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Autore Discussione: Franco VENTURINI  (Letto 30550 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Novembre 21, 2010, 11:54:50 am »

SICUREZZA E NUOVI EQUILIBRI MONDIALI

La rincorsa della Nato

   
Obama dice che dal vertice di Lisbona la Nato uscirà «rivitalizzata», ma quello che l’Alleanza sta inseguendo è un mondo già troppo cambiato. I soci atlantici hanno deciso ieri che lo scudo anti-missile diventerà una impresa comune e proteggerà tanto l’America quanto l’Europa, e oggi tenderanno la mano alla Russia proponendole di salire a bordo. Ma prima di conoscere la risposta di Mosca gli alleati hanno dovuto fare i conti (e il braccio di ferro continuerà ben oltre Lisbona) con uno di loro: la Turchia, che assieme ad altre condizioni ha posto quella di non identificare l’Iran come la fonte della minaccia dalla quale ci si vuole difendere. Al tavolo della Nato, insomma, Ahmadinejad ha fatto la figura di convitato di pietra.

I soci atlantici hanno anche deciso di avviare prossimamente in Afghanistan la fase della «transizione», ma tutto il piano di ritiro progressivo delle forze alleate (italiane comprese) resta indirizzato verso uno sbocco incerto nel 2014 o nel 2015, con il Canada che entro la fine del 2011 ritirerà le sue truppe combattenti, con gli europei che tra la fine del 2011 e quella del 2012 vorrebbero ridurre i loro contingenti, con Karzai sempre più polemico verso gli occidentali, con il programma di addestramento degli afghani che solleva dubbi profondi proprio tra i militari. Dopo aver capito che non vincerà, insomma, la Nato si tormenta per trovare il modo di non perdere troppo. Eppure non ha torto il segretario generale Rasmussen quando dice che questo è il vertice più importante dalla nascita dell’Alleanza. Forse avrebbe potuto dire anche il più drammatico. Nel senso che da Lisbona usciranno progressi reali sulla difesa anti-missile e sulla modernizzazione del concetto di minaccia (attacchi cibernetici, pirateria, narcotraffico, sicurezza delle vie energetiche) ma le nuove realtà del mondo difficilmente saranno dissuase dal progredire nella loro avanzata spesso poco favorevole al concetto di Occidente.

La Turchia non si limita a mettere i bastoni tra le ruote degli alleati atlantici. La sua politica estera, legittimamente, ha trovato nuovi amici in Iran ma anche in Siria e nell’Asia Centrale ex sovietica. La speranza di essere ammessa nell’Unione Europea è al lumicino ad Ankara come a Bruxelles. E non stupisce, allora, che Erdogan si comporti più come aspirante leader tra gli «emergenti» (con il Brasile) che come socio della Nato e aspirante alla Ue. La Russia dirà «ni grazie» intendendo che tutto deve ancora essere negoziato, che Mosca pretende parità assoluta (anche nell’accesso alle tecnologie) rispetto agli altri soci dell’ombrello antimissilistico, e che comunque bisognerà vedere chi sarà presidente dal 2012. In questa condizione di anatra quasi zoppa, del resto, si trova anche Obama dopo le elezioni di mid-term, incerto persino della ratifica dell’ultimo trattato di disarmo con Mosca (e il Cremlino certo non apprezzerebbe). E poi, non stanno forse cambiando sulla spinta delle nuove realtà economiche quegli equilibri strategici nei quali la Nato vuole reinserirsi da protagonista e garantirsi una vitalità anche nel dopo-Afghanistan?

Il mondo multipolare, guidato dalla crescita della Cina in tutti i settori, ha modificato al ribasso la posizione di un’America scossa dalla sua disoccupazione più ancora che dalle sue guerre. Ogni volta che Washington (Obama lo fa) guarda con insistenza all’Asia, che voglia dialogare con la Cina oppure contenerla come nell’ultimo viaggio, la Nato transatlantica in qualche modo ne soffre. E la signora Merkel si scopre, in materia economico-finanziaria, più in sintonia con Pechino che con gli Usa. Poi c’è la sofferenza dell’euro che si aggiunge alle difficoltà generali, ci sono i bilanci della difesa europei che vengono tagliati con la scure, e si arriva a sperare che siano i russi a fornire elicotteri agli afghani che noi addestriamo.

In questa cornice diventa ancora più positiva l’intesa franco-britannica sulla difesa che deve costare di meno, mentre passa in secondo piano, per ora, il dissenso franco-tedesco sulla permanenza in Europa (anche in Italia) delle armi nucleari tattiche americane. Non saranno ritirate prima che gli Usa controllino gli europei attraverso il più efficace scudo antimissile, dicono i maligni. Fatto sta che la «rivitalizzazione» della Nato a Lisbona, collocata in un contesto mondiale nel quale l’influenza crescente è quella della Cina, rivela tutta la sua fragilità. L’Alleanza vuole rinnovarsi però continua a sembrare vecchia. Laddove, beninteso, non è detto che il nuovo sia meglio del vecchio.

Franco Venturini

20 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_20/la-rincorsa-della-nato-franco-venturini_46cd861a-f470-11df-b9c7-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #16 inserito:: Gennaio 05, 2011, 03:45:33 pm »

LA STRAGE DEI COPTI E IL DOPO MUBARAK

La fragilità del faraone

Se è vero che la sofferenza rafforza la fede, venerdì i copti egiziani celebreranno con particolare fervore il loro Natale. Alla rabbia delle ultime ore sostituiranno la preghiera, piangeranno i loro morti, affolleranno anche quella chiesa dei Santi di Alessandria dove la notte di Capodanno l’odio confessionale è tornato a colpire. Saremo loro vicini, perché la persecuzione delle minoranze cristiane in molte società islamiche non può e non deve lasciarci indifferenti. Ma nel caso dell’Egitto esiste anche un altro aspetto che la prudenza consiglia di non trascurare: il kamikaze di Alessandria, oltre a fare strage di copti, ha forse voluto collocare una bomba a orologeria sotto il trono presidenziale di Hosni Mubarak.

Per individuare il pericolo occorre tornare alle elezioni parlamentari egiziane di un mese fa. Il raìs, ottantaduenne e malato, consumato da trent’anni di potere, sapeva che le presidenziali in calendario per il 2011 non sarebbero state la solita formalità. Occorreva porsi seriamente il problema della successione. E allora tanti saluti alle cautissime aperture democratiche del 2005 imposte da Bush, e pazienza anche per quell’Obama che proprio al Cairo era venuto a predicare un islam più aperto: dalle urne l’accorta regia degli uomini del presidente ha fatto uscire una assemblea dominata da un virtuale partito unico, capace di gestire senza traumi l’ormai vicino passaggio di poteri.

Lo scettro passerà dal padre Hosni al figlio Gamal, come avrebbero fatto, appunto, i faraoni? Oppure l’anziano presidente si farà rieleggere, rendendo automatico il subentro di Gamal in caso di morte o impedimento? O ancora, se Gamal sarà giudicato da alcuni troppo vicino al mondo dei grandi affari, sarà il potente ma fedelissimo generale Omar Suleiman ad emergere? Non tutti i giochi sono ancora fatti, ma il mese scorso Hosni Mubarak ha comunque lanciato un messaggio chiaro: la successione è cosa mia, e non saranno tollerate interferenze democratiche o pluralistiche.

L’Occidente ha guardato dall’altra parte. Troppo preziosa è la stabilità interna dell’Egitto. Indispensabile è il suo ruolo di moderazione nella crisi mediorientale, malgrado la mancanza di risultati concreti. Irrinunciabile è l’argine del Cairo contro i fondamentalismi più o meno qaedisti che ormai si annidano nel Maghreb e nell’Africa subsahariana. E quanto ai Fratelli musulmani, certo, hanno avuto una evoluzione incoraggiante, ma sono sempre l’altro braccio di Hamas. Insomma, la Realpolitik imponeva un mese fa e impone oggi alle democrazie occidentali — Italia in prima fila—di tapparsi il naso e sperare che il raìs azzecchi l’erede.

Peccato che in questa complessa manovra Hosni Mubarak e il suo gruppo di potere conservino un fianco scoperto: quello del potenziale destabilizzante degli scontri inter-religiosi. Degli islamici radicali che si contrappongono ai Fratelli musulmani soprattutto ora che questi hanno solidarizzato con i copti. Dei qaedisti che vogliono colpire i cristiani simbolo delle degenerazioni occidentali. Di una galassia fatta di minoranze corpose ma anche di gruppuscoli fanatizzati che non di rado nella storia egiziana ha innescato spirali distruttive come quella che portò all’assassinio di Anwar Sadat. Ora si tratta di ereditare, non di uccidere. Ma la partita non sarà per questo meno serrata, e le lotte interconfessionali potrebbero tentare chi vuole dar fuoco alle polveri.

