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Etica e morale
 
Giambattista Vico (1668-1744) è stato uno dei più grandi filosofi italiani di tutti i tempi, eppure è ancora poco conosciuto e apprezzato dal grande pubblico. La sua opera più famosa, “La Scienza Nuova”, è un capolavoro di erudizione, fantasia e intuizione, in cui Vico propone una visione originale e rivoluzionaria della storia, della cultura e della conoscenza umana.

Vico fu il primo a concepire l'idea della pluralità delle culture, cioè il fatto che ogni popolo ha il suo modo di pensare, di esprimersi, di credere, di agire, che non può essere ridotto a una legge universale o a un modello razionale. Questo significa che il suo pensiero è in sé anti-totalitario, perché riconosce il valore e la dignità di ogni forma di vita umana, senza imporre una verità assoluta o una morale superiore.
Vico fu anche colui che vide i limiti del sapere scientifico, che si basa sull'osservazione e sulla misurazione dei fenomeni naturali, ma che non può spiegare il senso e il significato delle opere umane, come la poesia, la religione, il diritto, la politica. Per questo, Vico propose una scienza nuova, basata sul principio che l'uomo può conoscere solo ciò che ha fatto, cioè le sue creazioni culturali, che sono il frutto della sua fantasia e della sua ragione.
Vico fu infine colui che creò l'estetica, l'antropologia, la sociologia, la mitologia, e che anticipò molti concetti e problemi che saranno sviluppati solo secoli dopo da altri filosofi, come Kant, Hegel, Croce, Gentile, Berlin. Per questo, Vico può essere considerato un genio, un profeta, un miracolo della cultura italiana.
A rendere omaggio a questo grande pensatore è Marcello Veneziani, che ha scritto “Vico dei Miracoli”, un libro appassionato e appassionante, in cui racconta la vita e l'opera di Vico seguendo le sue tracce nei luoghi in cui visse e insegnò, a Napoli e a Vatolla, e mettendo in luce le sue intuizioni miracolose, che lo hanno reso un precursore dell'ermeneutica, della filosofia della storia, della critica della modernità.
Veneziani scrive con stile chiaro e coinvolgente, senza rinunciare alla profondità e alla competenza filosofica, e riesce a trasmettere al lettore la sua ammirazione e il suo entusiasmo per Vico, invitandolo a scoprire o a riscoprire un autore che ha molto da insegnarci ancora oggi, in un'epoca di crisi e di confusione dei valori e delle identità.
“Vico dei Miracoli” è un libro che merita di essere letto e diffuso, perché restituisce a Vico il ruolo di grande maestro del pensiero italiano, e perché ci offre una chiave di lettura della nostra storia e della nostra cultura, che non può prescindere dalla ricchezza e dalla diversità delle esperienze umane.
Marcello Veneziani, “Vico dei miracoli”
https://amzn.to/49CNJcp


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Costantino de Blasi
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Allora, spieghiamo all'euronorevole Piernicola Pedicini - Portavoce M5S al Parlamento Europeo e al giornalista Vito Lops che cosa non hanno capito del funzionamento degli interessi sugli acquisti di titoli di Stato e perché quello che sostiene il primo sui social e il secondo su Il Sole è una cazzata.
La BCE effettua da anni acquisti sul mercato secondario dei nostri titoli di debito pubblico. Per effettuare gli acquisti si avvale delle 6 banche centrali che fanno parte dell'eurosistema, quindi anche la Banca d'Italia.
Gli attivi della Banca, fra cui anche gli interessi, concorrono al bilancio d'esercizio. Se il bilancio si chiude in utile vengono distribuiti dividendi, se il bilancio si chiude in passivo NON vengono distribuiti dividendi.
NON è vero che gli interessi sul debito pubblico spettano al Dipartimento del Tesoro. La confusione dei due improvvidi paladini della monetizzazione deriva dal fatto che l'art. 38 dello Statuto della Banca d'Italia prevede che gli utili siano così destinati:
fino al 20% a riserva
fino al 6% ai partecipanti al capitale
fino al 20% a riserva straordinaria
il residuo allo Stato
I 7,87 miliardi del 2019 destinati allo Stato sono reali (per la precisione 7.866.849,566) ma non sono interessi sul debito. Sono il residuo degli utili.
Inoltre la quota detenuta da banca d'Italia su un totale di titoli circolanti di 2.000 miliardi è a fine 2019 il 19,8%, 395 miliardi. Il costo per cassa del debito pubblico è il 2,74%; nel 2019 la spesa per interessi è stata di 60 miliardi. Pur ammettendo di recuperare sempre questi 7,8 miliardi (ma prima o poi arriverà il tapering e quanto distribuito entra in parte nel fondo di ammortamento, in parte nel conto di tesoreria e in altra parte nel bilancio del MEF) resta uno squilibrio che per il 2019 sarebbe stato di 52,2 miliardi. Significa che avremmo un costo per cassa invece che del 2,74% del 2,37%; altro che indebitiamoci a tasso zero grazie alla BCE!
Non solo, con il DEF e il decreto liquidità il fabbisogno di nuove emissioni è stato portato da 83 miliardi a 155 miliardi; se, come probabile, la BCEdovesse riequilibrare gli acquisti in base al capital key, la quota di nuovo debito acquistato in base al PEPP sarà prossimo al 12,31%, circa 18 miliardi. Restano scoperti 130 e passa miliardi.
Infine, anche se il costo del debito MES fosse lo 0,8% (ma è inferiore perché l'onorevole imputa a costo il margine di negoziazione) non sarebbe ancora molto più conveniente di quanto paghiamo su quello orgogliosamente domestico?
Fra il 2015 e il 2019 abbiamo speso per interessi 265 miliardi. Non è il caso di avere polluzioni notturne per un risparmio (presunto) di 35

