monitoraggio della situazione patrimoniale delle banche, sulla linee dello stress-test delineato dal Tesoro americano.

 
da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN Obama, terapie senza strategia
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2009, 09:48:00 am
15/3/2009
 
Obama, terapie senza strategia
 
ALBERTO BISIN
 

Barack Obama ha raccolto in eredità una crisi economica complessa e preoccupante. Si è mosso con rapidità, attivando un piano di stimoli fiscali, uno di intervento sui mercati finanziari e immobiliari, e proponendo le linee guida del bilancio per i prossimi due anni.

Nonostante si sia insediato alla Casa Bianca da meno di due mesi, non è quindi troppo presto per cominciare una verifica.

Larry Summers, economista di fama, ex presidente di Harvard e mente economica principe dell’Amministrazione, è intervenuto nei giorni scorsi al Brookings Institute cercando di fornire alla stampa e agli osservatori una visione d’insieme delle politiche economiche dell’Amministrazione. Purtroppo ha dovuto giocare in difesa, a mio parere senza successo.

L’economia americana non dà segni di ripresa. Dall’inizio di gennaio la Borsa ha perso più del 20%. Questo, nonostante non manchino le buone notizie: il prezzo del petrolio è sceso di due terzi dai picchi dell’estate 2008, i mercati finanziari sono inondati di liquidità, i tassi di interesse interbancari sono tornati a livelli quasi normali, i valori immobiliari sono al livello precedente alla bolla (l’indice Case-Shiller ha perso il 27%), gli investimenti in scorte sono sull’orlo della ripresa. Ma l’economia non riparte. Non è certo il caso di distribuire meriti e colpe, come molti osservatori politicamente schierati ormai fanno, ma le politiche dell’amministrazione Obama, nel complesso, non aiutano.

Lo stimolo fiscale è solo in parte mirato alla recessione. Anche gli osservatori più generosi con l’Amministrazione accettano che non più di metà dello stimolo avrà effetti nel giro di due anni. Purtroppo lo stimolo non contiene incentivi all’offerta di lavoro, anche perché i tagli alle tasse della classe media non avverranno nella forma di tagli alle aliquote.

Gli interventi sui mercati finanziari non hanno avuto altro effetto che quello di tenere in vita banche e assicurazioni in crisi di intossicazione, senza agire sulle cause dell’intossicazione, e soprattutto senza effettuare quegli interventi dolorosi ma necessari perché tornino a operare con efficienza. Il tutto senza la fondamentale trasparenza, dando l’impressione che gli obiettivi dell’Amministrazione siano quelli di salvare Wall Street. Il gigante assicurativo Aig è al quarto intervento di salvataggio, che include 70 miliardi di dollari dei contribuenti. L’Amministrazione, che ormai possiede il 78% della società, non esclude un quinto intervento e rifiuta di rendere pubblici quali dei tanti creditori di Aig siano stati saldati, e perché. Gli interventi su Citigroup, la maggiore banca del Paese, appaiono anch’essi interventi di emergenza, senza un piano e una strategia di fondo. Gli stress test, i controlli sui bilanci delle banche, sono iniziati assurdamente tardi e non danno risultati apparenti.

Infine il bilancio per i prossimi anni proposto dall’Amministrazione ha avuto un effetto devastante sull’umore dei mercati. È pieno di quelle spese inutili, che gli americani chiamano «pork», contro cui Obama e McCain si sono scagliati in campagna elettorale. Il bilancio prevede enormi investimenti in sanità, istruzione, energia, prospettando nuove tasse nel momento peggiore per l’economia. Nonostante il bilancio preveda interventi importanti, introduce anche dannose restrizioni e vincoli all’attività privata. Il caso della scuola è il più chiaro. Il bilancio prevede enormi spese ma limita i crediti privati all’istruzione (che quasi ogni studente accende in questo Paese) e inserisce forti vincoli ai programmi di vouchers che permettono agli studenti meritevoli e bisognosi di studiare nelle scuole che preferiscono, invece di essere costretti alle scuole pubbliche dei distretti in cui vivono.

Obama ha grande abilità nell’articolare una visione del futuro dell’America che è di grande ispirazione per la società civile. Lo ha fatto ripetutamente in campagna elettorale e lo ha fatto anche nei giorni scorsi in un discorso sul futuro della scuola. In un certo senso Obama incarna questo futuro. Ma le discariche della politica sono piene di idee meravigliose e visionarie che sono fallite perché male applicate. La visione di Bush di una società in cui ogni cittadino possedesse un’abitazione è finita nei mutui subprime rilasciati con criminale facilità per gonfiare i profitti dei banchieri. La visione di Obama di un’istruzione di qualità per ogni americano rischia di finire con quei ragazzi cui non sarà permesso di frequentare una scuola privata per garantire il posto agli insegnanti della scuola pubblica del ghetto in cui vivono.

da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Rischiare con i soldi degli altri
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2009, 05:04:15 pm
24/3/2009
 
Rischiare con i soldi degli altri

 
ALBERTO BISIN
 
Il ministro delle Finanze americano T. Geithner ha ieri illustrato il suo nuovo piano di intervento sui mercati finanziari americani. L’obiettivo è quello di favorire la vendita a investitori istituzionali delle attività «tossiche» ancora nei bilanci delle banche. Le banche assumerebbero delle perdite anche consistenti ma, liberate da queste attività, potrebbero raccogliere capitale privato fresco sul mercato per poi tornare a fare le banche.

Il piano non pare nella sostanza molto diverso da quello precedentemente proposto da H. Paulson, richiedendo un grosso intervento della finanza pubblica per sostenere i prezzi delle attività «tossiche» delle banche, che il governo ritiene sottovalutate dal mercato. Il piano Paulson prevedeva che il Tesoro acquistasse direttamente queste attività a prezzi generosi. Il piano Geithner invece prevede che il Tesoro entri per il 50% in fondi di investimento privati che le acquistino. Il Tesoro fornirà inoltre grossi incentivi a questi fondi di investimento, nella forma di crediti agevolati con una implicita garanzia su buona parte di quel 50% del capitale che sta ai privati investire.

In modo diretto o in modo indiretto il Tesoro sostiene comunque i prezzi delle attività «tossiche» e quindi gli interessi degli azionisti delle banche che le possiedono. Per questo, nell’euforia dei mercati di oggi, sono state le grosse banche come Citigroup a registrare i maggiori guadagni.

Più volte ho sostenuto su queste colonne che il Tesoro sembra aver internalizzato gli obiettivi degli azionisti delle grosse banche. I dettagli di questo intervento non sembrano affatto contraddire questa impressione. Lo stesso fatto che l’amministrazione abbia per così dire «nascosto» il supporto ai prezzi delle attività «tossiche» nell’estensione di crediti agevolati ai fondi privati fa pensare a una operazione di marketing politico, davanti a una opinione pubblica sempre più giustizialista nei confronti delle banche.

Ho anche sostenuto che gli obiettivi degli azionisti delle banche non siano affatto in accordo con gli interessi dei contribuenti e che rischino di rallentare la ripresa dell’economia. Il fatto che i fondi di investimento cui contribuirà il Tesoro per il 50% saranno gestiti da privati lascia ancora più perplessi. In generale quella di finanziare attività di investimento per quote così elevate senza averne un almeno parziale controllo è una ricetta fallimentare. I manager sono necessariamente attratti da rischi eccessivi quando gestiscono denaro altrui. Il Tesoro garantisce a parole una qualche forma di supervisione, ma la mancanza di trasparenza che ha caratterizzato finora ogni intervento del Tesoro, dalla prima richiesta di fondi Tarp al Congresso fino ai diversi e ripetuti salvataggi di AIG, lascia poco sperare.

A cercare il bicchiere mezzo pieno, si può notare che quantomeno l’amministrazione ha chiaro che agire è necessario per evitare di ripercorrere gli errori che hanno portato il Giappone ad un decennio e più di crescita ridotta. L’euforia dei mercati può essere addotta proprio a questo. L’attesa di un piano di intervento aveva finora portato ad uno stallo sui mercati finanziari che rischiava di avere gravissime conseguenze in una crisi recessiva come quella in cui si trova l’economia mondiale. A questo si aggiunga che l’economia dà i primi segni di recupero (addirittura nei mercati immobiliari secondo dati di ieri), e si vedrà come mercati estremamente volatili abbiano reagito positivamente, dopo essere crollati il mese scorso davanti ad un piano identico nella sostanza anche se meno dettagliato (il primo piano Geithner). Fatico comunque a credere che questi interventi siano sufficienti ad avere positivi e duraturi sui mercati finanziari. Mi rincuora che le autorità monetarie e finanziarie europee appaiano meno propense ad azzardati interventi di salvataggio.
 
da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Il pugno di Barack
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2009, 03:43:47 pm
31/3/2009
 
Il pugno di Barack
 
ALBERTO BISIN
 
Il presidente Barack Obama ha delineato ieri il piano d’intervento della sua amministrazione nei confronti dell’industria automobilistica in grave crisi. Il piano comporta l’utilizzo di fondi pubblici in supporto della domanda di automobili durante la recessione. Ma comporta anche interventi diretti nella gestione di General Motors e Chrysler.

Le due società in maggiore difficoltà hanno già ricevuto dal dicembre scorso oltre 17 miliardi di dollari di aiuto a spese dei contribuenti. Prima di ricevere nuovi fondi pubblici Gm sarà molto probabilmente costretta a una rapida procedura di fallimento, guidata dal governo, che permetterà di ridurre e ristrutturare l’indebitamento e di pianificare un nuovo modello di sviluppo. L’amministrazione Obama è inoltre intervenuta direttamente richiedendo le dimissioni dell’amministratore delegato di Gm e indicando la partnership con la Fiat come condizione essenziale per la ristrutturazione di Chrysler. Per quanto questo intervento diretto del governo nella gestione di Gm e Chrysler possa apparire come una indebita intromissione negli interessi privati degli azionisti, esso pare invece appropriato in questo particolare caso. Innanzitutto perché le società sarebbero in fallimento senza aiuti statali, ed in questo caso gli azionisti perdono il controllo. E poi, almeno nel caso di Gm, il consiglio di amministrazione ha dimostrato assoluta mancanza di indipendenza nei confronti del management: l'amministratore delegato, Rick Wagoner, ha goduto dei favori del consiglio fin dal 1994, nonostante la quota di mercato di Gm negli Stati Uniti sia scesa dal 33,2% al 18,8% e nonostante il valore di mercato della società sia passato dai 70 dollari ad azione del 2000 ai 4 di oggi.

La decisione dell’amministrazione Obama di utilizzare la normativa riguardante la procedura di fallimento per ristrutturare le due società mi pare coraggiosa. Questa normativa permette infatti di agire con determinazione sia su coloro che possiedono obbligazioni delle società che sui sindacati e i creditori. A ognuna di queste parti sarà richiesto di convertire una parte dei propri crediti (o, nel caso dei sindacati, dei benefici in termini di assicurazione sanitaria e pensioni) in azioni. Si parla di due terzi delle obbligazioni e metà dei benefici assicurativi e pensionistici.

Gli obbligazionisti hanno potere contrattuale limitato, se non nullo, in questa situazione. Il successo della ristrutturazione di Gm e Chrysler dipenderà invece da quanti sacrifici l’amministrazione sarà disposta a richiedere ai sindacati. Un nuovo modello di sviluppo di Gm e Chrysler non può infatti prescindere dalla considerazione che i salari orari che esse hanno contrattato coi sindacati sono notevolmente superiori a quelli che ad esempio Toyota paga ai propri lavoratori non sindacalizzati (70 dollari l’ora contro 46 nel caso dei lavoratori con maggiore esperienza); per non parlare di assicurazione sanitaria e pensione.

Nel discorso di ieri Obama ha esplicitamente addossato la colpa del fallimento dell’industria dell’auto alla sua leadership, «a Washington come a Detroit», senza affrontare direttamente le questioni sindacali. Ha letto questo fallimento come l’incapacità di innovare nella produzione di automobili più efficienti e «pulite». Questa interpretazione è condivisibile solo in parte. Non è corretto dimenticare che alla radice della crisi sta soprattutto l’irresponsabilità di manager e sindacati che hanno firmato contratti finanziariamente non sostenibili, nella speranza e nella convinzione che nessuna amministrazione avrebbe avuto il coraggio di non intervenire pesantemente in aiuto dell’auto. In queste condizioni, produrre automobili competitive passava in secondo piano rispetto al mantenimento della pace sindacale e al supporto da parte della politica locale e federale.

La crisi ha portato l’amministrazione Obama a dover affrontare il rapporto tra politica e oligarchia economica, nel mercato dell’auto come nella finanza, laddove grandi società private hanno potuto evitare la competizione di mercato sostituendola con rendite «gentilmente loro offerte» dalla politica. Fino ad ora purtroppo l’amministrazione non ha saputo, a mio parere, intervenire con la forza e l’indipendenza di giudizio necessarie a strozzare queste rendite e ristabilire il funzionamento di mercati efficienti. Non lo ha fatto giorni fa con le grandi banche. Ha fatto meglio ieri con l’industria automobilistica. Vedremo se saprà farlo domani con i potenti sindacati dell’auto (e dopodomani con quelli degli insegnanti).
 
da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - L'abbaglio statalista
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2009, 02:53:41 pm
14/4/2009
 
  L'abbaglio statalista

ALBERTO BISIN
 
Molti osservatori credono di vedere nella crisi economica e finanziaria di questi tempi la fine del liberismo. La crisi sarebbe la prova che mercati poco regolamentati sono intrinsecamente instabili e forieri di sciagure. La crisi sarebbe inoltre chiaro indizio della fine della posizione dominante dell’economia americana nel mondo.

Ad argomenti di questo tipo si sono appellati il presidente Sarkozy e il cancelliere Merkel, quando richiesero a gran voce istituzioni sovrannazionali di regolamentazione dei mercati finanziari globali. Lo stesso presidente Obama, per quanto poco disposto a cedere agli isterismi revanchisti del governo francese, sembra abbracciare l’idea che solo attraverso un ritorno a massicci interventi statali le magnifiche sorti e progressive dell’economia possano essere rinvingorite.

Questa prospettiva è a mio parere errata. Oggi noi vediamo la crisi e la disoccupazione che non accenna a fermarsi, in Europa come negli Stati Uniti. Ma dimentichiamo che da decenni la disoccupazione nella statalista Europa è circa 4 punti percentuali più alta che negli Stati Uniti, patria del liberismo. Oggi noi vediamo Londra e New York, centri della finanza irrazionale ed esuberante, in ginocchio. Ma dimentichiamo che l’Inghilterra ha ripreso a crescere grazie alle politiche liberiste di Margaret Thatcher e ha un reddito pro capite almeno del 15% superiore al nostro. Oggi noi vediamo l’Irlanda indebitata e in grave crisi, e così alcuni Paesi dell’Est come l’Estonia. Ma dimentichiamo che 30 anni fa l’Irlanda aveva un reddito pro capite pari a quello del nostro Sud mentre oggi è più del doppio. Oggi noi vediamo la crisi colpire i Paesi poveri nel mondo. Ma dimentichiamo che nel 1970 il 38% della popolazione mondiale viveva sotto la linea della povertà, mentre nel 2000 questa percentuale era del 19%.

Potrei continuare con altri «Oggi noi vediamo... Ma dimentichiamo...». Noto invece che questo esercizio retorico risulta particolarmente facile usando l’Italia come riferimento rispetto ai Paesi più liberisti. Questo naturalmente perché l’Italia ha uno dei sistemi pubblici più inefficienti del mondo sviluppato. L’istruzione e la sanità hanno qualche isola felice, ma la giustizia è imbarazzante, l’amministrazione politica locale in molte aree è invasa dalla criminalità organizzata, la classe politica centrale è tra le peggiori e più costose d’Europa, la spesa pubblica è fuori controllo, e il sistema fiscale permette tassi di evasione inimmaginabili nel resto del mondo civile. Se gli Stati Uniti possono ragionevolmente concepire un nuovo ruolo dell’intervento pubblico nello Stato, in Italia lo Stato ha avuto ininterrottamente un ruolo centrale nel sistema economico. Dal corporativismo fascista allo statalismo democristiano, dalla social-democrazia della sinistra riformista all’anti-mercatismo del ministro Tremonti. Se gli Stati Uniti hanno spazio per allargare il ruolo dello Stato, l’Italia ha spazio solo per ridurlo. Soprattutto al Sud, dove la presenza dello Stato è più massiccia e la sua inefficienza è di conseguenza molto maggiore. Il danno più profondo che la crisi possa fare all’economia italiana è proprio quello di rallentarne il già lentissimo passaggio verso una economia di mercato.

Ma anche negli Stati Uniti la battaglia per uno Stato interventista efficiente è impari. Anzi, già vi si osservano preoccupanti segnali di «italianizzazione». I generosi fondi federali allo Stato di New York, che dovevano servire a garantire che scuole e ospedali superassero la crisi, sono risultati in una quantità di spese clientelari come mai si era visto. Il Tesoro, che siede su migliaia di miliardi di dollari per ricapitalizzare il mercato finanziario, è ostaggio di una oligarchia di banchieri che richiede sussidi per socializzare le perdite passate e garanzie contro possibili perdite future. Così come l’autorità «indipendente» preposta alle regole di contabilità delle società, che accorda nuovi meccanismi che permettono alle banche bilanci «allegri» e «creativi». Tutto questo non per sostenere che la mancanza di regolamentazione della finanza non stia alla radice della crisi. Migliori meccanismi sovrannazionali di regolamentazione della finanza sono certamente desiderabili. Ma la soluzione drastica di ritorno allo Stato che molti governi sembrano oggi favorire sarà dannosa per gli Stati Uniti, e molto più per l'Italia che ha uno Stato tremendamente inefficiente e rischia di trovarsi con le banche controllate dai prefetti.
 
da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Mercati e trucchi contabili
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2009, 04:40:46 pm
22/4/2009
 
Mercati e trucchi contabili
 
ALBERTO BISIN
 

Molti osservatori economici tirano il fiato in questi giorni: il peggio della crisi finanziaria sembra finito, le maggiori banche americane addirittura segnano profitti per il primo trimestre. Alcuni si estendono fino a prevedere una ripresa economica a partire dall’estate.

In verità previsioni di questo tipo sono statisticamente così imprecise da essere poco più di un esercizio divinatorio. Possiamo però analizzare una delle ragioni principali di tale ottimismo: i risultati positivi delle banche, Citigroup e Bank of America in particolare. Purtroppo, così facendo, ci accorgiamo che i loro risultati trimestrali positivi sono in parte fittizi, dovuti a trucchi contabili.

Le nuove norme istituite dall’istituto preposto alla definizione delle regole contabili delle società (il Financial Accounting Standards Board) hanno permesso alle banche di contabilizzare le attività «tossiche» ancora nei propri bilanci, non al valore di mercato, ma ad un valore che le banche stesse ritengono accurato in presenza di una crisi di liquidità. In sostanza le banche hanno una certa libertà nel sopravvalutare rispetto al mercato le proprie attività.

Un altro trucco contabile permette alle banche di sottovalutare le proprie passività, come il debito obbligazionario. Il valore di mercato delle obbligazioni di una società in crisi, a rischio di fallimento, è basso - proprio perché il mercato attualizza il rischio di fallimento. Permettere alle banche di contabilizzare il proprio debito al valore di mercato, come accade in questi giorni, significa in un certo senso permettere loro di cancellare buona parte dei propri debiti dal bilancio con un tratto di penna. In altre parole, nel caso estremo di una società in fallimento non ci sono debiti, ma questo ovviamente non significa che la società sia in buona salute. Insomma, non è difficile segnare profitti se le regole contabili permettono di sopravvalutare le attività e sottovalutare le passività.

Questi trucchi sono purtroppo parte di una generale tendenza alla mancanza di trasparenza del governo americano in materia finanziaria. Il Tesoro ha infatti direttamente favorito, se non richiesto, l’istituzione di queste nuove norme contabili. Esso sembra inoltre intenzionato addirittura a cambiare le condizioni del proprio intervento nei mercati finanziari, da azioni privilegiate a ordinarie, per manipolare i risultati dello stress test delle banche che esso stesso sta conducendo. La misura del capitale delle banche utilizzata nello stress test infatti include azioni ordinarie ma non azioni privilegiate. Il Tesoro finirà quindi per addossare ai contribuenti un’altra significativa frazione di rischio del sistema finanziario e finirà per sottomettere l’attività delle banche a maggiore controllo politico (le azioni ordinarie, a differenza di quelle privilegiate, hanno diritto di voto). Tutto questo solo per manipolare un indice contabile e controllare l’informazione finanziaria da rendere pubblica?