Franco Venturini

04 gennaio 2011(ultima modifica: 05 gennaio 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_04/venturini-fragilita-faraone-editoriale_36675a36-17c9-11e0-9e84-00144f02aabc.shtml
« Ultima modifica: Marzo 29, 2011, 05:07:20 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #17 inserito:: Febbraio 22, 2011, 04:12:00 pm »


LIBIA ED EUROPA

Interessi e Valori

Anche la Tunisia ha pagato un prezzo di sangue, e più di lei lo ha pagato l'Egitto. Ma nell'effetto domino delle rivolte nordafricane non si era mai visto quello che è accaduto ieri a Tripoli. Se sono vere le notizie diffuse da Al Jazeera, l'unica fonte informativa sfuggita alla morsa censoria del regime, Muammar Gheddafi ha deciso che la decimazione del suo popolo è un costo accettabile per restare al potere. E per assicurarsi che la manovra riesca, per punire quanti lo sfidavano a mani nude anche lontano dalla ribelle Cirenaica, ha scatenato sulla folla tutto quanto aveva a disposizione per uccidere.

Interi quartieri sono stati messi a ferro e fuoco. Aerei ed elicotteri hanno sparato con le mitragliatrici contro assembramenti ostili. Cecchini piazzati sui tetti hanno individuato e colpito chiunque avesse l'aria di essere la guida di un gruppo ribelle. E poi sono intervenuti i «mastini della guerra»: quei mercenari provenienti da diversi Paesi africani che Gheddafi a quanto pare teneva da tempo sul suo libro paga, e che si sono sdebitati sparando ad altezza d'uomo sui raduni di rivoltosi. Il bilancio è difficile, ma Al Jazeera parla di almeno duecentocinquanta morti. Senza contare quelli di Bengasi, dove i ribelli controllano gran parte della città ma devono ancora fare i conti con nuclei di resistenza gheddafiana.

A due passi da casa nostra, nella nostra ex colonia, in un Paese dove moltissimi nostri connazionali risiedono e lavorano, le dimensioni del massacro non possono che suscitare emozione e disgusto. Ma in Libia, come ieri in Egitto e in Tunisia, l'emozione si accompagna al tentativo di capire, all'ansia di prevedere. Muammar Gheddafi, tiranno più che mai, non esce rafforzato dal bagno di sangue perpetrato non lontano dalla sua tenda. La sua invece è una testimonianza di debolezza, un pegno di disperazione. E del resto, anche lontano dalla piazza, la giornata non gli è stata favorevole. Si sono dimessi due ministri e parecchi diplomatici impegnati all'estero; alcuni dei Comitati popolari da lui creati per scimmiottare una democrazia non hanno risposto all'appello; un autorevole esponente religioso ha lanciato una fatwa contro di lui chiedendo ai militari di ucciderlo; due piloti da caccia sono fuggiti a Malta con i loro aerei e altri due si sono rifugiati in una base controllata dall'opposizione a Bengasi; nei ranghi dell'esercito da un lato rispuntano le divisioni tribali e dall'altro emerge una compatta ostilità contro l'intervento dei mercenari stranieri. E i dimostranti, soprattutto, non danno segni di rinuncia.

Certo, non basta per dire che Gheddafi è spacciato. Ma basta per scorgere un inizio di decomposizione strutturale del suo potere, e basta per osservare che nelle poche immagini giunte ieri da Tripoli la gran parte dei manifestanti era composta da giovani: quelli che non hanno ceduto a Tunisi e al Cairo, quelli che hanno poco da perdere anche in Libia e sono ormai, dal Mediterraneo al Golfo Persico, il motore della ribellione che scuote il Mondo arabo. Dopo 42 anni di potere, Gheddafi dovrà continuare a fare i conti con loro. E i conti con la carneficina da Tripoli ha dovuto farli ieri anche Silvio Berlusconi, che ha finalmente detto di considerare «inaccettabile» l'uso della violenza contro la popolazione civile e ha messo in guardia contro la disgregazione dello Stato libico. Meglio tardi che mai, perché era stato lo stesso presidente del Consiglio, quando a Bengasi si sparava già sulla folla, a non voler «disturbare» Gheddafi. Ed era stato ancora lui, fino a ieri, a mantenere un silenzio che sembrava figlio di una scommessa azzardata, forse non sufficiente a proteggere i nostri interessi, e di sicuro contraria ai valori della nostra democrazia.

Non a caso la «discrezione» di Berlusconi ci aveva per qualche tempo allontanati dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dalla Germania che in diverso modo avevano tutti condannato duramente il Colonnello e le imprese dei suoi sgherri. Nascosti dietro una poco credibile volontà di «non ingerenza», fino a ieri sera continuavamo a trascurare quei principi umanitari nei quali proclamiamo di credere. Poi il presidente del Consiglio ha rimediato. Ma resta da domandarsi se siamo in tempo e se, in caso di cambio della guardia, il nostro ritardo non possa farci pagare un prezzo proprio sul piano degli interessi, oltre che su quello dei valori identitari.
Dovremo contare sul petrolio e sul gas che la Libia avrà comunque bisogno di vendere. Sugli affari vantaggiosi con lo Stato e con le imprese italiane che nessuno vorrà buttare nel cestino. Sulla convenienza degli investimenti in Italia.

Franco Venturini

22 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #18 inserito:: Marzo 22, 2011, 10:41:47 pm »

OPERAZIONE LIBIA / 1

Incertezze e dubbi fuori tempo

Gli aerei militari continuano a svolgere regolarmente le loro missioni, ma al suo terzo giorno l'operazione «Alba dell'Odissea» sta già vivendo una grave crisi politica che ha per protagonisti principali l'Italia e la Francia. Questa volta non si tratta, come tante altre, di eccessi di grandeur da parte francese contrapposti a eccessi di gelosia da parte italiana. Da ieri è in gioco molto di più: uno scontro sulla catena di comando che non riesce a nascondere due interpretazioni molto diverse della risoluzione 1973 dell'Onu.

Dopo che per tutto il pomeriggio il ministro Frattini aveva chiesto a Bruxelles di porre «Alba dell'Odissea» sotto comando Nato avendo gli Usa confermato di voler fare un passo indietro, ieri sera è stato Silvio Berlusconi a dirsi «addolorato per Gheddafi» e a definire meglio la posizione italiana. Aggiungendo alla richiesta del comando Nato quello che è il vero oggetto del contendere: una più chiara definizione degli obiettivi della missione in Libia, «che per noi sono la no-fly zone, l'embargo e la protezione dei civili». Non solo: «I nostri aerei non hanno sparato e non spareranno - ha detto il presidente del Consiglio -, sono lì soltanto per il pattugliamento e per garantire il divieto di volo».

Parole che sembrano comportare una correzione di rotta nella linea italiana, perché sin qui il nostro governo era parso consapevole del fatto che una no-fly zone non può essere imposta senza prima colpire le difese antiaeree di Gheddafi, e aveva comunque assicurato che l'Italia avrebbe fatto la sua parte non soltanto concedendo le basi ad altri. Appare verosimile che Berlusconi abbia voluto disegnare una posizione di compromesso che lo metta al riparo da uno scontro con la Lega, ma risulta difficile non rilevare come ciò avvenga nel bel mezzo di una operazione militare alleata e al cospetto di una risoluzione Onu che si presta tanto alle interpretazioni estensive quanto a quelle restrittive: è vero che obiettivi indicati sono la no-fly zone, l'embargo e la protezione dei civili, ma è anche vero che per proteggere i civili viene previsto il ricorso a «ogni mezzo necessario».

E qui risiede, appunto, la vera sostanza della linea scelta da Berlusconi e del contrasto con la Francia sul comando Nato.

Frattini ha spiegato i termini della questione. Nella prima ora l'attacco unilaterale francese contro i mezzi corazzati di Gheddafi era giustificato, ha detto, dall'emergenza e dal timore che la conquista di Bengasi portasse a un bagno di sangue. Ma ora occorre tornare nella normalità di un comando che coordini e controlli tutti, che informi tutti di quello che stanno facendo gli altri e che tenga d'occhio interpretazioni troppo larghe della risoluzione dell'Onu. Eccolo ancora una volta, il dente che duole. E per rinforzare la sue argomentazioni, Frattini ha avvertito che se a un comando Nato non si giungesse l'Italia si sentirebbe nel pieno e logico diritto di assumere in prima persona il comando delle sue basi. Si arriverebbe così a una moltiplicazione di comandi (perché beninteso «Alba» andrebbe avanti), ma lo stesso Frattini, che punta a un accordo nella giornata di oggi, ha specificato che non si tratterebbe di una buona soluzione.

