LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => ESTERO fino al 18 agosto 2022. => Discussione aperta da: Admin - Aprile 28, 2008, 10:04:10 pm



Titolo: Franco VENTURINI
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2008, 10:04:10 pm
L'Occidente non può perdere


di Franco Venturini


La parata militare e gli squilli di tromba, le massime autorità riunite in tribuna, la sparatoria improvvisa. Ieri l’afghano Hamid Karzai ha rischiato di finire i suoi giorni come l’egiziano Anwar Sadat nel 1981. Ma le somiglianze tra l’omicidio politico tentato a Kabul e quello compiuto ventisette anni fa al Cairo, per quanto spettacolari, finiscono qui. Perché l’Afghanistan di oggi, a differenza dell’Egitto dei primi anni Ottanta, ospita una guerra che l’Occidente non sa come vincere e non può permettersi di perdere. La cronaca delle ultime settimane, è vero, ci racconta una storia che dovrebbe indurre all’ottimismo. La Nato ha confermato a Bucarest la sua determinazione nella lotta contro i talebani. Sarkozy manderà in Afghanistan altri settecento soldati.

La vittoria elettorale di Berlusconi pone fine alla fronda della sinistra radicale e suggerisce un maggior impegno dell’Italia. La Germania farà anch’essa qualcosa dopo la scadenza del mandato parlamentare in ottobre. I caveat sulla mobilità delle forze alleate diventeranno in linea di principio più elastici. Persino la Russia fa la sua parte, autorizzando il transito dei rifornimenti. Ma la guerra afghana, dietro queste foglie di fico, resta una sfida estremamente ardua per la coalizione atlantica come lo era già stata per l’impero sovietico e prim’ancora per quello britannico. I talebani, autori dell'attentato a Karzai, non perdono terreno e mostrano di poter agire anche nella capitale. Gli aiuti civili che raggiungono effettivamente la popolazione sono meno della metà di quelli erogati.

Dietro le polemiche interalleate sui caveat militari ve ne sono altre più discrete ma più gravi, sulle modalità operative e sull’opportunità di dialogare con la parte meno ostile dei talebani. Clamoroso è il dissenso (anche tra Usa e Gran Bretagna) sui metodi migliori per rallentare la coltura dell’oppio quando non provvede l’inverno. La sostenibilità politica delle perdite comincia a diminuire sui fronti interni dei Paesi impegnati in prima linea e sconsiglia gli altri dall’andarci. Nel Pakistan finalmente democratico affiorano tentazioni di compromesso con i gruppi estremisti tacitamente ospitati. E come se tutto ciò non bastasse, l’Afghanistan è ormai in marcia di avvicinamento alle elezioni presidenziali del prossimo anno. L’attentato di Kabul è probabilmente il primo atto di una campagna che ci riserverà altre violenze. Hamid Karzai, che l’anno venturo vorrebbe ottenere un nuovo mandato, è sotto assedio: gli occidentali lo accusano di debolezza, lo incalzano i «signori della guerra» presenti sul territorio ma anche nel Parlamento di Kabul, lo indeboliscono le novità provenienti dal Pakistan.

E lui, forte del fatto di non avere alternative, reagisce prendendosela con gli alleati della Nato che uccidono ancora troppi civili, che impediscono ai talebani recuperabili di farsi avanti, che non tengono nel dovuto conto l’orgoglio nazionale di tutti gli afghani. Dichiarazioni tattiche per recuperare popolarità, certo, ma purtroppo anche argomentazioni fondate. La crisi afghana si avvia così a diventare sempre meno governabile. Tra etnìe che si temono, interessi da oppio e alleanze mutevoli, sin da oggi è difficile immaginare il recupero politico di una parte consistente dei talebani. Così come non sembra avere un gran futuro la speranza atlantica di costruirsi una exit strategy fondata sulla progressiva «afghanizzazione» del conflitto. Esattamente come avviene in Iraq, anche se McCain è l’unico candidato presidenziale Usa disposto a riconoscerlo.

Ma l’Afghanistan, diversamente dall’Iraq, è una guerra al terrorismo collettiva sin dalle origini e legittimata dopo l’Onu anche dalle dichiarazioni di Al Qaeda. In quella Kabul dove ieri Karzai ha sfiorato la morte è in gioco il concetto stesso di Occidente, e per questo lì l’Occidente non può perdere. Il che non gli impedisce di essere lontano della vittoria.

28 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Franco VENTURINI
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2008, 03:52:12 pm
L'OCCIDENTE E I DISASTRI AFRICANI

Il silenzio su Mugabe


di Franco Venturini


I massacri che passano sotto silenzio in Congo, la strage del Darfur che continua, la mattanza tra bande rivali e forze straniere in Somalia. L'Africa brucia, come sempre. E sta per inventare, se il tiranno Robert Mugabe ignorerà fino in fondo le pressioni internazionali, una formula politica del tutto inedita: il ballottaggio presidenziale con un solo candidato.

Pensieri da riva nord potrebbero indurci ad alzare le spalle davanti a fatti lontani e oscuri. Ma così facendo sbaglieremmo di grosso. In Africa si gioca una determinante partita geopolitica ed energetica tra Cina e America mentre Russia e India cercano spazio. In Africa è stata individuata la «nuova frontiera» di Al Qaeda. In Africa si vanno consolidando aree di forte crescita che potrebbero risultare utili alle stanche economie europee. In Africa rimangono terribili serbatoi di fame e di disperazione, di esseri umani pronti a morire pur di tentare l'approdo a Lampedusa e dintorni. L'energia, la sicurezza, l'economia, l'immigrazione clandestina: è forse lontana da noi, questa Africa? E in un continente dove la democratizzazione ha comunque fatto progressi, faremmo forse bene a voltarci dall'altra parte davanti allo scempio dello Zimbabwe?

La sfida lanciata da Robert Mugabe, ben al contrario, diventa un test: importante per l'Occidente, e fondamentale per gli africani. Soltanto Dio può togliermi il potere, afferma il dittatore di Harare mentre fa incarcerare o uccidere i suoi oppositori. Ma poi, forse proprio perché l'Africa è cambiata, oppure perché gli è rimasta una vaga traccia delle regole britanniche da lui stesso sconfitte nel 1979, Mugabe pretende dalle urne una paradossale legittimazione. Ed è qui che gli africani, prim'ancora della comunità internazionale, hanno l'occasione di punire il tiranno e di affermare se stessi.

Evocare un intervento militare esterno sia pure «di pace», come ha fatto il capo dell'opposizione Morgan Tsvangirai, è per il momento pura retorica. Ma la legittimità del potere, quella sì può essere strappata a Robert Mugabe. È l'alone da ultimo sopravvissuto della lotta anticoloniale, sono le sue false credenziali di generoso padre della patria che vanno cancellate al cospetto delle crudeli repressioni degli ultimi mesi. E sono gli africani a dover provvedere.

Certo, l'Occidente farà bene a studiare sanzioni più mirate e più efficaci di quelle in vigore. Ed è positivo che Cina e Russia abbiano sottoscritto la condanna dell'Onu. Ma se non saranno gli africani a considerare illegittime le elezioni di domani, se non saranno loro a promuovere un ricambio di potere a Harare o almeno un governo di transizione, se non saranno loro a isolare il tiranno che ha portato l'ex ricco Zimbabwe all'80 per cento di disoccupazione e al milione per cento di inflazione, l'Africa avrà mancato una grande opportunità. E l'avrà mancata anche il presidente sudafricano Mbeki, che più di tutti possiede l'influenza e i mezzi necessari per accrescere la legittimità africana negando quella di Mugabe.
Non sarà facile, proprio perché Mugabe è stato un eroe dell'anticolonialismo. Ma se l'Africa ce la farà come è nel suo interesse, se riuscirà a tagliare il cordone ombelicale ormai impresentabile che accosta Mugabe ai miti veri e falsi del riscatto indipendentista, allora anche agli ex colonialisti si imporrà qualche riflessione.

Il pensiero convenzionale vuole che il colonialismo abbia lasciato in Africa qualche opera, un vuoto di classe dirigente e confini forieri di violenze inevitabili. Tutto vero, ma non è vera, nemmeno in questo caso, la presunzione di impotenza che ne deriva. Se la Fao convoca un vertice sulla fame e poi resta al palo, è perché il doppio protezionismo degli americani e degli europei blocca ogni progresso. Se gli aiuti all'Africa si disperdono in mille rivoli, è perché i politici occidentali preferiscono i proclami e le grandi cifre a un impegno serio e programmato. Se in Darfur i massacri continuano, è perché alla più grande forza di pace mai varata dall' Onu continuano a mancare i due terzi degli effettivi e nessun Paese occidentale è pronto a contribuire.

Senza avere paura dei fantasmi della storia, l'Europa ex colonialista dovrebbe riconoscere di non avere una politica africana diversa dalla cura di alcuni interessi energetici e dai «gesti» umanitari. Invece una politica africana serve. E significa prevedere che gli africani vengano aiutati — di più — ma garantiscano in cambio livelli minimi di governance economica e politica. Significa incoraggiare le democrazie (senza «esportazioni» in punta di baionetta) e isolare i tiranni. Significa non permettere che i governi dei Grandi screditino l'Onu salvo poi metterla sotto accusa. Persa la speranza sul Darfur, è lo Zimbabwe il nuovo banco di prova.



26 giugno 2008

da corriere.it


Titolo: Franco VENTURINI - Cambiare strategia
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2008, 02:51:30 pm
EST-OVEST

Gli errori di Mosca

di Franco Venturini


I russi sono bravi in molti campi, ma in uno sono imbattibili: nel riuscire a passare dalla parte del torto anche quando hanno ottime frecce al loro arco.

È successo, l’estate scorsa, con la Georgia. Mosca e Tbilisi si provocavano reciprocamente da molti mesi, ma poi fu il presidente georgiano Saakhasvili, mentre il mondo intero guardava alle Olimpiadi di Pechino, a sbagliare i conti bombardando l’Ossezia del Sud e i suoi peacekeepers russi. Mosca non poteva stare a guardare, pena la perdita di ogni credibilità regionale e internazionale. Ma una volta superata con la mediazione europea la fase calda della crisi, il Cremlino avrebbe dovuto accontentarsi di un bottino già ricco. Invece, ha scelto di riconoscere l’indipendenza di Ossezia del Sud e Abkhazia. Con l’appoggio del solo Nicaragua. Contraddicendo la precedente indignazione per l’indipendenza del Kosovo. Mettendo in difficoltà i più disponibili tra i suoi interlocutori europei.

Qualcosa di analogo sta accadendo in queste ore nei messaggi che Medvedev e Putin (ma forse presto torneremo a dire Putin e Medvedev) stanno indirizzando al neoeletto Barack Obama. Il risentimento della Russia nei confronti dell’Amministrazione americana uscente è comprensibile. Malgrado il buon rapporto personale tra Bush e Putin, malgrado la lotta comune contro il terrorismo, malgrado i permessi di transito concessi dalla Russia verso l’Afghanistan, negli ultimi otto anni Mosca si è sentita vittima di una «strategia d’assedio» da parte statunitense. Prima la denuncia unilaterale del trattato Abm sulle difese missilistiche, poi l’estensione della Nato anche in territori ex-sovietici e la creazione di nuove basi militari ravvicinate (in Romania e in Bulgaria), poi ancora la volontà di far entrare Georgia e Ucraina nell’Alleanza Atlantica e — soprattutto — l’installazione di uno «scudo» anti-balistico in Polonia e nella Repubblica Ceca. Con gli Usa che sostengono di avere l’Iran nel mirino, e la Russia che si sente invece spiata e minacciata.

Non stupisce allora che tra Mosca e Washington la tensione abbia continuato a crescere, resuscitando persino approssimative ipotesi sul «ritorno della guerra fredda». Così come non stupisce che le ampie imperfezioni dell’autoproclamata democrazia russa, e l’uso dell’arma energetica da parte del Cremlino, abbiano avuto l’effetto di gettare olio sul fuoco.

Ma ora accade che Barack Obama abbia trionfalmente vinto le elezioni Usa, che manchino soltanto due mesi al suo insediamento alla Casa Bianca e che persistano, in attesa di opportune verifiche, le indicazioni emerse durante la campagna elettorale: posizione intransigente sulla integrità territoriale della Georgia (peraltro realisticamente irrecuperabile), e maggiore possibilismo sulla opportunità di schierare in Europa uno «scudo» anti- balistico la cui efficacia, tra l’altro, non è stata dimostrata.

Per il Cremlino si tratta di uno spiraglio non da poco, di una opportunità che andrebbe esplorata con la dovuta prudenza. E invece Medvedev che fa? Agita il bastone, rifiuta le proposte avanzate alla venticinquesima ora da Bush e annuncia che se Obama porterà a compimento il progetto dello «scudo» la Russia risponderà dislocando i nuovi Iskander nell’enclave di Kaliningrad.

Missile contro missile nel cuore della Nato e della Ue, con l’aggravante che se i vettori russi fossero dotati di testata nucleare salterebbe, dopo il trattato Cfe sulle forze convenzionali, anche l’Inf che vieta gli euromissili. E per non lasciare dubbi sulle sue intenzioni strategiche il Cremlino, mentre con una mano mostra il pugno di ferro, con l’altra torna a chiedere di negoziare un nuovo assetto complessivo della sicurezza europea. A Mosca non sembrano aver capito che intimorire, anche in sede di «risposta», non è sempre la tattica migliore. Obama, eletto su una linea internazionale più multilaterale e dialogante di quella di Bush, tutto può fare durante la transizione e il primo periodo di presidenza meno che mostrarsi debole, arrendevole o condizionabile da minacce esterne. Il risultato è che se anche avesse già deciso di archiviare lo «scudo», dopo i moniti di Medvedev dovrà come minimo rinviare la mossa. Eppure l’occasione di costruire un miglior rapporto Usa-Russia esiste, anche perché i principali governi europei (Berlusconi in testa) spingono in questa direzione e daranno il buon esempio domani a Nizza. Ma per raggiungere l’obbiettivo serviranno scambi di concessioni che Mosca non sembra contemplare. E servirà, soprattutto, che il Cremlino non dia ragione alla caricatura e non si muova con il garbo di un orso.

13 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Franco Venturini La chance di Sarkozy
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2009, 11:42:52 am
LA DIPLOMAZIA E LA GUERRA

La chance di Sarkozy


di Franco Venturini


L'agitarsi della diplomazia europea per i combattimenti a Gaza — pur ampiamente giustificato da considerazioni umanitarie — può apparire tardivo e inutile. Tardivo perché una Europa alle prese con la crisi finanziaria non si spese troppo, in novembre e nella prima metà di dicembre, a favore del rispetto e del prolungamento della vacillante tregua tra Israele e Hamas. Inutile perché è noto a tutti che Gerusalemme non intende per ora accettare alcuna tregua, ma anzi si sforza, come ha energicamente fatto ieri Tzipi Livni, di ricordare gli impegni che la comunità internazionale ha da tempo preso proprio contro Hamas.

Eppure nell'iniziativa dei ministri Ue non tutto è fuori tempo o ingenuo. Così come non è soltanto un caso di bulimia politica, dopo i successi della presidenza europea, a far giungere in Medio Oriente l'inarrestabile Nicolas Sarkozy. Il capo dell'Eliseo sembra invece avere in mente due obbiettivi ben chiari. Primo distinguersi da Bush, inserirsi nel vuoto della transizione americana e se possibile condizionare il silenzioso Obama che tra due settimane sarà alla Casa Bianca. Secondo e più importante, posizionare se stesso e l'Europa per un eventuale «scenario libanese», nel quale, come al termine del conflitto tra Israele e Hezbollah nel 2006, si rivelasse utile un apporto esterno per garantire la stabilità. Nel Sud Libano nacque Unifil II, e allora fu l'Italia a guidare l'operazione. Lo scenario può ripetersi a Gaza? La Livni e molti altri lo negano, ma nel dubbio questa volta è la Francia a proporsi. Il che ci porta a un quesito fondamentale: appurato che di tregua imminente non si parla, quale sarà la strategia israeliana nel medio termine?

Lo strapotere militare di Gerusalemme punterà a sradicare con la forza Hamas e ad eliminare i suoi leader, oppure Gaza sarà teatro «soltanto» di un castigo tanto duro da bloccare il lancio di razzi contro la popolazione civile israeliana e da indurre Hamas a più miti consigli? Immersi come sono in una campagna elettorale, la Livni, Barak e il loro rivale Netanyahu hanno lasciato trasparire approcci non identici. Che si riducono a due schemi principali. Nel primo, quello più radicale, l'operazione «piombo fuso » deve servire ad archiviare la struttura di potere di Hamas una volta per sempre, perché soltanto così Israele potrà acquisire la certezza di non vedersi piovere addosso nuovi razzi magari più micidiali di quelli usati finora dagli estremisti palestinesi. Questa ipotesi, però, avrà un prezzo alto in perdite di vite anche civili, comporterà una almeno iniziale rioccupazione militare di Gaza, e scaverà tra israeliani e palestinesi un fossato forse non più colmabile, certamente non colmabile da un delegittimato Abu Mazen seduto sui carri armati di Israele.

Non stupisce che a Gerusalemme consensi più ampi accompagnino un secondo scenario. No alla rioccupazione permanente o semi-permanente di Gaza. No alla eliminazione fisica di Hamas, perché non si può eliminare un intero movimento che è anche di popolo e che nel 2006 vinse le elezioni palestinesi. Sì a una azione militare tanto prolungata quanto servirà per distruggere le attrezzature di lancio dei razzi, i tunnel sotterranei di rifornimento, e ogni altro sostegno alla sfida missilistica di Hamas. A quel punto e soltanto a quel punto sarà concepibile un cessate il fuoco. Che tuttavia lasci a Israele le mani libere per nuove incursioni in caso di necessità e non conceda a Hamas l'apertura dei varchi di transito da e per Gaza (gli uomini di Hamas sono certamente pericolosi fanatici, ma andrebbe ricordato che la gestione di questi varchi da parte israeliana non è estranea ai furori che regnano nella Striscia) . Si tratta, in questo secondo caso, di uno scenario realistico? Certamente sì, ma molte sono ancora le incognite.

Per accettare la tregua Israele ha bisogno che siano prima cessati quei lanci di razzi che continuano in queste ore. Altrimenti si tratterebbe di una «non vittoria», come nel 2006 in Libano. Hamas ha invece l'esigenza opposta: che fino a un minuto prima del cessate il fuoco siano stati ancora lanciati dei razzi, in modo da avere qualcosa da negoziare. Malgrado la sproporzione delle forze, l'esito di questo braccio di ferro non è scontato. Come non è sicuro che serva, o che venga accettata (anche se Ehud Barak sarebbe meno contrario della Livni) una garanzia internazionale sul terreno. E soprattutto, che dirà, che farà Obama quando si sarà tolto il bavaglio che porta sulla bocca? Anticipare i tempi va bene, ma forse Sarkozy ha anticipato troppo. La guerra, sconvolgente al di là di ogni propaganda, continuerà. E gli abitanti civili di Gaza, fratelli per una volta del caporale israeliano Gilad Shalit ostaggio di Hamas, continueranno a sperare di vederne la fine.

06 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: Franco VENTURINI - Cambiare strategia
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2009, 10:10:33 am
IL PIANO USA E L’IMPEGNO ITALIANO

La prima linea afghana


di Franco Venturini


Per l’Afghanistan si cambia? Lo hanno promesso il presidente Obama e il generale Petraeus, lo auspicano da anni gli alleati europei, ma ora che dalle parole bisogna passare ai fatti l’annunciata «nuova strategia» diventa più incerta ogni giorno che passa. L’America manderà altri 17 mila soldati. Tanti, si compiacciono i capi militari. Ma il surge di Obama in Afghanistan funzionerà come funzionò, grazie a Petraeus, quello di Bush in Iraq? Se non proprio il pessimismo, prevalgono i dubbi. Il «cimitero degli imperi», come lo chiama Ahmed Rashid, potrebbe riservare alla Nato la stessa sorte propinata agli inglesi e poi ai sovietici. E non si tratta soltanto del peso della Storia: oggi la guerra si combatte in Afghanistan ma anche in Pakistan, i talebani sono ovunque all’offensiva, si rafforza il potente incentivo del narcotraffico, e gli alleati occidentali, invece di conquistarlo, stanno perdendo l’appoggio della popolazione.

Anche perché nel 2008 sono stati uccisi dai bombardamenti 2.118 civili, la cifra annuale più alta dall’inizio delle ostilità. La ricetta di Obama, non a caso, ha due direzioni di marcia. La prima è militare, mentre la seconda, altrettanto importante, punta a un programma di ricostruzione efficace e percepibile da parte della popolazione. Cose in verità già dette, e mai attuate a livello adeguato. Manca il coordinamento tra impegno armato e impegno civile, gli aiuti stanziati sono insufficienti e arrivano a destinazione con il contagocce (Kabul afferma addirittura che ingenti somme siano state contabilizzate due volte), impera la corruzione e anche per questo si vorrebbe, ma soltanto in teoria, che Karzai non fosse confermato Presidente il prossimo agosto. E che dire degli europei? Offrono in coro complimenti a Obama, ricordano fieri «noi lo avevamo detto». E poi, in aggiunta ai rinforzi provvisori per il periodo elettorale, arrivano 600 uomini dalla Germania, 500 dall’Italia, 1.000 dalla Francia un anno fa. Molto meno di quanto volesse l’America, ma la nuova America è pragmatica: date allora, dice la Casa Bianca agli alleati, un ulteriore aiuto civile e finanziario.

Con l’insicurezza che cresce in ogni angolo dell’Afghanistan, con la crisi economica che incalza? Possiamo esserne certi, giungeranno altri gesti dimostrativi e poco più. La dichiarata «priorità » di Obama in politica estera, così, si scopre chiusa in una trappola che lascia pochi margini di manovra. Il concetto di «vittoria» va ripensato come è stato ripensato in Iraq, e non potrà comunque essere soltanto militare. Petraeus proverà, con poche probabilità di successo, a dividere i talebani come fece con i sunniti in Iraq. Il fattore Pakistan è una chiave di volta essenziale, ma nemmeno lì le cose vanno bene. Anche perché Obama deve ancora risolvere il dilemma tra incursioni armate oltre confine e relative ricadute nazionaliste che alimentano l’appoggio ai talebani.

E poi ci sono gli alleati, contenti del cambiamento degli Stati Uniti ma soprattutto cauti nell’appoggiarlo. Cosa farà la Spagna, riconciliata con Washington al punto che Moratinos vedrà oggi Hillary Clinton tre giorni prima di Frattini? Cosa farà la Polonia, se troverà i soldi per muovere le sue truppe? L’Italia un segnale di disponibilità lo ha dato, pur considerando «non permanente» l’accoglimento di una eventuale richiesta di intervento in prima linea. In realtà è poco probabile che un tale sollecito arrivi. Governo e opinione pubblica italiani, piuttosto, dovrebbero essere consapevoli del fatto che tutto l’Afghanistan è avviato a diventare una prima linea, che presto non esisteranno più «zone relativamente tranquille», e che i rischi per i nostri soldati, malgrado il loro impegno sia anche civile, crescono di settimana in settimana.

Barack Obama è presidente da troppo poco tempo per meritare che i suoi progetti vengano trattati come vane illusioni. Ma non deve stupire che siano sempre più numerosi, in Occidente, coloro che identificano l’idea di vittoria con una semplice exit strategy da questo infernale Afghanistan «cimitero degli imperi». Ed è forse qui che la nuova Amministrazione Usa potrà pesare di più. Allargando la questione afghana a tutta la regione (compreso l’Iran, che l’Italia vuole invitare a una riunione G-8). Parlando con quella parte del nemico che accetti di parlare costruttivamente. Migliorando i rapporti con la popolazione civile. E soprattutto accelerando la creazione di un esercito nazionale afghano in grado di raccogliere il testimone. L’alternativa è quel «Vietnam di Obama» che sarebbe, questa volta, anche il nostro.

24 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: Franco VENTURINI - Cambiare strategia
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2009, 11:36:28 am
Pragmatismo triste


di Franco Venturini


Se le buone intenzioni contassero più dei fatti, l'Europa avrebbe compiuto ieri un sostanziale passo avanti nella ricerca di una strategia anti-crisi. Esisteva il rischio di ricostruire il muro di Berlino vent'anni dopo la sua caduta? Non è andata così, perché ai soci dell'est che si erano riuniti per proprio conto prima del vertice di Bruxelles è stato ricordato che i «blocchi » non esistono più, che la solidarietà europea si manifesta caso per caso e che persino la presidenza ceca rifiuta l'idea di aiuti distribuiti su base regionale.

Il protezionismo affiorante minacciava di vanificare i benefici del mercato unico e di ingigantire il caos dell'ognun per sé? A Bruxelles la scomunica del protezionismo è stata unanime, e il mercato unico è stato descritto come insostituibile motore della ripresa e della crescita economica. Risultava impossibile mettere ordine nel settore bancario e riaprire il rubinetto del credito senza prima conoscere l'ammontare dei «titoli tossici » detenuti dagli istituti di credito e poter così elaborare risposte adeguate? I Ventisette hanno concordato una cornice comune europea, la Commissione eserciterà un ruolo di sorveglianza, e l'ipotesi della bad bank ha perso quota: oltre agli scettici della prima ora, anche in Italia perché Berlusconi non la ritiene necessaria e in Francia perché Sarkozy non la vuole.

Questo sarebbe il bilancio di Bruxelles, se le buone intenzioni contassero. Ma alle parole, con lo tsunami economico che incalza, è difficile fermarsi. L'est europeo rimane una bomba a orologeria, e il pericolo non è quello segnalato dal premier ungherese che ieri con una mano chiedeva 180 miliardi di aiuti e con l'altra paventava il ritorno della Cortina di ferro. Certo, l'est come blocco ha cessato di esistere. Ma proprio per questo le sue insolvenze sono legate a doppio filo con la salute delle banche «occidentali » che su quei mercati si sono gettate a capofitto dopo il precoce allargamento europeo del 2004.

Se Ungheria e Lettonia (i messi peggio) diventeranno Stati falliti, crescerà il rischio che l'Austria scivoli sulla stessa china, l'intento di dare regole nuove all'attività finanziaria diventerà ingestibile, e si dovranno moltiplicare nazionalizzazioni e aiuti d'emergenza. Il pericolo del muro, di un muro assai più contorto e discontinuo di quello di Berlino, resta in agguato. Il protezionismo è un male e il mercato unico è un bene. Ma chi ne dubitava? Il fatto è che l'unica alternativa al nazionalismo economico (e dunque al protezionismo) risiede in politiche comuni, quelle che l'Europa avrebbe dovuto mettere in essere.

Ma abbiamo dimenticato che quando Sarkozy (l'accusato di oggi) suggerì prima la creazione di fondi europei anti-crisi, e poi la valorizzazione dell'Eurogruppo e un governo comune dell'economia, fu la signora Merkel a dire nein onde evitare che la Germania pagasse per altri? Da lì, da quei rifiuti sono partite le vie nazionali alla crisi. E oggi è davvero difficile immaginare come possano essere fermate. Un esempio: Sarkò ha ritirato le clausole anti-delocalizzazione annesse ai massicci aiuti di Stato alla sua industria automobilistica. In cambio la Commissione ha approvato gli aiuti, legittimandoli. E noi dovremmo credere che le aziende automobilistiche francesi non ricorderanno egualmente quelle clausole, non le riterranno politicamente vincolanti? Il protezionismo, anche quello mascherato, si accentuerà con l'accentuarsi della crisi. E a salvare il mercato unico non basterà di certo la foglia di fico esibita ieri. Una «cornice europea» contro i titoli avvelenati. Benissimo.

Ma sembra di capire che dentro la cornice ogni Paese farà da sé, come sul resto. Il decantato coordinamento europeo diventerebbe allora ancor più labile, quello con gli USA risulterebbe impossibile, e a ciò nessun G-20 potrebbe porre rimedio. E poi, quanti sono questi veleni presenti nella pancia delle banche mondiali, tre volte il patrimonio delle banche stesse come ieri ha ipotizzato Berlusconi, di più, molto di più? L'Italia si sente al riparo, ma anche lei deve domandarsi come si farà a combattere il male se le banche di ogni latitudine continueranno a non indicare la sua gravità. Quello di ieri a Bruxelles è stato un tentativo di mettere d'accordo regole Ue sempre più in crisi e interventi pubblici sempre più massicci. Tentativo meritevole, ma fragilissimo davanti all'avanzare della crisi. E dopo, quando la tempesta sarà passata? Gli strappi saranno reversibili, oppure la Ue si scoprirà ridotta in macerie? Questo, oggi, sembra interessare poco. La casa brucia, bisogna spegnere l'incendio e si penserà poi ai danni che avranno fatto i pompieri. Per l'Europa è un pragmatismo triste.

02 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Franco VENTURINI - Cambiare strategia
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2009, 08:52:57 am
IL DIALOGO CON IRAN E TALEBANI

Obama e la mano troppo tesa


di Franco Venturini


Barack Obama l’ave­va detto: la mia sarà la politica della ma­no tesa. Bene, per­ché l’approccio ideologico e non dialogante di George Bu­sh aveva creato più problemi di quanti ne avesse risolti. Ma anche la politica della ma­no tesa ha un punto debole: occorre che la controparte l’accetti davvero, che esista­no tra i contraenti traguardi condivisi e flessibilità sul mo­do di raggiungerli. Altrimen­ti, la mano tesa può diventa­re sinonimo di debolezza. Può lasciare spazio a sapienti finzioni e a trappole micidia­li. Obama corre questo tipo di rischi? La risposta è sì, an­che se occorre sperare che si tratti di rischi calcolati.

Cominciamo dall’eccezio­ne che conferma la regola. Obama non aveva teso la ma­no alla Corea del Nord. La cu­pa dittatura di Pyongyang ha allora bussato alla porta del­la Casa Bianca con il lancio di un nuovo missile, e, visto il modesto esito dell’impresa, ieri ha sollecitato l’attenzio­ne del Presidente Usa ria­prendo il contenzioso nuclea­re e dando un calcio al tavolo dei negoziati. Domanda: si sa­rebbero comportati allo stes­so modo, i nordcoreani, se non avessero calcolato che Obama deve difendere la coe­renza della sua politica del sorriso?

L’America di Obama ha fat­to del conflitto afghano la sua priorità. Entro pochi me­si arriveranno sul terreno 21 mila nuovi soldati Usa. Il raf­forzamento dello strumento militare, nella strategia di Obama, è funzionale alla di­struzione di Al Qaeda e in contemporanea alla indivi­duazione di una pragmatica exit strategy. Per facilitare le cose si è pensato di tendere la mano ai talebani «modera­ti » cercando di dividerli da quelli più intransigenti. L’idea non è inedita, il gene­rale Petraeus l’ha collaudata in Iraq con i sunniti, e in Af­ghanistan come altrove è giu­sto parlare con tutti a comin­ciare dai nemici (in modo di­retto o indiretto lo fanno, ap­punto, tutti). Peccato che l’Af­ghanistan non sia l’Iraq, e che i talebani non siano le ve­nali bande sunnite della pro­vincia di Anbar. Peccato che per le forze occidentali la guerra butti male. Peccato che i talebani non abbiano in­centivi al dialogo (semmai l’incentivo sta dalla parte del traffico di oppio). Il piano del bastone e della carota, in­somma, rischia di cadere nel vuoto. E nel frattempo il Paki­stan potrebbe andare in pez­zi.

Obama ha teso la mano, soprattutto, all’Iran. Accenti di disponibilità, coinvolgi­menti diplomatici, segnali non troppo invadenti in vista delle elezioni di giugno (con la speranza non dichiarata che Ahmadinejad le perda), e infine una proposta nego­ziale in bella forma. Teheran ha accettato. Ma nel contem­po ha precisato che i pro­grammi nucleari prosegui­ranno, al pari di quelli balisti­ci. E nulla ha detto delle sue influenze armate in Medio Oriente. Il rischio è ovvio: che l’Iran incassi le conces­sioni promesse ma non dia nulla in cambio. Secondo il New York Times gli Usa e l’Europa potrebbero trattare con Teheran senza più esige­re la preventiva sospensione dell’arricchimento dell’ura­nio. Sarebbe una scommessa ulteriore. Forse capace di mandare in archivio l’opzio­ne militare, forse vincente malgrado gli scontati e fon­dati timori di Israele, forse in grado di orientare favorevol­mente l’esito elettorale. For­se. Ma se la scommessa inve­ce non funzionasse? Obama rischia di trovarsi alla fine senza più opzioni salvo quel­la militare che voleva seppel­lire.

Ne dobbiamo concludere che Obama sbaglia, quando tende la mano?

No di certo. Ma dobbiamo, questo sì, au­gurargli moltissima fortuna, perché ne avrà e ne avremo bisogno.


