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 inserito:: Oggi alle 05:23:21 pm 
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Etica e morale  ·

"L’opinione su noi stessi è, e dovrebbe essere, per noi indifferente. Eppure, ancora oggi, non è così"

Arthur Schopenhauer, "L'arte di ignorare il giudizio degli altri "

da - https://amzn.to/3vNMeJz

Schopenhauer esamina le cause e gli effetti dell'opinione altrui sulla nostra felicità e ci offre dei consigli su come liberarcene.
Molti di noi si preoccupano troppo di ciò che gli altri pensano nei nostri confronti.
Questa preoccupazione ci rende infelici, insicuri, ansiosi. Ci fa dipendere dalla valutazione altrui che spesso è superficiale, ingiusta, invidiosa. Ci fa perdere di vista ciò che conta davvero: la nostra essenza, i nostri valori, i nostri obiettivi.
Schopenhauer, il grande filosofo tedesco, ci insegna che l'opinione su noi stessi è, e dovrebbe essere, per noi indifferente. Eppure, ancora oggi, non è così. Perché? Perché siamo esseri sociali e abbiamo bisogno di appartenere, di essere accettati, di essere amati. Ma questo non significa che dobbiamo sacrificare la nostra autenticità, la nostra libertà, la nostra felicità.
Come possiamo allora ignorare il giudizio degli altri e vivere secondo la nostra natura? Schopenhauer ci suggerisce alcune strategie:
- Sviluppare la nostra autostima, basata su ciò che siamo e non su ciò che rappresentiamo. L'autostima è la consapevolezza del nostro valore, delle nostre qualità, dei nostri talenti. È la fiducia nelle nostre capacità, nei nostri sogni, nelle nostre scelte. È la fonte della nostra forza interiore che ci permette di affrontare le sfide, i fallimenti, le critiche.
- Concentrarci sui nostri bisogni primari, ovvero quelli più vicini alla nostra sopravvivenza. Schopenhauer ci ricorda che siamo innanzitutto "dentro la nostra pelle, e non nell'opinione delle persone". I bisogni primari sono quelli che riguardano la nostra salute, la nostra sicurezza, il nostro benessere. Sono quelli che ci fanno sentire vivi, soddisfatti, grati. Sono quelli che ci fanno apprezzare le piccole cose, le bellezze della vita, le gioie semplici.
- Coltivare la nostra saggezza, basata su ciò che sappiamo e non su ciò che crediamo. La saggezza è la conoscenza approfondita della realtà, di noi stessi, degli altri. È la capacità di discernere il vero dal falso, il bene dal male, l'essenziale dal superfluo. È la virtù che ci guida verso la verità, la giustizia, la bontà. È la luce che ci illumina il cammino, che ci mostra la via, che ci fa vedere il senso.
Queste sono alcune delle vie che Schopenhauer ci propone per ignorare il giudizio degli altri e vivere felici. Non sono facili, non sono immediate, non sono scontate. Richiedono impegno, coraggio, pazienza. Ma sono possibili e realizzabili.

Da FB 19 maggio 2024


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 inserito:: Oggi alle 05:16:31 pm 
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Centro Casa Severino - Associazione Studi Emanuele Severino

Si è sempre abituati a vedere marxismo, comunismo, socialismo da una parte e, dall’altra, il capitalismo. Severino, però, sia ne “La tendenza fondamentale del nostro tempo”, che ne "Gli abitatori del tempo”, ma anche in altre opere come “Téchne. Le radici della violenza” (1979) dimostra come entrambe le parti non siano poi così diverse.

La contraddittorietà del marxismo non è solamente la sua incapacità di critica radicale al capitalismo, perché, in fondo, condividono gli stessi presupposti (entrambi sono espressioni del nichilismo occidentale), ma è anche il fatto che nasca in un orizzonte in cui viene meno la possibilità di un epistéme. Il marxismo si pone come scienza, e, in quanto tale, è ipotetico, ma, allo stesso tempo, pretende che la propria analisi della società sia vera, volendo porla, quindi, come una verità indiscutibile. L’oscillazione del marxismo tra sapere filosofico e sapere scientifico implica un’altra contraddizione: da un lato rifiuta qualsiasi immutabile o verità assoluta ma, al contempo, si edifica proprio su un immutabile, cioè l’esistenza della lotta tra capitale e proletariato. Se il terreno in cui cammina il marxismo è la caduta dell’idea di un sapere epistemico, questo comporta un ulteriore problema: se non si ha un punto fermo a cui far riferimento, come è possibile distinguere la verità dall’errore? Come può la filosofia giudicare la nostra società? E, soprattutto, la filosofia si deve porre necessariamente o dalla parte della borghesia o da quella del proletariato? Il marxismo è solo una delle forme del nichilismo occidentale, la fede che l’ente è niente, e che quindi appartiene a quello che Severino chiama “terra isolata", cioè la terra isolata dal destino della verità.
Ma non per questo la filosofia deve tacere, anzi, per Severino l’ultima parola spetta proprio alla filosofia stessa testimoniando il destino: la filosofia che, smascherando la follia del divenir altro e della volontà di potenza, indica quel contenuto (l’incontrovertibile destino della necessità) che, mantenendosi al di fuori della terra isolata, circondandola, si mantiene al di fuori della volontà di potenza e quindi anche dell’opposizione marxismo-capitalismo.

Da -  Fb del 30 aprile 2024

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 inserito:: Oggi alle 05:11:24 pm 
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Essere Comunisti marxisti …
Ancorati ad un passato mortifero può essere una scelta personale, NON sociale.

Libere Utopie in uno Stato Democratico, Costituzionale, Forte, sono accettabili.
In una democrazia debole e tradita da molti al suo interno, sono pericolosissime!

Lo Sfascismo oggi dominante vuole distruggere, non modificare e migliorare i Sistemi Occidentali.
A questo sono comandati.

ggg

Io su FB oggi 28 maggio 2024

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 inserito:: Oggi alle 05:07:36 pm 
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(nessun oggetto)
Posta in arrivo

ggiannig <ggianni41@gmail.com>
14:55 (2 ore fa)
a me

Addetta alle pulizie in albergo rivela: "Queste sono le parti della stanza che non puliamo mai"

da - https://forumagricolturasociale.it/2024/05/26/addetta-alle-pulizie-in-albergo-rivela-queste-sono-le-parti-della-stanza-che-non-puliamo-mai/
 

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 inserito:: Maggio 25, 2024, 11:29:51 pm 
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Renzi: «Sul redditometro hanno fatto un errore da mediocri, questo governo è in folle»

Di Maria Teresa Meli
Il leader di Italia viva: questo esecutivo è in folle, sa solo annunciare sui social

