LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. => Discussione aperta da: Admin - Giugno 24, 2007, 04:25:24 pm



Titolo: Pietro ICHINO. -
Inserito da: Admin - Giugno 24, 2007, 04:25:24 pm
Montezemolo e i fannulloni

Un codice etico per il sindacato


I vertici delle confederazioni sindacali maggiori si sono molto indignati per la battuta del presidente degli industriali Luca Cordero di Montezemolo sul rischio che il sindacato si riduca a «difensore dei fannulloni». Qualche ragione ce l'hanno: al di là della polemica sui fannulloni, non si può imputare a colpa del sindacato il fatto che esso difenda i lavoratori più deboli, i meno produttivi, poiché questo rientra nella sua funzione essenziale e ineliminabile. In quella battuta c’è però la denuncia di un rischio grave.

Un rischio per il sindacato stesso, prima ancora che per l’intera collettività: che il sindacato si riduca a difendere solo i lavoratori meno produttivi, lasciando gli altri di fatto privi di rappresentanza. È questo un rischio che il sindacato in Italia sta correndo in modo sempre più grave ed evidente. Nel settore pubblico, innanzitutto, dove la disponibilità a una politica di differenziazione dei trattamenti in funzione dell'efficienza delle strutture amministrative e del merito individuale, manifestata genericamente da Cgil, Cisl e Uil nel Memorandum firmato col governo nel gennaio scorso, è vistosamente contraddetta dal loro comportamento effettivo non appena si tratta di passare alle misure concrete.

È sotto gli occhi di tutti il violentissimo fuoco di sbarramento che le tre confederazioni hanno aperto contro la proposta del ministro Nicolais di affidare a una commissione centrale indipendente il compito di attivare e garantire gli strumenti di valutazione, controllo e trasparenza in ciascun comparto dell'impiego pubblico. Ma quello di privilegiare troppo i meno produttivi è un rischio che — sia pure in misura minore — il sindacato corre anche nel settore privato. Quando dal lavoro manuale si passa al lavoro impiegatizio, è tipico e in qualche misura inevitabile che siano più propensi a impegnarsi nella militanza sindacale i lavoratori meno assorbiti dal proprio lavoro, quelli che da esso traggono minori soddisfazioni; e quindi anche il fatto che le iscrizioni si addensino nella parte più debole degli appartenenti a ciascuna categoria.

Questo fenomeno, però, sconfina nella patologia quando accade addirittura — e questo si verifica con una frequenza davvero eccessiva, al punto da essere considerato normale da chi si occupa professionalmente di gestione delle risorse umane—che il sindacato entri per la primavolta in una azienda per iniziativa di un lavoratore che ha commesso una grave mancanza e che si fa nominare rappresentante sindacale per ottenere una protezione impropria contro il probabile licenziamento; o comunque che il sindacato offra con grande facilità i galloni di r.s.a. al lavoratore cui è stata appena notificata (o sta per esserlo) la contestazione disciplinare; oppure a un lavoratore che usa permessi e aspettative sindacali per i propri comodi privati.
Quando la rappresentanza in azienda si costituisce su queste basi, è il Dna del sindacato a subire una degenerazione; e la sua missione effettiva viene percepita dalla generalità dei lavoratori non come quella di proteggere i più deboli, ma come quella di abbassare il livello minimo dovuto di correttezza e di impegno produttivo. Qui c’è un evidente conflitto d’interessi; e il sindacato dovrebbe — per il proprio buon nome, prima di tutto—darsi un codice etico che individui esplicitamente quel possibile conflitto e impedisca il diffondersi del fenomeno.

Più in generale, il sindacato deve curare — con attenzione molto maggiore di quanto non faccia oggi—che il proprio naturale e doveroso impegno nella difesa della parte più debole dei lavoratori si coniughi con il riconoscimento e la difesa anche dell'interesse della parte più forte professionalmente e più produttiva. Altrimenti, prima o poi quest'ultima si ribella.Ègià accaduto nel 1980 con la «marcia dei 40.000». Gli errori del sindacato che hanno generato allora quella rivolta non sono molto diversi da quelli cui assistiamo oggi; soprattutto nel settore pubblico, dove il sindacato è più forte e quindi più capace di imporre la propria legge.

Pietro Ichino
24 giugno 2007
 
da corriere.it


Titolo: Dialogo sul lavoro: Bruno Trentin a colloquio con Pietro Ichino (1)
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2007, 05:51:42 pm
 
27-05-2003

Dialogo sul lavoro

Pietro Ichino e Bruno Trentin

Dialogo sul lavoro: Bruno Trentin a colloquio con Pietro Ichino


Pietro Ichino. Hai scritto a Paolo Mieli che non vedi l'ora di parlare con me di qualche cosa di diverso dall'articolo 18. Ti propongo di partire da un tema caro a Mieli, quello della "cornice" dei rapporti tra diversi, riferito al movimento sindacale. Non pensi che, in questa fase di grave frattura tra le confederazioni maggiori, si debba puntare a costruire una "cornice" in cui inserire il confronto tra posizioni anche fra loro inconciliabili, basata su di un meccanismo di misurazione della rappresentatività di ciascuno e sul riconoscimento del diritto della coalizione maggioritaria di negoziare con effetti estesi all'intera categoria?

Bruno Trentin*. Sono pienamente d'accordo. È quello che si è realizzato nel pubblico impiego, dove tra l'altro questa "cornice" ha sostanzialmente premiato il sindacalismo confederale. Nel settore privato questa scelta è stata compiuta, in linea di principio, da tutte le confederazioni e dalla Confindustria, con il protocollo Giugni del luglio 1993; ma poi non le si è data attuazione sul piano legislativo, non si è realizzato il meccanismo di votazione periodica nei luoghi di lavoro e rilevazione sistematica dei risultati indispensabile per consentire la soluzione della questione dell'efficacia generalizzata dei contratti collettivi.

P. I. Se ci fosse un meccanismo che consentisse di misurare e certificare periodicamente la rappresentatività dei sindacati, anche gli "accordi separati", cioè i contratti collettivi stipulati da una parte soltanto dei sindacati, potrebbero non essere considerati più come una anomalia: dove il dissenso è insanabile, contratta chi rappresenta la maggioranza dei lavoratori nell'ambito della categoria. E alla prossima scadenza elettorale i lavoratori decideranno se confermare o no la fiducia alla coalizione maggioritaria. Se si crede nella libertà sindacale e quindi nel pluralismo sindacale, dobbiamo muovere in questa direzione.

B. T. È così, a meno che non si decida di passare ad altri sistemi, molto lontani dalla nostra tradizione sindacale, come quelli praticati nei Paesi anglosassoni. Quei sistemi, certo, presuppongono altre regole; ma pure lì delle regole ci sono, e anche di fonte legislativa.

P. I. La Uil è favorevole a un intervento legislativo che regoli la materia, anche in funzione dell'efficacia erga omnes dei contratti collettivi. La Cisl invece oggi rifiuta la prospettiva della misurazione della rappresentatività in riferimento alla generalità dei lavoratori, sostenendo che il sindacato risponde prioritariamente ai propri iscritti e che non si possono trasferire i meccanismi della democrazia parlamentare sul terreno delle relazioni sindacali.

B. T. Questa posizione della Cisl ha radici antiche e molto rispettabili. Ma occorre tener conto del fatto che nell'ordinamento italiano il contratto collettivo ha di fatto – ed è necessario che abbia, se non vogliamo cambiare radicalmente sistema - un campo di applicazione che va ben al di là del novero degli iscritti a questo o quel sindacato stipulante. Non si può negare a questa parte dei lavoratori, i cui interessi sono inevitabilmente coinvolti, la possibilità di influire sulle scelte negoziali.

P. I. Oggi la Cgil tende a soddisfare questa esigenza attraverso il referendum per la convalida dell'ipotesi di accordo raggiunta al tavolo delle trattative. La Cisl rifiuta questo metodo, denunciando il rischio che in questo modo si finisca con lo svalutare il rapporto associativo tra il sindacato e i suoi iscritti, privilegiando un consenso o dissenso effimero e volatile, facilmente influenzabile dagli umori assembleari del momento. Il sindacato – si dice – deve poter elaborare e perseguire strategie contrattuali di lungo respiro, implicanti talvolta anche scelte impopolari nell'immediato, i cui buoni frutti si vedranno nel medio e lungo termine.

B. T. Questa obiezione ha un fondamento; anch'io ho molte riserve sul ricorso al referendum come strumento normale di consultazione dei lavoratori e di convalida dei contratti. Ma non si può neppure cadere in una sorta di "illuminismo sindacale", legittimando il sindacato a decidere per conto di tutti, sulla base di una presunzione di rappresentatività non verificata. Credo che su questo punto si possa trovare una soluzione, anche legislativa, che concilii entrambe le esigenze di cui abbiamo parlato. Del resto, sulla necessità di questa soluzione legislativa anche la Cisl ha concordato, firmando il protocollo del luglio 1993. Poi i sindacati, nell'esercizio della loro libertà nei luoghi di lavoro, ben possono -come abbiamo sperimentato in passato - creare delegazioni di lavoratori con cui consultarsi di volta in volta durante le negoziazioni nazionali, oppure attivare assemblee nelle quali le ipotesi di accordo vengano discusse analiticamente, e nelle quali si arrivi anche a un voto; così come possono in alcuni casi avvalersi del referendum; ma questo deve essere frutto di una scelta libera di ciascun sindacato, non una procedura decisionale o negoziale fissata per legge.

P. I. La conciliazione tra la posizione della Cgil e quella della Cisl potrebbe dunque essere questa: contratta per tutti solo la coalizione che, nell'ambito della categoria o dell'azienda, ha conseguito la maggioranza dei consensi nell'ultima consultazione. E, tra una consultazione e l'altra, ciascun sindacato o coalizione può scegliere le forme di rapporto con i lavoratori che preferisce, praticare il modello di democrazia sindacale che meglio corrisponde alla sua tradizione e al suo statuto.

B. T. Sono d'accordo; e credo che anche per la Cisl questa soluzione sia accettabile. Occorre lavorare per far maturare un consenso unitario su questo punto.

P. I. – L'insuccesso del disegno di legge Smuraglia su questa materia, nelle due passate legislature, è dovuto probabilmente al fatto che lì non veniva salvaguardato il rapporto organico tra il sindacato e i suoi rappresentanti in azienda: la rappresentanza sindacale costituiva un soggetto sindacale a sé stante, autonomo, creato per legge: un corpo estraneo rispetto al sistema delle relazioni industriali. Su questo punto credo che l'opposizione della Cisl non fosse ingiustificata. Ma vorrei sentire da te che cosa pensi di un'altra obiezione che ho sentito sollevare in alcuni dibattiti, negli ultimi tempi, contro la prospettiva di un intervento legislativo su questa materia, e questa volta dall'ala sinistra del movimento sindacale: la preoccupazione che una legge sulla rappresentanza sindacale possa costituire il primo passo sulla strada della limitazione alla sola coalizione maggioritaria della facoltà di proclamare lo sciopero, nei servizi pubblici.

B. T. Ricordo di avere percepito questa preoccupazione molto tempo fa, quando si discuteva della legge tedesca, che richiedeva una certa maggioranza per proclamare uno sciopero e, curiosamente, una maggioranza assai più esigua per stipulare validamente il contratto collettivo. Ma erano anni lontani, in cui si esaminava criticamente questa esperienza. Riproporre oggi quella preoccupazione mi parrebbe, francamente, un po' retrogrado; e porterebbe a un paradossale rovesciamento di posizioni, con lo spostamento della Cgil sulla posizione della parte della Cisl che si oppone a una disciplina generale della rappresentanza sindacale.