15 aprile 2009

da corriere.it


Titolo: Franco VENTURINI - Cambiare strategia
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2009, 10:16:06 am
La trappola di Teheran


Nella cronaca diplomatica i colpi di scena non sono una rarità, ma quello toccato ieri al nostro ministro degli Esteri ha pochi precedenti. Franco Frattini aveva già preparato la valigia e si accingeva a partire per Teheran quando il protocollo iraniano, con un’ora o poco più di anticipo, ha trasmesso alla Farnesina una nuova «condizionante» richiesta: doveva essere previsto un incontro con il presidente Ahmadinejad a Semnan. Nella stessa località, cioè, dove l’Iran aveva appena lanciato con successo un missile terra-terra di nuova generazione, capace di colpire Israele, le basi Usa in Medio Oriente e l’Europa sudorientale. Fiutata la trappola che lo avrebbe in qualche modo associato al minaccioso esperimento balistico, Frattini ha giustamente deciso di non partire. E sulla pista sono rimaste soltanto due inevitabili considerazioni.

La prima riguarda proprio il ministro Frattini, che nel prevedere il viaggio ha peccato d’imprudenza. Non perché la sua politica di coinvolgere l’Iran nella stabilizzazione dell’Afghanistan e del Pakistan sia errata. Non perché l’Italia abbia preso una iniziativa isolata (Hillary Clinton era d’accordo, gli europei sapevano che Frattini si sarebbe mosso entro la fine di maggio). Ma piuttosto perché fra tre settimane in Iran si elegge il nuovo presidente. Perché a Teheran è in corso una campagna elettorale opaca e senza esclusione di colpi. Perché era prevedibile che in questo clima Ahmadinejad, favorito ma non sicuro di vincere, avrebbe tentato di usare a suo profitto la prima visita di un ministro degli Esteri occidentale negli ultimi quattro anni (cosa diversa è stata la missione del rappresentante Ue Solana nel 2008).

Ahmadinejad—ed è questa la seconda considerazione—ha infatti puntualmente confermato il suo profilo politico: quello di un provocatore a tempo pieno che tenta di bilanciare il disastro dell’economia iraniana distribuendo a piene mani l’oppio dell’ipernazionalismo e dell’odio verso Israele. La corsa al nucleare (che a dispetto degli scettici egli afferma essere pacifica) e lo sviluppo dei missili balistici (che pacifici non possono essere) rappresentano le «cambiali» elettorali di Ahmadinejad, le uniche di cui egli davvero disponga. Non meraviglia allora il tentativo di Frattini, né può stupire la ben scarsa considerazione in cui il presidente iraniano mostra di tenere l’Europa e l’Italia, che pure è il primo partner commerciale di Teheran. Convinto che sia l’Occidente ad avere bisogno di lui e non viceversa, Ahmadinejad riconosce soltanto agli Usa la dignità di interlocutore. Ma poi non esprime, nemmeno in quella direzione, una politica che autorizzi le speranze messe in campo da Washington e che Frattini voleva corroborare.

L’incidente diplomatico di ieri, così, serve a ricordarci che l’Iran resta un problema pericolosamente aperto. La Casa Bianca dovrà aspettare il dopo-elezioni per capirci qualcosa. Obama ha rifiutato di fissare un limite alla sua pazienza come gli chiedeva Netanyahu, ma ha avvertito che in mancanza di progressi entro il 2009 l’Occidente farà ricorso a nuove e più dure sanzioni. Il che metterà alla prova la coesione transatlantica. E non basterà ad escludere un ricorso preventivo alla forza da parte di Israele. È su questa mina che il nostro ministro degli Esteri, pur animato dalle migliori intenzioni, è andato a mettere il piede. Una mina ancora metaforica, per fortuna.


Franco Venturini

21 maggio 2009
da corriere.it


Titolo: Franco VENTURINI - Cambiare strategia
Inserito da: Admin - Maggio 26, 2009, 02:55:42 pm
Ricatti globali


Per bussare alla por­ta di Obama la Co­rea del Nord ha scelto l’unico meto­do che conosce: il ricatto nucleare. Il test atomico di ieri è il primo dal 2006, quando alla Casa Bianca c’era ancora George Bush e Pyongyang voleva alzare la posta di un balbettante ne­goziato. L’anno dopo, in ef­fetti, si arrivò a un accordo molto vantaggioso per i nord-coreani. Ma poi nel mondo sono sorti nuovi problemi e soprattutto è ar­rivato Barack Obama.

Secondaria rispetto alle molte urgenze che attende­vano il nuovo presidente, la Corea del Nord si è senti­ta trascurata. Ecco, allora, il promemoria del 5 aprile: il lancio di un missile bali­stico a lunga gittata. In Oc­cidente, proteste e nient’al­tro. Forse, deve aver pensa­to il carissimo leader Kim Jong-il, serve un messag­gio più forte. È il turno del­l’esplosione sotterranea di un ordigno atomico.

La cronaca di queste ore ci riferisce di altre proteste, di altra indignazione, di al­tri impegni all’intransigen­za. Ma in realtà l’America e la comunità internazionale nascondono un segreto: la loro impotenza, oggi come ieri, davanti alle reiterate provocazioni di Pyong­yang.

La più parossistica e iso­lata dittatura comunista del pianeta ha l’atomica e un esercito di un milione di uomini, ma senza mas­sicci aiuti non è in grado di nutrire decentemente i suoi cittadini. Gli Usa di Bu­sh avevano pensato di per­correre questa strada. A Pyongyang arrivarono tan­ti generi di prima necessi­tà. Ma tutto quel ben di Dio, invece di indurre i ge­rarchi nord-coreani al prag­matismo, ebbe l’effetto con­trario: Pyongyang ruppe con Seul e cacciò gli ispetto­ri dell’Agenzia atomica pri­ma di rinnovare, per due volte, il suo solito ricatto. Evidentemente alla casta paranoica che governa la Corea del Nord serve anche quello status che soltanto l’attenzione dell’America può conferire e serve so­prattutto che il Paese conti­nui a essere un grande cam­po di concentramento pri­vo di rischi per il potere. Un potere misterioso, che dopo la malattia di Kim Jong-il potrebbe essere og­gi nelle mani di militari ol­tranzisti.

Il risultato è la sconfitta di tutti. Della Cina, che si vanta di esercitare su Pyon­gyang una certa influenza. Della Russia, che usa citare la sua mediazione con i nord-coreani come esem­pio di comportamento co­struttivo. Ma anche del­l’America di Obama, che ve­de aprirsi un nuovo fronte di crisi proprio mentre l’ira­niano Ahmadinejad restitu­isce al mittente l’idea di ne­goziare sull’arricchimento dell’uranio.

Proprio nei confronti dei programmi atomici del­­l’Iran e delle bombe atomi­che già esistenti nella Co­rea del Nord si è detto spes­so che gli Usa di Bush ab­biano applicato due pesi e due misure. È vero, per ra­gioni ovvie: l’Iran minaccia Israele e può far scattare la proliferazione nucleare nel grande forziere mondiale del petrolio, la Corea del Nord è inattaccabile per­ché garantita dalla Cina e non crea un pericolo di pro­liferazione in aree cruciali. Eppure Obama, malgrado queste differenze, dovrà porsi il problema. Forse è il caso che sia lui, per una vol­ta, a ritirare la mano che era stata tesa ai ricattatori di Pyongyang.

Franco Venturini
26 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: Franco Venturini. Joan Baez a Teheran
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2009, 10:38:25 am
LE CAUTELE DEL G8

Joan Baez a Teheran


Sull'Iran il G8 di Trie­ste ha fatto il massi­mo di quello che po­teva fare, cioè non molto. Nel comunicato ven­gono deplorate le violenze del dopo-elezioni e si chie­de il rispetto dei diritti umani. Parole che possono sembrare insufficienti. Ma due motivi impedivano di andare oltre. Non si voleva uno scontro con la Russia, che comunque ha accetta­to espressioni mai prima sottoscritte. E soprattutto occorreva lasciare aperto lo spiraglio nel quale Ba­rack Obama aveva infilato la sua mano tesa.

La posizione del presi­dente Usa si va facendo ogni giorno più difficile. Al­le prime manifestazioni di protesta e alle prime vitti­me della repressione Oba­ma aveva reagito con gran­de cautela. Poi le violenze delle milizie pro Ahmadi­nejad sono diventate intol­lerabili, e il volto coperto di sangue della giovane Ne­da ha fatto il giro del mon­do diventando la bandiera di una rivolta di popolo. Obama ha allora alzato il to­no, fino a parlare, come ha fatto ieri, di oltraggio alle regole internazionali e di brutalità senza limiti delle autorità di Teheran. Nessun capo della Casa Bianca avrebbe potuto fare diversamente. Ma Barack Obama, ed è qui il legame con Trieste, non ha mai detto che la sua disponibili­tà al dialogo veniva revoca­ta, non ha mai messo una croce definitiva sulla spe­ranza di prevenire la poten­ziale minaccia nucleare ira­niana con il metodo del ne­goziato.

La linea di Obama è giu­sta: davanti al calvario di Teheran l'Occidente deve riaffermare i propri valori senza troppi peli sulla lin­gua, e nel contempo non deve tornare a quella dottri­na bushiana del «non si parla con» che tanti guasti ha prodotto e che nessuno applica fino in fondo. Ma è proprio qui, è su questa mano tesa malgra­do tutto, che Ahmadinejad fa ora piovere i suoi veleni. Nei giorni scorsi, mentre i blog di Teheran riferivano di massacri non verificabi­li, il presidente iraniano si è scagliato contro Gran Bre­tagna e Stati Uniti. La Bbc è diventata una organizzazio­ne sovversiva. Si è provve­duto ad allontanare due di­plomatici inglesi. È stato ti­rato in ballo un complotto della Cia. Gli Usa sono stati accusati di ingerenza, e Obama di «parlare come Bush». È stato resuscitato, insomma, il vecchio Sata­na a stelle e strisce che per decenni ha nutrito il nazio­nalismo iraniano.

Scaricare all'esterno le tensioni interne è un classi­co. Ma in questo caso il gio­chetto di Ahmadinejad può avere conseguenze gra­vi, come se non bastasse la tragica perdita di vite uma­ne che ha insanguinato Teheran. Nessuno, nemme­no Obama, potrà superare in poco tempo la somma negativa delle pesanti accu­se pubbliche all'America e della repressione armata. Il negoziato nucleare, am­messo che un giorno ci sia, è rinviato per esigenze poli­tiche. Ma nella vicenda del nucleare iraniano il tempo è un fattore cruciale, per­ché al di là dei morti e del­le rampogne l'arricchimen­to dell'uranio prosegue. Obama per primo, così, po­trebbe trovarsi un giorno con una sola opzione sul ta­volo: quel ricorso alla forza che tutti, Israele compreso, preferirebbero evitare.

Ancora una volta Ahma­dinejad si comporta come se «volesse» essere bom­bardato. E Obama, tra mil­le equilibrismi, deve impe­gnarsi in una ardua corsa contro il tempo per rende­re possibile una soluzione alternativa. Paradossale. Forse non ci resta che spe­rare in Joan Baez, la splen­dida voce del movimento anti Vietnam, quando tor­na a cantare il suo We shall overcome in lingua farsi.

Franco Venturini
27 giugno 2009
da corriere.it


Titolo: Franco Venturini. L'incognita cinese
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2009, 12:16:21 pm
L'incognita cinese


Il G8 dell'Aquila, ieri, non è rimasto orfano del presidente Hu Jintao. Perché la Cina entrerà in scena soltanto oggi nel formato del G14, ma anche perché gli Otto hanno mostrato coraggio decisionale proprio là dove Hu Jintao, prima di rientrare improvvisamente a Pechino, aveva comunicato al presidente di turno Berlusconi il suo scetticismo: nella difesa dell'ambiente. Per la prima volta gli Otto si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra del 50 per cento entro il 2050 (rispetto ai livelli del 1990, anche se Obama preferirebbe fissare il riferimento al meno severo 2005). Il solito proclama, le solite buone intenzioni destinate a rimanere lettera morta? Forse no, perché i Paesi più industrializzati, recependo le critiche di quelli emergenti, promettono che per loro il taglio sarà dell'80 per cento. Così, dicono gli otto Grandi, si riuscirà a ottenere che la temperatura globale non salga di più di due gradi rispetto all'era pre-industriale.

E qui torna in gioco Hu Jintao. Perché senza la partecipazione di Cina e India l'accordo di ieri rischierebbe di giungere moribondo alla conferenza di Copenaghen incaricata di disegnare il dopo Kyoto. Perché senza Cina e India gli stessi europei danno diverse interpretazioni dei loro accordi in sede Ue, figurarsi gli americani. Oggi, insomma, l'assenza di Hu si farà sentire. Forse anche lui direbbe no. Ma soprattutto è improbabile che la sua acefala delegazione dica sì. E così dovrà ricominciare quella rincorsa della Cina che oggi, come mai prima, tiene in ostaggio il mondo.

Non è forse vero, in tema di crisi economica e finanziaria, che la Cina ha stimolato il suo mercato interno più di chiunque altro e continua a crescere dell'otto per cento? Non è forse vero che la Cina finanzia buona parte del deficit statunitense? Il G8 di ciò è perfettamente consapevole come lo è il G20 e la sua diagnosi, tutta prudenza diversamente da quella sul clima, non ha riservato sorprese. E' vero che esistono segnali di miglioramento, ma la ripresa ancora non c'è ed è prematuro parlare di exit strategy per prevenire che i massicci stimoli già varati inneschino inflazione o portino alle stelle i debiti pubblici. Bisogna invece tenere la rotta, preparare un sistema di regole (i global standards voluti dall'Italia), rafforzare e riformare il Fondo monetario, colpire i paradisi fiscali. E, con urgenza, lottare contro la disoccupazione. Il seguito alla prossima più importante puntata, al G20 di Pittsburgh, in settembre.

E le crisi regionali, l'impegno alla non proliferazione appena sottoscritto da Obama e Medvedev, la scontata condanna della Nord Corea che spara missili come fuochi d'artificio? C'è stato anche questo, ieri. Con la condanna di Ahmadinejad per la negazione dell’Olocausto, e una formula più morbida sulle repressioni post-elettorali. Perché il consenso è di continuare a scommettere sulla politica della mano tesa nella speranza di imbrigliare le ambizioni nucleari di Teheran. Una scommessa a tempo, per forza di cose. Piuttosto, sui 160 ammazzati dello Xinjiang, non era il caso di dire una parola? Dimenticavo, anche se è partito, Hu Jintao pesa.

Franco Venturini
09 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: Franco Venturini Cambiare strategia
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2009, 09:59:52 am
Cambiare strategia

Dopo la «mano tesa » di Obama, dopo le proposte negoziali dell’Agenzia atomica, dopo gli avvertimenti che le sanzioni sono in arrivo e le iniziative militari non vanno escluse, l’Occidente non sa più cosa fare con l’Iran. A Teheran la protesta anti- regime è ormai un movimento di massa, ma non di una massa qualunque. I filmati sfuggiti alla censura mostrano che i dimostranti sono quasi tutti giovani. E se questo è un elemento importante ovunque, lo è particolarmente in Iran dove 48 milioni di cittadini (la maggioranza della popolazione) hanno meno di 33 anni. Non basta. I tumulti dalla capitale si sono estesi a tutte le principali città, e a Teheran sono stati teatro di violenze anche quei quartieri della nomenklatura sciita che inizialmente i dimostranti evitavano.

La sfida al potere diventa dunque sempre più decisa, e nulla fa pensare che un regime sulla difensiva possa riassorbire il dissenso militante di chi, pur appoggiando in linea di principio i programmi nucleari iraniani, vuole libertà, modernizzazione, prosperità economica e una politica estera di dialogo. Quella in atto è ormai una rivoluzione strisciante. Che ha avuto per primo risultato quello di invadere i Palazzi di Teheran e sconvolgere gli equilibri preesistenti. E per secondo quello di trasformare l’Occidente in un re nudo.

Lo si è visto in occasione delle proposte per l’arricchimento dell’uranio in condizioni di sicurezza: il «falco» Ahmadinejad stavolta pareva propenso al confronto, mentre il presunto moderato Larijani ha guidato il partito del «no». Non si sa più, in pratica, a chi debba rivolgersi la «mano tesa» di Obama, o chi a Teheran sia eventualmente in grado di stringerla senza rischiare l’accusa di tradimento.

Certo, abbiamo in riserva le nuove sanzioni. Ma dietro i paraventi formali, chi crede alla loro efficacia? La Cina, sempre in cerca di buoni affari, fa il doppio gioco. La Russia è possibilista con Medvedev e contraria con Putin. In Europa gli unici davvero convinti sono i francesi. Ma anche loro sanno che è difficile colpire il regime senza colpire il popolo, e che l’unica sanzione in grado di spaventare Teheran, quella del blocco del greggio che torna dall’estero trasformato in benzina, è di fatto inattuabile.

La conseguenza è che davanti all’Iran e ai suoi piani nucleari l’Occidente si muove in un vuoto strategico, prigioniero dei suoi tentativi falliti. E inevitabilmente avanza così l’opzione militare, pur carica com’è di robuste controindicazioni tanto per Israele quanto per gli Usa e gli altri occidentali. Verrebbe da pensare che Obama, nel 2010, dovrà tentare di guadagnarsi proprio in Iran il suo Nobel per la pace. Ma la bacchetta magica non sembra averla nemmeno lui. Forse è più giusto riporre la nostra speranza nei ragazzi e nelle ragazze di Teheran, pronti a sacrificarsi per quel che noi non sappiamo dar loro.

Franco Venturini

28 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Franco Venturini Il disarmo e la polveriera
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2010, 03:06:08 pm
La svolta di Americani e Inglesi


L’opposizione esagera e non cattura la logica di quanto sta accadendo in Afghanistan, la maggioranza sottovaluta e rivela qualche contrasto di accenti. Così il presunto «caso Sequi», nato dalla mancata conferma del diplomatico italiano a rappresentante della Ue a Kabul, è stato preso in ostaggio dai soliti litigi nostrani. Mentre si dovrebbe alzare lo sguardo, e tentare di capire.

Da una settimana le forze americane e britanniche dislocate nell'Afghanistan meridionale conducono un’offensiva contro la roccaforte talebana di Marja. L’operazione si inserisce in una nuova strategia suggerita dal comandante delle forze Nato Stanley McChrystal e ratificata dagli alleati. In estrema sintesi, si tratta di far leva sui rinforzi forniti dagli Usa e in piccola misura dagli europei (gli italiani più di tutti, con 1.000 uomini) per attuare tre fasi successive. Nella prima talebani e qaedisti devono essere battuti militarmente là dove sono più radicati, sperando che i pachistani facciano altrettanto oltre confine. Nella seconda l'Isaf e il governo di Kabul devono tendere la mano a chi volesse scegliere il dialogo. Nella terza le forze straniere sperano di cominciare a ritirarsi e di passare la mano agli afghani entro il 2013.

Un piano del genere non ha molte probabilità di riuscita perché ai talebani manca quella sensazione di sconfitta imminente che potrebbe spingerli al compromesso, ma ha il merito di essere comunque un piano dopo tanta confusione nella strategia degli occidentali. Piuttosto, è davvero arduo sperare in uno sbocco accettabile del progetto se continuerà ad accadere quel che è accaduto ieri: l'ennesimo bombardamento sbagliato, l’ennesima strage di civili. Come potranno i militari della Nato tendere la mano all'insieme della popolazione locale (la «fase due») se continuerà a crescere, come è cresciuto nel 2009, il numero dei civili uccisi in bombardamenti dal grilletto troppo facile?

La questione resta aperta, ma è l'insieme dello sforzo americano che qui ci interessa. Le forze di Washington in Afghanistan si apprestano a diventare maggioranza rispetto a tutte le altre messe insieme. Il comando è americano. Il piano che si tenta di attuare, anche se la cosa viene detta con pudore politico (si parla di «reinserimento» dei talebani), è americano. Sono gli americani, assieme ai britannici, ad attaccare Marja e a preparare i passi successivi.

Può allora davvero meravigliare, più che mai dopo l'annunciata defezione olandese, che americani e britannici vogliano avere uomini loro nei posti-chiave? Il rappresentante Ue a Kabul è uno di questi, e il nuovo prescelto della baronessa Ashton, il lituano Usackas, è particolarmente vicino tanto a Washington quanto a Londra. La delusione è legittima, perché Ettore Sequi aveva fatto bene. Ma gridare allo scandalo —anche se è vero che i 1.000 uomini promessi dall'Italia qualcosa dovrebbero contare—significa non capire che al punto in cui siamo gli anglo-americani preferiscono controllare ogni bullone di una macchina che deve vincere per poi portare al disimpegno.

Non vi è dunque motivo di polemica antigovernativa, così come è errato dire che nulla di rilevante è accaduto. In entrambi i casi si fa torto al nostro impegno in Afghanistan, al quale servono invece determinazione e serenità di giudizio.

Franco Venturini
23 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it


Titolo: Franco Venturini Il disarmo e la polveriera
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2010, 04:58:40 pm
I NODI DELL’ACCORDO OBAMA-MEDVEDEV

Il disarmo e la polveriera


Se tutte le settimane fossero come questa, Barack Obama potrebbe essere certo di avere un posto nei libri di storia. Dopo la firma martedì di una riforma sanitaria ridimensionata ma comunque rivoluzionaria per gli Usa, ieri il capo della Casa Bianca ha annunciato il suo primo tangibile successo in politica estera: un accordo con la Russia per tagliare i rispettivi arsenali nucleari

I numeri del nuovo trattato, che è il più importante dalla caduta del muro di Berlino, servono a ricordarci che viviamo tutti seduti su una polveriera e che la fine della guerra fredda non ha eliminato l'esistenza di ordigni atomici in grado di polverizzare molte volte l'intero pianeta. E' dunque con un senso di consapevole relatività che le riduzioni concordate vanno viste: i russi, che ne hanno di più, taglieranno del trenta per cento le loro 2.500 testate offensive; gli americani, che ne hanno 2.000, le porteranno a livello di 1.550 stabilendo così con i russi una parità a livello più basso.

Quel che rimarrà in entrambi gli arsenali sarà ancora ampiamente in grado di provocare l'apocalisse. Del resto il disarmo tra Washington e Mosca è sempre stato materia di piccoli passi, con la differenza che questa volta Obama è deciso ad andare oltre e a proporre persino la sua visione, purtroppo utopica, di un mondo totalmente privo di armi nucleari. Nulla vieta di sperare. Ma a chi vuole tenere i piedi per terra non sfuggirà che l'importanza dell'accordo è più politica che militare

Perché rafforza Obama trasformando in risultati concreti quel tanto pubblicizzato reset che aveva fatto seguito ai tempestosi rapporti tra il Cremlino e la presidenza Bush. Perché va incontro anche agli interessi russi, i quali hanno difficoltà a mantenere il loro enorme arsenale e volevano concludere un trattato di disarmo con l'America. Soprattutto, perché l'intesa che Obama e Medvedev sottoscriveranno l'8 aprile a Praga potrebbe avere una serie di ricadute positive su due appuntamenti ormai prossimi: la conferenza per la sicurezza nucleare a Washington e, in maggio, il delicato tentativo di rilanciare il Trattato di non-proliferazione (Tnp).

Gli Usa e gli europei (ma con maggior discrezione anche i russi) sperano di rendere più ardue le acrobazie che consentono oggi all'Iran di dichiararsi «in regola » con le disposizioni del Tnp. Vogliono evitare che si inneschi una proliferazione atomica (per esempio a seguito della nascita di armamenti nucleari iraniani) che segnerebbe il tramonto definitivo delle attuali limitazioni. E ritengono che l'esempio dato con l'intesa tra Mosca e Washington, oltre a soddisfare una clausola del medesimo Tnp, possa rafforzare la mano di chi contro la minaccia di proliferazione vuole continuare a battersi.

Intenti realistici? Ne dubitiamo. Soprattutto perché dubitiamo che l'Iran si faccia impressionare dal patto Usa-Russia, e perché sappiamo che un Iran nucleare renderebbe inevitabile un processo di proliferazione. Ma finché esiste la trincea essa va difesa, ed è questo che l'Obama vittorioso vuole fare. Certo, non tutte le settimane saranno come questa. Sarà rischiosa, in particolare, quella in cui il Senato di Washington si esprimerà sulla ratifica di un accordo sospettato di limitare le difese anti- balistiche americane. Ma per ora Obama non ci pensa, e si gode il calendario.

Franco Venturini

27 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Franco Venturini. L'ansia del debito altrui
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2010, 12:34:24 am
L'ansia del debito altrui

Nei suoi dissensi l'Europa ha spesso trovato spinte di progresso, ma i contrasti che l'affliggono oggi, radicalizzati da ricette economico-finanziarie che toccano in profondità le culture dei singoli Stati, rischiano per la prima volta di farla bruscamente arretrare.
Sin dal primo affacciarsi della crisi innescata dal dissesto greco, la Ue si è trovata davanti un bivio: arrendersi al caos, oppure cogliere nel crollo delle finanze elleniche una occasione per varare, se non proprio un governo, almeno una governance economica comune. La novità è che ora, dopo che ognuno ha detto la sua e che l'ha detta soprattutto Angela Merkel, l'Europa si scopre costretta a scegliere tra una decadenza ineluttabile e un arduo salvataggio. Il braccio di ferro tra le due opzioni andrà ben oltre il rinvio a dicembre che chiuderà stasera il vertice dei Ventisette. E andrà anche oltre le modifiche già concordate e ratificate ieri del Patto di Stabilità, che vedono l'Italia soddisfatta dall'allargamento dei criteri per calcolare il debito.

La Germania di Angela Merkel e la Francia di Nicolas Sarkozy, questo è il punto, vogliono molto di più e lo vogliono entro il 2013. In cambio di un minore automatismo nell'infliggere punizioni agli Stati che mal gestiscono le loro finanze pubbliche (questo voleva Sarko), la cancelliera ha ottenuto dal capo dell'Eliseo l'impegno a una revisione del Trattato di Lisbona. Per introdurre un meccanismo permanente volto a proteggere i soci virtuosi dall'insolvenza dei reprobi, e per introdurre la possibilità di privare i cattivi del diritto di voto in Consiglio. Quanto basta per provocare nella maggioranza degli «altri» un muro di obbiezioni. Ci sono voluti otto anni per varare il Trattato di Lisbona, dovremmo modificarlo e ricominciare con il tormento dei referendum e delle ratifiche? E poi, è davvero pensabile per uno Stato sovrano l'espulsione di fatto, anche se provvisoria, dalla Ue?
Il presidente Van Rompuy ha proposto di introdurre il fondo permanente con una procedura che non rimetta in gioco tutto il Trattato. Alcuni pensano che la Merkel rinuncerà alla privazione del voto per i Paesi dalle mani bucate. Si vedrà a dicembre. Ma quel che a molti sembra sfuggire è che dietro la partita contabile-disciplinare riemergono culture nazionali consolidate e tenaci, in grado di orientare le rispettive opinioni pubbliche contro l'intesa.

La Germania patria del rigore è rimasta traumatizzata dalle truffe di bilancio greche. Con l'adozione dell'euro abbiamo concluso un contratto e altri lo hanno violato, è il ritornello tedesco. Ora per andare avanti servono garanzie e castighi. L'Euro deve diventare un nuovo Marco, per difendere la Germania dal lassismo altrui. La Germania, insomma, non è più quella che diceva «se è buono per l'Europa, è buono per noi». Non è più quella di Kohl che ricordava la guerra. E la sua opinione pubblica esige di essere rassicurata, prima di correggere i suoi attuali e inediti soprassalti di eurostanchezza. Quanto all'alleata (per ora) Francia, davvero accetterà di modificare il suo pensiero di sempre sull'intangibile sovranità degli Stati? E che dire di quanti - come noi, nei decenni - hanno cercato nella finanza allegra un supplemento di benessere?
Oltre alla volontà politica, questa volta per progredire servirà una convergenza di storie diverse. Altrimenti l'Europa si scoprirà senza un modello di sviluppo e senza un progetto per il suo futuro, con danno dei suoi già scossi sistemi democratici.

Franco Venturini
29 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_29/ansia-debito-altrui-franco-venturini-editoriale_9fea8a06-e31b-11df-b688-00144f02aabc.shtml


Titolo: Franco Venturini. La rincorsa della Nato
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2010, 11:54:50 am
SICUREZZA E NUOVI EQUILIBRI MONDIALI

La rincorsa della Nato

   
Obama dice che dal vertice di Lisbona la Nato uscirà «rivitalizzata», ma quello che l’Alleanza sta inseguendo è un mondo già troppo cambiato. I soci atlantici hanno deciso ieri che lo scudo anti-missile diventerà una impresa comune e proteggerà tanto l’America quanto l’Europa, e oggi tenderanno la mano alla Russia proponendole di salire a bordo. Ma prima di conoscere la risposta di Mosca gli alleati hanno dovuto fare i conti (e il braccio di ferro continuerà ben oltre Lisbona) con uno di loro: la Turchia, che assieme ad altre condizioni ha posto quella di non identificare l’Iran come la fonte della minaccia dalla quale ci si vuole difendere. Al tavolo della Nato, insomma, Ahmadinejad ha fatto la figura di convitato di pietra.

I soci atlantici hanno anche deciso di avviare prossimamente in Afghanistan la fase della «transizione», ma tutto il piano di ritiro progressivo delle forze alleate (italiane comprese) resta indirizzato verso uno sbocco incerto nel 2014 o nel 2015, con il Canada che entro la fine del 2011 ritirerà le sue truppe combattenti, con gli europei che tra la fine del 2011 e quella del 2012 vorrebbero ridurre i loro contingenti, con Karzai sempre più polemico verso gli occidentali, con il programma di addestramento degli afghani che solleva dubbi profondi proprio tra i militari. Dopo aver capito che non vincerà, insomma, la Nato si tormenta per trovare il modo di non perdere troppo. Eppure non ha torto il segretario generale Rasmussen quando dice che questo è il vertice più importante dalla nascita dell’Alleanza. Forse avrebbe potuto dire anche il più drammatico. Nel senso che da Lisbona usciranno progressi reali sulla difesa anti-missile e sulla modernizzazione del concetto di minaccia (attacchi cibernetici, pirateria, narcotraffico, sicurezza delle vie energetiche) ma le nuove realtà del mondo difficilmente saranno dissuase dal progredire nella loro avanzata spesso poco favorevole al concetto di Occidente.

La Turchia non si limita a mettere i bastoni tra le ruote degli alleati atlantici. La sua politica estera, legittimamente, ha trovato nuovi amici in Iran ma anche in Siria e nell’Asia Centrale ex sovietica. La speranza di essere ammessa nell’Unione Europea è al lumicino ad Ankara come a Bruxelles. E non stupisce, allora, che Erdogan si comporti più come aspirante leader tra gli «emergenti» (con il Brasile) che come socio della Nato e aspirante alla Ue. La Russia dirà «ni grazie» intendendo che tutto deve ancora essere negoziato, che Mosca pretende parità assoluta (anche nell’accesso alle tecnologie) rispetto agli altri soci dell’ombrello antimissilistico, e che comunque bisognerà vedere chi sarà presidente dal 2012. In questa condizione di anatra quasi zoppa, del resto, si trova anche Obama dopo le elezioni di mid-term, incerto persino della ratifica dell’ultimo trattato di disarmo con Mosca (e il Cremlino certo non apprezzerebbe). E poi, non stanno forse cambiando sulla spinta delle nuove realtà economiche quegli equilibri strategici nei quali la Nato vuole reinserirsi da protagonista e garantirsi una vitalità anche nel dopo-Afghanistan?

Il mondo multipolare, guidato dalla crescita della Cina in tutti i settori, ha modificato al ribasso la posizione di un’America scossa dalla sua disoccupazione più ancora che dalle sue guerre. Ogni volta che Washington (Obama lo fa) guarda con insistenza all’Asia, che voglia dialogare con la Cina oppure contenerla come nell’ultimo viaggio, la Nato transatlantica in qualche modo ne soffre. E la signora Merkel si scopre, in materia economico-finanziaria, più in sintonia con Pechino che con gli Usa. Poi c’è la sofferenza dell’euro che si aggiunge alle difficoltà generali, ci sono i bilanci della difesa europei che vengono tagliati con la scure, e si arriva a sperare che siano i russi a fornire elicotteri agli afghani che noi addestriamo.

In questa cornice diventa ancora più positiva l’intesa franco-britannica sulla difesa che deve costare di meno, mentre passa in secondo piano, per ora, il dissenso franco-tedesco sulla permanenza in Europa (anche in Italia) delle armi nucleari tattiche americane. Non saranno ritirate prima che gli Usa controllino gli europei attraverso il più efficace scudo antimissile, dicono i maligni. Fatto sta che la «rivitalizzazione» della Nato a Lisbona, collocata in un contesto mondiale nel quale l’influenza crescente è quella della Cina, rivela tutta la sua fragilità. L’Alleanza vuole rinnovarsi però continua a sembrare vecchia. Laddove, beninteso, non è detto che il nuovo sia meglio del vecchio.