NEW
Matteo Renzi, cosa pensa di questa vicenda del redditometro?
«L’ennesimo errore di un governo mediocre. C’è un problema di metodo e merito: nel metodo nessuno a Chigi e al Mef si è accorto del pasticcio del decreto e questo la dice lunga sul funzionamento della macchina di Giorgia Meloni, a cominciare dal ruolo del sottosegretario Mantovano. Nel merito, con una sola mossa Meloni ha sconfessato decenni di battaglia per un fisco amico e, come se non bastasse, ha pure mentito dicendo che era colpa del governo Renzi. Pensavo fosse Giorgia e invece era Pinocchio. Con il nostro governo noi eliminammo dal redditometro la media spese Istat, il meccanismo diabolico che il governo Meloni voleva reintrodurre. Una misura illiberale e statalista che vessa inutilmente i contribuenti. Il governo, in confusione, dovrebbe abbassare le tasse e invece aumenta la burocrazia».
Secondo lei il governo è in affanno ?
«È in folle, per utilizzare l’espressione delle macchine con i vecchi cambi manuali: non portano a casa un solo risultato. C’è una premier che comunica bene, che anche per questo farà un buon risultato alle Europee, ma c’è un governo che non porta a casa un solo risultato. Hanno scambiato la Gazzetta ufficiale con Twitter. A loro basta annunciare le riforme con un post per pensare che tutto sia arrivato, ma le uniche norme che sono arrivate in Gazzetta ufficiale sono il decreto Rave e il decreto Ferragni. Non c’è traccia di una riforma che sia una e anche sulla giustizia, vedrete, non si farà nulla. Meloni è una buona influencer e una pessima premier».
Tajani punta alla doppia cifra … a quanto pare voi moderati che venite dal centrosinistra non riuscite a conquistare quei voti…
«I conti li farei dopo le elezioni: con Berlusconi era Forza Italia, con Tajani è Debolezza Italia. Sbandiera i sondaggi come fosse un grillino, ma per il momento ci sono solo vuoti e mediocri slogan offerti all’opinione pubblica. Sulle tasse, sulla giustizia e sulla cultura liberale, Forza Italia poteva fare la differenza in questa maggioranza, ma è totalmente a rimorchio dei sovranisti e di Meloni».


Il Pd sembra privilegiare i rapporti con Conte e Avs. Secondo lei i riformisti dem resteranno nel partito ?
«Il Pd andrà meglio del previsto, perché i riformisti sono candidati in tutte le circoscrizioni e dunque faranno valere la forza delle preferenze, ma quello che è certo è che Elly Schlein con il risultato che otterrà sposterà ulteriormente a sinistra gli argomenti del partito. Se, come io credo, Stati Uniti d’Europa farà un buon risultato e se, come io credo, la Cgil raccoglierà le firme, il momento chiave della nascita di un vero partito riformista in Italia, di una sorta di Margherita 2.0, sarà con il referendum sul Jobs Act tra qualche mese. Lì si vedrà chi tra i riformisti avrà il coraggio di lasciare il Pd e iniziare con noi e i delusi da Forza Italia una strada nuova».

Alla guida della commissione Europa secondo lei ci sarà di nuovo von der Leyen ?
«Si scrive Tajani si legge Ursula, si scrive Stati Uniti d’Europa si legge Draghi. La riconferma di Ursula è il sogno di Forza Italia, ma è l’incubo delle aziende italiane: chi vota Forza Italia, vota Ursula von der Leyen, la donna che non ha saputo riformare l’Europa, ma che soprattutto ha messo in ginocchio le aziende italiane, con il Green deal. Secondo me chi vuole bene ai posti di lavoro in Italia spinge per Draghi presidente della commissione. Potrebbe fare anche il presidente del consiglio europeo ma su questo vedo ben posizionato anche il socialista Antonio Costa che ho incontrato qualche giorno fa a Lisbona».

L’Italia dovrebbe riconoscere la Palestina ?
«Riconoscere la Palestina adesso è un atto ideologico, privo di forza politica. Noi dobbiamo arrivare ad attuare il principio dei due popoli, due Stati e possiamo farlo con un’operazione complessa ma giusta che abbia il proprio fulcro nell’Arabia Saudita e negli accordi tra Riad e Tel Aviv. Tutti i Paesi arabi devono riconoscere il diritto di Israele ad esistere e contemporaneamente finanziare la nascita della Palestina. Con i soldi dati alle scuole, non ad Hamas. Se questo accadrà — con un primo ministro israeliano diverso — sarà un passo decisivo verso la pacificazione e l’equilibrio dell’area. Ma detto che io non sono convinto di Netanyahu, il fatto che si mettano sullo stesso piano Netanyahu e Hamas, Israele e Hamas, è una vergogna, una bestemmia per utilizzare le parole come sempre illuminate di Liliana Segre».

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Da - https://roma.corriere.it/notizie/politica/24_maggio_25/renzi-redditometro-intervista-6ba72463-4bca-489c-a220-a105732dbxlk.shtml?bsft_clkid=1fda6d44-854c-4e9f-a1cf-18f2b651441c&bsft_uid=f02a4890-ff86-4bda-b333-0a8a473c8f8a&bsft_mid=d8a3b7b5-617b-4c25-a910-68bff28178bc&bsft_eid=cb5ed262-7f3d-26bc-76ff-8d85e75453dd&bsft_txnid=eb66bef4-fab6-4ea5-a689-6814ddf3defb&bsft_utid=f02a4890-ff86-4bda-b333-0a8a473c8f8a-Newsletter_COR_ORE12&bsft_mime_type=html&bsft_ek=2024-05-25T10%3A00%3A59Z&bsft_aaid=72bb9dec-3452-4075-a63c-0f8d60246a1e&bsft_lx=4&bsft_tv=117

