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4681  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Dico no all'intellettuale-catechista. inserito:: Luglio 16, 2017, 05:01:46 pm
Non può essere un dialogo se in una delle parti non si è disposti a cambiare "orizzonte" men che meno "ampliarlo".

Solo un intellettuale in materie scientifiche lo prevede (la scienza cammina su se stessa).
Nelle teorie umanistiche e socio-politiche si è chiusi nelle celle delle proprie certezze e più l'intellettuale ne conosce più ne è prigioniero.

Quindi "l'uomo comune" lo legge, se lo condivide ne diviene "tifoso", in caso contrario l'accantona per future letture "leggere" (cognitive ma non impegnative).

ciaooo

A Gil su FB del 12 luglio 2017
4682  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Capirai l'arcangelo Mentana "corregge subito" il demone-mostro Renzi. inserito:: Luglio 16, 2017, 04:59:14 pm
Capirai l'arcangelo Mentana "corregge subito" il demone-mostro Renzi.

Che bravo, che bravo, che bravo, intervista all'astio e a muso duro ... ottimo ingrediente per rinfocolare il Caos.

Ciaooo

Da FB del 13/07/2017

4683  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / SERGIO RIZZO I tagli mai fatti: ogni giorno una società pubblica in più inserito:: Luglio 16, 2017, 04:57:57 pm
I tagli mai fatti: ogni giorno una società pubblica in più

Lo studio Ires-Cgil: sono quasi 9mila, 5mila nate solo tra il 2000 e il 2014.
Gli enti locali assumono beffando le leggi. Record in Val d’Aosta con una partecipata ogni 1.929 cittadini.
E una su 5 è inattiva

Di SERGIO RIZZO
13 luglio 2017

La società delle Terme di Salsomaggiore è in rosso dal 2008
La pioggia delle società pubbliche, indifferente al clima politico e ai rovesci dell’economia, non si è mai fermata. Una al giorno, ne è nata. Per anni e anni, fino ad allagare Regioni, Province, Comuni. La fotografia scattata dalla Cgil con il suo centro studi Ires in un approfondito studio di 60 pagine, ci consegna oggi un’immagine mostruosa. Uno scenario popolato da 8.893 società partecipate dalle pubbliche finanze e cresciute a un ritmo impressionante: circa 5mila nel solo periodo compreso fra il 2000 e il 2014, fino a raggiungere uno spettacolare rapporto di una ogni 6.821 abitanti. Con i suoi amministratori, i suoi revisori, i suoi dirigenti: spesso soltanto quelli. E punte inarrivabili. Come nel Trentino Alto Adige, dove si sono contate 498 scatole societarie create con i soldi dei contribuenti. Ovvero, una ogni 2.126 residenti. Ma ancor più in Valle D’Aosta, la Regione più piccola d’Italia che detiene il record di società pubbliche in rapporto ai propri residenti. Una per ogni 1.929 valdostani.

La riforma delle autonomie La Cgil dice che l’inondazione è cominciata negli anni Novanta con la riforma delle autonomie locali. Da lì è partita la febbre che sempre più rapidamente ha contagiato gli enti locali, con la scusa di rendere più efficienti i servizi pubblici vestendoli con un abito privatistico. Ma è dal decennio successivo che il termometro ha preso a salire senza più controllo, complici i vari blocchi delle assunzioni di personale pubblico. E grazie pure ad alcune mosse legislative a dir poco discutibili, come la famosa riforma del titolo V della Costituzione voluta da un centrosinistra all’inseguimento forsennato della Lega Nord, che ha ampliato a dismisura le prerogative della politica locale alimentandone le tentazioni più inconfessabili.

Le poltrone ai trombati Le società pubbliche sono così diventate un comodo strumento per aggirare i divieti a gonfiare gli organici delle amministrazioni, per giunta senza dover fare i concorsi: con il risultato che oggi il numero dei loro dipendenti ha raggiunto 783.974 unità, più degli abitanti di Bologna e Firenze messi insieme. Non soltanto. Soprattutto questo sistema ha consentito di dare una poltrona a politici trombati o in pensione, onorare impegni elettorali, garantire segretaria e auto di servizio agli amici. Qualche anno fa la Corte dei conti ha stimato in 38 mila il numero delle figure apicali in quelle società. Talvolta in proporzione perfino superiore a quello degli stessi dipendenti. Questo spiega perché risultano inattive ben 1.663 delle 8.893 società partecipate. Il 18,7 per cento di scatole vuote. Con vette in Molise (31 per cento), Calabria (38 per cento) e Sicilia, dove si supera il 40 per cento. Persino in Trentino Alto-Adige è inattiva una su dieci.

Per non parlare di quante, pur apparendo formalmente attive, non hanno neppure un dipendente. Sono 1.214 di cui, precisa il documento, 1.136 partecipate esclusivamente dagli enti locali, con una concentrazione nelle Regioni a guida leghista, quali Veneto (106) e Lombardia (136), ma anche in quelle considerate tradizionalmente rosse come Toscana (114) ed Emilia Romagna (122). Ce ne sono poi 274 con più amministratori che dipendenti, 234 che nei quattro anni compresi fra il 2011 me il 2014 hanno chiuso i conti in perdita e 1.369 che hanno un fatturato inferiore a 500 milioni.

La proliferazione del fenomeno. La giungla ha tratti geografici assai variegati, capaci anche di sovvertire alcuni luoghi comuni. Per esempio, non è affatto vero che la densità di società sia maggiore al Sud, come la qualità di certe amministrazioni lascerebbe immaginare: in Campania se ne trova una ogni 14.554 abitanti, il valore minimo in assoluto. Circa metà rispetto alla Lombardia, dove è possibile contarne una ogni 7.419 residenti. Va detto che neppure la crisi, né i vari provvedimenti presi a partire dal 2007 e tesi a scoraggiare la proliferazione di questo fenomeno l’hanno potuta frenare. Perché se è vero, come argomenta la Cgil in questo dettagliato dossier, che fra le società non attive bisogna considerare le 828 congelate o messe in liquidazione a partire dal 2010, è anche vero che da quell’anno e fino a tutto il 2014 ne sono state costituite 1.173 nuove di zecca. E il ritmo delle nascite si è appena rallentato.

Eppure è da molti anni che nella normativa i governi di turno cercano di infilare qualche pillola avvelenata. La quale subisce però sempre il medesimo destino, quello di venire immediatamente sterilizzata. Le ragioni sono facilmente intuibili. La politica locale rischia di dover rinunciare a muovere potenti leve clientelari. Pratica, ahinoi, assai diffusa. Qualche anno fa si scoprì che presso i gruppi politici del consiglio regionale della Campania erano distaccati 150 dipendenti di società pubbliche. Pagati dai contribuenti ma al servizio di partiti e loro capicorrente.