Questa mancanza di trasparenza è estremamente deleteria per l’andamento dei mercati finanziari. I risparmiatori e gli investitori non hanno modo di distinguere chiaramente le buone notizie dalle cattive. Alcune banche infatti hanno certamente migliorato la propria situazione, ad esempio approfittando della liquidità iniettata dalla Fed nel sistema, ma in queste condizioni è difficile se non impossibile capire quali di esse lo abbiano fatto. La volatilità del mercato riflette anche e soprattutto questa incertezza di fondo.

A questo proposito gravissima è anche la versione italiana dei trucchi contabili americani, insita nelle recenti norme che permettono alle società quotate di riacquistare fino al 20 per cento delle proprie azioni e che esentano dall’Offerta Pubblica di Acquisto l’azionariato di controllo (che passasse dal 30 al 35 per cento). L’unica funzione di queste norme è quella di mantener saldi i gruppi di controllo delle imprese quotate ad azionariato diffuso. In un mercato azionario come quello italiano, già caratterizzato dalla concentrazione del controllo e da un certo sprezzo per gli interessi degli azionisti di minoranza, queste norme vanno nella direzione opposta a quella desiderabile. Tendono infatti ad inibire quello sviluppo e quella competizione nei mercati dei capitali che sono necessari per sostenere una duratura crescita dell’economia italiana una volta che quella mondiale sia ripartita.
 
da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Banche Usa l'occasione mancata
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2009, 05:05:09 pm
8/5/2009

Banche Usa l'occasione mancata
   
ALBERTO BISIN


La giornata di ieri sembrerebbe aver segnato una svolta nella crisi finanziaria: la Banca Centrale Europea ha abbassato il tasso di interesse di riferimento al suo minimo storico, e il Tesoro americano ha pubblicato i risultati dello stress test sui bilanci delle principali banche.

Purtroppo non è così, siamo ancora in alto mare. Innanzitutto, le misure classiche di politica monetaria, come la riduzione dei tassi, hanno effetti minimi su una crisi finanziaria profonda come quella in cui ci troviamo. La Fed ha ridotto i tassi negli Stati Uniti essenzialmente a zero mesi orsono, senza effetti significativi sulla disponibilità di credito a famiglie e imprese.

Lo stress test dei bilanci delle banche americane operato dal Tesoro ha invece un obiettivo fondamentale.

Eliminare gli ostacoli che la situazione finanziaria delle banche frappone alla ristabilizzazione dei flussi di credito, senza i quali uscire dalla recessione è impresa titanica anche per economie di mercato ben sviluppate. Nonostante le intenzioni, però, anche questo intervento rappresenta una grande occasione perduta piuttosto che non la svolta necessaria alla crisi.

Vediamo perché. Nei bilanci delle banche sono nascoste passività e rischi di enorme entità. Le stime recenti del Fondo Monetario Internazionale riportano 1000 miliardi di dollari di perdite in tutto il sistema finanziario, il 50% in capo alle banche, di cui solo 200 miliardi realizzati a bilancio. I creditori di ogni singola banca, specie gli azionisti, hanno interesse a mantenere queste passività nascoste fino a che la ripresa economica non se le porti via (o fino a che il governo non le addossi ai contribuenti). Ogni banca ha persino interesse a che le altre banche ripuliscano i loro bilanci, così da sostenere una ripresa economica che ne ripulisca il proprio. Lo stallo che questa situazione genera è estremamente dannoso per l’economia globale proprio perché una ripresa vivace e tempestiva è impossibile fino a che le banche non abbiano ripulito i propri bilanci e il mercato del credito non torni a operare efficientemente. È qui che lo stress test del Tesoro potrebbe intervenire: passare i bilanci delle banche ai raggi X, costringerle a realizzare le perdite e a ricapitalizzarsi in modo da poter sopportare anche i rischi derivanti da una rinnovata attività nei mercati del credito.

Ho usato il verbo «costringere» a ragion veduta. Come ho detto, le banche non hanno interesse a ripulire i bilanci, mentre il sistema economico ha interesse che lo facciano con celerità.

Lo stress test rappresenta una grande occasione persa per due ragioni. Prima di tutto, perché il Tesoro non ha prodotto un’analisi trasparente dei bilanci delle banche, ma anzi ne ha concordato i risultati con le banche stesse. In questo modo non si risolvono i dubbi degli investitori (cui spetterà la necessaria ricapitalizzazione) sul reale stato di solvibilità del sistema finanziario. Ma lo stesso test è una grande occasione perduta soprattutto perché il Tesoro non costringe le banche a nulla. Anzi, continua a prometter loro interventi e sussidi pubblici nel caso la ricapitalizzazione sul mercato privato fallisca. In questo modo si riducono enormemente gli incentivi delle banche a realizzare le perdite nascoste nelle pieghe dei loro bilanci.

La politica perseguita dal ministro Geithner è quindi la stessa iniziata dal ministro Paulson: salvare le banche prima di tutto. Stime della commissione di controllo del Congresso (Congressional Oversight Panel) riportano perdite dirette per i contribuenti dagli interventi sui mercati finanziari a oggi dell’ordine di 170 miliardi di dollari, cui vanno aggiunte garanzie assicurative valutabili in oltre 100 miliardi di dollari. Infine, i fondi di investimento a partecipazione pubblica e privata che acquisteranno le attività «tossiche» delle banche, annunciati ma non ancora istituiti, costeranno ai contribuenti secondo i più attenti osservatori 2 dollari per ogni dollaro investito dal settore privato. Questa politica non ha dato a oggi alcun significativo effetto positivo sui mercati finanziari e continuerà a non darne in futuro. Il Tesoro sembra continuare a proporsi di evitare a ogni costo di dichiarare alcune banche insolventi, per timore di una crisi sistemica nei mercati finanziari e forse anche per limitare le perdite di management e azionisti delle banche, cui il ministro Geithner è vicino per frequentazione e interessi politici. In questo modo però il mercato del credito rimane congelato e la ripresa economica più lontana e anemica. Era questo il momento per il Tesoro di sollevare la testa dalla sabbia e proporre come meglio affrontare il rischio sistemico invece di nasconderlo. Peccato, sarà per la prossima volta.

da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Benvenuta concorrenza fiscale
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2009, 02:59:22 pm
21/5/2009

Benvenuta concorrenza fiscale
   
ALBERTO BISIN


La crisi economica è stata esacerbata da mercati finanziari regolamentati poco e male. Se è quindi indubbia la necessità di nuove forme di regolamentazione dei mercati dell’economia globale, è opportuno però sempre tenere a mente che a regolare sono e saranno governi e istituzioni internazionali, complesse burocrazie che agiscono sulla base di interessi politici e attraverso dinamiche non necessariamente in linea con gli interessi della collettività.

In particolare, i governi hanno una ben documentata tendenza all’eccessiva spesa pubblica. Questo perché essa si traduce in controllo delle risorse, potere, e in ultima istanza è meccanismo fondamentale al raggiungimento del consenso elettorale. Ed è così che anche un politico che ha fatto del modello anglosassone e del ridimensionamento del Welfare il suo cavallo di battaglia, come il presidente Sarkozy, cavalca ora invece l’anti-mercato. La stessa politica economica del centro-destra in Italia è passata dal liberismo ideologico, almeno a parole, del primo Berlusconi, alle più recenti posizioni interventiste del ministro Tremonti.

Ma anche i più attenti osservatori delle questioni economiche europee sembrano favorevoli a un ridimensionamento del ruolo del mercato. L’Economist, non certo fautore delle economie sociali dell’Europa continentale, sembra rivalutare il Welfare francese e tedesco. Persino Mario Monti, tra i più coerenti in Italia e in Europa a difendere concorrenza e mercato, ha auspicato in un editoriale sul Corriere di domenica un maggiore coordinamento delle politiche fiscali tra Paesi, per evitare che la concorrenza fiscale, «determinando una corsa all’abbassamento delle aliquote d’imposta», riduca il gettito, e quindi «il finanziamento di programmi sociali».

Quella della riduzione della concorrenza fiscale è questione importante, che sta a cuore a molti governi e che ha dominato le discussioni ai G20. Il governo americano ha mosso passi decisi in questa direzione, proponendo una modifica del regime fiscale delle società che in buona sostanza impedirebbe alle imprese multinazionali statunitensi di adottare regimi di tassazione più favorevoli di quello americano.

Vale la pena quindi di soffermarsi sui vantaggi e i costi della concorrenza fiscale un po’ più in dettaglio. La retorica populistica vuole che queste misure siano una difesa necessaria dalla fuga dei capitali verso i paradisi fiscali. In realtà esse rappresentano innanzitutto una forma di protezionismo del mercato del lavoro interno dalla concorrenza di Paesi in via di sviluppo quali l’India e la Cina. Ma più in generale, quello che i governi temono maggiormente è la concorrenza fiscale di Paesi sviluppati, con moderne infrastrutture, ma a bassa imposizione, come l’Irlanda. La tassa sulle società (centrale, regionale e locale) è del 12,5% in Irlanda, mentre è del 34% in Francia, del 30% in Germania, e in principio del 39% negli Stati Uniti (anche se varie esenzioni ne permettono una riduzione notevole per la maggior parte delle imprese). Per garantire la competitività delle imprese nazionali, quindi, Francia, Germania, Stati Uniti, potranno essere costrette ad un «abbassamento delle aliquote d’imposta». A meno di raggiungere un accordo sul coordinamento delle politiche fiscali ad aliquote più elevate, che riduca sostanzialmente la concorrenza fiscale (includendo il più possibile i Paesi oggi a bassa aliquota e limitando i flussi di capitale e di investimenti diretti verso quelli che rifiutino l’accordo).

Ma è davvero auspicabile una siffatta limitazione della concorrenza fiscale? In un mondo perfetto, in cui i governi destinino la spesa pubblica ad un’efficiente produzione di beni pubblici, la concorrenza fiscale ha effetti dannosi, proprio perché limita la quantità di beni pubblici che possano essere finanziati. In un mondo imperfetto, in cui invece le istituzioni politiche tendano a favorire una dinamica incontrollata della spesa pubblica, la concorrenza fiscale ha invece un effetto positivo: impone un vincolo alla capacità impositiva dei governi e quindi alla spesa eccessiva ed inefficiente.

La limitazione della concorrenza fiscale ha quindi effetti opposti a seconda di quale sia il mondo in cui viviamo, di quanto le istituzioni politiche siano in grado di limitare la propria naturale tendenza alla spesa. Purtroppo non è difficile osservare quanto imperfetto sia il mondo reale. Ed è soprattutto in Europa che le istituzioni hanno permesso a spesa pubblica e a tassazione di raggiungere livelli tali da soffocare la crescita economica ormai da anni. È questo il caso dell’Italia, ovviamente. Ma anche di quei Paesi come la Francia e la Germania, che pure hanno un’amministrazione pubblica efficiente. E allora si agisca pure sulle Isole Cayman, ma ben venga la concorrenza fiscale dell’Irlanda.

da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Usa-Cina, voglia d'equilibrio
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2009, 11:36:31 am
2/6/2009
 
Usa-Cina, voglia d'equilibrio
 

ALBERTO BISIN
 
Il ministro del Tesoro americano Tim Geithner è in Cina. La visita è importante perché rappresenta il tentativo dell’amministrazione Obama di delineare coordinatamente con la Cina gli equilibri che le due economie si troveranno ad affrontare una volta che la crisi economica sia risolta.

Naturalmente, il solo fatto che il governo americano proponga alla Cina soluzioni concordate ai disequilibri economici globali è un riconoscimento al ruolo sempre più fondamentale che l’economia cinese giocherà nel garantire la crescita economica nei prossimi decenni. Ma anche astraendo da considerazioni sui possibili futuri equilibri strategici, le questioni economiche sul tappeto sono estremamente complesse.

Si tratta di iniziare a definire un nuovo ordinamento del mercato dei cambi e una strategia che permetta un ribilanciamento della bilancia commerciale della Cina nei confronti degli Stati Uniti, ma anche dell’Europa. A partire dal 2000 l’economia cinese ha prodotto enormi e crescenti avanzi di bilancia commerciale, cioè ha esportato beni più di quanti ne abbia importati, per un valore che il Fondo Monetario Internazionale stima in circa 440 miliardi di dollari nel 2008. Normalmente, in economie di mercato, avanzi di questa entità tendono a riassorbirsi, più o meno rapidamente.

L’aumento delle esportazioni genera ricchezza che tende ad essere in parte consumata in beni e servizi prodotti nell’economia stessa così come in beni di importazione. Un ruolo importante in questo meccanismo di aggiustamento ha anche il tasso di cambio, che tende ad apprezzarsi a fronte di avanzi commerciali, rendendo le esportazioni più costose e le importazioni meno costose.

Tutto questo non avviene nel caso degli avanzi commerciali della Cina nei confronti del resto del mondo. I cinesi continuano ad accumulare risorse senza troppo aumentare i consumi e il cambio dello yuan si è apprezzato a partire dal 2006, ma solo del 15%. Perché? Innanzitutto perché la Cina non è un’economia di mercato; il governo controlla attivamente il tasso di cambio dello yuan, impedendone l’apprezzamento rispetto al dollaro e all’euro che il mercato richiederebbe. Il governo cinese controlla anche rigidamente lo sviluppo industriale del Paese, favorendo i settori che producano beni per l’esportazione rispetto a quelli orientati alla domanda interna. E così i consumatori cinesi, davanti a mercati e prezzi distorti a sfavore del consumo, risparmiano massicciamente: il 50% del prodotto interno lordo nel 2007. Per avere un’idea di cosa questo significhi, basta pensare che il tasso di risparmio in Italia negli Anni 60, notoriamente elevatissimo, non raggiungeva il 30%.

Questo spiega cosa il ministro Geithner è andato a chiedere alla Cina: un apprezzamento dello yuan rispetto al dollaro e una politica industriale più favorevole al consumo interno e alle importazioni, che possa agire da traino dell’economia globale nel prossimo decennio. O è la Cina (con l’India) a produrre crescita globale, o ci aspetta un decennio di relativa stagnazione.

I consumatori americani, le cui spese hanno in larga parte sostenuto la crescita globale nel decennio passato, saranno infatti costretti in futuro ad aumentare i risparmi per ripagare i debiti pubblici e privati che essi hanno accumulato.

Nonostante il tono ben più conciliante dell’amministrazione Obama, rispetto all’amministrazione Bush, le autorità cinesi non hanno tutte le carte a proprio favore. Nel lungo periodo la Cina favorirà lo sviluppo di una moneta internazionale di riserva alternativa al dollaro, e gli Stati Uniti hanno necessità di rallentare e coordinare questo inevitabile processo con le autorità cinesi. Ma nel breve periodo il governo cinese ha investito gli enormi avanzi di bilancia commerciale accumulati in questi anni in attività finanziarie americane (700 miliardi di dollari, soprattutto titoli di debito pubblico). Un forte indebolimento del dollaro avrebbe quindi effetti drammatici sull’economia cinese. Un’inflazione sostenuta negli Stati Uniti permetterebbe di scaricare sui cinesi una parte sostanziale del costo di ripagare il debito pubblico americano. Il ministro Geithner cercherà di rassicurare le autorità cinesi a questo proposito, ma la minaccia inflazionistica resta chiara e forte, e rappresenta la carta che gli americani giocheranno per convincere la Cina ad accettare le proprie richieste. In buona sostanza entrambi i paesi hanno interesse ad un riequilibrio degli scambi nell’economia globale del prossimo decennio, per poter meglio governare l’inevitabile spostamento del baricentro dell’economia a favore della Cina e delle altre economie asiatiche.

alberto.bisin@nyu.edu
da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN E il Nord continua a pagare
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2009, 06:36:43 pm
28/7/2009
 
E il Nord continua a pagare
 
 
ALBERTO BISIN
 
La battaglia che si sta combattendo in questi giorni all’interno del Pdl sul partito del Sud è principalmente una lotta di potere interna. Ma non è solo questo.

In gioco è infatti la sostenibilità del sistema economico italiano. Il reddito pro-capite della Lombardia (dati Eurostat 2005) è circa il doppio di quello della Campania, della Calabria o della Sicilia. Così è con alti e bassi sin dagli Anni 60, anche a fronte di interventi fiscali dal Nord al Sud di notevolissima entità. Per esempio, dai dati del ministero delle Finanze (elaborazione Centro Studi Sintesi, 2005) risulta che l’eccesso di spesa pubblica sui tributi raccolti da Stato e Regioni (disavanzo pubblico totale per Regione) è pari a quasi duemila euro pro-capite in Campania, a oltre tremila in Calabria, a tremila e cinquecento euro in Sicilia. I contribuenti lombardi invece versano allo Stato cinquemila euro pro-capite in eccesso di quanto ricevano; e duemila i piemontesi.

Le tasse hanno un’importante funzione redistributiva, dai più ricchi ai meno ricchi, ed è quindi naturale che in Italia il Nord sussidi il Sud. Ma flussi di questa entità sono sostenibili solo se temporanei, se finalizzati a investimenti per lo sviluppo. I sussidi della Germania Ovest all’Est dopo l’unificazione sono un chiaro esempio. Non è questo il caso in Italia, almeno dagli Anni 60. La spesa pubblica nel Sud ha un forte carattere clientelare e ha alimentato una classe di politici e amministratori locali tra le peggiori d’Europa. La gestione della questione rifiuti in Campania, della spesa sanitaria in Calabria, Puglia, e ancora Campania sono casi eclatanti ma niente affatto anomali. Per quanto l’intero Paese sia caratterizzato da un sistema pubblico enormemente inefficiente, la situazione al Sud è addirittura indegna di un Paese sviluppato.

Si è parlato molto della sanità in questi giorni, e molti osservatori hanno notato come sia proprio nelle Regioni in cui la spesa sanitaria è maggiormente fuori controllo che i servizi sanitari sono carenti e i malati sono costretti a curarsi altrove. Una situazione simile si ha anche nell’istruzione. I risultati della valutazione delle università recentemente ripresi dal ministro Gelmini sono chiari: le università superiori alla media italiana in termini di ricerca, insegnamento, e capacità di attrarre fondi sono distribuite quasi esclusivamente al Nord e quelle inferiori alla media al Sud. I test Pisa (Ocse, 2006), che misurano i livelli di apprendimento per alunni di 15 anni, danno risultati chiari: se in matematica gli studenti lombardi stanno a livello dei francesi e dei tedeschi, gli studenti siciliani e campani competono con i turchi e i thailandesi.

Alcuni osservatori notano che la capacità delle università di attrarre fondi e l’apprendimento scolastico dei ragazzi di elementari e medie non sono indipendenti dal reddito della Regione in cui risiedono. Risultati peggiori al Sud sarebbero quindi inevitabili. È vero, ma è inutile nascondersi dietro paraventi sottilissimi: le differenze nei risultati sono enormi, e solo in minima parte giustificabili dalle differenze di reddito. La verità è che la spesa pubblica è gestita al Sud in modo spaventosamente clientelare e quindi inefficiente. E così è anche per le entrate (dati Agenzia delle Entrate, medie 1998-2002): per ogni euro Irap dichiarato, si evadono 93 centesimi in Calabria, 60 in Sicilia e in Campania, 13 in Lombardia e 30 in Piemonte.

Non è necessario credere ai riti celtici con l’acqua del Po o essere fautori del ritorno della Serenissima per comprendere che squilibri fiscali come quelli evidenziati, accompagnati dalle divergenze nella qualità dei servizi di cui si è detto, non abbiano nulla a che fare con la solidarietà né con un’equa redistribuzione delle risorse. Tali squilibri sono insostenibili nel medio periodo, specie in un Paese gravato da un debito pubblico enorme e da un fisco tanto asfissiante quanto inefficiente. In questa situazione, il governo irrigidisce giustamente i cordoni della spesa e la classe politica che rappresenta il Sud fa quello che è stata eletta per fare: chiede finanziamenti, sussidi, e posizioni di governo da cui poter elargire finanziamenti e sussidi.