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 inserito:: Maggio 25, 2024, 11:27:05 pm 
Aperta da Arlecchino - Ultimo messaggio da Arlecchino
Immoderati è una rivista online di informazione, cultura e società.
Il nostro obiettivo è quello di offrire uno spazio dove sia possibile dialogare offrendo analisi e contenuti utili al dibattito pubblico, senza vincoli tematici. Gli unici limiti previsti dalla linea editoriale sono il rispetto per gli altri e le loro opinioni, l’educazione, e il rigore logico e fattuale.
Riteniamo un dovere offrire questo spazio, nella speranza che possa contribuire ad arricchire sia i lettori che gli articolisti. Siamo convinti della necessità di un approccio aperto e umile alla complessità dei temi che il giornalismo oggi deve affrontare. Crediamo che una certa comprensione su come funziona il mondo si possa ottenere solo esponendosi alla diversità di prospettive informate.
Sia perché la verità oggettiva non ci è data, ma va ricercata tramite un processo che necessita di cooperazione, discussione e revisione, sia perché anche in caso di disaccordo pensiamo sia necessario sapersi confrontare con pensieri che si discostano da quelle personali. Riteniamo inoltre essenziale a questo fine l’essere in grado di sostenere in modo civile e pacifico un confronto con opinioni che si discostino da quelle personali.
Pensiamo di dover fare la nostra parte, mettendo a disposizione un luogo virtuale in cui interagire costruttivamente grazie a punti di vista variegati ma pur sempre strutturati e fondati su fatti e logica. Ci discostiamo dall’atteggiamento molto diffuso di prediligere la partigianeria aprioristica alla comprensione della realtà. Rifiutiamo gli slogan partitici e abbracciamo riflessioni ragionate, complete e ricche di sfumature. Lo scopo è quello di svolgere un servizio utile, che consenta di migliorare gradualmente la nostra conoscenza e la nostra capacità di rapportarci col mondo in cui viviamo.
La metafora piratesca ci accompagna sin dalla nostra nascita, nell’ormai lontano 2014. La Redazione di Immoderati si identifica nel Galeone Pirata che, motivato dall’amore per la scoperta, il pensiero e l’avventura, affronta i mari in tempesta del dibattito caratterizzato dal populismo, dall’approssimazione e dall’arroganza.
Siamo liberi, poiché Immoderati è da sempre un’organizzazione indipendente, slegata da partiti e ideologie di bandiera e unicamente finanziata da contributi volontari privati.
Siamo perennemente in viaggio, in mare aperto, perché il nostro amore per la conoscenza ci spinge all’esplorazione continua di nuove idee e mondi.
Pirati, perché quando la superficialità diventa legge, la pirateria diventa un dovere.
È doveroso puntualizzare che a fianco dell’entusiasmo per la visione del progetto di Immoderati, ci accompagna anche la consapevolezza dei nostri limiti. Senza la pretesa di mostrarci onniscienti, puntiamo con dedizione al costante miglioramento, alla nostra crescita e allo sviluppo di idee valide. Anzitutto, teniamo a mente che il dibattito di qualità è una questione di metodo. Con Immoderati ci impegniamo a garantire un approccio metodologico che possa sfociare in riflessioni di valore intellettuale, senza pretendere di riuscirci sempre, ma avendo questo obiettivo come stella polare. Siamo consapevoli che un approccio contrario porta al nulla. Tra il nulla spicca il poco; e il poco non basta per affrontare le sfide che spettano a un essere umano.
Da - https://www.immoderati.it/manifesto-immoderati/

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 inserito:: Maggio 25, 2024, 11:22:48 pm 
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Antonio Prejano

Questo comunicato per chi continua a propagandare bugie sulla fattibilità dell'attraversamento stabile tra Sicilia e Calabria mediante ponte a campata unica

COMUNICATO DELLA COMUNITA' SCIENTIFICA:
Noi che parliamo una sola lingua, quella della Scienza e dell´Ingegneria, affermiamo che il ponte sullo Stretto non è una storia di sprechi, ma al contrario è una impresa che ha portato all´Italia ed alla comunità scientifica internazionale uno straordinario bagaglio di specifiche conoscenze multidisciplinari che sono state riconosciute ed oggi ricercate in tutto il mondo. Siamo consapevoli che non spetta alla Scienza e all´Ingegneria stabilire se costruire un ponte o meno, ma compete loro difendere un progetto se infondatamente bistrattato con conseguenze che potrebbero determinare la dissipazione di un grande patrimonio ingegneristico, scientifico e socioeconomico ad oggi consolidato in un progetto definitivo. Siamo altresì consapevoli della necessità di richiamare l´attenzione sulla realtà dei fatti, per superare posizioni troppo spesso retoriche e non basate su criteri tecnici e scientifici. Lo straordinario lavoro svolto da un grande team internazionale, a guida italiana, al quale hanno partecipato studiosi ed istituzioni scientifiche tra i più autorevoli del mondo, nonché leader mondiali nella progettazione di ponti sospesi e nella realizzazione di grandi opere, rischia oggi di essere definitivamente perso. Trascinando con sé tutte le importanti ricadute in termini di sviluppo e coesione territoriale italiani. I più autorevoli ambienti scientifici internazionali hanno riconosciuto che il progetto del Ponte ha saputo conseguire tutti gli obiettivi prefissati, in particolare quelli relativi a sicurezza, efficienza e continuità di servizio, durabilità, e ricadute socio-economiche. Particolare rilievo rivestono gli aspetti relativi a stabilità aerodinamica, percorribilità ferroviaria, risposta sismica, benefici ambientali, riqualificazione di ampie aree urbane fortemente degradate, né si può mancare di sottolinearlo straordinario contributo in termini occupazionali e di sviluppo dei territori interessati. Per la complessa progettazione e realizzazione del Ponte sono state progressivamente ampliate le competenze, adottando soluzioni originali e innovative che hanno consentito uno straordinario progresso delle tecniche di progettazione dei nuovi grandi ponti sospesi nel mondo. Dagli Stati Uniti ad Hong Kong, dalla Corea all´Indonesia e ovunque sono programmati ponti sospesi di grande luce, i progetti di ponte si richiamano al Messina type. La struttura predisposta è costantemente all´attenzione del mondo. Altrettanto significativo è il notevolissimo know how acquisito in termini di gestione di grandi progetti complessi. Gli studi per il Ponte hanno inoltre reso disponibile per la comunità scientifica un patrimonio altrimenti impensabile di conoscenza sull´Area dello Stretto dal punto di vista sismo genetico, meteo-marino, idrogeologico, ambientale, trasportistico. Il Ponte è pronto ad essere costruito. Il progetto è stato sviluppato in dettaglio, controllato e verificato. Decidere sulla sua realizzazione spetta ora alle Autorità del Governo italiano. Da studiosi esprimiamo l´auspicio che non vadano perdute per l´Italia le preziose conoscenze acquisite che hanno portato al progetto del Ponte il riconoscimento del mondo e della comunità scientifica internazionale.
Prof. Ing. Giulio BALLIO Emerito di tecnica costruzioni, già Rettore Politecnico Milano
Prof. Ing. Claudio BORRI Direttore del CRIAVIC e Ingegn. Civile Università di Firenze
Prof. Ing. Fabio BRANCALEONI Ordinario Scienza delle Costruzioni Università Roma Tre
Prof. Ing. Stefano BRUNI Ordinario Meccanica Applicata Politecnico Milano
Prof. Ing. Sascia CANALE Ordinario Strade, Ferrovie, Aeroporti Università Catania
Prof. Ing. Raffaele CASCIANO Ordinario Scienza delle Costruzioni Università della Calabria
Ing.. Giovanna CASSANI Direttore Tecnico Rocksoll Spa
Prof. Ing. Alberto CASTELLANI già Ordinario Costruzioni in zona sismica Politecnico Milano
Prof. Ing. Piero DASDIA Ordinario Tecnica Costruzioni, V. Rettore Università Pescara
Prof. Ing. Giorgio DIANA Emerito e Dirett. Galleria del vento CIRIVE Politec. Milano
Prof. Ing. Ezio FACCIOLI già Professore di Ingegneria Sismica Politecnico Milano
Ing. Ian FIRTH Director Flint Neill Ltd. Inghilterra
Prof. Niels J. GIMSING Emerito Technical University of Denmark Danimarca
Prof. Ing. Mic.le JAMIOLKOWSKI Emerito Geotecnica Politecnico di Torino
Ing. Dyab KHAZEM PMC Suspension Brigde Indip. Design Parson Group – USA
Ing. Mario LAMPIANO Presidente Eurolink SCpA
Ing. Allan LARSEN Chief specialist Aerodinamics COWI - Danimarca
Rag. Michele LEONE AD Eurolik SCpA Arch. Daniel LIBESKIND Studio Architettura - USA
Ing. Peter LUNDHUS Managing Director Sund & Baelt - Danimarca
Prof. Ing. Giuseppe MANCINI Ordinario Tecnica Costruzioni - Politecnico Torino
Ing. P.paolo MARCHESELLI Project Manager Eurolink SCpA
Prof. Ing. Giuseppe MUSCOLINO Ordinario Scienza Costruzioni Università Messina
Prof. Ing. Agostino NUZZOLO Ordinario Trasporti Università di Roma Tor Vergata
Ing. Klaus H. OSTENFELD Esperto di ponti già CEO COWI A/S - Danimarca
Ing. Ettore PAGANI Responsabile progettazione Eurolink SCpA
Ing. Anton PETERSON Senior Vice Presidente COWI A/S - Danimarca
Prof. Ing. Alberto PRESTININZI Ordinario Geologia Applicata - Università Roma La Sapienza
Prof. Ing. Giuseppe RICCERI Emerito di Geotecnica Università di Padova
Ing. Aldo SAULLE Project Manager Parson - USA
Ing. Christofer SCOLLARD Chief Project Manager Buckland & Taylor - Canadà
Ing. Kenneth SARZAN PMC Suspension Brigde - Parson Group - USA
Prof. Ing. Enzo SIVIERO Ordin. Tecnica Costruzionie Progetto Ponti IUAV Venezia
Ing. Peter SLUSZKA Vice Presidente Ammann & Whitney - USA
Prof. Ing. Giovanni SOLARI Ordin. Ingegn. Civile e Architettura Università Genova
Ing. Yasutsugu YAMASAKI Progettista Ponti sospesi Ishikawagima - Giappone
Prof. Ing. Alberto ZASSO Ordinario Meccanica Applicata Politecnico Milano
Dott. Roberto ZUCCHETTI Coordinatore Area Economia dei Trasporti CERTeT - Bocconi