La mancata spending review Come stupirsi, allora, del fatto che qualunque tentativo di cambiare finisca nelle sabbie mobili? La legge 190 del dicembre 2014 prevedeva che gli enti locali predisponessero piani di razionalizzazione delle partecipate entro il marzo dell’anno seguente: ebbene, la Corte dei conti ha rilevato che due mesi dopo quella scadenza soltanto 3.570 soggetti sugli 8.186 interessati dalla disposizione l’avevano osservata. Quanto agli affondi della spending review, il processo di revisione della spesa pubblica avviato formalmente ormai da tempo, sono rimasti del tutto inefficaci. A questo proposito bisogna ricordare che l’ex commissario Carlo Cottarelli nel suo rapporto presentato all’inizio del 2014 aveva stimato in 2 miliardi l’anno i possibili risparmi derivanti dal disboscamento di tale giungla. Auspicando una strage: il numero delle partecipate si sarebbe dovuto ridurre a non più di mille.

Né minori difficoltà ha avuto la riforma di Marianna Madia, ideata per mettere in funzione finalmente una tagliola efficace. Ma prima si è incagliata alla Corte Costituzionale, quindi è finita nel tritacarne di una estenuante trattativa fra governo e poteri locali. Mentre i sindacati l’aspettano al varco insieme alle regole per la mobilità del personale. Un’altra rogna in vista della partita che si apre a settembre, quando vedremo se ancora una volta la realtà avrà più forza della legge. Dopo almeno dieci anni di indecente melina.

Il miraggio del Ponte sullo Stretto Avendo ben chiaro un particolare non indifferente, che se pure tutto dovesse andare per il verso giusto mettere mano al taglio delle società partecipate sarà un’opera immane. La durata delle liquidazioni nel nostro Paese, da questo punto di vista, parla chiaro. Le procedure possono durare decenni, e anche quando è la legge a fissare i paletti, quelli servono davvero a poco o nulla. Valga per tutti l’esempio della società pubblica Stretto di Messina, controllata dall’Anas, che avrebbe dovuto gestire la realizzazione del ponte fra Scilla e Cariddi opera miseramente archiviata da un lustro. Il governo di Enrico Letta aveva fissato

il 15 aprile 2013, per la sua liquidazione affidata all’ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti, Vincenzo Fortunato, il limite massimo di un anno. Di anni ne sono passati invece già più di quattro e siamo ancora a carissimo amico. Con il conto già arrivato a 13 milioni.

© Riproduzione riservata 13 luglio 2017

Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/07/13/news/i_tagli_mai_fatti_ogni_giorno_una_societa_pubblica_in_piu_-170664048/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1
4684  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Adriana Cerretelli L’Italia e i baratti franco- tedeschi inserito:: Luglio 16, 2017, 04:52:24 pm
L’Italia e i baratti franco- tedeschi

–di Adriana Cerretelli

Ancora non è chiaro se questa volta l’Europa salterà davvero il fosso per diventare quello che non riuscì ad essere a Maastricht e cioè un’unione economica e monetaria vera, preludio di un’unione politica inevitabile.

Non è chiaro perché nulla si muove, perlomeno alla luce del sole, in attesa delle elezioni tedesche del 24 settembre. E perché l’unione spuria e azzoppata nata 25 anni fa, combinata con la grande crisi partita nel 2008, si è allevata in seno tali e tante divergenze economiche, squilibri finanziari, conflittualità di interessi e mutua sfiducia da complicare non poco la ricerca di una dottrina e di un’ambizione condivisa.

Ma quando c’è volontà politica, gli ostacoli sono superabili. Se si aggiungono le molte pressioni esterne, da Stati Uniti, Russia o Cina poco importa, l’auto-ricostruzione diventa la scelta obbligata della sopravvivenza nell’era globale. Il ritorno della ripresa economica che si va consolidando, l’elezione in Francia dell’europeista Emmanuel Macron, le sue apparenti affinità elettive con la Germania di Angela Merkel creano le condizioni per poter sperare in una nuova svolta storica.

Le premesse ci sono tutte, il progetto invece va scritto e ben calibrato per farlo decollare davvero. Dietro le quinte fervono sondaggi e trattative informali. Una cena ieri sera a Bruxelles, in margine alla riunione dell’Eurogruppo, ha riunito intorno a un tavolo Wolfgang Schäuble, Bruno le Maire e Piercarlo Padoan, ministri finanziari di Germania, Francia e Italia, i tre maggiori azionisti dell’eurozona. Anche in vista del Consiglio di cooperazione franco-tedesco di domani a Parigi.

A fianco di Macron che al suo primo vertice Ue, il 23 giugno scorso, non faceva che martellare in modo quasi ossessivo sul ruolo cruciale e l’esclusiva del rapporto franco-tedesco come chiave di qualsiasi rilancio europeo, Merkel l’aveva subito corretto sottolineando il contributo di tutti i Paesi.

Le discussioni a tre di Bruxelles sono avvenute nello stesso spirito inclusivo che muove i tedeschi. Per diverse ragioni: non farsi intrappolare dai francesi nella logica del direttorio “uber alles”, che ha sempre il suo peso ma non lo stesso che aveva in passato nella piccola Unione; non eccitare le diffidenze di molti partner allergici allo strapotere tedesco (e francese, se tale sarà nei fatti).

Coinvolgere infine al massimo livello l’Italia, come a Maastricht, perché interlocutore e problema di rilievo. La sostenibilità del suo enorme debito pubblico e delle sue banche gravate dai crediti inesigibili, malattia peraltro diffusa in quasi tutta l’area, rappresenta infatti la garanzia ineludibile della futura stabilità dell’euro. Per questo, tra l’altro, l'offensiva di Matteo Renzi contro Fiscal compact e regole Ue anti-deficit non fanno l’interesse del Paese ma lo danneggiano indebolendone una volta di più la reputazione di Paese maturo e, soprattutto, affidabile. La questione italiana e la sua evoluzione saranno dirimenti per il futuro dell’eurozona e ancora di più per il posto che l’Italia occuperà nell’organigramma della nuova Europa. Tanto più che non si sa quale piega prenderà, alla fine, l’intesa franco-tedesca e quindi l’assetto futuro dell’eurozona.

Macron ha messo le carte in tavola. Il suo polo economico dell’Uem, da affiancare a quello monetario, passa per la creazione di un ministro delle Finanze e di un bilancio dell’eurozona, con funzioni l’uno di coordinamento delle politiche economiche in chiave di rilancio dello sviluppo e l’altro di volano degli investimenti e camera di compensazione in caso di shock asimmetrici. In sintesi, più crescita, meno rigore, solidarietà nella stabilità.

I tedeschi, che vogliono la riforma dell’eurozona e per farla hanno bisogno della Francia ma diffidano, come sempre, delle sue vere intenzioni visto che in quasi un decennio non si è mai premurata di rispettare il tetto del 3% per il deficit, prima di muoversi intendono procurarsi precise garanzie.