Alla interpretazione restrittiva dell'Italia si affiancano approcci che ben dimostrano cosa accade tra europei quando gli americani sono reticenti (e lo sono sempre di più) a impugnare loro la bandiera. I britannici, per esempio, sono tendenzialmente d'accordo con il comando Nato. Ma non lo sono affatto con il «non spareremo» di Berlusconi, e difatti sono tra quelli che sparano di più. Quanto ai francesi, hanno due motivi per contrastare l'approccio italiano. Il primo appartiene alla loro storia politica che non è completamente cambiata con Sarkozy e che non gradisce che le decisioni di Parigi vengano filtrate o addirittura determinate da una Alleanza Atlantica vista (in questo caso erroneamente) come cortile di casa degli americani. Il secondo motivo tocca ancora una volta la risoluzione Onu. Senza il nostro primo attacco - dicono a Parigi, e hanno ragione - le forze di Gheddafi sarebbero entrate a Bengasi e l'intera operazione sarebbe fallita prima di cominciare. Vogliamo perciò - e qui hanno meno ragione - restare liberi di fare le nostre mosse. Beninteso sulla base di una interpretazione del documento Onu opposta a quella italiana.

Quel che maggiormente colpisce, in questo braccio di ferro che va ben oltre la discussione sul comando della Nato, è il suo ritardo. Possiamo immaginare qualche motivo di politica interna, in Italia e almeno parzialmente anche in Francia. Ma quando si spara (perché gli altri lo fanno) e ci sono vite in gioco, si dovrebbe almeno capire che non è questo il momento di dividersi.

Franco Venturini

22 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #19 inserito:: Marzo 29, 2011, 05:06:47 pm »

Il vertice sulla Libia

Schiaffo ingiustificato


A certe esclusioni l'Italia non è nuova, ma quella che si è consumata ieri sera risulta talmente clamorosa da autorizzare alcune domande scomode per noi e per altri. Alla vigilia dell'odierna conferenza di Londra che dovrebbe finalmente indicare una chiara strategia politica nella campagna di Libia, i massimi responsabili di Usa, Francia, Gran Bretagna e Germania si consultano in videoconferenza. Sarebbe sciocco dire che queste cose non vanno fatte. Esse avvengono regolarmente prima di vertici di ben minore importanza. Ma che il telefono dell'Italia non squilli, questo non rientra in una visione pragmatica della campagna di Libia.

Non si tratta di velleitarismi, ma di valutare fatti concreti: l'Italia ha aperto le sue basi alla coalizione e comanda l'embargo navale Nato; l'intelligence italiana dà un contributo rilevante alle azioni dei nostri alleati; l'Italia è investita dalla prima conseguenza del conflitto libico, l'arrivo sulle nostre coste di un notevole numero di migranti. Davvero, in queste condizioni, può essere considerata comprensibile o accettabile la sua esclusione da un contatto importante e altamente simbolico per il messaggio che contiene (e che è rivolto anche ai libici)? Davvero la signora Merkel, astenuta all'Onu, non partecipante alle operazioni, lontana dalla scena, va presa a bordo e noi no?

È inevitabile pensare che abbia prevalso un doppio desiderio: quello di rafforzare l'intesa franco-britannica già rinsaldata ieri con una dichiarazione a due, e l'altro di rilanciare il rapporto franco-tedesco che serve, malgrado le sconfitte elettorali, tanto a Sarkò quanto alla Merkel. Mentre Obama, tutto impegnato a fare retromarcia, da queste dispettose alchimie europee deve essersi tenuto alla larga. E se poi il tutto servirà a favorire una redistribuzione degli accordi petroliferi, nessuno dei convitati si metterà a piangere.

Ma qui, dopo la sacrosanta indignazione, viene il momento di riflettere su noi stessi. Sapevamo da prima che il peso dell'Italia odierna sulla scena internazionale non è dei più rilevanti e del resto non è mai stato, anche in passato, tale da metterci tra i Grandi. A guardar bene, però, la crisi libica ha aggiunto qualcosa. I maggiori Paesi occidentali (Germania inclusa?) concordano nell'auspicare e nel ricercare a suon di bombe la caduta di Gheddafi. Berlusconi invece prima si dice addolorato per il Raìs e annuncia che i nostri aerei non spareranno, poi rinuncia all'iniziale idea della mediazione e per bocca del ministro Frattini cerca un dialogo negoziale simile a quello che cercano gli altri, perché non considera possibile la permanenza di Gheddafi al potere.

Una situazione di stallo militare sul terreno può ancora dare ragione ai primi istinti del governo. Ma, avendoli poi modificati, oggi diamo l'impressione di stare in altalena, cosa che in guerra non ispira fiducia. La speranza è che la conferenza di Londra serva da chiarimento anche della posizione italiana. Anche se Frattini avrà motivi più che sufficienti per far presente che l'emarginazione dell'Italia dal pre-vertice, benché agevolata da errori che si potevano evitare, rimane un autentico schiaffo.

Franco Venturini

29 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #20 inserito:: Aprile 10, 2011, 04:48:32 pm »

GLI OCCIDENTALI E LA SVOLTA ARABA

Un po' miopi e inadeguati

Al Cairo piazza Tahrir è tornata a riempirsi di manifestanti e ci sono scappati dei morti. In Tunisia un governo transitorio esangue attende le elezioni, e non potrebbe, nemmeno volendolo, mostrare contro i migranti la fermezza che gli viene chiesta dall'Italia. In Libia si lavora sottotraccia per disgregare dal di dentro il regime di Gheddafi, ma intanto le forze del Raìs rischiano di battere la Nato oltre ai ribelli. E siccome a questo non si può arrivare, infuria il dibattito sull'ultima ratio: truppe di terra, armi agli insorti, accettare le possibili perdite e far volare più bassi gli aerei dell'Alleanza? Tutto è possibile, ma che vinca Gheddafi no. In Siria le febbre sale, complici i militari legati al potere alawita degli Assad. Ma così, a colpi di stragi, non potrà durare. E allora quali saranno i contraccolpi in Libano, in Iraq, in Iran, a Gaza? E Israele, resterà ancora a guardare? Esplosioni quotidiane scuotono lo Yemen. La Giordania, l'Algeria, l'Oman, forse il Marocco sono a rischio. Il Bahrein è stato normalizzato da una dottrina Breznev in salsa saudita. Ma proprio l'Arabia Saudita ha paura e fa paura, più di tutti.

Basta questo rapido sorvolo per trovare conferma a quanto in Occidente si desiderava e insieme si temeva: la Rivoluzione araba è un processo inarrestabile benché assai variegato nelle sue diverse componenti libertarie, economiche, religiose, tribali, generazionali, tecnologiche. Non sappiamo quale delle sue fasi stiamo vivendo, non sappiamo quanto durerà, non conosciamo i suoi sbocchi finali che potrebbero essere o non essere di nostro gradimento.

Qualcosa, però, lo sappiamo. Che proprio quando noi occidentali avremmo bisogno di statisti, di visioni strategiche, di capacità di leadership, riusciamo ad esprimere soltanto la nostra inadeguatezza.
L'Europa è semplicemente se stessa, quella che è diventata da qualche anno a dispetto di tutte le retoriche. Non è soltanto il punto di riferimento Usa a mancarle, perché gli europei si divisero sull'Iraq anche quando la leadership americana era forte. Più semplicemente - e la Libia è una conferma - a dettar legge nell'Unione sono i fronti interni elettorali dei principali soci, sono ora le urgenze di Sarkozy ora il nuovo nazionalismo mercantilista tedesco. Si può trovare un compromesso se si è in pericolo di morte, come sull'euro, ma sulla politica estera comune o su una politica europea per i migranti è meglio non farsi illusioni.