P. I. Abbiamo quasi esaurito lo spazio che abbiamo a disposizione. Prima di salutarci, però, una domanda sulla questione della disciplina dei licenziamenti me la devi consentire: non pensi che nella primavera di un anno fa se la Cgil si fosse unita alla Cisl e alla Uil (che erano disponibili per questo) per proporre insieme una riforma modellata sulla legge tedesca, le tre confederazioni avrebbero potuto negoziare con il Governo da una posizione di forza e al tempo stesso assumere una posizione unitaria più forte e credibile contro il referendum di Bertinotti?

B. T. No: non sarebbe stato comunque evitato il problema del referendum di Bertinotti, che è stato promosso con fini politici evidenti, senza alcun riferimento ai contenuti del rapporto di lavoro. E a quel punto era troppo tardi anche per evitare l'iniziativa della Confindustria e del Governo contro l'articolo 18.

P. I. Ma su quella linea il movimento sindacale avrebbe potuto evitare di spaccarsi; e, unito, avrebbe avuto anche una forza negoziale assai maggiore nei confronti del Governo.

B. T. Chi lo sa? Io credo che a quel punto una iniziativa di quel genere non avrebbe scongiurato nulla di quello che è avvenuto e sta avvenendo; perché si sarebbe collocata in una situazione in cui la sola distinzione che contava era tra chi era pro e chi era contro l'articolo 18.  Ritengo probabile che il Governo non l'avrebbe accettata. Quell'iniziativa è venuta troppo tardi; ed è stata in qualche modo compromessa dalle proposte che l'hanno preceduta. Sì, penso in particolare proprio alla prima proposta, ben più radicale, avanzata da te e presentata in Parlamento da Franco Debenedetti nel 1997. Io non ho alcuna obiezione ideologica nei confronti della soluzione tedesca; ma parliamone in un altro contesto politico, stabilendo una netta separazione rispetto al discorso degli ultimi anni. Deve essere ben chiara la differenza tra il modello tedesco e quella tua prima proposta, che prevedeva l'indennizzo automatico, convertibile in parte dal lavoratore in "preavviso lungo", come scelta liberatoria anche nei confronti di un pronunciamento giudiziale e come unica tutela contro il licenziamento per motivi economici. Potremo riparlarne, del modello tedesco, ma non ora: solo in un diverso contesto politico, dopo che saranno state archiviate le proposte oggi sul tappeto e lo scontro in atto su di esse.

* Segretario generale della CGIL dal 1988 al giugno del 1994
 

da lavoce.info


Titolo: Dialogo sul lavoro: Bruno Trentin a colloquio con Pietro Ichino (2)
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2007, 05:53:13 pm
27-05-2003

Dialogo sul lavoro

Pietro Ichino e Bruno Trentin

Rappresentanze sindacali e licenziamenti: un glossario, a cura di Pietro Ichino

Breve glossario di temi, proposte e leggi richiamate e discusse da Pietro Ichino e Bruno Trentin nel loro dialogo su accordi separati, misurazione della rappresentatività dei sindacati e modello tedesco di disciplina dei licenziamenti.


Protocollo Giugni 23 luglio 1993. Nel capitolo "assetti contrattuali" del Protocollo del luglio 1993 (sottoscritto da Cgil, Cisl, Uil e numerose altre organizzazioni sindacali, con Confindustria e altre associazioni imprenditoriali, nonché con il Governo, e tuttora in vigore), sotto il paragrafo "rappresentanze sindacali", alla lettera f si legge: "le parti auspicano un intervento legislativo finalizzato, tra l'altro, a una generalizzazione dell'efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali che siano espressione della maggioranza dei lavoratori, nonché alla eliminazione delle norme legislative in contrasto con tali principi. Il Governo si impegna ad emanare un apposito provvedimento legislativo inteso a garantire l'efficacia erga omnes nei settori produttivi dove essa appaia necessaria al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delle azienda".

Campo di applicazione del contratto collettivo. L'articolo 39 della Costituzione italiana prevede un meccanismo di registrazione delle associazioni sindacali presso il ministero del Lavoro e stabilisce che "I sindacati registrati (...) possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce". Nell'inutile attesa – che si protrae ormai da 55 anni – dell'attuazione o modifica di questa disposizione costituzionale, i giudici del lavoro generalmente adottano i contratti collettivi come parametri per la determinazione della "giusta retribuzione" anche per i lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti, così attribuendo indirettamente ai contratti stessi quella efficacia erga omnes che altrimenti, sulla base del diritto civile comune, essi non avrebbero.

Inoltre, alcuni rilevanti sgravi contributivi concessi dalla legge sono condizionati all'applicazione integrale del contratto collettivo nazionale della categoria alla quale l'impresa appartiene. E l'articolo 36 dello Statuto dei lavoratori del 1970 subordina alla stessa condizione la possibilità per qualsiasi azienda di ottenere appalti pubblici, contributi o benefici pubblici di qualsiasi genere. Con queste norme, l'estensione erga omnes dell'efficacia dei contratti collettivi è stata sostanzialmente conseguita, ma in forma non corrispondente a quanto previsto dalla Costituzione. La questione torna di grande attualità nel momento in cui alcuni rilevanti accordi e contratti collettivi nazionali vengono stipulati soltanto da Cisl e Uil, nel dissenso della Cgil: possono anche questi accordi e contratti "separati" essere assunti come parametro del "giusto trattamento" dovuto al lavoratore, senza una verifica della rappresentatività maggioritaria delle associazioni sindacali stipulanti?

Disegno di legge Smuraglia sulle rappresentanze sindacali. Il 3 maggio 1995 il Senato ha approvato in prima lettura un disegno di legge per l'istituzione e disciplina delle "rappresentanze sindacali unitarie", che prese il nome dal presidente della commissione Lavoro Carlo Smuraglia, risultante dall'unificazione di sette disegni presentati nell'XI e nella XII legislatura, dei quali uno di iniziativa popolare patrocinato dalla Cgil e uno di iniziativa governativa. Le rappresentanze sindacali unitarie, secondo quel disegno di legge, avrebbero dovuto essere elette dai lavoratori nei luoghi di lavoro con cadenza triennale e con meccanismo elettorale rigorosamente proporzionalista, senza alcun vincolo di mandato per i rappresentanti eletti. In questo modo si recideva ogni rapporto organico tra l'associazione sindacale e il rappresentante, con conseguente espropriazione parziale delle organizzazioni sindacali delle prerogative e dei diritti attribuiti loro in azienda dallo Statuto del 1970, prerogative e diritti che venivano per la maggior parte attribuiti a un soggetto diverso, istituzionalmente indipendente. Per questo motivo la Cisl e la Confindustria denunciarono il rischio della nascita di un sistema di comitati di base creato per legge; qualcuno parlò a questo proposito di una "quarta confederazione sindacale" costituita dall'insieme delle nuove Rsu.

Effettivamente, quelle che nel disegno di legge venivano chiamate "rappresentanze sindacali" non erano organi "sindacali" in senso proprio: non erano, cioè, organi dell'associazione sindacale esterna: esse, traendo la propria investitura soltanto dal basso, per mezzo dell'elezione, erano destinate a rispondere soltanto ai propri elettori. Per questo aspetto, il disegno di legge Smuraglia avrebbe avuto l'effetto di un rovesciamento netto della scelta operata dal legislatore del 1970: al modello delineato nell'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, che privilegia il rapporto organico tra l'associazione e la rappresentanza aziendale configurando la seconda come organo periferico della prima assoggettato alla sua disciplina statutaria e lasciando la prima pienamente libera nella scelta delle modalità di organizzazione della seconda, si sarebbe sostituito un modello che privilegiava l'investitura dei rappresentanti dal basso; il modello, cioè, nel quale i lavoratori sono rappresentati in azienda direttamente da un organo eletto a suffragio universale, prima e più che dalle rispettive associazioni sindacali.

A temperamento di questo effetto, i sostenitori del disegno di legge Smuraglia avvertirono la necessità di inserirvi, in seconda lettura alla Camera dei Deputati, una norma che prevedeva l'"affiancamento" delle associazioni sindacali territoriali alle "rappresentanze unitarie" aziendali nella contrattazione collettiva d'impresa. Senonché, soprattutto a causa dell'opposizione di Cisl e Confindustria, il disegno di legge non giunse al termine del suo iter parlamentare. Esso non è stato ripresentato nella legislatura attuale.

Legge tedesca sui licenziamenti. In Germania la legge affida al giudice, se questi ritiene che il licenziamento sia ingiustificato, di determinare caso per caso se condannare l'impresa a reintegrare il lavoratore, oppure soltanto a pagargli un indennizzo (che può arrivare al massimo a 18 mensilità dell'ultima retribuzione), tenendo conto di tutte le circostanze e in particolare del comportamento delle parti prima e dopo il licenziamento, nonché anche ovviamente delle dimensioni dell'azienda. Questo regime si applica a tutte le aziende dai 5 dipendenti in su.

Su di un progetto di legge ispirato al modello tedesco, elaborato da Pietro Ichino, nell'aprile 2002 avevano manifestato il proprio consenso i segretari generali della Cisl, Savino Pezzotta, e della Uil, Luigi Angeletti, i quali sarebbero stati disposti a promuovere in proposito un'iniziativa unitaria nei confronti del Governo, se la Cgil fosse stata disponibile. In seguito il progetto di legge – che prevede un limite massimo di indennizzo differenziato a seconda delle dimensioni dell'azienda, fino a un limite assoluto di 36 mensilità - è stato fatto proprio dalla Uil e presentato in Parlamento da un gruppo di parlamentari dell'area dei liberal diessini, della Margherita e dello Sdi.

Se fosse stata emanata in tempo utile, una legge di questo genere avrebbe avuto l'effetto di evitare il referendum del 15 giugno, poiché con la riduzione della soglia a 5 dipendenti sarebbe stato sostanzialmente eliminato il "doppio regime" della disciplina dei licenziamenti contro il quale il quesito referendario è diretto.

Il disegno di legge Debenedetti. Nel 1997 il senatore Franco Debenedetti ha presentato un disegno di legge per la riforma della disciplina dei licenziamenti, ispirato alla proposta contenuta nel libro di Pietro Ichino Il lavoro e il mercato (Mondadori, 1996); lo ha poi ripresentato nella XIV legislatura. Il Ddl conserva la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro soltanto per il caso di licenziamento discriminatorio o di rappresaglia. Quanto al caso del licenziamento di natura non disciplinare (cioè non motivato con una colpa del lavoratore), il disegno di legge prevede che il datore di lavoro debba accollarsi in ogni caso un indennizzo rilevante, tanto maggiore quanto maggiore è l'anzianità di servizio del lavoratore, fino a un massimo di 36 mensilità dell'ultima retribuzione, lasciando al lavoratore stesso la facoltà di convertire a sua scelta una parte di questo indennizzo nella prosecuzione del rapporto con la normale retribuzione fino al periodo massimo di un anno. In questo modo il disegno di legge si propone di escludere che il lavoratore possa essere messo fuori dall'azienda senza sua colpa da un giorno all'altro o da un mese all'altro: si consente al lavoratore di cercare con calma un nuovo lavoro dalla posizione di occupato e non di disoccupato; e soprattutto lo si incentiva a cercarlo attivamente, perché più presto lo troverà, maggiore sarà l'indennizzo residuo che potrà intascare.

L'idea di fondo sulla quale si basa questo progetto è quella del cosiddetto "filtro automatico" delle scelte dell'imprenditore: una volta escluso che il licenziamento abbia natura discriminatoria o di rappresaglia (e i giudici del lavoro – sostengono i fautori di questa scelta - sono capacissimi di accertarlo efficacemente, anche sulla base di presunzioni semplici), se l'imprenditore è disposto ad accollarsi il costo di quel cospicuo indennizzo, ciò costituisce la prova migliore del fatto che, effettivamente, dalla prosecuzione del rapporto egli si attende una perdita maggiore.