La prima, la più importante per convincere la propria opinione pubblica al grande passo della solidarietà finanziaria (controllata) con i partner, sarebbe la conquista della presidenza della Bce nel 2019, alla scadenza del mandato di Mario Draghi. Il candidato di Merkel sarebbe Jens Weidmann, il “falco” oggi alla guida della Bundesbank. Boccone amaro da digerire per la Francia di Macron che, comunque, per vedere realizzate le sue ambizioni europee dovrà prima dimostrare di saper fare davvero le riforme che promette e rispettare le regole Ue anti-deficit. Boccone ancora più amaro per l’Italia che, se non approfitta dei prossimi mesi per fare ordine in casa, rischia di dover presto fare i conti con il rialzo dei tassi di interessi sul debito e un’Europa molto meno pragmatica e permissiva sui conti pubblici di quella degli ultimi anni.

In realtà, le discussioni sulla nuova Europa sono appena cominciate. Ci vorranno mesi prima di vederne la fisionomia definitiva. Per essere solida, duratura e protagonista nel mondo globale, una costruzione meno lacunosa e contraddittoria di quella di Maastricht, questa volta dovrà poggiare su pilastri meno fragili e incerti.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2017-07-11/l-italia-e-baratti-franco-tedeschi-230023.shtml?uuid=AE3oTlvB
4685  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / MATTEO RENZI Ci fu una trattativa parallela D’Alema-Berlusconi per il Quirinale inserito:: Luglio 16, 2017, 04:50:59 pm
Opinioni
Matteo Renzi  @matteorenzi  · 11 luglio 2017

“Ci fu una trattativa parallela D’Alema-Berlusconi per il Quirinale”

I giorni cruciali delle elezioni di Sergio Mattarella al Quirinale

 
Mattarella è alla sua prima crisi di governo, dopo due anni di mandato. La sua elezione ha costituito un punto di svolta importante nella vita della legislatura: il parlamento nel 2013 si era dimostrato incapace di trovare una soluzione alla scadenza del settennato e tale inconcludenza della politica aveva costretto Giorgio Napolitano ad accettare un secondo mandato, caso inedito nella storia repubblicana. La gestione parlamentare dell’elezione di Mattarella invece ha mostrato una novità rispetto all’epoca dei franchi tiratori, e il largo consenso da lui raccolto – in aula e nel paese – ha oggettivamente rafforzato la credibilità delle istituzioni. Scegliere Sergio Mattarella per il Quirinale ha provocato però una rottura con Berlusconi e i suoi. Tutto il pacchetto delle riforme era nato da un accordo istituzionale con Forza Italia, che si era impegnata a superare il Senato, impostare una legge elettorale sul modello di quella dei sindaci, ridurre il potere delle Regioni: in un incontro nella sede del Pd, in largo del Nazareno, avevamo concordato questo percorso, poi ribadito in quattro incontri successivi a Palazzo Chigi. Incontri piacevoli, mai polemici, sempre molto chiari e alla luce del sole: abbiamo idee diverse sulla politica, ma si lavora insieme per il cambio delle regole. Scrivere le regole insieme per me è un dovere civile e morale. Non è un caso se la riforma della legge elettorale denominata Italicum e la riforma costituzionale poi bocciata al referendum hanno visto il pieno apporto di Forza Italia alla redazione del testo e nelle prime votazioni parlamentari. Noi abbiamo sempre cercato di scrivere le regole insieme agli altri. Ci siamo sottoposti a snervanti riunioni pubbliche con i grillini – che con noi facevano lo spettacolino in streaming e poi andavano a decidere a porte chiuse nella sede della Casaleggio & Associati Srl – per coinvolgere anche loro.

Siamo rimasti fedeli a questo metodo anche quando – fallito il referendum – il Presidente della Repubblica ha chiesto a tutte le forze politiche uno sforzo di dialogo e di confronto. Scrivere le regole insieme agli altri impone flessibilità e capacità di ascolto. Non puoi fare come ti pare, mai.
E questa regola, che abbiamo sempre seguito, continuiamo a ritenerla più vera e necessaria che mai. Non siamo stati noi a tirarci indietro dalle riforme che avevamo scritto insieme all’altra parte politica. E, allo stesso modo, in questo scorcio finale di legislatura, non faremo leggi elettorali a maggioranza contro Berlusconi o contro Grillo.

Dopo la sconfitta del 4 dicembre, alcuni opinionisti mi hanno rinfacciato la rottura del Patto del Nazareno, commentando che, se solo fosse rimasto integro l’accordo istituzionale, il referendum avrebbe avuto un’altra storia. Ci rimugino mentre salgo per l’ultima volta al Colle. La verità mi appare allora molto più forte di ogni considerazione ex post: chi ha partecipato a quei tavoli sa perfettamente che è stata Forza Italia a rompere con noi.

Quando, a fine gennaio del 2015, si tratta di votare per il Quirinale, Berlusconi mi chiede un incontro, che resterà, ma io non posso ancora immaginarlo, l’ultimo per anni. Perché quando si siede – accompagnato da Gianni Letta e Denis Verdini – mi comunica di aver già concordato il nome del nuovo presidente con la minoranza del Pd. Mi spiega infatti di aver ricevuto una telefonata da Massimo D’Alema, di aver parlato a lungo con lui e che io adesso non devo preoccuparmi di niente, perché “la minoranza del Pd sta con noi, te lo garantisco”. Te lo garantisco? Lo stupore colora – o meglio sbianca – il volto di tutti i presenti. Berlusconi ha sempre un modo simpatico di raccontare la realtà. La sua ricostruzione della telefonata con D’Alema è divertente, ma lascia tutti i partecipanti al tavolo senza parole. Non solo non avevamo mai inserito l’elezione del capo dello stato nel Patto del Nazareno, ma l’idea che Berlusconi abbia già fatto una trattativa parallela con la minoranza del mio partito sorprende anche i suoi. In quel momento – sono più o meno le due di pomeriggio del 20 gennaio –, nel salotto del terzo piano di Palazzo Chigi, capisco che il Patto del Nazareno non esiste più: il reciproco affidamento si è rotto.