Franco Venturini

20 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_20/la-rincorsa-della-nato-franco-venturini_46cd861a-f470-11df-b9c7-00144f02aabc.shtml


Titolo: Franco VENTURINI -
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2011, 03:45:33 pm
LA STRAGE DEI COPTI E IL DOPO MUBARAK

La fragilità del faraone

Se è vero che la sofferenza rafforza la fede, venerdì i copti egiziani celebreranno con particolare fervore il loro Natale. Alla rabbia delle ultime ore sostituiranno la preghiera, piangeranno i loro morti, affolleranno anche quella chiesa dei Santi di Alessandria dove la notte di Capodanno l’odio confessionale è tornato a colpire. Saremo loro vicini, perché la persecuzione delle minoranze cristiane in molte società islamiche non può e non deve lasciarci indifferenti. Ma nel caso dell’Egitto esiste anche un altro aspetto che la prudenza consiglia di non trascurare: il kamikaze di Alessandria, oltre a fare strage di copti, ha forse voluto collocare una bomba a orologeria sotto il trono presidenziale di Hosni Mubarak.

Per individuare il pericolo occorre tornare alle elezioni parlamentari egiziane di un mese fa. Il raìs, ottantaduenne e malato, consumato da trent’anni di potere, sapeva che le presidenziali in calendario per il 2011 non sarebbero state la solita formalità. Occorreva porsi seriamente il problema della successione. E allora tanti saluti alle cautissime aperture democratiche del 2005 imposte da Bush, e pazienza anche per quell’Obama che proprio al Cairo era venuto a predicare un islam più aperto: dalle urne l’accorta regia degli uomini del presidente ha fatto uscire una assemblea dominata da un virtuale partito unico, capace di gestire senza traumi l’ormai vicino passaggio di poteri.

Lo scettro passerà dal padre Hosni al figlio Gamal, come avrebbero fatto, appunto, i faraoni? Oppure l’anziano presidente si farà rieleggere, rendendo automatico il subentro di Gamal in caso di morte o impedimento? O ancora, se Gamal sarà giudicato da alcuni troppo vicino al mondo dei grandi affari, sarà il potente ma fedelissimo generale Omar Suleiman ad emergere? Non tutti i giochi sono ancora fatti, ma il mese scorso Hosni Mubarak ha comunque lanciato un messaggio chiaro: la successione è cosa mia, e non saranno tollerate interferenze democratiche o pluralistiche.

L’Occidente ha guardato dall’altra parte. Troppo preziosa è la stabilità interna dell’Egitto. Indispensabile è il suo ruolo di moderazione nella crisi mediorientale, malgrado la mancanza di risultati concreti. Irrinunciabile è l’argine del Cairo contro i fondamentalismi più o meno qaedisti che ormai si annidano nel Maghreb e nell’Africa subsahariana. E quanto ai Fratelli musulmani, certo, hanno avuto una evoluzione incoraggiante, ma sono sempre l’altro braccio di Hamas. Insomma, la Realpolitik imponeva un mese fa e impone oggi alle democrazie occidentali — Italia in prima fila—di tapparsi il naso e sperare che il raìs azzecchi l’erede.

Peccato che in questa complessa manovra Hosni Mubarak e il suo gruppo di potere conservino un fianco scoperto: quello del potenziale destabilizzante degli scontri inter-religiosi. Degli islamici radicali che si contrappongono ai Fratelli musulmani soprattutto ora che questi hanno solidarizzato con i copti. Dei qaedisti che vogliono colpire i cristiani simbolo delle degenerazioni occidentali. Di una galassia fatta di minoranze corpose ma anche di gruppuscoli fanatizzati che non di rado nella storia egiziana ha innescato spirali distruttive come quella che portò all’assassinio di Anwar Sadat. Ora si tratta di ereditare, non di uccidere. Ma la partita non sarà per questo meno serrata, e le lotte interconfessionali potrebbero tentare chi vuole dar fuoco alle polveri.

Franco Venturini

04 gennaio 2011(ultima modifica: 05 gennaio 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_04/venturini-fragilita-faraone-editoriale_36675a36-17c9-11e0-9e84-00144f02aabc.shtml


Titolo: Franco Venturini LIBIA ED EUROPA Interessi e Valori
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2011, 04:12:00 pm

LIBIA ED EUROPA

Interessi e Valori

Anche la Tunisia ha pagato un prezzo di sangue, e più di lei lo ha pagato l'Egitto. Ma nell'effetto domino delle rivolte nordafricane non si era mai visto quello che è accaduto ieri a Tripoli. Se sono vere le notizie diffuse da Al Jazeera, l'unica fonte informativa sfuggita alla morsa censoria del regime, Muammar Gheddafi ha deciso che la decimazione del suo popolo è un costo accettabile per restare al potere. E per assicurarsi che la manovra riesca, per punire quanti lo sfidavano a mani nude anche lontano dalla ribelle Cirenaica, ha scatenato sulla folla tutto quanto aveva a disposizione per uccidere.

Interi quartieri sono stati messi a ferro e fuoco. Aerei ed elicotteri hanno sparato con le mitragliatrici contro assembramenti ostili. Cecchini piazzati sui tetti hanno individuato e colpito chiunque avesse l'aria di essere la guida di un gruppo ribelle. E poi sono intervenuti i «mastini della guerra»: quei mercenari provenienti da diversi Paesi africani che Gheddafi a quanto pare teneva da tempo sul suo libro paga, e che si sono sdebitati sparando ad altezza d'uomo sui raduni di rivoltosi. Il bilancio è difficile, ma Al Jazeera parla di almeno duecentocinquanta morti. Senza contare quelli di Bengasi, dove i ribelli controllano gran parte della città ma devono ancora fare i conti con nuclei di resistenza gheddafiana.

A due passi da casa nostra, nella nostra ex colonia, in un Paese dove moltissimi nostri connazionali risiedono e lavorano, le dimensioni del massacro non possono che suscitare emozione e disgusto. Ma in Libia, come ieri in Egitto e in Tunisia, l'emozione si accompagna al tentativo di capire, all'ansia di prevedere. Muammar Gheddafi, tiranno più che mai, non esce rafforzato dal bagno di sangue perpetrato non lontano dalla sua tenda. La sua invece è una testimonianza di debolezza, un pegno di disperazione. E del resto, anche lontano dalla piazza, la giornata non gli è stata favorevole. Si sono dimessi due ministri e parecchi diplomatici impegnati all'estero; alcuni dei Comitati popolari da lui creati per scimmiottare una democrazia non hanno risposto all'appello; un autorevole esponente religioso ha lanciato una fatwa contro di lui chiedendo ai militari di ucciderlo; due piloti da caccia sono fuggiti a Malta con i loro aerei e altri due si sono rifugiati in una base controllata dall'opposizione a Bengasi; nei ranghi dell'esercito da un lato rispuntano le divisioni tribali e dall'altro emerge una compatta ostilità contro l'intervento dei mercenari stranieri. E i dimostranti, soprattutto, non danno segni di rinuncia.

Certo, non basta per dire che Gheddafi è spacciato. Ma basta per scorgere un inizio di decomposizione strutturale del suo potere, e basta per osservare che nelle poche immagini giunte ieri da Tripoli la gran parte dei manifestanti era composta da giovani: quelli che non hanno ceduto a Tunisi e al Cairo, quelli che hanno poco da perdere anche in Libia e sono ormai, dal Mediterraneo al Golfo Persico, il motore della ribellione che scuote il Mondo arabo. Dopo 42 anni di potere, Gheddafi dovrà continuare a fare i conti con loro. E i conti con la carneficina da Tripoli ha dovuto farli ieri anche Silvio Berlusconi, che ha finalmente detto di considerare «inaccettabile» l'uso della violenza contro la popolazione civile e ha messo in guardia contro la disgregazione dello Stato libico. Meglio tardi che mai, perché era stato lo stesso presidente del Consiglio, quando a Bengasi si sparava già sulla folla, a non voler «disturbare» Gheddafi. Ed era stato ancora lui, fino a ieri, a mantenere un silenzio che sembrava figlio di una scommessa azzardata, forse non sufficiente a proteggere i nostri interessi, e di sicuro contraria ai valori della nostra democrazia.

Non a caso la «discrezione» di Berlusconi ci aveva per qualche tempo allontanati dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dalla Germania che in diverso modo avevano tutti condannato duramente il Colonnello e le imprese dei suoi sgherri. Nascosti dietro una poco credibile volontà di «non ingerenza», fino a ieri sera continuavamo a trascurare quei principi umanitari nei quali proclamiamo di credere. Poi il presidente del Consiglio ha rimediato. Ma resta da domandarsi se siamo in tempo e se, in caso di cambio della guardia, il nostro ritardo non possa farci pagare un prezzo proprio sul piano degli interessi, oltre che su quello dei valori identitari.
Dovremo contare sul petrolio e sul gas che la Libia avrà comunque bisogno di vendere. Sugli affari vantaggiosi con lo Stato e con le imprese italiane che nessuno vorrà buttare nel cestino. Sulla convenienza degli investimenti in Italia.

Franco Venturini

22 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Franco Venturini. Incertezze e dubbi fuori tempo
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2011, 10:41:47 pm
OPERAZIONE LIBIA / 1

Incertezze e dubbi fuori tempo

Gli aerei militari continuano a svolgere regolarmente le loro missioni, ma al suo terzo giorno l'operazione «Alba dell'Odissea» sta già vivendo una grave crisi politica che ha per protagonisti principali l'Italia e la Francia. Questa volta non si tratta, come tante altre, di eccessi di grandeur da parte francese contrapposti a eccessi di gelosia da parte italiana. Da ieri è in gioco molto di più: uno scontro sulla catena di comando che non riesce a nascondere due interpretazioni molto diverse della risoluzione 1973 dell'Onu.

Dopo che per tutto il pomeriggio il ministro Frattini aveva chiesto a Bruxelles di porre «Alba dell'Odissea» sotto comando Nato avendo gli Usa confermato di voler fare un passo indietro, ieri sera è stato Silvio Berlusconi a dirsi «addolorato per Gheddafi» e a definire meglio la posizione italiana. Aggiungendo alla richiesta del comando Nato quello che è il vero oggetto del contendere: una più chiara definizione degli obiettivi della missione in Libia, «che per noi sono la no-fly zone, l'embargo e la protezione dei civili». Non solo: «I nostri aerei non hanno sparato e non spareranno - ha detto il presidente del Consiglio -, sono lì soltanto per il pattugliamento e per garantire il divieto di volo».

Parole che sembrano comportare una correzione di rotta nella linea italiana, perché sin qui il nostro governo era parso consapevole del fatto che una no-fly zone non può essere imposta senza prima colpire le difese antiaeree di Gheddafi, e aveva comunque assicurato che l'Italia avrebbe fatto la sua parte non soltanto concedendo le basi ad altri. Appare verosimile che Berlusconi abbia voluto disegnare una posizione di compromesso che lo metta al riparo da uno scontro con la Lega, ma risulta difficile non rilevare come ciò avvenga nel bel mezzo di una operazione militare alleata e al cospetto di una risoluzione Onu che si presta tanto alle interpretazioni estensive quanto a quelle restrittive: è vero che obiettivi indicati sono la no-fly zone, l'embargo e la protezione dei civili, ma è anche vero che per proteggere i civili viene previsto il ricorso a «ogni mezzo necessario».

E qui risiede, appunto, la vera sostanza della linea scelta da Berlusconi e del contrasto con la Francia sul comando Nato.

Frattini ha spiegato i termini della questione. Nella prima ora l'attacco unilaterale francese contro i mezzi corazzati di Gheddafi era giustificato, ha detto, dall'emergenza e dal timore che la conquista di Bengasi portasse a un bagno di sangue. Ma ora occorre tornare nella normalità di un comando che coordini e controlli tutti, che informi tutti di quello che stanno facendo gli altri e che tenga d'occhio interpretazioni troppo larghe della risoluzione dell'Onu. Eccolo ancora una volta, il dente che duole. E per rinforzare la sue argomentazioni, Frattini ha avvertito che se a un comando Nato non si giungesse l'Italia si sentirebbe nel pieno e logico diritto di assumere in prima persona il comando delle sue basi. Si arriverebbe così a una moltiplicazione di comandi (perché beninteso «Alba» andrebbe avanti), ma lo stesso Frattini, che punta a un accordo nella giornata di oggi, ha specificato che non si tratterebbe di una buona soluzione.

Alla interpretazione restrittiva dell'Italia si affiancano approcci che ben dimostrano cosa accade tra europei quando gli americani sono reticenti (e lo sono sempre di più) a impugnare loro la bandiera. I britannici, per esempio, sono tendenzialmente d'accordo con il comando Nato. Ma non lo sono affatto con il «non spareremo» di Berlusconi, e difatti sono tra quelli che sparano di più. Quanto ai francesi, hanno due motivi per contrastare l'approccio italiano. Il primo appartiene alla loro storia politica che non è completamente cambiata con Sarkozy e che non gradisce che le decisioni di Parigi vengano filtrate o addirittura determinate da una Alleanza Atlantica vista (in questo caso erroneamente) come cortile di casa degli americani. Il secondo motivo tocca ancora una volta la risoluzione Onu. Senza il nostro primo attacco - dicono a Parigi, e hanno ragione - le forze di Gheddafi sarebbero entrate a Bengasi e l'intera operazione sarebbe fallita prima di cominciare. Vogliamo perciò - e qui hanno meno ragione - restare liberi di fare le nostre mosse. Beninteso sulla base di una interpretazione del documento Onu opposta a quella italiana.

Quel che maggiormente colpisce, in questo braccio di ferro che va ben oltre la discussione sul comando della Nato, è il suo ritardo. Possiamo immaginare qualche motivo di politica interna, in Italia e almeno parzialmente anche in Francia. Ma quando si spara (perché gli altri lo fanno) e ci sono vite in gioco, si dovrebbe almeno capire che non è questo il momento di dividersi.

Franco Venturini

22 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali


Titolo: Franco VENTURINI - Schiaffo ingiustificato (ESCLUSIONE MERITATA).
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2011, 05:06:47 pm
Il vertice sulla Libia

Schiaffo ingiustificato


A certe esclusioni l'Italia non è nuova, ma quella che si è consumata ieri sera risulta talmente clamorosa da autorizzare alcune domande scomode per noi e per altri. Alla vigilia dell'odierna conferenza di Londra che dovrebbe finalmente indicare una chiara strategia politica nella campagna di Libia, i massimi responsabili di Usa, Francia, Gran Bretagna e Germania si consultano in videoconferenza. Sarebbe sciocco dire che queste cose non vanno fatte. Esse avvengono regolarmente prima di vertici di ben minore importanza. Ma che il telefono dell'Italia non squilli, questo non rientra in una visione pragmatica della campagna di Libia.

Non si tratta di velleitarismi, ma di valutare fatti concreti: l'Italia ha aperto le sue basi alla coalizione e comanda l'embargo navale Nato; l'intelligence italiana dà un contributo rilevante alle azioni dei nostri alleati; l'Italia è investita dalla prima conseguenza del conflitto libico, l'arrivo sulle nostre coste di un notevole numero di migranti. Davvero, in queste condizioni, può essere considerata comprensibile o accettabile la sua esclusione da un contatto importante e altamente simbolico per il messaggio che contiene (e che è rivolto anche ai libici)? Davvero la signora Merkel, astenuta all'Onu, non partecipante alle operazioni, lontana dalla scena, va presa a bordo e noi no?

È inevitabile pensare che abbia prevalso un doppio desiderio: quello di rafforzare l'intesa franco-britannica già rinsaldata ieri con una dichiarazione a due, e l'altro di rilanciare il rapporto franco-tedesco che serve, malgrado le sconfitte elettorali, tanto a Sarkò quanto alla Merkel. Mentre Obama, tutto impegnato a fare retromarcia, da queste dispettose alchimie europee deve essersi tenuto alla larga. E se poi il tutto servirà a favorire una redistribuzione degli accordi petroliferi, nessuno dei convitati si metterà a piangere.

Ma qui, dopo la sacrosanta indignazione, viene il momento di riflettere su noi stessi. Sapevamo da prima che il peso dell'Italia odierna sulla scena internazionale non è dei più rilevanti e del resto non è mai stato, anche in passato, tale da metterci tra i Grandi. A guardar bene, però, la crisi libica ha aggiunto qualcosa. I maggiori Paesi occidentali (Germania inclusa?) concordano nell'auspicare e nel ricercare a suon di bombe la caduta di Gheddafi. Berlusconi invece prima si dice addolorato per il Raìs e annuncia che i nostri aerei non spareranno, poi rinuncia all'iniziale idea della mediazione e per bocca del ministro Frattini cerca un dialogo negoziale simile a quello che cercano gli altri, perché non considera possibile la permanenza di Gheddafi al potere.

Una situazione di stallo militare sul terreno può ancora dare ragione ai primi istinti del governo. Ma, avendoli poi modificati, oggi diamo l'impressione di stare in altalena, cosa che in guerra non ispira fiducia. La speranza è che la conferenza di Londra serva da chiarimento anche della posizione italiana. Anche se Frattini avrà motivi più che sufficienti per far presente che l'emarginazione dell'Italia dal pre-vertice, benché agevolata da errori che si potevano evitare, rimane un autentico schiaffo.

Franco Venturini

29 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
DA - corriere.it/editoriali/11_marzo_29/


Titolo: Franco VENTURINI - GLI OCCIDENTALI E LA SVOLTA ARABA
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2011, 04:48:32 pm
GLI OCCIDENTALI E LA SVOLTA ARABA

Un po' miopi e inadeguati

Al Cairo piazza Tahrir è tornata a riempirsi di manifestanti e ci sono scappati dei morti. In Tunisia un governo transitorio esangue attende le elezioni, e non potrebbe, nemmeno volendolo, mostrare contro i migranti la fermezza che gli viene chiesta dall'Italia. In Libia si lavora sottotraccia per disgregare dal di dentro il regime di Gheddafi, ma intanto le forze del Raìs rischiano di battere la Nato oltre ai ribelli. E siccome a questo non si può arrivare, infuria il dibattito sull'ultima ratio: truppe di terra, armi agli insorti, accettare le possibili perdite e far volare più bassi gli aerei dell'Alleanza? Tutto è possibile, ma che vinca Gheddafi no. In Siria le febbre sale, complici i militari legati al potere alawita degli Assad. Ma così, a colpi di stragi, non potrà durare. E allora quali saranno i contraccolpi in Libano, in Iraq, in Iran, a Gaza? E Israele, resterà ancora a guardare? Esplosioni quotidiane scuotono lo Yemen. La Giordania, l'Algeria, l'Oman, forse il Marocco sono a rischio. Il Bahrein è stato normalizzato da una dottrina Breznev in salsa saudita. Ma proprio l'Arabia Saudita ha paura e fa paura, più di tutti.

Basta questo rapido sorvolo per trovare conferma a quanto in Occidente si desiderava e insieme si temeva: la Rivoluzione araba è un processo inarrestabile benché assai variegato nelle sue diverse componenti libertarie, economiche, religiose, tribali, generazionali, tecnologiche. Non sappiamo quale delle sue fasi stiamo vivendo, non sappiamo quanto durerà, non conosciamo i suoi sbocchi finali che potrebbero essere o non essere di nostro gradimento.

Qualcosa, però, lo sappiamo. Che proprio quando noi occidentali avremmo bisogno di statisti, di visioni strategiche, di capacità di leadership, riusciamo ad esprimere soltanto la nostra inadeguatezza.
L'Europa è semplicemente se stessa, quella che è diventata da qualche anno a dispetto di tutte le retoriche. Non è soltanto il punto di riferimento Usa a mancarle, perché gli europei si divisero sull'Iraq anche quando la leadership americana era forte. Più semplicemente - e la Libia è una conferma - a dettar legge nell'Unione sono i fronti interni elettorali dei principali soci, sono ora le urgenze di Sarkozy ora il nuovo nazionalismo mercantilista tedesco. Si può trovare un compromesso se si è in pericolo di morte, come sull'euro, ma sulla politica estera comune o su una politica europea per i migranti è meglio non farsi illusioni.

E poi c'era una volta l'America. Oggi Barack Obama viene accusato da molti di essere diventato mister tentenna, dall'Afghanistan alla Libia. Ma per capirlo è utile ricordare una frase del capo di stato maggiore della Difesa Mullen: la principale minaccia alla sicurezza dell'America è il suo deficit. A Washington sperano in una crescita appena sotto il tre per cento. Chi se ne intende aggiunge che tutto dipenderà dalla Rivoluzione araba e dal prezzo del petrolio, che a sua volta dipende dall'Arabia Saudita. Si capisce che esistano due pesi e due misure, nella politica di un presidente che vuole la rielezione. Siamo davanti a una grande Storia, al processo rivoluzionario del mondo arabo, e non sappiamo bene cosa fare oppure siamo ostaggi delle nostre convenienze democratiche nazionali. Anche questo è un processo, involutivo. Si affaccia forse un mondo post-occidentale, mentre qualcuno sta alla finestra e se la ride. La Russia, con il suo gas e il suo petrolio. E soprattutto la Cina, la potenza in emersione che può raddoppiare la sua velocità grazie al declino altrui.

Franco Venturini

10 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA


Titolo: Franco VENTURINI - Prima il Paese
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2011, 06:40:10 pm


Senza saperlo, i Tornado italiani che ieri hanno compiuto la loro prima missione offensiva contro obiettivi militari libici hanno colpito in pieno anche la nostra politica interna. «Di male in peggio», ha commentato il leghista Calderoli, e noi saremmo propensi a dargli ragione. Ritenevamo che fosse errata, infatti, la nostra iniziale posizione ambivalente nel conflitto libico. E riteniamo che ora si stia rischiando di creare il «peggio» quando la Lega, chiamata a una prova di maturità politica, scuote invece la maggioranza per ragioni che nulla dovrebbero avere da spartire con l'interesse nazionale.

Essendo sacra in democrazia ogni forma di protesta e di dissenso, e non essendo certo inedite nel mondo le liti interne sulla politica estera, cerchiamo di orientarci nella confusione che turba i Palazzi romani (e padani). Interesse nazionale, dicevamo. Perché l'Italia poteva dissociarsi dalla risoluzione Onu sulla protezione dei civili in Libia, come ha fatto la Germania. Poteva essere assai più avara nel concedere le sue basi. Ma non poteva stare a metà del guado, mezza belligerante e mezza neutralista, senza danneggiare due suoi fondamentali interessi: mantenere saldo il rapporto con gli alleati e avere una voce da far pesare quando si parlerà di futuro in Libia.

Fino a lunedì scorso, il governo ha commesso questo errore. Poi ha cambiato rotta (pressato dall'America e dalla Nato ben più che dalla Francia), e nel muovere il timone Berlusconi di errore ne ha commesso un altro, «dimenticando», con l'evidente intento di rinviare un confronto scontato, di consultare preventivamente la Lega. Ma ora che la decisione è stata presa e che si tratta di una decisione corretta viste le premesse, ora che Palazzo Chigi e Quirinale si trovano in sintonia come non accade sempre, ora che siamo usciti da una autolesionista ambiguità, cosa fa la Lega? Sceglie proprio la collocazione internazionale dell'Italia per dare via libera a una lotta di potere dentro la maggioranza che in realtà si nutre di tutt'altre ragioni. E concede così spazio anche all'opposizione, a Di Pietro che cavalca la stessa tigre leghista (come in Afghanistan) e al Pd che non si sbilancia, senza che ad alcuno venga in mente che per l'Italia sarebbe comunque un boomerang aprire una crisi sulle scelte di politica estera.

La Libia, insomma, sta facendo da paravento all'avvicinarsi delle elezioni amministrative. Serve da strumento per far credere alla base leghista che sparare razzi contro i carri armati di Gheddafi farà aumentare il numero dei migranti, mentre le due cose sono per ora non collegate e in futuro una ritrovata influenza italiana potrebbe servire a farlo diminuire. Viene invocata, la Libia, per chiedere un nuovo voto parlamentare il 3 maggio (due giorni prima che si riunisca a Roma il Gruppo di contatto sugli sconvolgimenti nel mondo arabo!), mentre è noto che una mozione di maggioranza è già stata approvata in aula il 24 marzo scorso, e che il presidente Napolitano, ancora ieri, ha giudicato le incursioni aeree «coerenti» con quanto deciso dal Consiglio supremo di difesa. La Lega, lo ripetiamo, ha ogni diritto di litigare con i suoi alleati. Ma il nostro auspicio è che non siano le delicate alchimie della politica estera italiana a farle impugnare la spada.

Franco Venturini

29 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_aprile_29/


Titolo: Franco Venturini Una questione di credibilità
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2011, 09:46:55 am
Una questione di credibilità

Sulla guerra in Libia l’Italia torna a scoprirsi divisa in due, o forse in tre. Al ministro leghista Maroni, che dal prato di Pontida aveva chiesto la fine dei bombardamenti Nato ritenuti causa principale dell’emergenza immigrazione, il presidente Napolitano ha ricordato ieri che «è nostro impegno sancito dal Parlamento restare schierati con le forze di altri Paesi che hanno raccolto l’appello dell’Onu». Contrario a un ritiro unilaterale dalla missione si è detto anche il ministro Frattini, Pdl, aggiungendo tuttavia che la Nato ha ricevuto un mandato di tre mesi e che a suo parere la caduta di Gheddafi si verificherà ben prima che essi esauriscano.

Sembra la riproposizione di un film déjà vu, ed è in effetti possibile che anche stavolta come in passato i contrasti pubblici si risolvano in compromessi semi-privati: con il Pdl che qualcosa assicura, con la Lega che si accontenta, con il Quirinale che resta fermo nella sua coerenza. Gli strumenti utilizzabili sono quelli evocati da Frattini: i tre mesi di mandato (anche se nessuno ha detto che a settembre essi non possano essere rinnovati), e la previsione, diffusa a livello ufficiale nella Nato, che il Raìs di Tripoli sia ormai con le spalle al muro.

E tuttavia la situazione attuale non è la stessa di qualche mese fa. Il clima politico è surriscaldato, la Lega deve fare i conti con la verificata irrequietezza della sua base e Berlusconi deve augurarsi che le amministrative e il referendum non abbiano conseguenze sulla sopravvivenza del governo. Gli spazi di manovra delle due componenti della maggioranza, insomma, si sono molto ridotti. E potrebbe così risultare difficile, molto più difficile di prima, trovare la solita quadratura del cerchio. Soprattutto perché, ed è questo il secondo grande elemento di diversità rispetto ai passati compromessi, fino a prova contraria la Nato non sta vincendo la sua guerra in Libia.

Va detto che le preoccupazioni espresse a Pontida e ribadite ieri da Maroni non sono soltanto italiane, anche se soltanto lui sembra credere (a nostro avviso erroneamente) che la fine degli attacchi aerei riporterebbe automaticamente sotto controllo i movimenti migratori. In tutte le capitali occidentali, ormai, l’andamento della guerra in Libia suscita delusione e polemiche. Basti pensare all’attacco che il segretario alla Difesa americano Gates ha sferrato contro gli europei incapaci di fare da sé. Basti considerare che dei ventotto alleati della Nato soltanto otto partecipano alle incursioni, e dal primo agosto diventeranno sette con la defezione della Norvegia.

Le ostilità in Libia, insomma, meritano davvero una riflessione collettiva. È giusto diventare più trasparenti sulle molle che hanno innescato il conflitto: la necessità di proteggere i civili di Bengasi, certo, Sarkozy che voleva prendere l’iniziativa e sperava di risalire nei sondaggi, si sa, ma anche quella sempre più fastidiosa presenza cinese nel Mediterraneo e la consapevolezza che la Libia possiede le seconde o le terze riserve di greggio al mondo.

È giusto, poi, riconoscere che Gheddafi ha sorpreso tutti con la sua tenacia, che i ribelli cirenaici valgono assai poco come forza militare (e ora sono anche senza soldi), che i bombardamenti, senza il diretto apporto Usa, si stanno rivelando relativamente efficaci. E soprattutto non si può tacere che della risoluzione Onu che autorizzò l’uso della forza è stata data una lettura iper-estensiva, che personalità del calibro di Obama, Cameron e Sarkozy (e al recente G8 persino Medvedev) si sono formalmente impegnate a perseguire a Tripoli un regime change non menzionato nel documento onusiano.

In Libia, dunque, le cose non vanno bene per l’Italia e per gli altri Paesi Nato impegnati in prima fila. Ed è proprio per questo che l’Alleanza ha chiesto altri tre mesi di tempo, senza che ciò debba necessariamente escludere un crollo sollecito e improvviso del gheddafismo.

Circostanze interne e circostanze internazionali, a conti fatti, fanno dei contrasti sulla Libia un osso politicamente duro. Per non dire potenzialmente esplosivo, qualora avesse ragione chi prevede tempi ancora lunghi e una possibile divisione di fatto tra Cirenaica amica e Tripolitania nemica.

Il presidente Napolitano, evidentemente, non auspica la guerra a oltranza o il suo insuccesso. Rivendica, piuttosto, la credibilità dell’Italia sulla scena internazionale, l’onere scomodo ma dovuto che consiste nel mantenere gli impegni presi. E in questo è difficile non essere d’accordo con lui.

Come abbiamo avuto modo di scrivere altre volte: al momento delle decisioni l’Italia poteva comportarsi come la Germania, poteva invocare l’esistenza di un trattato con Tripoli, poteva far pesare la sua condizione di ex potenza coloniale. Sarebbe stato un gesto quasi di rottura, che forse la Germania può permettersi e noi no. Ma sarebbe stata una politica. Scelta invece la partecipazione all’impresa, essa non aveva alcuna possibilità di rimanere parziale e ambigua. Abbiamo inevitabilmente a quel punto completato il nostro impegno partecipando alle azioni offensive. E ora che questo è lo stato dei fatti, ora che a comandare i raid su grande nostra insistenza è la Nato, non possiamo dichiararci pentiti perché la Lega lo chiede e ritirarci mettendo l’intera Alleanza ulteriormente nei guai. Salvo diventare una Norvegia, con tutto il rispetto. E questo Napolitano non lo vuole.

Resta l’auspicio di una riflessione collettiva, se la situazione non dovesse risolversi. I big si sono impegnati a cacciare Gheddafi, e ci hanno messo la faccia? Anche i talebani in Afghanistan dovevano essere annientati, e ora gli americani ci parlano. Materia di riflessione, ripetiamo, ma collettiva e lontano da Pontida.

Franco Venturini

21 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_21/venturini-questione-credibilita-editoriale_dbb7279e-9bc4-11e0-b47c-4c6664789138.shtml


Titolo: Franco Venturini. Il triangolo europeo
Inserito da: Admin - Agosto 10, 2011, 10:50:47 pm
Il triangolo europeo

Se Mao Tse Tung fosse vivo e fosse europeo, almeno a parole saprebbe come affrontare l’onda sismica dei mercati: serve, direbbe, un «grande balzo in avanti». Lui aveva il gusto delle definizioni, e avrebbe capito, nell’abissale diversità tra la Cina totalitaria del 1958 e l’Europa democratica di oggi, che per affrontare il pericolo non basta arretrare. Non basta scavare trincee difensive che di volta in volta si dimostrano incapaci di fermare il nemico invisibile della sfiducia, anche se gli europei, così facendo, sono giunti a un risultato paradossalmente positivo: è stata fatta chiarezza, l’euro è nudo con o senza contagi provenienti dagli USA, nudi sono i suoi dirigenti politici, in bilico è l’intera eurozona (e dunque l’intera Europa) sospesa tra il fallimento e un rilancio epocale.

Certo, che quelli attuali non siano tempi di grandi leader, e non soltanto in Europa, è cosa risaputa. Ma il tramonto degli statisti non deve necessariamente portare a una cecità suicida. E qui nasce un primo problema: la natura odierna del vecchio asse franco-tedesco. Nella stonata orchestra europea sono ancora loro, Sarkozy e Merkel, a battere il ritmo con i loro comunicati congiunti, a distribuire elogi o rampogne, a fissare il limite del possibile alla vigilia di ogni vertice. Ma con una novità di grande rilievo: la coppia è diventata una triade, perché, malgrado tutte le evidenti differenze di ruolo rispetto ai governi nazionali, la Banca Centrale ha assunto compiti di leadership e di intervento come mai prima aveva fatto. In realtà l’Europa di oggi è guidata da un asse Sarkozy-Merkel- Trichet, che da ottobre diventerà Sarkozy-Merkel- Draghi.

Ed è all’interno di questo trio che si colloca la decisiva questione tedesca, quella che può consentire o vietare il «grande balzo in avanti» di cui l’eurozona ha bisogno. Finalmente consapevole di essere sull’orlo del burrone e dei danni che anche la Germania subirebbe da una caduta, la signora Merkel ha accettato il 21 luglio di potenziare il Fondo salva-Stati (FESF) e di accrescere la sua flessibilità consentendogli di elargire prestiti, di intervenire sul mercato secondario dei titoli di Stato e persino di ricapitalizzare banche in difficoltà. La messa a punto del nuovo meccanismo prenderà nel migliore dei casi fino al vertice di fine settembre, e nel frattempo la BCE sta surrogando compiti che poi spetteranno al Fondo. I più ottimisti vedono in questi accordi la nascita di una sorta di «Fondo monetario europeo», e sottolineano che è stato fatto un passo importante nella giusta direzione. Cosa certamente vera. Ma pur compiendo uno sforzo che deve esserle costato parecchio, Angela Merkel non ha ancora varcato il suo Rubicone.