Il disegno di legge Debenedetti prevede che questo regime si applichi, sia pure con le opportune modulazioni dell'entità dell'indennizzo, in tutte le imprese e anche ai rapporti di collaborazione autonoma coordinata e continuativa (c.d. lavoratori "parasubordinati" o co.co.co). Esso delinea pertanto una forma di protezione suscettibile di essere estesa a tutti i circa diciassette milioni di lavoratori italiani operanti in condizioni di sostanziale dipendenza da un datore di lavoro o committente; una forma di protezione suscettibile, altresì, di costituire strumento per il riassorbimento nell'area del rapporto di lavoro a tempo indeterminato di gran parte dei rapporti di lavoro a termine o comunque precari (poiché la predeterminazione certa del costo del recesso in forma di indennizzo, e la convertibilità dell'indennizzo in preavviso di recesso, consente di restringere notevolmente l'area dei contratti a termine e delle altre forme di lavoro precario).
 
da lavoce.info


Titolo: Pietro Ichino - Il merito e il salario
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2007, 05:34:10 pm
Editoriali       

LA FATICA DEL LAVORARE BENE

Il merito e il salario

di Pietro Ichino


Il presidente di Confindustria, Montezemolo, ha rilanciato con forza, in questi giorni, la parola d’ordine della meritocrazia; e il segretario della Cisl, Bonanni, gli ha risposto positivamente: «Il nostro obiettivo è lavorare meglio e di più, per produrre e guadagnare di più». Su questo tema, invece, la Cgil resta abbottonata. Questa sua riluttanza non risponde a ragioni tattiche contingenti: ha radici profonde nella cultura della sinistra. E niente affatto disprezzabili.

A sinistra l’idea dominante è che la produttività non sia un attributo del lavoratore, bensì dell’organizzazione aziendale in cui egli è inserito. «Prendi un ingegnere bravissimo e mettilo a spaccare le pietre: otterrai probabilmente un lavoratore molto meno produttivo di uno spaccapietre analfabeta». Se, poi, nessuno domanda pietre, entrambi stanno fermi e la produttività di entrambi è zero. Nel dibattito di tutto lo scorso anno sui nullafacenti del settore pubblico, questo è stato immancabilmente il concetto che veniva contrapposto all’idea di commisurare le retribuzioni anche ai meriti individuali: «Il risultato penosamente basso di molti uffici — si è detto da sinistra — ma anche il difetto di impegno di molti impiegati dipendono dal pessimo livello di organizzazione e strumentazione ».

C’è del vero in questo argomento; ma a sinistra si cade spesso nell’errore di fermarsi qui. È l’errore che il grande Jacovitti rappresentò con l’indimenticabile vignetta dove una mucca dall’aria torpida e pigra diceva: «Sono una mucca per colpa della società». La realtà è che la produttività del lavoro dipende da entrambe le variabili: sia dall’organizzazione, e talvolta da circostanze esterne incontrollabili, sia dalla competenza e dall’impegno del singolo addetto. E conta anche il suo impegno nel cercare l’azienda dove il proprio lavoro può essere meglio valorizzato.

Commisurare interamente la retribuzione al risultato significa, certo, scaricare sul lavoratore tutto il rischio di un esito negativo che può non dipendere da suo demerito. Ma garantire una retribuzione del tutto stabile e indifferente al risultato significa cadere nell’eccesso opposto: così viene meno l’incentivo alla fatica del far bene il proprio lavoro e del muoversi alla ricerca del lavoro più utile, per gli altri e per se stessi. Questa stabilità e indifferenza della retribuzione è la regola oggi di fatto imperante in tutto il settore pubblico, ma troppo largamente applicata anche in quello privato, per effetto di contratti collettivi che lasciano uno spazio del tutto insufficiente al premio legato al risultato.

E questo è uno dei motivi —insieme, certo, a tanti altri difetti strutturali e imprenditoriali — della bassa produttività media del lavoro nel nostro Paese. Per uno stipendio magari basso, che però matura qualsiasi cosa accada, ci sono sempre i lavoratori che si impegnano a fondo, se non altro per rispetto verso se stessi, e si ribellano alle situazioni di improduttività; ma ce ne sono sempre anche altri che se la prendono comoda, fino al limite del non far nulla. Un’iniezione di meritocrazia nei contratti collettivi e individuali fa certamente bene anche a questi ultimi.

27 novembre 2007

da corriere.it


Titolo: Il professor Ichino: bene accetto l’offerta di Walter
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2008, 03:53:41 pm
Il professor Ichino: bene accetto l’offerta di Walter

Oreste Pivetta


La scelta. «Ho accettato la candidatura alle elezioni nelle liste del Pd perché ho la garanzia del pieno diritto di cittadinanza nel nuovo partito per mie idee e le mie proposte. Di fronte alla richiesta di una persona limpida e coraggiosa come Walter Veltroni, in un momento così difficile per il nostro paese, ho ritenuto di non avere il diritto di rifiutare. Anche se questa scelta comporterà parecchi sacrifici sul piano personale». Lo dice all’Unità Pietro Ichino, il giuslavorista, mentre sta scrivendo un articolo per il Corriere della Sera, quotidiano al quale collabora, editorialista da quasi un decennio (ma ha scritto spesso anche sul nostro giornale), con l’intenzione di spiegare, appunto, la sua decisione. Lo leggeremo oggi.

Con il Pd, dunque, Pietro Ichino ritrova una strada parlamentare che aveva già percorso tra il 1979 e il 1983, ottava legislatura, quando fu eletto come indipendente nelle file del Partito comunista (e quando fu membro della commissione lavoro della Camera). Ichino è milanese, cinquantottenne, giornalista e professore universitario, conosciuto e spesso discusso per i suoi orientamenti, «troppo modernisti, troppo liberisti» come sostengono i suoi critici, per le sue battaglie a volte durissime, che hanno suscitato polemiche e talvolta qualcosa di più delle polemiche: Ichino era stato minacciato anche dalle presunte nuove brigate rosse, dopo i suoi interventi sul Corriere, interventi poi raccolti in un volumetto dal titolo assai chiaro: I nullafacenti. E un sottotitolo che spiegava (e smorzava la provocazione): «Perché e come reagire alla più grave ingiustizia della nostra amministrazione pubblica».

Ichino voleva denunciare la scarsa produttività, l’inefficienza, il malcostume, gli opportunismi, l’incapacità che possono affliggere l’universo mondo del lavoro e soprattutto l’universo mondo del lavoro pubblico, tra statali e comunali e regionali, tra le gigantesche macchine della nostra burocrazia, con costi enormi per la collettività, costi economici, ma anche morali, culturali, per la cattiva lezione che ne discende e che tutto alla fine inquina. E che alimenta malpancismo, qualunquismo, grillismo, separatismo, eccetera eccetera, cioè la deriva antipolitica e il “fastidio” per quanto sa di “pubblico”. E che dà, come si deduce dalle cronache, molto daffare ai tribunali. E di più potrebbe darne.

Lo “scandalo” Ichino lo sollevò proprio con un articolo sul Corriere della Sera, alla fine di agosto del 2006. Chiedeva, in via del tutto retorica, il professor Ichino: «Perché, mentre si discute di tagli dolorosi alla spesa pubblica per risanare i conti dello Stato, nessuno propone di cominciare a tagliare l’odiosa rendita parassitaria dei nullafacenti?». Il mite professore, che aveva cominciato appena ventenne a frequentare la Camera del lavoro di Milano (dirigente della Fiom Cgil) e appena laureato, dopo il servizio militare, era diventato il responsabile del suo ufficio legale, aveva scagliato la pietra, aveva usato la parola proibita, contro i white collars, i colletti bianchi, intruppati nel nostro stato e nel nostro parastato. Aveva d’un colpo dato voce al sentimento comune a migliaia e migliaia di italiani, le vittime delle code, degli sportelli, dei timbri e delle carte bollate.

In un articolo di qualche giorno dopo Ichino aveva criticato il “no” secco dei sindacati di categoria: semmai, chiedevano i sindacati, mobilità e incentivi... «Però - commentava soddisfatto Ichino - hanno riconosciuto che il problema esiste... tutti concordano che nell’amministrazione pubblica c’è una quota rilevante di nullafacenti». Tutti, tutti. Ecco, dopo gli articoli, un fiorire di messaggi al quotidiano di via Solferino, solidarietà e nuove denunce, incoraggiamenti e molte proposte. Pubblicati in appendice al volumetto, edito da Mondadori: «Ormai il sistema adottato dai nullafacenti è talmente sofisticato, che ora nemmeno alcuni si prendono la briga di timbrare...», «Nella scuola è molto radicata l’idea che sia normale che ogni insegnante faccia 30 giorni di malattia ogni anno...». Eccetera eccetera.

Furono giorni di grande celebrità, tra plauso e ostilità (compresa la contestazione alla presentazione del libro a Roma), per Pietro Ichino, che in realtà non ama la celebrità (rarissime le sue presenze televisive) ed è soprattutto studioso e ricercatore di grande rigore e di grande intelligenza, professor ordinario adesso di diritto del lavoro alla Statale di Milano (dove fu studente negli anni del Sessantotto), nel segno della coerenza con un obiettivo: la modernizzazione del sistema-lavoro nel sistema-Paese. Per un mercato del lavoro più agile (anche in senso liberista), più dinamico, che riconosca merito e impegno. Che non conceda insomma garanzie a vita e tutele d’acciaio anche ai nullafacenti. Traguardi ambiziosi, in una società stretta tra privilegi eterni, chiusure familistiche, mafie, camorre da una parte e dall’altra lavoro nero e sommerso, precariato a vita, evasione, in una società che per modernizzarsi veramente avrebbe bisogno di un welfare sostanzioso, soprattutto non immobile, che aiutasse il lavoro e non incentivasse il “parassitismo”.

Pubblicato il: 21.02.08
Modificato il: 21.02.08 alle ore 13.15   
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Titolo: Pietro Ichino. L’impegno del Pd
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2008, 05:39:03 pm
Ichino: contro il precariato un nuovo diritto del lavoro

Rianaldo Gianola


Le idee e le proposte di Pietro Ichino sul mondo del lavoro non passano mai inosservate. I suoi articoli e i suoi libri sono fonte di discussioni e polemiche. E non poteva passare sotto silenzio la sua scelta di candidarsi nel Partito democratico.

Appena è stata resa nota la tua candidatura nel Pd, la sinistra radicale ti ha attaccato come il teorico della precarietà, quello che ha l’ossessione dell’articolo 18, fino all’epiteto classico di "servo del padrone". Te l’aspettatevi?
«A me pare che l’ossessione dell’articolo 18 ce l’abbiano loro. La mia ossessione, se ne ho una, è diversa: è la preoccupazione per un diritto del lavoro che si applica soltanto a metà dei lavoratori dipendenti, lasciando fuori tutti gli altri».

I diritti attuali sono vecchi?
«Lo Statuto dei lavoratori del 1970 nella sua interezza, compreso l’articolo 18 e il titolo III sui diritti sindacali, si applica soltanto a 3,6 milioni di dipendenti pubblici e 5,8 milioni di dipendenti di aziende private sopra i 15. In tutto, circa 9 milioni e mezzo, su di una forza-lavoro di oltre 22. Restano fuori quasi altrettanti lavoratori in posizione di dipendenza: non solo quelli delle piccole imprese, ma anche i collaboratori autonomi, i lavoratori a progetto, gli irregolari. Questo dualismo, questo regime di apartheid è la grande ingiustizia del nostro sistema attuale di protezione. Poi ci sono gli esclusi totali».