Per questo la rigidità finanziaria del ministro Tremonti è tanto impopolare quanto importante. Data la situazione in cui versa l’amministrazione locale nel Mezzogiorno, il governo fa bene nel breve periodo ad accentrare i centri di spesa per investimenti al Sud. Ma una riproposizione della Cassa del Mezzogiorno sarebbe un grave errore. Nel medio periodo è necessario che gli elettori siano, in ogni parte del Paese, responsabili fiscalmente della spesa dei propri amministratori. Solo allora gli amministratori locali e i governatori regionali saranno eletti sulla base della loro capacità di favorire lo sviluppo e non di produrre sussidi. Ne guadagnerà il Nord, ma soprattutto il Sud.
 
da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Confusione fra speranza e analisi
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2009, 09:17:54 am
30/7/2009
 
Confusione fra speranza e analisi
 
 
 
 
 
ALBERTO BISIN
 
Sta davvero finendo la crisi? I «germogli verdi» di cui si parla da qualche mese stanno finalmente fiorendo? Così sembra voler suggerire il governo americano.

Molti paiono disposti a crederci. C’è però una bella espressione inglese che rende l’idea di cosa rappresentino le dichiarazioni ottimiste dell’amministrazione americana di questi giorni: «wishful thinking», confusione tra speranza e analisi razionale. Il presidente Obama spera di stare intravedendo la fine della crisi per l’ovvio motivo che nessun Presidente accumula popolarità quando l’economia non cresce. Ma ad Obama la fine della crisi oggi porterebbe ben altri vantaggi politici. Innanzitutto egli potrebbe argomentare che il suo piano fiscale ha avuto l’effetto di stimolo desiderato. Da qui il Presidente prenderebbe poi spinta per provare a convincere il Paese ad accollarsi una ulteriore enorme voce di spesa pubblica, quella necessaria per riformare il sistema sanitario. Nel suo discorso ieri Obama ha abbastanza esplicitamente proposto proprio questa connessione: la crisi sta finendo e quindi cominciamo a fare sul serio col sistema sanitario. Non è quindi sorprendente che il governo americano tenda a confondere la speranza con l’analisi. Questo non significa però che la crisi non stia realmente per finire. Significa che non lo sappiamo. Certo non siamo vicini ad aver recuperato i posti di lavoro persi sino ad ora. Ma abbiamo forse finito di perderne? Cerchiamo di fare ordine tra speranza e analisi economica, ben coscienti che l’analisi economica produce al meglio previsioni probabilistiche, cioè condite da notevole incertezza.

Innanzitutto proviamo a imparare dal passato, dai dati statistici sulla durata e la profondità delle precedenti recessioni. Se fossimo nel 1981, una delle peggiori crisi del dopoguerra negli Stati Uniti, staremmo cominciando a crescere in questo trimestre. Inoltre, l’uscita da una recessione è tipicamente preceduta da un mercato mobiliare in fermento, cosa che indubbiamente sta avvenendo. Infine, le scorte sono ai minimi e quindi si prevede una crescita degli investimenti dopo l’estate, e anche il mercato immobiliare, una delle cause della crisi, si è mosso nel primo trimestre 2009. Fin qui tutto bene.

Ma questa recessione è strutturalmente diversa da quelle attraverso cui l’economia americana è passata nel dopoguerra. Per tante ragioni, ma per due in particolare. Innanzitutto, la profondità della crisi finanziaria che ha dato il via alla recessione non ha avuto precedenti dopo il 29. In secondo luogo, l’economia americana non è così dominante a livello mondiale come lo è stata negli ultimi sessanta anni. La crescita della Cina sembra oggi necessaria a sostenere una vera ripresa negli Stati Uniti. Prima di poter prevedere l’uscita dalla crisi con una certa fiducia, quindi, è necessario convincersi che il sistema finanziario sia tornato a operare con efficienza e che la crescita in Cina sia solida e duratura.

Su entrambi questi punti gli economisti hanno dubbi rilevanti. Gli interventi del Tesoro americano per la stabilizzazione del sistema finanziario hanno inciso in modo anche profondo ma non a sufficienza da spingere le maggiori banche alla rapida ricapitalizzazione che era necessaria. La Federal Reserve di New York, per bocca del presidente Dudley, prevede una ripresa lenta esattamente per questa ragione: «Il sistema finanziario è ancora nel mezzo di un processo prolungato di aggiustamento. La disponibilità di credito bancario sarà quindi ristretta per ancora un po' di tempo e questo avrà l’effetto di limitare la velocità della ripresa». Un rapporto della Federal Reserve di St. Louis, a sua volta, suggerisce cautela nell’interpretare i recenti dati moderatamente positivi sulla disponibilità totale di credito bancario, per varie precise ragioni economiche e statistiche. Per quanto riguarda la Cina, poco si conosce e si comprende, per scarsità di dati accurati e per le ovvie difficoltà ad analizzare un sistema economico relativamente unico in termini di interazione tra privato e pubblico. Ma la rapida crescita dei mercati azionari cinesi (16% in Luglio allo Shanghai Composite, ad esempio) ha ingenerato in alcuni osservatori il timore di una bolla speculativa. Le politiche monetarie e creditizie estremamente espansive della banca centrale, la People’s Bank of China, aggiungono poi argomenti a chi dubita che la crescita dei valori azionari sia sostenuta dai fondamentali dell’economia cinese. È in generale difficile fare previsioni in economia. Prevedere la fine di questa crisi lo è in modo ancora maggiore, a causa della sua unicità. È ancora troppo presto per un giudizio cauto e razionale.
 
da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Un trimestre non fa primavera
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2009, 11:42:46 am
14/8/2009
 
Un trimestre non fa primavera
 
ALBERTO BISIN
 
Continuano a rincorrersi gli annunci della fine della crisi e dell’inizio della salvifica ripresa: il presidente Obama la settimana scorsa, poi la Fed, e infine ieri la Banca Centrale Europea. Anche i mercati azionari, che tipicamente anticipano la ripresa rispetto al ciclo economico, paiono quantomeno ottimisti.

Ma veniamo da un anno di politiche monetarie estremamente espansive in tutto il mondo e i mercati sono carichi di capitali investiti in liquidità e quindi assetati di rendimenti e di rischio. Le banche centrali poi, come del resto i governi, dopo un anno di brutte notizie hanno tutto l’interesse a diffondere la buona novella dell’imminente ripresa. I governi, in particolare, sono pronti a dichiarare il successo delle proprie misure di stimolo fiscale.

Commentando l’ottimismo del presidente Obama la scorsa settimana, su queste colonne, argomentavo che in realtà poco sappiamo su quando inizierà la ripresa. E nulla è cambiato. Continuiamo a saperne poco. E’ notizia di ieri, ad esempio, che la Francia e la Germania, unici in Europa, hanno segnato un andamento del Pil addirittura positivo nel secondo trimestre del 2009. Questo ha colto tutti gli osservatori completamente di sorpresa. Appunto: le previsioni a breve termine, in condizioni difficili come quelle in cui si trova l’economia mondiale, sono un terno al lotto.

Il caso di Francia e Germania è interessante perché suggerisce un sano scetticismo non solo nei confronti delle previsioni di breve periodo, ma anche nei confronti degli effetti degli stimoli fiscali. La Francia ha attuato politiche di una certa entità, ma tutti ricordano i lamenti dell’Europa sull’esiguità degli interventi della Germania.

Insomma, meglio prendere questi proclami come ottimismo dovuto e interessato, senza rallegrarsi troppo per la Francia e la Germania né deprimersi per l’Italia e la Spagna. Meglio invece cercare di guardare al medio periodo o addirittura al lungo periodo: è più importante e ne capiamo di gran lunga di più. Sappiamo innanzitutto che sistemi economici di mercato hanno una notevole capacità ad uscire dalle crisi cicliche: le imprese e i settori meno produttivi sono ridimensionati e capitale e lavoro sono riallocati verso imprese e settori in cui si prevede forte crescita. La riallocazione è costosa, ma non è un trimestre che fa la differenza, almeno in economie sviluppate con un sistema di sicurezza sociale ragionevolmente efficiente.

La ripresa avverrà quindi. Ma la questione più importante è un’altra: quanto vigorosa sarà questa ripresa? Quanto rapidamente si tornerà ai livelli di disoccupazione precedenti alla crisi? Purtroppo a questo proposito è ad oggi impossibile essere ottimisti. Prima di tutto, a livello globale, non si è intervenuto con la necessaria forza sul mercato del credito: si sono limitate le perdite agli azionisti delle banche, ma proprio per questo il sistema finanziario non è ancora capitalizzato a dovere e quindi contribuisce stentatamente alla riallocazione del credito verso imprese e settori produttivi. In secondo luogo, la ripresa non potrà che essere tarpata dai vincoli di bilancio dei governi che hanno generosamente fatto ricorso alla spesa pubblica e al debito: in un paio di anni non potremo non vedere una qualche combinazione di nuove tasse e inflazione. Anche la ristrutturazione dei rapporti commerciali della Cina con Stati Uniti ed Europa appare procedere a rilento, così come la nuova struttura regolativa dei mercati finanziari. Tutto questo non fa sperare in una ripresa rapida.

La situazione per l’Italia è purtroppo ancora più scura. Non tanto per la crisi, contro cui possiamo fare poco altro che aspettare, ma piuttosto perché le prospettive di crescita del Paese sono caratterizzate da limiti strutturali che persistono da decenni e ci condannano alla stagnazione: un sistema pubblico ipertrofico e inefficiente, un mercato del lavoro ancora troppo poco flessibile, in cui perdere il lavoro spesso significa non trovarne un altro, una situazione pensionistica esplosiva che garantisce rendite e privilegi alle generazioni precedenti il baby boom, una questione meridionale drammatica che costringe il Nord a un enorme carico con minimi effetti su servizi pubblici e investimenti al Sud, un fisco esoso e ingiusto che punisce i lavoratori dipendenti, una scuola e un’università che troppo spesso proteggono gli insegnanti a scapito degli studenti.

Non continuo per carità di patria. Ma questi sono i temi economici importanti da affrontare, non se la ripresa inizierà nel primo e o nel secondo trimestre 2010.
 
 
da lastampa.it



Titolo: ALBERTO BISIN Con Bernanke Obama sceglie la continuità
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2009, 04:26:45 pm
26/8/2009

Con Bernanke Obama sceglie la continuità
   
ALBERTO BISIN


Ben Bernanke rimarrà a dirigere la Federal Reserve. L’annuncio del presidente Obama era atteso e non poteva essere altrimenti. In un momento in cui politici ed esperti ostentano ottimismo sull’andamento dell’economia, il licenziamento dell’artefice delle linee di politica monetaria e finanziaria durante la crisi sarebbe parso illogico.

Bernanke si è trovato a gestire una grave crisi economica congiunturale, grave per intensità ma soprattutto perché anticipata da un repentino crollo del sistema finanziario. Questo crollo ha portato, l’autunno scorso, al fallimento di alcune banche e pressoché al congelamento dei mercati del credito interbancario.

Dalla fine degli Anni 70 la teoria economica ha sviluppato meccanismi di politica monetaria efficaci per dominare l’inflazione e far fronte alle crisi economiche congiunturali. Ma molto meno sappiamo riguardo a come affrontare le crisi del sistema bancario e finanziario (che però fortunatamente sono meno frequenti: l’ultima, connessa al crollo di Long Term Capital Management nel 1998, vista oggi appare poco o nulla).

Bernanke ha affrontato la crisi economica con i metodi classici della politica monetaria: ha iniettato liquidità nell’economia stampando moneta. Più precisamente, la Fed, scambiando moneta per titoli del Tesoro a breve, ne ha ridotto i tassi di interesse. Quando i tassi sui titoli del Tesoro a breve hanno raggiunto lo zero, la Fed ha continuato a iniettare liquidità nel sistema scontando diverse attività finanziarie, anche non a breve. Questa strategia, chiamata «quantitative easing», è stata la più rilevante innovazione che Bernanke ha portato la Fed ad attuare nel corso della crisi. Il «quantitative easing» ha avuto notevole successo, riuscendo ad appiattire la curva dei rendimenti e soprattutto a dare all’economia fiducia nel fatto che la Fed restasse saldamente in sella al controllo della liquidità. Ciò si è verificato a dispetto di alcuni osservatori ed economisti (primo fra tutti Paul Krugman) che avevano preconizzato l’inasprimento della crisi ed una pericolosa spirale deflazionistica dovute all’inefficacia della politica monetaria in un contesto di «trappola di liquidità» di keynesiana memoria.

Dove Bernanke ha agito in modo meno efficace, a mio avviso, è a riguardo della crisi finanziaria. Per quanto, come dicevamo, le crisi finanziarie siano questioni complesse in teoria e pochi fossero i precedenti che potessero guidare la risposta della Fed, Bernanke sembra aver accettato le politiche favorite da banche e Tesoro. Ha supportato vari costosissimi e poco trasparenti bailout e ha permesso alle banche di affrontare la ripresa, quando arriverà, con capitale insufficiente e irrisolti problemi strutturali di bilancio. Il sistema creditizio resta quindi poco vivace e questo potrà avere effetti negativi importanti sulla velocità e la stabilità della ripresa. Purtroppo un precedente a questo proposito esiste: il Giappone degli Anni 90, ridotto alla stagnazione anche a causa di un sistema bancario che non fu ricapitalizzato all’uscita dalla crisi.

Vedremo se Bernanke troverà il modo di agire a ripresa avviata sostenendo allora nuove forme di capitalizzazione del sistema bancario e creditizio, pur senza poter più agitare il bastone del commissariamento e del fallimento. Il rischio è che non riesca a farlo e che quindi, per ovviare ai colli di bottiglia del sistema creditizio, si trovi obbligato a sostenere la ripresa continuando la politica monetaria espansiva dell’anno passato. In questo caso ci troveremmo probabilmente ad affrontare tassi di inflazione che non si vedevano negli Stati Uniti da un pezzo. Se a questo aggiungiamo la tentazione di ogni governo ad inflazionare eccessi di debito, evitando così di introdurre nuove tasse o di affrontare tagli di spesa, ci rendiamo conto che la prospettiva dell’inflazione non è così lontana come potrebbe apparire oggi.

da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Il nuovo fronte
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2009, 10:25:44 am
15/9/2009

Il nuovo fronte
   
ALBERTO BISIN


I discorsi del presidente Obama sono uno spettacolo. Quello di ieri a Wall Street sul futuro del sistema finanziario non fa differenza.

Chiaro, diretto, a momenti duro coi banchieri che lo ascoltavano, ma senza toni troppo aggressivi. Un nuovo sistema di regolamentazione della finanza dovrà essere messo in piedi al più presto, dice il Presidente. Esso limiterà il potere economico delle banche, ma i dettagli della nuova regolamentazione saranno definiti con i banchieri, non contro i banchieri.

Questo nuovo sistema di regolamentazione dei mercati finanziari avrà l’obiettivo di limitare il rischio sistemico e di intervenire presso le banche che lo producano. In altre parole, si darà ai regolatori, in principal modo alle autorità monetarie, potere per intervenire sulle scelte di quelle banche che, per la loro dimensione o per la quantità di rischio che esse assumono, possano avere effetti devastanti sull’intero mercato finanziario. Il caso di Aig, la società di assicurazione che è stata salvata dall’intervento del Tesoro a settembre dell’anno scorso, è un caso da manuale. Aig aveva assunto una quantità tale di rischi sul mercato immobiliare che, in caso di fallimento, avrebbe generato fallimenti a catena nelle sue controparti, cioè nelle società che con Aig avevano assicurato le proprie posizioni. Al momento del crollo del mercato immobiliare il Tesoro ha dovuto quindi necessariamente salvare Aig a spese dei contribuenti, per evitare una possibile implosione del sistema finanziario nel suo complesso. Ebbene, le nuove regole che il Presidente vuole far passare al Congresso, se fossero già state attive l’anno scorso, avrebbero in linea di principio permesso alla Fed di costringere Aig, prima del crollo, ad accumulare maggior capitale a fronte dei rischi assunti.

Limitare il rischio sistemico nei mercati finanziari è necessario, ma, al di là dei dettagli, la questione fondamentale è come esso sia misurato. Obama non ne ha parlato: il suo era un discorso e non un seminario. Ma la questione non è affatto puramente tecnica. Nei momenti caldi della crisi l’anno scorso, si è avuta molto chiaramente l’impressione che la Fed e il Tesoro brancolassero nel buio. Non conoscevano quali fossero le posizioni di bilancio delle maggiori banche e istituzioni finanziarie. Molte di queste posizioni erano state aperte sui mercati chiamati Over-The-Counter, che non sono propriamente mercati quanto piuttosto una collezione di transazioni bilaterali note solo alle controparti. Lasciare alla Fed l’autorità per intervenire, arbitrariamente, sul rischio sistemico è bene solo se si richiede maggiore trasparenza ai mercati. Purtroppo, a quanto si conosce della nuova regolamentazione richiesta al Congresso, essa non agisce con la necessaria fermezza sulla questione della trasparenza.

Ma non è solo della trasparenza delle banche che i mercati finanziari hanno bisogno. È altrettanto importante che il regolatore segua regole chiare e agisca sulla base di informazioni il più possibile disponibili pubblicamente. Soprattutto quando al regolatore sia dato un potere di intervento così esteso come quello che si prevede verrà attribuito alla Fed. Il caso Aig è ancora esempio lampante. Per quanto l’intervento di salvataggio della Fed e del Tesoro sia stato motivato dal rischio sistemico, le autorità non hanno ritenuto di comunicare chi fossero le controparti di Aig che avrebbero potenzialmente innescato la catena di fallimenti (e che avrebbero quindi maggiormente guadagnato dal salvataggio di Aig). Solo dopo mesi di pressione del pubblico e del Wall Street Journal si è saputo che la banca più esposta verso Aig era Goldman Sachs (banca per cui il ministro del Tesoro aveva lavorato anni, prima di darsi alla attività politica). Difficile in queste condizioni che i mercati si fidino del regolatore. Anche nel corso dello stress test delle banche, operato questa primavera dal Tesoro, l’informazione fornita al pubblico è stata minima e le rassicurazioni sullo stato delle banche non hanno quindi avuto l’effetto desiderato. In queste condizioni i mercati necessariamente vanno in ebollizione cercando di anticipare le mosse e le motivazioni del regolatore, che finisce per essere «catturato» da lobby e potentati e quindi per vedere la propria efficacia molto ridotta.

Si discuterà ancora molto su come meglio regolamentare il sistema finanziario. È bene comunque che il Presidente abbia posto la questione con forza. Il Congresso è così concentrato a trovare un accordo sulla riforma del sistema sanitario che si temono ritardi significativi su qualunque altra legislazione. Forse Obama ha posto la questione dei mercati finanziari semplicemente per aprire un nuovo fronte di dibattito, visti gli insuccessi di quello sulla riforma della sanità. Qualunque sia la sua motivazione, non si può non applaudire il rinnovato vigore con cui chiede di affrontare le questioni finanziarie.

da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Il Nobel per l'economia sceglie la "governance"
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2009, 09:30:11 am
13/10/2009

Il Nobel per l'economia sceglie la "governance"
   
ALBERTO BISIN

Il premio Nobel per l’economia è stato assegnato quest’anno a Elinor Ostrom e a Oliver Williamson per le loro ricerche sulla «governance» delle istituzioni. E’ bene partire proprio dal significato di questo termine inglese. Il termine è spesso usato, anche in italiano, con riferimento al sistema di norme e strutture organizzative di controllo di una impresa societaria. Ma più in generale la «governance» non è altro che l’insieme dei meccanismi che governano il funzionamento di una istituzione, come una impresa, ma anche un sistema politico, un mercato, o semplicemente un parco pubblico.

Oliver Williamson, negli Anni 70, ha sviluppato una teoria dell’impresa come struttura organizzativa gerarchica atta a ovviare alla inefficienza di espliciti rapporti contrattuali e di mercato in alcuni contesti. Qualora ad esempio i contratti di approvvigionamento di una impresa siano resi complessi dalla necessità di controllarne la qualità, l’impresa opterà più facilmente per una struttura verticalmente integrata (producendo cioè al proprio interno tutti i semilavorati necessari alla produzione finale). Questa analisi è stata in seguito formalizzata, da Oliver Hart ad Harvard e da molti altri, e ha dato vita a una letteratura teorica ed empirica molto attiva che spazia tra economia, finanza, e scuole di legge (da qui prende avvio in parte la disciplina nota come «Law and economics»).