E poi c'era una volta l'America. Oggi Barack Obama viene accusato da molti di essere diventato mister tentenna, dall'Afghanistan alla Libia. Ma per capirlo è utile ricordare una frase del capo di stato maggiore della Difesa Mullen: la principale minaccia alla sicurezza dell'America è il suo deficit. A Washington sperano in una crescita appena sotto il tre per cento. Chi se ne intende aggiunge che tutto dipenderà dalla Rivoluzione araba e dal prezzo del petrolio, che a sua volta dipende dall'Arabia Saudita. Si capisce che esistano due pesi e due misure, nella politica di un presidente che vuole la rielezione. Siamo davanti a una grande Storia, al processo rivoluzionario del mondo arabo, e non sappiamo bene cosa fare oppure siamo ostaggi delle nostre convenienze democratiche nazionali. Anche questo è un processo, involutivo. Si affaccia forse un mondo post-occidentale, mentre qualcuno sta alla finestra e se la ride. La Russia, con il suo gas e il suo petrolio. E soprattutto la Cina, la potenza in emersione che può raddoppiare la sua velocità grazie al declino altrui.

Franco Venturini

10 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #21 inserito:: Aprile 29, 2011, 06:40:10 pm »



Senza saperlo, i Tornado italiani che ieri hanno compiuto la loro prima missione offensiva contro obiettivi militari libici hanno colpito in pieno anche la nostra politica interna. «Di male in peggio», ha commentato il leghista Calderoli, e noi saremmo propensi a dargli ragione. Ritenevamo che fosse errata, infatti, la nostra iniziale posizione ambivalente nel conflitto libico. E riteniamo che ora si stia rischiando di creare il «peggio» quando la Lega, chiamata a una prova di maturità politica, scuote invece la maggioranza per ragioni che nulla dovrebbero avere da spartire con l'interesse nazionale.

Essendo sacra in democrazia ogni forma di protesta e di dissenso, e non essendo certo inedite nel mondo le liti interne sulla politica estera, cerchiamo di orientarci nella confusione che turba i Palazzi romani (e padani). Interesse nazionale, dicevamo. Perché l'Italia poteva dissociarsi dalla risoluzione Onu sulla protezione dei civili in Libia, come ha fatto la Germania. Poteva essere assai più avara nel concedere le sue basi. Ma non poteva stare a metà del guado, mezza belligerante e mezza neutralista, senza danneggiare due suoi fondamentali interessi: mantenere saldo il rapporto con gli alleati e avere una voce da far pesare quando si parlerà di futuro in Libia.

Fino a lunedì scorso, il governo ha commesso questo errore. Poi ha cambiato rotta (pressato dall'America e dalla Nato ben più che dalla Francia), e nel muovere il timone Berlusconi di errore ne ha commesso un altro, «dimenticando», con l'evidente intento di rinviare un confronto scontato, di consultare preventivamente la Lega. Ma ora che la decisione è stata presa e che si tratta di una decisione corretta viste le premesse, ora che Palazzo Chigi e Quirinale si trovano in sintonia come non accade sempre, ora che siamo usciti da una autolesionista ambiguità, cosa fa la Lega? Sceglie proprio la collocazione internazionale dell'Italia per dare via libera a una lotta di potere dentro la maggioranza che in realtà si nutre di tutt'altre ragioni. E concede così spazio anche all'opposizione, a Di Pietro che cavalca la stessa tigre leghista (come in Afghanistan) e al Pd che non si sbilancia, senza che ad alcuno venga in mente che per l'Italia sarebbe comunque un boomerang aprire una crisi sulle scelte di politica estera.

La Libia, insomma, sta facendo da paravento all'avvicinarsi delle elezioni amministrative. Serve da strumento per far credere alla base leghista che sparare razzi contro i carri armati di Gheddafi farà aumentare il numero dei migranti, mentre le due cose sono per ora non collegate e in futuro una ritrovata influenza italiana potrebbe servire a farlo diminuire. Viene invocata, la Libia, per chiedere un nuovo voto parlamentare il 3 maggio (due giorni prima che si riunisca a Roma il Gruppo di contatto sugli sconvolgimenti nel mondo arabo!), mentre è noto che una mozione di maggioranza è già stata approvata in aula il 24 marzo scorso, e che il presidente Napolitano, ancora ieri, ha giudicato le incursioni aeree «coerenti» con quanto deciso dal Consiglio supremo di difesa. La Lega, lo ripetiamo, ha ogni diritto di litigare con i suoi alleati. Ma il nostro auspicio è che non siano le delicate alchimie della politica estera italiana a farle impugnare la spada.

Franco Venturini

29 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_29/
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« Risposta #22 inserito:: Giugno 21, 2011, 09:46:55 am »

Una questione di credibilità

Sulla guerra in Libia l’Italia torna a scoprirsi divisa in due, o forse in tre. Al ministro leghista Maroni, che dal prato di Pontida aveva chiesto la fine dei bombardamenti Nato ritenuti causa principale dell’emergenza immigrazione, il presidente Napolitano ha ricordato ieri che «è nostro impegno sancito dal Parlamento restare schierati con le forze di altri Paesi che hanno raccolto l’appello dell’Onu». Contrario a un ritiro unilaterale dalla missione si è detto anche il ministro Frattini, Pdl, aggiungendo tuttavia che la Nato ha ricevuto un mandato di tre mesi e che a suo parere la caduta di Gheddafi si verificherà ben prima che essi esauriscano.

Sembra la riproposizione di un film déjà vu, ed è in effetti possibile che anche stavolta come in passato i contrasti pubblici si risolvano in compromessi semi-privati: con il Pdl che qualcosa assicura, con la Lega che si accontenta, con il Quirinale che resta fermo nella sua coerenza. Gli strumenti utilizzabili sono quelli evocati da Frattini: i tre mesi di mandato (anche se nessuno ha detto che a settembre essi non possano essere rinnovati), e la previsione, diffusa a livello ufficiale nella Nato, che il Raìs di Tripoli sia ormai con le spalle al muro.

E tuttavia la situazione attuale non è la stessa di qualche mese fa. Il clima politico è surriscaldato, la Lega deve fare i conti con la verificata irrequietezza della sua base e Berlusconi deve augurarsi che le amministrative e il referendum non abbiano conseguenze sulla sopravvivenza del governo. Gli spazi di manovra delle due componenti della maggioranza, insomma, si sono molto ridotti. E potrebbe così risultare difficile, molto più difficile di prima, trovare la solita quadratura del cerchio. Soprattutto perché, ed è questo il secondo grande elemento di diversità rispetto ai passati compromessi, fino a prova contraria la Nato non sta vincendo la sua guerra in Libia.

Va detto che le preoccupazioni espresse a Pontida e ribadite ieri da Maroni non sono soltanto italiane, anche se soltanto lui sembra credere (a nostro avviso erroneamente) che la fine degli attacchi aerei riporterebbe automaticamente sotto controllo i movimenti migratori. In tutte le capitali occidentali, ormai, l’andamento della guerra in Libia suscita delusione e polemiche. Basti pensare all’attacco che il segretario alla Difesa americano Gates ha sferrato contro gli europei incapaci di fare da sé. Basti considerare che dei ventotto alleati della Nato soltanto otto partecipano alle incursioni, e dal primo agosto diventeranno sette con la defezione della Norvegia.

Le ostilità in Libia, insomma, meritano davvero una riflessione collettiva. È giusto diventare più trasparenti sulle molle che hanno innescato il conflitto: la necessità di proteggere i civili di Bengasi, certo, Sarkozy che voleva prendere l’iniziativa e sperava di risalire nei sondaggi, si sa, ma anche quella sempre più fastidiosa presenza cinese nel Mediterraneo e la consapevolezza che la Libia possiede le seconde o le terze riserve di greggio al mondo.

È giusto, poi, riconoscere che Gheddafi ha sorpreso tutti con la sua tenacia, che i ribelli cirenaici valgono assai poco come forza militare (e ora sono anche senza soldi), che i bombardamenti, senza il diretto apporto Usa, si stanno rivelando relativamente efficaci. E soprattutto non si può tacere che della risoluzione Onu che autorizzò l’uso della forza è stata data una lettura iper-estensiva, che personalità del calibro di Obama, Cameron e Sarkozy (e al recente G8 persino Medvedev) si sono formalmente impegnate a perseguire a Tripoli un regime change non menzionato nel documento onusiano.

In Libia, dunque, le cose non vanno bene per l’Italia e per gli altri Paesi Nato impegnati in prima fila. Ed è proprio per questo che l’Alleanza ha chiesto altri tre mesi di tempo, senza che ciò debba necessariamente escludere un crollo sollecito e improvviso del gheddafismo.

Circostanze interne e circostanze internazionali, a conti fatti, fanno dei contrasti sulla Libia un osso politicamente duro. Per non dire potenzialmente esplosivo, qualora avesse ragione chi prevede tempi ancora lunghi e una possibile divisione di fatto tra Cirenaica amica e Tripolitania nemica.