La Germania non vuole che la Ue diventi una «unione di trasferimenti ». Respinge cioè un criterio di solidarietà istituzionalizzata che la costringerebbe a pagare per chi non ha fatto sacrifici. Quei sacrifici che i tedeschi hanno fatto nell'ultimo decennio, e che sono all'origine della loro attuale crescita e prosperità economica. No, dunque, agli eurobond che avrebbero l'effetto di mettere in comune il debito complessivo. Linea dura con la Grecia, e, oggi, linea severa benché pragmatica con l'Italia e con la Spagna che non hanno fatto le riforme necessarie o le fanno troppo lentamente.

Un simile approccio ha fondate motivazioni storiche e costituzionali. Ma la vera questione che si pone è di volontà politica. La popolarità della signora Merkel ha già molto sofferto, l'opinione pubblica è poco propensa a «pagare per gli altri» oltre un certo limite, nel 2013 in Germania si vota. Sarà tanto forte e tanto europeista, il Cancelliere, da disinnescare la rotta di collisione tra lecite convenienze politiche e visione da statista, tra democrazia nazionale e futuro dell'Europa? Se la risposta tedesca fosse positiva diventerebbe accettabile una responsabilità comune davanti ai debiti nazionali, gli eurobond diventerebbero strumento coerente del nuovo assetto, dal Fondo salva-Stati si potrebbe passare a quella forma di governo finanziario sovrannazionale che oggi non esiste e che proprio con la sua assenza stimola i mercati e rende vulnerabile l'euro. Il tutto, beninteso, continuando a tenere sotto pressione (come in Italia) governi reticenti e opposizioni poco propositive, ritardi tattici e (è ancora il caso dell' Italia) tentativi di tutelare i propri interessi elettorali facendo scattare il ben noto «ci costringono gli altri».

La posta in gioco, dietro la mannaia dei mercati, è questo «grande balzo in avanti» che a conti fatti risulterebbe ben più ambizioso di quello di Mao. Tanto ambizioso che nemmeno a Maastricht fu possibile compierlo. Tanto necessario che bisogna sperare nella Germania, e nella nuova «triade» europea.

Franco Venturini

09 agosto 2011 08:01© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_09/venturini_triangolo-europeo_e57db034-c245-11e0-80c8-eb6607a7b6a7.shtml


Titolo: Franco Venturini - La moltiplicazione dei rischi
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2011, 09:13:11 am
La moltiplicazione dei rischi

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu merita comprensione quando oppone un rifiuto categorico alla nascita, chiesta ieri all'Onu da Abu Mazen, di uno Stato palestinese. Cosa vede attorno a sé, oggi, il governo di Gerusalemme?
Vede l'incerto procedere delle «primavere arabe» in Tunisia e soprattutto in Egitto, dove salgono le quotazioni dei Fratelli musulmani e alcuni cominciano a dire, dopo l'assalto all'ambasciata israeliana al Cairo, che «il trattato di pace firmato da Sadat non è sacro». Vede che la guerra in Libia non è finita, e teme il futuro ruolo degli islamisti a Tripoli. Vede che i programmi atomici dell'Iran sono stati rallentati ma non fermati.

Vede che l'Iraq va verso l'ignoto dopo il ritiro, a fine anno, delle forze Usa. Vede che la nuova potenza regionale, la Turchia, tende a volgersi contro Israele. Vede fuoco e fiamme nello Yemen, una Arabia Saudita fragile, e soprattutto una Siria lacerata che può dar fuoco anche al confinante Libano. Se oggi non si opponesse a uno Stato palestinese nato autonomamente all'Onu, senza accordo con Gerusalemme e dunque capace di esaltare la voglia di rivincita tanto diffusa tra gli arabi, Netanyahu verrebbe meno al suo primo dovere che è quello di difendere la sicurezza di Israele. E di prevenire, come ha detto ieri, «una nuova Gaza».

Ma per quanto la sicurezza di Israele stia a cuore anche a noi, figli di una memoria che non vogliamo e non possiamo eludere, oggi Benjamin Netanyahu non ha soltanto ragione. Perché il premier ha anche accumulato, da quando guida il governo più a destra della storia di Israele, torti che in futuro rischiano di pesare proprio su quella sicurezza che vorremmo veder efficacemente tutelata.
Tener duro sui temi tradizionali del contenzioso (i confini di uno Stato palestinese già accettato in linea di principio, il diritto al ritorno dei rifugiati e lo status di Gerusalemme) poteva essere da parte di Netanyahu una buona tattica per andare al confronto. Si poteva sperare che proprio lui, uomo di destra, riuscisse a concludere quell'accordo che nessun laburista israeliano potrebbe sottoscrivere senza farsi travolgere dalle accuse di cedimento. Invece Netanyahu, anche a causa della composizione del suo governo, falco lo è stato davvero. E a forza di autorizzare nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme Est (con un solo periodo di sospensione strappato da Obama), ha finito per indebolire Abu Mazen e per rendere impossibile quel negoziato che non a caso ora i palestinesi sarebbero disposti a rilanciare soltanto se fosse fermata la costruzione delle colonie.

Certo, non è stato Netanyahu a determinare gli sconvolgimenti e i timori di oggi, da Tripoli a Damasco. Ma è stato Netanyahu, ieri, a scegliere l'immobilismo, a chiudersi nella politica del bunker, e a perdere così l'occasione, che oggi ci sarebbe forse stata, di far partecipare Israele alle nuove dinamiche che scuotono Mediterraneo e Medio Oriente. Nelle parole del politologo americano Joseph Nye, Israele per la sua sicurezza ha bisogno di dimostrare che possiede anche un soft power . Ipotesi questa che Netanyahu non sembra aver preso in considerazione, restringendo le sue opzioni anche se adesso offre al leader palestinese di «incontrarci subito, qui, all'Onu».

Poi c'è il tormentato Obama. Il presidente spera di non dover usare il veto quando il Consiglio di sicurezza voterà (e non sarà subito), dal momento che basterebbero nove voti contrari a bloccare la richiesta di Abu Mazen. Ma se dovrà usarlo, lo farà. Perché nelle ore gravi l'America è sempre con Israele. Perché è cominciata, ormai, la campagna elettorale. Ma anche con tutta l'amarezza di un presidente costretto a contraddirsi, lui che aveva puntato moltissimo su nuovi rapporti con il mondo musulmano e sulla nascita concordata di uno Stato palestinese.

E c'è il rantolo europeo, con una Unione divisa che vorrebbe votare insieme ma non sa come farlo (non sarebbe il caso di considerare l'unità un valore supremo, e astenersi?), con Sarkozy che propone un «suo» piano poi ripreso nella sostanza dal Quartetto, con l'Italia e la Germania che sono i più vicini al no.

A conti fatti, dall'esercizio del Palazzo di Vetro vengono rischi per tutti. Per Netanyahu, che vince nell'immediato ma rischia l'isolamento. Per Abu Mazen, che potrà cercare parziale soddisfazione elevando il rango palestinese in Assemblea generale ma, davanti alla mancanza di cambiamenti concreti, è esposto al boomerang della delusione del suo stesso popolo. Per Obama, che si sparerà sui piedi nel Mondo arabo se dovrà usare il veto. Per l'Europa, che paga molto (in denaro) e si avvia a contare ancor meno di prima se manterrà le sue divisioni. Per le «primavere arabe» in odore di elezioni, dove il no del Consiglio di sicurezza potrebbe favorire estremisti e Fratelli musulmani. E, quel che più conta, per israeliani e palestinesi, con un eventuale nuovo negoziato che nascerebbe fragile e con un accordo di pace ancora lontanissimo. Oltre l'orizzonte, verrebbe da dire, a meno che Obama ottenga un secondo mandato e ricordi le contorsioni di questi giorni.

Franco Venturini

24 settembre 2011 07:56© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_24/la-moltiplicazione-dei-rischi-franco-venturini_530e3f9a-e66a-11e0-93fc-4b486954fe5e.shtml


Titolo: Franco VENTURINI Una missione non necessaria
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2011, 06:09:53 pm
IL PREMIER IN VISITA DA PUTIN

Una missione non necessaria

Ora che Putin si è tolto la maschera anticipando ai russi il risultato delle elezioni presidenziali di marzo, ha deciso di togliersela - ammesso che l'avesse - anche Berlusconi.

Il viaggio in Russia del presidente del Consiglio non dovrebbe stupirci, tanto numerosi sono i suoi precedenti. Ma Silvio Berlusconi è riuscito nell'impresa: perché mentre l'agenda diplomatica del capo del governo italiano risulta paralizzata da un asserito «eccesso di impegni» (anche giudiziari, si deve forse intendere), il tempo viene trovato senza difficoltà per correre a festeggiare il compleanno dell'amico e prossimo zar Vladimir. Il tutto in una atmosfera tanto riservata da apparire quasi cospiratoria.

Intendiamoci, non saremo certo noi a sottovalutare la cruciale importanza dei nostri rapporti con la Russia. E Putin, scontati quei dissensi che ieri Sarkozy ha ben messo in evidenza, resta un leader da rispettare con il quale tutto l'Occidente dovrà fare i conti. Tanto meglio, allora, se con Putin Berlusconi ha inteso parlare di accordi economici, tanto meglio se gli ha chiesto ragione del veto con il quale Russia e Cina hanno bloccato all'Onu le sanzioni contro il regime massacratore di Assad. Ma pur non volendo indulgere a certi recentissimi furori antiberlusconiani, non riusciamo a credere che siano stati questi temi a riportare Berlusconi in terra russa. Piuttosto ci sembra di scorgere una confessione di stanchezza, una ricerca di evasione dalla realtà italiana resa più gradita dal sapere che ad accoglierlo ci sarà quel Putin che è stato l'unico leader mondiale ad elogiarlo pubblicamente nelle ultime settimane.

Potremmo persino capirlo, questo Berlusconi in carenza di ossigeno. Potremmo passar sopra a certi antichi sospetti dei nostri principali alleati, diventati peraltro molto più discreti d'un tempo. Ma quel che non può essere condonato a Berlusconi è che mentre Putin si merita un viaggio, il resto della politica estera italiana debba subire il suo disinteresse e le sue assenze. Dobbiamo proteggere i nostri cospicui interessi in Libia, ma Berlusconi non ci è andato lasciando campo libero a Sarkozy, a Cameron e a Erdogan. Dovremmo avere una parola da dire all'Onu sulla richiesta di Stato palestinese e sulla relativa linea europea, ma al Palazzo di Vetro Berlusconi non si è fatto vedere. Un vertice bilaterale con la Serbia è stato rinviato ripetutamente su richiesta italiana. Altri si apprestano a subire la stessa sorte. E c'è il timore fondato che al vertice europeo del 18 prossimo o al G20 del 4 novembre, dove andrà, Berlusconi possa replicare esibizioni vittimistiche antigiudici come quella non dimenticata e sommamente imbarazzante del G8 di Deauville.

Un simile comportamento, signor presidente del Consiglio, non danneggia soltanto la nostra politica estera. Contribuisce, anche, a ridurre quella credibilità di cui tanto abbiamo bisogno per sostenere l'euro e salvare l'Italia dalla sindrome greca. A meno che l'Italia non stia per entrare nell'area rublo.

Franco Venturini

08 ottobre 2011 10:27© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_08/una-missione-non-necessaria_b93fcee8-f16c-11e0-8be4-a71b6e0dfe47.shtml


Titolo: Franco Venturini - Sorvegliati ma non speciali
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2011, 05:59:53 pm
Sorvegliati ma non speciali

La settimana decisiva per la salvezza dell'euro si è aperta con una sonora lavata di testa all'Italia. La Commissione di Bruxelles, dopo inutile attesa, ha chiesto al nostro governo di approntare «urgentemente» nuove misure volte a rafforzare la crescita economica, accompagnandole con un preciso calendario di attuazione in grado di incoraggiare la fiducia dei mercati.

Non è la prima volta che Bruxelles denuncia pubblicamente l'indecisionismo del governo italiano. Ma farlo con tanta chiarezza alla vigilia dei vertici europei di domani e di mercoledì, e soprattutto in vista delle conseguenti valutazioni che verranno dai mercati, significa avvertire l'Italia che il livello di guardia è stato raggiunto. E che ulteriori manifestazioni di lassismo nei confronti di una esigenza comune non potranno che ingigantire quegli «sforzi particolari» già previsti, in cambio di aiuti, per i Paesi che affrontano tensioni sui mercati del debito sovrano.

Perché, ed è questo il punto, di una esigenza comune si tratta. I soci della zona euro, guidati da Germania e Francia in maniera conflittuale e sensibile ai rispettivi fronti interni ma priva di alternative credibili, sono impegnati in un braccio di ferro che ha molte probabilità di sancire la sorte dell'euro e dunque dell'Europa. Si tratta di decidere in pochi giorni, in tempo cioè per il G20 del 3-4 novembre, risorse e ruolo del fondo salva Stati; di fissare le modalità per ricapitalizzare una settantina di banche «strategiche»; di coinvolgere i creditori privati (cioè le stesse banche) in una sostanziale insolvenza pilotata della Grecia. Il tutto con una finalità principale ben chiara: impedire il «contagio» dell'Italia e della Spagna, perché un loro slittamento verso scenari di tipo ellenico, se non contenuti a tempo, finirebbero per mettere ad altissimo rischio la sopravvivenza dell'euro e quella dell'intera costruzione europea.

Ecco perché, come ha scritto Mario Monti su queste colonne, l'Italia di oggi viene percepita come una minaccia da chi sta cercando di tenere a galla la barca. Perché proprio da lei può cominciare la diffusione di una malattia incurabile. Del resto, come potrebbe essere considerato responsabile un governo che nella graduatoria dei contagiabili occupa la prima linea ma non si preoccupa di fare la sua parte, scaricando così ulteriori pericoli sugli altri oltre che sui propri cittadini? Perché mai Bruxelles dovrebbe indossare i guanti bianchi nei confronti di un governo come il nostro che rinvia tranquillamente il «decreto sviluppo» e si preoccupa soltanto di negare l'evidenza, cioè la paralisi derivante dai dissensi incrociati all'interno della maggioranza?

Il ministro Frattini dice di sperare che Berlusconi possa indicare «le grandi linee» del provvedimento domani in consiglio europeo. In mancanza d'altro lo speriamo anche noi. Ma il fatto è che Berlusconi doveva arrivare all'appuntamento con decisioni prese e capaci di convincere, non con una vaga idea di quel che forse farà in seguito.

Vogliamo stupirci, allora, del fatto che Obama abbia di nuovo discusso la crisi soltanto con Merkel, Sarkozy e Cameron? Oppure dell'assenza italiana in un dibattito che si va aprendo su possibili modifiche ai Trattati o su nuovi meccanismi per la governance economica europea? Mentre nell'eurozona la temperatura sale, l'Italia resta fedele a se stessa: non pervenuta.

Franco Venturini

22 ottobre 2011 11:09© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_22/sorvegliati-non-speciali-venturini_8992106a-fc85-11e0-92e3-d0ce15270601.shtml


Titolo: Franco VENTURINI Il ponte che non c'è
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2011, 10:28:46 am
Il ponte che non c'è

La novità che il vertice di Bruxelles propone ai mercati è che ora, per la prima volta da quando è cominciata la bufera, l'eurozona ha un piano. Non un piano a ventisette, perché la Gran Bretagna mai avrebbe potuto accettare che nuove regole e nuove sanzioni - per di più ispirate dalla Germania - condizionassero la City di Londra. Non un piano per la modifica dei trattati esistenti, perché senza gli inglesi si dovrà elaborare un trattato intergovernativo tra chi ci sta. Ma pur sempre un piano che segna una svolta rilevante. Troppo a lungo, mentre la crisi si aggravava a beneficio di speculazioni palesi e occulte, finanziarie e politiche, i dirigenti di Eurolandia avevano seminato confusioni di intenti e velleitarismi tecnici. Adesso invece, con Angela Merkel nei panni del direttore d'orchestra, la sponda da raggiungere entro la fine di marzo è stata definita: maggiore integrazione in una Unione fiscale e dunque nuove cessioni di sovranità, sanzioni automatiche per i trasgressori delle regole di bilancio (il rientro dal debito resta cosa separata), controlli preventivi e vincolanti delle contabilità nazionali, adeguamento delle Costituzioni. L'Europa a due velocità made in Germany, insomma, nasce con il dito sul grilletto finanziario per impedire che quanto sta accadendo oggi possa ripetersi in futuro.

Ma se Sarkozy parla già di momento storico, e se è giusto rallegrarsi della promessa di far nascere quella Unione fiscale, cioè di bilancio, che ormai tutti consideravano indispensabile per tenere in vita la moneta unica e correggere le manchevolezze di Maastricht, sarebbe imprudente dimenticare che soltanto di una promessa si tratta. E che per arrivare entro marzo sulla sponda di tutte le virtù gli architetti dell'eurozona avranno bisogno di un ponte: quel ponte che oggi si fatica a scorgere perché il tanto auspicato «grande scambio» tra rigore futuro e flessibilità immediata nel sostegno dell'euro a Bruxelles non si è verificato o è stato tenuto segreto.

Le difficoltà che attraversiamo sono destinate a durare. Gli italiani passeranno le feste all'ombra di una manovra necessaria ma non per questo meno carica di sacrifici, e situazioni analoghe esistono in altri Stati dell'eurozona. Il 2012 si annuncia come un anno di sostanziale recessione. I trasferimenti di sovranità uniti ai disagi sociali incoraggiano quasi sempre forme di populismo, e il populismo di questi tempi è anti-europeista. Quel che più conta, nei primi mesi del 2012 l'Italia dovrà piazzare sul mercato grandi quantità di titoli di Stato. Non si può dunque aspettare marzo come si aspettasse Godot, con la tormentata astrazione del teatro dell'assurdo. Fatta salva la prospettiva del nuovo trattato serve una rete di sicurezza immediata, bisogna prevedere un ombrello protettivo che convinca mercati e agenzie di rating a invertire le tendenze attuali e a farci giungere in discreta salute al nuovo sistema comune.

Ebbene, in questa direzione il vertice di Bruxelles ha fatto troppo poco. Positiva è la decisione di trasferire risorse al Fondo monetario che potrà così più agevolmente aiutare Stati dell'Eurozona che ne facessero richiesta. Bene per l'anticipo a luglio del Fondo permanente e per la gestione tecnica del Fondo salva Stati affidata alla Bce. Ma l'ammontare delle risorse complessive utilizzabili subito resta da verificare, al pari di alcuni meccanismi non proprio secondari. Gli eurobond non sono stati nemmeno citati, anche se Mario Monti ha assicurato che a questa ipotesi si continua a lavorare. E soprattutto nulla è stato detto di misure per la crescita, e nulla è stato detto di un più marcato interventismo della Bce per tenere a bada l'eccessivo aumento degli spread e le loro conseguenze.

Il tallone d'Achille dell'Europa che esce da Bruxelles è ancora tutto qui. La Bce ha ragione a fare il suo mestiere e ad affermare la sua indipendenza. In aggiunta la cancelliera Merkel ha bisogno per il suo fronte interno che della Bce non si parli. Ma per i mercati una credibile polizza di assicurazione contro gli intralci che sul cammino del nuovo trattato sorgeranno (referendum in Irlanda?) può venire soltanto da Francoforte. La speranza è che ciò che non è stato detto a Bruxelles avvenga ugualmente, con discrezione, sulla scia di quanto già accade e tanto ha aiutato l'Italia. Vada per il ponte non dichiarato, purché ci sia.

Franco Venturini

10 dicembre 2011 | 7:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_10/il-ponte-che-non-c-e-franco-venturini_05c5fb5e-22f8-11e1-bcb9-01ae5ba751a6.shtml


Titolo: Franco VENTURINI - Servizi e Pregiudizi
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2012, 04:09:30 pm
Servizi e Pregiudizi

Secondo una consolidata prassi diplomatica è effettivamente «inspiegabile», come ha detto il presidente Napolitano, che il governo britannico non abbia chiesto il parere dell'Italia sul blitz militare che è poi costato la vita a Franco Lamolinara e al suo compagno di prigionia in Nigeria. Ma le circostanze che è urgente «spiegare» non finiscono qui, e non è soltanto da Londra che gli italiani hanno diritto a ricevere un chiarimento.

Alle ore 10.30 di giovedì i nostri servizi vengono avvertiti dai colleghi inglesi che una operazione per tentare di liberare i due ostaggi sta per scattare. L'informazione raggiunge il presidente del Consiglio Monti «a operazione avviata». Più tardi, mentre Monti rientra in aereo dalla visita a Belgrado, è il premier Cameron a telefonargli per informarlo del pessimo esito dell'attacco. Una ricostruzione apparentemente senza segreti.

Eppure alla riunione del Copasir convocata per lunedì alcuni interrogativi dovranno trovare risposta. Perché se è vero che Mario Monti farebbe comunque bene ad attribuire la delega per i servizi di sicurezza, è ancor più vero che al di là della tragica morte di Franco Lamolinara si pone oggi una questione di interesse nazionale che non può essere derubricata a incidente diplomatico: abbiamo o non abbiamo servizi efficienti e interlocutori governativi capaci di svolgere correttamente i loro compiti in materia di sicurezza?

Di interrogativi «inspiegabili» ne esistono più di uno. È vero o non è vero che gli 007 di Sua Maestà, nei contatti avuti con i colleghi italiani, avevano ipotizzato la possibilità di un ricorso alla forza senza peraltro avvertirli nell'imminenza dell'azione intrapresa? Come era stata valutata, dai nostri servizi, la presenza in zona di un reparto di incursori britannici evidentemente pronti a fare il loro mestiere? E di ciò i vertici dei servizi avevano adeguatamente informato l'autorità politica, oppure erano erroneamente convinti, e per conseguenza lo era il governo, che prima di dare il fuoco verde alle sue teste di cuoio Londra avrebbe chiesto l'accordo italiano?

Poi, beninteso, c'è da chiarire il comportamento britannico. Ma qui non è troppo difficile immaginare che Londra abbia considerato con qualche arroganza i nostri precedenti, i molti sequestri risolti con pagamenti di riscatti. Questo approccio gli inglesi non lo apprezzano. E devono essersi detti: se chiediamo il parere preventivo di Roma ci diranno di stare fermi, mentre noi vogliamo usare i nostri metodi. Purtroppo i due ostaggi erano insieme.

Le vicende internazionali extra economiche, insomma, sembrano accanirsi sulle falle di una credibilità che non può essere ricostruita in breve tempo. I due marò detenuti in India rappresentano anch'essi un pedaggio pagato a fattori «inspiegabili»: il rientro della nave in porto, l'opinabile viaggio del ministro Terzi a Nuova Delhi, il ritardo nel coinvolgimento dell'Europa e, speriamo, degli Usa. Indiscrezioni molto credibili dicono ora che Berlusconi, corso a festeggiare la vittoria elettorale di Putin, gli abbia chiesto di intervenire. E che Putin lo stia già facendo, con tutto il peso dei rapporti economici e militari tra Russia e India. Una nuova speranza, ma anche una nuova conferma che qualcosa non funziona nel nostro stare al mondo.

Franco Venturini

10 marzo 2012 | 7:14© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_10/servizi-pregiudizi-venturini_38d865aa-6a78-11e1-8b63-010bde402ef9.shtml


Titolo: Franco VENTURINI - AMERICA E CINA, I GIORNI DEL POTERE
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2012, 05:26:02 pm
AMERICA E CINA, I GIORNI DEL POTERE

Il presidente e i timonieri


Martedì in America gli elettori decideranno sul filo di lana chi sarà il loro presidente nei prossimi quattro anni, giovedì in Cina comincerà a porte chiuse un congresso del Partito comunista che deve scegliere timonieri e rotte per i prossimi dieci anni: se un regista occulto avesse voluto accostare i due eventi politici che più di tutti plasmeranno il mondo di domani e contemporaneamente esaltarne le differenze, non avrebbe potuto fare di meglio.

Dei due candidati alla Casa Bianca, Barack Obama e Mitt Romney, sappiamo tutto, ma non sappiamo ancora chi vincerà. Dei due nuovi dirigenti cinesi, Xi Jinping, segretario del Partito, e Li Keqiang, primo ministro, conosciamo invece l'identità e siamo ragionevolmente sicuri della loro nomina, ma poco o nulla sappiamo su di loro, sulle loro idee, sulle loro vite. In America le elezioni sono una maratona, si comincia con le primarie, poi le convention, poi la campagna in ogni Stato e i dibattiti televisivi. In Cina vige invece l'unità di facciata, che peraltro questa volta non ha retto: Bo Xilai è uscito di scena con il marchio del criminale, la lotta di potere tra correnti contrapposte è venuta ripetutamente alla luce, il New York Times , certo non da solo, ha svelato le enormi ricchezze accumulate dall'attuale premier Wen Jiabao e dalla sua famiglia. Eppure giovedì il Partito comunista tornerà ad affermare il dogma dell'unità come se nulla fosse accaduto. Curioso: in America il popolo decide, nella Repubblica Popolare il popolo comincia appena a farsi sentire.

Ma se tra martedì e giovedì Stati Uniti e Cina porteranno ai livelli più alti le loro diversità di cultura politica, esistono anche, tra Washington e Pechino, somiglianze e solidi legami. Come potrebbe essere diversamente, tra la prima e la seconda economia al mondo, oltretutto in attesa di scambiarsi le posizioni tra una quindicina d'anni o forse prima? Se non fosse per il paradosso europeo (oggi l'Europa conta ma in negativo, soltanto perché la crisi dell'euro fa paura e minaccia contagio) chi mai nel mondo multipolare che si va precisando potrebbe pretendere una importanza paragonabile a quella dell'America o a quella della Cina?

Profondamente diversi, i due protagonisti della scena mondiale sono dunque anche fratelli, e non soltanto perché uno (la Cina) ha in tasca una buona parte delle cambiali dell'altro (l'America). Si dice che Pechino preferisca una vittoria di Obama, il che risulterebbe coerente con il conservatorismo cinese. Ma sarebbe interessante, se vincesse Romney, vedere come le sue requisitorie anticinesi cadrebbero ben presto nel dimenticatoio. Usa e Cina sono condannate, nel reciproco interesse, a convivere limitando le conseguenze dei contrasti; e possono, quando se ne presenta l'occasione, indossare le divise del tanto vanamente discusso G2, che non sarà mai, appunto, più che occasionale e difensivo.

L'America cambierà comunque martedì, molto meno se vincerà Obama, molto di più se vincerà Romney. Ma - e qui è davvero difficile stabilire se si tratti di una somiglianza o di una diversità - da giovedì in avanti dovrà cambiare soprattutto la Cina. I nuovi dirigenti designati, Xi Jinping e Li Keqiang, dovranno trovare l'accordo con sette membri del Politburo e con i militari sul modo migliore di adeguare ai tempi nuovi l'economia e la sempre meno rassegnata società cinese.

I termini della sfida spiegano il terremoto politico che ha preceduto e che forse accompagnerà il Congresso. Per quasi vent'anni l'economia cinese ha beneficiato di una crescita a due cifre. Quest'anno la previsione è di un aumento del Pil del 7,5 per cento: un sogno per noi, una sirena d'allarme per i cinesi. Il modello basato quasi interamente sulle esportazioni, in un mondo che stenta a crescere quando non è in recessione, non funziona più. Bisogna pensarne un altro, bisogna controllare l'inflazione, prevenire la bolla immobiliare e verificare la solidità (dubbia) del sistema bancario. Bisogna, insomma, adeguare la Cina al pianeta che la circonda e in particolare alla strisciante crisi americana (eccola di nuovo, l'interdipendenza dei due giganti). Non basta. La società cinese è cambiata, è più istruita, utilizza Internet malgrado tutti gli ostacoli posti dalle autorità, è dunque informata e non tollera più la corruzione e i privilegi estremi di un esercito sempre più nutrito di nuovi miliardari capital-comunisti. Sono all'ordine del giorno proteste di varia natura, e nelle fabbriche emerge lentamente una sorta di sindacalismo spontaneo.

La risposta ai due versanti del problema, quello economico e quello sociale, risiede nel favorire i consumi interni. La Cina lo sta già facendo, ma dovrà farlo molto di più. E per questo serviranno riforme, e per le riforme servirà consenso nel vertice del potere. Il tutto senza aprire varchi al dissenso politico, che anzi viene colpito più di prima. Il tutto senza indebolire il controllo del Partito comunista sui forzieri capitalisti della costa meridionale.

In fondo la sfida è ancora tutta qui, ed è doppia. L'Occidente ha pensato a lungo che comunismo e capitalismo non potessero coesistere a lungo, e ha atteso l'esplosione di un sistema che considerava impossibile. Oggi l'Occidente riconosce che il modello cinese ha funzionato, e prega che non esploda anche se i contrasti tra comunismo e capitalismo sono cresciuti. Martedì e giovedì, America e Cina tanto lontane e tanto vicine.

Franco Venturini

4 novembre 2012 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_04/il-presidente-e-i-timonieri-franco-venturini_f26df4ce-2654-11e2-8015-d7b141f471a2.shtml


Titolo: Franco VENTURINI L'Europa (e la Germania) temono il vento populista che soffia..
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 06:03:45 pm
NOI E GLI ALTRI

L'Europa (e la Germania) temono il vento populista che soffia dall'Italia

I vertici europei, durante il consiglio della Ue a Bruxelles, si sono informati ieri sul quadro politico in Italia. Vorrebbero capire. E dev’essere arduo, per chi ci osserva dalle altre capitali, comprendere la logica delle giravolte politiche di Silvio Berlusconi. E sprimiamo al ministro Enzo Moavero tutta la nostra solidarietà. I colleghi - ha dichiarato ieri a Bruxelles dove partecipava a un consiglio della Ue - si sono informati sul quadro politico in Italia, vorrebbero capire. Non è dato sapere cosa abbia risposto il ministro, ma di certo il suo è stato uno sforzo tanto faticoso quanto inutile. Dev'essere arduo, per chi ci osserva dalle altre capitali, comprendere la logica delle giravolte politiche di Silvio Berlusconi, l'ultima delle quali ha spinto Mario Monti ad annunciare le prossime dimissioni.

Dobbiamo prendere atto delle nostre originalità e nel contempo stare bene attenti a non farci mettere i piedi in testa di alcuno. Senza pensare di essere soli, però, perché in Europa soli non siamo. Abbiamo sottoscritto trattati vincolanti, abbiamo concluso accordi. L'ottocentesca sovranità nazionale si è diluita in una ambizione più grande e più complessa chiamata Europa, e nessuno in Italia dichiara di volerla silurare. Nemmeno Berlusconi. Ma come dovremmo allora interpretare il nazional-populismo che porta il Cavaliere a sottovalutare l'enorme prezzo che tutti gli italiani finiscono per pagare quando l'allargamento dello spread alza il costo del debito? E che dire dei marcati accenti anti-tedeschi adottati dall'ex premier, e subito rilanciati dalla solita truppa al seguito? Angela Merkel è stata rispettosa, ha espresso stima per l'operato del governo Monti e si è detta sicura che nelle urne gli italiani sapranno scegliere per il meglio. Una dichiarazione simile, nella sostanza, a quella precedente di François Hollande. Ma il ministro degli Esteri tedesco Westerwelle, da sempre poco diplomatico, ha preso la cosa di petto: «Non accetteremo che la Germania sia fatta oggetto di una campagna elettorale populista».

Spiacente, signor ministro, ma si prepari a quel che non vuole accettare. Cos'altro potrebbe voler dire Berlusconi, quando con particolare acume dietrologico afferma che fu Berlino a vendere tutti i titoli del Tesoro italiano che possedeva, innescando così la paura degli altri investitori i quali da allora non si fidano e fanno salire alle stelle gli interessi sui nostri bond? La descrizione è tanto rozza da essere evidentemente indirizzata a chi cerca un colpevole a tutti i costi: la Germania, appunto.

Chi scrive ha criticato più di una volta alcuni aspetti (ce ne sono altri assai positivi) della politica tedesca in Europa: la lentezza nell'applicare le decisioni comuni, per esempio, e la scarsa leadership esercitata sugli orientamenti dell'opinione pubblica. Ma demonizzare la Germania è cosa ben diversa. Dire che è stata Berlino a sabotare volontariamente l'equilibrio finanziario dell'Italia (che peraltro non esisteva, men che meno al momento delle dimissioni di Berlusconi), sostenere implicitamente che se in questo anno sul capo degli italiani sono piovuti sacrifici è colpa della Germania oltre che di Mario Monti, questo è davvero sabotaggio. Dell'Italia e dell'Europa, non certo della Germania. E non stupisce che il Ppe, al quale il Pdl aderisce, abbia osservato ieri per bocca del suo capogruppo al Parlamento europeo Joseph Daul che «non ci possiamo permettere questa politica spettacolo».