Chi sono?
«Il nostro tasso di occupazione è di 10 punti inferiore rispetto a quello che potrebbe essere: se il mercato del lavoro funzionasse come quello britannico, avremmo 5 milioni di italiani in più al lavoro, soprattutto donne».

Il Pd che cosa propone per combattere questa carenza?
«Al primo posto nel programma c’è un’azione molto incisiva volta ad aumentare drasticamente il tasso di occupazione femminile, incrementando i servizi e agendo sulla leva fiscale. E poi la lotta alla piaga del precariato permanente».

Come?
«Il Pd è un grande partito laico, nel quale militano tanti giuslavoristi, sindacalisti, lavoratori, imprenditori, uniti su questo obiettivo e sull’assumere come punto di riferimento le migliori esperienze europee di flexicurity, ma con idee e proposte diverse sul come. Condurle a una sintesi operativa sarà l’impegno dei prossimi mesi. La novità rispetto alla vecchia sinistra, però, è che il dibattito su questo punto sarà laico, pragmatico, senza tabù, aperto al contributo delle scienze sociali».

Qual è la tua proposta.
«Un’intesa fra lavoratori e imprenditori: si abolisce la giungla dei contratti "atipici"; salvo il lavoro stagionale o puramente occasionale, tutti i nuovi rapporti si costituiscono con un contratto a tempo indeterminato, che prevede una protezione della stabilità crescente con il crescere dell’anzianità di servizio».

E l’articolo 18?
«Continua ad applicarsi, fin dall’inizio, per i licenziamenti disciplinari e contro quelli per motivo illecito, di discriminazione o di rappresaglia. Se invece il motivo è economico od organizzativo, la protezione del lavoratore è costituita da un congruo indennizzo commisurato all’anzianità e da un’assicurazione contro la disoccupazione di livello scandinavo, con contributo interamente a carico dell’azienda, secondo il criterio bonus/malus: l’imprenditore meno capace di praticare il manpower planning, a ogni licenziamento vede aumentare i costi aziendali».

Il direttore di Liberazione sostiene che, invece, superare il dualismo del mercato del lavoro si può estendendo l’art. 18 a tutta la forza lavoro esclusa.
«La grande maggioranza degli italiani, e del movimento sindacale, sa bene che questa ricetta è impraticabile.Oggi la metà non protetta dei lavoratori - dipendenti di piccole imprese appaltatrici o "terziste", co.co.co., lavoratori a progetto, "associati in partecipazione", false partite Iva, irregolari - porta sulle spalle tutta la flessibilità di cui il sistema ha bisogno; mentre nella metà protetta l’inamovibilità genera inefficienze gravi e anche posizioni di rendita inaccettabili. Il precariato permanente è l’altra faccia dell’inamovibilità dei "lavoratori regolari"».

La rinuncia a riformare il vecchio diritto del lavoro ci condanna al precariato?
«È così. Se accettiamo la politica dei tabù, rischiamo di allinearci al programma della destra: il p.d.l. Sacconi riconferma il dualismo, limitandosi a promettere agli "atipici" la garanzia dei diritti costituzionali di libertà, dignità e sicurezza: ma sarebbe una pura ripetizione dell’articolo 41 della Costituzione. Se vogliamo dare concretezza all’obiettivo della lotta al precariato permanente, dobbiamo discutere quale debba essere il nuovo equilibrio tra flessibilità e sicurezza nel nuovo contratto di lavoro; ma dobbiamo trovare un equilibrio che sia applicabile a tutti i nuovi contratti che si stipuleranno d’ora in poi».

Non ti pare che la difesa dell’art. 18 da parte di molti sia un’adesione ideale e morale a una stagione di alto valore, mentre oggi navighiamo nel vuoto?
«Per molti, a sinistra e a destra, l’articolo 18 rappresenta il valore della sicurezza e il benessere dei lavoratori. È un valore importantissimo: la civiltà di una nazione si misura dalla sicurezza e dal benessere che essa sa garantire ai propri membri più deboli. I problemi sono essenzialmente due. Il primo è quello che ho detto: il nostro diritto attuale, articolo 18 compreso, esclude metà dei lavoratori».

E il secondo?
«Impedire alle aziende gli aggiustamenti necessari, la possibilità di ristrutturarsi, di aprirsi rapidamente all’innovazione, finisce coll’indebolirle, riducendo la sicurezza di tutti i loro dipendenti. Guardiamo all’esperienza Alitalia, di cui si è impedita la ristrutturazione per tanti anni: forse che i suoi dipendenti oggi possono considerarsi sicuri?»

Il 14 aprile il Pd vince le elezioni. Da dove s’inizia?
«Occorre una iniziativa forte per far crescere stabilmente le retribuzioni: per questo è necessario, oltre allo sgravio fiscale a cominciare dai salari più bassi, aumentare la domanda di lavoro, imparando ad attirare in Italia il meglio dell’imprenditoria mondiale; il che significa anche aprire il sistema all’innovazione e dare più spazio alla contrattazione aziendale, sia sulla struttura delle retribuzioni, sia sull’organizzazione del lavoro. Solo dall’innovazione può derivare un aumento della produttività del lavoro, che è anch’esso indispensabile per una crescita stabile delle retribuzioni».

Negli ultimi anni ti sei impegnato anche nelle amministrazioni pubbliche. Perchè?
«Perchè è un punto centrale per il risanamento del Paese. Nelle amministrazioni occorre diffondere e radicare la cultura della trasparenza totale, della valutazione, della misurazione, anche per poter retribuire meglio chi lavora bene e sanzionare chi non fa il proprio dovere, incominciando dai dirigenti. E bandire in modo drastico le interferenze indebite dei politici. Su questo fronte sono impegnato con il presidente Marrazzo in un progetto operativo per la Regione Lazio».

Qual è il Paese a cui il Pd dovrebbe ispirare le politiche del welfare?
«Il programma indica la direzione di marcia della "migliore flexicurity europea". I buoni modelli sono tanti. E l’unico aspetto positivo dell’essere un Paese arretrato sta nella possibilità di bruciare le tappe sfruttando le esperienze migliori. In un mio libro del 1996 indicavo come il modello danese, dove i più deboli sono infinitamente più "sicuri" di quanto sarebbero in Italia. Da allora in molti, anche nella vecchia sinistra, hanno iniziato a studiare e apprezzare quel modello».

Gli studiosi come te sono bravissimi a denunciare le resistenze del mondo del lavoro, soprattutto sulle pagine del Corriere, ma assai più indulgenti quando bisogna indicare le responsabilità delle imprese. La Confindustria non è un cenacolo di anime belle...
«Non ho mai mancato di denunciare il conservatorismo dell’apparato confindustriale: per esempio sulla questione della struttura centralizzata della contrattazione collettiva. Oppure il silenzio degli imprenditori nella battaglia contro il dualismo del mercato del lavoro: solo in questi giorni, la Confindustria ha manifestato un’apertura sul "contratto unico" a stabilità progressiva. Ma il sistema di relazioni industriali è un gioco sistemico: i ritardi della Confindustria sono lo specchio dei ritardi del sindacato, e viceversa».

Sul Sole 24 Ore D’Alema, pur parlando bene di te, ha detto però che una cosa è fare lo studioso, altra il politico.
«La mia scommessa - che Veltroni ha accettato - è di riuscire a mantenere, pur nel ruolo di parlamentare, la stessa schiettezza e libertà di giudizio su cui si è costruita negli ultimi 25 anni la fiducia nei miei confronti di centinaia di migliaia di lettori e studenti. Conservare, anzi accrescere questa fiducia è comunque la cosa a cui tengo di più».

Vivi ancora sotto scorta?
«Sì, da sei anni. E la tensione creatasi intorno alla mia candidatura in questi giorni, per qualche uscita sconsiderata di esponenti della vecchia sinistra, al di là delle loro intenzioni, rende la scorta oggi più necessaria di prima».

Pubblicato il: 25.02.08
Modificato il: 25.02.08 alle ore 8.34   
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Titolo: PIETRO ICHINO. Lavoro bipartisan. Come favorire la svolta.
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2008, 07:10:20 pm
Lavoro bipartisan

Come favorire la svolta

di PIETRO ICHINO


Direttore,
devo una risposta all'editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere di ieri, ai numerosi articoli comparsi su altri giornali nei giorni scorsi, alle centinaia di messaggi che mi sono pervenuti, dopo la mia risposta negativa alla proposta di Silvio Berlusconi di assumere la carica di ministro del Lavoro nel suo governo. In questi messaggi di amici e sostenitori, circa due terzi esprimono pieno consenso (in qualche caso con motivazioni che non condivido, perché venate di manicheismo politico). Gli altri esprimono dissenso e talvolta anche delusione. È soprattutto a questi ultimi che voglio rispondere. Qualcuno mi ha ricordato la scelta compiuta nel 2001da Marco Biagi, socialista, di collaborare con il governo di centrodestra proprio per superare le vecchie, sterili contrapposizioni ideologiche sulle politiche del lavoro. Ma Marco non aveva partecipato alla fondazione del partito opposto, non si era impegnato nella costruzione della sua cultura e politica del lavoro, non era stato eletto nelle sue liste. E il suo ruolo è stato di consulente del ministro.

È vero — e va detto chiaramente— che Silvio Berlusconi non mi ha prospettato affatto di «tradire» il mio partito e i miei elettori. Ciò che egli mi ha proposto è invece di farmi garante, nella veste di membro del nuovo esecutivo, di un accordo tra maggioranza e opposizione sulla politica del lavoro di questa nuova legislatura: accordo, certo, auspicabile, considerati i difetti gravissimi di funzionamento del nostro mercato del lavoro. Il problema è che, prima di una nuova politica del lavoro bipartisan — esperimento possibile, ma inedito nel panorama internazionale — logica vorrebbe che si incominciasse con lo sperimentare l'accordo sul terreno su cui solitamente maggioranza e opposizione cooperano nelle democrazie più mature della nostra: che venissero dunque negoziate almeno le linee delle riforme istituzionali più urgenti, in particolare di quella elettorale; che si instaurasse un rapporto di cooperazione responsabile sul terreno della politica europea, incominciando dalla scelta del commissario italiano a Bruxelles; e sul terreno della politica estera.

Se maggioranza e opposizione non sono capaci di un accordo su queste materie fondamentali, come può reggere per un'intera legislatura un accordo limitato alla politica del lavoro? Per far parte utilmente e stabilmente di un governo non basta essere d'accordo con il premier e con gli altri ministri sul solo programma del proprio dicastero. Occorre anche condividere con loro, quanto meno, la visione generale della direzione in cui muoversi e la parte dei programmi degli altri dicasteri che più direttamente si intreccia con quello di propria competenza: oltre alla politica relativa alle riforme istituzionali, anche la politica indu-striale, quella fiscale, quella relativa alle amministrazioni pubbliche e altre ancora. Senza accordo su questi temi, un programma bipartisan sulla politica del lavoro avrebbe ben poco respiro politico. Per fare soltanto due esempi, come ministro di un governo Berlusconi sarei in grave difficoltà a condividerne la linea di protezione dell'«italianità » di Alitalia (come di altre grandi imprese) che invece da tempo denuncio come pesantemente negativa; e sarei in grave imbarazzo — dopo aver presentato agli elettori con convinzione le proposte del Pd di forte incentivazione del lavoro femminile — nel dover approvare scelte della maggioranza che mi sembrano ispirate a una concezione molto diversa, quale quella sul «coefficiente fiscale familiare».