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 inserito:: Maggio 23, 2024, 07:53:59 pm 
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Sia perché la verità oggettiva non ci è data, ma va ricercata tramite un processo che necessita di cooperazione, discussione e revisione, sia perché anche in caso di disaccordo pensiamo sia necessario sapersi confrontare con pensieri che si discostano da quelle personali. Riteniamo inoltre essenziale a questo fine l’essere in grado di sostenere in modo civile e pacifico un confronto con opinioni che si discostino da quelle personali.
Pensiamo di dover fare la nostra parte, mettendo a disposizione un luogo virtuale in cui interagire costruttivamente grazie a punti di vista variegati ma pur sempre strutturati e fondati su fatti e logica. Ci discostiamo dall’atteggiamento molto diffuso di prediligere la partigianeria aprioristica alla comprensione della realtà. Rifiutiamo gli slogan partitici e abbracciamo riflessioni ragionate, complete e ricche di sfumature. Lo scopo è quello di svolgere un servizio utile, che consenta di migliorare gradualmente la nostra conoscenza e la nostra capacità di rapportarci col mondo in cui viviamo.
La metafora piratesca ci accompagna sin dalla nostra nascita, nell’ormai lontano 2014. La Redazione di Immoderati si identifica nel Galeone Pirata che, motivato dall’amore per la scoperta, il pensiero e l’avventura, affronta i mari in tempesta del dibattito caratterizzato dal populismo, dall’approssimazione e dall’arroganza.
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Siamo perennemente in viaggio, in mare aperto, perché il nostro amore per la conoscenza ci spinge all’esplorazione continua di nuove idee e mondi.
Pirati, perché quando la superficialità diventa legge, la pirateria diventa un dovere.
È doveroso puntualizzare che a fianco dell’entusiasmo per la visione del progetto di Immoderati, ci accompagna anche la consapevolezza dei nostri limiti. Senza la pretesa di mostrarci onniscienti, puntiamo con dedizione al costante miglioramento, alla nostra crescita e allo sviluppo di idee valide. Anzitutto, teniamo a mente che il dibattito di qualità è una questione di metodo. Con Immoderati ci impegniamo a garantire un approccio metodologico che possa sfociare in riflessioni di valore intellettuale, senza pretendere di riuscirci sempre, ma avendo questo obiettivo come stella polare. Siamo consapevoli che un approccio contrario porta al nulla. Tra il nulla spicca il poco; e il poco non basta per affrontare le sfide che spettano a un essere umano.
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 inserito:: Maggio 23, 2024, 07:51:13 pm 
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18 maggio 2024   Versione web
 
Benvenuti alla newsletter che è il nostro appuntamento settimanale, ogni sabato mattina. Vi prometto una lettura molto personale di alcuni eventi globali che selezionerò come "la chiave" per dare un senso alla settimana. Con una particolare attenzione alle mie due sedi di lavoro, l'attuale e la precedente: New York e Pechino. "The place to be, and the place to look at..."
Non esitate a scrivermi: commenti o domande, contestazioni e proposte.
 