Non è un problema di nomi: la personalità su cui Berlusconi e D’Alema si sono accordati telefonicamente è di indubbio valore e qualità. Ma è anche difficile da far accettare ai gruppi parlamentari – sempre pronti a esercitare l’arte del franco tiratore – e all’opinione pubblica. E poi c’è un fatto di metodo, prima ancora che di merito. Io ho scelto un percorso trasparente e partecipato, con tanto di streaming, dentro il Pd e davanti al paese per evitare di tornare allo stallo del 2013. Sono impegnato in un iter parlamentare difficilissimo per condurre una maggioranza su un nome condiviso. E in una sala ovattata al terzo piano di Palazzo Chigi devo scoprire che si è già chiuso un accordo tra Berlusconi e D’Alema, prendere o lasciare? E, come se non bastasse, da questo prendere o lasciare dipende la scelta se continuare o meno con il percorso di riforme, che pure erano state scritte insieme.
Non ho mai capito perché Berlusconi nutrisse dubbi su Mattarella. Le sue qualità parlavano per lui: professore di diritto; giudice costituzionale serio e rispettato; ministro per i Rapporti con il parlamento, della Pubblica istruzione, della Difesa; uomo di rigore e legalità nella Dc siciliana e nazionale; parlamentare di comprovata esperienza. Forse la ruggine per le dimissioni di Mattarella dal governo Andreotti venticinque anni prima contro la legge voluta da Craxi sulle tv, la famosa legge Mammì, ostacolava ancora il Cavaliere. Fatto sta che, quando mi trovo a dover scegliere tra l’asse Berlusconi-D’Alema (non ricordo un solo accordo Berlusconi-D’Alema che alla fine sia stato utile per il paese) e la soluzione più logica per il parlamento e per l’Italia, non ho dubbi, con buona pace di tutti i retroscenisti. Del resto, come canterà Vasco Rossi qualche mese dopo: “Essere liberi costa soltanto qualche rimpianto”. Da quel momento Berlusconi mi dichiara guerra, vanificando l’approccio condiviso alle riforme che fino ad allora era stato strettissimo. Già, perché le riforme istituzionali le abbiamo votate insieme, specie nelle prime letture, e molti dei campioni della campagna per il No al referendum in realtà avevano votato Sì in parlamento. Questo dovrebbe far riflettere a lungo sulla natura politica del voto referendario.

Il mio rapporto con il Cavaliere è peculiare. Sono tra i pochi della sinistra che non ha mai voluto fargli la guerra sulle sue vicende giudiziarie. Ho sempre spronato i miei compagni di partito a portare avanti una proposta per l’Italia, non contro Berlusconi. Quando era premier ho fatto di tutto, nella mia veste di sindaco, per lavorarci insieme a livello istituzionale. Dopo lo strappo sull’elezione del presidente della Repubblica, i nostri rapporti si interrompono. Quando però, nel giugno del 2016, Berlusconi si sente male e viene ricoverato, lo chiamo per sincerarmi delle sue condizioni di salute. E, come sempre, il Cavaliere è simpatico e gentilissimo: “Caro Matteo, grazie per avermi chiamato, non dovevi disturbarti, sto bene”. Sono i giorni successivi al primo turno delle amministrative di Roma. Intervenendo a Ostia alla chiusura della campagna elettorale per Marchini, sfidante di Virginia Raggi e Roberto Giachetti, Berlusconi non aveva esitato a chiedere un voto per evitare di sfociare nella pericolosa “dittatura” del sottoscritto, parlando di “regime”, di “democrazia sospesa”, del “signor Renzi che occupa militarmente ovunque qualsiasi cosa”, di “bulimia smisurata di potere”. Un intervento pacato e sobrio, insomma. Durante la telefonata io ovviamente evito di parlare della mia “deriva autoritaria” e rimango sul piano strettamente personale, augurandogli pronta guarigione. Il finale di Berlusconi è un vero colpo da maestro, Ko tecnico alla prima ripresa: “E poi, caro Matteo, sappi che mi dispiace molto per quanto ti stanno attaccando, ce l’hanno tutti con te”. Ma come? Lo stesso che pubblicamente mi dà dell’aspirante dittatore a distanza di due giorni mi porta la sua solidarietà per gli attacchi? Mentre pigio il tasto rosso che mette fine alla telefonata, scoppio in una risata: è inutile, anche se mi sforzassi, Berlusconi non mi starà mai antipatico. Sul Quirinale però non potevo consentire né a lui né a D’Alema di sostituirsi al parlamento e decidere per tutti. La simpatia è una cosa, la politica è un’altra.*

*Tratto dal nuovo libro di Matteo Renzi in libreria da domani

Da  - http://www.unita.tv/opinioni/tutta-la-verita-sul-patto-del-nazareno/
4686  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Alberto Mingardi. Baronessa della libertà. Un ritratto di Madame de Staël ... inserito:: Luglio 16, 2017, 04:31:17 pm
SCIENZA E FILOSOFIA
Libertà in cerca di consenso

–di Alberto Mingardi 15 luglio 2017

Baronessa della libertà. Un ritratto di Madame de Staël (1766-1817)

«Ci sono tre grandi potenze in Europa: l’Inghilterra, la Russia e Madame de Staël». Germaine de Staël moriva il 14 luglio del 1817. La sua vita è un tale romanzo che la tentazione di raccontarlo torna ciclicamente. «Non c’è vulcano al mondo che faccia più fiamme di lei», diceva Benjamin Constant. L’invenzione del romanticismo, gli intrighi a favore di Narbonne e di Talleyrand, l’astio di Napoleone e l’amicizia coi fratelli Bonaparte, i viaggi in Inghilterra e in Russia, gli amori travagliati, una rete di relazioni che andava da Goethe a Wellington: un giorno, il copione planerà sul tavolo di un regista all'altezza.

Quest’alluvione di vita rischia però di sviare l’attenzione degli studiosi: il personaggio storico fa ombra allo scrittore, e lo scrittore fa ombra al pensatore politico. Perciò è particolarmente prezioso il nuovo libro di Biancamaria Fontana, storica del pensiero che insegna all’Università di Losanna, Germaine de Staël. Fontana si concentra sugli anni della Rivoluzione, quando Germaine, poco più che ventenne, assisteva ai lavori dell’Assemblea e operava come una sorta di segretario parlamentare informale per la fazione “costituzionale”: i fautori di una monarchia costituzionale sul modello inglese.

Il padre, Jacques Necker, banchiere ginevrino che fu direttore delle finanze di Luigi XVI, aveva descritto l’opinione pubblica come una forza onnipotente, «paragonabile alla prerogativa regia». Necker, “tre volte sull’altar”, fu richiamato dal re dopo la presa della Bastiglia e, fidando troppo proprio nell'opinione pubblica, venne poi travolto dalle dinamiche democratico-assembleari. Germaine desiderò sempre vendicare la caduta del padre («Madame de Staël era la figlia di Jacques Necker. Questo fu il fatto saliente della sua vita»: così comincia l’Amante di un secolo di Christopher Herold). Maturò anch'essa un’attenzione particolare al tema del consenso, senza illudersi sulle possibilità di raggiungere l’unanimità.

Nell’agosto del 1791, de Staël pubblica un articolo in cui si chiede «Da quali segnali possiamo dire quale sia l’opinione della maggioranza della nazione?». L’opinione pubblica è un po’ il deus ex machina di certo liberalismo. Una più ampia alfabetizzazione, la libera circolazione delle idee, la disponibilità a vasto raggio di gazzette che trattano temi politici, insomma: Internet prima di Internet, dovrebbero bastare perché si faccia strada una visione condivisa del bene pubblico. Che a sua volta dovrebbe coincidere con il mutuo riconoscimento di un certo grado di libertà.