Da - https://www.calabriapost.net/politica/le-nuove-destre-rampanti-e-gli-sponsor-locali?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR2OHP6NIhnPI1bHYThmJG2TZQUwRl7G30PNR30ZvJyuDb9gVKyC_rX9WoE_aem_AeBw2Qs0bKfSpJ85I68LtKxsAQvfjWLtPg-MwBuwpqHeHBDmWl7ZvyAbF1lR05h36N7Sbk7_YlU3m24gNbkqcZXl

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 inserito:: Oggi alle 11:55:30 am 
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L'allarme di Gratteri sulla 'ndrangheta che sciocca Milano, le parole sfuggite di mano al procuratore antimafia

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da -  https://www.ilriformista.it/allarme-gratteri-ndrangheta-sciocca-milano-parole-sfuggite-mano-procuratore-antimafia-423903/

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 inserito:: Giugno 02, 2024, 07:07:02 pm 
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Alfonsina Strada
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Alfonsina Strada
   
Ciclismo
Specialità   Strada
Termine carriera   1936
 
Alfonsa Rosa Maria Morini nota con il nome da coniugata Alfonsina Strada (Castelfranco Emilia, 16 marzo 1891 – Milano, 13 settembre 1959) è stata una ciclista su strada italiana, prima donna a competere in gare maschili come il Giro di Lombardia e il Giro d'Italia[1]; è ritenuta tra le pioniere della parificazione tra sport maschile e femminile[2][3]. È stata professionista dal 1907 al 1936.

Biografia
Le origini e l'avvicinamento alla bicicletta
Alfonsina Strada negli anni '20

Alfonsa Morini,[4] battezzata Alfonsa Rosa Maria, era la seconda dei dieci tra figlie e figli di Carlo Morini e di Virginia Marchesini, coppia di braccianti analfabeti che lavoravano nelle campagne emiliane[5]. Il padre, all'epoca trentunenne, era originario di San Cesario sul Panaro e lavorava a Castelfranco Emilia da circa tre anni[6]; sua madre, invece, nativa di Riolo (una frazione di Castelfranco Emilia), era di dieci anni più giovane del marito; la prima figlia della coppia, Emma, era nata due anni prima di Alfonsina e un anno prima del loro matrimonio[6].

Nonostante l'indigenza della famiglia Morini e l'ambiente insalubre, a causa di malattie quali tifo, tubercolosi e pellagra, la famiglia si prestò ad allevare anche bambini e bambine abbandonati provenienti dagli orfanotrofi del vicinato, ricevendo per tale servizio un utile sussidio economico[7]. Dopo la nascita del terzo figlio della coppia, nel 1895, la famiglia Morini riconsegnò i bambini in affido alla loro istituzione di provenienza e si trasferì a Castenaso, nei pressi di Bologna, dove i successivi sette tra figlie e figli videro la luce[8].

La prima bicicletta entrò in casa nel 1901 (secondo altre fonti nel 1897) per iniziativa del padre Carlo Morini, che acquistò dal medico del paese[9] un mezzo al limite della rottamazione, ma ancora funzionante[10]; sua figlia Alfonsina imparò a pedalare su tale veicolo[10]; la scoperta della bicicletta fu una vera e propria passione[11] e, prima di aver compiuto 14 anni, la giovane aveva già trovato il modo di partecipare a diverse gare[10] di nascosto dalla madre e dal padre, ai quali mentiva dicendo di recarsi alla Messa domenicale[10]. Secondo alcune fonti, alla sua prima gara disputata a Reggio Emilia, vinse un maiale vivo.[12]

Sua madre, scoperto il fatto, le disse che per continuare a correre avrebbe dovuto sposarsi e andare via di casa. A ventiquattro anni, il 26 ottobre 1915 sposò a Milano Luigi Strada,[4] meccanico e cesellatore, che si rivelò il suo primo sostenitore e manager.[10] Come regalo di nozze chiese e ottenne una bicicletta da corsa.[10]
Le prime gare

Nel 1907, sedicenne, andò a Torino, città nella quale il ciclismo si era radicato (qui era stata fondata l'Unione velocipedistica italiana) e dove le donne su due ruote non erano motivo di particolare scandalo[13]. Nell'ex capitale del Regno cominciò a gareggiare, battendo anche la famosa Giuseppina Carignano e guadagnandosi il titolo di «miglior ciclista italiana16], superando quello stabilito otto anni prima dalla francese Louise Roger[17].