La ricerca di Elinor Ostrom si concentra invece sull’analisi della «governance» di un particolare tipo di beni pubblici, quelle risorse cui vari individui hanno accesso senza averne esclusiva proprietà. Si pensi ad esempio al caso di aree di pesca, pascoli, foreste, fonti d’acqua. In tutti questi casi lo sfruttamento delle risorse porta vantaggi privati agli individui (che godono del pesce pescato o dell’acqua raccolta) ma comporta costi pubblici per tutti gli individui che hanno accesso alle risorse (un pesce pescato dal mio vicino è un pesce in meno per me). E’ noto da tempo che in questi contesti lo sfruttamento non regolamentato delle risorse può essere inefficiente (ci si può ricondurre addirittura a citazioni da Tucidide e Aristotele; ma l’analisi moderna deriva da Pigou, economista inglese a cavallo tra l’800 e il ’900). Ed è noto dagli Anni 60 (dai lavori di Aumann, Fudenberg, Levine, Maskin e altri) che sotto alcune condizioni teoriche, individui razionali (ed egoisti) tendano a costituire sistemi di «governance» delle risorse pubbliche che ne evitino l’inefficiente eccessivo sfruttamento. Il contributo principale di Elinor Ostrom è consistito nel raccogliere e analizzare una grande mole di dati, casi-studio, racconti etnografici, che documentano l’esistenza di tali sistemi di «governance». A questo proposito le sue ricerche utilizzano concetti di economia e di scienze politiche (specialmente di teoria dei giochi) e dati da antropologia, biologia ed ecologia, sociologia, per produrre una ricca classificazione dei vari meccanismi di «governance» dei beni pubblici.

Se soprattutto Oliver Williamson ha avuto un importante impatto sulla disciplina, entrambi i premi Nobel di quest’anno ne sono chiaramente ai margini, specie da un punto di vista metodologico. Entrambi infatti hanno privilegiato un approccio ben più «umanistico» e istituzionale di quanto non fosse pratica consolidata nella disciplina, anche negli Anni 70. Non è certo la prima volta che il Comitato premia questo tipo di approccio all’economia: i lavori di Williamson e Ostrom sono nel solco di quelli di Ronald Coase (Nobel nel 1991), di Thomas Schelling (nel 2005), e di Douglass North (nel 1993). Ciononostante è difficile evitare di pensare che con questo premio il Comitato abbia voluto significare una certa sfiducia nei confronti della formalizzazione delle discipline economiche, in un momento in cui molti osservatori hanno preso ad attaccarla. L’anno scorso su queste colonne, in occasione del conferimento del premio a Paul Krugman, esprimevo il timore che il Nobel per l’economia diventasse un riconoscimento politico, come quello per la pace. Un po’ politico lo è stato anche quest’anno, nell’avere evitato nomi più centrali nella disciplina. Ma almeno non è andato a Obama.

da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Ben Bernanke è l'uomo dell'anno
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2009, 09:25:18 am
17/12/2009

Ben Bernanke è l'uomo dell'anno
   
ALBERTO BISIN


Ben Bernanke si è trovato l’autunno scorso a gestire una situazione davvero da incubo.

Nel giro di pochi giorni i mercati finanziari hanno rischiato di implodere, con conseguenze inimmaginabili per l’economia mondiale. La Fed, di cui Bernanke era governatore dal 2006, sembrò essere colta di sorpresa. Col senno di poi, a implosione scongiurata, mi sembra però di poter dire che la politica monetaria della Fed abbia avuto una funzione importante nel limitare i danni della crisi.

Prima di tutto la Fed ha agito con le misure standard della politica monetaria di fronte a una crisi finanziaria: essenzialmente per mezzo di operazioni di mercato per abbassare i tassi di interesse a breve sul mercato dei titoli di Stato. Una volta raggiunti tassi zero a breve, senza effetti rilevanti sui tassi a medio e lungo termine e quindi sul mercato del credito e sull’economia reale, la teoria monetaria tradizionale suggerisce la creazione di inflazione, per far scendere a livelli negativi i tassi reali. Questa è stata la politica monetaria seguita ad esempio dal Giappone negli Anni 90. La Fed invece ha combinato questa politica monetaria tradizionale con politiche «non convenzionali», a cui probabilmente si deve in buona parte la relativamente ordinata uscita dalla crisi dei mercati. L’idea di queste politiche è semplice: agire direttamente sui tassi di interesse a medio-lungo termine, iniettando liquidità in modo mirato in quei mercati finanziari che più ne hanno bisogno e che più sono connessi col sistema creditizio e con l’economia reale (mercati del credito immobiliari, del credito all’istruzione, e finanche mercati del credito alle imprese).

E’ opinione diffusa nei mercati e in accademia che l’ispirazione per queste misure sia originata dallo stesso Bernanke, economista di prim’ordine oltre che governatore.

Naturalmente non è tutto oro quello che luccica. Uno dei meccanismi non convenzionali che la Fed ha disegnato per distribuire liquidità è consistito nell’acquistare titoli illiquidi a prezzi di gran lunga sopra-mercato. Assieme al salvataggio delle banche a opera del Tesoro, questo ha consentito ai grandi istituti di credito commerciale di ritardare le necessarie misure di ricapitalizzazione invise agli azionisti. Il rischio è quindi che queste iniezioni di liquidità, nel loro complesso, rallentino il ristabilirsi di condizioni di credito favorevoli agli investimenti e quindi, in un ciclo vizioso, favoriscano un sempre più largo intervento delle autorità monetarie e del Tesoro nella allocazione del credito. Un errore, quello dell’eccessivo intervento della politica nell’attività bancaria, che risulta poi, a crisi conclusa, difficile da correggere per l’ovvia propensione della politica e della burocrazia ad allargare le proprie aree di intervento.

Una politica monetaria efficace e innovativa quindi, quella della Fed, ma forse troppo attenta agli interessi di Wall Street, al punto da far temere in alcuni casi un grave conflitto di interessi. Un aspetto fondamentale su cui valutare la politica monetaria della Fed nel prossimo futuro sarà la sua capacità di scegliere il momento appropriato per iniziare a ritirare liquidità dai mercati. Per questa ragione si stanno mettendo a punto vari metodi statistici di stima delle aspettative di inflazione, da dati finanziari così come da indagini di mercato. Evitare di indurre aspettative di inflazione a medio-lungo periodo, diciamo oltre i tre anni, è condizione importante perché la ripresa dell’economia reale possa essere solida e duratura.

da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Il ceto medio avvisa Barack
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2010, 12:16:52 pm
21/1/2010

Il ceto medio avvisa Barack
   
ALBERTO BISIN


Le elezioni per il seggio di Ted Kennedy al Senato americano hanno visto la vittoria del candidato del Partito repubblicano. Il risultato è uno choc per l'amministrazione Obama, anche se non completamente inatteso.

Il voto è importante per ragioni simboliche: il Massachusetts è uno Stato tradizionalmente democratico e il senatore Kennedy, una istituzione della sinistra del partito, aveva detenuto il seggio, senza contendenti, fino alla sua recente morte. Ma è un'altra la ragione simbolica più importante che rende la sconfitta particolarmente cocente per il Presidente: il Massachusetts ha introdotto da alcuni anni un sistema di assicurazione sanitaria (quasi) universale simile a quello che Obama sta chiedendo e il Congresso sta votando per l'intero paese. Molti interpreteranno quindi la vittoria repubblicana come un plebiscito contro la riforma del sistema sanitario federale. Il fatto che il seggio passato ai repubblicani tolga ai democratici la maggioranza necessaria per passare la riforma senza compromessi aiuta questa interpretazione del voto di ieri. Soprattutto perché proprio su questi temi si è basata la campagna elettorale.

Ma il voto in Massachusetts è anche da interpretarsi come un voto di sfiducia nei confronti dell’amministrazione Obama. Una protesta nei confronti dei suoi insuccessi, o meglio dei mancati successi, in campo economico. Prima di tutto, il paese sta uscendo dalla recessione molto lentamente, molto più lentamente di quanto l'amministrazione stessa aveva previsto. La disoccupazione oggi negli Stati Uniti è addirittura superiore a quella che gli economisti della Casa Bianca avevano previsto «nel caso non si fosse attuato alcuno stimolo fiscale». È impossibile ancora (sulla base dei dati disponibili) sapere se la recessione fosse peggiore delle previsioni, o se invece gli effetti dello stimolo fiscale siano stati molto inferiori alle attese. Non c’è dubbio però che la spesa pubblica finanziata dallo stimolo sia stata concentrata più su interventi di medio-lungo periodo che non su quei progetti diretti a generare lavoro a breve termine che la giustificavano nella retorica dell’amministrazione. Infine, la decisione di procedere in parallelo con lo stimolo e la riforma della Sanità, anch’essa estremamente costosa in termini di risorse pubbliche, ha acceso quelle aspettative di alte tasse future che tipicamente inducono il settore privato a minore consumo e minori investimenti. Anche questo non aiuta certo una ripresa rapida ed efficiente.

L'immagine del fallimento della politica economica dell’amministrazione è accentuata poi dal fatto che il sistema finanziario è tornato a generare profitti, i banchieri a ricevere bonus milionari, ma il credito concesso dalle banche alle famiglie e alle imprese è ancora molto ridotto. A parte la reazione un po’ populista riguardo ai bonus, il fatto che il mercato del credito appaia relativamente bloccato è un problema vero. È anche corretto addurre questo problema alla politica economica dell’amministrazione Obama (e dell’amministrazione Bush precedentemente). Le banche sono restie ad assumere i rischi associati all'estensione di credito perché stanno ancora smaltendo i rischi accumulati fino alla crisi. Il salvataggio delle banche dello scorso anno, a condizioni estremamente favorevoli per gli azionisti, ha permesso loro di evitare di liquidare le perdite. I bilanci gravati da attività in perdita non permettono alle banche di ritornare in quantità sul mercato del credito.

La stessa riforma della sanità, che se dovesse riuscire avrebbe effetti epocali, è mal vista. A destra naturalmente, ma anche a sinistra, presso quella classe media che sperava in un più drastico e diretto intervento pubblico nel mercato della assicurazione sanitaria (quell’«opzione pubblica» che è stata discussa e poi abbandonata dall’amministrazione).

Il voto in Massachussetts credo dimostri che un cambiamento di direzione della politica economica americana sia necessario se i democratici vogliono evitare di perdere il Congresso alle elezioni dell'anno prossimo. Quanto meno Obama è stato avvisato in tempo.

da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Protezionismo la tentazione mortale
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2010, 08:47:16 pm
28/1/2010

Protezionismo la tentazione mortale
   
ALBERTO BISIN

Il presidente Obama si presenta all’annuale discorso al Congresso a camere riunite in una posizione difficilissima. Se l’anno scorso sembrava che egli potesse scalare le montagne e aprire gli oceani con la sola forza del pensiero, oggi sembra che qualunque cosa faccia sbagli. I suoi errori, almeno sul piano della politica economica, sono in effetti stati tanti e gravi. Il peccato capitale è stato pensare di potere sfruttare la crisi per trasformare l’economia e la società americana aumentando in modo permanente l’intervento del governo.

L’esatto opposto della strategia reaganiana di «affamare» lo Stato riducendo le tasse: «ingrassarlo» aumentando le spese senza copertura. Così si spiega l’uso dello stimolo fiscale per spese a lungo periodo, come i sussidi agli investimenti nell’economia «verde», la riforma sanitaria che accentua la spirale dei costi della sanità, gli enormi sussidi ai sindacati in ogni modo e forma, dal salvataggio dell’industria automobilistica, alla accettazione dei paletti da loro imposti alla riforma della scuola pubblica, alle esenzioni fiscali per forme di assicurazione sanitaria offerte dai datori di lavoro solo se in accordo con le parti sociali.

L’altro grande errore di Obama è stato quello di avallare un politica finanziaria che, pur facendo a momenti alterni la voce grossa con Wall Street, in realtà ne ha assecondato ogni desiderio. Ha accettato senza discutere la teoria che le banche fossero troppo grandi e interdipendenti perché il regolatore potesse intervenire razionalizzandone le posizioni senza ingenerare il panico. Ha riempito le banche di liquidità quando esse la richiedevano, senza imporre condizioni. Soprattutto ha garantito che le banche potessero sopravvivere mantenendo l'opacità delle proprie posizioni di bilancio per mezzo di trucchi contabili creativi.

Tutti gli errori di Obama vengono però ora al pettine. Lo stimolo fiscale non sembra aver gli effetti sperati e la disoccupazione è ancora dell’ordine del 10%. Il «Congressional Budget Office» (una specie di Ragioneria Generale abbastanza indipendente) produce stime del deficit pubblico pari al 9,2% del Pil per il 2010 (9,9% per il 2009), percentuali mai viste dalla seconda guerra mondiale. La reazione contro la riforma sanitaria, che i media hanno cercato di catalogare come frutto delle ossessioni di una frangia di repubblicani estremisti, ha invece addirittura intaccato l’invincibile fortino democratico in Massachusetts. Le banche, ottenuti i regali, trattano le intemperanze populistiche dell’amministrazione riguardo ai loro bonus con arroganza e supponenza. Il Congresso costringe il ministro del Tesoro Geithner a testimoniare, rivelando come e quanto egli abbia favorito banchieri amici, quando era a capo della Federal Reserve di New York e i mercati stavano implodendo.

Davanti a tutto questo, e davanti al crollo della fiducia del Paese nei suoi poteri magico-religiosi, il presidente Obama sta tentando di reagire. Nelle parole la sua è una specie di inversione a U. Si preoccupa della spesa pubblica senza controlli e ne propone un parziale congelamento, è forse pronto a un compromesso sulla riforma sanitaria, propone una tassa punitiva sulle banche e annuncia di volerne controllare le dimensioni, per evitare di essere in futuro costretto ancora a salvarle in caso di crisi. Ma per ora queste sono solo parole. Anche la proposta di congelamento della spesa è relativamente irrisoria: si applicherebbe solo al 17% del bilancio, a spese che hanno visto un incremento del 25% l’anno scorso. Staremo a vedere se l'inversione è reale o solo il tentativo di cavalcare una diversa onda populistica.

Ma i problemi del presidente Obama non sono finiti qui. Il World Economic Forun di Davos rischia di dimostrare a tutti che gli Stati Uniti non hanno la forza di imporre una riforma della governance dei sistemi finanziari mondiali, né hanno la visione di un nuovo ordine commerciale e finanziario a cui la Cina possa contribuire attivamente. Al contrario l’amministrazione americana sembra ancora usare la Cina come capro espiatorio ai propri problemi. Per ora soprattutto a parole, minacciando sanzioni commerciali a meno che essa non proceda a rivalutare lo Yuan. Proprio ora che il governo cinese sembra muoversi verso politiche che accelerino lo sviluppo del consumo interno nel Paese! Basta che non si passi ai fatti (molti in Europa non aspettano altro). Non vorremmo dover annoverare anche il protezionismo tra i grandi errori della politica economica di Obama.

da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - La corruzione penalizza l'intero sistema Paese
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2010, 11:40:42 am
2/3/2010

La corruzione penalizza l'intero sistema Paese

   
ALBERTO BISIN

Le notizie di corruzione all’interno della pubblica amministrazione hanno recentemente toccato la Protezione civile, il Consiglio superiore dei lavori pubblici, la Regione Puglia, la Regione Campania, i Comuni di Napoli, Bologna, Milano.

E’ ovviamente difficile avere dati «reali» sull’entità del fenomeno, per sua natura non esposto alla luce del sole statistico. Anche la «mappa sulla corruzione» fornita al Parlamento dal Servizio Anticorruzione e Trasparenza del Dipartimento della Funzione Pubblica si basa sulle denunce e produce quindi risultati distorti e per giunta poco compatibili, ad esempio, con quelli tratti dal Casellario giudiziale centrale dal giudice Davigo e Grazia Mannozzi.

La percezione di una situazione grave e in corso di peggioramento è però documentata da una ricerca di Transparency International, una delle organizzazioni internazionali più attive nello studio della corruzione: la percentuale degli intervistati che rispondono «sì» alla domanda «Il governo è molto o alquanto efficace nel contrastare la corruzione?» è scesa dal 27% del 2006 al 15% del 2008.

La corruzione è peraltro solo un lato della questione della diffusa illegalità dell’amministrazione pubblica in Italia. La commistione tra amministrazioni locali e criminalità mafiosa, soprattutto al Sud, è documentata dai 150 Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa, di cui 12 dall’inizio di questa legislatura.

Così come è difficile misurare con precisione quanto sia estesa la corruzione nella pubblica amministrazione, è ancora più complesso valutarne i costi. Questo soprattutto perché ai costi diretti devono aggiungersi enormi costi indiretti quando la corruzione si fa diffusa. In un appalto truccato il contribuente finisce per pagare beni e servizi ad un prezzo che comprende le mazzette agli amministratori e una rendita all’impresa (che, pagando, si garantisce di non avere competizione). Questi sono i costi diretti.

Ma quando la corruzione diventa «sistema», la competizione ne risulta distorta, e l’intero sistema economico ne paga le conseguenze. Se gli appalti sono truccati, le imprese che li ottengono sono quelle che riescono a mantenere rapporti con la politica o con la criminalità organizzata. Imprese più efficienti ma meno «connesse» sono scalzate dal mercato. Gli imprenditori di successo sono quelli in grado di fornire vantaggi privati al politico di turno, non quelli in grado di produrre beni e servizi di qualità a basso prezzo per l’amministrazione pubblica. I casi recenti di imprenditori che guadagnano i favori del mondo politico organizzando feste e festini rappresentano un triste esempio di questo fenomeno di distorsione della competizione. Ma anche il fatto che i giovani più brillanti si iscrivano soprattutto a legge e non a ingegneria, in controtendenza col resto del mondo sviluppato, segnala un sistema economico e sociale in cui ha successo chi si sa muovere tra leggi, leggine, istituzioni, commissioni, stanze del potere.

Da annoverarsi tra i costi indiretti della corruzione è anche il disincentivo agli investimenti diretti esteri. Una delle ragioni per cui l’Italia ne riceve la metà della Francia è che le imprese straniere sanno che entrerebbero in un mercato distorto in cui faticherebbero a competere, e quindi preferiscono starne fuori. Tra parentesi, è importante notare che questa distorsione della competizione economica e della selezione delle imprese di successo è gravemente peggiorata dall’inefficienza della giustizia, specie quella civile, che non protegge in tempi ragionevoli quelle imprese che volessero competere onestamente sul mercato.

Un’altra categoria di costi indiretti della corruzione è la distorsione della competizione politica ed elettorale. La classe politica, in questo sistema, compete a livello locale attraverso il controllo economico del territorio. I politici locali sono di conseguenza selezionati non sulla base delle loro capacità o della loro onestà, ma al contrario sulla base della loro abilità ad incanalare fondi dal sistema centrale verso la propria regione e a controllarne la distribuzione sul territorio. Ed è in questo controllo della distribuzione di fondi ed appalti sul territorio che spesso i rapporti con la criminalità organizzata tornano utili.

Infine, questa distorsione della competizione politica favorisce l’ingigantimento del settore pubblico, che distribuisce fondi in cambio di controllo elettorale. Anche a questo dobbiamo un’amministrazione pubblica ipertrofica che controlla oltre il 50% del Prodotto interno lordo del Paese.

Altro che temere la «destabilizzazione del sistema» ad opera dell’attività giudiziaria, come ha dichiarato il ministro Scajola. E’ proprio questo «sistema» che condanna il Paese alla stagnazione ai margini del mondo sviluppato.

da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Fme, attento ai trucchi della politica
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2010, 09:22:13 am
10/3/2010

Fme, attento ai trucchi della politica
   
ALBERTO BISIN

Il governo tedesco ha suggerito in questi giorni la creazione di istituzione europea in grado di affrontare le situazioni di crisi finanziaria dei Paesi membri. Per ora la proposta contiene essenzialmente il nome, Fondo Monetario Europeo, e poco altro. Questo è abbastanza indicativo di un atteggiamento tipico della politica: gettare «nomi» ai problemi nella speranza che i cittadini li prendano per «sostanza».