Mentre l’illuminismo di massa produce intolleranza, De Staël ragiona sulla volubilità dell’opinione pubblica, che va a rimorchio degli scandali, delle voci dal sen fuggire, delle fake news. L’opinione pubblica è un campo di battaglia, sul quale i giacobini vincono in virtù di un’organizzazione più efficiente.

Anche per questo, De Staël prima e più di altri riflette sui partiti politici, sul ruolo dell’esecutivo, sull'importanza simbolica della monarchia e sul vuoto che essa può generare: un vuoto destinato ad essere riempito, o da uno Stato onnipotente o da un’altra figura che sappia caricare su di sé una speranza di stabilità (le cose andarono più o meno così).

Il pensiero De Staël è dominato dalla Rivoluzione (come poteva essere altrimenti?). Deve spiegare il fallimento della corrente che da principio sembrava dovesse trionfare, aggiornando le istituzioni francesi all’esempio britannico.

In parte gli esiti della Rivoluzione furono la conseguenza del prevalere di homines novi, impreparati a una sfida di quelle proporzioni. In parte s’impose un’idea astratta: il desiderio di spazzare via tutto, per ricostruire un Paese da zero. In Della letteratura, De Staël sottolinea anche «l’incapacità degli uomini politici di parlare chiaramente e onestamente ai propri elettori, la mancanza di discussione e persino di un linguaggio comune tra i partiti, la conseguente impossibilità di un dibattito costruttivo».

Ci fu, soprattutto fra i moderati, un problema di talenti e individualità. «La rivoluzione francese si è contraddistinta per la sorprendente assenza di personalità eminenti. Più che dagli uomini, ha seguito la direzione invisibile di concetti e principi astratti». Queste idee astratte riuscirono con facilità a incendiare gli animi, anche perché in campo moderato mancavano individualità davvero rilevanti. «L’opinione dei moderati può essere ragionevole e saggia, ma il loro carattere dev’essere audace».

Questo proprio perché De Staël pensa che anche la più abile ingegneria costituzionale non può fare a meno di una certa legittimità: che le idee liberali non possono prescindere dal consenso.

Nelle Riflessioni sulla pace interna, de Staël, come farà poi Constant, guarda alla libertà come libertà dei moderni: «L’unità della nazione sotto la repubblica deve fondarsi sulla diffusa richiesta di libertà: non, tuttavia, la libertà patriottica e partecipativa ispirata al modello delle repubbliche antiche». Quest’idea di libertà come privatezza, come spazio protetto dalle interferenze pubbliche, fatica a trovare una legittimazione che sorregga le istituzioni che la rendono possibile.

Sostiene Biancamaria Fontana che «l’aspetto più interessante della carriera di Madame de Staël non è la sua fedeltà a un ristretto numero di concetti relativamente astratti – la libertà, il progresso o la moderazione – bensì il fatto che fosse consapevole degli effetti limitati che tali concetti possono esercitare sulla realtà». De Staël «sosteneva il governo rappresentativo come regime in grado di favorire i talenti, pur sapendo che era probabile che gli elettori scegliessero personalità volgari e corrotte. Discuteva gli aspetti tecnici delle costituzioni, ben sapendo che la loro efficacia dipendeva in ultima istanza dagli umori del popolo. Difendeva la libertà di stampa, osservando con orrore il fiume di inutile ciarpame che questa libertà inevitabilmente produceva». Il frenetico attivismo politico, la generosità della corrispondenza, l’insaziabile desiderio di non risparmiare neanche un gesto per la causa della libertà non intaccarono mai la lucidità di Germaine De Staël. Che tutt’oggi meriterebbe qualcosa di più che essere ricordata. Meriterebbe di essere letta.

© Riproduzione riservata
Da - http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-07-15/liberta-cerca-consenso--150847.shtml?uuid=AE6xA2uB&cmpid=nl_domenica
4687  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Adriana Marmiroli - Marco Paolini: “Un’estate da nomade per testare sul palco... inserito:: Luglio 16, 2017, 01:39:07 pm

Marco Paolini: “Un’estate da nomade per testare sul palco la forza delle parole”
In tour nei festival di provincia. “Alterno monologhi e studio dal vivo le reazioni”

Pubblicato il 15/07/2017 - Ultima modifica il 15/07/2017 alle ore 07:35

Adriana Marmiroli
Milano

L’estate è per Marco Paolini stagione di esperimenti e studi. Cittadine di provincia e piccoli festival locali: ogni situazione è buona per incontrare un pubblico diverso da quello teatrale solito. «Per saggiarne le reazioni ai miei monologhi», spiega. Un calendario fitto e nomade in cui alterna titoli diversi, non di “repertorio”: letture e non spettacoli strutturati. «Mancano corpo e movimento, che sono ciò che fa la differenza. Qui invece sono ancora alla ricerca delle parole». 

Due i titoli che interpreta in questi giorni Tecno-Filò. Technology and Me, che è in una fase più avanzata, e U. Piccola Odissea tascabile che sta muovendo i primi passi. 

Protagonista Ulisse, il profugo per antonomasia, Piccola Odissea tascabile «non è un instant book», non è testo nato sull’onda della cronaca, ma ha una quindicina di anni. Paolini lo aveva interpretato accompagnato da Uri Caine e Giorgio Gaslini (oggi con lui c’è Lorenzo Monguzzi, voce e chitarra). Poi lo aveva accantonato. «Aveva uno stile che sentivo trash e di cui non ero sicuro». Un anno fa lo ha ritrovato in uno dei grossi quaderni in cui conserva tutto il proprio lavoro, pensieri, spunti, spettacoli. «E ne ho riscoperto la forza». Anche il linguaggio non gli è parso più così estremo. «Citazioni da Calvino, Zanzotto e London. Con la contaminazione di elementi cinematografici e televisivi». 

Il pubblico ride per i riferimenti “bassi”: Ulisse.it (come Itaca), Penelope che fa Cruz di cognome. I Proci che si fanno uccidere perché il racconto su Calypso e Circe è intrigante e parla di sesso. Paolini prende l’Odissea e la «manomette per farne un racconto pop». 

Il ventennale viaggio di Ulisse verso Itaca è sintetizzato in poco più di un’ora. Ma dentro ci sono anche le immortali terzine dantesche, «tanto pericolose per noi attori, se non siamo Vittorio Sermonti». E un fulminante epilogo mutuato da Martin Eden. E c’è persino Ulisse che in tanto peregrinare incrocia Enea: profughi entrambi ma con destini opposti. Il vincitore che diventa sconfitto e viceversa. «Prendo lo slancio da 3000 anni fa per dire che noi siamo i fortunati: noi, stirpe di Enea. Accennare a questi due destini paralleli mi intrigava». Qui la scintilla è stata la scritta su un muro romano. «Noi siamo i figli di Enea: fuori gli invasori». «Dobbiamo scegliere un punto di vista. E non credo che quello giusto sia la “sindrome dell’assediato”». 