Nel 1912 la notò Fabio Orlandini, corrispondente della Gazzetta dello Sport da Parigi, che la raccomandò ad alcuni impresari francesi affinché la mettessero sotto contratto per le gare su pista nella capitale.[16][18] Così, nei due anni seguenti, l'italiana ottenne numerosi successi correndo nel Vélodrome Buffalo, nel Vélodrome d'Hiver e al Parco dei Principi, vedendo incrementare notevolmente la propria popolarità.[19]
Il Giro di Lombardia

Nel 1917, in piena Grande Guerra, Alfonsina si presentò alla redazione della Gazzetta, il quotidiano organizzatore, per chiedere di iscriversi al Giro di Lombardia. Nessun regolamento glielo impediva ― essendo tra l'altro tesserata come dilettante di seconda categoria ― e così Armando Cougnet, patron delle corse, accettò l'iscrizione[20]; era la prima volta che l'emiliana partecipava a una corsa su strada sfidando atleti di sesso maschile[21]. Prese dunque il via il 4 novembre 1917 a Milano insieme agli altri 43 ciclisti in gara[22], tra cui Gaetano Belloni, Philippe Thys, Costante Girardengo, più volte complimentatosi con lei, ed Henri Pélissier[23]. L'arrivo era sempre a Milano, al parco Trotter, dopo che la corsa aveva toccato Varese, Como, Lecco e Monza nel corso dei suoi 204 chilometri; a imporsi fu il belga Thys davanti a Pélissier; Belloni giunse sesto, Girardengo decimo; Alfonsina Morini fu l'ultima tra coloro che avevano completato il tragitto, a un'ora e mezza dal vincitore ed insieme ad altri due ciclisti, Sigbaldi e Aug22].

La presenza di Alfonsina Morini Strada in tale gara fu considerata una bizzarria che suscitò commenti pungenti[22] ma, nonostante ciò, la ciclista si iscrisse all'edizione 1918 della Milano-Modena, dovendo tuttavia ritirarsi quasi subito a causa di una caduta[22]; a novembre dello stesso anno si riscrisse al Lombardia: di quarantanove iscritti solo trentasei si presentarono ai nastri di partenza[18]; durante la corsa vi furono quattordici abbandoni; la vittoria fu appannaggio di Belloni, mentre Alfonsina giunse ventunesima a 23 minuti, superando allo sprint il comasco Carlo Colombo, relegato così all'ultimo posto tra coloro che avevano terminato la gara[18]. L'obiettivo della «regina della pedivella», questo uno dei suoi soprannomi, era divenuto quello di partecipare al Giro d'Italia[18].
Il Giro d'Italia 1924
Alfonsina Strada partecipò al Giro d'Italia 1924 con una divisa nera e il numero 72

«Vi farò vedere io se le donne non sanno stare in bicicletta come gli uomini»

(Alfonsina Strada[25])

Nel 1924 il marito Luigi venne ricoverato al manicomio di San Colombano al Lambro, da cui non uscirà più fino alla morte dopo venti anni di malattia; dovendo mantenere la famiglia e non essendo sufficiente la paga di 6 lire al giorno guadagnate con il lavoro da sarta, Alfonsina decise di iscriversi alla più importante gara ciclistica nazionale.[26]

Dopo aver preso parte ai due Giri di Lombardia[27], nel 1924, tra mille polemiche, Emilio Colombo e Armando Cougnet, rispettivamente direttore e amministratore della Gazzetta dello Sport, le permisero di iscriversi al Giro d'Italia di quell'anno[28]. Fu quella probabilmente una scelta di puro carattere promozionale: per partecipare le squadre più prestigiose avevano infatti chiesto delle ricompense in denaro, e al secco no degli organizzatori avevano deciso di disertare la corsa[29]. Mancavano così campioni come Girardengo, Brunero, Bottecchia; gli atleti dovevano peraltro iscriversi a titolo individuale[29] e la corsa rischiava di passare inosservata[30]. Relativamente alla presenza di Alfonsina Morini Strada molti erano tuttavia i contrari in seno allo stesso gruppo di organizzatori: si temeva infatti che il Giro potesse risultare una vera e propria "pagliacciata"[31].

E così, nei giorni precedenti al via il suo nome non apparve nell'elenco dei partecipanti[31]. A tre giorni dalla partenza, però, il suo nome comparve sulla Gazzetta dello Sport come "Alfonsin Strada di Milano"; non si sa se la "a" mancante fosse dovuta a un errore o a una precisa volontà, fatto sta però che un altro quotidiano, il Resto del Carlino di Bologna, andò a riportare il nome "Alfonsino Strada"[27]. Solo alla partenza gli organizzatori chiarirono che il partecipante era Alfonsina Morini Strada, e la stessa Gazzetta si astenne da articoli particolarmente vistosi[27]. In breve la notizia si diffuse in tutta Italia, creando curiosità, sospetto, approvazione e scherno[32].

Il tracciato del Giro 1924 attraversava la penisola per 3.613 chilometri; 12 erano le tappe, intervallate da 11 giorni di riposo, 108 gli iscritti, solo novanta dei quali al via[33]. Alfonsina partì da Milano con il numero 72 cucito su una divisa nera.[34] Per Alfonsina Morini Strada era molto difficoltoso reggere il passo dei colleghi maschi, ma ogni volta riuscì a tagliare il traguardo di tappa, la maggior parte delle volte con alcune ore di ritardo[32], ma sempre accolta da fiori, donazioni in denaro, bande musicali e striscioni di incoraggiamento;[34] peraltro si fermava sovente a distribuire cartoline autografate ai tifosi[35].

Nella prima tappa, da Milano a Genova (300,3 Km), Alfonsina giunge con 2 ore e 28 minuti di ritardo, suscitando curiosità, meraviglia e anche ammirazione anche da parte del pubblico femminile.[36] Arrivò 56º al traguardo di Firenze della seconda tappa (307,9 km), con oltre 2 ore di ritardo dal vincitore, ma con l'ovazione degli spettatori del velodromo cittadino, che le offrirono un mazzo di rose rosse.