Se su queste materie non c'è un'intesa piena, l'entrare nella compagine di governo può soltanto dar luogo a situazioni imbarazzanti per tutti. Per questo, pur apprezzando molto il significato positivo della proposta che mi è stata rivolta, mi sembra di poter essere più utile al Paese continuando a dare il mio contributo alla politica del lavoro del Pd, nel contempo incalzando la maggioranza su questo terreno e lavorando per un'intesa sui singoli punti su cui questa risulterà possibile. Nulla impedirà che tra maggioranza e opposizione si attivi — in modo trasparente e nel rispetto dei rispettivi ruoli — una cooperazione in iniziative legislative o amministrative incisive per il migliore funzionamento del mercato del lavoro, per aumentare la produttività e le retribuzioni, per contrastare efficacemente le disuguaglianze crescenti tra lavoratori forti e deboli e tra protetti e non protetti, per favorire e indirizzare l'autoriforma del sistema delle relazioni sindacali, per ridare efficienza e prestigio al lavoro nelle amministrazioni pubbliche e combattere gli sprechi enormi che oggi si osservano in questo settore. Se su queste materie la maggioranza è disponibile a un'elaborazione e un'iniziativa comuni con l'opposizione, le cose di buon senso che si possono fare insieme sono davvero molte. Facciamole.


27 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Pietro Ichino. L’impegno del Pd
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2008, 11:11:01 pm
L’impegno del Pd

Pietro Ichino


Giovedì prossimo l’assemblea degli industriali insedierà alla presidenza di Confindustria Emma Marcegaglia. Poco dopo si avvierà il negoziato con Cgil, Cisl e Uil per la riforma della rappresentanza sindacale e della struttura della contrattazione collettiva. Le tre confederazioni proporranno come base di discussione il documento sul quale hanno raggiunto l’accordo nei giorni scorsi e che sarà discusso nei luoghi di lavoro nei giorni prossimi.

Sul primo punto, nuove regole per una misurazione precisa della rappresentatività di ciascuna organizzazione; sul secondo, più spazio alla contrattazione aziendale, per far crescere i salari legandone una parte maggiore ai risultati. Confindustria si presenterà alla trattativa proponendo uno spostamento ancora più deciso del baricentro della contrattazione verso le aziende.

La nuova presidente degli industriali cercherà comunque, con la determinazione che la contraddistingue, un accordo innovativo. Uno dei suoi primi atti, per sottolineare l’urgenza della riforma, potrebbe essere un preavviso di disdetta del protocollo del luglio 1993, che già oggi è largamente disapplicato: un preavviso che è stato peraltro ventilato nei mesi scorsi anche da qualche dirigente di Cisl e Uil. Ma la trattativa non sarà facile, perché sul versante confindustriale c’è chi a un accordo poco incisivo preferisce il non accordo; e sul versante sindacale c’è chi, simmetricamente, preferisce quest’ultima ipotesi a quella di un accordo che sposti troppo il baricentro della contrattazione verso la periferia. Chi invece, da una parte e dall’altra, vuole il rilancio del sistema delle relazioni sindacali sta studiando le soluzioni possibili perché il difficile punto di intesa possa essere raggiunto.

Nel frattempo, il nuovo Governo emanerà probabilmente il decreto sulla detassazione della parte variabile delle retribuzioni. Se la riduzione dell’Irpef sugli straordinari lascerà uno spazio adeguato alla riduzione sui premi aziendali, questo allargherà le prospettive di un accordo interconfederale; altrimenti, se prevarrà nettamente la detassazione degli straordinari, indipendentemente dalla contrattazione, l’effetto sarà presumibilmente quello opposto. Dalla scelta dell’equilibrio tra le due voci si vedrà il ruolo che il Governo stesso intende giocare nella partita.

Un ruolo di grande rilievo, su questa materia, può però giocarlo anche l’opposizione, cui competerà di confrontarsi in Parlamento con la maggioranza sulla conversione in legge del decreto. Pur nella sua inferiorità numerica, sul terreno delle politiche del lavoro l’opposizione ha rispetto alla maggioranza un vantaggio strutturale, che nasce da una scelta compiuta fin dall’inizio della campagna elettorale: nella sua compagine parlamentare essa annovera numerosi esponenti molto qualificati sia degli imprenditori dell’industria, del terziario e del settore artigiano, sia delle confederazioni sindacali maggiori. Se il Governo-ombra saprà elaborare una soluzione innovativa e condivisa da entrambe queste componenti sui contenuti precisi delle misure legislative che sono all’ordine del giorno, coerente con i contenuti di un accordo interconfederale realisticamente perseguibile, questa proposta avrà un peso rilevantissimo nella partita politico-sindacale che sta per aprirsi: la linea proposta dal Governo-ombra offrirà, infatti, una solida sponda a tutti coloro che cercano il successo della trattativa, sia in seno alle associazioni imprenditoriali, sia in seno alle confederazioni sindacali, indicando un equilibrio credibilmente a portata di mano. E a quel punto il ministro del Welfare difficilmente potrà esimersi dal fare anch’egli riferimento all’equilibrio proposto dall’opposizione.

Qualcuno obietterà che un sistema di relazioni sindacali degno di questo nome deve essere in grado di funzionare, cioè di produrre accordi, indipendentemente dalla dialettica tra le forze politiche. È vero. Oggi, però, il nostro sistema di relazioni sindacali è in grave affanno. La politica può, legittimamente, stare alla finestra, indifferente agli esiti di questa crisi; può addirittura operare per un suo aggravamento ulteriore; oppure può operare per favorire l’autoriforma del sistema di relazioni sindacali e l’avvio di una sua nuova stagione positiva. Quest’ultima è, in modo molto netto, la scelta del PD. Quale sia, su questo terreno, la scelta del quarto Governo Berlusconi, e del suo ministro del Welfare in particolare, lo sapremo nei prossimi giorni.

Pubblicato il: 18.05.08
Modificato il: 18.05.08 alle ore 15.01   
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Titolo: PIETRO ICHINO. Illogico usare la cassa integrazione con chi rifiuta un vero ...
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2008, 07:28:11 pm
Illogico usare la cassa integrazione con chi rifiuta un vero negoziato

di PIETRO ICHINO


Caro Direttore, l'applauso dei piloti e degli assitenti di volo, a iumicino, alla notizia della rottura della trattativa con la nuova compagnia Cai, col conseguente probabile fallimento di Alitalia, non è «un episodio paradossale», come qualcuno ha detto: in realtà lo si può spiegare facilmente.

Quelli che hanno applaudito fanno conto sull'intervento di una Cassa integrazione guadagni o su di un trattamento di disoccupazione speciale erogato proprio per consentire loro di attendere con calma il nuovo lavoro. Qualcuno dovrà pure, prima o poi, far volare gli aerei sulle nostre rotte al posto di Alitalia; e piloti e personale di volo non si sostituiscono così facilmente. Logico? No, per nulla. Perché in nessun Paese serio si erogano trattamenti di disoccupazione o integrazione salariale, neppure per pochi mesi, a chi rifiuta l'offerta di un rapporto di lavoro regolare, confacente alla sua professionalità, come certamente era l'offerta di Cai.

Se anche in Italia sapessimo gestire in modo serio questi «ammortizzatori sociali», a Fiumicino giovedì scorso non ci sarebbe stato alcun applauso; e probabilmente la trattativa non sarebbe stata rotta, perché il rifiuto dell'offerta Cai avrebbe precluso il godimento delle misure di sostegno. Chiediamoci: quanto ci costa e ci è costata, anche in passato, questa incapacità di gestione appropriata del sostegno del reddito dei disoccupati? Questo è solo uno dei nodi cruciali del funzionamento del nostro ordinamento del lavoro e del nostro sistema di relazioni industriali che la crisi Alitalia ha fatto venire al pettine, addirittura portandolo sul teleschermo in prima serata. E fornendoci così un'occasione unica di riflessione pubblica di massa su questi temi. Nei giorni precedenti, si era vista la Cgil subordinare la propria firma dell'accordo alla firma dei sindacati autonomi. Se non sono d'accordo tutti e nove i sindacati operanti in azienda, non se ne fa nulla. È il principio non scritto che regola le relazioni industriali nella maggior parte dei settori dei nostri servizi pubblici, dove anche il sindacato più piccolo può esercitare un diritto di veto, proclamando uno sciopero ben congegnato, capace di bloccare l'intera azienda e talvolta intere parti del Paese.

L'applicazione di fatto di questo principio, nei decenni passati, ha svenato le confederazioni maggiori nel settore dei servizi pubblici, consentendo ai sindacati autonomi di ridicolizzare, paralizzandoli, gli accordi più importanti e impegnativi che esse avevano stipulato per ridare efficienza ed economicità alle aziende. Occorrono invece regole chiare sulla misurazione della rappresentanza nei luoghi di lavoro, che favoriscano il pluralismo sindacale, cioè il confronto aperto fra visioni diverse, ma non la frammentazione. E che, come in quasi tutti i maggiori Paesi europei, consentano ai lavoratori di scegliere a maggioranza la coalizione sindacale legittimata a proclamare uno sciopero e quella legittimata a negoziare con efficacia estesa a tutti i dipendenti dell'azienda. Che fine ha fatto questo tema della riforma della rappresentanza nella grande trattativa in corso tra Confindustria e sindacati? Un altro nodo che è venuto al pettine nella crisi Alitalia è l'incapacità totale del sindacato di operare come intelligenza collettiva che consente ai lavoratori di valutare i piani industriali disponibili, l'affidabilità di chi li propone, e scegliere il migliore tra quelli realisticamente praticabili.

Questa incapacità ha portato la Cisl, nel marzo scorso, a guidare il fronte del «no» pregiudiziale alla proposta Air France-KLM («no» cui si è improvvidamente associato Berlusconi), salvo poi passare a guidare il fronte del «sì» alla proposta di una compagnia incomparabilmente più debole sotto tutti i punti di vista, e che offre condizioni di lavoro per diversi aspetti meno vantaggiose. Il collettivo dei lavoratori Alitalia avrebbe dovuto porsi in grado di scegliere il meglio dell'imprenditoria mondiale in questo settore; ma questo non è possibile quando il leader sindacale che guida le danze, Raffaele Bonanni, dichiara come criterio di preferenza decisivo che dall'altra parte del tavolo ci siano imprenditori «che parlano italiano»!

Lo stesso può dirsi dell'altro leader sindacale maggiore quando egli chiede a gran voce una «trattativa vera», chiarendo che tale non può considerarsi una trattativa che dura soltanto quattro giorni o una settimana. «Trattativa vera», dunque, sono soltanto i vetusti riti nostrani delle defatiganti negoziazioni notturne che durano mesi? Epifani dovrebbe sapere, ormai, che quei riti nulla hanno a che vedere con i tempi dell'economia attuale, con i modi nei quali comunemente si tratta e si decide un investimento nella grande platea globale. Finché questa sarà la nostra cultura sindacale dominante, sarà più difficile per l'Italia guadagnare posizioni nella graduatoria dei Paesi d'Europa più capaci di intercettare gli investimenti nel mercato globale: una graduatoria che la vede oggi fanalino di coda.