«U» non sarà pronto prima di un anno, però. Il lungo stand by è dovuto all’affollarsi di altri progetti e interessi «paralleli». Il film di Andrea Segre, L’ordine delle cose, con Paolo Pierobon e Giuseppe Battiston, prodotto dalla sua JoleFilm. E il progetto lirico per Palermo: «Non opera tradizionale ma melologo: voce recitante con musiche di Mauro Montalbetti».

E poi c’è Tecno-Filò. Technology and Me, l’altro work-in-progress di questa estate. Figlio di riflessioni sulla scienza nate ai tempi di ITIS Galileo che lo stanno appassionando, fa parte di un vero e proprio “filone” sul rapporto tra uomo e tecnologia. 

«La tecnologia sta cambiando tutti i nostri riferimenti culturali. È la nostra rivoluzione copernicana». Ma, uomo di montagna e terra, che ama camminare nelle sue valli e perdersi nei boschi, Paolini ha un rapporto controverso con i ritrovati di cui la scienza ha riempito la nostra vita. «Uso il computer per navigare. Ma per scrivere preferisco ancora carta e penna». «Parafrasando il Nobel per la fisica Feynman: non riesco a capire ciò che mi accade attorno se prima non lo traduco in racconto». E allora eccolo usare il pubblico «come cavia». 

A Tecno-Filò sono un paio di anni che lavora. «A primavera sarà pronto». Quasi assieme al misterioso Antropocene che debutterà a maggio a Torino. Mentre è «spettacolo finito» Numero Primo, che porterà a Monforte d’Alba il 1° settembre. «Romanzo di formazione di un figlio e di un padre. È il mio contributo alla fantascienza». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/07/15/spettacoli/palcoscenico/unestate-da-nomade-per-testare-sul-palco-la-forza-delle-parole-tpUdt3fKApTHJmmVGkbTYO/pagina.html
4688  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Carmine Fotia Il Pd c’è e dovrebbe fare così Politica assemblea-pd inserito:: Luglio 13, 2017, 11:52:29 am
Focus
Carmine Fotia  @CarmineFotia  · 27 giugno 2017

Il Pd c’è e dovrebbe fare così
Politica assemblea-pd
Il problema torna a essere quello della credibilità delle idee riformiste

A leggere certi commenti, che si vorrebbero fondati su acribia analitica, le recenti elezioni amministrative avrebbero travolto il Pd e spezzato le reni a Matteo Renzi. Il tutto in un turno elettorale importante, che ha coinvolto circa sette milioni di italiani al primo turno, ma molti di meno ai ballottaggi e nel quale andavano al voto città importanti come Palermo, Genova, Padova, Verona, Parma, L’Aquila, Lecce, Taranto, Sesto San Giovanni, tra le altre.

I numeri dovrebbero essere incontrovertibili e dunque siamo andati a leggere l’analisi di uno dei più seri ricercatori italiani, Ilvo Diamanti, per capire se c’è stata o no la débacle del Pd.

“I risultati hanno delineato uno scenario instabile. Per molti versi, in-definito…la novità maggiore è il ritorno del bipolarismo tra centro-sinistra e centro-destra”, è l’esordio di Diamanti che poi prosegue: “La maggiore novità è, però, costituita dalla forte crescita del centro-destra, che sale da 44 a 59 città (maggiori) amministrate. Mentre il centro-sinistra perde oltre venti sindaci. E scende da 81 a 58. Per cui ha ragione Renzi quando afferma di aver vinto. Ma ha anche perso”.

Non credo che Diamanti abbia scritto ciò per compiacere il segretario del Pd, ma semplicemente perché il voto, pur contenendo una forte avanzata del centro-destra, è più complesso e comunque l’immagine di una disfatta del Pd e del centrosinistra non corrisponde al vero: “L’intero territorio sembra aver perduto i colori e gli orientamenti tradizionali”.

Il centrosinistra passa nelle “regioni rosse” da 13 comuni maggiori a 8; nel Nord-ovest passa da 29 a 14 città; ma nel sud “la sua presenza nei governi locali si è allargata: da 24 a 26, mentre il peso del centro-destra è sceso da 21 a 14”; ma per il centrosinistra è andate bene anche nel nord-est: “In questa occasione è stato teatro di una rimonta del centro-sinistra. Che si è affermato, fra l’altro, a Padova. Si disegna così una mappa dai colori incerti. Che riflettono l’incertezza e il distacco degli elettori. L’astensione, infatti, è risultata ambia come poche volte in passato. Ai ballottaggi, infatti, ha votato circa il 46% degli elettori, 12 punti in meno rispetto al primo turno”.

Fin qui Diamanti, la cui analisi viene confermata dal confronto tra i dati aggregati delle coalizioni, in termini di quantità di voti, che confermano un sostanziale equilibrio, in termini di voti assoluti tra centro-destra e centro-sinistra.

Vediamo ora come la pensa Mauro Calise, uno dei politologi che ha meglio indagato la crisi della forma partito e il crescente ruolo del leader nella politica moderna: “Il centro-destra non è risolto, almeno fin quando non risolverà – ma come? – il problema di una leadership unificata al centro. I Cinquestelle – ma questo si sapeva – restano un’incognita e potrebbero sgonfiarsi come tornare a crescere. Mentre il Pd ha soltanto confermato che, sui territori, non c’è stato il rinnovamento che Renzi è riuscito – con molta fatica – a portare avanti nel gruppo di testa nazionale. Perché, allora, l’accanimento dei commenti di queste ore, quasi che – perse Genova e Sesto fossimo entrati in una nuova era politica?”.

La spiegazione di Calise riguarda i rapporti tra media e politica: “In un’epoca di leadership carismatiche e mediatiche, la percezione conta molto di più. E, nello specchio deformante della rete, può far rapidamente salire alle stelle, e, poco dopo, precipitare nelle stalle”.

Per non “dilapidare il solo leader che il centrosinistra abbia prodotto da diversi anni a questa parte”, Calise propone una svolta nello storytelling, meno centrato sul ping-pong nevrotico dei tweet.

Ho lungamente citato questi due studiosi intanto perché le loro opinioni si fondano sull’analisi dei dati numerici e delle tendenze della politica, e non contengono la vis polemica che ovviamente è propria dei dirigenti di partito.

Vorrei sommessamente sottolineare che né l’uno né l’altro assolvono il Pd dai sui errori o attenuano il peso delle sconfitte. Solo che le àncorano ai dati numerici e a un’analisi più sistemica.