Il Fondo Monetario Europeo (Fme) dovrebbe poter permettere ai Paesi dell’Unione di aiutare i membri in difficoltà, come oggi la Grecia, senza richiedere l'intervento diretto della Banca Centrale Europea. Non sorprende quindi che la Bce abbia reagito negativamente, vedendo nel Fme un attentato alla propria indipendenza dalla politica.

Se l’obiettivo del Fme fosse davvero quello di aiutare quei Paesi che si trovassero domani nelle condizioni in cui oggi si trova la Grecia, esso sarebbe una pessima idea. La Grecia ha una spesa pubblica fuori controllo. Le sue difficoltà a piazzare il debito sui mercati finanziari sono dovute a questo. Non per niente la recente formulazione di un credibile piano di rientro ha avuto effetti immediati sui mercati. E' inutile urlare al lupo della speculazione finanziaria e dei mercati cattivi.

Il fatto che la Grecia abbia manipolato i dati sul debito pubblico segnala un sistema politico fallimentare, che necessita di riforme istituzionali importanti. Il fatto che la Grecia abbia dovuto manipolare i dati, però, è anche indice della solidità del sistema regolativo dell’Unione, che richiede indirettamente convergenza nelle politiche fiscali dei Paesi membri attraverso l'imposizione dei parametri di Maastricht.

Questi parametri, così come l’indipendenza della Bce dalla politica ed i suoi vincoli istituzionali, favoriscono una sorta di responsabilità finanziaria dei Paesi dell’Area Euro. Nel caso di crisi finanziaria (ci è passata anche l'Italia prima dell’Euro) un Paese ha tipicamente tre possibilità: agire efficacemente per ristabilire un equilibrio dei conti, dichiarare bancarotta, svalutare o monetizzare il debito. L’ultima opzione non è concessa ai Paesi dell’Area Euro, semplicemente perché è la Bce a stampare moneta non le autorità monetarie del Paese in crisi. L'uscita dall'Euro e la bancarotta pura e dura hanno conseguenze economiche durissime. E’ bene ricordare a questo proposito le ondate di inflazione negli Anni Settanta, in Italia, in America Latina, in Israele, e persino negli Stati Uniti. Non rimane quindi che il riequilibrio dei conti pubblici, che in generale ha conseguenze sociali gravi, conseguenze che già si intravedono ad esempio in Grecia. Ed è per questo che i Paesi dell’Euro tenderanno ad adottare politiche fiscali responsabili.

Aiutare oggi direttamente e incondizionatamente la Grecia sarebbe un errore. L’Europa è potente proprio nella sua capacità di permettere ad autorità monetarie indipendenti di rifiutare i richiami di breve periodo della politica. La questione finanziaria è un velo: la realtà è che la Grecia non è in grado di far fronte alle promesse di spesa, risultato di una politica fuori controllo.

Sarebbe quindi davvero inutile o addirittura controproducente un Fondo Monetario Europeo? Non potrebbe almeno avere la stessa funzione del Fondo Monetario Internazionale, quella di coordinare interventi finanziari di salvataggio condizionandoli a politiche fiscali di rientro da una crisi? Forse. Anche se non è chiaro, in questo caso, a cosa gioverebbe la duplicazione delle burocrazie. Sarebbe sufficiente invece che la burocrazia europea fosse in grado di accorgersi con rapidità quando un Paese membro trucca le carte.

A ben vedere il Fondo Monetario Europeo non sembra necessario a risolvere alcun pressante problema di politica economica. Questo non significa che non possa avere una funzione nella struttura istituzionale di politica economica e di regolamentazione dell’Unione Europea. Senza maggiori contenuti la proposta è impossibile da valutare con accuratezza. Rimane il timore che il Fondo Monetario Europeo possa facilmente diventare un meccanismo istituzionale per permettere alla politica di aggirare ex post i vincoli di bilancio oggi imposti dalle istituzioni dell’Europa.

da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - Petrolio il segnale di Obama
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2010, 09:49:50 pm
12/4/2010

Petrolio il segnale di Obama

ALBERTO BISIN


Il prezzo del petrolio non raffinato (il «crudo») è salito dai 70 dollari al barile di ottobre agli 85 e oltre di questi giorni. Molti osservatori hanno cominciato a lanciare l’allarme: un sostanziale aumento del prezzo del petrolio potrebbe uccidere sul nascere la ripresa economica che i dati cominciano a far intravedere. Ma c’è davvero da preoccuparsi?

Il prezzo del petrolio non è una variabile indipendente, determinata da speculatori cattivi che pianificano la fine del mondo in sottoscala bui e fumosi. Il petrolio è essenzialmente una risorsa esauribile e quindi il suo prezzo è determinato prima di tutto dalle previsioni sulla domanda e sull’offerta futura. Quando si prevede un aumento sostenuto dell’attività produttiva globale, e quindi un aumento della domanda dei derivati del petrolio che sono utilizzati nella produzione industriale e nei trasporti, il prezzo del petrolio tende a salire. Non c’è dubbio che questa è la situazione in cui siamo in questo momento. I recenti dati sull’attività produttiva in India e Cina e anche negli Stati Uniti fanno pensare a una ripresa abbastanza solida quest’anno. Ma molti dubbi ancora persistono su quanto intensa e rapida sarà la ripresa, e questa incertezza alimenta la speculazione sul petrolio. Maggiore è l’incertezza sulle previsioni di ripresa, maggiore è l’attività speculativa perché gli speculatori scommettono l’uno contro l’altro.

Ma al di là delle fluttuazioni giorno per giorno, queste sì dovute alla speculazione, il prezzo del petrolio salirà qualora l’incremento di domanda dovuto alla ripresa non sarà compensato da un aumento dell’offerta.

Ma non ci sono ragioni rilevanti per temere una grossa rigidità dell’offerta nel breve-medio termine.

L’offerta è controllata al 40 per cento dai Paesi del cartello Opec. Questi Paesi, riunitisi a Vienna il 17 marzo, hanno deciso di mantenere le quote di produzione costanti, anche se alcuni di loro chiedono di poter aumentare la produzione effettiva e alcuni già lo fanno. Rappresentanti dell’Opec hanno dichiarato di considerare come obiettivo un prezzo tra i 75 e i 90 dollari a barile. Il ministro del Petrolio dell’Arabia Saudita, Ali Naimi, si è spinto fino a dichiarare questi prezzi «quasi perfetti».

Inoltre la produzione dei Paesi che non appartengono al cartello è aumentata nel corso degli ultimi mesi. L’offerta mondiale di petrolio, quindi, cresce abbastanza rapidamente ed è ormai ai livelli del 2007. Dato lo sviluppo dell’offerta, se le previsioni della International Energy Agency - che stima un incremento della domanda per il 2010 di circa 70 mila barili al giorno, pari all’1,8 per cento rispetto al 2009 - sono corrette, non sembra il caso di essere particolarmente allarmati sugli effetti del prezzo del petrolio sulla ripresa. In condizioni economiche come quelle in cui ci troviamo, un aumento del prezzo del petrolio rallenta la ripresa economica, ma un rallentamento della ripresa riduce il prezzo del petrolio. Se la ripresa dovesse spegnersi, quindi, è più probabile che avvenga per mancanza di ossigeno che non per il prezzo del petrolio.

Naturalmente questo non significa che non ci possano essere tensioni sul mercato nel breve periodo. Ad esempio, un notevole collo di bottiglia si ha nella raffinazione: molte raffinerie hanno smesso di operare durante la crisi e il recupero della capacità produttiva è relativamente lento. I prezzi alla pompa quindi aumentano più rapidamente del prezzo del «crudo».

Ma anche i limiti alla capacità di raffinazione saranno presto superati. La vera questione petrolifera, naturalmente, si ha nel lungo periodo. Come rompere la dipendenza economica del mondo sviluppato dalle sostanze petrolifere e dai Paesi produttori? L’amministrazione Obama ha annunciato mercoledì che permetterà nuove esplorazioni petrolifere nel Golfo del Messico, in Alaska e fuori dalla costa atlantica. La decisione, che giunge dopo 20 anni di divieto, è importante non tanto per gli effetti sull’offerta (che si prevede saranno limitati) ma soprattutto per il suo effetto di segnale sulla determinazione degli Stati Uniti a limitare la propria dipendenza dalle risorse energetiche straniere. I democratici infatti, più vicini alle idee ambientaliste, sono stati fino ad ora tradizionalmente scettici rispetto alla necessità di nuove esplorazioni (erano i repubblicani, e Sarah Palin in particolare, a utilizzare durante la campagna elettorale per le presidenziali l’espressione «drill, baby, drill» con riferimento proprio alle piattaforme petrolifere off-shore). Il cambiamento di rotta dell’amministrazione Obama quindi è un segnale importante proprio perché inatteso. Speriamo sia solo l’inizio e aspettiamo di vedere il resto.

da lastampa.it


Titolo: ALBERTO BISIN - L'Europa e la lezione sprecata
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2010, 05:23:44 pm
7/5/2010

L'Europa e la lezione sprecata
   
ALBERTO BISIN

I mercati finanziari internazionali sono di nuovo in ebollizione: i titoli di Stato di alcuni Paesi dell’area euro sono trattati come merce avariata, i loro rating declassati, le Borse e i mercati dei cambi ne risentono, e tutto crolla nel panico generale. Ieri addirittura la Borsa americana ha contribuito a scatenare le paure a causa di un banale errore - un operatore ha scritto «billion» (miliardi) invece di «million» (milioni) che ha causato una perdita del 9%, poi parzialmente recuperata.

L’interpretazione di questi fatti appare ovvia: ancora una volta la speculazione finanziaria miete le sue vittime; prima i risparmiatori americani e oggi l’intera economia greca, e forse addirittura una larga parte dell’area euro.

Ebbene, questa interpretazione dei fatti, pur apparendo ovvia, è assolutamente incorretta. Non perché gli speculatori non esistano. Esistono.

E sono anche affamati di danaro, così come sono tipicamente rappresentati, dai disegni di Grosz a oggi. Ma non sono gli speculatori la causa dei mali economici di Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e altri.

Più semplicemente, alla radice di quello che sta succedendo sui mercati, sta la seguente considerazione: la Grecia chiede ai mercati (tanto) denaro in prestito, attraverso emissione di titoli e i mercati temono che la Grecia non sia in grado di ripagare i debiti e quindi chiedono di essere ricompensati per il rischio che corrono prestando alla Grecia. Quando compro banane al mercato, se temo che siano marce, chiedo uno sconto. Tutto qui, senza bisogno di immaginare speculatori con la bava alla bocca.

La questione quindi diventa: hanno ragione i mercati a ritenere che la Grecia possa avere difficoltà a ripagare i debiti? La risposta è chiaramente sì. La capacità di un Paese di ripagare i debiti dipende da quanti debiti ha, a che ritmo crescono (quanto grande è il deficit), da quanto il sistema politico sia in grado di imporre tasse e tagliare le spese per rientrare dai debiti in futuro, e infine da quali siano le prospettive di crescita economica del Paese, perché una crescita vivace porta introiti fiscali e quindi una riduzione del debito senza impopolari interventi di politica economica.

La Grecia ha un debito pubblico dell’ordine del 120% del Prodotto Interno Lordo, un enorme deficit (oltre il 13% del Pil), un sistema politico inefficiente, un settore pubblico che conta per oltre il 40% dell’economia, una spesa pubblica senza controllo e un forte sindacato che si oppone a ogni taglio di spesa. Inoltre, le prospettive di crescita del Paese sono tristemente molto flebili, in parte proprio a causa dell’inefficienza di politica e settore pubblico.

Nessun Paese in Europa è in condizioni economiche paragonabili. Portogallo, Spagna e Irlanda hanno deficit simili, ma debito inferiore. L’Italia ha debito simile, ma deficit inferiore. Non è una sorpresa quindi che la crisi sia partita dalla Grecia. Se la crisi si espanderà ad altri Paesi, però, sarà comunque a causa della loro finanza pubblica irresponsabile, nel passato e nel presente. A questo proposito, il fatto che l’emissione di titoli di Stato spagnoli a cinque anni, ieri, sia stata un ragionevole successo fa ben pensare per il breve periodo.

La retorica sugli speculatori cattivi è quindi ipocrita oltre che incorretta: non è un caso che siano sempre i Paesi che più hanno bisogno dei mercati per finanziare le proprie spese a lamentare l’avidità dei mercati stessi, quando questi rifiutano le banane avariate.

Spiace infine osservare che la crisi finanziaria dell’anno scorso nulla abbia insegnato ai responsabili della politica europea.

L’intervento, peraltro pasticciato e tardivo, in aiuto alla Grecia ha avuto due effetti, entrambi dannosi. Il primo, quello di convincere i mercati dell’incapacità dell’Europa di garantire l’imposizione di quelle regole, come i parametri di Maastricht, che ne garantiscono l’esistenza stessa. Il secondo, dimostrare che anche i più rigidi governi europei, come la Germania, sono pronti a tutto per le proprie banche, salvo poi lamentarne l’immoralità. Il salvataggio delle banche che hanno irresponsabilmente finanziato il debito greco, portoghese, spagnolo e irlandese (soprattutto banche tedesche e francesi), è infatti il vero obiettivo dell’aiuto alla Grecia.

E così come durante la crisi finanziaria dell’anno scorso, i bilanci delle istituzioni sono pieni di titoli tossici. Ogni banca teme che la controparte nasconda una forte esposizione nei confronti dei titoli della Grecia e il mercato interbancario rischia di incepparsi, con gravissimi danni per l’economia reale. Ieri già le prime avvisaglie in questo senso.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7315&ID_sezione=&sezione=


Titolo: ALBERTO BISIN - Dagli Usa un aiuto interessato
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2010, 12:21:40 am
13/5/2010

Dagli Usa un aiuto interessato
   
ALBERTO BISIN

Fino all'altro giorno l'Europa stava per crollare sotto l'assedio della speculazione. Ma poi i capi di Stato e i ministri finanziari dell'Europa, per una volta unita, la Banca Centrale Europea, e il Fondo Monetario Internazionale, con un aiutino del presidente Obama e del suo ministro del Tesoro Geithner, sono intervenuti con grande successo in salvataggio dell'euro. Meno male che l'Europa c’è. E meno male che gli Stati Uniti arrivano in suo aiuto quando non c’è.

Questa sembra essere la narrazione dei fatti che la politica e molti osservatori vorrebbero risuonasse nelle menti dei cittadini europei. Purtroppo non è così. La politica ha semplicemente rattoppato in fretta i danni che essa stessa ha prodotto all'economia europea. E l'aiuto degli Stati Uniti, naturalmente, è interessato.

Innanzitutto, occorre ricordare quali siano le cause di questa crisi dell'euro. L'Europa, specie quella mediterranea, ha da decenni intrapreso un percorso di finanza pubblica difficilmente sostenibile. Chi più chi meno ha finanziato, emettendo debito pubblico, una settore pubblico ipertrofico, un sistema previdenziale assurdamente generoso, una evasione fiscale rampante.

Molti Paesi europei, inoltre, hanno accolto la recente crisi economica e la recessione come un'ottima scusa per eccedere ancor più nella spesa pubblica, giustificando questa scelta con teorie economiche screditate da decenni. Il risultato è stato che quei Paesi che hanno raggiunto in questi anni di crisi deficit dell'ordine del 10% e più del Prodotto interno lordo, come la Grecia, la Spagna, il Portogallo, hanno avuto gravi difficoltà a piazzare nuove emissioni di debito ai mercati, se non al costo di un sostanziale premio al rischio. Altri Paesi, tra cui l'Italia, evitando saggiamente inutili interventi di spesa, hanno potuto invece navigare la crisi, senza immediati rischi.

La responsabilità della crisi dell'euro di questi giorni è quindi tutta delle politiche fiscali irresponsabili, dei deficit di bilancio di oggi e dei debiti accumulati nel passato. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il loro interesse in una zona euro stabile è ovviamente dovuto principalmente alla globalizzazione dei mercati finanziari che rende ogni crisi finanziaria, anche locale, in prospettiva una crisi mondiale. Una ristrutturazione del debito della Grecia sarebbe dannosa per le banche, soprattutto tedesche e francesi, che tale debito detengono; e una crisi bancaria in Europa avrebbe immediate ripercussioni sulle ancora deboli banche americane.

Ma non è solo per questo che l’amministrazione Obama ha marcato stretto la cancelliera Merkel e il presidente Sarkozy durante la crisi dell’euro. I maggiori giornali americani e molti osservatori si sono chiesti e si chiedono quanto i problemi di finanza pubblica dell’Europa oggi non presagiscano il futuro dell’economia statunitense nel medio periodo. L’amministrazione Obama, infatti, ha intrapreso un programma di grande espansione del settore pubblico, e di conseguenza dell’indebitamento. Pochi credono alle promesse di riduzione del deficit nel prossimo futuro che l'amministrazione produce in continuazione. E la Cina, il cui risparmio ha fino ad ora sostenuto una gran parte dei debiti pubblici e privati americani, non potrà continuare a lungo a produrre senza consumare. Con le elezioni del Congresso a novembre, il presidente Obama e i democratici non possono rischiare che una crisi dell’area euro apra una discussione sul modello di spesa pubblica di stampo «europeo» sui cui binari essi stanno mettendo gli Stati Uniti. Anche all’amministrazione americana conviene quindi sostenere di aver sventato una crisi dell’euro, dovuta agli arbitrari attacchi speculativi dei mercati.

Ma i problemi veri, purtroppo, non hanno mai soluzioni finte. La crisi dell’Europa è una crisi di finanza pubblica e l’unica sua possibile soluzione sta nell’affrontare onestamente e drasticamente la questione della spesa pubblica. Ma per affrontare la questione della spesa pubblica occorre coraggio politico, merce tradizionalmente scarsa in Europa, specie nel Sud-Europa.

Gli stessi Stati Uniti farebbero bene a sollevare la testa dalla sabbia e a ripensare alla sostenibilità dei propri programmi di spesa pubblica. Essi hanno però un vantaggio rispetto all'Europa: mentre l’Europa non ha essenzialmente alcuna possibilità di manovra sul lato delle entrate, che sono già a livelli di soffocazione, gli Stati Uniti in linea di principio possono rientrare aumentando le tasse. Nulla succederà sino alle elezioni, ma con ogni probabilità gli americani troveranno sotto l’albero di Natale una bella tassa sul valore aggiunto.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7345&ID_sezione=&sezione=


Titolo: ALBERTO BISIN - L'inguaribile malattia italiana
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2010, 05:53:41 pm
19/5/2010

L'inguaribile malattia italiana
   
ALBERTO BISIN


In Italia, ad ogni occasione in cui i governi hanno qualcosa da farsi perdonare dai cittadini, il ministro delle Finanze di turno promette fuoco e fiamme contro l'evasione fiscale. Qualcuno forse ancora ricorda, nel 2006, le proposte dell'allora viceministro Visco al riguardo, in cinquantacinque (55!) punti. E le stime del ministro Padoa-Schioppa nello stesso periodo: 100 miliardi di euro da recuperarsi in 5 anni. Oggi è il turno del ministro Tremonti che, in occasione di una prevista stretta fiscale, promette: «Dovranno preoccuparsi solo i falsi invalidi e gli evasori».

Purtroppo l'evasione in Italia è elevata ed è rimasta abbastanza costante negli anni. Per quanto le stime statistiche di fenomeni per loro natura sotterranei, come l'evasione e l'economia sommersa, siano necessariamente imprecise, si può dire che in Italia il sommerso sia nell’ordine del 26% del Prodotto interno lordo (al 2003), e che sia leggermente cresciuto nel corso del decennio precedente (23% nel 1990).

Si può anche osservare che queste percentuali sono paragonabili a quelle di Grecia (28% al 2003) e Spagna (22%), mentre sono enormemente superiori a quelle ad esempio degli Stati Uniti (8-9%).

Sulla maggior efficienza del fisco americano rispetto a quello italiano pesano certo molti fattori: dalla qualità generale della pubblica amministrazione Usa allo specifico sistema di raccolta dati e di controllo delle dichiarazioni fiscali, dalla severità (e, ancora, l'efficienza) del sistema giudiziario americano al sistema di valori dei cittadini americani stessi, che non sono certo dei santi ma hanno più senso civico di noi italiani.