«In sole due tappe la popolarità di questa donnina si è fatta più grande di quella di tutti i campioni assenti messi insieme. Lungo tutto il percorso della Genova-Firenze non si è sentito che chiedere: – C’è Alfonsina? Viene? Passa? Arriva? A mortificazione dei valorosi che si contendono la vittoria finale, è proprio così. È inutile, tira più un capello di donna che cento pedalate di Girardengo e di Brunero. […] D'altronde a quale scopo, per quale vanità sforzarsi d'arrivare un paio d'ore prima? Alfonsina non contende la palma a nessuno, vuole solo dimostrare che anche il sesso debole può compiere quello che compie il sesso forte. Che sia un'avanguardista del femminismo che dà prova della sua capacità di reclamare più forte il diritto al voto amministrativo e politico?»

(Silvio Zambaldi, "La Gazzetta dello Sport", 14 maggio 1924[37])
Alfonsina Strada sui rulli in un'immagine pubblicitaria d'epoca

Nella terza tappa (Firenze-Roma di 284,4 km) tagliò il traguardo due ore e mezza dopo il vincitore, ma fu di nuovo accolta in trionfo: le regalarono un paio di orecchini e una nuova divisa da ciclista.[38] Un ufficiale a cavallo, inviato da re Vittorio Emanuele III, le consegnò un mazzo di rose e una busta contenente 5.000 lire.[39] Nella tappa successiva (Roma-Napoli) arrivò 56º con 2 ore e 21 minuti di ritardo, portata in trionfo con striscioni che inneggiavano alla "Regina del Giro". Alla fine della tappa Potenza-Taranto di 265 km (47º con 3 ore di ritardo), Alfonsina Strada era penultima in classifica davanti a Fumagalli. Giunse ultima per la prima volta nella tappa Taranto-Foggia, ma nel frattempo erano state avviate raccolte di fondi in suo favore. Alfonsina riuscì a chiudere, dopo 15 ore, anche la durissima tappa Foggia-L'Aquila, al termine della quale Emilio Colombo le consegnò una busta con 500 lire ricevute dai lettori della Gazzetta della Sport; tale somma venne subito spedita da Alfonsina, tramite vaglia telegrafico, per pagare le rette del manicomio in cui era ricoverato il marito e del collegio che ospitava la nipote.

Giunse fuori tempo massimo (quattro ore dopo il vincitore) durante l'ottava tappa L'Aquila-Perugia: inizialmente, alcuni membri della giuria (tra cui lo stesso Colombo) non vollero estrometterla dalla corsa, considerando anche il tanto tempo da lei perso per forature e cadute, in una delle quali ruppe il manubrio, che venne riparato con un manico di scopa e dello spago. Ma in seguito si optò per una linea dura: Alfonsina Morini Strada fu esclusa dalla classifica del Giro, una decisione probabilmente influenzata dal clima che si respirava all'epoca, quando la parità tra uomo e donna era ben lontana dall'essere raggiunta, e mal si tollerava una donna che non solo sfidava apertamente gli uomini, ma riusciva addirittura a batterne alcuni. Si decise comunque per una situazione di compromesso, già adottata il giorno precedente con i ciclisti Aperlo e Cividini: Alfonsina poteva prendere parte a tutte le restanti tappe, ma i suoi tempi non sarebbero stati conteggiati ai fini della classifica. Ormai fuori della corsa ufficiale, Alfonsina continuò ugualmente verso la successiva tappa di Bologna, con condizioni meteorologiche proibitive: sprovvista persino di impermeabile e cappello (dopo l'ennesima caduta rovinosa, dovette indossare dei bragoni da contadino) riuscì ad arrivare nella città emiliana, accolta dalla folla in tripudio. La lunghissima tappa Bologna-Fiume (415 km) impegnò Alfonsina sui pedali per ben 21 ore consecutive, e alla fine anche i giornalisti più irriverenti dovettero riconoscere la tenacia ed il coraggio della ciclista emiliana.

«Sono una donna, è vero. E può darsi che non sia molto estetica e graziosa una donna che corre in bicicletta. Vede come sono ridotta? Non sono mai stata bella; ora sono... un mostro. Ma che dovevo fare? La puttana? Ho un marito al manicomio che devo aiutare; ho una bimba al collegio che mi costa 10 lire al giorno. Ad Aquila avevo raggranellato 500 lire che spedii subito e che mi servirono per mettere a posto tante cose. Ho le gambe buone, i pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo. Non sono pentita. Ho avuto delle amarezze, qualcuno mi ha schernita; ma io sono soddisfatta e so di avere fatto bene.»