Il presidente Napolitano, evidentemente, non auspica la guerra a oltranza o il suo insuccesso. Rivendica, piuttosto, la credibilità dell’Italia sulla scena internazionale, l’onere scomodo ma dovuto che consiste nel mantenere gli impegni presi. E in questo è difficile non essere d’accordo con lui.

Come abbiamo avuto modo di scrivere altre volte: al momento delle decisioni l’Italia poteva comportarsi come la Germania, poteva invocare l’esistenza di un trattato con Tripoli, poteva far pesare la sua condizione di ex potenza coloniale. Sarebbe stato un gesto quasi di rottura, che forse la Germania può permettersi e noi no. Ma sarebbe stata una politica. Scelta invece la partecipazione all’impresa, essa non aveva alcuna possibilità di rimanere parziale e ambigua. Abbiamo inevitabilmente a quel punto completato il nostro impegno partecipando alle azioni offensive. E ora che questo è lo stato dei fatti, ora che a comandare i raid su grande nostra insistenza è la Nato, non possiamo dichiararci pentiti perché la Lega lo chiede e ritirarci mettendo l’intera Alleanza ulteriormente nei guai. Salvo diventare una Norvegia, con tutto il rispetto. E questo Napolitano non lo vuole.

Resta l’auspicio di una riflessione collettiva, se la situazione non dovesse risolversi. I big si sono impegnati a cacciare Gheddafi, e ci hanno messo la faccia? Anche i talebani in Afghanistan dovevano essere annientati, e ora gli americani ci parlano. Materia di riflessione, ripetiamo, ma collettiva e lontano da Pontida.

Franco Venturini

21 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_21/venturini-questione-credibilita-editoriale_dbb7279e-9bc4-11e0-b47c-4c6664789138.shtml
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« Risposta #23 inserito:: Agosto 10, 2011, 10:50:47 pm »

Il triangolo europeo

Se Mao Tse Tung fosse vivo e fosse europeo, almeno a parole saprebbe come affrontare l’onda sismica dei mercati: serve, direbbe, un «grande balzo in avanti». Lui aveva il gusto delle definizioni, e avrebbe capito, nell’abissale diversità tra la Cina totalitaria del 1958 e l’Europa democratica di oggi, che per affrontare il pericolo non basta arretrare. Non basta scavare trincee difensive che di volta in volta si dimostrano incapaci di fermare il nemico invisibile della sfiducia, anche se gli europei, così facendo, sono giunti a un risultato paradossalmente positivo: è stata fatta chiarezza, l’euro è nudo con o senza contagi provenienti dagli USA, nudi sono i suoi dirigenti politici, in bilico è l’intera eurozona (e dunque l’intera Europa) sospesa tra il fallimento e un rilancio epocale.

Certo, che quelli attuali non siano tempi di grandi leader, e non soltanto in Europa, è cosa risaputa. Ma il tramonto degli statisti non deve necessariamente portare a una cecità suicida. E qui nasce un primo problema: la natura odierna del vecchio asse franco-tedesco. Nella stonata orchestra europea sono ancora loro, Sarkozy e Merkel, a battere il ritmo con i loro comunicati congiunti, a distribuire elogi o rampogne, a fissare il limite del possibile alla vigilia di ogni vertice. Ma con una novità di grande rilievo: la coppia è diventata una triade, perché, malgrado tutte le evidenti differenze di ruolo rispetto ai governi nazionali, la Banca Centrale ha assunto compiti di leadership e di intervento come mai prima aveva fatto. In realtà l’Europa di oggi è guidata da un asse Sarkozy-Merkel- Trichet, che da ottobre diventerà Sarkozy-Merkel- Draghi.

Ed è all’interno di questo trio che si colloca la decisiva questione tedesca, quella che può consentire o vietare il «grande balzo in avanti» di cui l’eurozona ha bisogno. Finalmente consapevole di essere sull’orlo del burrone e dei danni che anche la Germania subirebbe da una caduta, la signora Merkel ha accettato il 21 luglio di potenziare il Fondo salva-Stati (FESF) e di accrescere la sua flessibilità consentendogli di elargire prestiti, di intervenire sul mercato secondario dei titoli di Stato e persino di ricapitalizzare banche in difficoltà. La messa a punto del nuovo meccanismo prenderà nel migliore dei casi fino al vertice di fine settembre, e nel frattempo la BCE sta surrogando compiti che poi spetteranno al Fondo. I più ottimisti vedono in questi accordi la nascita di una sorta di «Fondo monetario europeo», e sottolineano che è stato fatto un passo importante nella giusta direzione. Cosa certamente vera. Ma pur compiendo uno sforzo che deve esserle costato parecchio, Angela Merkel non ha ancora varcato il suo Rubicone.

La Germania non vuole che la Ue diventi una «unione di trasferimenti ». Respinge cioè un criterio di solidarietà istituzionalizzata che la costringerebbe a pagare per chi non ha fatto sacrifici. Quei sacrifici che i tedeschi hanno fatto nell'ultimo decennio, e che sono all'origine della loro attuale crescita e prosperità economica. No, dunque, agli eurobond che avrebbero l'effetto di mettere in comune il debito complessivo. Linea dura con la Grecia, e, oggi, linea severa benché pragmatica con l'Italia e con la Spagna che non hanno fatto le riforme necessarie o le fanno troppo lentamente.

Un simile approccio ha fondate motivazioni storiche e costituzionali. Ma la vera questione che si pone è di volontà politica. La popolarità della signora Merkel ha già molto sofferto, l'opinione pubblica è poco propensa a «pagare per gli altri» oltre un certo limite, nel 2013 in Germania si vota. Sarà tanto forte e tanto europeista, il Cancelliere, da disinnescare la rotta di collisione tra lecite convenienze politiche e visione da statista, tra democrazia nazionale e futuro dell'Europa? Se la risposta tedesca fosse positiva diventerebbe accettabile una responsabilità comune davanti ai debiti nazionali, gli eurobond diventerebbero strumento coerente del nuovo assetto, dal Fondo salva-Stati si potrebbe passare a quella forma di governo finanziario sovrannazionale che oggi non esiste e che proprio con la sua assenza stimola i mercati e rende vulnerabile l'euro. Il tutto, beninteso, continuando a tenere sotto pressione (come in Italia) governi reticenti e opposizioni poco propositive, ritardi tattici e (è ancora il caso dell' Italia) tentativi di tutelare i propri interessi elettorali facendo scattare il ben noto «ci costringono gli altri».

La posta in gioco, dietro la mannaia dei mercati, è questo «grande balzo in avanti» che a conti fatti risulterebbe ben più ambizioso di quello di Mao. Tanto ambizioso che nemmeno a Maastricht fu possibile compierlo. Tanto necessario che bisogna sperare nella Germania, e nella nuova «triade» europea.

Franco Venturini

09 agosto 2011 08:01© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_09/venturini_triangolo-europeo_e57db034-c245-11e0-80c8-eb6607a7b6a7.shtml
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« Risposta #24 inserito:: Settembre 26, 2011, 09:13:11 am »

La moltiplicazione dei rischi

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu merita comprensione quando oppone un rifiuto categorico alla nascita, chiesta ieri all'Onu da Abu Mazen, di uno Stato palestinese. Cosa vede attorno a sé, oggi, il governo di Gerusalemme?
Vede l'incerto procedere delle «primavere arabe» in Tunisia e soprattutto in Egitto, dove salgono le quotazioni dei Fratelli musulmani e alcuni cominciano a dire, dopo l'assalto all'ambasciata israeliana al Cairo, che «il trattato di pace firmato da Sadat non è sacro». Vede che la guerra in Libia non è finita, e teme il futuro ruolo degli islamisti a Tripoli. Vede che i programmi atomici dell'Iran sono stati rallentati ma non fermati.

Vede che l'Iraq va verso l'ignoto dopo il ritiro, a fine anno, delle forze Usa. Vede che la nuova potenza regionale, la Turchia, tende a volgersi contro Israele. Vede fuoco e fiamme nello Yemen, una Arabia Saudita fragile, e soprattutto una Siria lacerata che può dar fuoco anche al confinante Libano. Se oggi non si opponesse a uno Stato palestinese nato autonomamente all'Onu, senza accordo con Gerusalemme e dunque capace di esaltare la voglia di rivincita tanto diffusa tra gli arabi, Netanyahu verrebbe meno al suo primo dovere che è quello di difendere la sicurezza di Israele. E di prevenire, come ha detto ieri, «una nuova Gaza».