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Il protezionismo non è una novità. Ma per la Cina apre una nuova epoca
30 anni di crescita cinese trainata dagli Usa: e ora?
La raffica di nuovi dazi che Joe Biden ha imposto su certe importazioni dalla Cina (o l’aumento di dazi che erano già stati varati da Donald Trump) rappresenta davvero “la fine di un mondo”, l’ingresso in una nuova era segnata dal protezionismo? Se sì, quali saranno le conseguenze? Come reagirà la Cina? E quanto di questa manovra protezionista è legato alla scadenza elettorale del 5 novembre? Sono temi importanti di cui dovremo occuparci per forza nei prossimi mesi.
Anticipo una conclusione (provvisoria): non sarà facile per la Cina riconvertire il suo modello di sviluppo che per trent’anni ha fatto affidamento sulle esportazioni come traino e sull’America come mercato di sbocco principale; tanto più che Xi Jinping è prigioniero di un’ideologia “anti-consumista” che gli preclude di sostenere la domanda interna. Il Grande Sud globale può offrigli delle alternative solo parziali, e alcune di queste forse si stanno già chiudendo.
Tasse doganali fino al 100%, ecco la lista
Comincio col ricordare i dati. Cioè i dazi. Sono tasse prelevate alla dogana, con l’effetto di aumentare i prezzi delle importazioni quindi renderle meno competitive rispetto allo stesso prodotto nazionale. Biden li ha alzati al 100% sulle auto elettriche che equivale a raddoppiarne il prezzo finale per l’acquirente americano; al 50% per cellule solari, semiconduttori, siringhe e aghi sanitari; al 25% su batterie al litio, acciaio, alluminio, e minerali strategici. Su alcuni di questi prodotti esistevano già dazi varati dall’Amministrazione Trump. In certi casi Biden è arrivato a quadruplicarli.
Le reazioni, soprattutto degli esperti e dei media, in America sono state segnate dal solito riflesso di appartenenza politico-ideologica. Fra gli economisti, alcuni che avevano condannato il protezionismo di Trump si affrettano ad applaudire quello di Biden. Idem per i media vicini al partito democratico, speranzosi che la sterzata protezionista serva ad arginare le perdite di voti in Stati industriali come il Michigan. Ci sono per fortuna delle eccezioni. Un omaggio va reso alla coerenza dell’Economist, per esempio: fedele al suo Dna liberista, il settimanale britannico condannava i dazi di Trump e oggi applica lo stesso giudizio negativo ai super-dazi di Biden.
"Le barriere ci impoveriscono". Ma non hanno impedito i miracoli economici
I liberisti sinceri e tenaci, quelli che non cambiano giudizio a seconda di chi sta applicando i dazi, ripropongono una dottrina classica: il protezionismo fa male a tutti, danneggia anche chi lo applica, riduce i vantaggi del commercio internazionale, impoverisce i consumatori e quindi alla lunga anche i lavoratori. E’ l’abc delle teorie economiche insegnate sui manuali universitari. Ma è teoria pura, con scarsi agganci alla realtà.
Noi non stiamo assistendo alla fine di un’epoca, perché non siamo mai vissuti in un mondo dalle frontiere veramente aperte. Per limitarsi al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, basta ricordare che la Comunità economica europea (detta anche “mercato comune”, era l’antenata dell’Unione europea) fu un esperimento di apertura delle frontiere molto graduale, controllato, e riservato ai membri del club. Verso l’esterno l’Europa è stata a lungo un mercato chiuso e difeso da alte barriere, con punte massime di protezionismo nel settore agricolo. Eppure gli anni della Cee furono quelli dei miracoli economici: tedesco e italiano fra gli altri. Il protezionismo europeo non impedì la crescita dell’occupazione e la diffusione del benessere.
Parlando di miracoli economici, che dire di quelli asiatici? Sempre a partire dal dopoguerra, ci furono dei boom spettacolari prima in Giappone, poi nei cosiddetti “dragoni” o “tigri” come Hong Kong, Singapore, Corea del Sud, Taiwan. Infine il contagio positivo dello sviluppo economico e del progresso sociale si estese alla Cina, all’India. Tutte queste nazioni, tutte senza eccezioni, adottarono e in parte praticano tuttora robuste dosi di protezionismo.
Esportare in Cina non è mai stato facile, salvo nei settori dove il governo cinese aveva bisogno dei prodotti stranieri per qualche strutturale impossibilità di raggiungere l’autosufficienza; oppure non era ancora capace di produrli a casa propria: queste due definizioni hanno incluso la soia e la carne di maiale del Midwest americano, il lusso di Armani Vuitton Hermès Gucci Prada, e tante tecnologie strategiche che i cinesi compravano da noi per copiarle e poi sostituirle con produzioni nazionali appena possibile.
Protezionismo Usa con Reagan, liberismo con Bush-Clinton
Poiché i miracoli economici asiatici sono stati quasi sempre trainati dalle esportazioni (con la parziale eccezione dell’India), e visto che quei paesi praticavano il protezionismo, a chi riuscivano a vendere? Prevalentemente all’America, in subordine anche all’Europa, infine ai paesi emergenti i quali però non hanno ancora raggiunto lo stesso potere d’acquisto dell’Occidente.
Gli Stati Uniti di norma sono stati il mercato più aperto dalla seconda guerra mondiale in poi. Tuttavia hanno praticato anche loro il protezionismo a fasi alterne – il caso più eclatante furono le restrizioni sulle automobili ed elettrodomestici giapponesi imposte dal repubblicano Ronald Reagan negli anni Ottanta – però nel complesso sono stati un mercato meno difeso di altri. Salvo pagarne dei prezzi. I primi prezzi a diventare visibili e politicamente scottanti furono quelli sociali, che hanno determinato le scelte di voto della classe operaia danneggiata dalla globalizzazione. Più di recente sono diventati visibili e preoccupanti i prezzi strategici, in termini di sicurezza nazionale: pandemia, guerra in Ucraina, crescente ostilità geopolitica della Cina, hanno fatto capire quanto sia pericoloso dipendere in modo eccessivo da fornitori come Pechino. Per le siringhe come per i semiconduttori, o le batterie.
Quando gli Usa volevano la divisione dei compiti con la Cina
Faccio un breve salto indietro per spendere almeno qualche parola in favore del liberismo. Voglio ricordare il dibattito americano degli anni Novanta, quando i due George Bush padre e figlio (repubblicani) e Bill Clinton (democratico) stavano accogliendo la Cina nella Wto (World Trade Organization, l’organizzazione mondiale del commercio). Già allora c’erano obiezioni sia di tipo sociale sia di tipo ambientalista, che esplosero in modo virulento con le celebri proteste di Seattle nel 1999 in occasione di un summit Wto. I sindacati obiettavano, a chi esaltava lo “sconto cinese” che avrebbe regalato al consumatore americano merci abbondanti a poco prezzo: che me ne faccio dello sconto se intanto ho perso il salario perché la mia fabbrica ha chiuso, mi ha licenziato, e al mio posto hanno assunto in Cina operai cinesi? L’obiezione ecologista riguardava la concorrenza al ribasso sulle normative a tutela dell’ambiente.
Cosa rispondevano allora a queste obiezioni i Bush, Clinton, gli economisti liberisti e l’establishment capitalistico? Il progetto positivo della globalizzazione prevedeva che gli americani si spostassero su attività e mestieri sempre più qualificati, lasciando ben volentieri ai cinesi le mansioni operaie. In parte quella transizione ha funzionato e la Silicon Valley californiana ne è l’incarnazione virtuosa: i giovani informatici lì guadagnano super-stipendi progettando gli iPhone o i semiconduttori; mentre lasciano agli operai cinesi il compito di assemblare quei prodotti nella “fabbrica del pianeta”.
Però non tutta l’America si è trasformata in una Silicon Valley, ci sono settori economici e categorie sociali e zone geografiche che dalla globalizzazione hanno ricavato più danni che benefici. Inoltre la stessa Silicon Valley nel 2024 vede il mondo in una luce diversa rispetto a come lo vedeva nel 2004. Oggi anche Big Tech si rende conto che le tensioni strategiche con la Cina hanno reso aleatoria e pericolosa una divisione del lavoro in cui tutto ciò che è fisico e materiale deve traversare il Pacifico per arrivare in America.
Pericolo: una sostenibilità "made in China"
In quanto all’ambientalismo, molta strada è stata fatta rispetto alle giornate di Seattle nel 1999, quando a protestare contro il Wto c’erano anche i Verdi. Oggi l’ambientalismo è la dottrina ufficiale di Biden. Una delle ragioni per cui tartassa di dazi le auto elettriche cinesi, è che non può permettersi di consegnare a Pechino il monopolio di tutte le tecnologie indispensabili alla sostenibilità. All’interno degli Stati Uniti, l’adozione dell’auto elettrica sta incontrando forti venti avversi. La quota di mercato delle elettriche ristagna. Per seguire le direttive Biden la Ford nel primo trimestre di quest’anno ha perso 100.000 dollari su ogni vettura elettrica fabbricata. Tutto si regge su un fiume di sovvenzioni pubbliche, che peraltro potrebbero venire meno se Trump vince le elezioni. Su questo precario equilibrio potrebbe abbattersi come un uragano l’invasione delle cinesi. Non accadrà, perché di fatto le auto elettriche cinesi già oggi (prima ancora che entrino in vigore i nuovi dazi) hanno una quota di mercato infima negli Usa. Il problema è più serio per le batterie. Qui subentra la politica industriale di Biden, che sempre a colpi di aiuti di Stato riesce a riportare gradualmente sul territorio Usa una parte della produzione di batterie. Anche qui però Biden pratica la prevenzione: vuole evitare che il suo esperimento di reindustrializzazione assistita venga ucciso sul nascere da un’invasione di “made in China”.
Le contromisure di Xi Jinping e dei suoi industriali
Come reagirà Pechino a queste barriere? La risposta cinese sarà articolata. Da un lato, le case automobilistiche cinesi cercheranno semplicemente di riorientare le loro esportazioni verso mercati meno protetti di quello americano.