Ma non bisogna pensare che i nostri soci europei, quelli stessi che ieri chiedevano informazioni a Moavero, si interroghino soltanto sulla destra italiana. Il centro probabilmente non riescono ancora a decifrarlo. E poi c'è la sinistra, quella che secondo i sondaggi ha le maggiori probabilità di vincere le elezioni. Commenti dedicati a Pier Luigi Bersani dalle capitali europee non ne sono venuti, finora. Ma c'è un segnale, lanciato questa volta dai mercati e da quello spread che secondo il Cavaliere sarebbe «un imbroglio». Lunedì, quando tutti attendevano di verificare il doppio effetto del ritorno di Berlusconi e del ritiro di Monti, la borsa italiana è stata la peggiore d'Europa e lo spread è nettamente risalito. Poi giorno per giorno ci sono e ci saranno altre oscillazioni, come è normale. Ma il primo messaggio, quello politicamente più significativo, è stato chiaro: preoccupazione.

Orbene, è normale che i mercati e gli investitori siano inquieti per il ritorno di Berlusconi e soprattutto per l'incerto futuro politico di Monti. Ma se la prospettiva di un governo Bersani fosse tale da calmare ogni agitazione e da garantire la stabilità dell'Italia sulla rotta intrapresa (anche mettendo in conto le «correzioni» promesse dal segretario del Pd), il contraccolpo sarebbe stato minore, o non ci sarebbe stato. La verità invece, e su questo la dirigenza del Partito democratico dovrebbe riflettere, è che Bersani non rassicura a causa della sua alleanza con le opinioni assolutamente rispettabili ma meno moderate di Nichi Vendola. Lo ha confermato ieri lo stesso Vendola: «Se c'è l'agenda Monti io non ci sono. Se c'è l'agenda Bersani io ci sono». Non sarebbe il caso di precisare quanto e in cosa siano le due agende? L'Europa che chiede chiarezza ne sarebbe contenta. E ancora di più lo sarebbero gli elettori italiani.

Franco Venturini
fr.venturini@yahoo.com

12 dicembre 2012 | 7:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_dicembre_12/il-perche-europa-teme-italia_684038ee-4426-11e2-a26e-c89e7517e938.shtml


Titolo: Franco VENTURINI IL DIVORZIO A TEMPO DI LONDRA DALL'UE
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2013, 06:01:26 pm
IL DIVORZIO A TEMPO DI LONDRA DALL'UE

L'impaziente inglese

Potremmo essere soddisfatti della preferenza europeista che David Cameron ha espresso ieri nel suo atteso discorso. Potremmo sentirci sollevati nell'apprendere che il referendum britannico sulla permanenza o l'uscita dall'Unione Europea slitterà forse sino alla fine del 2017, e che nel frattempo si negozierà. Ma così facendo nasconderemmo a noi stessi il vero e decisivo oggetto del contendere: che l'eurozona guidata dalla Germania vuole più integrazione, mentre la Gran Bretagna ne vuole di meno.

È questo contrasto più culturale che politico, più storico che elettoralistico, a fare dell'annuncio di Cameron una credibile minaccia di divorzio. Anche se lo stesso Cameron contro il divorzio ha promesso di lottare. Anche se tutte le grandi capitali europee dicono di volere Londra nella Ue e le tendono la mano. Perché alla fine saranno i cittadini britannici a decidere, e su di loro cultura e storia peseranno ben più delle indicazioni di Downing Street.

Il primo ministro britannico è stato chiarissimo sull'obbiettivo che intende raggiungere (se sarà rieletto nel 2015) e poi sottoporre a ratifica popolare: il «ritorno» di poteri da Bruxelles a Londra. Si trattasse di frenare l'invadenza della burocrazia comunitaria, saremmo tutti con lui. Ma nella Ue la Gran Bretagna vanta già una lunga serie di privilegiate esenzioni, usufruisce della «restituzione» finanziaria strappata a suo tempo da Margaret Thatcher, fa spesso valere la sua sensibilità sovranista (per esempio ha ottenuto di cancellare bandiera e inno dal Trattato di Lisbona).

Di ben altro si tratta, dunque. Per uscire dalla crisi l'eurozona, destinata a diventare nocciolo duro della Ue di domani, si muove verso l'unione bancaria, l'unione fiscale, l'unione politica. Vengono ipotizzati bilanci nazionali passati preventivamente al vaglio da una autorità centrale. Si discute sull'ampliamento dei poteri della Banca centrale europea. Il successo di un tale programma è lungi dall'essere garantito, come molti hanno ricordato celebrando l'anniversario di un patto franco-tedesco oggi pieno di crepe. Ma la Ue vuole almeno provarci, e in questo tentativo siamo impegnati anche noi italiani malgrado i desolanti silenzi della campagna elettorale. Per l'opinione pubblica britannica, invece, i progetti delineati equivalgono a vere e proprie bestemmie. Ulteriori cessioni di sovranità? Nuove emarginazioni dal ponte di comando? Anche se l'Inghilterra non è più quella della vecchia battuta «nebbia sulla Manica, il continente è isolato», la sfida delle urne sembra temeraria.

A raggiungere un compromesso anti-divorzio si proverà, naturalmente. Nell'interesse anche della Ue, se non altro per il ruolo che Londra avrebbe in una futuribile difesa comune. Ma cosa e quanto può ancora concedere l'Europa a Londra senza snaturare la sua già debole identità? Può forse capovolgere la sua strategia, diventare un club à la carte , adottare la filosofia delle ventisette velocità, rinunciare al tentativo di avere un posto nel mondo globalizzato? Entro limiti ragionevoli gli europei cercheranno l'accordo con Londra. Ma spetta proprio a Cameron, ora che la partita è cominciata, il compito di spiegare agli inglesi che con o senza nebbia resterebbero loro isolati (anche dagli Usa) se votassero fuori . De Gaulle è da qualche parte, osserva e aspetta.

Franco Venturini
fr.venturini@yahoo.com

24 gennaio 2013 | 13:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_24/impaziente-inglese_a12a4ae8-65ee-11e2-a999-f4ff91782969.shtml


Titolo: Franco VENTURINI. IL FIUME DI SANGUE IN EGITTO Noi così Impotenti
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2013, 07:25:51 pm
IL FIUME DI SANGUE IN EGITTO

Noi così Impotenti

 
Il fiume di sangue che scorre in Egitto approfondisce le lacerazioni del Mondo arabo, sottolinea l'indecisionismo (o è nuova impotenza?) dell'America, conferma quello dell'Europa, accende nel bel mezzo del Mediterraneo una miccia che può condurre a nuove deflagrazioni e innescare massicce correnti migratorie sull'uscio di casa nostra.

Non è un ritornello stanco, quello sull'importanza dell'Egitto. Restando ai tempi moderni è sempre dal Cairo che sono venuti i segnali di guerra o di pace, di stabilità offerta o di instabilità contagiosa, di svolte storiche (ricordiamo soltanto il viaggio di Sadat a Gerusalemme) o di storiche involuzioni. Per questo l'Egitto era - non osiamo dire è - il principale e decisivo laboratorio della «Primavera araba», di quella Primavera che ancora resiste, a malapena, nella sola Tunisia. E per questo ora il regolamento di conti tra militari e Fratelli musulmani non segna soltanto un esperimento fallito, quello di Morsi, ma autorizza anche interrogativi inquietanti sulle intenzioni della repressione in atto, quella di Al-Sisi.

Davanti alle stragi è sempre difficile disegnare una valutazione equilibrata, ma è anche necessario provarci senza farsi travolgere dall'orrore. Morsi presidente eletto è stato un disastro: incompetente, ambiguo, più impegnato a piazzare uomini della Fratellanza in posizioni di potere che a governare il Paese, cocciuto nel suo diniego quando da ogni parte del mondo gli veniva chiesto di creare un governo di unione nazionale, sordo fino all'inverosimile davanti agli avvertimenti dei militari.
Ma quando il neonasseriano Al-Sisi, generale pio e nazionalista, ha deciso di appellarsi al popolo e di far muovere i carri armati per quello che tecnicamente resta un golpe, si è scoperto che al vuoto rampante di Morsi corrispondeva una assenza progettuale dei militari. Che al Cairo i sit-in di massa della Fratellanza non potessero durare in eterno, tutti lo capivano. Ed è anche vero che la sicura presenza di gruppi armati dei Fratelli musulmani e gli assalti ai commissariati hanno dato una parte di ragione alle denunce dei generali, appesantendo il tragico bilancio degli scontri. Eppure sono stati i militari più dei Fratelli - secondo testimonianze credibili - a decretare con una certa fretta il fallimento degli sforzi di mediazione americani ed europei, come se una terribile lezione dovesse comunque essere impartita alla Fratellanza e alla sua sfida non più tollerabile.

Lì si è vista la sostanziale «impotenza da attendismo» dell'America di Obama, lì è emersa la conferma di un minore impegno statunitense nell'area mediterranea già palesatosi in occasione della guerra in Libia e poi, in una cornice strategica diversa, nella guerra civile siriana. Al-Sisi ci ha messo del suo, gridando alle «interferenze occidentali» forte dei denari provenienti dagli Emirati e dall'Arabia Saudita.

E così l'indecisionismo e l'imbarazzo americani sono continuati e continuano dopo le stragi con il risultato che le autorità del Cairo stigmatizzano apertamente le pur caute critiche di Obama, e che Washington scopre di non avere più amici in Egitto: non i Fratelli musulmani che l'accusano di aver favorito il golpe, non i moderati che le rimproverano di ondeggiare continuamente, non i militari scontenti dei suoi rimproveri anche se prontissimi a incassare il miliardo e mezzo di dollari che l'America fa giungere ogni anno in gran parte proprio per foraggiare le forze armate. Quanto all'Europa essa ha fatto quello che poteva, forse più di altre volte.
La signora Ashton si è fregiata della prima visita a Morsi in prigionia. Ma il peso dell'Europa (per sua colpa) è quello che è. Eppure America ed Europa, forse oggi più di ieri, possono svolgere un ruolo cruciale: quello di capire quale possa essere il futuro prossimo e di tentare, con maggiore convinzione, di influenzare chi mena le danze.

Il colpo durissimo alla Fratellanza musulmana è stato dato. Che intende fare ora Al-Sisi? Se al pugno di ferro non si affiancherà una mano tesa la radicalizzazione dei Fratelli proseguirà in un Paese che non è più quello di Mubarak, e invece di una finta stabilità avremo esplosioni ricorrenti di guerra civile. Con l'avanzata delle frange islamiste più radicali e nessun rafforzamento scontato per le forze democratiche. E con il proseguimento del martirio dei Copti.

Ora che il suo «lavoro sporco» è stato fatto almeno nella parte emergente, Al-Sisi sarà forse più disposto ad ascoltare. Perché una qualche forma di recupero della Fratellanza e lo spostamento delle priorità operative sull'economia restano necessità impellenti per chi non vuole il «contagio egiziano». Ma per giungere a tanto con i Fratelli bisognerà pur parlare nelle nuove ardue condizioni, e serviranno dei mediatori. Ammesso che dopo tanto sangue non sia già troppo tardi. Ammesso che quella del grilletto non sia già l'unica politica praticabile.
L'estate calda di Obama continua, e diventa anche la nostra.

17 agosto 2013 | 13:57
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Franco Venturini

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_17/noi-impotenti_5cbfb1c8-06f6-11e3-9c6f-1ce18bc58c39.shtml


Titolo: Franco VENTURINI - REPRESSIONE E SENSO DI ONNIPOTENZA La roulette di Putin
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2014, 05:55:50 pm
REPRESSIONE E SENSO DI ONNIPOTENZA
La roulette di Putin

A Sochi Vladimir Putin ha già vinto una medaglia d’oro: quella dell’arroganza. Sapevamo da tempo che le Olimpiadi sono inseparabili dalla politica. Così è stato a Berlino nel 1936, nella tragica Monaco del 1972, nella boicottata Mosca del 1980, nella esuberante Pechino del 2008. Ma a Putin non interessano le lezioni della storia, nemmeno quelle che colpirono l’Urss dopo l’invasione dell’Afghanistan. Piuttosto il capo del Cremlino vuole utilizzare i Giochi come emblema di un presunto nuovo status mondiale della sua Russia e per raggiungere l’obbiettivo ha scelto lo strumento che gli è più congeniale: la sfida.

Nella rutilante (e bella) cerimonia di apertura di ieri l’assenza dei quattro principali leader delle democrazie occidentali è stata bilanciata dalla presenza di altri, come il premier italiano che ha spiegato venerdì sul Corriere le sue ragioni per esserci. Ma è prima di ieri, è ben prima di ieri che Vladimir Putin ha scelto sulla via per Sochi una strategia offensiva. Le leggi contro il dissenso, il controllo dei tribunali e quello dei media, le violazioni dei diritti umani. E poi, più di recente, una serie di provocazioni come se il tenebroso sovrano di Mosca avesse davvero deciso di prendere di petto il «decadente modello occidentale». La legislazione contro i gay, cui hanno dato l’impressione di voler rispondere ieri gli atleti tedeschi sfilando in tenuta stile arcobaleno. Ma anche l’iniziale fermo degli ecologisti di Greenpeace. Il disprezzo verso il mondo dello spettacolo che solidarizzava con le Pussy Riot ancora in galera. I frequenti riferimenti alla «superiorità morale» della Russia, approdati persino sul New York Times. E infine, alla vigilia di Sochi, come se si trattasse di lanciare qualche tozzo di pane alle inquietudini dell’Occidente, la grazia a Khodorkovsky, la liberazione degli ecologisti e delle Pussy Riot.

È vero che il 2013 ha portato a Putin qualche robusta soddisfazione (sulla Siria e le indecisioni di Obama, sull’ospitalità galeotta a Edward Snowden), ma la sua marcia di avvicinamento ai Giochi fa pensare a uno zar troppo propenso a credersi onnipotente. E quando si gioca alla roulette si rischia di perdere. Non auspichiamo certo che a Sochi o altrove in Russia si verifichino attacchi terroristici, ma l’insidia esiste. Così come sono possibili proteste civili clamorose, capaci di rovinare la festa. E poi, lontano dalle piste innevate, il braccio di ferro sull’Ucraina non segnala più un successo sicuro per il Cremlino. Così come il «ritrovato status di potenza» della Russia ha le gambe corte, non soltanto perché all’interno matura una classe media che chiede cambiamenti, ma anche e soprattutto perché l’economia che ha finanziato i Giochi più dispendiosi della storia marcia diritta verso la stagnazione, con una crescita debole, la mancanza di investimenti e di tecnologie avanzate, l’arrivo del gas ricavato da argille, la persistente crisi demografica. Era il caso, allora, di lanciare a raffica moniti e proclami di superiorità per poi arrivare a Sochi con troppe assenze e vulnerabilità sempre vive? Putin ha scommesso più del necessario e, se anche dovesse vincere (ma intanto ha già subito le prime sconfitte), Sochi non offrirebbe una positiva anticipazione dei suoi comportamenti futuri.

Forse la vera fortuna dello zar è di non essere l’unico fuori misura, perché nei confronti della Russia gli europei continuano a dividersi e Victoria Nuland si è resa colpevole non tanto di aver espresso un duro giudizio sulla Ue quanto di aver dimenticato, proprio lei americana, quanto sia facile intercettare una telefonata. Putin ne avrà riso, gingillandosi con il suo oro.
10 febbraio 2014
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Franco Venturini

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_08/roulette-putin-a765f5e2-9086-11e3-85e8-2472e0e02aea.shtml


Titolo: FRANCO VENTURINI Il bastone dello zar
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2014, 11:26:53 am
Il bastone dello zar

Ora lo riconosciamo, Vladimir Putin. Non è più quello edulcorato che voleva a tutti i costi chiudere in bellezza i Giochi di Sochi. Non è più nemmeno quello silenzioso dei giorni seguenti. Ora la pianificazione è finita, e il giocatore di scacchi che è in lui ha elaborato una strategia consona alle tradizioni russe: sarà l’uso della forza a raccogliere la sfida ucraina e a far sapere, a Kiev come alle capitali d’Occidente, che nulla può essere fatto in Ucraina senza tener conto degli interessi della Russia.

In verità questo ben pochi lo ignoravano, e può far testo l’insistenza con la quale Angela Merkel ha tentato di coinvolgere il Cremlino nella mediazione condotta con poca fortuna dagli europei. Ma una mano tesa per riparare alla micidiale sconfitta di piazza Maidan a Putin non poteva bastare. E allora ecco che soldati senza insegne ma troppo disciplinati e ben equipaggiati per non essere russi si impadroniscono delle infrastrutture strategiche della Crimea. Sono usciti dalla base navale di Sebastopoli, oppure sono giunti dalla Russia mentre Putin concordava con i suoi interlocutori occidentali che l’integrità territoriale dell’Ucraina va salvaguardata? Ormai poco importa, perché Putin ha impugnato un bastone più grosso: si è fatto autorizzare dal Senato di Mosca l’invio in Crimea di altri soldati, senza tuttavia decidere subito il loro trasferimento.

Pare seguire una tattica da manuale, Vladimir Putin. Mostrarsi duro nella tutela dei compatrioti e della flotta di Crimea perché l’opinione interna russa non gli perdonerebbe una esibizione di debolezza, tanto meno in Ucraina. Lasciare però in sospeso il secondo intervento tenendolo a disposizione (per poco) come carta negoziale. E nel frattempo mobilitare le popolazioni russofile dell’est e del sudest dell’Ucraina, come difatti è accaduto ieri, in modo da poter sostenere che gli «estremisti» di Kiev sono isolati.

Ma il punto è che le acrobazie di Putin, per quanto brillanti, non possono nascondere la distanza che separa una rivolta popolare da un intervento armato. Non possono mascherare quella che da parte russa è una reazione ampiamente prevedibile, ma non per questo meno inaccettabile. Putin pensa di ripetere la Georgia del 2008, di mandare le sue forze oltre la Crimea? Sarebbe un temerario se lo facesse, scatenerebbe una guerra civile dalla quale dovrebbe poi districarsi. Favorirà l’indipendenza della Crimea, la sua secessione? È possibile. Ma è più probabile che mentre muove le truppe aspetti al varco una Ucraina sull’orlo del default, alla quale Mosca può ritirare aiuti e sconti sul gas. Nessuno in Occidente, pensa Mosca, vorrà pagare un conto di 35-40 miliardi di dollari nei prossimi due anni. Questa è la vera, la più potente arma di Putin. Ora tocca all’Occidente raccogliere la sfida.

02 marzo 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
FRANCO VENTURINI

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_marzo_02/baston-zar-editoriale-0619d974-a1d9-11e3-adcb-9ee016b80fee.shtml


Titolo: Franco Venturini - Milizie libiche, miopia italiana
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2014, 05:17:02 pm
Il Caos di Tripoli riguarda anche noi
Milizie libiche, miopia italiana

di Franco Venturini

Con il suo gusto della provocazione Stalin chiedeva quante divisioni avesse il Papa, ma oggi, nel caos libico che è tornato ad infiammarsi, non è per nulla retorico domandarsi quante milizie abbia il generale Khalifa Haftar.

In Libia è facile conquistare la ribalta del grilletto, non esiste il monopolio della forza perché non esiste lo Stato. Ma poi, fatalmente, giunge il momento di fare la conta: chi appoggia Haftar, quanti uomini ha, e quali mezzi? Nel puzzle di armi e petrolio che è oggi la Libia non vai lontano se non vinci questa gara a chi è più forte. Per questo è importante che la base aerea di Tobruk e le truppe speciali di stanza a Bengasi si siano schierate con Haftar. Per questo è un segnale che la milizia di Zindan (la più numerosa dopo quella di Misurata) si stia coordinando con il generale. E per questo contano gli appoggi che Khalifa Haftar dovrebbe aver maturato negli Usa e in Egitto: negli Usa vivendoci a lungo dopo aver rotto con Gheddafi, in Egitto perché il maresciallo Fattah al Sisi, che sarà eletto presidente tra una settimana, dopo Morsi vuole colpire tutti i Fratelli Musulmani, compresi quelli che crescono al di là del confine libico.

Forse è proprio pensando all’Egitto e agli Usa che Khalifa Haftar ripete ad ogni occasione di «voler liberare la Libia dagli islamisti». Ma gli ostacoli restano formidabili. L’Algeria ha fatto sapere che interverrà qualora forze egiziane superassero il confine. Il sud della Libia è popolato da guerriglieri qaedisti che combattono nel Sahel. Alcune autorità di Tripoli hanno chiesto proprio agli islamisti di difendere la capitale. E un fantomatico governo ha sospeso il primo ministro appena designato e sciolto il Parlamento. Davanti a un simile rompicapo Haftar avrà i mezzi per prevalere, oppure sarà guerra civile su larga scala?

Visto dall’Italia l’ennesimo terremoto libico può soltanto far crescere un allarme ormai permanente. È facile immaginare quale accelerazione imprimerebbe una guerra generalizzata al macabro business dei migranti che aspettano di rischiare la vita per giungere da noi. E sebbene l’Eni sia riuscita finora a limitare i danni, non è difficile prevedere che gas e petrolio diretti in Italia ne soffrirebbero ulteriormente.

È ora che il governo italiano, mentre sollecita la solidarietà europea in tema di immigrazione, chieda anche la definizione di una strategia nei confronti della Libia. Non ha più molto senso invocare una illusoria «transizione democratica». Non basta che l’America affidi l’addestramento di soldati libici all’Italia (che lo sta facendo) e a qualche altro Paese europeo. Serve il coraggio di scegliere. Siamo per la Cirenaica autonoma o per il centralismo di Tripoli? Siamo con o contro, come si dovrebbe presumere, gli islamisti? Con o contro gli Haftar del momento? A favore o contro interventi senza «scarponi sulla sabbia» ma capaci di correggere almeno una parte degli errori commessi nel 2011 abbattendo Gheddafi senza pensare al domani?

La bussola libica è impazzita, d’accordo. Ma prima o poi bisognerà aggiustarla, se non vogliamo che qualcuno chieda quante divisioni ha l’Occidente.

20 maggio 2014 | 08:44
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_20/milizie-libiche-miopia-italiana-9d6b284e-dfde-11e3-a33f-94f3ff75232d.shtml


Titolo: Franco VENTURINI Le poltrone non fanno la crescita Gli indifferenti di Bruxelles
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2014, 11:03:34 pm
Le poltrone non fanno la crescita
Gli indifferenti di Bruxelles

Di Franco Venturini

L’immagine di una Europa che discute di poltrone all’indomani di elezioni che avrebbero dovuto scuoterla su ben altri temi è un’immagine vecchia: quella della solita Europa elitaria e burocratica, lontana dai popoli, immersa nei suoi nazionalismi. Ma la paralisi è soltanto apparente, perché dietro gli obblighi di calendario (la definizione degli equilibri parlamentari, il rinnovo della Commissione) esiste già nella Ue una generale consapevolezza sulla necessità di aggiustare la rotta. Non sarà facile.

Se ci accontentassimo della formula del trionfatore Matteo Renzi («cambiare l’Europa per salvarla») potremmo dormire sonni tranquilli. Ma, e lo sa bene anche Renzi, in un’Unione Europea sempre più intergovernativa ogni accordo sarà difficile da raggiungere, ogni concessione richiederà un braccio di ferro, ogni concetto davvero unitario si urterà al muro degli egoismi nazionali. Più che mai dopo il responso elettorale. Il Front National primo partito in Francia è anche un grande punto interrogativo sul futuro dei cruciali rapporti con la Germania. Lo Ukip primo partito in Gran Bretagna è anche una risposta anticipata al referendum promesso da Cameron, ammesso che il premier britannico non provveda di persona a smembrare la Ue cercando alleati «sovranisti» tra gli altri soci. E in Italia non dovremmo perdere di vista che Grillo e la Lega, sicuramente anti-euro, hanno ottenuto insieme una percentuale più alta di quella di Marine Le Pen in Francia.

Eppure siamo soltanto al campanello d’allarme, tant’è che il Parlamento e l’insieme della Ue resteranno perfettamente governabili. Ma non sarebbe sciocco, e forse suicida, ignorare la contenibile protesta di oggi e lasciare che domani si trasformi in tsunami? Gli acceleratori sui quali premere li conoscono tutti: la crescita da incoraggiare, i ventisette milioni di disoccupati nella Ue da riportare a numeri meno scandalosi (e in maggioranza sono giovani, che ricorderanno e voteranno), le riforme da attuare all’interno di ogni Paese non «contro» l’indispensabile rigore ma introducendo spazi di flessibilità per i grandi investimenti, il sostegno delle piccole e medie imprese, la tecnologia e la ricerca, l’istruzione. E ancora: l’Europa deve imparare a comunicare, a spiegare ai suoi popoli perché ha vinto un Nobel e perché nessuno dei suoi membri ha le dimensioni per affrontare da solo il mondo globalizzato. L’Europa deve elaborare quelle politiche comuni che gravemente le mancano e che vengono imposte dalle crisi in corso alle sue porte, in Libia (l’immigrazione) e in Ucraina (l’energia). In definitiva l’Europa deve tornare ad autorizzare la speranza dopo cinque anni di pesanti difficoltà, deve essere grata all’opera svolta dalla Bce nei momenti peggiori e deve soprattutto evitare che la contraddittoria galassia dei sentimenti anti-europei di destra e di sinistra finisca col creare una rotta di collisione tra l’europeismo e la democrazia elettorale.

Per fare tutto ciò, o almeno per provarci, la disponibilità della Germania sarà come sempre decisiva. Nessuno crede che Berlino cambierà radicalmente il suo approccio rigorista. E sarebbe miope, oltre che inutile, pensare a un asse anti-tedesco. Ma esistono strumenti da mettere a punto, come i «contratti» che prevedrebbero riforme garantite contro flessibilità garantite (un’idea tedesca), capaci di rendere più sopportabile per tutti il fardello di un risanamento ancora da completare. La prossima presidenza italiana della Ue, sebbene abbreviata dagli adempimenti istituzionali, potrebbe e dovrebbe occuparsene.

29 maggio 2014 | 08:03
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_maggio_29/gli-indifferenti-bruxelles-3415fb24-e6ed-11e3-891a-a65af8809a36.shtml


Titolo: FRANCO VENTURINI. Islam politico, corsa alle armi Il disordine che ignoriamo
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2014, 05:28:46 pm
Islam politico, corsa alle armi
Il disordine che ignoriamo

Di FRANCO VENTURINI

È perfettamente comprensibile che le nostre priorità siano la politica interna, la congiuntura economica, l’Europa, insomma tutto quel che ci tocca direttamente. Ma in questa logica selezione d’interessi, che non è soltanto italiana, rischiamo di non accorgerci che nel mondo esterno la classifica sta cambiando con una velocità mai vista dopo la fine della Guerra fredda. Si diffonde ovunque un disordine sempre più pericoloso anche per noi, torna alla ribalta il tema della guerra e della pace che credevamo sepolto sotto le macerie del Muro di Berlino, le aree più instabili del mondo si armano fino ai denti con sommo disprezzo dei buoni propositi sottoscritti all’Onu. E allora diventa opportuno allungare lo sguardo.

Cominciamo da vicino casa. Sul caos libico il Corriere ha da tempo lanciato l’allarme, e gli avvenimenti continuano a dargli ragione. La diplomazia appare impotente davanti alle milizie e ai loro ricatti energetici, alla guerra civile strisciante, alle masse di profughi provenienti da altre crisi che dalle coste libiche partono nella speranza di raggiungere l’Italia. Quanto potrà durare? E poi ci sono i depositi di armi dell’era Gheddafi: lì si riforniscono combattenti d’ogni dove, qaedisti del Sahel, massacratori delle guerre africane, contendenti siriani, terroristi ben finanziati e fanatici islamisti dell’Isis (sigla per «Stato islamico dell’Iraq e del Levante») che sta mettendo a soqquadro l’Iraq.

A ben vedere è proprio l’Isis il simbolo più rivelatore dei nuovi tempi. Sunniti come tutti i qaedisti ma scomunicati dalla vecchia Al Qaeda per eccesso di crudeltà (e ce ne vuole...), gli uomini dell’Isis vogliono ridisegnare quei confini che britannici e francesi imposero quasi un secolo fa con la ben nota lungimiranza delle potenze coloniali. Non soltanto per far nascere il loro Califfato, ma per affermare una dinamica eversiva e rigidamente settaria che è già la regola nella Siria che gronda sangue, che allarma già gli sciiti iraniani e ottiene invece una tacita comprensione dai sunniti sauditi. Davvero crediamo che la grande guerra inter-islamica non ci riguardi, e non riguardi il prezzo o le forniture di greggio? Che la mattanza siriana possa continuare a piacimento, che non possano saltare all’improvviso il Libano e la Giordania, che domani in Afghanistan non possa andare come oggi in Iraq, magari trascinando nella mischia anche il Pakistan e la sua atomica? E le molte centinaia, forse le migliaia di giovani europei che vanno a combattere con l’Isis e poi rientrano nei nostri tranquilli rifugi europei addestrati e fanatizzati, anonimi fino a quando decideranno di colpire?

In Asia è tutto più chiaro. La Cina superpotenza economica investe nella marina per controllare il Mar Cinese meridionale alla faccia degli americani, il Giappone si appresta a reagire, gli Stati Uniti lo fanno già. Qui gli stanziamenti militari sono ufficiali, ma non per questo inquietano di meno. E sulla marina punta anche la Russia (settecento miliardi di dollari nei prossimi vent’anni), il che aiuta forse a capire il ratto della Crimea con il porto di Sebastopoli. Eccoci tornati vicino casa. In Ucraina si spara ancora, ma l’unica cosa sicura sembra essere che servirà un riarmo dell’esercito di Kiev.

Il mondo ha il dito sul grilletto. Il multipolarismo che abbiamo voluto è diventato disordine multipolare con esplosioni regionali. Ma la violenza si muove, e proprio come l’Isis non conosce confini. Forse dovremmo aggiornare le nostre priorità, e anche le nostre politiche.

24 giugno 2014 | 08:34
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_giugno_24/disordine-che-ignoriamo-0b889dcc-fb5d-11e3-9def-b77a0fc0e6da.shtml


Titolo: Franco VENTURINI La scomparsa dei mediatori
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2014, 11:43:52 pm
La scomparsa dei mediatori

Di Franco Venturini

Razzi e missili di Hamas piovono sulle ben protette città israeliane, bombe israeliane piovono sulla Striscia di Gaza controllata da Hamas, e ogni giorno, quasi ogni ora, la spirale che porta a una azione terrestre delle forze di Gerusalemme appare più inarrestabile. Eppure non è trascorso tanto tempo da quel novembre del 2012 in cui la mediazione egiziana e il fiume di sangue già versato consigliarono ai contendenti una tregua priva di garanzie. Perché non riprovarci, perché non arrestare in tempo una tragedia annunciata e conosciuta? Perché in realtà, nel tempo trascorso dal novembre del 2012, è cambiata buona parte del mondo e soprattutto è radicalmente cambiato il Medio Oriente. Diversi sono gli equilibri geopolitici, nuove sono le minacce, e non esistono più mediatori credibili. Per questo, se la guerra terrestre alla fine ci sarà, avrà tutto l’impeto di una guerra «nuova», non di una semplice ripetizione del dramma. E fermarla sarà molto più difficile.

Nel 2012 la mediazione egiziana usufruì del rapporto privilegiato tra Hamas e i Fratelli musulmani del Cairo. Ma oggi, con i Fratelli in galera e i generali al potere, sono credibili i buoni uffici che pure l’Egitto tenta di offrire alle parti?
Dietro gli egiziani, comunque, c’era sempre stata l’America e tutti lo sapevano. Ma quale vera influenza ha oggi l’America di Obama nella regione mediorientale e tra israeliani e palestinesi in particolare? La spola screditante di Kerry, il convincimento della Casa Bianca che un accordo debba essere deciso dalle parti con la sola assistenza diplomatica degli Usa, le voglie neo-isolazioniste dell’opinione statunitense, tutto contribuisce a ridurre in maniera consistente il peso di Washington.

Ai capi di Hamas, che è sempre stata un ombrello di diverse organizzazioni estremiste, restano soltanto gli aiuti finanziari dal Qatar. Si vede in queste ore che malgrado il suo isolamento ha ricevuto missili più moderni e a più lunga gittata, provenienti forse dall’Iran, ma di sicuro non attraverso la vecchia rotta siriana in fiamme da tre anni. L’Egitto è diventato nemico, Damasco lotta per sopravvivere, Hezbollah è impegnato a sostenere Assad, con i tagliagole dell’Isis si potrebbe parlare ma il loro Califfato non è ancora maturo. Davvero stupisce che Hamas abbia tentato un governo di unione con il frustrato Mahmoud Abbas e la Cisgiordania, che le divisioni interne si siano moltiplicate e che la violenza sia riesplosa, prima con il sequestro e l’uccisione dei tre studenti israeliani cui ha fatto da contraltare l’orrendo assassinio di un adolescente palestinese, poi con la ripresa dei lanci di razzi e missili contro Israele?