21 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: E D'Alema rincuora la cordata...
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2008, 10:24:04 am
22/9/2008 (7:23) - ALITALIA

E D'Alema rincuora la cordata
 
Tra i soci c’è chi vi legge il segnale della svolta tanto attesa


ROBERTO GIOVANNINI


ROMA
«Hai letto, hai letto D’Alema sul Sole?». È cominciata così la domenica mattina di diversi imprenditori della cordata riunita nella Compagnia Aerea Italiana. Tutti o quasi hanno interpretato l’intervista rilasciata dall’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema al quotidiano della Confindustria come la svolta tanto attesa. «Non abbiamo mai lavorato per lo sfascio», diceva D’Alema confermando la «fiducia nelle capacità di Roberto Colaninno» e l’auspicio che la cordata e i sindacati possano «recuperare i fili del confronto». «È il segno - rifletteva un esponente della Cai che ricordava anche le prese di posizioni di Ichino, Enrico Letta e Bersani - che Veltroni ed Epifani sono tagliati fuori, che nel Pd si rafforza il partito del dialogo anche su giustizia e riforme». Insomma, anche se ieri sono andati avanti semplici contatti telefonici, c’è la convinzione che la situazione sia matura per una Canossa della Cgil, magari con un primo segnale di disponibilità cui seguirebbe un comunicato della Cai che - si sussurra - addirittura sarebbe già pronto. Anche nel governo si giura che un «piano B» per Alitalia non esiste. C’è la cordata, e solo il progetto della cordata Colaninno, che non può essere mediato o corretto. Oppure il fallimento. Al ministero del Welfare di Maurizio Sacconi spiegano che non è nemmeno un caso se da parte dell’Esecutivo si sia smesso in queste ore di assestare bastonate a Guglielmo Epifani e alla Cgil. La Cgil deve accettare senza condizioni e aggiustamenti il piano Colanninno, perché non si può accettare che Cisl-Uil-Ugl vengano spiazzate; e i piloti, beh, con i piloti si vedrà. Magari anche loro come la Cgil dovranno tornare al tavolo per firmare con - così si è espresso un autorevole ministro - «le mutande in mano».

Se non che, a sentire i «cattivi» piloti dell’Anpac nulla è cambiato: nella quotidiana newsletter spedita per mail agli associati, il comandante e leader Anpac Fabio Berti ribadisce che nonostante le «enormi pressioni» ricevute la linea non cambia. Stessa musica in casa Cgil: a Corso d’Italia si fa notare che l’intervista di D’Alema - semmai - è perfettamente in linea con le ultime prese di posizione di Epifani sulla necessità di cercare un compratore estero. «Se fossi nel commissario (straordinario Alitalia Fantozzi, ndr) - afferma D’Alema - telefonerei a qualcuno del ramo. Non penso che alle stesse condizioni di Cai siano pochi i possibili compratori». Fatto sta che ieri il commissario Augusto Fantozzi ha formalmente attivato la procedura per sollecitare possibili manifestazioni d’interesse.

I collaboratori di Fantozzi puntualizzano che certo, finora né Lufthansa né British Airways o Air France-Klm hanno dichiarato di volersi muovere, ma che «il Commissario deve fare il proprio dovere, di cui risponde in prima persona di fronte alla legge». Ovvero, anche se Palazzo Chigi come noto preferisce il fallimento alla vendita «allo straniero», il messaggio di Fantozzi al premier è che lui in galera (come minacciato da un certo Di Pietro) non ci vuol finire. E se arriverà - per iscritto - un’offerta da Lufthansa (in pole position, dicono tutti i bene informati) o dai Jean-Cyril Spinetta, il commissario venderà.

da lastampa.it


Titolo: Pietro ICHINO
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2008, 10:13:39 pm
La casta teme la trasparenza

di Emiliano Fittipaldi

Un ordine del giorno per rendere pubblici soldi e beni dei senatori.

Presentato da Ichino e accolto da Schifani.

Ma subito bloccato. Colloquio con Pietro



Lo stipendio da parlamentare che riceve è di 12.496 euro al mese. I contributi mensili versati al Partito democratico superano di poco i 3.500 euro. Il collaboratore (contratto part-time) gli costa 1.200 euro, per l'affitto a Roma e altre uscite varie escono dal suo portafogli, "facendo molta attenzione", 1.600 euro mensili. Nel 2007 il reddito, sommando quello da professore con le attività dello studio, era di 496 mila euro lordi. Eletto alla Camera, teme che il suo reddito possa subire un brusco calo.

Pietro Ichino, ordinario all'Università di Milano e deputato democrat, è stato di parola: tifoso della trasparenza 'senza se e senza ma', sul suo sito Internet fa sfoggio di coerenza elencando nel dettaglio entrate e uscite del suo budget, senza dimenticare case e interessi vari. Un appartamento a Milano in comproprietà della moglie ("Ci vive anche mia figlia minore" tiene a chiosare), uno a Courmayeur ("Piccolo"), un altro a Forte dei Marmi (con mansarda).

Ichino è preciso, quasi pignolo: "Ho una Renault Espace del 2001 e una Fiat Panda del 2007, intestata a mia moglie. Non posseggo invece né aerei né barche". Ci crede talmente tanto, nella trasparenza, che uno dei suoi primi atti è stato quello di presentare un ordine del giorno per mettere on line i beni e gli interessi dei colleghi. Un appello alla trasparenza rimasto, per ora, lettera morta.

Prima ancora del caso di Renato Brunetta, che ha invocato la privacy sulle sue proprietà immobiliari, lei aveva presentato una proposta. In cosa consiste?
"Testualmente il documento dice che il Senato, considerata la necessità di rendere noti i dati patrimoniali nonché gli interessi economici e finanziari degli eletti, 'impegna il Collegio dei questori a pubblicare su Internet in formati standard, liberi e aperti (ad esempio XML), le dichiarazioni dei senatori circa la situazione patrimoniale, immobiliare e mobiliare propria, di cui all'articolo 2 della legge 5 luglio 1982'".


Perché ha presentato una proposta di questo tipo?
"C'era stata pochi giorni prima una sollecitazione di Tito Boeri. E stava partendo un'iniziativa dei radicali. In quel periodo, inoltre, il Senato discute del bilancio e della propria auto-amministrazione. Il momento era propizio".

L'ordine del giorno è stato approvato?
"Non è stato messo ai voti perché, con una piccola modifica, è stato direttamente accolto dalla presidenza del Senato. In altre parole, Renato Schifani ha preso l'impegno di fare quanto era indicato nel documento".

Perché secondo lei è così importante pubblicare le informazioni sensibili dei parlamentari su Internet?
"Quando venne emanata la legge del 1982 citata in quell'ordine del giorno, Internet non esisteva ancora. Oggi, l'accessibilità dei dati implica che essi siano disponibili in Rete".

Dunque le informazioni sono già pubbliche?

"La legge prevede la pubblicazione congiunta, da parte di Camera e Senato, mediante un bollettino cartaceo. In pratica, occorre recarsi presso un ufficio del Parlamento e chiedere di leggere i tabulati. È una forma di pubblicità molto rudimentale, poco accessibile e dunque totalmente inefficace".

Cosa succede negli altri paesi?

"In Svezia e in Gran Bretagna, che hanno introdotto per prime il principio della 'total disclosure', cioè della trasparenza totale, tutti i dati sono disponibili on line. Sono gli Stati che il Pd ha preso a modello per il proprio disegno di legge sulla trasparenza e valutazione nelle amministrazioni pubbliche. E proprio il Senato ha approvato, due settimane fa, un disegno di legge che recepisce questo principio".

Sarà, ma la tutela della privacy resta sacra.
"Non c'è dubbio che le nostre amministrazioni pubbliche siano tra le più opache dell'Occidente. E neppure i politici, in generale, amano molto la trasparenza".

Perché in Italia il principio della privacy resta prioritario anche in politica?
"La trasparenza della cosa pubblica e di chi vi si dedica è uno degli elementi essenziali di qualsiasi democrazia. Diciamo che la nostra democrazia è un po' indietro rispetto alle altre maggiori".

La trasparenza potrebbe limitare possibili conflitti d'interessi?
"Certo che sì! La visibilità del patrimonio mobiliare e immobiliare di ciascun parlamentare non potrà mettere a nudo tutti i suoi interessi personali privati, ma ne rivelerà sicuramente una buona parte".

In molti obiettano che il conflitto di interessi di Silvio Berlusconi rende ridicoli gli altri.
"Se guardiamo alle dimensioni del suo patrimonio, certo, quello della maggior parte degli altri parlamentari appare minuscolo. Ma degli interessi personali di Berlusconi sappiamo quasi tutto: paradossalmente sono più trasparenti di quelli di tanti oscuri peones. Eppure anche questi, ogni giorno, soprattutto nel lavoro nelle commissioni, possono influire in modo decisivo su tante decisioni, grandi e piccole".

Sono passati quattro mesi, ma l'ordine del giorno è rimasto soltanto sulla carta. Come mai?
"Ne ho chiesto conto all'ufficio dei questori: mi hanno risposto che la pubblicazione on line è impossibile, perché la legge dispone la pubblicazione congiunta per i senatori e i deputati. E mi hanno detto che la Camera non è vincolata da quell'ordine".

Ma la presidenza del Senato non potrebbe muoversi in maniera autonoma?
"Non vedo che cosa le impedisca di incominciare con l'adempiere l'impegno che ha assunto, mettendo sul sito del Senato i dati relativi ai senatori. Nessuno glielo vieta".

Forse la sua proposta non è stata molto apprezzata dai colleghi di maggioranza e opposizione...
"Qualcuno l'ha presa con simpatia, altri sono più scettici. Credo che quelli che non gradiscono l'iniziativa non si siano espressi affatto".

Non è che anche i parlamentari del Pd preferirebbero non mettere in piazza i propri interessi?
"Non ho motivo per pensarlo".

Se Schifani non prenderà posizione, come intende portare avanti il progetto?
"Per quel che mi riguarda, dal luglio scorso ho messo on line i redditi degli ultimi due anni e le mie proprietà. Chiunque può esaminarli sul mio sito www.pietroichino.it, sezione 'Rendiconti'. Forse la stampa potrebbe sollecitare ogni parlamentare a fare la stessa cosa. In questi giorni, poi, tornerò alla carica con la presidenza per chiedere conto dell'impegno assunto a luglio. Ora c'è di mezzo anche una questione di coerenza".

In che senso?
"Visto che abbiamo varato pochi giorni fa, in commissione Affari costituzionali, un disegno di legge che introduce il principio della trasparenza totale delle amministrazioni pubbliche, sarebbe curioso che il Senato approvasse questo principio a carico degli altri comparti dello Stato ma rifiutasse ad applicarlo a se stesso".

(27 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: PIETRO ICHINO
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2009, 05:43:16 pm
10/2/2009
 
Non nominare Dio invano
 
PIETRO ICHINO*
 

Vorrei distinguere la parte che svolgo nella mia veste di politico e quella che svolgo come credente. Non perché questo mi conduca a due conclusioni diverse, ma perché mi sembra necessario sottolineare una distinzione tra i due piani del discorso, che troppo sovente è ignorata o trascurata.

Nella veste di membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, chiamato a stabilire quale sia il confine tra vita meramente biologica e vita umana, tra stato vegetativo reversibile e irreversibile, ritengo che la legge debba limitarsi a definire il confine al di qua del quale c’è sicuramente vita umana da difendere con ogni mezzo, e il diverso confine al di là del quale il corpo umano può e deve essere considerato a tutti gli effetti morto. Questi sono i soli certi fines, i confini sicuri, che un ordinamento civile può e deve porre. Ed essi non sempre coincidono tra loro. Dico che non coincidono perché tra di essi talvolta si presenta una sorta di zona grigia, una zona di ragionevole opinabilità – corrispondente a quella che gli anglosassoni chiamano band of reasonableness delle opzioni possibili – dove possono verificarsi un’infinità di situazioni-limite particolari la cui qualificazione è controvertibile. Qui, a ogni cittadino deve essere consentito, con l’assistenza del medico o di altro consigliere qualificato di sua scelta, agire secondo la propria coscienza.

Per quel che mi riguarda, in una situazione nella quale, come nel caso di Eluana Englaro, fosse ragionevole ritenere irreversibile la mia totale perdita di coscienza, cioè ritenere il mio corpo di fatto condannato a una vita puramente vegetativa, privato irreversibilmente di mente e coscienza, sentirei gravemente lesa la dignità della mia persona se quel corpo venisse mantenuto in vita per lungo tempo, ancorché nel modo più amorevole e rispettoso. Penso che questo senso di ribellione all’idea di una prolungata permanenza forzata in vita del proprio corpo privato per sempre della coscienza sia condivisa dalla grande maggioranza dei miei concittadini. Per questo ritengo che un legislatore laico, fissati i confini della zona di ragionevole opinabilità, debba riconoscere ai familiari di chiunque si trovi in una situazione di questo genere la libertà di scegliere secondo coscienza: di scegliere, cioè, se continuare o no ad alimentare una vita che può essere altrettanto ragionevole ritenere ancora vita umana, quanto non ritenerla più tale. (...).