Tanto più che i prodotti cinesi oltre ad essere meno cari (grazie alle sovvenzioni del loro governo) sono anche di buona qualità. Per esempio: l’innovazione “made in China” sull’elettronica di bordo ha fatto progressi spettacolari. Al punto che marche tedesche giapponesi sudcoreane si sono dovute rassegnare a fare accordi con colossi cinesi come Baidu e Tencent per installare sui propri modelli venduti in Cina schermi tv, Gps, software di pilotaggio automatico. Di fronte al duplice vantaggio – prezzi bassi e qualità alta – l’Europa è il primo mercato che la Cina può conquistare per compensare l’inaccessibilità di quello americano. Proprio per questo Bruxelles sta per correre ai ripari e presto adotterà probabilmente i suoi dazi. Dovranno essere alti quanto quelli americani, per funzionare.
Il Grande Sud è ricettivo... con dei limiti
Un altro sbocco per le esportazioni cinesi (non solo di auto) è l’Asia, più il Grande Sud globale. La penetrazione cinese in tutti i mercati extra-occidentali è già forte. Però anche lì stanno cominciando le resistenze. In certi casi il protezionismo si tinge di diffidenza geopolitica verso la Cina: è il caso di India e Giappone. In altri casi, come il Brasile, i paesi emergenti vedono le proprie industrie nazionali minacciate dalla concorrenza cinese e devono rispondere alle stesse pressioni a cui risponde Biden in casa propria.
Un’opzione per l’industria cinese è quella di aggirare i protezionismi altrui andando a produrre altrove. In parte lo stanno già facendo da anni con il Sud-est asiatico: una parte del "made in China" oggi ci arriva con l'etichetta "made in Vietnam", perché una fase della produzione è stata delocalizzata in un paese con salari più bassi di quelli cinesi, ed esente dai dazi americani.
Il Messico è un altro candidato ideale, perché fa parte del mercato unico nordamericano e quindi non è colpito dai dazi. O addirittura i cinesi potrebbero costruire fabbriche sul territorio degli Stati Uniti e assumere manodopera locale.  Questo rappresenterebbe una “soluzione alla giapponese”: negli anni Ottanta e Novanta, in seguito al protezionismo di Reagan, i colossi nipponici dell’automobile e dell’elettronica cominciarono a investire negli Stati Uniti trasferendovi una parte della loro capacità produttiva e creando occupazione. Giappone e Corea del Sud fecero lo stesso anche in Messico dopo la sua adesione al Nafta (la prima versione del mercato unico nordamericano): donde la proliferazione di “maquiladoras”, come vengono chiamate le fabbriche di multinazionali a Sud del Rio Grande-Rio Bravo, soprattutto nella zona di Tijuana.
L'espediente messicano già denunciato da Trump
La Cina però non è il Giappone né la Corea del Sud. Viene percepita come un antagonista geostrategico dagli Stati Uniti, e Xi Jinping non ha fatto nulla per rassicurarli (vedi alla voce: Putin in Ucraina; ma anche Hong Kong, Taiwan, Filippine). Perciò non è detto che gli Stati Uniti accettino di accogliere investimenti cinesi sul proprio territorio come lo fecero con i giapponesi. In quanto al Messico: Trump ha già detto che se verrà eletto lui colpirà con un dazio del 200% le auto cinesi ovunque siano fabbricate, Messico incluso.
In definitiva Xi Jinping non può dare per scontato che il resto del mondo continuerà ad essere accogliente verso le sue esportazioni, come lo è stato negli ultimi trent’anni. Certo, in alcuni settori i cinesi sono stati talmente bravi (e spregiudicati) da conquistarsi posizioni dominanti, per cui non è facile fare a meno dei loro prodotti. Però si vede nel caso degli Usa che una reindustrializzazione domestica è possibile, ancorché lenta e costosa.
La "trappola di Xi": chi disprezza il consumismo è obbligato a esportare
Il problema della Cina, è che la sua dipendenza dall’export è addirittura cresciuta negli ultimi anni. La percentuale che le esportazioni rappresentano sul suo Pil supera addirittura i massimi storici che vennero raggiunti dal Giappone o dalla Germania all’apice del loro successo commerciale. E proprio i casi di Giappone e Germania stanno a dimostrare quanto sia difficile riconvertirsi, quando si è costruito un modello economico dove la crescita viene trainata dalle esportazioni. Per cambiare sistema bisognerebbe stimolare in modo poderoso i consumi interni. Perché la Cina non lo fa, o non ci riesce? I suoi consumi ristagnano. Non per caso. E’ quel che vuole Xi.
Questo presidente per certi aspetti è un nostalgico del maoismo e della sua etica dell’austerità. Pensa che il consumismo sia tipico di civiltà decadenti, come l’America. In perfetta coerenza, lui è anche un severo critico dell’assistenzialismo. Può sembrare strano, un comunista contrario al Welfare? In realtà c'è la stessa logica austera di cui sopra. Un Welfare generoso, di tipo europeo, può indurre certe fasce della popolazione a starsene a casa e aspettare un assegno statale, anziché “masticare amarezza” e accettare quel che offre il mercato del lavoro. “Masticare amarezza” è uno dei consigli che Xi impartisce alla sua gioventù, agli “sdraiati” che stanno a casa dei genitori perché non trovano un posto all’altezza delle loro aspettative, e della loro laurea. Perfino nel periodo più terribile della pandemia, Xi si rifiutò di fare quel che fecero Trump e Biden e tanti governi europei: mandare assegni alle famiglie. Inoltre, di fronte al crac del suo settore immobiliare, anziché montare delle costose operazioni di salvataggi pubblici sul modello dell’America 2008, il primo messaggio di Xi è stato questo: la casa è un bene sociale, guai a chi la compra per speculare, peggio per lui se perde i suoi risparmi.
Se Xi tiene duro sulla sua linea, se in casa propria resta un convinto fautore dell’anti-consumismo, se evita di costruire un Welfare o di distribuire sussidi ai cittadini perché li spendano, la sfida che ha di fronte è piuttosto impervia. Vuole rendersi sempre meno dipendente dall’Occidente; eppure senza i nostri mercati l’economia cinese è destinata a perdere dinamismo.         
Xi e Putin alleati anche nello spazio: "guerre stellari" contro l'America?
Russia e Cina rafforzano la loro alleanza in tutti i settori. Al boom dell’interscambio, alla crescente dipendenza economica e tecnologica di Putin da Xi Jinping, ora bisogna aggiungere una nuova dimensione: lo spazio. Qui però il rapporto è più paritetico, assai meno sbilanciato in favore della Repubblica Popolare. La Russia rimane una superpotenza spaziale, nel 1957 fu la prima a mettere in orbita un satellite vincendo la prima tappa della gara con l’America. Tuttora l’Occidente preferisce mantenere in vita una “coabitazione” con gli astronauti russi nella stazione orbitale internazionale (anche se nessuno dà molta pubblicità a questa strana oasi di convivenza…)
Ma è soprattutto fra Russia e Cina che la cooperazione spaziale avanza. Che possa avere un potenziale militare, lo lascia sospettare una fuga di notizie pilotata di recente dalla Casa Bianca. Un satellite che Mosca mise in orbita nel febbraio 2022 – lo stesso mese in cui Putin lanciava l’invasione dell’Ucraina – sarebbe progettato per sperimentare una nuova arma nucleare, destinata a colpire e indebolire la rete satellitare americana. Il satellite russo si chiama Cosmos-2553, fu lanciato il 5 febbraio 2022, da allora continua a navigare attorno alla terra seguendo quella che gli americani definiscono una “orbita inusuale”. Le prime notizie su questo satellite furono fornite dalla Casa Bianca a un ristretto gruppo di parlamentari, uno dei quali ha richiesto che vengano “de-classificate”, cioè rese di dominio pubblico. Un’ipotesi è che il Cosmos-2553 sia un prototipo usato per sperimentare un attacco senza precedenti: un’arma nucleare che distrugga centinaia di satelliti americani, sia statali che privati.
Attualmente l’America gode di un vantaggio netto nella copertura satellitare, soprattutto a bassa orbita: ha 6.700 satelliti che operano in questa parte dello spazio, contro i 780 della Cina e i 150 della Russia. I satelliti Usa sono per la maggior parte privati e offrono servizi di tipo commerciale. Alcune di queste reti private però possono avere funzioni “duali”, si è vista l’importanza della rete Starlink di Elon Musk per gli ucraini.
Stati Uniti e Giappone hanno cercato di “stanare” Putin presentando al Consiglio di sicurezza Onu una proposta di risoluzione che ribadisca il divieto di mettere in orbita armi nucleari, contenuto nel Trattato sullo spazio del 1967. La Russia ha posto il veto contro quella risoluzione.
La Cina a sua volta è iperattiva nello spazio. L’evento più importante del 2024 sotto questo aspetto è stato il lancio della missione lunare Chang’e 6. Il suo obiettivo è raccogliere campioni minerali e chimici al Polo Sud della luna: quello che resta invisibile dalla terra, ma contiene ghiaccio da cui si possono estrarre acqua, ossigeno e idrogeno. Acqua e ossigeno potrebbero consentire una lunga permanenza di astronauti. L’idrogeno potrebbe essere il combustibile per lanci dalla luna verso Marte. Qui spunta la cooperazione con la Russia: l’obiettivo di Xi Jinping è costruire una base lunare permanente insieme con i russi entro il prossimo decennio. Gli americani sostengono che anche in questo caso ci sono obiettivi militari, non solo di tipo scientifico.
In cambio del suo aiuto la Russia ha ricevuto un regalo prezioso nell’isola cinese di Hainan, la base tropicale per i lanci della Repubblica Popolare nello spazio. Ai tempi del suo fondatore Mao Zedong e dello "scisma" fra Pechino e  Mosca, la Cina comunista arrivò a temere che l’Unione sovietica potesse attaccarla con armi nucleari. Perciò la base di lancio per i missili cinesi fu situata nel deserto di Gobi, considerato meno vulnerabile all’attacco sovietico. Hainan è una collocazione molto più favorevole, perché ai tropici la rotazione terrestre aumenta la potenza di lancio. Ora nella base spaziale di Wenchang situata su quell’isola, si aprirà un Politecnico russo in grado di formare diecimila studenti nelle discipline aerospaziali. Anche questo è un segnale di cooperazione rafforzata tra i due paesi, in un settore dove le sinergie tra scienza e armamenti sono note.     