E poi c’è Israele, appunto. Irritato per l’atteggiamento occidentale verso l’Iran. Disorientato e anche impaurito dagli sconvolgimenti che rischiano di creare roccaforti jihadiste in Siria e in Iraq mentre anche la Giordania è vicina all’esplosione. Deciso ad escludere ogni dialogo con un governo palestinese che comprendesse Hamas (la cui leadership, è giusto ricordarlo, continua a rifiutare ogni riconoscimento dello Stato ebraico). Tentato in definitiva di dare il colpo di grazia al nemico in difficoltà, ma più insicuro di altre volte in un contesto regionale che non lo favorisce.
Troppe debolezze perché non ci sia una guerra.
fventurini500@gmail.com

10 luglio 2014 | 07:20
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_10/scomparsa-mediatori-b7b55004-07f1-11e4-9d3c-e15131ae88f3.shtml


Titolo: Franco Venturini. Il grande caos e l’Onu assente
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2014, 06:36:23 pm
LA SICUREZZA FERMA AL MURO DI BERLINO
Il grande caos e l’Onu assente

di Franco Venturini

Il tempo dell’orrore non ci ha raggiunti all’improvviso. I tagliagole dell’Isis che oggi massacrano le minoranze religiose in Iraq si esercitano da più di tre anni nella confinante Siria, dove combattono contemporaneamente contro l’esercito di Assad e contro una resistenza islamica meno assetata di stragi. Duecentomila morti, sei milioni di profughi: questo è il biglietto da visita (provvisorio) della guerra civile in Siria. E noi, l’Occidente civile e potente, cosa abbiamo fatto per mettere fine allo scempio? Con tempi e modalità diversi, perché non ricordare che oggi si uccide anche in Libia, anche nel Sahel, anche in Somalia, anche in Afghanistan, anche nell’Africa centrale, anche a Gaza e in Israele, anche in Ucraina, mentre si teme il peggio nel Mar cinese meridionale?

Ora Barack Obama estenderà forse i suoi bombardamenti al territorio siriano. Per indebolire l’Isis, per colpirlo meglio in Iraq, per difendere certo le minoranze ma anche per tutelare i lucrosi accordi petroliferi conclusi con i curdi. E per evitare lo spauracchio peggiore, il rischio di una caduta di Bagdad che domani potrebbe costringerlo a ben altri interventi. Obama per tre anni non si è mosso (armi chimiche a parte, e fu Putin a farci miglior figura). Adesso esita, e proietta una confusione peraltro comprensibile: pur di colpire l’Isis, gli Usa possono schierarsi oggettivamente con Assad? E che dire all’opinione pubblica, che da un lato lo critica perché è debole ma dall’altro non vuole più soldati americani impegnati all’estero?

In democrazia non è possibile ignorare l’opinione pubblica. Bisogna semmai guidarla, quando si ha il peso necessario per farlo. Ed è un segno dei tempi che questo peso a sostegno del messaggio giusto lo abbia mostrato sin qui, in ben altra sfera, soltanto papa Francesco. Prima con una sintesi di assoluta esattezza: «siamo alla terza guerra mondiale spezzettata». Così è, dal momento che non esiste più un ordine globale, che il sangue scorre all’interno di cornici regionali, che le componenti religiose, etniche e tribali si confondono con interessi geostrategici soprattutto energetici, che l’Occidente è un concetto in oggettivo ripiegamento (persino la Nato spera nell’Ucraina per tornare alle origini e così sopravvivere all’Afghanistan).

Ma del messaggio di papa Francesco una parte sembra essere andata perduta. Lui, capo della Chiesa, non può invocare in proprio bombardamenti o guerra. Sia l’Onu a stabilire il modo per fermare l’aggressore, ha detto. Ancora parole cruciali, per chi vuole capirle. Il sistema internazionale ha regole tanto antiche (il dopoguerra) da risultare privo di regole. Eppure la stessa Onu aveva affermato la «responsabilità di proteggere» proprio per affrontare le crisi militar-umanitarie. Nella pratica non se ne è fatto nulla. Il fatto è che nel mondo del grande disordine l’Onu va cambiata ben oltre la riforma del Consiglio di sicurezza. Che deve esistere un esercito vero alle dipendenze di un Segretario generale vero.


Che le potenze devono contribuire a questa evoluzione malgrado le attuali ostilità culturali e i contrasti d’interesse. Che l’Europa deve fare la sua parte non alimentando la retorica su una politica estera comune che non può esistere senza una forte avanzata integrazionista (con o senza Ashton, con o senza Mogherini) ma piuttosto promuovendo questa avanzata.
Il mondo è cambiato, eppure sul tema della sicurezza collettiva è fermo alla caduta del Muro di Berlino. Che ce lo debba ricordare papa Francesco è una dura lezione, ed è anche un monito.

( fventurini500@gmail.com)

25 agosto 2014 | 08:15
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_25/grande-caos-l-onu-assente-c59a4fc2-2c17-11e4-9952-cb46fab97a50.shtml


Titolo: Franco VENTURINI La Nato più forte a est e un’alleanza anti-Isis
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2014, 04:51:00 pm
Un inedito doppio fronte
La Nato più forte a est e un’alleanza anti-Isis
Di Franco Venturini

Stretta tra le paure europee verso una Russia bellicosa e i rivolgimenti mediorientali annunciati dai carnefici dell’Isis, l’Alleanza Atlantica era costretta a guardare avanti. Il mondo di oggi è privo delle regole che la Guerra fredda malgrado tutto aveva, i deterrenti di ieri non funzionano più o non sono più credibili, le minacce - Russia esclusa - sono nuove, con profonde radici regionali e non globali, alimentate da alleanze cangianti attorno a fattori religiosi, etnici, tribali che mal si combinano con la geopolitica degli interessi. Davanti alla destabilizzazione dilagante la Nato doveva battere un colpo, e lo ha fatto.

Non benissimo, perché la tregua in Ucraina decisa da Putin fin nell’orario ha preso in evidente contropiede le rampogne occidentali. Non benissimo anche perché contro l’Isis la Nato non può agire in quanto tale. Per l’Alleanza come per tutti, insomma, gli esami non finiscono qui. Ma un segnale di impotenza, che sarebbe stato disastroso, è stato evitato.

Il dossier ucraino era quello che la Nato era meglio preparata a trattare. Avendo Obama affermato sin dall’inizio delle ostilità che non ci sarebbe stato un coinvolgimento militare americano (o Nato), a Newport sono stati seguiti gli unici due binari rimanenti. Contro la Russia di Putin sanzioni economiche, che peraltro ora si trovano ferme in rampa di lancio in attesa di vedere se reggerà la tregua. A favore degli alleati dell’Europa orientale, invece, una forza di intervento rapido con un quartier generale dislocato all’est e depositi di armamenti pronti all’uso nelle Repubbliche baltiche, in Polonia e in Romania.

Servirà a trasmettere il messaggio che sì, l’Alleanza è pronta a «morire per Tallinn» come nel ‘39 si cominciò a morire per Danzica. Ma non può sfuggire come le lamentele russe sul progressivo avvicinamento delle forze Nato ai suoi confini abbiano qualche fondamento. E del resto la vera partita l’Occidente dovrà continuare a giocarla proprio con la Russia. L’Ucraina, anche se Putin ha la faccia tosta di dichiararsi del tutto estraneo alle sue vicende, offre ora uno strettissimo spazio di manovra che gli europei per primi dovrebbero sfruttare. Le incognite sono ancora pesanti, dal non garantito ritiro delle forze russe ai falchi di Kiev (e di Donetsk) che vogliono a tutti i costi la guerra. Ma proprio per questo bisogna avviare un processo politico, e negoziare l’unica via d’uscita possibile in un Paese ormai diviso da un mare di sangue dopo esserlo stato dai trascorsi storici: un accordo che garantisca sì la sovranità dell’Ucraina ma concedendo alle aree del Donbass un alto grado di autonomia. Non troppo alto. Che non consenta a Donetsk di fare la «sua» politica estera, per esempio, ma che non spinga nemmeno Kiev verso la Nato. Ora che un simulacro di deterrente è stato creato, bisogna inseguire un accordo politico che eviti una escalation militare nel mezzo dell’Europa. E questo lo deve capire anche l’America.

Resta l’Isis, resta la minaccia di un terremoto mediorientale. È stata creata una coalizione di dieci Paesi che comprende l’Italia e che coprirà le spalle a Obama nel passo che sembra ormai ineludibile: bombardare le retrovie dei tagliagola islamisti in Siria. Con l’Iran alleato di fatto. Con Assad che in qualche modo si mostrerà indispensabile. L’America e tutto l’Occidente dovranno pagare un prezzo politico alto. Ma l’Isis va fermato, e dopo tre anni di mancati interventi nella mattanza siriana il castigo politico appare meritato.
fventurini500@gmail.com

6 settembre 2014 | 07:58
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_settembre_06/inedito-doppio-fronte-aa533a36-3585-11e4-bdcf-fc2cde10119c.shtml


Titolo: Franco Venturini. IL MODO GIUSTO DI FARSI VALERE IN EUROPA
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2014, 03:38:36 pm
IL MODO GIUSTO DI FARSI VALERE IN EUROPA
E il semestre intanto passa

Di Franco Venturini

In Europa non dobbiamo avere paura di dire la nostra. Non deve farci sentire più insicuri un presidente del Consiglio che «ci mette la faccia» per chiedere a Bruxelles (pardon, a Berlino) più elasticità in un rigore che, almeno per quanto riguarda il deficit al 3% del Pil, il governo intende rispettare. E tuttavia, se per l’Italia è una conquista mostrarsi meno timida del solito, c’è modo e modo di farsi valere. E basta poco, anche con le migliori intenzioni, a spararsi sui piedi.

Matteo Renzi è pericolosamente vicino a questa dolorosa constatazione. Non gli manca di certo la capacità di comunicare, ma la consapevolezza di dover rendere l’Italia più credibile quando la si guarda dalle capitali europee che contano, quella sì sembra fargli difetto. Il suo linguaggio è spesso aggressivo verso «l’Europa da cambiare», obiettivo che condividiamo ma con altro stile. La sua sfida per imporre Federica Mogherini nel ruolo di Alto rappresentante per la politica estera è stata vinta, ma ha creato malumori, per l’eccesso di irruenza troppo diverso dalle paludate mediazioni cui è abituata la Ue. Quanto al semestre di presidenza italiana, era nato zoppo per il tempo che avrebbe richiesto il ricambio della Commissione. E comunque quando qualcosa si prova a fare siamo alle solite, come dimostra il poco rispettoso tira e molla sul vertice che si terrà l’8 ottobre a Milano per discutere di lavoro. Un errore di calcolo pare del resto emergere sull’effettiva consistenza dell’«asse» con la Francia che ha le stesse nostre rivendicazioni, ma che si guarda bene dall’irritare la Germania, debole com’è nelle sue alte sfere politiche. Germania che a sua volta lascia trapelare una certa insofferenza nei confronti di una Italia definita «inconcludente».

Per convincere e ottenere (forse), Renzi, oltre a cambiare l’Europa, doveva e deve cambiare l’Italia. Non può bastare il suo ottimo risultato elettorale alle Europee. Fiducia nell’Italia significa riforme fatte e rese operative senza arenarsi nella vergognosa montagna dei decreti attuativi che non hanno mai visto la luce, significa pochi annunci ma seguiti da riscontri, significa non avere un Parlamento bloccato dai regolamenti di conti interni ai partiti (e qui la colpa non è di Renzi, o non è soltanto sua).

Non vogliamo dire che il premier abbia fatto poco o nulla nei suoi primi mesi di governo. Non sarebbe nemmeno giusto liquidare ora i suoi «mille giorni». Ma un problema esiste, ed è di considerevole entità: se Renzi non capirà alla svelta che un certo atteggiamento retorico («se vogliono la guerra avranno la guerra», ecc.) risulta controproducente in Europa più che mai se non è puntellato da realizzazioni compiute, sarà il suo stesso progetto a finire contro un muro. Un muro che potrebbe chiamarsi Katainen prima ancora di chiamarsi Merkel.

Resta l’ipotesi che Renzi sia arrivato alla conclusione che le resistenze alle riforme siano troppo forti, che si debba andare alle elezioni nel 2015 portando in dote i tentativi riformisti (vani?) cui stiamo per assistere a cominciare dal decreto lavoro. Si capirebbe, allora, che nella sua strategia certi messaggi diretti all’opinione pubblica nazionale prevalgano oggi sulla moderazione dei comportamenti verso l’Europa. Si tratterebbe comunque di un errore, perché il danno fatto renderebbe ancor più difficile una risalita già molto ardua. Ricordate il Telemaco del primo discorso a Strasburgo? Era coraggioso e pieno di speranza. Ma se non cambierà anche lui, assieme all’Italia e all’Europa, Ulisse non riuscirà a trovarlo.

19 settembre 2014 | 07:50
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_settembre_19/semestre-intanto-passa-33a31f40-3fbd-11e4-a191-c743378ace99.shtml


Titolo: Franco Venturini Risorse e ambiguità Cosa manca nella lotta al terrore
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2015, 10:38:25 am
Risorse e ambiguità
Cosa manca nella lotta al terrore

Di Franco Venturini

Che la minaccia del terrorismo islamista fosse destinata ad accompagnarci a lungo dopo la strage francese, era scontato. Ma assai meno scontati si annunciavano l’analisi degli errori commessi a Parigi in tema di prevenzione, e soprattutto le contromisure che l’Occidente avrebbe adottato per proteggersi più efficacemente. Queste contromisure, discusse ieri a Bruxelles dai ministri degli Esteri della Ue in previsione del vertice europeo del 12 febbraio, viaggiano in ritardo e rischiano di non affrontare un paio di temi fondamentali.

Si dovrà certamente modificare l’equilibrio tra sicurezza e privacy a favore della prima. Prendere l’aereo comporterà maggiori controlli e trasferimenti di dati. I social network, utilizzati dai terroristi con grande abilità e accertate complicità (ora si pensa a lanciare sul web una Tv all-news ), dovranno rassegnarsi a nuovi controlli. Si dovrà evitare che il carcere diventi in alcuni Paesi una scuola di islamismo aggressivo.

Ma se anche si riuscirà a fare tutto questo (e non sarà facile), mancheranno due iniziative che non tutti hanno voglia di affrontare e che sono invece necessarie.
L’Europa vive tempi di spending reviews, lo sappiamo bene. L’imperativo per i più è tagliare la spesa pubblica, o mettersi nelle condizioni di farlo. Ma la minaccia terroristica esige una eccezione che a Parigi è saltata agli occhi. Due poliziotti a protezione di un bersaglio evidente come Charlie Hebdo. I fratelli Kouachi sorvegliati fino a pochi mesi prima, e poi lasciati perdere. Qualcuno ha fatto scelte sbagliate, ma al di là degli errori il fatto è che per sorvegliare per 24 ore un potenziale terrorista servono talvolta quindici o venti uomini. Che non sono più disponibili, dopo i «tagli» e con la moltiplicazione delle minacce. Bisogna, ovunque, rifinanziare le attività anti terrorismo e poi esigere maggiore efficienza e una più completa collaborazione. Ma ciò accadrà davvero soltanto se la spesa pubblica relativa non verrà inserita sul libro nero dei patti finanziari europei, peraltro in prudente evoluzione.

Un secondo punto essenziale riguarda il finanziamento dei terroristi. Prendiamo quelli dell’Isis. Si foraggiano vendendo petrolio, in Siria e soprattutto in Iraq dove il «califfo» Baghdadi gioca le sue carte principali. Ma l’Isis, non è chiaro se fiancheggiatore o rivale della colonna di Al Qaeda coinvolta in queste ore nei tumulti dello Yemen, è cresciuto progressivamente negli oltre tre anni di guerra civile siriana, ha avuto i mezzi per conquistare nuovi adepti e per comprare nuove armi.

Questo ci porta al nocciolo della questione: prima di essere una guerra contro l’Occidente, quella che coinvolge Isis, Al Qaeda e molti altri è una guerra di islamici contro islamici, di sunniti contro sciiti, ma anche di gruppi di potere nell’uno e nell’altro campo. La geografia del terrore è un rompicapo, e non si presenta come tale soltanto quando si vuole recuperare sequestrati che porteranno ai tagliagole nuove risorse.

Ebbene, da anni è noto a tutti, e a tutte le intelligence in particolare, che accanto a questi rivoli finanziari le casse delle formazioni terroristiche vengono rimpinguate da Stati arabi che amano tenere i piedi in molte staffe per motivi interni o regionali: l’Arabia Saudita, il Qatar, il Kuwait, forse altri ancora. Questi Stati risultano essere nostri amici, nostri alleati, nostri fornitori, nostri partner commerciali. Non vogliamo, anche per una questione di interessi, trasformarli in nemici. Ma un po’ più di coerenza non dovremmo chiederla? E con noi gli Stati Uniti, anche se fu George Bush junior a mutare drammaticamente gli equilibri nel Golfo consegnando l’Iraq agli sciiti e offrendo una inedita profondità strategica allo sciita Iran (diversamente da quanto aveva fatto George Bush senior)?

Non siamo più in grado di evitare i temi più spinosi. Dobbiamo difenderci, e questo comporta alzare la voce. Così come comporta una discussione non pregiudiziale sulle caricature di Maometto, che allargano di continuo quello che gli esperti chiamano il «bacino di reclutamento» del terrorismo (soprattutto in Africa e nel Caucaso). E che forse dovrebbero tener conto del mondo reale, mentre difendono la nostra sacrosanta libertà di espressione.

20 gennaio 2015 | 08:22
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_20/lotta-terrore-alleanze-risorse-cosa-manca-f0903edc-a073-11e4-b571-55218c79aee3.shtml


Titolo: Franco Venturini. Renzi-Putin e l’Ucraina il non detto di un vertice scomodo
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2015, 05:29:55 pm
RUSSIA

Renzi-Putin e l’Ucraina il non detto di un vertice scomodo
I dubbi sull’opportunità di iniziare il viaggio con la tappa iniziale di Kiev e poi smorzare i torni di fronte al presidente russo

Di Franco Venturini

Matteo Renzi ha perso un’occasione importante per dare alla politica estera italiana l’autorevolezza che da troppi anni le manca. Aveva deciso, il presidente del Consiglio, di andare da Putin dopo una tappa iniziale a Kiev. Esercizio non privo di rischi formali, vista la mancanza di precedenti nell’Ue dopo l’annessione della Crimea (eccezion fatta per l’incontro tra Putin e Hollande all’aeroporto di Mosca, in dicembre). L’iniziativa di Renzi mi piaceva, al pari di certe sue insofferenze verso una Italia sempre troppo timorosa di disturbare. Ma chi vuole farsi sentire deve aver chiaro quel che intende dire, ed è qui che Renzi ha deluso.

Il presidente del Consiglio voleva dimostrare che, malgrado l’Ucraina e le sanzioni, l’Italia rimaneva un interlocutore privilegiato della Russia. Bene, la Germania o la Francia discutono anch’esse con Mosca di sanzioni e contro-sanzioni, ma con l’altra mano confermano di averle sottoscritte (come l’Italia), ne ribadiscono le motivazioni, auspicano la loro revoca ma avvertono l’interlocutore che c’è il rischio di una nuova stretta (ne ha parlato proprio ieri la Merkel, e gli americani guidati dal «falco» Victoria Nuland hanno già ripreso le pressioni sugli europei).

L’Ucraina, insomma, non poteva essere spinta sotto il tappeto dietro formule di comodo. E invece, se si deve giudicare dal poco che è stato reso noto, è andata proprio così. Viva gli accordi di Minsk-2 (le intese raggiunte il 12 febbraio da Russia, Ucraina, Francia e Germania), l’Italia darà tutto il suo appoggio, indicheremo modelli di autonomia che abbiamo in casa, e via compiacendo. Ma l’Occidente e l’Europa ai quali l’Italia appartiene avrebbero di sicuro gradito anche un invito a ritirare le forze russe dall’est dell’Ucraina, per esempio. E forse il più sorpreso nel non sentirselo ripetere, magari senza condonare le colpe di Kiev, deve essere stato proprio Putin. Questo di equilibrare meglio le responsabilità di Mosca e quelle di Kiev avrebbe potuto essere una chiave intelligente, che molti in Europa segretamente caldeggiano. L’Italia ne sarebbe uscita bene, propositiva e ferma nelle sue alleanze senza nulla perdere con Putin. Ma avvicinarsi troppo al business as usual dietro il paravento di Minsk-2 è stato un errore che servirà - poco - soltanto al Presidente russo.

Sugli altri obiettivi del viaggio Renzi ha avuto quel che cercava, ma non si tratta di novità: il ruolo della Russia in Siria, in Iran, nella guerra al terrorismo internazionale, sono utili promemoria ai quali tutti dovrebbero pensare. Sulla lotta all’Isis e sulla minaccia che rappresenta in Libia, Putin ha detto sì alla priorità italiana. Ma l’aveva già fatto, mettendo a disposizione navi militari, anche alla luce dell’asse che ormai la unisce all’Egitto. Renzi avrebbe potuto e dovuto fare meglio. Forse, da fiorentino, si è sentito prigioniero delle pagine di Dostoevskij sulla bellezza che salverà il mondo. Un sogno, oggi. Soprattutto in Russia.

6 marzo 2015 | 08:55
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_marzo_06/renzi-putin-l-ucraina-non-detto-un-vertice-scomodo-c4b9054e-c3cf-11e4-8449-728dbb91cb1a.shtml


Titolo: Franco VENTURINI Il segnale atteso sui migranti che è arrivato a metà
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2015, 05:04:48 pm
Il segnale atteso sui migranti che è arrivato a metà
Ieri a Bruxelles la Ue ha forse preso coscienza degli orrori del Mediterraneo che esigono una risposta unitaria e decisa.
Ma questo primo passo non basta. Per salvare la sua identità serve andare avanti e presto

Di Franco Venturini

L’Europa non ha capito fino in fondo, ieri a Bruxelles, che il Mediterraneo trasformato in fossa comune metteva in gioco la sua legittimità morale e dunque politica. Non ha capito che la tragedia in corso, dopo tanta retorica, esigeva una risposta forte e solidale in armonia con i suoi valori. E così dal vertice straordinario è uscita una Europa ordinaria, capace sì di prendere alcune decisioni importanti («clamorose» le ha definite Renzi) ma già divisa sulla loro applicazione.

Consapevole sì dell’enormità della posta in gioco ma egoista fino all’inverosimile nel difendere interessi nazionali, sensibilità delle opinioni pubbliche o elezioni prossime.

Sappiamo bene che i flussi dei migranti, e dietro di loro la questione libica, pongono problemi di enorme complessità. Ma questo non può alleggerire la coscienza di una Europa chiamata a dar prova di sé davanti a una ecatombe che non finirà in assenza di iniziative sollecite e coraggiose. Ebbene l’Unione, allineando la solidarietà umanitaria con quella spesso centellinata nelle crisi finanziarie, ha fatto a metà. Ha triplicato la dotazione finanziaria dell’operazione Triton e di quella Poseidon, arrivando a quei nove milioni mensili che la sola Italia spendeva lo scorso anno con l’iniziativa Mare Nostrum. Ha moltiplicato le navi impegnate nel pattugliamento grazie agli impegni presi da Gran Bretagna (una portaelicotteri e due unità minori), Germania (tre fregate), Francia, Belgio, Irlanda. Ma ha lasciato alla discrezione di ogni comandante la possibilità di spingersi oltre le 30 miglia dalle coste italiane, che restano il limite della missione e riducono così la sua capacità di condurre operazioni di ricerca e salvataggio. Il premier britannico Cameron, a due settimane dalla prova delle urne, ha difeso una posizione che esemplifica bene il tenore del dibattito di ieri: diamo tre navi a Triton e speriamo di contribuire a salvare vite, ma le persone prese a bordo devono essere portate nel Paese più vicino cioè in Italia, non in Gran Bretagna. Il che oltretutto sembra contraddire gli accordi di Dublino, visto che una nave è territorio del Paese di cui batte bandiera.

Renzi è parso soddisfatto perché l’Europa si è data per la prima volta una strategia in materia di migrazioni. In parte ha ragione, visto che ci saranno più soldi, più navi, più iniziative di cooperazione con l’Africa (si terrà un vertice euro-africano a Malta) e soprattutto, come ha assicurato la Merkel, è stato avviato un percorso per cambiare la distribuzione dei profughi. Ma è anche vero che nella confusione dei dati che esiste anche in Italia alcuni tra i 28 hanno potuto sostenere nuovamente una tesi smentita dalle cifre e cioè che Triton deve evitare di costituire, come avrebbe fatto lo scorso anno Mare Nostrum, un incoraggiamento alle migrazioni offrendo soccorsi solleciti e maggiori probabilità di salvare la pelle. La verità è che i movimenti dei disperati che fuggono dalle guerre, queste sì sempre più numerose e crudeli, sono invece cresciuti dopo la fine di Mare Nostrum e soprattutto si sono moltiplicate le perdite di vite (circa mille contro 17 nel 2014, negli stessi mesi) . Ambiguo è anche il programma su base volontaria per accogliere cinquemila profughi in Paesi che non ne ospitano o ne ospitano pochi. E Renzi si è trovato talvolta quasi isolato nelle sue battaglie, con l’appoggio soltanto di Malta e Grecia perché persino la Spagna non voleva che la Ue mettesse il naso nei suoi metodi e la Francia appariva troppo timida o troppo preoccupata dal terrorismo che le cresce in casa. L’Europa dei piccoli passi non poteva però non affrontare l’altra faccia del «che fare», quella che contempla a titolo di ipotesi la distruzione dei barconi degli scafisti con «azioni mirate», l’individuazione e la cattura dei loro capi grazie al supporto dell’intelligence e a possibili azioni lampo, in una parola la guerra al «business dei migranti». La responsabile della politica estera della Ue, Federica Mogherini, è stata incaricata di approfondire simili possibilità anche dal punto di vista legale: serve prima una risoluzione dell’Onu, si può agire in assenza di una richiesta libica (da Tripoli è invece giunta una minacciosa contrarietà), chi parteciperebbe e chi no tra gli europei e tra gli altri? Compito arduo e forse non breve. E lo stesso si può dire dell’idea di esaminare le credenziali per l’asilo in Stati amici e vicini: chi accetterebbe di creare campi di rifugiati sul proprio territorio in attesa della sentenza dei funzionari, e dove andrebbe chi avesse superato l’esame? Forse in Germania, che accoglie già un terzo di tutti i rifugiati? Altro tempo, molto tempo, mentre il tempo non c’è. L’Europa ha forse preso coscienza ieri di almeno una parte degli orrori mediterranei che esigono una sua risposta il più possibile unitaria, alta e decisa. Non basta, se vuole salvare quel tanto di identità che le resta. Il primo passo ne esige altri.

24 aprile 2015 | 09:40
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_24/segnale-atteso-migranti-che-arrivato-meta-c8b6d550-ea52-11e4-850d-dfc1f9b6f2f5.shtml


Titolo: Franco VENTURINI Sconfiggere l’Isis è possibile (con gli scarponi sulla sabbia)
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2015, 11:03:25 am
LOTTA AL TERRORISMO
Sconfiggere l’Isis è possibile (con gli scarponi sulla sabbia)
È in atto in Medio Oriente il più grande cambiamento di alleanze dalla fine della Guerra Fredda e per il momento ne sta approfittando solo lo Stato Islamico, che sfrutta le contraddizioni fra sciiti e sunniti

Di Franco Venturini

Le cattive notizie provenienti dall’Iraq e dalla Siria possono apparire monotone o troppo complesse, tali da indurre alla disattenzione per stanchezza. Dai singoli ai governi l’Occidente può suicidarsi anche così, accettando la sua impotenza. Ma prima bisognerebbe almeno riconoscere con onestà quale è la posta in gioco, e questo si direbbe che pochi siano disposti a farlo. Obama dichiara che «con l’Isis non stiamo perdendo» , ma non può dire che stiamo vincendo. Tra nove giorni si riuniranno a Parigi tutti i componenti della coalizione che proprio per battere l’Isis è stata creata, ma nessuno crede davvero a una nuova strategia ora che quella vecchia mostra la corda. E nel frattempo l’avanzata dei jihadisti tagliagole si avvicina a Damasco e a Bagdad, modifica gli equilibri mediorientali, scuote il sistema delle alleanze, crea nuove dinamiche che toccano anche noi italiani e che dovrebbero vietarci la distrazione se soltanto ci fosse chiaro che la caduta di Ramadi in Iraq, quella dei tesori di Palmira in Siria e le minacce jihadiste in Libia sono tessere di un unico mosaico aggressivo.

Mettere insieme i frammenti della sfida è difficile, ma è anche necessario per capire e, forse, per reagire. L’Isis nasce dai quattro anni di guerra civile siriana che oggi contrappone il massacratore Assad (sciita) ai ribelli jihadisti (sunniti). L’Isis ha avuto molto tempo per diventare una sofisticata macchina di guerra e di propaganda, capace di battere gli Hezbollah e gli iraniani che proteggono Assad e capace ormai di prospettare una battaglia per Damasco. Che non sarà l’unica, perché l’Isis sunnita ha investito anche l’Iraq che George W. Bush ha consegnato agli sciiti, ha moltiplicato le stragi e le persecuzioni religiose, ha dissolto nel Califfato il confine deciso da Sykes e Picot nel 1916, e non contenta di Mosul è andata a conquistare Ramadi, cento chilometri dalla capitale Bagdad. Ora sta per scattare la controffensiva. Condotta da chi? Dalle milizie «private» sciite, benedette e guidate dall’Iran. E sarà già una prima battaglia per Bagdad.

Cosa insegnano e cosa producono, queste dinamiche militari che abbiamo sommariamente riassunto? Dicono con forza che l’America e l’intero Occidente si trovano davanti a un bivio tra declino e reazione. Ebbe una grande perdita di credibilità regionale, la Casa Bianca di Obama che nell’estate del 2013 mandò le sue navi a punire la Siria e poi fece dietro-front senza aver sparato un colpo. E le cose non vanno molto meglio nell’Iraq di oggi, perché gli attacchi esclusivamente aerei della coalizione guidata dagli Usa non fermano l’Isis, l’addestramento dell’esercito iracheno è in ritardo sull’orologio dei fatti e il tetto di tremila «consulenti» statunitensi a terra è inadeguato. Forse Obama, da presidente che ha posto fine ai conflitti di Bush quale voleva essere, potrebbe invece diventare colui che ha fermato l’Isis, la più pericolosa minaccia jihadista dopo Osama e l’11 settembre. La sua eredità non ne soffrirebbe, ma in Europa dimentichiamo troppo spesso che è la sua opinione pubblica a non volerlo.

E poi c’è la politica, quella vera. L’Occidente si nasconde quasi, di questi tempi, dietro un Iran sempre più determinato. In Iraq le forze di Teheran o guidate da Teheran non esitano a fare il lavoro che gli americani non fanno. Questo mentre tra Iran e Usa (più alleati) si dovrebbe concludere entro la fine di giugno un negoziato decennale per circoscrivere e sorvegliare i programmi nucleari di Teheran. Se ci sarà, l’intesa restituirà all’Iran risorse e libertà di movimento oggi vietate dalle sanzioni. Non è soltanto Israele a considerare il patto troppo fragile e troppo provvisorio. Perché come Gerusalemme la pensano le monarchie del Golfo e soprattutto l’Arabia Saudita, che prepara già i suoi primi passi verso la capacità nucleare.

Obama è in una morsa. Se incassa l’aiuto militare iraniano in Iraq e conclude l’accordo con Teheran sul nucleare, si mette contro i suoi alleati storici nell’area, da Israele all’Arabia Saudita. Se interviene in Iraq e nega concessioni negoziali a Teheran sul nucleare corre il rischio di non riconquistare né Israele né l’Arabia Saudita e manda all’aria una intesa che vorrebbe vedere abbinata al suo nome. Il groviglio è ormai troppo stretto per scioglierlo. E chi lo interpreta meglio di tutti? L’Isis, che provoca una strage nella parte sciita dell’Arabia Saudita puntando alla divisione, fomentando la guerra civile, preparando una ipotetica avanzata verso sud.

Piano troppo ambizioso? Per ora sì. Ma come non vedere che tutto è già in movimento, che in Medio Oriente prende forma il primo vero cambiamento di alleanze dopo la Guerra Fredda, con gli Usa quasi fermi, l’Isis che corre, l’Iran che tende due mani all’America, l’Arabia Saudita che si emancipa in odio all’Iran, Israele che assiste sempre più inquieto, l’Europa che è incapace di entrare davvero in partita?