Ma per quanto la sicurezza di Israele stia a cuore anche a noi, figli di una memoria che non vogliamo e non possiamo eludere, oggi Benjamin Netanyahu non ha soltanto ragione. Perché il premier ha anche accumulato, da quando guida il governo più a destra della storia di Israele, torti che in futuro rischiano di pesare proprio su quella sicurezza che vorremmo veder efficacemente tutelata.
Tener duro sui temi tradizionali del contenzioso (i confini di uno Stato palestinese già accettato in linea di principio, il diritto al ritorno dei rifugiati e lo status di Gerusalemme) poteva essere da parte di Netanyahu una buona tattica per andare al confronto. Si poteva sperare che proprio lui, uomo di destra, riuscisse a concludere quell'accordo che nessun laburista israeliano potrebbe sottoscrivere senza farsi travolgere dalle accuse di cedimento. Invece Netanyahu, anche a causa della composizione del suo governo, falco lo è stato davvero. E a forza di autorizzare nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme Est (con un solo periodo di sospensione strappato da Obama), ha finito per indebolire Abu Mazen e per rendere impossibile quel negoziato che non a caso ora i palestinesi sarebbero disposti a rilanciare soltanto se fosse fermata la costruzione delle colonie.

Certo, non è stato Netanyahu a determinare gli sconvolgimenti e i timori di oggi, da Tripoli a Damasco. Ma è stato Netanyahu, ieri, a scegliere l'immobilismo, a chiudersi nella politica del bunker, e a perdere così l'occasione, che oggi ci sarebbe forse stata, di far partecipare Israele alle nuove dinamiche che scuotono Mediterraneo e Medio Oriente. Nelle parole del politologo americano Joseph Nye, Israele per la sua sicurezza ha bisogno di dimostrare che possiede anche un soft power . Ipotesi questa che Netanyahu non sembra aver preso in considerazione, restringendo le sue opzioni anche se adesso offre al leader palestinese di «incontrarci subito, qui, all'Onu».

Poi c'è il tormentato Obama. Il presidente spera di non dover usare il veto quando il Consiglio di sicurezza voterà (e non sarà subito), dal momento che basterebbero nove voti contrari a bloccare la richiesta di Abu Mazen. Ma se dovrà usarlo, lo farà. Perché nelle ore gravi l'America è sempre con Israele. Perché è cominciata, ormai, la campagna elettorale. Ma anche con tutta l'amarezza di un presidente costretto a contraddirsi, lui che aveva puntato moltissimo su nuovi rapporti con il mondo musulmano e sulla nascita concordata di uno Stato palestinese.

E c'è il rantolo europeo, con una Unione divisa che vorrebbe votare insieme ma non sa come farlo (non sarebbe il caso di considerare l'unità un valore supremo, e astenersi?), con Sarkozy che propone un «suo» piano poi ripreso nella sostanza dal Quartetto, con l'Italia e la Germania che sono i più vicini al no.

A conti fatti, dall'esercizio del Palazzo di Vetro vengono rischi per tutti. Per Netanyahu, che vince nell'immediato ma rischia l'isolamento. Per Abu Mazen, che potrà cercare parziale soddisfazione elevando il rango palestinese in Assemblea generale ma, davanti alla mancanza di cambiamenti concreti, è esposto al boomerang della delusione del suo stesso popolo. Per Obama, che si sparerà sui piedi nel Mondo arabo se dovrà usare il veto. Per l'Europa, che paga molto (in denaro) e si avvia a contare ancor meno di prima se manterrà le sue divisioni. Per le «primavere arabe» in odore di elezioni, dove il no del Consiglio di sicurezza potrebbe favorire estremisti e Fratelli musulmani. E, quel che più conta, per israeliani e palestinesi, con un eventuale nuovo negoziato che nascerebbe fragile e con un accordo di pace ancora lontanissimo. Oltre l'orizzonte, verrebbe da dire, a meno che Obama ottenga un secondo mandato e ricordi le contorsioni di questi giorni.

Franco Venturini

24 settembre 2011 07:56© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_24/la-moltiplicazione-dei-rischi-franco-venturini_530e3f9a-e66a-11e0-93fc-4b486954fe5e.shtml
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« Risposta #25 inserito:: Ottobre 09, 2011, 06:09:53 pm »

IL PREMIER IN VISITA DA PUTIN

Una missione non necessaria

Ora che Putin si è tolto la maschera anticipando ai russi il risultato delle elezioni presidenziali di marzo, ha deciso di togliersela - ammesso che l'avesse - anche Berlusconi.

Il viaggio in Russia del presidente del Consiglio non dovrebbe stupirci, tanto numerosi sono i suoi precedenti. Ma Silvio Berlusconi è riuscito nell'impresa: perché mentre l'agenda diplomatica del capo del governo italiano risulta paralizzata da un asserito «eccesso di impegni» (anche giudiziari, si deve forse intendere), il tempo viene trovato senza difficoltà per correre a festeggiare il compleanno dell'amico e prossimo zar Vladimir. Il tutto in una atmosfera tanto riservata da apparire quasi cospiratoria.

Intendiamoci, non saremo certo noi a sottovalutare la cruciale importanza dei nostri rapporti con la Russia. E Putin, scontati quei dissensi che ieri Sarkozy ha ben messo in evidenza, resta un leader da rispettare con il quale tutto l'Occidente dovrà fare i conti. Tanto meglio, allora, se con Putin Berlusconi ha inteso parlare di accordi economici, tanto meglio se gli ha chiesto ragione del veto con il quale Russia e Cina hanno bloccato all'Onu le sanzioni contro il regime massacratore di Assad. Ma pur non volendo indulgere a certi recentissimi furori antiberlusconiani, non riusciamo a credere che siano stati questi temi a riportare Berlusconi in terra russa. Piuttosto ci sembra di scorgere una confessione di stanchezza, una ricerca di evasione dalla realtà italiana resa più gradita dal sapere che ad accoglierlo ci sarà quel Putin che è stato l'unico leader mondiale ad elogiarlo pubblicamente nelle ultime settimane.

Potremmo persino capirlo, questo Berlusconi in carenza di ossigeno. Potremmo passar sopra a certi antichi sospetti dei nostri principali alleati, diventati peraltro molto più discreti d'un tempo. Ma quel che non può essere condonato a Berlusconi è che mentre Putin si merita un viaggio, il resto della politica estera italiana debba subire il suo disinteresse e le sue assenze. Dobbiamo proteggere i nostri cospicui interessi in Libia, ma Berlusconi non ci è andato lasciando campo libero a Sarkozy, a Cameron e a Erdogan. Dovremmo avere una parola da dire all'Onu sulla richiesta di Stato palestinese e sulla relativa linea europea, ma al Palazzo di Vetro Berlusconi non si è fatto vedere. Un vertice bilaterale con la Serbia è stato rinviato ripetutamente su richiesta italiana. Altri si apprestano a subire la stessa sorte. E c'è il timore fondato che al vertice europeo del 18 prossimo o al G20 del 4 novembre, dove andrà, Berlusconi possa replicare esibizioni vittimistiche antigiudici come quella non dimenticata e sommamente imbarazzante del G8 di Deauville.

Un simile comportamento, signor presidente del Consiglio, non danneggia soltanto la nostra politica estera. Contribuisce, anche, a ridurre quella credibilità di cui tanto abbiamo bisogno per sostenere l'euro e salvare l'Italia dalla sindrome greca. A meno che l'Italia non stia per entrare nell'area rublo.

Franco Venturini

08 ottobre 2011 10:27© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_08/una-missione-non-necessaria_b93fcee8-f16c-11e0-8be4-a71b6e0dfe47.shtml
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 22, 2011, 05:59:53 pm »

Sorvegliati ma non speciali

La settimana decisiva per la salvezza dell'euro si è aperta con una sonora lavata di testa all'Italia. La Commissione di Bruxelles, dopo inutile attesa, ha chiesto al nostro governo di approntare «urgentemente» nuove misure volte a rafforzare la crescita economica, accompagnandole con un preciso calendario di attuazione in grado di incoraggiare la fiducia dei mercati.

Non è la prima volta che Bruxelles denuncia pubblicamente l'indecisionismo del governo italiano. Ma farlo con tanta chiarezza alla vigilia dei vertici europei di domani e di mercoledì, e soprattutto in vista delle conseguenti valutazioni che verranno dai mercati, significa avvertire l'Italia che il livello di guardia è stato raggiunto. E che ulteriori manifestazioni di lassismo nei confronti di una esigenza comune non potranno che ingigantire quegli «sforzi particolari» già previsti, in cambio di aiuti, per i Paesi che affrontano tensioni sui mercati del debito sovrano.