Ma la questione dell'evasione e del sommerso in Italia non si spiega solo con una certa inettitudine della nostra amministrazione fiscale e giudiziaria, ma piuttosto con una carenza di volontà politica. Questo perché l'evasione e il sommerso in Italia non sono distribuiti più o meno omogeneamente sulla popolazione. Più che altrove, infatti, in Italia sono i lavoratori indipendenti ad essere in grado di evadere o eludere le tasse. La lotta all'evasione significa quindi scontrarsi con lobby potenti come ad esempio quelle dei commercianti e delle professioni. Ma i disincentivi politici alla lotta all'evasione sono ancora più netti se si considera la distribuzione geografica dell'evasione. La realtà, per quanto «incorretta politicamente», è che una larga parte dell'evasione, soprattutto dell'evasione totale, è al Sud del Paese, e cioè nelle regioni più povere. Una indagine dell'Agenzia delle Entrate stima, per il periodo 1998-02, che l'imponibile Irap evaso sia nell'ordine del 38% per Sicilia, Campania, Puglia, Sardegna (e addirittura del 48% per la Calabria), mentre sia nell'ordine del 17% in Piemonte, Emilia Romagna, Veneto (e addirittura del 11-12% in Lombardia), in linea con Francia e Germania. Per quanto si prendano questi dati con le pinze, si capisce come il problema dell'evasione sia intimamente legato a un problema ancora più vasto e complesso come la questione meridionale (e la connessa questione del controllo criminale di una parte significativa dell'economia del Sud). Il federalismo fiscale potrebbe senz'altro essere almeno in parte una soluzione, ma purtroppo poco si intravede di buono nella Legge Delega approvata il maggio scorso dal Parlamento.

Ma come se non bastasse, vi è un'altra ragione per cui è difficile politicamente agire sull'evasione in Italia. La pressione fiscale sull'economia intera è ormai a livelli difficilmente sopportabili, oltre il 40% (quella sul lavoro è al 44% contro il 34% della media comunitaria nel 2007). Dato il sistema fiscale italiano, tassare per intero gli evasori significherebbe schiacciare il freno sull'economia del Paese. Sono proprio i lavoratori indipendenti e le industrie del sommerso ad avere infatti maggiore flessibilità nel ridurre ore lavorate ed impiego. Dico questo, naturalmente, non per argomentare che sia desiderabile chiudere un occhio sull'evasione, assolutamente no, se non altro per fondamentali ragioni di giustizia ed equità (che ha ben esposto ieri Antonio Scurati su queste colonne). Lo dico invece per spiegare perché il problema dell'evasione sia legato a quello della spesa pubblica. I costi in termini di crescita economica di una seria lotta all'evasione sarebbero fortemente ridotti solo qualora la spesa pubblica fosse tagliata sufficientemente in modo da lasciare spazio a una diminuzione significativa della pressione fiscale. Fa bene quindi il ministro Tremonti, oggi, a collegare la lotta all'evasione ad una riduzione del «peso della mano pubblica» dove «c'è una vasta area di spesa improduttiva» con un «uso non appropriato del denaro pubblico». Purtroppo la lotta all'evasione non è possibile senza affrontare di petto la questione meridionale e senza attaccare la spesa pubblica lì dove fa male: le pensioni, per dirne una, e non certo solo quelle d’invalidità.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7370&ID_sezione=&sezione=


Titolo: ALBERTO BISIN. Un facile capro espiatorio
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2010, 09:32:35 am
18/6/2010

Un facile capro espiatorio
   
ALBERTO BISIN

Al Consiglio Ue la cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha richiesto a gran voce una tassa sulle banche. Quale coraggio, quale visione politica: ardire di proporre ai politici europei una nuova tassa! Peccato, voli aerei gratuiti ai politici d’Europa e alle loro famiglie saranno lasciati al prossimo incontro.

Scherzo per evitare di disperare davanti alle sorti europee. Il motivo della disperazione non è la tassa in sé. I banchieri si sanno difendere molto bene, troppo bene, e confido che la proposta cadrà nel dimenticatoio della politica populista o comunque sarà annacquata a sufficienza da non avere effetti rilevanti. Mi preoccupa invece il modello interpretativo del funzionamento delle economie di mercato e dei rapporti tra mercato e politica che sta dietro questa proposta. Esso è inetto ed incoerente. Non si tratta di distorsioni ideologiche: il governo italiano, ed il ministro Tremonti in particolare, sono asseriti fautori dello stesso modello, così come lo sono l’amministrazione Obama e il presidente Sarkozy.

Il modello ha due ingredienti concettuali fondamentali. Il primo è che Stati e mercati combattono per il controllo del sistema economico globale, ognuno con i propri strumenti: tasse per gli Stati e capitali speculativi per i mercati. Il secondo è che l’obiettivo dei mercati è il profitto, mentre quello degli Stati è il bene dei cittadini. Il modello fornisce una chiara interpretazione delle recenti politiche della Ue per fronteggiare la crisi finanziaria: la buona politica europea ha prima salvato i cittadini greci e spagnoli dall’ecatombe indotta dalle banche cattive e dai loro accoliti, gli ancor peggiori speculatori - ed ora richiede i giusti danni alle banche, in forma di tassa e naturalmente per conto dei cittadini. Naturalmente il governo tedesco non è il solo a favorire questa interpretazione: il ministro Tremonti non perde occasione per vantare la primogenitura intellettuale di queste politiche e il premier Berlusconi propone se stesso come motore primo della salvezza universale a mezzo dell’intervento europeo sui mercati dei titoli greci e spagnoli.

Il successo di questo modello interpretativo tra i politici è facilmente spiegabile col fatto evidente che permette ad essi di additare facili capri espiatori per il proprio comportamento irresponsabile e soprattutto per la propria incapacità di regolamentare quei mercati finanziari che, invece di combattere, essi proteggono e favoriscono ad ogni occasione. Ma il modello resta inetto ed incoerente perché basato sulla fondamentale incomprensione del funzionamento sia dell’economia di mercato che del sistema politico democratico. Prima di tutto, l’economia di mercato, proprio perché l’obiettivo dei mercati è il profitto, funziona solo quando associata alla responsabilità individuale, quando imprenditori, imprese, e società rischiano i capitali propri. Inoltre, il sistema politico democratico è da parte sua anch’esso motivato dal profitto. Se il profitto monetario della classe politica è spesso considerato corruzione, ed è in quanto tale illecito, il profitto elettorale è invece motivazione principe dell’azione politica, e spesso affatto in linea con il bene dei cittadini tutti.

Se si comprende questo, si comprende allora che la politica europea non ha salvato i cittadini greci e spagnoli, ma piuttosto le banche che al governo greco e a quello spagnolo hanno irresponsabilmente elargito generosi finanziamenti. In questo modo la politica europea ha protetto le banche; ma non tutte, solo quelle che non hanno saputo fare il proprio mestiere. Ed ora propone di tassarle; tutte naturalmente. Non c’è niente male come salvataggio universale: tassare i comportamenti responsabili per finanziare quelli irresponsabili. E non è tutto qui. Perché i proventi di un’eventuale tassa sull’attività bancaria, prima di riversarsi nei forzieri dei banchieri amici, passano naturalmente da quelli dei governi e lì rimangono attaccati in buona parte. E qui siamo alla seconda fondamentale incomprensione, quella riguardante i sistemi politici democratici. Nella ricerca del successo elettorale, i governi hanno una accentuata tendenza alla spesa pubblica, eccessiva, inefficiente, e soprattutto clientelare. La tassa sull’attività bancaria proposta dal Consiglio Ue, quindi, favorisce doppiamente comportamenti irresponsabili, socializzando le perdite delle banche e incrementando le risorse che gli stati possono devolvere alla spesa. Non resta molto da dire, considerando che è proprio la spesa senza controllo a costituire la maggiore minaccia alla crescita economica europea. Complimenti alla cancelliera Merkel e al Consiglio Ue tutto.

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Titolo: ALBERTO BISIN - Ci può salvare la chiarezza dei mercati
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 05:26:51 pm
28/6/2010

Ci può salvare la chiarezza dei mercati
   
ALBERTO BISIN

Il G20 si presenta come una tenzone tra gli Stati Uniti, favorevoli a politiche fiscali espansive, e l’Europa, trainata invece dalla Germania su posizioni più rivolte al rigore delle finanze pubbliche.

In realtà questa contrapposizione, pur reale, è a ben vedere meno chiaramente delineata di quanto non sembri. Innanzitutto gli Stati Uniti favoriscono sì politiche di stimolo fiscale, ma in Europa. Il presidente Obama sa bene che lo spazio per un altro stimolo fiscale nel suo Paese è minimo. Il Congresso, pur controllato dai Democratici, deve affrontare un’elezione che si presenta durissima proprio perché le politiche fiscali espansive dell’amministrazione, e i deficit di bilancio che ne sono conseguiti, hanno rinvigorito l’opposizione repubblicana e la sua base libertaria. Lo scarso rigore finanziario dell’amministrazione ha addirittura portato alle dimissioni Peter Orzasg, il direttore dell’ufficio del Congresso che controlla le coperture di spesa e gli effetti economici del bilancio (il Congressional Budget Office), noto per la serietà e l’imparzialità delle sue analisi.

L’Europa da parte sua è in condizioni finanziarie ben più precarie di quelle degli Stati Uniti.

I ministri finanziari della Ue hanno guardato in faccia con terrore il rischio di non riuscire a rifinanziare i propri debiti in scadenza a tassi ragionevoli. Questa crisi ha le sue radici nella insostenibilità a medio periodo di voci di spesa consolidate da politiche di bilancio irresponsabili che in alcuni casi hanno la loro origine alcuni decenni or sono: nel caso dell’Italia, agli anni di Craxi. Nonostante le avance interessate dell’amministrazione americana, quindi, bene fa la cancelliera Merkel a rifiutarle gelidamente.

Nella contrapposizione tra Stati Uniti e Germania vi è un aspetto assolutamente fondamentale che pare essere dimenticato da molti commentatori. Politiche fiscali espansive hanno maggiori possibilità di avere effetti di stimolo sull’economia privata qualora il Paese in cui sono adottate abbia un basso carico fiscale e sane condizioni di bilancio (un basso rapporto debito/Pil). In questo caso le prospettive di crescita rendono relativamente meno dannoso un aumento del debito così come un eventuale aumento dell’imposizione in futuro. Per quanto gli Stati Uniti abbiano seri problemi di bilancio e un elevato debito pubblico, essi hanno una carico fiscale ben meno elevato rispetto all’Europa. Se il presidente Obama non può quindi aumentare la spesa né le tasse in un anno elettorale, questo non significa che convenga farlo all’Europa. Anzi, l’Europa non è proprio in condizioni di farlo, trovandosi invece nella drammatica necessità di ridurre la spesa pubblica che è la prima causa della sua scarsa crescita. L’eccessivo carico fiscale nei Paesi Ue disincentiva infatti gli investimenti produttivi e finanzia invece una spesa pubblica ormai volta a supportare un settore pubblico inefficiente e scarsamente produttivo e, in Italia, le rendite di una parte del settore privato che evade le imposte.

Al G20, però, non si discute solo di politiche fiscali, ma anche di regolamentazione finanziaria. A questo proposito il progetto di riforma del Financial Stability Board diretto dal governatore Draghi prevede l’adozione di misure più restrittive di controllo della leva finanziaria (il cosiddetto Basilea3) così come varie altre misure di regolamentazione del rischio sistemico e di trasparenza. Queste sono misure assolutamente necessarie per un equilibrato sviluppo dei mercati finanziari, a loro volta necessari a una ripresa vigorosa. Le grandi banche internazionali sono tenacemente contrarie all’adozione di Basilea3, perché il controllo della leva inciderebbe duramente sui loro margini di profitto. Ma il controllo della leva avrebbe invero effetti importanti per l’economia globale in termini di riduzione dei rischi. Allo stesso modo, la trasparenza sui mercati dei derivati è fondamentale per ridurre quello che si chiama il «rischio di controparte», il rischio di trovarsi a far affari con una controparte eccessivamente esposta al rischio sistemico. Proprio questo tipo di rischio ha portato nei momenti più intensi della crisi nel 2008 al congelamento dei mercati finanziari nell’incertezza generale riguardante quali banche detenessero «titoli tossici» in quantità. Sulla determinazione che i membri del G20 dimostreranno nel far accettare queste misure ai mercati finanziari dovrà essere giudicato, a mio parere, il successo di questa riunione. Mercati finanziari ben regolamentati possono avere una funzione volano sulla crescita economica futura cento volte più rilevanti di qualunque intervento di stimolo fiscale su cui i Venti possano trovare un accordo.

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Titolo: ALBERTO BISIN - La sterzata che serve all'America
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2010, 10:57:26 am
11/8/2010

La sterzata che serve all'America

ALBERTO BISIN

La Federal Reserve ha dovuto ammettere ieri quello che ormai stava diventando chiaro a tutti gli osservatori dell’economia americana: la ripresa ha perso fiato e i dati che provengono dai mercati sono preoccupanti. Insomma, son problemi seri.

Da un lato, non si può certo argomentare che la politica economica sia con le mani in mano: la politica monetaria della Fed è fortemente espansiva e di conseguenza l’economia americana nuota nella liquidità; e l’enorme stimolo di politica fiscale varato l’anno scorso prevede ancora spese per centinaia di miliardi di dollari quest’anno. Ma ciononostante non si intravedono spinte inflazionistiche e l’economia rimane anemica, come in stallo, con un tasso di disoccupazione che non accenna a diminuire. A osservare il mercato del lavoro più da vicino la situazione non migliora affatto: non solo la disoccupazione è stabile, ma si nota un significativo aumento della disoccupazione di lungo periodo, che grava drammaticamente soprattutto sulle famiglie di classe media. La disoccupazione è a più lungo periodo, tipicamente, quando il mercato del lavoro passa attraverso una fase di aggiustamento e riconversione: i settori potenzialmente in crescita non trovano manodopera qualificata, mentre altri settori riducono significativamente la domanda di lavoro.

Ad esempio, il mercato richiede infermieri e infermiere mentre si ritrova con un eccesso di muratori e falegnami. Vari indicatori della domanda di lavoro per settore (ad esempio il rapporto tra il numero di annunci di lavoro posti dalle imprese e il tasso di disoccupazione) sembrano confermare questa ipotesi, e cioè che l’economia americana sia nel mezzo di una difficile riconversione industriale, che la rallenta.

Ma non è tutto qui. La lentezza della ripresa deriva anche dall’insuccesso della politica fiscale i cui effetti di stimolo paiono essere stati tutto sommato molto ridotti. In parte questo insuccesso è dovuto ad una non efficiente distribuzione della spesa. Ad esempio, gli interventi di spesa in infrastrutture non hanno contribuito ancora significativamente alla ripresa perché essi tendono ad avere effetti ritardati, nonostante le rassicurazioni dell’amministrazione che dichiarava di avere scelto progetti «pronti allo scavo» (shovel-ready). Ma soprattutto, la politica fiscale tende ad avere effetti estremamente ridotti quando le famiglie e le imprese temono un incremento della pressione fiscale a breve termine. Purtroppo questo è esattamente il caso negli Stati Uniti. Tutti si aspettano un aumento delle tasse dopo le elezioni per il rinnovo del Congresso e del Senato il prossimo novembre. L’aumento della pressione fiscale è reso abbastanza inevitabile dalla situazione del bilancio pubblico, che risente delle spese militari relative alle due guerre dell’era Bush e delle esplosive proiezioni di spesa per sanità e pensioni relativamente al prossimo decennio. Per quanto l’amministrazione Obama abbia in gran parte ereditato questa situazione di bilancio, essa è responsabile di non averne fino ad ora compresa la gravità. A tal punto l’amministrazione ha sottovalutato i problemi di bilancio che per mesi essa ha spinto il Congresso a «sfruttare la crisi» per iniziare ad instaurare un sistema di welfare di cui il Paese ha bisogno nel medio periodo ma che invece rischia di indurre una crisi, ora, nel momento in cui il Paese può meno sopportarla. Enorme errore questo, che ha portato il Congresso a non potere approvare nuovi sussidi alla disoccupazione di lungo periodo di cui il mercato del lavoro ha disperatamente bisogno.

Se, come credo, le ragioni della lentezza della ripresa sono in parte strutturali e in parte dovute alle aspettative di un prossimo inasprimento fiscale, alla politica monetaria rimane poco spazio di manovra.

L’annuncio di ieri sui tassi era dovuto e sostanzialmente atteso. Certamente la Fed tornerà a quella politica di «quantitative easing» che ha avuto notevole successo nelle prime fasi della crisi: acquisterà cioè titoli a medio periodo con l’obiettivo di abbassare l’intera struttura dei tassi, non solo quelli a breve sotto il suo diretto controllo. Cercherà anche di ingenerare aspettative espansive facendo intendere che non alzerà i tassi al minimo avviso di inflazione. Ma tutto questo non può che avere ora effetti di secondo ordine.

Anche un eventuale nuovo stimolo fiscale, di cui sempre più insistentemente si parla, avrà effetti scarsi se prima non si risolvono i problemi di bilancio, specie quelli gravissimi riguardanti la spesa sanitaria pubblica per gli anziani (Medicare). Purtroppo non è concepibile che questo avvenga prima delle elezioni, che già si dimostrano in salita per il partito democratico. In vari casi, da Reagan a Clinton, i risultati delle elezioni di rinnovo del Parlamento hanno indotto il Presidente a un notevole cambiamento di rotta politica. Aspettiamo con ansia.

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Titolo: ALBERTO BISIN Per le banche regole mondiali stringenti
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2010, 06:02:37 pm
23/8/2010

Per le banche regole mondiali stringenti
   
ALBERTO BISIN

La crisi finanziaria ha convinto molti economisti ed osservatori della necessità di regole più stringenti cui sottoporre i mercati finanziari. Negli Stati Uniti l’amministrazione Obama e il Congresso hanno prodotto una riforma della struttura di regolamentazione dei mercati. Tale riforma ha redistribuito il potere di regolamentazione attraverso varie agenzie e ha definito linee generali di vigilanza ed intervento sulla carta abbastanza ambiziose. Dico «sulla carta» perché, come spesso accade, saranno i dettagli dei regolamenti attuativi della riforma a determinarne gli effetti più importanti. Non è ancora chiaro ad esempio cosa succederà di Fannie Mae e Freddie Mac, le agenzie governative che assicuravano i mutui e che tanto hanno contribuito a finanziare la bolla immobiliare. Soprattutto non è ancora chiaro quanto le autorità riusciranno ad ottenere quella trasparenza nelle operazioni sui mercati di strumenti finanziari «over the counter» senza la quale ogni strumento di regolamentazione è sostanzialmente inefficace. Per queste ragioni, l’attività di lobby delle grandi banche per influire sui regolamenti attuativi è intensissima. Sarebbe bene che l’amministrazione Obama e il Congresso, questa volta, non cedano.

Un altro elemento fondamentale della regolamentazione finanziaria internazionale sono i nuovi requisiti di patrimonializzazione e liquidità per le banche, i cosiddetti Basilea 3, che saranno discussi al prossimo G-20 di Seoul a novembre. Si tratta di regole più stringenti riguardo alla proporzione di capitale che le banche dovranno mantenere in attività sicure e liquide a garanzia dei propri investimenti a rischio. Poiché, come anche questa crisi ha dimostrato, i governi difficilmente permettono alle banche di fallire - o di essere ricapitalizzate in un regime di amministrazione controllata - è necessario limitare i rischi cui esse si espongono e di cui è costretto a rispondere il contribuente. La Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) ha prodotto nei giorni scorsi uno studio sugli effetti di queste nuove più stringenti regole, secondo cui i vantaggi di Basilea 3 per l’economia globale sarebbero ben superiori ai costi. D’altro canto, l’Institute of International Finance (Iif), organizzazione delle maggiori banche internazionali, stima costi elevati per le banche e per i paesi che adottino Basilea 3, suggerendo che essi potrebbero strangolare il mercato del credito e quindi la ripresa.

Per comprendere come si spieghino queste differenze di analisi e giudizio è necessario, ancora una volta, entrare nei dettagli. Banche maggiormente capitalizzate dovrebbero rendere meno intense e soprattutto meno frequenti le crisi finanziarie. Lo studio Bri calcola che i Paesi industriali abbiano in passato sopportato in media una crisi finanziaria ogni 20-25 anni. I requisiti di Basilea 3 sarebbero in grado di portare questi paesi a una crisi ogni 30-35 anni. Questo sarebbe un vantaggio importante nel lungo periodo. Più stringenti requisiti di capitale e liquidità rendono più costosa però l’attività di intermediazione delle banche, che devono mantenere una maggior proporzione del proprio capitale essenzialmente inattiva. Questi costi sono associati soprattutto alla fase di transizione, in cui le banche dovranno accumulare nuovo capitale e liquidità.