La cornice, certo, è la lotta inter-islamica tra sunniti e sciiti. Ma le onde d’urto che ne provengono giungono ovunque, nella Nigeria di Boko Haram, nel Sahel qaedista, nel Sinai, nella Libia dove il caos è alimentato dai finanziamenti di Turchia, Emirati, Qatar, Arabia Saudita, Egitto. Per noi europei sarà già tanto se riusciremo a trovare un accordo sui migranti. Ma servirà a poco se non capiremo, gli americani e noi, che proprio là dove sta vincendo la piovra Isis serve una coalizione diversa da quella che giungerà a Parigi. Tanto diversa da mettere i famosi scarponi nella sabbia. E da recuperare almeno un po’ di una credibilità rovinata.

fventurini500@gmail
24 maggio 2015 | 09:49
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_maggio_24/sconfiggere-l-isis-possibile-con-scarponi-sabbia-135b4dde-01e1-11e5-8422-8b98effcf6d2.shtml


Titolo: Franco VENTURINI La vetta da scalare per Angela Merkel
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2015, 10:24:55 am
L’Europa e l’Immigrazione, Le nuove priorità
La vetta da scalare per Angela Merkel

Di Franco Venturini

Timoniera nel bene e nel male di tutta la politica europea, Angela Merkel non poteva più rinunciare al suo ruolo sul tema scottante dei flussi migratori. L’atroce morte in Austria di settantuno sventurati è una strage all’interno dell’Europa e all’interno del mondo germanico, non una fatalità «esterna» in quel Mediterraneo che pure continua a mietere un numero ben superiore di vittime. L’opinione pubblica tedesca è scossa come mai prima, e preoccupa che si riaffaccino episodi di xenofobia neonazista. Soprattutto, è ormai evidente anche alla cancelliera che le migrazioni siano destinate a durare e rappresentino per la sopravvivenza dell’Europa una minaccia non inferiore al disordine finanziario.

A Berlino è in corso, tardivamente, la presa d’atto di una nuova priorità squisitamente politica che si affianca a quella vecchia di natura economico-finanziaria: se non gestita con criteri equi l’ondata migratoria darà una forza non più controllabile alle strumentalizzazioni populiste ampiamente presenti nella Ue, e la rotta di collisione tra democrazia elettorale e governabilità finirà per distruggere l’intera costruzione europea. Occorre dunque concepire strategie diverse e urgenti che portino a un sistema unificato del diritto d’asilo, al ritorno delle quote nella ripartizione degli aventi diritto, e forse alla revisione delle regole di Dublino sull’esempio di quanto la cancelliera ha fatto per prima sospendendole a beneficio dei profughi siriani. L a nuova consapevolezza della Germania, che pure non corre i pericoli politici interni della Francia o dell’Italia, è motivo di speranza e deve essere accolta da un benvenuto altrettanto consapevole. Deve esserci chiaro che il nuovo orientamento del governo tedesco rappresenta in concreto l’unica possibilità di arrivare a quei traguardi che l’Italia da tempo insegue, perché è stato ampiamente dimostrato in sede europea che non abbiamo, se non in presenza di momentanee scosse emotive dovute a immani sciagure, il peso necessario per far valere le nostre argomentazioni davanti agli altrui egoismi. Così come si è visto che l’auspicato asse italo-franco-spagnolo non esiste, con Madrid su inattese posizioni anti ripartizione come i Paesi del Nord e dell’Est, e Parigi ondeggiante tra consultazioni privilegiate con Berlino e timori di favorire il Front National.

Dobbiamo, questa volta, affiancarci alla Germania e incoraggiarla nel suo ruolo di leadership, portarle le nostre esperienze e conoscenze per esempio della situazione in Libia ma anche di quella nei Balcani, tentare di favorire una svolta voluta ora anche da Berlino sapendo però che ci sarà battaglia e che le resistenze saranno dure a morire. Per questi motivi abbiamo noi per primi interesse a non dilazionare oltre la fine dell’anno - come peraltro concordato giovedì alla conferenza di Vienna - l’entrata in funzione dei nostri «centri di registrazione», strettamente legati, nella visione della Merkel, ai passi successivi sul diritto d’asilo e sulle quote.
Si può tornare a sperare, se faremo la politica giusta. E tuttavia dobbiamo anche essere lucidi, vedere i limiti della nostra speranza e del nostro impegno a fianco della nuova determinazione tedesca. Angela Merkel è imbattibile in casa, esercita un enorme potere di influenza in Europa, ma sbaglierebbe chi volesse accostarla al Cancelliere di ferro Otto von Bismarck e alla sua capacità di creare in Europa uno stabile sistema di alleanze. Per certi aspetti la Merkel è anzi una Cancelliera d’argilla, perché né l’Europa né il mondo di oggi sono quelli dell’Ottocento. La crisi greca può ancora degenerare. Obama è tutto elogi ma comincia il suo lavoro ai fianchi per confermare a gennaio le sanzioni anti russe sull’Ucraina ben sapendo che la Germania si è esposta con le intese di Minsk II e che un loro fallimento avrebbe un prezzo anche politico per Berlino. La crisi economica non è stata ancora superata del tutto ed ecco che la Cina fa tremare il mondo, soprattutto quei Paesi, come la Germania, che hanno puntato tutto sulle esportazioni rinunciando allo sviluppo della domanda interna.

Sono tempi non facili, anche per Angela Merkel. E la questione dei migranti non li farà migliorare. Basterà il peso tedesco a far rientrare i nazional-egoismi messi scandalosamente in mostra al Consiglio europeo del 25 giugno? Si riuscirà davvero a far passare un sistema di quote obbligatorie e basate su parametri oggettivi sin qui rivelatosi irraggiungibile? Le garanzie che alcuni vedono negli accordi di Dublino potranno davvero essere modificate, e le politiche nazionali sull’asilo rese comuni? Acquisita la scelta di distinguere tra migranti con diritto d’asilo e migranti economici da rimandare a casa, come potranno avvenire respingimenti tanto massicci e tanto costosi, forse con il coinvolgimento di una missione Onu? E come si pensa di impedire che quanti avranno ottenuto asilo e saranno stati assegnati pro quota a un determinato Paese si spostino di loro iniziativa per esempio in Germania, dove già vive oggi la netta maggioranza dei migranti che ce l’hanno fatta?

È bene non perdere di vista questi e altri interrogativi per valutare correttamente la montagna che Angela Merkel ha annunciato di voler scalare, le sue probabilità di successo e di conseguenza anche le nostre. Il confronto che si annuncia non sarà facile, e malgrado l’urgenza non sarà veloce. Ma da oggi esiste una possibilità, che prima aveva dimostrato di non esserci e che l’Italia farà bene a sostenere senza rinunce e senza furbizie.

(fventurini500@gmail.com)

29 agosto 2015 (modifica il 29 agosto 2015 | 07:45)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_29/editoriale-venturini-migranti-europa-merkel-fad128bc-4e0a-11e5-a97c-e6365b575f76.shtml


Titolo: Franco VENTURINI Quale intervento È ancora possibile? La Siria, Assad e il ...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 11, 2015, 11:50:08 am
Quale intervento È ancora possibile?
La Siria, Assad e il Califfato
L’Italia non deve isolarsi


Di Franco Venturini

Nel prendere le distanze dalla prospettiva di bombardamenti francesi e britannici in Siria, Matteo Renzi ha confermato una consolidata posizione italiana ma ha dimenticato la Libia. Come ribadito di recente dal ministro degli Esteri Gentiloni, se i negoziati per far nascere un governo libico unitario dovessero fallire (o l’accordo si dimostrasse inefficace) l’Italia si aspetta che la coalizione anti Isis già operante in Siria e in Iraq sia estesa nei modi opportuni anche alla Libia, dove la presenza dell’Isis è stata abbondantemente accertata. Continua a pagina33 I n particolare potrebbero essere usati droni armati, di cui l’Italia non dispone, contro bersagli che l’intelligence ha da tempo individuato. Ma se l’Italia si dimostra a dir poco timida rispetto alla maggioranza degli alleati nella sua presenza in Iraq (abbiamo inviato quattro Tornado e due droni con compiti esclusivi di ricognizione, addestriamo i curdi), se non bombardiamo l’Isis né in Siria né in Iraq, quanto peso avrà domani la nostra eventuale richiesta di aiuto in Libia?

Eppure l’emergenza migranti passa per noi più dalla Libia che dalla Siria o dall’Iraq, e se i flussi ininterrotti mettono a dura prova la tenuta delle nostre strutture (e forse anche dei nostri equilibri socio-politici) dovrebbe essere la stabilizzazione della Libia la nostra priorità assoluta. Del resto l’acquisizione di crediti attraverso la partecipazione attiva è un meccanismo che ci è ben noto: da molti anni il rango internazionale dell’Italia è fortemente tributario delle nostre missioni militari all’estero.

Se poi i ventilati bombardamenti francesi o britannici in Siria siano destinati a cambiare alcunché, è discorso diverso e complesso. Siamo entrati nel quinto anno di guerra civile tra il regime di Assad e i suoi oppositori, la mattanza ha prodotto 250.000 morti e sette milioni di profughi (una piccola parte di loro arriva ora in Europa, ma la maggioranza è ancora in Libano e in Giordania), il Presidente controlla appena il venticinque per cento del territorio, ma nessuno considera imminente la vittoria militare di una delle parti.

Chi si pone la questione cruciale del «che fare?» davanti a un simile massacro farebbe bene a non accontentarsi di risposte facili e astratte. L’Occidente dovrebbe ricordare, per esempio, che nei primi due anni di guerra, quando era chiara a tutti la responsabilità soverchiante del regime e gli oppositori potevano in gran parte essere considerati amici o alleati, si decise di non intervenire perdendo poi progressivamente il controllo delle formazioni anti-Assad (a beneficio anche dell’Isis) . Persino quando fu superata la «linea rossa» del ricorso alle armi chimiche, nell’estate del 2013, Obama si lasciò convincere dai russi a richiamare le navi che secondo le sue stesse parole dovevano infliggere un duro castigo ad Assad. Le brutte esperienze dell’Iraq, dell’Afghanistan e della Libia post-2011 hanno sicuramente avuto un peso sulla paralisi occidentale. E ora è troppo tardi.

Dopo la nascita del Califfato, l’Isis non ha fatto che crescere e avvicinarsi ai suoi nuovi obbiettivi: Damasco e Bagdad. Gli unici che l’hanno efficacemente contenuto sono stati i Peshmerga curdi e le milizie sciite patrocinate dall’Iran. A terra. Ma dall’aria i bombardamenti della coalizione guidata dagli USA, tanto in Iraq quanto in Siria per chi partecipa, non sono andati oltre un risultato di parziale contenimento. Francesi e britannici non cambieranno di certo la situazione, così come rimarrà ambiguo il comportamento della Turchia (teoricamente anti-Isis ma in realtà anti-curdi) e Assad potrà continuare a contare sull’aiuto misurato dei russi (armi e consiglieri) e su quello diretto degli iraniani e dell’Hezbollah sciita libanese.

La guerra civile siriana è ormai una guerra per procura tra interessi opposti. Sciiti e sunniti si contendono la supremazia nel mondo islamico. La linea occidentale anti-Assad si scontra con il Cremlino che non vuole perdere né la sua influenza a Damasco né il porto mediterraneo di Tartus. E il risultato complessivo è che immaginare oggi in Siria quell’intervento militare terrestre possibile qualche anno fa può essere il frutto soltanto di una incontenibile retorica. Per l’Occidente in Siria ci sono soltanto nemici giurati, Isis e al Qaeda da una parte, forze di Assad dall’altra. I bombardamenti della coalizione colpiscono Isis e qaedisti identificati come il nemico numero uno, aiutando indirettamente Assad. Ma come se la caverebbero forze con «gli stivali sulla sabbia», tra i due schieramenti nemici?

Il tentativo di porre fine alla strage non può ormai che essere diplomatico. Affiancando, d’accordo con la Russia, l’Iran post-accordo nucleare e l’Arabia Saudita, una campagna aerea molto più energica contro l’Isis e un processo politico parallelo che preveda un cambio della guardia a Damasco con l’uscita dignitosa di Assad. A questo si sta lavorando, sapendo che si tratta dell’ultima spiaggia. L’alternativa è uno smembramento della Siria in zone disegnate dai Kalashnikov, e l’arrivo di nuove ondate di profughi in Europa.

fventurini500@gmail.com
9 settembre 2015 (modifica il 9 settembre 2015 | 08:05)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_09/siria-assad-califfato-l-italia-non-deve-isolarsi-6f1942ae-56b7-11e5-a580-09e833a7bdab.shtml


Titolo: Franco VENTURINI Migranti, il salto all’indietro dell’Europa
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2015, 10:43:41 am
Divisione Est-Ovest
Migranti, il salto all’indietro dell’Europa
Quando la Commissione presenterà ai ministri degli Interni e della Giustizia della Ue un piano migranti che fa leva sull’indispensabile solidarietà tra europei, l’Europa risponderà facendo un grande salto all’indietro e tornando a dividersi tra Est e Ovest

Di Franco Venturini

Lunedì prossimo, quando la Commissione presenterà ai ministri degli Interni e della Giustizia della Ue un piano migranti che fa leva sull’indispensabile solidarietà tra europei, l’Europa risponderà facendo un grande salto all’indietro e tornando a dividersi tra Est e Ovest. Gli ultimi dubbi sul «no alle quote obbligatorie» da parte di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia (con aggiunta della Romania e delle Repubbliche Baltiche) sono svaniti ieri quando il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha incontrato i quattro del Gruppo di Visegrad per tentare di convincerli. Siamo alle prese con quella che potrebbe essere la più grave crisi nella storia dell’Europa, ha ammonito Steinmeier mettendo sul tavolo tutto il non trascurabile peso della Germania. Ma i suoi interlocutori, guidati dall’Ungheria, hanno fatto orecchie da mercante. Va bene per la protezione umanitaria dei migranti (che proprio in Ungheria non si è vista e non si vede). Va bene per il rimpatrio di chi proviene da Paesi ritenuti «sicuri» . Ma le quote obbligatorie no, quelle non le accettiamo nemmeno se ce lo chiede la Germania.

La conseguenza appare ormai inevitabile: come già era accaduto tra giugno e luglio quando la Commissione di Bruxelles fece il suo primo fallito tentativo di stabilire quote numeriche obbligatorie per l’accoglimento dei migranti in ogni Stato della Ue, anche questa volta il fronte del rifiuto (che può contare su otto Stati votanti, se non di più) imporrà un criterio di «volontarietà» che vanifica il progetto franco-tedesco fortemente appoggiato dall’Italia.

Nessuno si lascerà spaventare dalle sanzioni finanziarie, che peraltro restano da definire. Semplicemente il criterio della solidarietà rimarrà al palo un’altra volta, l’Europa offrirà al mondo un nuovo spettacolo di divisione interna proprio mentre gli Usa annunciano di voler aprire la porta a 10 mila migranti. E l’Italia, che pretende una logica contemporaneità tra messa in funzione dei centri di identificazione e garanzie di redistribuzione dei richiedenti asilo, si troverà, salvo miracoli, a dover valutare attentamente le conseguenze dei rifiuti orientali.

Rifiuti che hanno peraltro una valenza diversa di caso in caso. La Polonia non accetterà le quote ma accoglierà un numero più alto di migranti (sempre che le elezioni di ottobre, che vedono favorita la destra ultranazionalista, non impongano la retromarcia). In Slovacchia emergono forti umori anti islamici a fianco di quelli anti stranieri. In Ungheria la «sfida» di Orbán alla Merkel si nutre ogni giorno di nuovi capitoli, ora per i migranti è annunciato l’arresto preventivo. Ma se vanno accettate le diversità nazionali, è anche vero che una questione di principio accomuna tutti i nuovi soci della Ue: non sembra prevalere, nei loro governi e nelle loro opinioni pubbliche, un sentimento di appartenenza europea che pure è stato assai forte nella corsa all’adesione e poi nell’utilizzo degli aiuti provenienti da Bruxelles. Al contrario di quanto è accaduto all’Ovest non si sono stemperati i loro nazionalismi, che anzi esplodono ora che non sono più sottoposti al giogo sovietico degli anni 1945-1989. Insomma, i nostri fratelli d’Oriente vivono una fase storica diversa dalla nostra e gli allargamenti sono stati portati a termine con non poche illusioni. Una parte dell’Ovest sembra muoversi in direzione opposta. Sappiamo che Gran Bretagna, Danimarca e Irlanda usufruiscono di un Opt-out che peraltro Cameron ha addolcito accettando 20.000 rifugiati extra-quote. Sappiamo della generosità della Germania e della Svezia. Ma ora anche la recalcitrante Spagna sta al gioco. E nella Francia dei Le Pen un sondaggio mostra per la prima volta in vantaggio i pro accoglienza.

Divisi e sempre più lontani, è questo il destino degli europei? È possibile, almeno fino a quando non sarà chiaro a tutti che quello degli immigrati è un problema ma è anche una occasione che ci promette di finanziare uno Stato sociale altrimenti condannato dalle nostre realtà demografiche.

12 settembre 2015 (modifica il 12 settembre 2015 | 07:56)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_12/migranti-salto-all-indietro-dell-europa-2a1d799e-5910-11e5-bbb0-00ab110201c3.shtml


Titolo: Franco VENTURINI Dalla Siria all’Ucraina Contatti Usa-Russia Il dialogo...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 23, 2015, 10:01:31 am
Dalla Siria all’Ucraina
Contatti Usa-Russia Il dialogo difficile

Di Franco Venturini

Dopo molte esitazioni da parte americana tra Washington e Mosca è scoppiato il dialogo. Nell’arco di poche ore, ieri, il presidente Usa Barack Obama ha accolto la proposta russa di far incontrare i militari delle due parti. Kerry ha dichiarato che se Putin vuole colpire l’Isis in Siria una collaborazione è possibile, e i due ministri della difesa si sono parlati per cinquanta minuti al telefono.

La Casa Bianca ha dunque scelto di andare a vedere le carte del Cremlino, malgrado le opinioni contrastanti dei consiglieri del Presidente. E se l’esplorazione darà esito positivo diventerà più probabile un incontro «informale» tra Obama e Putin nei corridoi dell’Assemblea generale dell’Onu a New York, forse il 28 settembre.

La distanza da colmare per giungere a una tacita intesa russo-americana sulla Siria resta tuttavia consistente. Gli Usa non nascondono i loro sospetti sulle intenzioni di Putin, dopo che secondo il Pentagono Mosca ha trasferito in Siria i suoi primi caccia bombardieri e ha intensificato le forniture di armi al regime di Bashar al-Assad. Ieri i timori americani non sono stati certo alleviati dal portavoce del Cremlino, quando ha detto che la Russia prenderebbe in considerazione una eventuale richiesta siriana di intervento su larga scala. Ma se il Cremlino chiede una coalizione internazionale per lottare contro l’Isis, i fatti diventano più forti dei sospetti. L’Isis è il nemico numero uno dell’Occidente. E lo è, o lo sta diventando, anche della Russia. Non soltanto perché con i jihadisti combattono in Siria 2.400 cittadini russi che potrebbero tornare a casa con pessime intenzioni, ma perché la corrente filo-Isis sta diventano sempre più forte nell’Emirato del Caucaso creato dagli estremisti nel 2007. Lasciar crescere l’Isis, perciò, significa rischiare una nuova destabilizzazione del Caucaso e dell’Asia Centrale, cosa che Putin vuole evitare ad ogni costo.

Quanto alla parte americana, ieri Kerry è stato chiarissimo: il nostro obbiettivo è la distruzione dell’Isis, ma anche un accordo politico che non può essere raggiunto con la presenza «prolungata» di Assad al potere. In altri termini collaboriamo pure subito contro l’Isis, a condizione che parallelamente si apra una trattativa che preveda alla fine l’uscita di Assad. Il massacro in Siria deve essere fermato, non soltanto perché ora ci investe lo tsunami dei migranti. Un disgelo russo-americano dopo l’Ucraina (e magari anche sull’Ucraina) aiuterebbe.

Franco Venturini
19 settembre 2015 (modifica il 19 settembre 2015 | 07:12)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_19/contatti-usa-russia-dialogo-difficile-siria-ucraina-ffbaad22-5e8a-11e5-8999-34d551e70893.shtml


Titolo: Franco VENTURINI Siria, il momento delle scelte
Inserito da: Arlecchino - Settembre 28, 2015, 07:42:30 pm
Siria, il momento delle scelte

Di Franco Venturini

Per la Siria è arrivato il momento delle scelte. È arrivato scandalosamente tardi, quando la guerra civile è entrata nel suo quinto anno, quando una strage spaventosa si è ormai compiuta, quando i profughi, soltanto le avanguardie dei profughi, bussano alla nostra porta europea e ne sottolineano la fragilità culturale e politica.

Fallire ancora sarebbe un suicidio, per tutti. Perché la guerra civile siriana, innescata nel 2011 dalla ferocia repressiva di Bashar al-Assad, accanto a molti altri orrori ha prodotto l’Isis. Ha prodotto i jihadisti ultraradicali che hanno ucciso, torturato, violentato in nome del Corano, che hanno contribuito a riempire di fuggiaschi il Libano, la Turchia e la Giordania, che hanno abolito il confine con l’Iraq e compiuto attacchi terroristici in Europa e in Africa. N on è sorprendente che i tagliagole dell’Isis vengano considerati da gran parte del mondo il nemico numero uno. M a per batterlo, questo nemico, come formare una coalizione militare capace di superare sospetti, rivalità e interessi strategici diversi? Come evitare nuove esplosioni in Medio Oriente e in Nord Africa, come prevenire l’arrivo in Europa di milioni, perché questa volta sarebbero milioni, di profughi che scappano dalla Siria o dai campi turchi e libanesi?

In una Assemblea Generale dell’Onu già tanto ricca di presenze significative, la posta politica più alta è nelle possibili risposte a questi interrogativi, ed è racchiusa nell’incontro tra Obama e Putin che avrà luogo oggi al Palazzo di Vetro. Sarebbe vano, per noi occidentali, non riconoscere che il capo del Cremlino arriva all’appuntamento dopo aver mosso per primo sulla scacchiera che l’indecisionismo siriano di Obama ha da tempo paralizzato. Tenendo conto degli interessi russi, beninteso. Putin ha creato una testa di ponte militare in Siria e ha moltiplicato le forniture militari a Damasco per sostenere il traballante Assad, suo alleato storico, e mettere in sicurezza l’asse Damasco-Homs-Latakia che potrebbe in futuro rappresentare l’ultima trincea del presidente assediato. Ha assicurato a Mosca un ruolo di primo piano (e il porto di Tartus sul Mediterraneo) in un eventuale negoziato. Ha creato le condizioni per inseguire in Siria i guerriglieri provenienti dal Caucaso del Nord. E soprattutto Putin tenta un grande ritorno sulla scena mediorientale e mondiale proponendo all’America, dopo tanti dissidi e tante sanzioni, di agire insieme contro il nemico comune rappresentato dall’Isis.

Colta in contropiede, la Casa Bianca ha impiegato qualche giorno prima di superare il suo impossibile progetto di battere l’Isis adoperandosi nel contempo per far cadere Assad. Oggi la posizione americana è diventata più realista, e ha preso corpo una strategia che anche al Cremlino potrebbe non dispiacere: la collaborazione russo-americana contro l’Isis sarebbe fattibile nei tempi brevi se Mosca accettasse l’allontanamento di Assad in una seconda fase. Questo piano di massima, che non prevede interventi terrestri bensì una netta intensificazione degli attacchi aerei contro i jihadisti, ha ricevuto consensi dall’Iraq alla Turchia, dall’Australia alla Gran Bretagna. E soprattutto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, che stretta tra la crisi dei migranti e quella della Volkswagen ha trovato il tempo e il coraggio di affermare che per uscire dall’angolo siriano si deve parlare anche con Assad. Posizione simile a quella italiana e per ora frontalmente contraria a quella della Francia, che ha cominciato ieri a bombardare l’Isis ma auspica una ipotetica transizione «dopo» la caduta di Assad.

La scelta decisiva, prevedibilmente senza clamore come è prassi nei corridoi dell’Onu, sarà Obama a compierla. L’Occidente ha la coscienza pesante sulla Siria per non essere intervenuto quando gli oppositori di Assad erano suoi alleati. L’America ha mal digerito il fiasco dell’estate 2013, quando le navi mandate a punire il dittatore per aver fatto uso di armi chimiche batterono in ritirata senza aver sparato un colpo. Più di recente c’è stato il clamoroso fallimento del programma Usa per l’addestramento di oppositori «buoni», che appena pronti si sono dileguati o hanno passato i loro armamenti a formazioni qaediste. Insomma, di amici sul terreno in Siria non ne abbiamo più, e abbiamo invece un nemico mortale e globale come l’Isis.

Obama non potrà non tener conto di questa realtà, ma è improbabile che voglia fare a Putin tutti i regali che il capo del Cremlino si aspetta. In particolare sul negoziato parallelo che dovrà un giorno allontanare Assad, Mosca dovrà impegnarsi più di quanto abbia fatto sin qui. Le relazioni tra Mosca e Washington potranno migliorare, ma uno «scambio» strategico che coinvolga l’Ucraina è poco credibile. Non vedremo nascere all’Onu una improvvisa cordialità russo-americana, come confermano le critiche rivolte da Putin a Obama poche ore prima del loro incontro. Basterà un consenso pragmatico sulla emergenza politica e umanitaria che si pone in Siria, e sulla comune priorità militare di combattere l’Isis. In attesa che lo faccia, almeno in Iraq, anche l’Italia.

fventurini500@gmail.com
28 settembre 2015 (modifica il 28 settembre 2015 | 07:24)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_28/siria-momento-scelte-b21dc790-659f-11e5-aa41-8b5c2a9868c3.shtml


Titolo: Franco VENTURINI Rimanere in Afghanistan La scelta di Obama (E l’Italia?)
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 17, 2015, 05:25:25 pm
Rimanere in Afghanistan
La scelta di Obama (E l’Italia?)

Di Franco Venturini

Assediata e coinvolta da un ordine internazionale che sta andando in frantumi, l’Italia si trova da ieri in un pericoloso triangolo strategico.
Ieri, appunto, Barack Obama ha ceduto alle pressioni dei suoi generali e ha prolungato la presenza militare americana in Afghanistan (9.800 uomini) fino a «quasi tutto» il 2016. Nel gennaio 2017, quando Obama dovrà lasciare la Casa Bianca, le forze Usa saranno ancora composte da 5.500 soldati. Questa decisione può fare la differenza, ha spiegato Obama, ma è difficile dargli ragione. A meno che le infiltrazioni dell’Isis smettano di moltiplicarsi e i talebani decidano di negoziare sul serio.

Poi ci sono, accanto agli Usa, anche forze alleate, e tra queste reparti italiani che oggi ammontano a poco meno di ottocento uomini in maggioranza addestratori.

Cosa faranno gli italiani? La decisione del nostro governo, già presa, è di farli rientrare entro la fine del gennaio 2016. Ma le decisioni possono cambiare. Il segretario alla Difesa americano Ashton Carter, in occasione della recente visita a Roma e subito dopo al vertice ministeriale della Nato, ha anticipato gli orientamenti di Obama e si è compiaciuto di aver ottenuto promesse di restare in Afghanistan da parte di tutti gli alleati (promessa che peraltro soltanto la Germania ha reso pubblica). Oggi i Palazzi romani dicono di essere impegnati a «valutare» la richiesta americana, anche se tutti danno per scontato un sì a Washington.

Curiosa coincidenza, perché l’Italia sta ancora «valutando» anche l’impiego in ruoli di bombardamento dei suoi quattro Tornado dislocati in Iraq. E non è difficile notare che la contrarietà ripetutamente espressa da Matteo Renzi nei confronti del ricorso a bombardamenti si riferisce sempre alla Siria e non al quadro strategico molto più chiaro dell’Iraq.

Che il presidente del Consiglio non veda di buon occhio un nuovo impiego dei Tornado, anticipato dal Corriere il 6 ottobre scorso, è cosa risaputa. Oltretutto è in arrivo il Giubileo, e colpire l’Isis accresce il rischio di attentati. Ma un impegno con gli americani era stato preso, o almeno così ritenevano gli Usa. Forse la permanenza in Afghanistan può costituire una insperata carta di scambio? Forse si può continuare a essere buoni alleati e anche protagonisti (un po’ marginali, in verità) anche sostituendo un anno in più in Afghanistan alle bombe certo non decisive di quattro Tornado? Diciamo, per usare un linguaggio ortodosso, che la cosa è oggetto di valutazione. E poco importa che il sottoscritto consideri comunque irrecuperabile per l’Occidente la situazione in Afghanistan, mentre colpire i massacratori e torturatori jihadisti dell’Isis, anche simbolicamente, e meglio se in nostra piena autonomia, sarebbe nostro dovere e nostro interesse.

Al triangolo manca un lato, che si chiama Libia. Non è dato ancora sapere se le parti in causa ratificheranno le proposte del mediatore dell’Onu Bernardino Léon per un governo di concordia nazionale, e se si passerà poi a una risoluzione del Palazzo di Vetro (o a una decisione della Ue) forse con autorizzazione all’uso della forza. In effetti anche nella migliore delle ipotesi la stabilizzazione della Libia (e dunque anche il controllo dei flussi migratori) è inconcepibile senza un certo uso della forza, in aggiunta a sanzioni e a strette creditizie ancora non operanti. Ed è anche vero che se il progetto Léon andrà in porto l’Italia avrà fatto moltissimo per sostenerlo, più di chiunque altro. Ma l’insistenza italiana per vedersi riconoscere un «ruolo guida» dopo l’eventuale raggiungimento dell’accordo (ma non della pace sul campo, questo è sicuro) lascia perplessi. A cosa sta pensando il nostro governo? A missioni di assistenza nei vari settori compreso quello dell’addestramento militare, ad aiuti economici da usare come carota in contrasto con il bastone delle sanzioni, a una cabina di regia su operazioni soft in parte già in corso, come la distruzione dei barconi utilizzati per i migranti? Se è così, bene. Ma se qualcuno avesse in mente un Peace enforcing che sarebbe rischiosissimo e richiederebbe l’utilizzo di decine di migliaia di uomini per essere efficace, se si volessero occupare le coste, se si dovesse affrontare la testa di ponte creata dall’Isis (che ieri a Sirte ha imposto il niqab alle studentesse), se insomma per riportare l’ordine in Libia si dovesse fare la guerra a terra, avrebbero senso le nostre ripetute richieste?

Forse il triangolo andrebbe ripensato, o almeno chiarito.

16 ottobre 2015 (modifica il 16 ottobre 2015 | 07:08)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_16/scelta-obama-l-italia-82281324-73c3-11e5-846d-a354bc1c3c5e.shtml


Titolo: Franco VENTURINI Le colpe europee
Inserito da: Arlecchino - Novembre 04, 2015, 06:13:10 pm

L’EDITORIALE
Le colpe europee
Turchia, la rimonta di Erdogan e i rischi di un sistema di potere senza contrappesi

Di Franco Venturini

Utilizzando tutti gli strumenti del potere, anche i più spregiudicati, Recep Tayyip Erdogan ce l’ha fatta: nel nuovo Parlamento turco eletto ieri il capo dello Stato avrà la maggioranza assoluta e potrà forse rastrellare i seggi supplementari che gli servono per modificare la Costituzione e varare un presidenzialismo privo di validi contrappesi. Il fondatore del partito islamico Akp ci aveva già provato nello scorso giugno, ma il responso delle urne lo aveva punito privandolo di un primato che resisteva da tredici anni.

Cosa è dunque cambiato, cinque mesi dopo, in questa Turchia che smentisce la sua voglia di aria nuova? È cambiato che il regista Erdogan, il «Sultano» Erdogan come lo chiamano i suoi avversari, ha dato libero sfogo alla sua strategia della paura trasformando le elezioni in un referendum. Il voto per il partito del presidente era un voto per la stabilità. Il voto per le opposizioni era un voto per l’insicurezza, per il conflitto permanente. Non per nulla dopo la sconfitta di giugno Erdogan aveva silurato la nascita di un governo di coalizione, aveva ripreso la guerra con i curdi del Pkk, aveva violato la libertà d’informazione e altri diritti civili, aveva assistito dall’alto a una serie di sanguinosi attentati culminati nella strage di Ankara del 10 ottobre dove avevano perso la vita centodue oppositori pacifisti.

E nel contempo Erdogan si era schierato contro l’Isis, da buon alleato Nato aveva concesso il libero uso della base aerea di Incirlik agli Usa, era diventato arbitro dei tentativi negoziali sulla Siria. Un leader che recuperava la sua statura internazionale mentre all’interno mostrava pochi scrupoli nello spaventare gli elettori, aveva molte probabilità di vincere. E così è stato. I tormenti della Turchia, beninteso, non finiscono qui. L’opposizione dei laicisti che invocano Kemal Ataturk non sparirà come non sparirà quella dei curdi pacifisti, la guerra con il Pkk continuerà, l’economia in crisi avrà difficoltà a riprendersi, il rispetto dei diritti civili correrà vecchi e nuovi pericoli. Ma per noi europei la posta in gioco non finisce qui.
Non è più l’ora delle ipocrisie comunitarie.