Perché, ed è questo il punto, di una esigenza comune si tratta. I soci della zona euro, guidati da Germania e Francia in maniera conflittuale e sensibile ai rispettivi fronti interni ma priva di alternative credibili, sono impegnati in un braccio di ferro che ha molte probabilità di sancire la sorte dell'euro e dunque dell'Europa. Si tratta di decidere in pochi giorni, in tempo cioè per il G20 del 3-4 novembre, risorse e ruolo del fondo salva Stati; di fissare le modalità per ricapitalizzare una settantina di banche «strategiche»; di coinvolgere i creditori privati (cioè le stesse banche) in una sostanziale insolvenza pilotata della Grecia. Il tutto con una finalità principale ben chiara: impedire il «contagio» dell'Italia e della Spagna, perché un loro slittamento verso scenari di tipo ellenico, se non contenuti a tempo, finirebbero per mettere ad altissimo rischio la sopravvivenza dell'euro e quella dell'intera costruzione europea.

Ecco perché, come ha scritto Mario Monti su queste colonne, l'Italia di oggi viene percepita come una minaccia da chi sta cercando di tenere a galla la barca. Perché proprio da lei può cominciare la diffusione di una malattia incurabile. Del resto, come potrebbe essere considerato responsabile un governo che nella graduatoria dei contagiabili occupa la prima linea ma non si preoccupa di fare la sua parte, scaricando così ulteriori pericoli sugli altri oltre che sui propri cittadini? Perché mai Bruxelles dovrebbe indossare i guanti bianchi nei confronti di un governo come il nostro che rinvia tranquillamente il «decreto sviluppo» e si preoccupa soltanto di negare l'evidenza, cioè la paralisi derivante dai dissensi incrociati all'interno della maggioranza?

Il ministro Frattini dice di sperare che Berlusconi possa indicare «le grandi linee» del provvedimento domani in consiglio europeo. In mancanza d'altro lo speriamo anche noi. Ma il fatto è che Berlusconi doveva arrivare all'appuntamento con decisioni prese e capaci di convincere, non con una vaga idea di quel che forse farà in seguito.

Vogliamo stupirci, allora, del fatto che Obama abbia di nuovo discusso la crisi soltanto con Merkel, Sarkozy e Cameron? Oppure dell'assenza italiana in un dibattito che si va aprendo su possibili modifiche ai Trattati o su nuovi meccanismi per la governance economica europea? Mentre nell'eurozona la temperatura sale, l'Italia resta fedele a se stessa: non pervenuta.

Franco Venturini

22 ottobre 2011 11:09© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_22/sorvegliati-non-speciali-venturini_8992106a-fc85-11e0-92e3-d0ce15270601.shtml
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« Risposta #27 inserito:: Dicembre 10, 2011, 10:28:46 am »

Il ponte che non c'è

La novità che il vertice di Bruxelles propone ai mercati è che ora, per la prima volta da quando è cominciata la bufera, l'eurozona ha un piano. Non un piano a ventisette, perché la Gran Bretagna mai avrebbe potuto accettare che nuove regole e nuove sanzioni - per di più ispirate dalla Germania - condizionassero la City di Londra. Non un piano per la modifica dei trattati esistenti, perché senza gli inglesi si dovrà elaborare un trattato intergovernativo tra chi ci sta. Ma pur sempre un piano che segna una svolta rilevante. Troppo a lungo, mentre la crisi si aggravava a beneficio di speculazioni palesi e occulte, finanziarie e politiche, i dirigenti di Eurolandia avevano seminato confusioni di intenti e velleitarismi tecnici. Adesso invece, con Angela Merkel nei panni del direttore d'orchestra, la sponda da raggiungere entro la fine di marzo è stata definita: maggiore integrazione in una Unione fiscale e dunque nuove cessioni di sovranità, sanzioni automatiche per i trasgressori delle regole di bilancio (il rientro dal debito resta cosa separata), controlli preventivi e vincolanti delle contabilità nazionali, adeguamento delle Costituzioni. L'Europa a due velocità made in Germany, insomma, nasce con il dito sul grilletto finanziario per impedire che quanto sta accadendo oggi possa ripetersi in futuro.

Ma se Sarkozy parla già di momento storico, e se è giusto rallegrarsi della promessa di far nascere quella Unione fiscale, cioè di bilancio, che ormai tutti consideravano indispensabile per tenere in vita la moneta unica e correggere le manchevolezze di Maastricht, sarebbe imprudente dimenticare che soltanto di una promessa si tratta. E che per arrivare entro marzo sulla sponda di tutte le virtù gli architetti dell'eurozona avranno bisogno di un ponte: quel ponte che oggi si fatica a scorgere perché il tanto auspicato «grande scambio» tra rigore futuro e flessibilità immediata nel sostegno dell'euro a Bruxelles non si è verificato o è stato tenuto segreto.

Le difficoltà che attraversiamo sono destinate a durare. Gli italiani passeranno le feste all'ombra di una manovra necessaria ma non per questo meno carica di sacrifici, e situazioni analoghe esistono in altri Stati dell'eurozona. Il 2012 si annuncia come un anno di sostanziale recessione. I trasferimenti di sovranità uniti ai disagi sociali incoraggiano quasi sempre forme di populismo, e il populismo di questi tempi è anti-europeista. Quel che più conta, nei primi mesi del 2012 l'Italia dovrà piazzare sul mercato grandi quantità di titoli di Stato. Non si può dunque aspettare marzo come si aspettasse Godot, con la tormentata astrazione del teatro dell'assurdo. Fatta salva la prospettiva del nuovo trattato serve una rete di sicurezza immediata, bisogna prevedere un ombrello protettivo che convinca mercati e agenzie di rating a invertire le tendenze attuali e a farci giungere in discreta salute al nuovo sistema comune.

Ebbene, in questa direzione il vertice di Bruxelles ha fatto troppo poco. Positiva è la decisione di trasferire risorse al Fondo monetario che potrà così più agevolmente aiutare Stati dell'Eurozona che ne facessero richiesta. Bene per l'anticipo a luglio del Fondo permanente e per la gestione tecnica del Fondo salva Stati affidata alla Bce. Ma l'ammontare delle risorse complessive utilizzabili subito resta da verificare, al pari di alcuni meccanismi non proprio secondari. Gli eurobond non sono stati nemmeno citati, anche se Mario Monti ha assicurato che a questa ipotesi si continua a lavorare. E soprattutto nulla è stato detto di misure per la crescita, e nulla è stato detto di un più marcato interventismo della Bce per tenere a bada l'eccessivo aumento degli spread e le loro conseguenze.

Il tallone d'Achille dell'Europa che esce da Bruxelles è ancora tutto qui. La Bce ha ragione a fare il suo mestiere e ad affermare la sua indipendenza. In aggiunta la cancelliera Merkel ha bisogno per il suo fronte interno che della Bce non si parli. Ma per i mercati una credibile polizza di assicurazione contro gli intralci che sul cammino del nuovo trattato sorgeranno (referendum in Irlanda?) può venire soltanto da Francoforte. La speranza è che ciò che non è stato detto a Bruxelles avvenga ugualmente, con discrezione, sulla scia di quanto già accade e tanto ha aiutato l'Italia. Vada per il ponte non dichiarato, purché ci sia.

Franco Venturini

10 dicembre 2011 | 7:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_10/il-ponte-che-non-c-e-franco-venturini_05c5fb5e-22f8-11e1-bcb9-01ae5ba751a6.shtml
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« Risposta #28 inserito:: Marzo 10, 2012, 04:09:30 pm »

Servizi e Pregiudizi

Secondo una consolidata prassi diplomatica è effettivamente «inspiegabile», come ha detto il presidente Napolitano, che il governo britannico non abbia chiesto il parere dell'Italia sul blitz militare che è poi costato la vita a Franco Lamolinara e al suo compagno di prigionia in Nigeria. Ma le circostanze che è urgente «spiegare» non finiscono qui, e non è soltanto da Londra che gli italiani hanno diritto a ricevere un chiarimento.

Alle ore 10.30 di giovedì i nostri servizi vengono avvertiti dai colleghi inglesi che una operazione per tentare di liberare i due ostaggi sta per scattare. L'informazione raggiunge il presidente del Consiglio Monti «a operazione avviata». Più tardi, mentre Monti rientra in aereo dalla visita a Belgrado, è il premier Cameron a telefonargli per informarlo del pessimo esito dell'attacco. Una ricostruzione apparentemente senza segreti.