Per quanto le stime delle determinanti delle crisi finanziarie siano soggette ad elevato errore statistico, non è sull’analisi statistica che gli studi della Bri e dell’Iif non concordano. La differenza sostanziale sta nel fatto che la Bri stima esclusivamente gli effetti di lungo periodo di Basilea 3, mentre al contrario lo studio dell’Iif si riferisce esclusivamente al periodo di transizione, in cui i costi per le banche sono elevati e i vantaggi ancora da realizzarsi. Entrambi gli studi portano quindi, retoricamente, acqua al proprio mulino: a favore di Basilea 3 la Bri e contro di esso le grandi banche internazionali.

Ma non vi è dubbio che l’analisi dello studio Bri sia la più rilevante, perché è nel lungo periodo che i vantaggi e i costi di una nuova regolamentazione finanziaria vanno valutati. Le grandi banche stanno probabilmente cercando di guadagnare potere contrattuale per chiedere un lento processo di attuazione della normativa in modo da distribuire nel tempo i costi del processo di ricapitalizzazione loro richiesto da Basilea 3. È bene che anche questa richiesta sia valutata con estrema attenzione. Le banche infatti mirano ad evitare di diluire il capitale degli azionisti, ma nell’interesse della ripresa economica è invece importante che la ricapitalizzazione avvenga a ritmi ben più accelerati di quanto non stia accadendo. L’esperienza del Giappone, che ha permesso a banche decotte di ricapitalizzarsi ai propri ritmi sostenendo una stagnazione economica per almeno un decennio, dà idea dei costi di questa strategia.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7736&ID_sezione=&sezione=


Titolo: ALBERTO BISIN Un salvagente pieno di dollari per Obama
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2010, 05:19:44 pm
8/12/2010

Un salvagente pieno di dollari per Obama

ALBERTO BISIN

Il presidente Obama ha raggiunto un accordo con il Congresso americano, ormai in mano ai repubblicani, per estendere per altri due anni i tagli fiscali decisi dall’amministrazione Bush. L’accordo prevede l’estensione dei tagli anche a coloro che dichiarino redditi superiori ai 250 mila dollari, cioè ai «ricchi». Nonostante solo meno del 5% della popolazione abbia redditi di questo tipo, da essi proviene più del 40% delle entrate fiscali relative alla tassa sul reddito. Di conseguenza il «regalo ai ricchi» è notevole, circa 315 miliardi di dollari in due anni. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza, si ricordi che lo stimolo fiscale del 2008, il più grande della storia del Paese, era di 800 miliardi in due anni. L’accordo raggiunto però agisce anche su altre voci fiscali, riducendo i contributi pensionistici, alcune imposte alle imprese, e soprattutto la tassa sull’eredità. Infine, l’accordo prevede anche nuova spesa, nella forma di sussidi al credito per gli studi e soprattutto di una estensione di 13 mesi dei sussidi alla disoccupazione. Il tutto, secondo le prime stime, per altri 500 miliardi in due anni. Un secondo stimolo.

Senza un compromesso tra il presidente e la maggioranza repubblicana al Congresso le tasse sarebbero salite per tutti i contribuenti, un risultato inaccettabile in un momento in cui la ripresa, se anche presente, è apparentemente ancora estremamente debole. Qualunque siano le ragioni politiche che hanno motivato Obama ad accettare, essenzialmente in toto, le condizioni poste dal Congresso, gli effetti economici dell’accordo sono difficili da prevedere. Abbassare le aliquote fiscali in una recessione ha effetti positivi, perché incentiva l’attività economica, che risulta al margine più produttiva. Abbassare le aliquote ai «ricchi», per quanto abbia effetti distributivi non desiderabili, ha un importante effetto di gettito: sono soprattutto i ricchi infatti a lavorare meno quando le tasse sono più alte, proprio perché possono permettersi di farlo. (I ricchi hanno anche tipicamente maggiore facilità ad eludere le tasse, e maggiori incentivi a farlo ad aliquote elevate).

Allo stesso tempo, l’estensione dei sussidi alla disoccupazione è anche importante quando, come in questa situazione congiunturale, il mercato del lavoro sia particolarmente poco reattivo. Sia perché tali sussidi provvedono ad una necessaria assicurazione sociale, che perché essi contribuiscono in modo abbastanza diretta al consumo aggregato. D’altra parte gli 800 e oltre miliardi di mancate entrate e nuova spesa non possono che venire dall’indebitamento. Non vi sarebbe nulla di male, a questo servono i debiti, se non fosse che il Paese è già pesantemente indebitato e se le previsioni di crescita della spesa pubblica (da sanità e pensioni soprattutto) non fossero fuori controllo. In queste condizioni, l’accordo appare come un compromesso tra democratici e repubblicani, spesa ai primi e meno tasse ai secondi, senza un piano di rientro dal debito e soprattutto senza una coerente visione di politica economica per il Paese. L’incertezza che ne risulta riguardo ai piani di risanamento della finanza pubblica per i prossimi 10 anni, quali spese saranno tagliate e quali tasse saranno aumentate, rischia di dar vita ad un effetto boomerang.

Si rischia cioè che l’effetto espansivo della misura sia compensato in larga parte da timori di nuove tasse future che possano avere effetti di raffreddamento dell’attività economica. La situazione economica degli Stati Uniti, da questo punto di vista, non è essenzialmente diversa da quella dell’Europa: entrambe abbisognano di una politica fiscale espansiva nel breve periodo che eviti però percorsi di indebitamento non sostenibili. Sono necessari quindi vincoli alla spesa futura che siano credibili oggi, come riforme serie e incisive di sanità e pensioni, riforme che la classe politica, in America come in Europa, sembra in gran parte incapace di perseguire.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8179&ID_sezione=&sezione=


Titolo: ALBERTO BISIN La sfida del lavoro
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2011, 11:24:50 am
5/4/2011

La sfida del lavoro

ALBERTO BISIN

Chi si occupa di politica negli Stati Uniti ripete da sempre il ritornello che un Presidente in carica vince le elezioni di secondo turno se l’economia tira e soprattutto se il tasso di disoccupazione è sufficientemente contenuto.

Questo è anche quello che pensa l’amministrazione Obama, che non a caso ha lanciato la campagna elettorale poco dopo le buone notizie sulla creazione di posti di lavoro relative al mese di marzo (230 mila nuovi posti netti nel settore privato).

La ripresa non è vibrante come forse Obama sperava fosse, ma sembra quanto meno ben avviata: i posti di lavoro netti nel settore privato creati negli ultimi 13 mesi sono un milione e ottocentomila, e di questo passo il tasso di disoccupazione inizierà a scendere in maniera visibile (è oggi appena sotto il 9%, rispetto al 10,6% all’apice della recessione). La discesa del tasso di disoccupazione fino ad ora è stata molto lenta perché le statistiche non considerano disoccupati coloro che pur non avendo lavoro non lo cercano attivamente. Costoro però tipicamente ritornano a cercare lavoro (e quindi a essere contabilizzati nelle statistiche della disoccupazione) quando la ripresa si fa sentire. Si stima che a tutt’oggi questi lavoratori scoraggiati ammontino al 2,2% e che per ridurre il tasso di disoccupazione dell’1% siano necessari nuovi posti di lavoro netti per circa il 2% della forza lavoro.

Nelle aspettative più rosee il tasso di disoccupazione potrebbe essere attorno all’8% prima delle elezioni presidenziali del 2012. Sarà questo sufficiente per Obama? Se è vero che negli ultimi 50 anni nessun Presidente in carica è stato eletto con un tasso di disoccupazione superiore al 7,5%, è anche vero che questa recessione è stata particolarmente profonda e così è percepita dagli elettori americani. L’amministrazione Obama quindi cercherà di evidenziare il tasso a cui la disoccupazione decresce piuttosto che invece il tasso di disoccupazione in sé. Ed infatti proprio sulla decelerazione della disoccupazione si è soffermato Obama lo scorso fine settimana dichiarando che da questo punto di vista solo la ripresa del 1984 aveva fatto altrettanto.

È importante notare che la politica fiscale non potrà essere di aiuto a Obama. Lo stimolo del 2008 ha avuto effetti a breve abbastanza limitati e un nuovo stimolo sarebbe politicamente impossibile (i Democratici hanno perso nel 2010 il controllo del Congresso) e dannoso da un punto di vista economico, perché rischierebbe di sostituirsi alla ripresa privata. La politica monetaria, d’altro canto, potrebbe innestare inflazione e quindi ridurre i salari reali (che già oggi sono in fase calante). Una discesa moderata dei salari dovuta a una inflazione controllata potrebbe quindi favorire la ripresa, riducendo il costo del lavoro per le imprese. Il problema è che l’inflazione è tipicamente difficile da controllare senza agire drasticamente sui tassi e quindi negativamente sugli investimenti. E un’inflazione fuori controllo danneggerebbe invece la classe media il cui voto è fondamentale per Obama, riducendone il potere d’acquisto in modo sostanziale. La Federal Reserve quindi cammina su un filo sospeso e molto dipenderà dalla sua abilità a rimanere in equilibrio fino alle elezioni. I Repubblicani, da parte loro, cercheranno invece di spostare il dibattito sul debito pubblico e in particolare cercheranno di trasformare le elezioni, chiunque sia il loro candidato, in un plebiscito sulla desiderabilità di una massiccia presenza dello Stato nell’economia. Un altro ritornello favorito da coloro che osservano la politica americana da vicino è che la maggioranza del Paese è su posizioni sostanzialmente conservatrici in economia e che una minoranza importante (capace di spostare il pendolo delle elezioni partecipando più o meno attivamente al voto) è pronta alle barricate sulla questione.

Già questa settimana i Repubblicani presenteranno alla Camera un progetto per la riduzione della spesa di 4 mila miliardi di dollari in 10 anni, che agisce in modo sostanziale su Medicare e Medicaid, i programmi pubblici di assicurazione sanitaria rispettivamente per gli anziani e gli indigenti. Secondo le indiscrezioni della stampa, il progetto prevederebbe la trasformazione dell’assicurazione sanitaria pubblica per queste categorie di cittadini in sussidi all’acquisto di un’assicurazione privata. Il progetto, abbastanza centrista pur se coerente con una filosofia politica conservatrice, potrebbe rappresentare, assieme alle recenti proposte della commissione parlamentare sul deficit, il cuore del programma economico del candidato repubblicano. In mancanza di una crescita molto vivace dell’economia, sarà su questi temi che Obama dovrà confrontarsi, evitando di farsi posizionare troppo lontano dal centro.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/


Titolo: ALBERTO BISIN. Un Paese senza energia
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2011, 06:08:04 pm
21/4/2011

Un Paese senza energia

ALBERTO BISIN

Il dibattito seguito su questo giornale all’editoriale di Luca Ricolfi sul differenziale di crescita tra Sud e Nord del Paese ha degli aspetti sconcertanti. Ricolfi, come fa da tempo, produce dati che evidenziano realtà poco conosciute della questione meridionale nel Paese: il Sud cresce ad un tasso leggermente superiore a quello del Nord ed evade maggiormente il fisco. I dati (Istat) si riferiscono, più precisamente, alla crescita del Pil pro-capite dal 1995 al 2007 e all’evasione in percentuale delle imposte pagate. Ai dati, il segretario Cisl, Raffaele Bonanni, risponde: «La povertà al Sud, in questi anni, è sempre aumentata e questo lo sanno tutti, soprattutto chi vive nel Mezzogiorno». Questo lo sanno tutti, dice. In questa risposta sta tutto il disprezzo della politica e del sindacato per i dati, tutta la mancanza di serietà del dibattito economico nel nostro Paese.

Mentre Bonanni sta con la testa sotto la sabbia, è bene cercare di capire cosa sta succedendo. Ricolfi suggerisce che proprio la minore pressione fiscale possa aver permesso all’economia meridionale di crescere più velocemente. A questo proposito è bene notare che se così fosse non ci sarebbe da stupirsi perché è in generale vero che economie meno tassate crescono maggiormente. Inoltre, è bene notare che le differenze di evasione fiscale tra Nord e Sud non sono di poco conto. L’Agenzia delle Entrate, sulla base di dati Istat, ha stimato recentemente una percentuale di reddito evaso per imposte pagate pari all’11 per cento a Milano, Torino, Genova, Roma, e al 66 per cento a Caserta, Reggio Calabria, e Messina.

Ma c’è di più: il pubblico (i cui dipendenti non possono evadere) conta per il 40% circa del reddito al Sud e molto meno al Nord (tra il 20 e il 25%). Si capisce quindi che la pressione fiscale sul reddito privato sia al Nord probabilmente superiore al 50%. Giusto per avere un senso di cosa questo significhi, la pressione fiscale in Svezia è del 46%, in Danimarca del 48%.

Detto questo, è possibile, come suggerisce Gianfranco Viesti in un altro contributo al dibattito, che la crescita del Sud stia raffreddandosi (ma anche questa è un’affermazione apparentemente non basata su alcun dato reale, una previsione). Ed è notoriamente difficile produrre relazioni causali. È possibile quindi che non sia stato lo «sconto» sulle tasse a far crescere il Sud più del Nord. Ma è fuori di dubbio che la pressione fiscale al Nord sia devastante per la sua economia e che questo non sia (o sia in minor misura) per il Sud.

Questo significa quindi che ogni proposta di riduzione delle aliquote associata ad una diminuzione della spesa pubblica dovrebbe essere ben accetta. (Le dichiarazioni del ministro Tremonti di ieri sull’oppressione delle imprese vanno finalmente nella direzione corretta, anche se rappresentano una inversione a U per il ministro). Significa anche che le ragioni della mancanza di crescita del Sud (che se anche cresce più del Nord cresce pochissimo, soprattutto rispetto al suo potenziale che è molto elevato proprio a causa della sua povertà relativa in Europa) hanno radici ben più profonde che non la politica fiscale del governo. Osservo infine che coloro che, come Viesti, sostengano che vi sia «un mito dietro alla parola sprechi» del settore pubblico, potrebbero provare a convincere i cittadini italiani che i servizi pubblici che essi ricevono sono pari a quelli svedesi. Perché, o è così, oppure la differenza sono sprechi.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/


Titolo: ALBERTO BISIN. L'America non è la Grecia
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2011, 12:08:31 pm
25/7/2011

L'America non è la Grecia


ALBERTO BISIN

Il presidente Obama sta negoziando coi repubblicani al Congresso un accordo su spesa e debito pubblico. Le negoziazioni procedono febbrilmente perché, in mancanza di un accordo in tempi brevissimi, il governo federale potrebbe non essere in grado di pagare i dipendenti pubblici, i creditori, e gli interessi sul proprio debito in esistenza. In questo caso, da un punto di vista letterale, gli Stati Uniti non farebbero fronte ai propri debiti e sarebbero quindi «in default». Come la Grecia.

Per quanto noi europei troviamo rassicurante immaginare gli Stati Uniti mentre nuotano in acque turbolente quanto le nostre, la situazione reale è ben diversa. Il default degli Stati Uniti, qualora avvenisse, sarebbe dovuto all’impossibilità di sorpassare un tetto legale all’indebitamento che il Congresso ha posto e che il Congresso può alzare con un voto e un tratto di penna: sarebbe quindi una questione legale, puramente contabile e avrebbe un significato soprattutto simbolico. I mercati non si sognano nemmeno di limitare il credito agli Stati Uniti, né di richiedere tassi elevati o crescenti per sottoscriverlo. Infatti i tassi sui titoli del Tesoro Usa sono stabili da tempo a livelli storicamente bassi; i tassi sui titoli a 6 mesi e oltre sono addirittura scesi nell’ultimo mese.

La ragione dell’impasse legislativa sta nel fatto che il Congresso a maggioranza repubblicana è in una posizione di forza contrattuale notevole: rifiutandosi di votare l’innalzamento del tetto costringe l’amministrazione ad affrontare una crisi fiscale e un potenziale default che, per quanto simbolico, rappresenterebbe una figuraccia per Obama. In altre parole, i repubblicani stanno essenzialmente ricattando l’amministrazione Obama per ottenere che il governo si vincoli a quei tagli di spesa che essi considerano fondamentali per la crescita del Paese. In realtà un innalzamento del tetto sul debito pubblico tale da evitare il default fino al 2012 è già sul piatto della contrattazione, essendo stato offerto ieri dal presidente della Camera Boehner. Ma è un boccone avvelenato perché se Obama lo accettasse si aprirebbe una nuova stagione di negoziazioni proprio prima delle prossime elezioni presidenziali.

Gli Stati Uniti non sono la Grecia, quindi. E nemmeno la Spagna o l’Italia. I problemi di bilancio di questi Paesi sono infatti reali ed imminenti, nel senso che essi non trovano investitori disposti a finanziare il proprio debito, se non a spread elevati rispetto a Paesi i cui conti siano in ordine, come la Germania. Ciò non toglie però che gli Stati Uniti abbiano un problema fiscale serio ed importante, in parte dovuto alle spese militari e ai tagli fiscali dell’ultimo decennio così come alle spese per lo stimolo fiscale dopo la crisi del 2008. Inoltre, in prospettiva, la spesa per pensioni e sanità (dovuta quest’ultima sia al pre-esistente sistema sanitario per gli anziani che alla nuova riforma Obama) appaiono fuori controllo. Ma proprio il tetto legislativo al debito pubblico costringe gli Stati Uniti ad affrontare il loro problema fiscale oggi, ben prima che i nodi vengano al pettine. Qualunque cosa si pensi del ricatto a cui i repubblicani stanno sottoponendo l’amministrazione Obama, e qualunque cosa succeda nei prossimi giorni, gli Stati Uniti usciranno da questa crisi con un accordo che limiterà l’eccessiva spesa pubblica di qui a due anni almeno. Una soluzione politica ad un problema economico, che medierà tra le esigenze e le preferenze delle diverse classi di cittadini rappresentati da democratici e repubblicani, ben prima che i mercati operino pressione sul governo perché questo avvenga. Per quanto il meccanismo istituzionale del tetto al debito pubblico generi queste crisi un po’ fasulle, più contabili che altro, esso sembra in grado di raggiungere un obiettivo importante: costringere le parti a ridurre la spesa sedendosi ad un tavolo negoziale prima dell’emergenza.

E’ proprio questo che è mancato e ancora manca all’Europa.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9017


Titolo: ALBERTO BISIN. Le colpe cerchiamole in casa
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2011, 11:43:26 am
2/8/2011

Le colpe cerchiamole in casa

ALBERTO BISIN

Un’altra giornata di passione in Borsa. Nei mercati italiani in particolare: record di perdite alla Borsa di Milano e nuovo record sullo spread tra i titoli del Tesoro italiano e quello tedesco. Lungi da me provare a interpretare il crollo di ieri o a prevedere se oggi la Borsa rimbalzerà. Ad ogni prima lezione di economia finanziaria gli economisti insegnano che l’andamento di Borsa giorno per giorno è essenzialmente imprevedibile. Quanto sta succedendo sui mercati finanziari in Europa e negli Stati Uniti da alcuni mesi è però perfettamente comprensibile.

Come ho argomentato su queste colonne la scorsa settimana, la questione del default Usa era ed è irrilevante. Esso sarebbe stato un default tecnico, una questione fondamentalmente legislativa e contabile. La prova di questo è che i tassi sui titoli americani sono rimasti bassi e invariati durante l’intera fase di negoziazione: gli investitori non hanno cioè mai cessato di prestare allegramente al Tesoro americano. Quegli osservatori che in questi giorni, senza badare a questi fatti, hanno correlato il possibile default Usa con la volatilità delle Borse europee, stavano evidentemente cercando di convincere se stessi oltre che i lettori.

La controprova è che le Borse sono crollate anche ieri dopo l’annuncio dell’accordo al Congresso.