"Il nuovo impero arabo" eccolo qua
Esce questo martedì 21 maggio il mio libro "Il nuovo impero arabo" edito da Solferino, e sarò in Italia a presentarlo. Intanto due sviluppi recenti di attualità sembrano confermare alcuni dei temi che approfondisco nel libro.
Primo, uno dei più autorevoli osservatori americani del Medio Oriente, il collega Thomas Friedman del New York Times, ha scritto che "l'Arabia diventa il nuovo Egitto". A cosa si riferiva? Non certo alla situazione economica: l'Egitto è dissanguato dalla corruzione dei suoi militari, è in bancarotta, e sono proprio i capitali sauditi a tenerlo a galla. No, Friedman si riferisce al fatto che dopo la guerra dello Yom Kippur (1973) l'America sviluppò una "strategia egiziana" con Sadat: tra i frutti di quella strategia ci fu l'accordo di pace Egitto-Israele, ma anche lo sviluppo di un rapporto autonomo tra Washington e Il Cairo, che non dipendeva dalla triangolazione con Israele. Friedman sostiene che l'America di Biden (e Trump) propende verso un'alleanza strategica con l'Arabia, anche a prescindere se quest'ultima accetta di riconoscere Israele.
L'altro sviluppo recente dell'attualità sono i segnali di crisi di alcuni progetti avveniristici all'interno di Neom, la nuova "città-Stato" che il principe saudita Mohammed bin Salman (MbS) sta costruendo. Nel mio libro illustro i piani visionari e ambiziosi di questo giovane sovrano, ne cito anche la vulnerabilità. Qualcosa può andare storto, forse anche molte cose possono andare storte (già il 7 ottobre 2023 ha inferto un colpo alla strategia saudita). Ma bisogna pensare a MbS come una specie di Elon Musk in versione araba e monarchica. Un chief executive con altissimo spirito di rischio, che forse dà per scontato il fallimento di alcuni dei suoi progetti...
Nel libro troverete risposte anche a molti quesiti che alcuni di voi mi avevano rivolto negli ultimi mesi, in particolare durante i miei lunghi viaggi nel Golfo arabico-persico: sui diritti umani, sulla condizione dei lavoratori nei cantieri sauditi, sull'omicidio di Khashoggi, sull'Iran, e altro ancora.
 