(Alfonsina Strada, intervista al Guerin Sportivo.[40])

Dei novanta ciclisti partiti da Milano all'inizio del Giro, solo in trenta completarono la corsa, e così, fra essi, figurò Alfonsina Morini Strada.[35]

Il maschilismo imperante le impedì di partecipare al Giro negli anni successivi, ma la ciclista emiliana si tolse lo stesso delle soddisfazioni: vinse ben 36 corse[41] contro colleghi maschi e conquistò la stima di numerosi campioni del ciclismo, tra cui Costante Girardengo.
Fine della carriera
Alfonsina Strada esce dal suo negozio milanese di via Varesina, 80 (Milano, 14 novembre 1951)

Dopo l'edizione del 1924, gli organizzatori del Giro d'Italia negarono l'iscrizione ad Alfonsina Strada, la quale tuttavia percorse ugualmente le strade della più famosa gara a tappe italiana, conquistandosi amicizia, stima ed ammirazione di famosi colleghi ciclisti come Cougnet, Giardini, Emilio Colombo, Cattaneo, Lattuarda, Girardengo, oltre che dei giornalisti. Sfruttando la propria fama, partecipò a diversi varietà sia in Italia sia all'estero, esibendo le proprie abilità anche nei circhi, pedalando sui rulli. Si recò in tournée anche in Spagna, Francia e Lussemburgo.[42]

Ingaggiata dal club Montmartre Sportif all'età di 43 anni, partecipò il 16 settembre 1934 al primo campionato del mondo femminile (non ufficiale), disputato al parco Josaphat di Schaarbeek (Bruxelles) e vinto dalla belga Elvire De Bruyn, davanti a De Brock e all'olandese De Bree. Alla fine dei 40 giri su un circuito di 2.500 metri, Alfonsina chiuse al quindicesimo posto.[43]

Nel 1937 riuscì a battere a Parigi la campionessa francese Robin. Nel 1938 conquistò a Longchamp il record dell'ora femminile non ufficiale[44] con 35,28 km.[42]

Rimasta vedova, si risposò a Milano il 9 dicembre 1950 con Carlo Messori, ex ciclista sessantanovenne con qualche successo prima della Grande guerra,[43] con cui aprì un negozio di biciclette con annessa officina. Il marito si propose di scriverne la biografia, ma morì nel 1957, senza riuscire a completare l'opera. Alfonsina, non sentendosela di gestire da sola il negozio di biciclette aperto insieme al secondo marito, lo chiuse.[42]

Il 13 settembre 1959, dopo aver assistito alla gara classica d'autunno delle Tre Valli Varesine, morì d'infarto all'età di 68 anni dopo essere rientrata a Milano, mentre tentava di riavviare la sua moto Guzzi 500.[42]


Nella cultura di massa

«Ma dove vai bellezza in bicicletta,
così di fretta pedalando con ardor?
Le gambe snelle tornite e belle
m'hanno già messo la passione dentro al cuor!»

Ispirandosi alle gesta di Alfonsina Strada, Giovanni D'Avanzi e Marcello Marchesi composero la canzone Bellezze in bicicletta,[45] interpretata da Silvana Pampanini e Delia Scala nell'omonimo film (1950).

Il racconto Storia della corridora e del suo innamorato, incluso da Gianni Celati nel suo Narratori delle pianure (Feltrinelli, 1985), è ispirato alla sua figura.

Nel 2004 è stato pubblicato il libro scritto da Paolo Facchinetti Gli anni ruggenti di Alfonsina Strada - Il romanzo dell'unica donna che ha corso il Giro d'Italia assieme agli uomini (Edicicloeditore). Al libro è ispirata la sceneggiatura cinematografica affidata alla scrittura di Agostino Ferrente e Andrea Satta, voce solista del gruppo Têtes de Bois, che il 20 aprile 2010 hanno pubblicato il concept album Goodbike (Ala Bianca Records), tutto dedicato al tema del ciclismo: tra le canzoni, quella che ha avuto più successo è stata Alfonsina e la bici. Ne è stato tratto un videoclip interpretato dall'astrofisica Margherita Hack e diretto da Agostino Ferrente.[46]

Al Museo del paracarro di Pergine Valsugana (nella Valle dei Mocheni, a circa 20 km da Trento) c'è un grosso paracarro rosa dedicato a lei.

Nel 2010 ha debuttato lo spettacolo teatrale dal titolo Finisce per A. Soliloquio tra Alfonsina Strada, unica donna al Giro d'Italia del 1924, e Gesù (nella raccolta Anima e carne, Edizioni Fernandel) scritto da Eugenio Sideri, interpretato da Patrizia Bollini, con la regia di Gabriele Tesauri. Lo spettacolo è stato rappresentato in numerose città italiane e anche all'estero (a Londra, in occasione delle Olimpiadi 2012 e all'Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles). Nel 2014, in occasione dei 90 anni dal Giro di Alfonsina, lo spettacolo è stato rappresentato a Collecchio e Lugo, tappe del 97º Giro d'Italia.[47]

Il 23 aprile 2016 è stata inaugurata la nuova palestra comunale di via Murri ad Alfonsine (provincia di Ravenna), dedicata ad Alfonsina Strada.[48]

Nel 2017 Stefano Massini ha scritto Un quaderno rosa racconto basato sulla storia di Alfonsina Strada[49].

A Milano, l'11 luglio 2017 è stata dedicata ad Alfonsina Strada una via in zona Lorenteggio, vicino al confine con il comune di Corsico[50][51].

A Ripa, frazione di Perugia, il 18 Maggio 2021, giorno di riposo del 104º Giro d'Italia che il giorno dopo sarebbe ripartito da Perugia, è stata intitolata una via ad Alfonsina e una a Coppi.