Detto questo, e parlo ancora come membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, rispetto e difendo il diritto di chiunque, nel nostro Paese, quindi anche dei vescovi e in generale del Magistero ecclesiastico cattolico, come degli esponenti di ogni altra chiesa o comunità religiosa, di esprimere liberamente la propria opinione sul discrimine tra vita e morte, tra vita biologica e vita umana, e anche su che cosa la legge dovrebbe stabilire al riguardo: dissento dunque recisamente da chi vede negli interventi delle Autorità religiose sul terreno politico-legislativo una ingerenza indebita o comunque una scorrettezza.

È come cristiano – forse sarebbe meglio dire: come persona impegnata a coltivare intensamente il patrimonio plurimillenario della tradizione biblica –, è in questa veste che mi rammarico di interventi del tipo di quelli che la Chiesa cattolica con frequenza compie su ciò che questo Parlamento deve o non deve fare. E mi rammarico dell’atteggiamento – che non esito a definire clericale, nel senso peggiore del termine - di un Governo che a questi interventi assoggetta programmaticamente e sistematicamente il proprio agire; incurante, oltretutto, del fatto che della nostra tradizione biblica non è depositaria soltanto la Chiesa cattolica, ma anche altre, come quelle protestanti e in particolare quella valdese; ne è depositaria pure, e da molto prima, la Comunità ebraica. E tutte queste, dalle Scritture, traggono insegnamenti di etica politica talora profondamente diversi rispetto alla Chiesa cattolica.

In consonanza con tanta parte di questa grande comunità di persone che nella tradizione biblica cercano il senso della propria vita, penso che la testimonianza di una Chiesa cristiana non debba mai consistere nell’indicare la soluzione giuridico-legislativa specifica da preferire, né tanto meno le concrete modalità dell’impegno politico; penso che essa invece debba educare i cristiani all’esercizio responsabile della loro coscienza, lasciando che proprio quest’ultima - la coscienza - resti il punto di riferimento fondamentale per ciascuno di loro nelle scelte politiche, giuridiche, tecniche. Pietro Scoppola amava citare, a questo proposito, un’affermazione del Concilio Lateranense IV del 1215: «Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad Gehennam» («qualsiasi cosa che si faccia contro la propria coscienza prepara all’Inferno»). Ultimamente, la Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II ha detto, con altre parole, la stessa cosa (§ 16): «L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio». Nelle materie che vanno «rese a Cesare» (Mt., XXII, 21) – e tra queste vi è certamente la materia della legislazione civile - le scelte operative devono esprimere i valori in cui crediamo attraverso la mediazione della coscienza di ciascuno di noi.

«Rendere a Cesare quel che è di Cesare» significa rispettare la laicità dello Stato, della sua politica, della sua legislazione. Questa laicità è sostanzialmente il metodo che consente a tutte le persone di buona volontà di trovare un terreno comune sul quale mettere in comunicazione le loro coscienze, ispirate a fedi e filosofie anche molto diverse, per cooperare nella ricerca delle soluzioni tecniche, politiche, legislative migliori per il bene del Paese. Quel terreno comune viene meno se c’è qualcuno che su di esso (cioè in quello spazio che il Vangelo ci invita a «rendere a Cesare»), si presenta con la verità in tasca, già bell’e confezionata, certificata con il sigillo della conformità alla volontà di Dio. Con gli occhi di chi legge la Bibbia, vedo in questa pretesa una violazione del secondo Comandamento: «Non nominare il nome di Dio invano».

Per concludere, chiedo alla Chiesa di affermare con forza il valore della vita; ma di rendere alla scienza ciò che le è proprio. Lasciare, cioè ai neurologi la valutazione tecnica circa l’irreversibilità della scomparsa di una componente essenziale della vita umana: la mente, la coscienza; lasciare, più in generale, ai medici la scelta del modo concretamente più umano e caritatevole di trattare, nella loro infinita varietà, i casi in cui si determina questa scomparsa irreversibile. È compito della Chiesa continuare a educare con rigore e passione le persone ai valori evangelici; ma essa deve lasciare loro – e in particolare a quelle che sono impegnate negli organi legislativi e amministrativi dello Stato – la libertà di compiere secondo coscienza le scelte proprie della funzione civile o professionale che esse svolgono, confrontandosi in proposito con le persone di fede diversa senza la pretesa di possedere in quel campo una verità rivelata, direttamente attinta dalla volontà divina. Anzi, credo che la Chiesa debba vegliare a che nessuno avanzi questa pretesa, nessuno violi il secondo Comandamento.

Al Governo e al Parlamento chiedo di riconoscere e proteggere, come impone la Costituzione, nella zona tra i due confini - della certezza di vita umana da una parte, della certezza di morte dall’altra -, quella band of reasonableness delle opzioni possibili, all’interno della quale ogni cittadino, cristiano o no, deve poter decidere e agire secondo la propria coscienza.


* L’intervento che il senatore del Pd avrebbe tenuto ieri sera a Palazzo Madama se la seduta non fosse stata sospesa
 
da lastampa.it


Titolo: ICHINO:
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2009, 03:46:42 pm
26/2/2009 (7:15) - INTERVISTA

Ichino: "Non è contro i sindacati Anche il Pd può votarlo"
 
Il giuslavorista: negli altri Paesi le regole ci sono già

SUSANNA MARZOLLA
MILANO


Un testo dal titolo inequivocabile, «Disegno di legge sullo sciopero virtuale», giace al Senato già da quattro mesi, esattamente dal 30 ottobre dell’anno scorso. Quattro articoli preceduti da una relazione in cui si spiega che «per sciopero virtuale si intende la forma di agitazione collettiva proclamata al fine di esercitare pressione sulla controparte imprenditoriale in modo diretto, incidendo immediatamente sul suo bilancio, senza recare pregiudizio agli utenti o alla collettività». Un altro testo, «Disegno di legge sullo sciopero dei trasporti pubblici», parte con questa premessa: «In questo settore chiave solo nuove regole di democrazia sindacale possono riportare il conflitto alla sua funzione economico-sociale originaria». Per diverso tempo è stato solo una bozza di lavoro. Fino a ieri, quando Pietro Ichino, senatore del Pd e noto giuslavorista lo ha presentato alla Presidenza del Senato; quasi in contemporanea con l’elaborato del governo.

Sembra proprio la premessa di una norma “bipartisan”. Senatore Ichino, ritiene che la bozza del governo rispecchi quanto già contenuto nelle sue proposte?
«Per gran parte sì, sia sullo sciopero virtuale che, oltre alla mia, ha come prime firme quelle di Treu, Morando, Bianco; sia sullo sciopero (tradizionale) nel settore dei trasporti. Quest'ultimo disegno di legge lo abbiamo discusso nel novembre scorso con i sindacati, con le imprese e con i rappresentanti degli utenti. Entrambi sono disponibili sul mio sito (www.pietroichino.it) già da diversi mesi e quindi possono essere oggetto di confronto con quanto elaborato dal governo».

Quali sono, a suo parere, le principali differenze?
«La prima, per quel che riguarda lo sciopero virtuale, è che noi lo consideriamo sempre come strumento aggiuntivo e facoltativo rispetto allo sciopero tradizionale: mai come sostitutivo. Il governo, invece, ne fa in alcuni casi la sola forma di lotta sindacale possibile».

E per lo sciopero nei trasporti?
«La bozza del governo contiene anche l'obbligo per i lavoratori di comunicare preventivamente l'adesione allo sciopero, che il nostro progetto non contiene».

Ma il provvedimento potrebbe essere votato anche dal Partito democratico
«Su entrambe le materie - sciopero virtuale e sciopero nei trasporti - si sta aprendo un tavolo di negoziazione tra sindacati e imprenditori; se da quella trattativa verrà fuori un buon accordo, come mi sembra senz'altro possibile, su quella base sarà facile realizzare una convergenza parlamentare anche tra maggioranza e opposizione».

Ci sono però alcune modifiche che pensa saranno necessarie?
«Tutte quelle che saranno suggerite, appunto, dagli accordi che si troveranno al tavolo tra le parti sociali»

C’è però chi - esponenti di Rifondazione comunista, dei sindacati di base - ritiene la bozza un puro attacco al diritto di sciopero. Che cosa risponde?
«Rispondo che in Italia, in quasi tutti i comparti del settore dei trasporti pubblici, la frequenza media degli scioperi da decenni è superiore a uno al mese. Questo non accade in alcun altro Paese europeo. E questa non è lotta sindacale: è diventata una caricatura grottesca del sindacalismo. D'altra parte, in tutti i maggiori Paesi europei, tranne la Francia, sono in vigore da anni regole simili a quelle contenute nel disegno di legge che abbiamo presentato oggi. Forse il Prc sostiene che sono tutti Paesi dove il sindacato e i lavoratori sono conculcati?».

Pensa che a questo punto i sindacati di base si adegueranno o ci saranno ancora i cosiddetti “scioperi selvaggi”?
«Se il sistema delle sanzioni sarà applicato con il dovuto rigore, dovranno adeguarsi».

da lastampa.it


Titolo: Pietro ICHINO. -
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2009, 03:52:45 pm
NOTE TECNICHE SULL'ACCORDO INTERCONFEDERALE DEL 22 GENNAIO

di Pietro Ichino* 30.01.2009


Il motivo principale per cui la Cgil ha rifiutato l’accordo sulla riforma della contrattazione collettiva è la prospettiva che nei futuri rinnovi nazionali esso produca una riduzione degli adeguamenti retributivi rispetto all’inflazione. Cisl, Uil, Ugl e Confindustria, che lo hanno firmato, negano invece questa prospettiva. Cerchiamo di capire come stanno realmente le cose.
Occorre considerare, innanzitutto, che il nuovo accordo prevede esplicitamente che sia negoziato in ogni impresa un premio di produzione: sindacato e lavoratori avranno dunque un vero e proprio diritto all’apertura della trattativa per l’istituzione del premio di produzione in ciascuna azienda in cui il nuovo sistema si applicherà. Questo deve portare a un mutamento di grande rilievo, sia dal punto di vista dell’estensione della contrattazione aziendale, sia nella struttura delle retribuzioni. I sindacati che sapranno riformare se stessi e mettersi in grado di svolgere incisivamente questa funzione attiveranno un modello di relazioni industriali significativamente diverso da quello attuale. Ed è subito evidente che, se non si tiene conto di questo dato, tutti i confronti fra vecchio e nuovo sistema sono inattendibili.