L’andamento delle Borse in Europa e negli Stati Uniti ha una motivazione chiara: la ripresa economica è ovunque anemica o inesistente e i mercati scontano una crescita futura inferiore alle previsioni. Negli Stati Uniti in particolare i dati sull’occupazione fanno temere il peggio. Il rischio di una sorta di decennio di bassa crescita stile Giappone anni ‘90 è sempre più elevato e i mercati naturalmente ne risentono. La spesa e l’indebitamento pubblico americano influiscono sui mercati mondiali solo nel medio-lungo periodo, se è vero che essi sono una delle cause della scarsa crescita.

Anche la situazione italiana è chiara: basta non avere paura di guardare in faccia i fatti, anche quando non ci piacciono. Il Paese non cresce da almeno 15 anni. Le cause strutturali della mancata crescita sono ovvie ai più: il mercato del lavoro è ingessato e conflittuale, i servizi pubblici sono inefficienti (basti pensare alla giustizia civile), il carico fiscale è soffocante e reso iniquo dall’evasione, le rendite e la corruzione sono rampanti, il sistema produttivo è mal posizionato nella competizione internazionale. Nulla di nuovo; ma in generale una congiuntura mondiale sfavorevole ha effetti più gravi sui Paesi più deboli e quindi i mercati caricano sull’Italia maggiormente che su altri Paesi gli effetti del ridimensionamento della crescita globale (che l’Italia abbia retto meglio di altri in Europa la recessione e la crisi è refrain comune ma, dati alla mano, semplicemente falso).

Infine, l’Italia ha un debito pubblico ipertrofico che la espone ad ogni tempesta finanziaria e che nessun governo ha mai tentato seriamente di affrontare (che l’Italia abbia mantenuto i conti in ordine in questi ultimi anni è un altro refrain comune ma, dati alla mano, semplicemente falso). Se è vero che la ricchezza privata italiana è elevata, è anche vero che il carico fiscale è tale da non lasciare alcun reale margine di manovra fiscale che non comporti ingenti (e dolorosi) tagli alla spesa. La manovra di luglio ha chiaramente dimostrato che il Paese ed il suo sistema politico non sono in grado di produrre quell’inversione nella politica fiscale che sarebbe necessaria: invece di affrontare il problema, o anche solo di riconoscerlo, il governo ha deciso di rimandare a dopo le elezioni, prevedendo di perderle, ogni reale aggiustamento.

La questione degli speculatori che affossano il nostro debito e le nostre banche (che tanta parte di quel debito hanno in portafoglio), mi spiace dirlo, non è che una favola per anime semplici: chi si appresti a prestare denaro al Tesoro italiano richiede tassi elevati perché la crisi della Grecia, l’incapacità dell’Unione Europea a gestirla, e soprattutto la manovra fiscale di luglio hanno reso più probabile che i conti italiani non siano riordinati a medio termine. Non fossimo nell’euro avremmo già svalutato (cioè ripagato i debitori con valuta deprezzata, che equivale ad un parziale default). Senza riordinare i conti, una qualche forma di default parziale è inevitabile e chi presta soldi all’Italia lo fa solo ad un tasso che sconti una probabilità di tale default.

La retorica anche poco originale del capro espiatorio, siano gli Stati Uniti che fanno default o gli speculatori che fanno soldi, non ci aiuterà. È il momento dei fatti.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9048


Titolo: ALBERTO BISIN. 2011-2008, errori in fotocopia
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2011, 09:30:05 am
25/9/2011

2011-2008, errori in fotocopia

ALBERTO BISIN

Cosa sta succedendo all’economia mondiale? Gli spread sui debiti sovrani, Paesi che rischiano di fallire, Borse che crollano... Naturalmente è difficilissimo a dirsi. Per questo è il momento di fare un passo indietro e cercare di capire. In particolare, ci sono notevolissime similarità tra la crisi finanziaria che oggi attanaglia l’Europa e quello che è successo nel 2008 nei mercati finanziari Usa.

C’è quindi molto da imparare dai comportamenti e dagli errori del Tesoro e della Fed Usa dal 2008 a oggi. Ma è importante imparare la lezione giusta. Non sono convinto, purtroppo, che questo stia succedendo. Mi pare anzi che le autorità europee stiano ripetendo molti degli errori compiuti Oltreoceano.

Entrambe le crisi finanziarie, quella americana del 2008 e quella europea di oggi, sono il risultato di una enorme accumulazione di debito, o della facile elargizione di credito, che è l’altra faccia della stessa medaglia. Nel primo caso il credito è stato incanalato verso il mercato immobiliare, alimentando una grossa bolla finanziaria. Nel secondo caso, invece, il credito ha alimentato il debito sovrano di vari Paesi europei.

La reazione alla crisi del 2008 da parte della Fed e del Tesoro ha avuto due fasi. Nella prima fase le autorità americane, temendo i riflessi politici ed economici di una politica di salvataggio incondizionata del sistema finanziario, hanno lasciato che Lehman Brothers fosse travolta dal panico dei mercati. Nella seconda fase, dopo che il fallimento di Lehman aveva portato al panico, appunto, e quindi al congelamento dei mercati monetari, la Fed e il Tesoro hanno garantito i debiti di banche e banche di investimento, assumendosi ogni rischio pur di salvare il sistema finanziario. Se è vero che questi interventi hanno evitato il collasso del sistema finanziario stesso, è anche vero che ad oggi il mercato del credito negli Stati Uniti è rimasto anemico ed ora manca di contribuire efficacemente alla ripresa dell’economia. Questo è in parte dovuto proprio al fatto che il salvataggio incondizionato del sistema finanziario non ne ha permesso la rigenerazione: banche poco capitalizzate non investono per timore che una nuova crisi torni a sgretolare le proprie attività a bilancio, in molti casi ancora contabilmente sopravvalutate. E così la liquidità che la Fed continua a immettere nel sistema finanziario (in quantità mai viste precedentemente) torna alla Fed stessa come depositi delle banche, invece di entrare nel sistema economico.

Si dirà (e si dice) che il panico dopo Lehman dimostra che non si poteva fare altrimenti. Ciò non è assolutamente vero. Il fallimento di Lehman infatti è stato gestito malissimo; o meglio, non è stato gestito per niente. Una ordinata ristrutturazione del debito delle banche insolvibili ed una loro ricapitalizzazione guidata dalle autorità era la strada alternativa più ragionevole, che le autorità Usa non hanno purtroppo intrapreso.

La Bce e le autorità europee, di fronte alla situazione della Grecia, hanno giustamente deciso di evitare la prima fase della reazione Usa: non hanno cioè lasciato la Grecia in pasto al panico dei mercati. Ma invece di passare ad una ordinata ristrutturazione del suo debito, hanno seguito la via americana, il salvataggio incondizionato, della Grecia e di chiunque si trovasse in seguito in una situazione simile. Questa strategia, pur non avendo funzionato nel medio periodo, negli Stati Uniti ha almeno evitato il peggio nel breve periodo. Questo perché l’intento del Tesoro Usa di salvare il sistema era credibile, cioè il Tesoro aveva le risorse e il potere politico per farlo. In Europa, invece questa strategia era più difficilmente credibile: qualora alla Grecia si fossero aggiunti altri Paesi, le risorse per il salvataggio generale sarebbero mancate, e così la volontà e il potere politico per farlo. Ed ora siamo qui, dopo mesi e mesi di crisi, senza un piano serio per la ristrutturazione ordinata del debito greco, con i mercati che scommettono sulla incapacità delle autorità di resistere, a rischiare un default disordinato e quindi un dopo-Lehman in Europa.

Ma c’è un’altra differenza tra la situazione del 2008 in Usa e quella di oggi in Europa. I mutui verso cui il sistema finanziario americano era esposto erano diventati tossici a causa dello scoppio della bolla finanziaria, contro cui nulla si poteva fare al momento. In Europa, la situazione della finanza pubblica della Grecia è forse irreparabile, ma quella dell’Italia e degli altri Piigs non lo era affatto. È diventata critica a causa delle politiche irresponsabili ed incompetenti di alcuni governi, primo tra tutti quello italiano, che hanno provato a gettare sabbia negli occhi all’Europa e ai mercati alle prime avvisaglie di difficoltà, confidando sulla garanzia europea cui nessuno realmente crede.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9239


Titolo: ALBERTO BISIN - L'evasione brucia anche i talenti
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2011, 09:52:23 am
28/9/2011

L'evasione brucia anche i talenti

ALBERTO BISIN

La questione dell’evasione fiscale in Italia torna periodicamente ad essere centrale nella discussione politica. Si prospettano tuoni e fulmini contro gli evasori, si stimano entrate stratosferiche nelle casse pubbliche come conseguenza di rinnovati sforzi alla lotta all’evasione, e poi nulla succede: gli evasori evadono e i lavoratori dipendenti pagano.

La battaglia all’evasione è ovviamente prima di tutto una battaglia di giustizia, equità, e anche di civiltà, nel senso che è difficile fondare una società civile su una distribuzione così eterogenea del carico fiscale come in Italia. Stime più o meno accurate danno un sommerso in Italia dell’ordine del 26% del Prodotto interno lordo.

Detto questo, compito di un economista è cercare di andare oltre le questioni etiche e se possibile valutare l’impatto di politiche economiche vere o presunte. A questo proposito vari economisti, tra cui io stesso su queste colonne e Michele Boldrin su «Il Fatto», hanno provato a portare l’attenzione del dibattito sul fatto che l’evasione fiscale si colloca, nel nostro Paese, nel contesto di una elevatissima pressione fiscale, e che questo implica che una efficace lotta all’evasione debba essere associata ad una riduzione del carico fiscale per avere effetti positivi sull’economia del Paese. Luca Ricolfi lo ha ben spiegato l’altro ieri, con dovizia di argomentazioni, in un editoriale su queste colonne che ha generato un interessante dibattito.

Conviene sempre dare un’idea della questione di cui si dibatte attraverso i numeri di riferimento. Uno studio, ormai non aggiornatissimo, dell’Agenzia delle entrate stima che le tasse evase corrispondano al 38% delle tasse pagate. La pressione fiscale in Italia nel 2012 sarà di circa il 43% (punto decimale in più o in meno). Un paio di passaggi algebrici implicano quindi che se tutti pagassero le tasse, ceteris paribus, la pressione fiscale raggiungerebbe il 60%. Nessun Paese al mondo, che io sappia, ha una pressione fiscale del genere. La Svezia è al 46%. Non vi è dubbio che gli effetti sulla competitività delle nostre imprese sarebbero notevoli e che notevoli sarebbero anche gli effetti recessivi dovuti al fatto che l’incidenza delle nuove tasse cadrebbe comunque sui consumatori.

Stefano Lepri, ieri su queste colonne, argomenta che gli effetti del recupero dell’evasione sulla competitività delle imprese italiane sarebbero in realtà ridotti perché la lotta all’evasione avverrebbe in modo graduale, perché le imprese che evadono producono beni per il mercato interno e sono protette. Purtroppo questi argomenti non cambiano affatto la questione in modo sostanziale. Se le imprese che evadono sono protette dalla concorrenza internazionale avranno più spazi (potere di mercato) per riversare l’incidenza delle nuove tasse sui consumatori. Non si scappa: o non possono aumentare i prezzi, e quindi falliscono, o possono farlo e quindi pagano in larga parte i consumatori.

Il commento di Lepri però tocca un punto fondamentale: l’evasione è un costo per la struttura produttiva italiana. Questo perché le imprese che evadono il fisco tendono a rifuggere «da tecnologie avanzate, o da una organizzazione aziendale stabile, su vasta scala, con prezzi chiari, perché attirerebbero l’occhio del fisco». Concordo assolutamente. Io aggiungerei anche che l’allocazione dei talenti in Italia è inefficientemente distorta dall’evasione: troppo lavoro autonomo, a tutti i livelli, dai negozianti agli avvocati.

E’ difficile stimare i costi di queste distorsioni, ma sono probabilmente elevatissimi. Esse costituiscono una imprescindibile ragione in favore di una lotta serrata all’evasione (come se le ragioni di giustizia ed equità non fossero sufficienti). E’ importante farlo notare. Allo stesso modo, è fondamentale anche notare che la lotta all’evasione senza una appropriata riduzione del carico fiscale avrebbe costi enormi sul sistema produttivo del Paese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9250


Titolo: ALBERTO BISIN - Le aspettative come motore dell'economia
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2011, 12:14:17 pm
11/10/2011 - LE RAGIONI DEL PREMIO

Le aspettative come motore dell'economia

ALBERTO BISIN

Il premio Nobel per l’economia è stato assegnato quest’anno a Tom Sargent, della New York University, e a Chris Sims, di Princeton.

Tom Sargent è uno dei padri della macroeconomia moderna, assieme a Bob Lucas, Ed Prescott, Neil Wallace e pochi altri. Per macroeconomia moderna si intende quella macroeconomia che deriva il comportamento delle variabili aggregate (inflazione, Pil, etc.) dal comportamento degli individui; e che riconosce che il comportamento degli individui è influenzato in modo fondamentale dalle loro aspettative sull’andamento futuro del sistema economico.

Una vera e propria rivoluzione rispetto alla macro keynesiana della fine degli Anni 70, che va sotto il nome di «aspettative razionali». Il contributo di Sims e Sargent alla rivoluzione è consistito soprattutto nello sviluppo dei metodi econometrici, cioè metodi di statistica economica per studiare empiricamente gli effetti delle politiche economiche in modelli con aspettative razionali. Sargent ha fatto anche molto altro, ma a questi contributi in particolare è stato dato il premio Nobel (Lars Hansen, di Chicago, purtroppo è stato immeritatamente escluso).

Prima di Sargent, Sims e delle aspettative razionali, i rapporti di causa ed effetto in macroeconomia erano semplici da identificare: quello che viene prima causa quello che viene dopo. Ma con le aspettative razionali, quello che viene dopo (meglio, le aspettative su quello che viene dopo) causa quello che viene prima. Le aspettative di investitori, consumatori e imprese riguardo alle politiche monetarie e fiscali future, al tasso di inflazione, e alla dinamica del debito pubblico e del suo finanziamento, hanno effetti immediati su consumi e investimenti e quindi sul tasso di crescita dell’economia.

Sargent e Sims sono stati tra i primi a riconoscere le difficoltà enormi che questo comporta per un economista che voglia misurare, nei dati, gli effetti delle politiche economiche. La questione se una politica fiscale espansiva, ad esempio le migliaia di miliardi di stimolo fiscale messe in cantiere dall’amministrazione Obama, causi una diminuzione del tasso di disoccupazione - e di quale entità - è molto più complessa di quanto non possa apparire a prima vista. E questo proprio perché le aspettative di consumatori e imprese possono giocare un ruolo perverso: attese di tasse e inflazione in seguito ad una politica fiscale finanziata a debito tenderanno ad avere effetti recessivi oggi. E quindi quando si osservi un tasso di disoccupazione ancora elevato dopo una spesa pubblica molto espansiva, come purtroppo accade oggi, cosa possiamo concludere? Che il meccanismo delle aspettative sta frenando gli investimenti e quindi l’economia? O che la crisi sarebbe stata molto più grave senza stimolo? Le poche (e spesso discutibili) risposte a questa domanda sono dovute ai metodi statistici sviluppati da Sargent e Sims. Ma ancora più importante è che le loro analisi ci hanno portato a riconoscere il problema e quindi a provare ad affrontare direttamente le difficoltà.

I lavori di Sargent e Sims sono anche alla base della rivoluzione nella pratica della politica monetaria in tutto il mondo dagli Anni 70 e 80, che ha portato le banche centrali ad operare il più possibile con regole chiare e trasparenti e con obiettivi indipendenti dall’influenza dei governi. Dalla stessa logica economica provengono le critiche, sempre più insistenti di questi tempi, alla incertezza associata alla politica fiscale Usa: come sarà finanziato il rientro dal deficit e dal debito? Con quale composizione di tagli alla spesa e nuove tasse? Con quali nuove tasse? Tutta questa incertezza infatti certamente contribuisce alla riluttanza delle imprese ad investire e delle banche a finanziare gli investimenti, con effetti deleteri potenzialmente importanti sulla crescita economica.

Mi si permettano, per concludere, alcune note personali e certo parziali su Tom Sargent, che è mio collega a NYU. Tom è un intellettuale vero, uno di quelli che potrebbero passare la vita a parlare con banchieri e politici, mentre invece passa il tempo al lavoro e con gli studenti (i suoi studenti si contano a centinaia). Vederlo ai seminari, o alle lezioni di un giovane professore, in ultima fila, col suo cappello da baseball, che prende appunti, incute timore (meglio: terrore) ma anche fiero rispetto per la sua eccezionale curiosità intellettuale. Sentirlo ai consigli di facoltà argomentare senza mai gettare la carta «Io sono Sargent», è grande lezione di umiltà. La mia generazione di economisti gli deve moltissimo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9307


Titolo: ALBERTO BISIN - Gli esodati e la matematica attuariale
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2012, 11:08:35 pm

29
ott
2012

Gli esodati e la matematica attuariale



Ogni tanto e’ utile guardare ai problemi in modo un po’ distaccato, addirittura professorale. Si vedono cose che l’emotivita’ annulla. Vorrei provare a guardare in questo modo alla questione degli esodati. Credo il risultato giustifichi la prova.

Per far questo pero’ e’ necessario un esempio, diciamo cosi’, astratto – che identifica quello che a me pare il punto economici cruciale della questione esodati, tralasciando tutti i dettagli pur importanti.

In buona sostanza, la questione degli esodati creata dalla Riforma Fornero riferisce al trattamento pensionistico differenziato di due tipologie astratte di lavoratori: alla prima (non-esodati) si chiede di andare in pensione piu’ tardi di quanto pianificato con una pensione essenzialmente uguale; alla seconda (esodati) si chiede di attendere piu’ di quanto pianificato per ricevere la pensione, anche in questo caso essenzialmente uguale. (Non e’ proprio cosi’, ma astraggo, come promesso).

Nel primo caso, il lavoratore essenzialmente lavora gratuitamente (perde la pensione ma ha il salario) per un periodo di tempo. Nel secondo caso, il lavoratore esodato non lavora (e non prende salario). In prima approssimazione pero’, il taglio nella pensione dell’esodato e’ essenzialmente lo stesso del non-esodato.

La distinzione fondamentale quindi non e’ in quanto la riforma fiscale colpisce i due lavoratori: il problema e’ che l’esodato, se non avesse risparmi, non avesse accesso ad un lavoro, non avesse accesso a credito da parenti, amici, banche, sistema previdenziale, potrebbe avere problemi a tirare la fine del mese mentre aspetta la pensione.

Che fare quindi? Dare la pensione agli esodati quando l’avevano pianificata e’ certamente possibile ma significa limitare i risparmi di bilancio della riforma (la spesa pensioni in Italia era – ed in parte ancora e’, ma questo e’ un altro discorso – eccessiva; non si poteva fare a meno della riforma – si poteva fare meglio, ma anche questo e’ un altro discorso). Non solo, ma questo significherebbe caricare il costo della riforma Fornero sui non-esodati, non un esempio di equita’. Inoltre molti degli esodati probabilmente troveranno lavoro, avranno risparmi, insomma, non avranno problemi a tirare la fine del mese (o non li avranno piu’ di quanto non li abbiano alcuni non-esodati).

Ma c’e’ un’altra possibilita’ – piu’ corretta e giusta a mio parere. E’ la seguente: dare agli esodati la pensione al momento in cui l’avevano pianificata, in modo che non abbiano problemi a tirare la fine del mese mentre la aspettano; ma dare loro una pensione ridotta in modo attuarialmente neutro (cioe’ in modo che il loro monte pensioni sia lo stesso, a parita’ di altri parametri di quello dei non-esodati). La riduzione sarebbe relativamente piccola: data una pensione di 20.000 Euro l’anno (circa 1.666 Euro al mese), due anni di aggiustamento attuariale al 2%, assumendo una speranza di vita alla pensione di 20 anni, comporterebbero una riduzione di circa 140 Euro al mese (di 120 con un tasso di interesse del 4%).

Concludo e riassumo: la questione degli esodati non e’ che essi sono danneggiati dalla riforma piu’ di chiunque altro – e’ che il danno per loro non e’ ben ripartito nel corso della pensione ma piuttosto concentrato in quegli anni in cui, senza lavoro, aspettano la pensione. La soluzione di questo problema non e’ di ridurre il danno, ma invece di ripartirlo meglio nel corso della pensione.

Alberto Bisin

da - http://liberoscambio.blogautore.repubblica.it/2012/10/29/gli-esodati-e-la-matematica-attuariale/