Anche a Cervia (provincia di Ravenna) una pista ciclabile che attraversa la celebre pineta è stata dedicata ad Alfonsina Strada.[52]

Nell'agosto del 2021 debutta "Perdifiato - l'incredibile vita di Alfonsina Strada", scritto e interpretato dell'attore e drammaturgo Michele Vargiu e diretto dalla regista Laura Garau. Lo spettacolo, dedicato alla vita della ciclista, è attualmente in tournée nazionale.

La salita più impegnativa del Giro d'Italia Women 2024 è stata denominata "Cima Alfonsina Strada".[53]

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 inserito:: Giugno 02, 2024, 06:39:34 pm 
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Quando si tratterà di dare forma alla O.P.O.N. occorrerà rendere chiare, appunto alla Opinione Pubblica, le intenzioni dell'Organizzazione circa le aree di interesse, di cui si dovranno stabilire regole e motivazioni nelle differenti operatività.

La Qualità della Vita dei Cittadini Italiani dovrà essere una priorità da studiare e progettare, da subito.

ggiannig

P.S.: se non si raggiungono le 30 persone interessate ad iniziare il Progetto, non se ne farà nulla.

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 inserito:: Giugno 02, 2024, 06:06:47 pm 
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Calabria da raccontare - «Mi dicevano che lì sarei morto, invece ho trovato un centro di eccellenza»: dall’ospedale di Polistena storie di buona sanità

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https://www.lacnews24.it/sanit/ospedale-polistena-storia-buona-sanita-lettera-paziente-chirurgia_190927/

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 inserito:: Giugno 01, 2024, 06:56:52 pm 
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ELEZIONI EUROPEE 2024 - Candidati italiani e loro programmi.

https://tg24.sky.it/politica/approfondimenti/candidati-elezioni-europee?social=facebook_skytg24_sharebutton_null&share_id=79f2b35c-7074-4101-9969-37b02a8bff70&fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR3BS2vhIEP1lK7bN-IP9hZjoLn-PC7FUpQ2wxg0hrTyqIsmicH_X3qELqM_aem_AU6C1hpz2SokEsh-YGlFJBZMuj_dWp7mOQIY0IepTO-AgR1u9nq-zRyEE2_i7E7WEgte3dUEIoPywGURit6GlB5r

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 inserito:: Giugno 01, 2024, 06:00:12 pm 
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I limiti della libertà d’espressione: una prospettiva giuridica

by Domenico Birardi18/09/2023

Oggi la libertà d’espressione non ha un solo limite, ma una molteplicità di limiti. Sono molti gli esempi contemporanei che lo dimostrano: la fatwa nei confronti di Salman Rusdhie dopo la pubblicazione de “I versi satanici“; la vicenda WikiLeaks e l’arresto di Julian Assange dopo la pubblicazione dei documenti che accertavano le nefandezze compiute dagli USA in Iraq; la fuga da Napoli di Roberto Saviano dopo la pubblicazione di “Gomorra“; e, da ultimo, i fatti svedesi e la denuncia per incitamento all’odio indirizzata a Salwan Momika dopo l’incendio del Corano. Sono certamente casi diversi per natura, caratteristiche e contesti, ma uniti da un unico fil rouge: la censura della libertà d’espressione da parte di un potere costituito.
Su queste pagine ha sollevato un importante interrogativo Simone Conversano: «esistono dei criteri rigorosi per delimitare universalmente e ragionevolmente certe libertà?». Questi limiti possono (e devono) essere individuati attraverso un’analisi etico-normativa che abbia la particolare premura di individuare le libertà e i diritti riconosciuti in un dato ordinamento costituito nella loro condizione d’insieme, sistematica. Il criterio che deve orientare le analisi di questo tipo non può essere quello astratto dell’etica, bensì quello pragmatico della sostenibilità dell’ordinamento e della effettività del diritto. In altri termini, è più che mai utile lavorare sulla politica del diritto e individuare i perimetri di operabilità della libertà d’espressione nello scenario a cui si fa riferimento.

La libertà d’espressione in Svezia
Venendo al caso specifico trattato da Conversano, si può incominciare col dire che la Svezia è uno dei Paesi in cui la libertà d’espressione viene tutelata con maggiore attenzione. La classifica presente nel rapporto del 2023 curato da Reporter Senza Frontiere indica come la condizione di libertà d’espressione della stampa italiana (41° posto su 180) sia lontana anni luce dalla condizione svedese (3° posto). La costituzione svedese, facente parte delle cosiddette “costituzioni nordiche”, ha una supremazia sulla legge ordinaria approvata dal Parlamento (Riksdag), e riconosce in maniera più che garantista la libertà d’espressione, tanto da dedicare alla materia una delle quattro leggi fondamentali [1].
La legge fondamentale sulla libertà d’espressione, emanata nel 1991 e poi emendata nel 2002, definisce la libertà di espressione relativamente a tutti i media, contenendo disposizioni sulla libera diffusione di informazioni, nonché sul divieto di censura. Eloquenti, a questo riguardo, sono le norme contenute nel secondo comma della Sezione prima, Capitolo primo:
Lo scopo della libertà di espressione secondo questa Costituzione è quello di garantire un libero scambio di idee, un’informazione libera ed esauriente e una libera creazione artistica. In esso non possono essere previste altre restrizioni oltre a quelle che derivano da questa Costituzione [2].