La verità è che i flussi migratori si stanno rivelando un grimaldello capace di portare l’Unione Europea alla disgregazione sull’altare dei nazionalismi emergenziali o, ancor peggio, etnico-religiosi. E i più destabilizzanti di questi flussi, quelli che seguono la «rotta balcanica» per puntare al cuore del Continente, transitano dalla Turchia. Vengono dalla Siria, dall’Afghanistan e da altre contrade in fiamme. E percorrono la Turchia per poi gettarsi nell’Egeo e tentare di raggiungere le isole greche, territorio della Ue. Chi sopravvive troverà altri ostacoli e tanti muri, ma la chiave che minaccia tutta l’Europa, anche noi italiani che abbiamo a che fare con i flussi dalla Libia, si trova in Turchia. Lì vivono sotto sorveglianza due milioni di profughi, che Ankara può trattenere o incoraggiare a partire. Lì le massime autorità possono rendere più o meno massiccio il passaggio dei nuovi venuti che sognano Berlino o Stoccolma. E di nuovi venuti ce ne sono in abbondanza, soprattutto dalla martoriata regione di Aleppo.

Quando Angela Merkel si recò da Erdogan, il 18 ottobre, furono in molti a pensare che con lei era l’Europa intera che andava a Canossa. La realtà è invece che la Cancelliera tedesca, neofita del decisionismo impopolare, dette allora una nuova prova del suo coraggio politico. Mentre alcuni dei suoi compagni di partito aspettano seduti sulle rive della Sprea, lei ha posto con chiarezza a Erdogan le esigenze di una Europa frammentata culturalmente prima ancora che politicamente. E ha ascoltato le contropartite che il «Sultano» ha chiesto: miliardi di aiuti, visti facili, accelerazione del negoziato di adesione alla Ue. Impegni indispensabili per dare tempo all’Europa e al suo terribile 2017 (elezioni tedesche, francesi e referendum britannico).

Pensando ai suoi valori, quelli che ancora sopravvivono, l’Europa avrebbe dovuto augurarsi una parziale sconfitta di Erdogan e un governo allargato. Pensando ai suoi malanni, l’Europa che Angela Merkel rappresentò ad Ankara il mese scorso ha segretamente tifato per Erdogan. Per la credibilità delle promesse fatte, per la stabilità del potere. Ora che le urne hanno parlato e che Erdogan ha vinto, non è però il caso di esultare. Perché se abbiamo gran bisogno di un autocrate la colpa è soltanto nostra.

(Fventurini500@gmail.com)

2 novembre 2015 (modifica il 2 novembre 2015 | 07:28)
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Titolo: Franco VENTURINI L’incerta guerra di Putin
Inserito da: Arlecchino - Novembre 24, 2015, 06:43:55 pm
EDITORIALE

L’incerta guerra di Putin
Lo zar Putin sta vincendo, ma questa volta lo zar Putin può perdere.

Di Franco Venturini

Lo zar Putin sta vincendo, ma questa volta lo zar Putin può perdere. Il paradosso è soltanto apparente, perché le stragi di Parigi, al netto delle emozioni del momento, stanno imponendo a tutti una riflessione strategica dall’esito incerto. Come si combatte l’Isis, come si arresta la sua continua espansione geopolitica, come può essere ristabilito un ragionevole livello di sicurezza nelle società che il Califfato ha messo nel mirino puntando alle stragi di massa? La Francia che bombarda Raqqa e chiede solidarietà ai soci europei indica una via che potrebbe non essere soltanto di breve termine.

Ma l’Isis è sofisticato, non bisogna cadere nelle sue trappole ispirate dall’Iraq e dall’Afghanistan. E allora quello che sin qui è stato per il capo del Cremlino un triste successo politico rispetto a noi occidentali può ancora diventare una sconfitta, di sicuro assai più grave del persistente congelamento della crisi ucraina.

I meriti di Putin, quando si parla di Siria e di Isis, vengono da lontano. Disponendo di una intelligence forgiata nei decenni dai rapporti privilegiati tra Mosca e Damasco, il Cremlino denunciò per primo, nel 2011, che gruppi jihadisti molto radicali e molto aggressivi si stavano formando in Siria. Nel 2013, quando un riluttante Obama mandò le sue navi davanti alle coste siriane per sanzionare con i missili l’utilizzo di armi chimiche da parte del regime, furono Putin e Lavrov a togliere le castagne americane dal fuoco strappando a Damasco l’impegno a distruggere il suo arsenale. E molto più di recente, il 30 settembre scorso, Putin prese di nuovo Obama in contropiede aprendo una sua campagna di bombardamenti aerei sulla Siria e suscitando a Washington reazioni almeno inizialmente scomposte.

Peraltro Putin, mentre con una mano premeva il grilletto, con l’altra proponeva all’America e ai suoi alleati di agire insieme contro «gruppi terroristi» spesso e volontariamente mal definiti. Così, nell’attesa di scoprire se Mosca e Washington avrebbero trovato una intesa minima, fu l’Isis a stabilire le regole del gioco con una serie di micidiali attentati volti alla strage indiscriminata, e in ciò molto diversi da quelli parigini di gennaio: la mattanza alla marcia per la pace di Ankara, la bomba sul charter russo da Sharm (ammessa da Putin proprio ieri, per inquadrarla nel clima guerresco del momento), il massacro dimenticato di Beirut, poi Parigi. Il verdetto è parso subito chiaro: l’Isis possiede una forte capacità di decisione e di attuazione, Putin è l’unico ad avere una strategia di risposta.

Una strategia, la sua, che passa anche dalla clamorosa denuncia, in pieno G20, dei finanziamenti che arriverebbero all’Isis da quaranta «entità di Stati» alcuni dei quali membri proprio del G20. Forse Putin ha esagerato come ritengono gli occidentali, forse si riferiva a Stati africani dove sono presenti filiali dell’Isis, forse alludeva alle Repubbliche del Caucaso e dell’Asia centrale, forse voleva ricordare i trascorsi (?) dell’Arabia Saudita e di altre monarchie del Golfo, di sicuro voleva ammonire la Turchia (che però tiene per il collo l’Europa sulla questione dei migranti) per i traffici anche petroliferi che tuttora vi si svolgono. Sta di fatto che il capo del Cremlino ha battuto il pugno sul tavolo molto più forte degli altri.

E allora, se contro l’Isis Putin ci ha preso quasi sempre, se Obama al G20 ha dovuto compiere una clamorosa marcia indietro elogiando i suoi bombardamenti prima definiti «controproducenti», perché il capo del Cremlino oggi vittorioso rischia di perdere domani, come tutti? La risposta è semplice: perché è molto difficile mettere a punto una strategia unitaria ed efficace per battere un Califfato che nel frattempo continuerà a colpire.

Un primo livello di difficoltà (e anche di speranza, s’intende) è quello che è stato affrontato a Vienna e lo sarà ora simbolicamente a Parigi: il tentativo, dopo aver fatto sedere attorno allo stesso tavolo avversari giurati musulmani e non musulmani, di riempire di contenuto la road map che dovrebbe portare in Siria a tregue localizzate (non certo con l’Isis), alla scelta dei gruppi della resistenza da coinvolgere nella trattativa, alla revisione costituzionale, infine alle elezioni e all’uscita di scena di Assad.

Ma per giungere a tanto, occorre superare qualche grosso ostacolo. Trasformare gli acidi sorrisi russo-americani in vera collaborazione, politica e militare. Ottenere dalla Turchia (membro della Nato) un comportamento anti Isis e non anti curdi come quello attuale. Ravvicinare davvero Iran e Arabia Saudita. Far scendere la scure sulla questione dei finanziamenti all’Isis. Rafforzare gli aiuti militari ai curdi, che sono, unitamente alle milizie sciite in Iraq, l’unica fanteria anti Isis esistente in attesa di un ipotetico recupero dell’esercito iracheno. Evitare un crollo del fronte interno europeo provocato dall’abbinamento immigrazione-terrorismo.

Tanti, tantissimi problemi. Ma manca ancora il principale. Se l’Isis accelera la sua campagna stragista, è perché vuole ottenere da un lato la rottura sociale e politica con le comunità musulmane moderate all’interno di alcuni Stati che contano (in Occidente ma anche in Russia), e dall’altro un sentimento di rivolta favorevole a un intervento punitivo di terra. Si tratta di una trappola che dovrebbe esserci nota: alla «crociata» si risponderebbe con la «guerra santa», lo scontro diventerebbe globale, i fronti interni occidentali cederebbero. Nelle stanze dei bottoni oggi si discute piuttosto di bombardamenti più massicci e coordinati, di incursioni di truppe speciali, di intelligence da mettere in comune, di curdi e ancora di curdi, forse di qualche dimostrativa bandiera araba. Così l’Isis può essere battuto in Siria come in Iraq, e formule non troppo diverse cominciano ad essere evocate per la Libia. Sarà una prova straordinariamente difficile. E se sarà vittoriosa, Putin avrà vinto due volte.

18 novembre 2015 (modifica il 18 novembre 2015 | 08:15)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_18/incerta-guerra-putin-02ec0b30-8dc0-11e5-ae73-6fe562d02cba.shtml


Titolo: Franco VENTURINI Turchia, migranti e geopolitica I due patti non detti
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 04, 2015, 06:55:58 pm

Turchia, migranti e geopolitica
I due patti non detti

Di Franco Venturini

Si direbbe che gli europei, investiti dal flusso incessante dei migranti e colpiti dalla furia stragista dell’Isis, siano pronti a tutto pur di coprirsi le spalle. Come interpretare diversamente l’intesa per il contenimento dei rifugiati conclusa domenica con una Turchia dove non pochi valori fondamentali della Ue vengono sistematicamente offesi dall’autoritarismo democratico di Recep Tayyp Erdogan? E come giudicare altrimenti il patto col diavolo suggerito dal ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, e in forma diversa dalla collega della difesa tedesca Ursula von der Leyen, che propongono di utilizzare contro il Califfato anche le truppe dell’esercito siriano fino a ieri descritte come una banda di massacratori?

Esistono, in entrambi i casi, forti giustificazioni e ancor più forti frustrazioni all’origine dei comportamenti europei. Dei 900.000 migranti che sono entrati quest’anno nella Ue, 600.000 lo hanno fatto attraverso la cosiddetta «rotta dei Balcani» che comincia in Grecia. E il rubinetto di questa rotta lo controllano i turchi, che ospitano già più di due milioni di migranti in massima parte rifugiati siriani e afghani.

Ankara può trattenerli, abbandonarli al tentativo di attraversare l’Egeo, spingerli a farlo, trattarli bene o male. Si capisce perché l’Europa si è sentita una mano turca sul collo. Si capisce che gli europei siano pronti a concedere molto (tre miliardi di euro, abolizione dei visti tra un anno, accelerazione del negoziato di adesione) pur di scongiurare, nel 2017, una Francia guidata da Marine e Marion Le Pen, una Angela Merkel seriamente indebolita, un referendum britannico vinto dagli antieuropei. Per la Ue sarebbe l’inizio della fine. E dopotutto la Turchia non è un Paese alleato, un essenziale membro della Nato?

Tutto vero, ma l’Europa si vuole comunità di valori, non soltanto di interessi. E allora è davvero lecito, in cambio di generiche promesse, infilare sotto il tappeto violazioni clamorose della libertà di stampa e morti misteriose di oppositori dediti alla difesa dei diritti umani? Può lavare tutto, la recente vittoria elettorale di Erdogan? E poi, come non ricordare la battuta che spopolava a Bruxelles quando il negoziato di adesione pareva congelato: se un elefante sale su una barca già in precario equilibrio può darsi che la stabilizzi, ma è più probabile che la barca affondi? Vedremo. Vedremo se come avviene di solito i migranti troveranno altre rotte, se quella via libica che molto ci tocca tornerà alla ribalta dopo esserne in parte uscita, insomma vedremo se lo scambio imposto dalle circostanze funzionerà. Per ora restano dubbi e cattiva coscienza.

Una certa dose di disperazione è presente anche all’origine della sorprendente proposta del ministro Fabius. La maratona diplomatica compiuta da François Hollande, dietro le grandi e sincere manifestazioni di solidarietà, ha avuto risultati concreti molto limitati. Obama ha appena ritoccato la sua linea ben nota. L’apporto militare tedesco è stato «modesto», secondo Le Monde. A Mosca è andato tutto meglio, ma Putin, che aveva appena perso il suo aereo abbattuto dai turchi, ne ha approfittato per chiarire che non pensa più a fondere la sua offensiva aerea in Siria con quella della coalizione guidata dagli Usa. Si può sperare che l’incontro di ieri tra Putin e Obama ai margini del Cop21 produca qualcosa di nuovo, ma nel frattempo la stessa Francia non parla più di «grande coalizione» bensì soltanto di «coordinamento» nella lotta all’Isis, e i negoziati di Vienna sembrano appesi a un filo sottile.

Non basta. Visto che tutti concordano sul fatto che le offensive aeree non riusciranno a sloggiare l’Isis dai territori e dalle città conquistate (oltretutto gli uomini del Califfato sono maestri nel nascondersi nei centri densamente abitati), e visto che a parere di tutti servono truppe di terra per raggiungere l’obbiettivo, quali sono le forze disponibili? I curdi, da soli o alleati ad arabi sunniti secondo una formula americana che trova non poche difficoltà, e le piccole formazioni di ribelli più o meno moderati. Non bastano. Per pensare ai turchi bisognerebbe imbarcarsi in una nuova serie di concessioni ad Ankara di cui farebbero le spese proprio i curdi. Dall’America sono ipotizzabili soltanto piccoli gruppi di incursori. Chi altro c’è su piazza? L’esercito regolare siriano, dice Fabius. Con Assad al comando? Soltanto se ci sarà un governo di transizione, rilancia la tedesca von Der Leyen. E Fabius allora corregge: se ci sarà transizione, assicura, non comanderà più Assad. Forse. Ma il rifiuto sdegnato degli altri, che ne facciamo? E, soprattutto, le truppe si batterebbero per conto dei sunniti o degli sciiti oggi al potere a Damasco?
Da Bruxelles e da Parigi vengono due forti segnali di impotenza e di confusione strategica. L’Isis ha di che esultare. E l’Italia ha di che sperare che sbaglino, i servizi americani, quando prevedono un parziale trasloco in Libia degli uomini del Califfato.

( fventurini500@gmail.com)

1 dicembre 2015 (modifica il 1 dicembre 2015 | 07:56)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_01/i-due-patti-non-detti-1a98abd4-97f3-11e5-b53f-3b91fd579b33.shtml


Titolo: Franco VENTURINI L’Italia e il rompicapo libico serviranno scelte nette se la...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2015, 07:14:38 pm
Crisi difficile
L’Italia e il rompicapo libico serviranno scelte nette se la mediazione dovesse fallire
In Siria la risposta al califfato di al Baghdadi ha seguito fin dall’inizio un binario militare e uno politico.
Il secondo, più volte invocato, è ogni giorno più paralizzato dal primo

Di Franco Venturini

È la minaccia delle jihad a tenere uniti, come un ponte insanguinato, i due appuntamenti di alta diplomazia internazionale che Roma ospiterà da oggi a domenica. Prima i «Dialoghi mediterranei» organizzati dalla Farnesina e dall’Ispi avranno il compito di ricordare a tutti che per far fronte alle crisi non esistono soltanto risposte militari. Poi, domenica, sarà la volta di un vertice sulla Libia. E così l’orrore appena fatto uscire dalla porta rientrerà dalla finestra con tutto il suo potere deflagrante, che dalla Siria e dal quartier generale dell’Isis disegna un arco di fuoco fino al piccolo califfato di Sirte.

Al presidente del Consiglio Matteo Renzi e al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni va dato atto di questa centralità italiana che non è stato facile ottenere e che sarà difficile conservare. Per l’Italia come per altri, perché le due crisi in questione e i loro complessi collegamenti terroristici e migratori si trovano in uno stato di disgregazione politica e geopolitica che lascia poco spazio alle soluzioni auspicate da Roma e più in generale dall’Occidente.

In Siria la risposta al Califfato di al Baghdadi ha seguito sin dall’inizio due binari, uno militare e l’altro politico. Il secondo, più volte invocato ma in realtà già esistente, è ogni giorno di più paralizzato dal primo. Nel processo di Vienna è indispensabile coinvolgere le formazioni che combattono contro Assad, e si tenta di crearne un elenco? L’Arabia Saudita ricompatta il fronte sunnita ma esclude i curdi invisi alla Turchia, la Russia definisce «terroristi» (e dunque non interlocutori) quasi tutti i nemici di Assad e l’Iran fa altrettanto, l’America prova a salvare il salvabile (lo farà Kerry a Mosca la settimana prossima) ma Obama esita ad alzare la voce. Il binario militare, così, prende fatalmente il sopravvento, ognuno spara e bombarda secondo i suoi interessi, i turchi pensano all’impero ottomano e puntano su Aleppo-Homs-Mosul, Putin vuole garantirsi un ruolo politico durevole in Medio Oriente e assicura di non aver mollato Assad per il dopo-transizione, l’Iran lo tiene d’occhio, gli americani si apprestano a mandare gli Apache in Iraq, promettono distruzione all’Isis e pianificano le battaglie di Ramadi (già in corso), di Mosul e soprattutto di Raqqa, «capitale» dell’Isis. Tutti in Occidente capiscono che la ricerca di una intesa politica sul futuro della Siria è entrata in una fase decisiva e di grande fragilità, non pochi sanno però anche che la lotta all’Isis va comunque fatta, e con mezzi adeguati, perché lì si trova la minaccia più grave e più geograficamente estesa. Accanto alle bombe servono truppe di terra, è il ritornello generale. Toccherà ai curdi (Turchia contraria), a formazioni miste di sunniti siriani e di curdi (patrocinate dagli Usa), a piccoli reparti di truppe speciali occidentali e forse russi? Più zoppica il binario di Vienna, più si rafforza quello militare. E più emerge il conflitto inter-islamico dei sunniti contro gli sciiti, con al suo interno gli interessi dei singoli Stati.

È meritevole, come accadrà da oggi a Roma, ricordare che esiste un terzo binario fatto di conoscenza, di cultura, di propensione al dialogo e alla collaborazione. Se sia anche realistico, saranno i fatti a stabilirlo. Ma è comunque positivo che l’Italia abbia proposto di ospitare, forse in gennaio, un ennesimo tentativo di trovare autentici denominatori comuni nelle presunte coalizioni anti- Isis.

Non sarà molto più lieto, il rompicapo libico che attende il vertice di domenica. La mediazione León è fallita nel peggiore dei modi, alimentando cioè una ostilità verso l’Onu e «gli stranieri» che si è tradotta, paradossalmente, in una mini-intesa tra i parlamenti di Tripoli e di Tobruk. Evento poco significativo nel caos generale, che potrebbe risultare utile unicamente se accettasse di essere complementare agli sforzi del nuovo mediatore Martin Kobler. Ma davanti ai troppi buchi nell’acqua diplomatici si vanno facendo strada due urgenze che verosimilmente avranno il loro peso nell’incontro di Roma. Primo, non si può mediare all’infinito rimanendo ostaggi della frammentazione libica. Secondo, il rafforzamento della testa di ponte dell’Isis a Sirte (destinata a crescere ancora se prenderà corpo un attacco a Raqqa, e già in espansione verso i campi petroliferi) pone problemi di sicurezza immediati, e particolarmente acuti per l’Italia e l’Europa se viene preso in conto anche il flusso dei migranti.

Il vertice, presieduto da Italia, Usa e Onu, cercherà di dare un «impulso decisivo» alla mediazione di Kobler. Sapendo però che se nulla cambierà a Tripoli e a Tobruk si dovrà fare un accordo con chi ci sta, per varare poi una risoluzione dell’Onu sulla stabilizzazione del Paese. In che modo? Lo strumento militare non è il preferito ma non è nemmeno escluso, i nostri alleati si stanno discretamente preparando, e l’Italia, se così andranno le cose, dovrà fare le sue scelte.

fventurini500@gmail.com
10 dicembre 2015 (modifica il 10 dicembre 2015 | 08:37)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_10/italia-rompicapo-libico-serviranno-scelte-nette-se-mediazione-dovesse-fallire-364fb1f8-9f03-11e5-a5b0-fde61a79d58b.shtml


Titolo: Franco VENTURINI Arabia Saudita e Iran, una miccia accesa nella polveriera...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2016, 06:40:55 pm
LE TENSIONI
Arabia Saudita e Iran, una miccia accesa nella polveriera della Siria
Dopo che Riad ha giustiziato il leader religioso sciita Nimr Baqer al Nimr

Di Franco Venturini

Annunciando l’esecuzione di quarantasette «terroristi» l’Arabia Saudita ha confermato di essere tra i Paesi del mondo che maggiormente fanno ricorso alla pena di morte, ma ha anche lanciato un devastante siluro. Uccidendo un leader religioso sciita, i sauditi minano gli sforzi internazionali in atto. Gli sforzi della comunità internazionale sono infatti volti ad aprire negoziati tra sunniti e sciiti nella speranza di battere l’Isis e di porre fine alla guerra civile siriana.
Nimr Baqer al Nimr nel 2009 aveva proposto ai suoi seguaci la secessione delle province saudite orientali, quelle più ricche di petrolio.

Si tratta di province abitate da una minoranza sciita che viene sistematicamente discriminata dai sunniti di Riad. Arrestato e condannato lo scorso anno alla decapitazione, si riteneva che la famiglia regnante avrebbe rimandato sine die l’applicazione della sentenza per non inasprire in un colpo solo la crisi siriana e quella yemenita. Invece re Salman ha fatto esattamente l’opposto: ha ucciso il predicatore sciita assieme a veri terroristi provenienti in parte dalle file sunnite di Al Qaeda. Questo, pochi giorni dopo aver riunito sotto le bandiere saudite una larga coalizione di gruppi sunniti che in Siria si battono contro Assad e che dovrebbero, nella seconda metà del mese, cominciare a negoziare con il potere sciita di Damasco.

Le reazioni sono state furibonde, com’era scontato. Dall’Iran è stato promesso di «cancellare la dinastia dei Saud», l’Iraq a guida sciita ha ventilato contromisure, gli sciiti libanesi di Hezbollah hanno annunciato vendetta, e ci sono stati i primi episodi violenti che potrebbero moltiplicarsi nei prossimi giorni. Ma sin d’ora alcuni elementi risultano chiarissimi: è a dir poco debole l’influenza Usa sull’alleato saudita, e il colpo di maglio vibrato contro qualsiasi forma di trattativa o di intesa tra sunniti e sciiti fa compiere un grande salto all’indietro al «processo di Vienna» sponsorizzato appunto da americani e russi assieme all’Onu. L’Iran, attore essenziale per un compromesso, non potrà perdere la faccia. Lo stesso accadrà al governo iracheno tuttora impegnato nella battaglia di Ramadi. A Damasco Bashar al Assad avrà indirettamente più frecce al suo arco, e questo non dispiacerà a Putin e al suo doppio gioco. La lotta contro l’Isis torna alla sua radice, lo scontro tra sunniti e sciiti. Una radice che re Salman si è premurato di rinforzare.

3 gennaio 2016 (modifica il 3 gennaio 2016 | 10:27)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/16_gennaio_03/arabia-saudita-iran-miccia-accesa-polveriera-siria-d8f4827c-b1f9-11e5-829a-a9602458fc1c.shtml


Titolo: Franco VENTURINI. Il rischio da correre in Libia. Ora l’Italia nel paese ...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 09, 2016, 05:33:13 pm
l’Editoriale

Il rischio da correre in Libia
Ora l’Italia nel paese nordafricano è decisiva per i nuovi equilibri


Di Franco Venturini

L’ orologio libico si è messo a correre e l’Italia deve stare attenta a non perdere il treno. Mentre in Tunisia si tenta di far nascere il nuovo governo di unità nazionale, in Libia l’Isis compie sanguinosi attentati, attacca i terminali petroliferi, allarga a 400 chilometri il tratto di costa che controlla, riceve cospicui rinforzi mobilitati dai siti che il Califfato manovra. Per ora nessuno sembra opporsi alle scorribande dei tagliagole, e c’è già chi ipotizza una prossima offensiva verso Sud per congiungersi con i jihadisti del Mali del Nord come è accaduto tra Siria e Iraq.

Per ora possiamo soltanto prendere nota e augurarci di non aspettare troppo, o troppo passivamente, prima di difendere un nostro essenziale interesse strategico. La conferenza di Roma in dicembre e la firma in Marocco di un accordo per il governo unitario libico sono stati altrettanti successi della diplomazia italiana. Non solo. Ha ragione il ministro Gentiloni quando dice che la Libia non è una palestra per «esercizi muscolari», e ha ragione il premier Renzi quando ricorda i pessimi risultati dell’intervento del 2011 rimasto senza seguiti costruttivi. Anche noi abbiamo ripetutamente avvertito che una missione militare di peace enforcing nel caos libico comporterebbe un grande impegno e grandissimi rischi. Ma essere consapevoli non significa chiudere gli occhi, o ingaggiare duelli retorici tra supposti pacifisti e ipotetici guerrafondai.

I fatti sono chiari. L’Isis si sta rafforzando sull’uscio di casa nostra e sta moltiplicando le sue azioni offensive.

Parallelamente a Tunisi risulta probabile uno slittamento oltre il 16 gennaio della ratifica del nuovo governo unitario già scosso da feroci liti per le poltrone. Passi per il rinvio. Ma se al momento venuto non si riuscisse a insediare il neonato governo unitario in una Tripoli dominata dalle bande jihadiste, se il caos continuasse a tenere banco e nessuna alleanza di forze libiche (questo è lo schema immaginato) avesse i mezzi e la determinazione necessarie per affrontare e battere gli uomini del Califfo, cosa farebbe l’Italia?

Avanzare ipotesi negative non è un eccesso di pessimismo, vengono suggerite dall’esperienza. E comunque l’offensiva dell’Isis modifica radicalmente i dati dell’equazione, ne accelera i tempi, inserisce a pieno titolo la Libia nella cornice globale dello scontro con le milizie di al Baghdadi, rende necessaria la creazione di un deterrente credibile che possa almeno provare a frenare l’Isis mentre la diplomazia continua a lavorare come può. L’Italia, non è un mistero, teme che le mosse del Califfato inducano «qualcuno» (leggasi Francia, Gran Bretagna, e forse Stati Uniti) a non aspettare i tempi infiniti dei patteggiamenti libici e a fermare subito l’Isis con bombardamenti mirati. Si badi bene, mirati contro gli stranieri dell’Isis, non contro questa o quella fazione libica.

Certo, potrebbe verificarsi una reazione nazionalista e antioccidentale di massa. E mancherebbe la richiesta di intervento emessa da un nuovo governo unitario, sebbene talvolta l’urgenza prevalga sulle risoluzioni dell’Onu e la copertura generica del precedente documento del Consiglio di sicurezza possa comunque essere invocata. È una prospettiva, questa, che l’Italia deve sin d’ora respingere e condannare, invocando magari il ruolo svolto da rivalità economiche o energetiche con gli alleati? Non lo crediamo. Mentre continua ad aiutare più di chiunque altro la trattativa per la nascita di un governo unitario, mentre conferma la disponibilità ad una futura missione di sostegno anche militare che vada dall’addestramento alla logistica e ad altre azioni richieste, l’Italia ha ogni interesse a mantenere funzionante il coordinamento con Parigi, Londra e Washington.

Ne va del «ruolo guida» che meritatamente le viene riconosciuto, ma che non potrà farla rimanere semplice spettatrice se l’Isis poggerà ancora il piede sull’acceleratore e punterà a nuove imprese. Ne va della possibilità di recuperare, dopo aver battuto l’Isis, un progetto libico che deve prendere in conto anche la limitazione e il controllo del flusso dei migranti verso le nostre coste. Ne va, in definitiva, del successo o dell’insuccesso della politica estera italiana.

9 gennaio 2016 (modifica il 9 gennaio 2016 | 07:37)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_09/rischio-correre-libia-c191d9c6-b696-11e5-9dd6-8570df72b203.shtml


Titolo: Franco VENTURINI. La crisi in medio oriente. I due volti di Teheran
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 09, 2016, 05:39:43 pm
La crisi in medio oriente
I due volti di Teheran
Le profonde divisioni tra riformisti e conservatori si sono riaccese.
E un Paese che deve stare attento a non esplodere dall’interno non è nella posizione migliore per raccogliere la provocazione saudita

Di Franco Venturini

Offeso e provocato dall’esecuzione in Arabia Saudita del predicatore al Nimr, l’Iran sciita non sembra voler alimentare troppo lo scontro con i sunniti di Riad. L’assalto all’ambasciata saudita a Teheran è stato controllato e poi fermato e la rottura dei rapporti diplomatici tra i due Paesi è stata decisa per iniziativa saudita. La Guida suprema Alì Khamenei ha previsto una «vendetta divina» contro i Saud, formula perfetta per prendere tempo. Gli inviti alla moderazione provenienti dall’America e dall’Europa non sono stati respinti. Forse la potenza sciita teme quella sunnita? Sarebbe illusorio pensarlo. L’Arabia Saudita ha fatto le sue mosse, e se l’Iran non vuole (per ora) portare la tensione alle stelle è per due motivi precisi. Il primo nasce dalla lotta di potere interna in pieno svolgimento a Teheran. Il secondo risiede nella molteplicità di risposte possibili di cui dispone l’Iran nell’ambito della lotta all’Isis, in Siria e in Iraq.

Dopo la conclusione dell’accordo sui programmi nucleari iraniani nel luglio scorso, i più ottimisti pensarono che la prospettiva della revoca delle sanzioni avrebbe agevolato un processo di pacificazione politica a Teheran. Invece è accaduto che le profonde divisioni tra riformisti e conservatori, tenute a bada dall’ambiguità di Khamenei durante la trattativa con l’ex Satana americano e i suoi alleati, sono riesplose dopo l’intesa se possibile con ancor maggiore virulenza. La fazione moderata del presidente Rouhani è stata accusata di filo-occidentalismo. Una parte maggioritaria della società composta da giovani l’ha però sostenuta, accendendo ulteriormente lo scontro con i settori tradizionalisti guidati dai Pasdaran.

Come altre volte la Guida suprema Khamenei ha allora usato i suoi poteri per congelare lo scontro ricordando implicitamente a tutti che l’Iran ha bisogno, se non vuole precipitare in una crisi economica ancor più grave, della fine delle sanzioni occidentali e di tornare a esportare liberamente il suo petrolio (con buona pace dei prezzi sul mercato, altro motivo di acredine verso l’Arabia Saudita). Un Paese che deve stare attento a non esplodere dall’interno non è nella posizione migliore per raccogliere la provocazione confessionale e strategica di Riad. Ha invece interesse a meditare con calma le sue rivincite, ma in realtà proprio le lotte interne potrebbero fornire nuove occasioni ai poteri iraniani più oltranzisti. Non a caso gli unici a chiedere un «castigo immediato» dell’Arabia Saudita sono stati prima i Guardiani della Rivoluzione e poi l’esercito regolare, confermando e allargando il tentativo non nuovo dei militari iraniani di accrescere il loro già notevole peso che riguarda anche settori chiave dell’economia. Khamenei dovrà continuare a mediare, e di nuovo non scontentare troppo gli uomini in divisa nel grande gioco mediorientale oggi dominato dalla guerra all’Isis e dal conflitto siriano.

L’Iran è più intransigente della Russia nel sostenere lo sciita Assad a Damasco, e sarà difficile riportarlo, ammesso che ci sia mai riuscito, ad intavolare un vero dialogo con il fronte sunnita nell’ambito della prossima fase del «processo di Vienna». Reparti speciali iraniani operano in Siria assieme agli sciiti libanesi di Hezbollah, e sono stati a lungo, prima dei bombardamenti russi, il principale sostegno di Bashar al Assad. Inquadrate e guidate dagli iraniani sono anche le milizie sciite che si battono contro l’Isis in Iraq, ma il loro impiego viene limitato dal governo di Bagdad (per esempio a Ramadi) per evitare che dopo una vittoria, come è accaduto a Tikrit, scatti la caccia al sunnita.

Senza l’Iran o contro l’Iran, insomma, sarà molto difficile battere l’Isis e sarà impossibile pacificare la Siria. Il guaio è che lo stesso può essere detto dell’Arabia Saudita, e del rassemblement di gruppi sunniti che ha appena tenuto a battesimo. Ed è per questo che le conseguenze dell’uccisione di al Nimr possono riportare all’essenza, cioè alla lotta di predominio tra sunniti e sciiti, il fenomeno Isis e le guerre siriana e irachena.

4 gennaio 2016 (modifica il 4 gennaio 2016 | 09:06)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/16_gennaio_04/i-due-volti-teheran-70e4bc7c-b2b9-11e5-8f58-73f8cf689159.shtml