Eppure alla riunione del Copasir convocata per lunedì alcuni interrogativi dovranno trovare risposta. Perché se è vero che Mario Monti farebbe comunque bene ad attribuire la delega per i servizi di sicurezza, è ancor più vero che al di là della tragica morte di Franco Lamolinara si pone oggi una questione di interesse nazionale che non può essere derubricata a incidente diplomatico: abbiamo o non abbiamo servizi efficienti e interlocutori governativi capaci di svolgere correttamente i loro compiti in materia di sicurezza?

Di interrogativi «inspiegabili» ne esistono più di uno. È vero o non è vero che gli 007 di Sua Maestà, nei contatti avuti con i colleghi italiani, avevano ipotizzato la possibilità di un ricorso alla forza senza peraltro avvertirli nell'imminenza dell'azione intrapresa? Come era stata valutata, dai nostri servizi, la presenza in zona di un reparto di incursori britannici evidentemente pronti a fare il loro mestiere? E di ciò i vertici dei servizi avevano adeguatamente informato l'autorità politica, oppure erano erroneamente convinti, e per conseguenza lo era il governo, che prima di dare il fuoco verde alle sue teste di cuoio Londra avrebbe chiesto l'accordo italiano?

Poi, beninteso, c'è da chiarire il comportamento britannico. Ma qui non è troppo difficile immaginare che Londra abbia considerato con qualche arroganza i nostri precedenti, i molti sequestri risolti con pagamenti di riscatti. Questo approccio gli inglesi non lo apprezzano. E devono essersi detti: se chiediamo il parere preventivo di Roma ci diranno di stare fermi, mentre noi vogliamo usare i nostri metodi. Purtroppo i due ostaggi erano insieme.

Le vicende internazionali extra economiche, insomma, sembrano accanirsi sulle falle di una credibilità che non può essere ricostruita in breve tempo. I due marò detenuti in India rappresentano anch'essi un pedaggio pagato a fattori «inspiegabili»: il rientro della nave in porto, l'opinabile viaggio del ministro Terzi a Nuova Delhi, il ritardo nel coinvolgimento dell'Europa e, speriamo, degli Usa. Indiscrezioni molto credibili dicono ora che Berlusconi, corso a festeggiare la vittoria elettorale di Putin, gli abbia chiesto di intervenire. E che Putin lo stia già facendo, con tutto il peso dei rapporti economici e militari tra Russia e India. Una nuova speranza, ma anche una nuova conferma che qualcosa non funziona nel nostro stare al mondo.

Franco Venturini

10 marzo 2012 | 7:14© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_10/servizi-pregiudizi-venturini_38d865aa-6a78-11e1-8b63-010bde402ef9.shtml
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« Risposta #29 inserito:: Novembre 04, 2012, 05:26:02 pm »

AMERICA E CINA, I GIORNI DEL POTERE

Il presidente e i timonieri


Martedì in America gli elettori decideranno sul filo di lana chi sarà il loro presidente nei prossimi quattro anni, giovedì in Cina comincerà a porte chiuse un congresso del Partito comunista che deve scegliere timonieri e rotte per i prossimi dieci anni: se un regista occulto avesse voluto accostare i due eventi politici che più di tutti plasmeranno il mondo di domani e contemporaneamente esaltarne le differenze, non avrebbe potuto fare di meglio.

Dei due candidati alla Casa Bianca, Barack Obama e Mitt Romney, sappiamo tutto, ma non sappiamo ancora chi vincerà. Dei due nuovi dirigenti cinesi, Xi Jinping, segretario del Partito, e Li Keqiang, primo ministro, conosciamo invece l'identità e siamo ragionevolmente sicuri della loro nomina, ma poco o nulla sappiamo su di loro, sulle loro idee, sulle loro vite. In America le elezioni sono una maratona, si comincia con le primarie, poi le convention, poi la campagna in ogni Stato e i dibattiti televisivi. In Cina vige invece l'unità di facciata, che peraltro questa volta non ha retto: Bo Xilai è uscito di scena con il marchio del criminale, la lotta di potere tra correnti contrapposte è venuta ripetutamente alla luce, il New York Times , certo non da solo, ha svelato le enormi ricchezze accumulate dall'attuale premier Wen Jiabao e dalla sua famiglia. Eppure giovedì il Partito comunista tornerà ad affermare il dogma dell'unità come se nulla fosse accaduto. Curioso: in America il popolo decide, nella Repubblica Popolare il popolo comincia appena a farsi sentire.

Ma se tra martedì e giovedì Stati Uniti e Cina porteranno ai livelli più alti le loro diversità di cultura politica, esistono anche, tra Washington e Pechino, somiglianze e solidi legami. Come potrebbe essere diversamente, tra la prima e la seconda economia al mondo, oltretutto in attesa di scambiarsi le posizioni tra una quindicina d'anni o forse prima? Se non fosse per il paradosso europeo (oggi l'Europa conta ma in negativo, soltanto perché la crisi dell'euro fa paura e minaccia contagio) chi mai nel mondo multipolare che si va precisando potrebbe pretendere una importanza paragonabile a quella dell'America o a quella della Cina?

Profondamente diversi, i due protagonisti della scena mondiale sono dunque anche fratelli, e non soltanto perché uno (la Cina) ha in tasca una buona parte delle cambiali dell'altro (l'America). Si dice che Pechino preferisca una vittoria di Obama, il che risulterebbe coerente con il conservatorismo cinese. Ma sarebbe interessante, se vincesse Romney, vedere come le sue requisitorie anticinesi cadrebbero ben presto nel dimenticatoio. Usa e Cina sono condannate, nel reciproco interesse, a convivere limitando le conseguenze dei contrasti; e possono, quando se ne presenta l'occasione, indossare le divise del tanto vanamente discusso G2, che non sarà mai, appunto, più che occasionale e difensivo.

L'America cambierà comunque martedì, molto meno se vincerà Obama, molto di più se vincerà Romney. Ma - e qui è davvero difficile stabilire se si tratti di una somiglianza o di una diversità - da giovedì in avanti dovrà cambiare soprattutto la Cina. I nuovi dirigenti designati, Xi Jinping e Li Keqiang, dovranno trovare l'accordo con sette membri del Politburo e con i militari sul modo migliore di adeguare ai tempi nuovi l'economia e la sempre meno rassegnata società cinese.

I termini della sfida spiegano il terremoto politico che ha preceduto e che forse accompagnerà il Congresso. Per quasi vent'anni l'economia cinese ha beneficiato di una crescita a due cifre. Quest'anno la previsione è di un aumento del Pil del 7,5 per cento: un sogno per noi, una sirena d'allarme per i cinesi. Il modello basato quasi interamente sulle esportazioni, in un mondo che stenta a crescere quando non è in recessione, non funziona più. Bisogna pensarne un altro, bisogna controllare l'inflazione, prevenire la bolla immobiliare e verificare la solidità (dubbia) del sistema bancario. Bisogna, insomma, adeguare la Cina al pianeta che la circonda e in particolare alla strisciante crisi americana (eccola di nuovo, l'interdipendenza dei due giganti). Non basta. La società cinese è cambiata, è più istruita, utilizza Internet malgrado tutti gli ostacoli posti dalle autorità, è dunque informata e non tollera più la corruzione e i privilegi estremi di un esercito sempre più nutrito di nuovi miliardari capital-comunisti. Sono all'ordine del giorno proteste di varia natura, e nelle fabbriche emerge lentamente una sorta di sindacalismo spontaneo.

La risposta ai due versanti del problema, quello economico e quello sociale, risiede nel favorire i consumi interni. La Cina lo sta già facendo, ma dovrà farlo molto di più. E per questo serviranno riforme, e per le riforme servirà consenso nel vertice del potere. Il tutto senza aprire varchi al dissenso politico, che anzi viene colpito più di prima. Il tutto senza indebolire il controllo del Partito comunista sui forzieri capitalisti della costa meridionale.

In fondo la sfida è ancora tutta qui, ed è doppia. L'Occidente ha pensato a lungo che comunismo e capitalismo non potessero coesistere a lungo, e ha atteso l'esplosione di un sistema che considerava impossibile. Oggi l'Occidente riconosce che il modello cinese ha funzionato, e prega che non esploda anche se i contrasti tra comunismo e capitalismo sono cresciuti. Martedì e giovedì, America e Cina tanto lontane e tanto vicine.

Franco Venturini

4 novembre 2012 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

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