E ancora il criterio interpretativo contenuto nella Sezione quinta:
Chiunque debba giudicare l’abuso della libertà di espressione o comunque monitorare il rispetto di questa Costituzione dovrebbe considerare che la libertà di espressione è il fondamento di una società libera. Dovrebbe sempre prestare attenzione allo scopo più che al metodo di presentazione. Se ha dei dubbi, dovrebbe preferire proporre piuttosto che intrappolare.
Sebbene la libertà d’espressione rappresenti uno dei pilastri della cultura giuridica svedese, anche la Legge fondamentale che la riconosce ne dispone dei limiti. Sono legittimi, ad esempio, gli «interventi contro la continuazione della trasmissione di programmi che mirano a rappresentazioni di violenza, immagini pornografiche o incitamento contro gruppi etnici». Seguono poi limitazioni relative a programmi che violino la concorrenza, o che non permettano accessibilità alle persone con disabilità funzionali, o ancora che non garantiscano un’influenza degli spettatori sulla scelta dei programmi. Come è facile riscontrare, nemmeno nella costituzione svedese la libertà d’espressione è assoluta: essa in realtà soggetta a delle limitazioni di vario genere. E la ragione è presto detta: anche se la libertà d’espressione viene considerata un diritto fondamentale universalmente, essa non opera in solitudine all’interno dell’ordinamento giuridico, e deve confrontarsi con altre pretese di libertà (o di diritto) che potrebbero essere lese da un suo dispiegamento assoluto e irrefrenabile.

Le vere ragioni alla base della questione svedese
Ma siamo davvero certi che le azioni compiute dalle autorità svedesi a seguito della manifestazione di Salwan Momika avessero l’obbiettivo di salvaguardare l’esercizio di altre libertà?
La bestemmia, che sia pronunciata in uno Stato laico o in uno Stato teocratico, non lede la libertà di religione, piuttosto lede l’integrità del potere religioso, lo vilipende. A seconda dei principi fondamentali dell’ordinamento, la bestemmia può essere riconosciuta come una declinazione della libertà d’espressione, e perciò difesa e protetta, oppure come un vilipendio alla religione (di solito di Stato). Anche il codice penale italiano prevedeva il reato di vilipendio della religione di Stato (oggi non più in vigore), ma questo nulla aveva a che vedere con la libertà religiosa.
D’altronde non tutte le pretese avanzate possono essere considerate degne di tutela. Nei limiti della ragionevolezza è bene considerare, secondo un criterio etico-normativo, che ci sono pretese che possono trovare cittadinanza nel nostro ordinamento e altre che devono rimanerne fuori. La razionalità astratta del principio di non aggressione (NAP), propugnata da Rothbard e Nozick e richiamata da Conversano, si dimostra evidentemente inadeguata ad un’applicazione pratica. La ragione principale è una: bisogna prima individuare un metodo e una gerarchia che stabilisca quali rivendicazioni possano essere legittime e quali no. Altrimenti si rischia una parossistica entropia in cui tutte le libertà si annullano a vicenda, lasciando spazio solo all’esercizio di un potere normativo piatto e paralizzato. Servono cioè dei principi fondamentali, di portata generale, che definiscano una eticità di base, aprioristica e non contestabile (i diritti umani ne sono un esempio), e una procedura che permetta di limitare il numero delle rivendicazioni legittime (il principio democratico, ad esempio).
L’integrità del potere religioso in un ordinamento tendenzialmente laico come quello svedese non può evidentemente trovare cittadinanza. E quindi la bestemmia diventa un atto non penalmente rilevante, né sanzionabile in altri modi. La bestemmia in Svezia è quindi una libertà e come tale non può essere ostacolata, salvo i casi previsti dalla Costituzione.

Se non è per tutelare la libertà religiosa, perché allora una parte della popolazione svedese, Governo compreso, si dimostra contraria ad un atto legittimo? Le ragioni sono da ritrovare nello scenario geopolitico contemporaneo, nel tentativo della Svezia di entrare a far parte della NATO e, soprattutto, nel veto posto dalla Turchia. In altri versi, le ragioni che portano al tentativo di censurare gli atti di Salwan Momika attengono alla ragion di Stato machiavellica, evidentemente indirizzata a salvaguardare la sicurezza svedese attraverso l’ingresso nella NATO.

L’irriducibile discrezionalità del potere
Il potere svedese quindi opera una certa (apparente) forzatura della Costituzione, al fine di garantire la riuscita di strategie governative ritenute necessarie a salvaguardare la sicurezza del Paese. Se in termini etico-analitici questo può sembrare riprovevole e illiberale, nella pratica gestione politica dello Stato diventa indispensabile. Esempi di una prassi analoga possono essere riscontrati nelle misure applicate durante la pandemia da COVID-19 o nelle norme previste per tutelare il segreto di Stato. E sono tutte norme volte a garantire (ad eccezione del caso WikiLeaks) interessi ritenuti maggiormente meritevoli di tutela (salute pubblica, equilibri internazionali, interessi economici strategici, eccetera).