I problemi che pongono sono, non sembri un paradosso, persino più seri e difficili da affrontare: se il problema fosse Renzi, infatti, come sostengono alcuni, dentro e fuori il Pd, basterebbe cambiare segretario (avendone la forza); se il problema fosse spostarsi più a sinistra nella geografia politica, basterebbe un accordo politico.

Tuttavia i problemi sono altri e sono, questi sì, di natura politica generale. Quasi ovunque i governi uscenti sono stati sconfitti: i ribaltoni più clamorosi sono stati quelli di Genova e Sesto, per il loro forte impatto simbolico, ma anche Lecce e Padova hanno cambiato segno e hanno anch’essi qualcosa da dirci, se vogliamo prendere sul serio tutti gli italiani che hanno votato e non solo quelli che portano acqua al mulino delle proprie tesi.

Chi governa a livello locale oggi, per gli effetti micidiali di un’austerità cieca da cui solo con i governi Renzi e Gentiloni si è cominciato a uscire, non ha le risorse necessarie per rispondere ai bisogni dei cittadini mentre lo stato, vedi il caso dei migranti, li chiama ad assumere crescenti e necessarie responsabilità.

Ecco perché chi è al governo deve sapere offrire una risposta concreta alle speranze come alle paure, altrimenti diventa il capro espiatorio di una rabbia e di una protesta che hanno origini più generali.

In questo senso c’è stato, soprattutto nel nord, un forte impatto della questione dell’immigrazione sovrapposta, nella propaganda della destra e dei populisti, a quella dello Ius Soli. Così come certamente pesano il perdurare della crisi economica e il bisogno di protezione delle fasce più deboli.

Dinnanzi a tali problemi che sono generali ma che hanno una forte declinazione locale, rispondere con le formule dell’alchimia politica non serve proprio a nulla. Parlare di centrosinistra nuovo, vecchio o usato che sia, non fornisce risposte.

Farò tre esempi per farmi capire e infine affiderò alle parole di Walter Veltroni, intervistato per Repubblica da Stefano Cappellini, in occasione del decimo anniversario del Lingotto, l’indicazione di una via che sarebbe utile seguire per tutti.

In due città del nord, Genova e Padova, ci dicono le analisi e i reportage, ha pesato molto la questione dell’immigrazione. A Genova il centrosinistra era a trazione più di sinistra ed ha perso malamente contro il candidato del centro-destra perché non è sembrato credibile nella sua capacità di coniugare sicurezza e diritti, accoglienza e severità; a Padova, invece, una coalizione a trazione riformista, in alleanza con un civismo progressista e in forte relazione con il mondo cattolico ha sbaragliato la Lega in casa propria, proprio su quei temi.

A Taranto, invece, le questioni della crisi economica e il dramma dell’Ilva, hanno dominato la scena. Eppure qui il centrosinistra ha vinto. C’entra il modello Emiliano, visto che il centrosinistra ha vinto anche a Lecce? Può darsi, ma forse conterà anche qualcosa l’impegno concreto del governo per risolvere le crisi occupazionali, testimoniato dal lavoro della viceministra Teresa Bellanova? E ciò non contraddice la narrazione di un Pd diventato liberista?

E veniamo alle lucide e sagge parole di Veltroni che non lesina critiche a Renzi e tuttavia non gli chiede affatto di farsi da parte, ma lo esorta a “un cambio di passo”, per riprendere la strada al Lingotto dieci anni fa: “Serviva a non limitarsi alla conquista del consenso in casa propria, ma senza perdere un incardinamento unitario forte. Una forza innovativa, non un indistinto, non minoritaria, ma di sinistra”.

Ma Veltroni ammonisce anche il Campo Progressista: “Mi auguro che sia possibile costruire un campo largo. Per questo il mio appello a Pisapia è evitare che la soluzione del suo agire sia la nascita di una forza antitetica al Pd. Ci faremmo del male”.

La questione, dunque, che divide a sinistra non è la leadership di Renzi, ma è proprio il giudizio sulla natura del Pd. Un Pd che, dice Miguel Gotor, intervistato da Ettore Colombo per QN, “ha subito una vera e propria mutazione genetica: è un partito di centro che guarda a destra con una scolorita sinistra al suo interno”? Come dire, un modo molto unitario di annunciare l’assemblea di sabato prossimo e soprattutto molto carino verso lo “scolorito” Andrea Orlando che ha annunciato la sua partecipazione.

Ha senso affrontare così la discussione su una possibile coalizione? Evidentemente no. Infatti anche nell’area della minoranza del Pd c’è chi, come Goffredo Bettini, sostenitore di Andrea Orlando al congresso e molto critico verso la leadership renziana, ha pubblicato delle note in vista dell’assemblea di oggi pomeriggio, nelle quali propone di aprire un confronto programmatico che diventi “il terreno di una contendibilità politica aperta, realmente democratica e costruttiva da realizzare attraverso un confronto permanente delle idee tra gli iscritti e gli elettori di un grande campo del centrosinistra”.

Il centrosinistra senza il Pd non esiste, ma il Pd, com’è oggi, non è in grado rappresentare tutta la ricchezza e la varietà di forze civiche e di esperienze associative che si sono espresse anche nelle recenti elezioni, dove si è vinto.

Aprirsi ad esse vuol dire uscire dall’asfissiante discussione politicista sui termini e confrontarsi sulle cose da fare, sulle quali costruire un’alleanza politica. A partire dal molto di buono che sta già facendo il governo Gentiloni e che non può essere messo tra parentesi, ma diventare l’annuncio di un programma più vasto da attuare nella prossima legislatura: un vero e proprio piano riformista che si incardini su lotta alla povertà e all’esclusione sociale; diminuzione delle tasse sul lavoro; investimenti pubblici in settori strategici come la cultura, le periferie, le infrastrutture e la ricostruzione del territorio; l’estensione dei diritti e il rispetto dei doveri, accogliendo chi viene dalla fame, dalla morte e dalla miseria, ma al tempo stesso dando anche risposte concrete e democratiche al senso di insicurezza dei cittadini, come indica da tempo il ministro Marco Minniti.

Per questo la battaglia sullo Ius Soli non può essere abbandonata: “Non si cambia idea per un sondaggio”, ha detto Renzi questa mattina a #Ore9. Soprattutto quando si sta giocando una partita che in tutto il mondo divide destra e sinistra. Un soggetto popolare, riformista e di centrosinistra impernato sul Pd ma aperto alle esperienze civiche non nascerà nei salotti e nei laboratori, ma nel fuoco di una battaglia che si svolga non solo in parlamento ma in tutto il Paese, non rinunciando a dire, ma soprattutto a fare, cose di sinistra contendendo il campo alla destra sovranista e al populismo digitale (ormai sempre più sovrapponibili) con un netto profilo riformista alternativo.