Federico Rampini, New York 18 maggio 2024
 
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 inserito:: Maggio 23, 2024, 07:42:52 pm 
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Convention di Vox, Mani libere sulle alleanze: Meloni punta a essere il «ponte» tra moderati e destre Ue

di Monica Guerzoni
Toni pacati, lontani dal comizio del 2022. Il dialogo con Le Pen allarma FI

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Il palco è ancora quello dell’ultradestra spagnola di Vox. Ma al posto della leader di opposizione che nel luglio del 2022 arringava i «patrioti» in un crescendo di no e di decibel, da far tremare le casse e le cancellerie europee, c’era ieri una premier prudente, determinata a contare nel futuro governo di Bruxelles e nel Parlamento europeo.
«Buenos dias patriotas!», è il saluto di Meloni agli undicimila di «Europa Viva 2024», organizzata dai populisti e nazionalisti di Vox. La premier-candidata appare in video ed è accolta come quella che ce l’ha fatta, prima donna di destra a guidare una nazione fondatrice della Ue. E pazienza se nel gran tripudio di bandiere e ovazioni il nome dell’ospite d’onore appare sul display storpiato in «Georgia», come il Paese filorusso in fiamme.

Meloni parla in spagnolo, non arringa la folla e sta attenta a non mischiare il piano di leader di partito con quello di capo del governo. Si rivolge al «caro Santiago, amico mio», lo stesso Santiago Abascal che nel settembre 2022 si appuntava come «medaglie al petto» le accuse ai suoi patrioti di essere «machisti, franchisti, razzisti e fasci». La premier descrive come «molto simili» i percorsi politici dei due partiti, Vox e FdI. Ricorda quando la sinistra europea, «principale responsabile del declino» del Continente, accusava i conservatori di voler «distruggere l’Europa». E sprona gli alleati ad alzare la posta: «Nessun cambiamento in Europa è possibile senza i conservatori».
Le opposizioni prevedono che l’Italia finirà isolata per le sue «amicizie indigeribili» dell’inquilina di Palazzo Chigi, nazionalisti del calibro di Abascal, Milei, Le Pen e Orbán. Lei invece non lo teme e si candida a fare «da cerniera» tra i vertici della Ue e i leader meno governisti. Per dirla con Carlo Fidanza, capodelegazione di FdI, «puntiamo a costruire una maggioranza alternativa di centrodestra anche in Europa, senza venir meno ai principi cardine dei Conservatori Ue».
La legislatura che si chiude, attacca Meloni, «è stata caratterizzata da priorità e strategie errate». E di certo all’amica «Ursula», che punta al bis e che la premier non nomina mai, fischiano forte le orecchie. Il 4 gennaio Meloni si disse pronta a votare von der Leyen. E adesso che la stella della presidente uscente brilla assai meno, si tiene le mani libere. «Aspettiamo il voto dei cittadini» spiega tanta freddezza l’onorevole di FdI Antonio Giordano, segretario generale di Ecr. E alla domanda delle domande, su come si muoverà Meloni quando si tratterà di votare per le cariche apicali dell’Unione, prende tempo: «Come si fa a giocare se ancora non si hanno in mano le carte?».
Non sarà dunque Meloni, da leader di Ecr, a tirare la volata a «Ursula». Prima che la premier possa spendersi per lei, bisognerà che arrivi con le sue gambe ad essere la candidata del Ppe per il bis a Bruxelles. Cosa su cui i meloniani hanno maturato forti dubbi, visto anche il distacco mostrato da Antonio Tajani quando von der Leyen è venuta a Roma.
C’è un’altra donna negli orizzonti europei della fondatrice di FdI: Marine Le Pen. Le due com’è noto non si amano, ma sotto al palco di Madrid la presidente del Rassemblement National ha detto che con Meloni «ci sono punti in comune». Dalla rivalità all’idillio? Tra Roma e Bruxelles c’è chi ragiona sull’ipotesi di un nuovo gruppo Ue che nascerebbe dalla fusione tra meloniani e lepeniani, ma i «fratelli» assicurano che all’orizzonte non c’è niente del genere e spiegano che «Marine doveva mettere una toppa all’attacco a tradimento fatto contro Giorgia alle kermesse di febbraio di Salvini».
Per conquistare l’Eliseo, Le Pen ha bisogno di smarcarsi definitivamente da precedenti prese di posizione filorusse e così apre a Meloni per aprire al fronte occidentale. La premier è pronta a dialogare con Le Pen, perché non vuole nemici a destra e perché guarda al Parlamento Ue, in cui FdI e Rassemblement avranno gruppi numerosi e su battaglie comuni potranno unire le forze contro i socialisti. Sempre che Le Pen spazzi via le ambiguità sull’Ucraina. Forza Italia è già in allarme e Maurizio Gasparri lo fa capire: «Le Pen è ostile alla Ue, come potremmo governare insieme?».
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Da - https://roma.corriere.it/notizie/politica/24_maggio_19/meloni-ponte-moderati-destre-ue-9d2d9cf4-e76d-4833-b115-94f0b600bxlk.shtml

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