In conclusione, si potrebbe affermare che è essenziale che tutte le libertà, comprese quelle fondamentali, siano relative (e che non lo sia solo la questione etica dei limiti da porre alla libertà d’espressione), perché l’assoluto può esistere solo nella religione, nel comunismo e nel wokeismo. La relatività di  tutti i principi non equivale alla loro discutibilità, bensì alla flessibilità che ogni norma deve avere al momento della applicazione in una realtà complessa. Tutte le norme devono, per esser tali, tendere all’effettività, e nella gerarchia delle fonti il fine ultimo è quello di mantenere effettiva la costituzione (Grundnorm) – nel caso svedese la tutela dell’ordine costituzionale, possibile solo attraverso la sicurezza pubblica. Questa regola di base porta gli anticorpi dell’ordinamento (giudici costituzionali e governo) ad agire quando le complessità del reale pongano delle difficoltà alla operabilità del diritto.
Ogni potere, si chiami Repubblica islamica dell’Iran, Stati Uniti d’America, Camorra o Regno di Svezia, ha l’unico obbiettivo di preservare se stesso, su questo c’è poco da fare. Certo è che quando questo potere è liberale, democratico e garante della giustizia sociale, preservando se stesso preserva anche gli interessi della sua popolazione. Per farlo, però, necessita di un’irriducibile nucleo di discrezionalità che gli permetta d’operare, o meglio di rendere operabile il diritto, anche se questo espone il rispetto dei diritti individuali ad alcuni rischi. Questo è necessario, altrimenti le democrazie liberali sarebbero come dei fragilissimi vasi di porcellana: d’una bellezza invidiabile, ma incapaci di resistere al tempo e ai suoi strattoni.

[1] La Sveriges grundlagar è una costituzione pluritestuale, cioè formata da più atti normativi (Leggi fondamentali): il Successionsordningen (Atto di successione), il Tryckfrihetsförordningen (Legge fondamentale sulla libertà di stampa), il Regeringsformen (Strumento di governo) e Yttrandefrihetsgrundlagen (Legge fondamentale sulla libertà d’espressione).

[2] La costituzione svedese impedisce così che il Riksdag possa approvare delle norme che disciplinino la libertà d’espressione; l’unica procedure concessa per l’introduzione di nuove norme è la revisione costituzionale.

Da - https://www.immoderati.it/i-limiti-della-liberta-despressione-una-prospettiva-giuridica/?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTEAAR3xG4C97e81bUd1zaq1wct5azv1douWBYTpslYkJX2zFYbg8gQqgZDkvgg_aem_AT6J2PzPchnKA1jClMtyUgnT3F8kG8uRsz9xnegWfHmyiqS6Dru1Fz-DmkvSB3a45TWL7DpjQ9yJ_RGIayctt-iF

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 inserito:: Giugno 01, 2024, 12:40:33 am 
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Gianni Gavioli
Amministratore

Nel treno delle Culture Occidentali, sul fondo di uno dei tantissimi vagoni, accasciati quasi tutti da problemi di sopravvivenza ricca di creatività, viaggiano immaginando lunghe distanze e librerie piene delle loro creazioni, nate e vissute "secondo senso e non secondo ragione, a guisa di pargoli" (Dante) gli editori e i loro libri stampati.

Pensano di viaggiare, questi Seminatori di Cultura Indipendenti, quindi liberi e piccoli dal punto di vista economico, come si addice a Imprenditori delle periferie, lontane dalle serre super dotate e attrezzate, dove fetono le raccomandazioni dei centri di potere.
Lo pensano, dal loro primo libro, di viaggiare grazie e per, i loro libri prodotti e poco venduti, ma in realtà sono fermi da sempre.

Io penso che se l'Olivo Policonico si farà, una delle prime cose di cui ci si dovrà occupare, sarà ridare alla Cultura più dello spazio che Interessi di bassissimo livello etico, sociale e politico hanno falcidiato.

Gli Editori Indipendenti e i loro Autori saranno tra i primi, su quel treno del rinnovamento, a dover essere aiutati a s . . . salire.
ggiannig

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 inserito:: Maggio 30, 2024, 05:28:17 pm 
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Clelia Vanna Buonaiuto

Si, i luoghi, le persone, ci riconosciamo tutti in quei giorni terribili, vissuti come in un incubo. Al Comune fummo tutti precettati, da subito. Io non ho fatto ritorno a casa se non dopo più di un mese, solo per fare una doccia. Sono stata notte e giorno presso il centro di accoglienza dove arrivavano le persone per essere assistite in qualsiasi modo, molti arrivavano seminudi e senza neanche le scarpe, alcuni venivano trasportati con le jeep dei soldati, altri da elicotteri che per giorni lavorarono per recuperare i sopravvissuti. Ogni giorno, insieme con i soldati andavo a portare l'acqua ai volontari, arrivati da tutta l'Europa, che scavavano anche con le mani pur di fare presto. Erano passati tre anni da quando avevo redatto il Piano di Protezione Civile e, come una nuova Cassandra si avverò tutto, le frane si verificarono negli stessi punti descritti nel Piano, con tutte le peggiori conseguenze per le vittime e i sopravvissuti. Ma nessuno avrebbe potuto immaginare tanto, nessun giudice può addossare colpe di fronte a fenomeni del genere, che stranamente, dopo si verificarono in
più parti del mondo. Sarno diventò un esempio, un apripista per cominciare a parlare più fortemente della tutela dell'ambiente e della terra. Sono passati 26 anni e io ancora non riesco ad addormentarmi senza pensare a quei pianti ininterrotti delle persone colpite e dalle perdite subite. Ma il tempo è il nostro nemico, molti, loro malgrado, hanno dovuto superare tutto l'orrore e il dolore. Ma io credo, anzi sono sicura, che nessuno ha dimenticato.

da FB - 5 maggio 1998 le frane a Sarno.

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