DA - http://www.unita.tv/focus/il-pd-ce-e-dovrebbe-fare-cosi/
4689  Forum Pubblico / SCRIPTORIUM 2017 - (SUI IURIS). / Non chiacchiere ma una Magna Carta Democratica di ricerca della serenità in ... inserito:: Luglio 13, 2017, 11:50:23 am
L'assenteismo è anti-sistema!

Il NO al referendum e il voto di Domenica sono anti-democratici, sia per alcune assurdità lasciate commettere (p.e.: penalizzare chi ha governato), sia perché ha prevalso l'accanimento anti-Renzi e anti-PD. 

Molti non-renziani (ma Italiani) sono convinti che se Renzi e il PD non si imbrattano l'abito politico con inciuci e alleanze stitiche, sono l'uomo politico e il partito in grado, da subito, di fare del bene al paese.

Ma Renzi deve mettersi a studiare e comportarsi da Statista e il PD deve: eliminare "talpe" dei fuoriusciti ancora infestanti all'interno, ridimensionare nei ruoli gli incapaci e valorizzare chi vale (ma non s'inchina), fare squadra intorno a Renzi aiutandolo facendosi ascoltare (anche se non toscani).

Il PD e Renzi devono presentare agli Italiani (renziani o non renziani) un Progetto-Paese (Italia) complessivo sulle cose da fare e da avviare entro la prossima legislatura.

Non chiacchiere ma una Magna Carta Democratica di ricerca della serenità in Italia.

ggiannig     
4690  Forum Pubblico / ICR Studio. / Caro Arturo, corretta riflessione ma a mio parere questa sarà da impostare e ... inserito:: Luglio 13, 2017, 11:42:40 am
Caro Arturo, corretta riflessione ma a mio parere questa sarà da impostare e realizzare dopo essere usciti dalla trama mistificante in cui ci hanno immerso da anni.

L'accoglienza scaricata sulle spalle dei Cittadini residenti e perpetrata sullo stato indegno in cui sono stati tenuti, sia profughi da zone di guerra, sia immigrati per libera scelta (capiamoci sulla differenza di status), deve finire.

Dobbiamo assumere il modo europeo di accettare gli immigrati.

Quindi niente taxi di navigazione e chi è soccorso in mare seguirà, nello scendere a terra, la bandiera nazionale della nave che lo ha soccorso. Dopo di che si lavorerà per la realizzazione di una nuova Europa e di una nuova Africa. Sperando che almeno questa volta l'Italia sarà protagonista e non profittatrice fessa. Ciaooo

Da FB del 1 luglio 2017
4691  Forum Pubblico / ICR Studio. / Macron ci fa riflettere sulle differenze tra emigranti e profughi. inserito:: Luglio 13, 2017, 11:38:49 am
Macron ci fa riflettere sulle differenze tra emigranti e profughi.

Ci libera da un falso problema: un conto è soccorrere chi fugge dalla guerra altro è accogliere chi vuole ricercare una soluzione abitativa in una nazione diversa da quella in cui sono nati.
La tragedia dei morti nelle traversate è la conseguenza diretta della loro scelta di voler affidare, la ricerca di un nuovo status e la loro vita, a organizzazioni malavitose che li trattano in modo inumano.

Fermare le navi diventate strumento condizionato e gestito dai trafficanti di esseri umani, è l'unico modo per evitare tragedie e per cominciare a selezionare gli emigranti nella loro terra d'origine.

Ci siamo fatti condizionare da una visione a senso unico che ha travisato la realtà del fenomeno, Macron ci indica una diversa chiave di lettura meno buonista ma più razionale e orientata nella vera soluzione del problema.

Non è nel sovraccaricare il malessere tra due parti sociali (l’Emigrante e il Cittadino che è forzato ad ospitarlo) che si risolve una situazione che richiede buona organizzazione e impegno politico coordinato tra diversi Stati.

I signori della guerra, le multinazionali egoiste e il buonismo ipocrita sono avversari dell’Uomo, sia esso emigrante, sia nativo nella nazione ospitante.

Noi non possiamo stare dalla parte degli avversari dell'Uomo.

ggiannig

da FB del 1 luglio 2017
4692  Forum Pubblico / ICR Studio. / La lingua locale può essere bella e ricca ma ... inserito:: Luglio 13, 2017, 11:35:32 am
Quando la lingua locale è una parrocchia (laica) di quartiere e, nello stesso tempo, una enciclopedia di sentimenti e di emozioni.

E' bello essere li.

ciaooo
4693  Forum Pubblico / ICR Studio. / La particolarità del Polo Democratico ... inserito:: Luglio 13, 2017, 11:33:38 am
Gli ulivisti nati con Prodi ci sono ancora.

Venti anni fa ero ulivista ma non necessariamente prodiano.

Oggi sono ulivista (cioè di pensiero CentroSinistra) ma "non ancora renziano".

Io sostengo una idea-pensiero, ma da libero pensatore, non sono "tifoso" del "Leader".

ciaooo
4694  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / ARLECCHINO Opinionista. E' possibile che MACRON ci porti a riflettere meglio... inserito:: Luglio 13, 2017, 11:32:07 am

E' possibile che MACRON ci porti a riflettere meglio sulla situazione (antica di millenni) che vede protagonisti persone che vogliono emigrare per varie ragioni e scelgono un metodo così pericoloso (non tanto per il rischio naufragi che oggi sono meglio protetti dai volontari e dalle nostre capitanerie) come quello d'affidarsi a organizzazioni criminali.

L'ottanta per cento di quelle persone che fanno la scelta di venire in Italia non hanno bisogni urgenti (lo si vede da come sono vestiti) ma cercano di cambiare residenza.

Facciamoci chiarire meglio, da Macron, la sua riflessione sulla differenza tra accoglierli e non accoglierli.
Potrebbero nascere dubbi su come i nostri politici ci hanno presentato la questione sino ad oggi.

ciaooo
4695  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / ARLECCHINO Opinionista. A R. alla mia età farmi illusioni (dopo vent'anni di ... inserito:: Luglio 13, 2017, 11:30:19 am
A R. alla mia età farmi illusioni (dopo vent'anni di forum socio-politici), sarebbe una sconfitta che non mi sento addosso.

Oggi sappiamo che nella cultura moderna si è infiltrata quella mafiosa, è probabile che coloro dopo avere favorito questa penetrazione continuino nel fare politica, anche se la mafia li ha scartati (il che è tutto dire).

Alcuni di noi (e molti degli “altri”) si accaniscono sulla persona-nemico, cosa che senza motivarne le ragioni non si dovrebbe fare mai.

Per un personaggio pubblico non c'è nulla di più fastidioso che il criticare le azioni e i contenuti delle sue azioni ... è come togliergli la sedia di sotto il sedere.
Gli attacchi personali invece sono pubblicità al suo nulla e nebbia alla visione per noi Cittadini.

ciaooo   
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