LIVELLO NAZIONALE E LIVELLO AZIENDALE

Per quel che riguarda la parte della retribuzione negoziata al livello nazionale, l’accordo istituisce un meccanismo di adeguamento dei minimi tabellari secondo un indice previsionale costruito sulla base dell’Ipca (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo) che non è di per sé meno protettivo rispetto al meccanismo precedente, fondato sul riferimento all’“inflazione programmata”: esso, semmai, è destinato a portare un adeguamento più vicino all’inflazione reale, rispetto a quanto accaduto nel quindicennio passato.
Nel nuovo sistema il sindacato rinuncia a negoziare al livello nazionale aumenti retributivi collegati agli aumenti di produttività (come avveniva nel vecchio sistema), al fine di lasciare più spazio allo sviluppo della contrattazione al livello aziendale su questa materia. L’accordo, però, prevede pure che i contratti nazionali di settore istituiscano un “elemento retributivo di garanzia” (Erg), destinato a scattare nelle imprese dove la contrattazione di secondo livello di fatto non si attivi. È sostanzialmente una generalizzazione del meccanismo già da tempo previsto dal contratto collettivo dei metalmeccanici, dove è chiamato “assegno perequativo”. Anche se si considera soltanto la parte di retribuzione negoziata al livello centrale, non si può ragionevolmente affermare che il risultato di queste nuove norme-quadro sarà una sua riduzione prima di conoscere l’entità dell’Erg che verrà stabilita da ciascun contratto nazionale.
La Cgil esprime a questo proposito il timore che, nei settori in cui il sindacato è più debole, l’Erg di fatto non venga contrattato, o venga determinato in misura troppo bassa. Ma dove il sindacato è più debole era più difficile anche il “recupero di produttività” che veniva negoziato al livello nazionale nel vecchio sistema.
Finora, nel quadro dell’accordo del 1993, al livello nazionale si negoziava una parte maggiore della retribuzione complessiva, secondo un criterio tendenzialmente uguale per tutti i settori; si lasciava così uno spazio più ridotto alla parte di retribuzione legata agli aumenti di produttività o redditività effettivi e si sacrificavano sul piano nazionale le retribuzioni delle aziende più dinamiche. È possibile che anche questo abbia contribuito a tenere il livello generale delle nostre retribuzioni nettamente più basso rispetto a quelli di tutti i nostri maggiori partner europei.
D’altra parte, aumentare le retribuzioni è possibile soltanto in due modi. Il primo consiste nell’erosione del profitto, dove c’è, a vantaggio dei redditi di lavoro; per questo lo strumento più efficace e penetrante – almeno in riferimento alle aziende con produttività e redditività più alte della media ‑ non è certamente la negoziazione di uno standard nazionale che deve andar bene anche per i settori dove produttività e redditività sono più basse. Il secondo consiste nel rendere più produttivo il lavoro; questo è possibile soltanto attraverso l’innovazione; e l’innovazione che più conta, quella che sovente è portata dall’imprenditore straniero, la si contratta al livello aziendale, non a quello nazionale. Sindacati e lavoratori italiani finora hanno fatto troppo poco questo mestiere; non si può ragionevolmente negare che il nuovo accordo interconfederale apra maggiori spazi per svolgerlo.
Nel maggio scorso avevo proposto una formulazione della clausola relativa all’Erg suscettibile di offrire una “garanzia” assai efficace, pur mantenendo uno stretto collegamento di questa voce retributiva con l’andamento di ciascuna azienda. Si trattava della traduzione in linguaggio contrattuale di un’idea originariamente proposta da Tito Boeri e Pietro Garibaldi: un premio di produttività “di default” collegato al margine operativo lordo di ciascuna azienda, ma i cui parametri minimi fossero stabiliti a livello nazionale, per il caso di difetto di negoziazione nella singola impresa. Questo avrebbe anche costituito una sorta di “traccia” per la contrattazione aziendale anche nelle piccolissime aziende, da parte di lavoratori o sindacalisti privi di qualsiasi esperienza in questa materia. Vi è ragione di ritenere che, se la Cgil, nella trattativa svoltasi nel corso del 2008, avesse sostenuto un meccanismo di questo genere, la Confindustria non avrebbe opposto un rifiuto pregiudiziale. È vero che questo meccanismo non avrebbe prodotto aumenti retributivi nelle aziende che più soffrono l’attuale fase di recessione; ma questo non è necessariamente un male: la flessibilità della retribuzione in relazione all’andamento aziendale favorisce la continuità dell’occupazione ed evita le sospensioni del lavoro e i licenziamenti.

LA RAPPRESENTATIVITÀ

L’accordo del 22 gennaio prevede la stipulazione entro tre mesi di un accordo ulteriore, per la definizione dei criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati, al livello nazionale e a quello aziendale. È evidente che un sistema di regole sulla rappresentanza non può funzionare se non lo firma anche la confederazione sindacale maggiore. Mi sembra difficile, però, che la Cgil possa sottrarsi alla negoziazione e stipulazione di questo secondo accordo, essendo sempre stata proprio la fissazione delle regole sulla misurazione della rappresentatività dei sindacati la bandiera della stessa Cgil. Quanto al contenuto di questo futuro accordo, fin dal maggio scorso le tre confederazioni maggiori hanno raggiunto un’intesa abbastanza precisa sulle regole da istituire.
Questo secondo passaggio potrebbe costituire l’occasione per ricucire lo “strappo” tra le confederazioni. E a quel punto, anche la riforma della struttura della contrattazione collettiva potrebbe decollare, nonostante il probabile permanere del dissenso della Cgil: una volta stabilito il criterio di misurazione della rappresentatività, settore per settore sarà la coalizione sindacale maggioritaria a decidere se applicare o no le nuove regole. Così avremo, per esempio, a seconda della maggioranza sindacale operante in ciascun settore, quello tessile e quello chimico che applicheranno le nuove regole, il settore metalmeccanico e quello del commercio che non le applicheranno; e ci sarà la possibilità di misurare e verificare gli effetti dell’uno e dell’altro assetto della contrattazione collettiva. A ben vedere, un vero pluralismo sindacale significa proprio questo: possibilità per modelli diversi di relazioni industriali di confrontarsi e competere tra di loro, in modo che i lavoratori possano compiere la loro scelta a ragion veduta, in modo pragmatico e non soltanto sulla base di opzioni ideologiche. Rinvio in proposito al dialogo con Eugenio Scalfari pubblicato in questo sito nel febbraio 2006.

DEROGHE AL CCNL

Tra le altre novità contenute nell’accordo, una di grande rilievo è costituita dalla previsione della possibilità che il contratto aziendale – se stipulato dalla coalizione sindacale maggioritaria– deroghi al contratto nazionale, sia in materia retributiva, sia in materia “normativa”; e questo sia in situazioni di difficoltà economica, dove è necessaria una riduzione dello standard retributivo, sia, al contrario, nelle situazioni in cui la deroga è necessaria per introdurre un’innovazione nell’organizzazione del lavoro non compatibile con il modello fissato dal contratto nazionale. Su questo punto è profondamente cambiata la filosofia stessa dell’accordo, rispetto al testo che era stato proposto dalla Confindustria nella primavera scorsa. Chi ha letto quanto ho scritto su questo punto (in particolare, il libro “A che cosa serve il sindacato?” e il saggio “Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore” ) sa perché considero indispensabile questo ampliamento dello spazio della contrattazione aziendale per aprire maggiormente il nostro sistema all’innovazione e agli investimenti stranieri, che sono il solo modo per ottenere un forte aumento delle nostre retribuzioni.
A dire il vero, nel mio libro testé citato non propongo che la facoltà di deroga venga attribuita a qualsiasi coalizione sindacale che sia maggioritaria nella singola azienda: propongo invece l’istituzione di un filtro ulteriore, costituito dall’appartenenza dei sindacati stipulanti al livello aziendale ad associazioni radicate in almeno tre altre Regioni. Questo al fine di evitare possibili degenerazioni del meccanismo, soprattutto nel Mezzogiorno. Credo che adottare questo filtro ulteriore in questo accordo interconfederale non sarebbe stato male (e le parti sono ancora in tempo per farlo); ma sono altrettanto convinto che in questa materia la possibilità di degenerazioni marginali non debba indurre a paralizzare o appesantire eccessivamente l’intero sistema nazionale.

IL SETTORE PUBBLICO

Ho, invece, forti perplessità sulla possibilità di buon funzionamento del nuovo assetto della contrattazione collettiva nel settore pubblico. Fino a che non sarà stato attivato il sistema di valutazione indipendente e trasparente delle performance delle singole amministrazioni previsto dal disegno di legge approvato nel dicembre scorso dal Senato e attualmente in discussione alla Camera, non vedo come la contrattazione decentrata possa svolgere correttamente, in questo settore, la funzione di collegamento delle retribuzioni all’andamento gestionale.

 da lavoce.it


Titolo: Pietro ICHINO. - La forza laica di Londra "teocratica"
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2009, 09:27:40 am
8/3/2009
 
La forza laica di Londra "teocratica"
 
PIETRO ICHINO
 
La regina o il re, in Gran Bretagna, oltre che capo dello Stato è anche capo della Chiesa anglicana; la quale è a tutti gli effetti qualificabile a sua volta come «Chiesa di Stato». Della House of Lords, la Camera alta di Londra, fanno parte di diritto gli arcivescovi di Canterbury e di York, i vescovi di Londra, Durham e Winchester, nonché altri ventuno vescovi diocesani. Parrebbero, queste, le caratteristiche tipiche di uno Stato teocratico: potremmo, cioè, pensare che queste siano le premesse per lo sviluppo di un ordinamento civile fortemente permeato dal principio di conformità della legge a una volontà divina. Altrimenti, perché tanti interpreti autorizzati di quella verità siederebbero di diritto in Parlamento?

Accade invece che nessuno, in quel Parlamento, abbia mai la pretesa di possedere una verità direttamente desumibile dalle Sacre Scritture circa le misure legislative migliori da adottare. Neppure sulle materie eticamente più sensibili, come il matrimonio, l’aborto, la ricerca sulle cellule embrionali, il trattamento medico al confine tra la vita e la morte. In quelle splendide aule i vescovi, pur legittimati a interloquire direttamente, di fatto se ne astengono, così rendendo quotidianamente «a Cesare quel che è di Cesare»; né pretendono che altri si faccia portatore di verità rivelate per loro conto. Ciò consente di sperimentare la laicità come metodo di incontro e cooperazione per il bene comune tra persone di fede diversa, assai più di quanto si faccia nel nostro Parlamento, dove i vescovi formalmente non mettono mai piede. Donde una conclusione: la laicità di uno Stato è frutto più della cultura della nazione che delle sue istituzioni.
 
da lastampa.it


Titolo: Pietro ICHINO. - Modello Bergamo per il I Maggio
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 02:47:37 pm
Lettera sul lavoro


Modello Bergamo per il I Maggio


di Pietro Ichino


Caro direttore,

i lavoratori che oggi festeggiano il Primo Maggio stanno vivendo la crisi economica in modi molto diversi tra loro. Ci sono quelli — soprattutto dipendenti pubblici stabili, ma non soltanto — che dalla crisi traggono vantaggio: al riparo dalla tempesta, beneficiano della riduzione della rata del mutuo e di molti prezzi al consumo.

Poi ci sono quelli che invece questa crisi la soffrono, eccome. Centinaia di migliaia di titolari di contratti a termine, lavoratori «a progetto», «partite Iva» simulate, che hanno perso o stanno perdendo il posto senza un giorno di preavviso e senza una lira di indennità di disoccupazione. I dipen­denti di aziendine cui è stato tolto l'appalto di servizi. I lavoratori in Cassa integrazio­ne, che allo scadere della cinquantaduesi­ma settimana perdono il sussidio. Stanno col fiato sospeso anche i lavoratori di azien­de private per i quali fin qui il lavoro non è mancato, ma è pur sempre a rischio.

Per questi milioni di persone che nella crisi rischiano una piccola o grande cata­strofe personale e familiare, il governo si ingegna a prolungare di un poco la Cassa integrazione, oppure ad ampliare, nei limi­ti di un bilancio all’osso, il campo del tratta­mento di disoccupazione, invitando gli im­prenditori a stringere i denti e a rinviare il più possibile i licenziamenti. L'opposizio­ne propone l'allungamento e l'estensione di quei trattamenti a tutti. L'uno e l'altra sperano comunque che, più o meno raffor­zati per far fronte all'emergenza, questi am­mortizzatori bastino per passare la nottata: l'idea bipartisan è che, quando il vento tor­nerà a gonfiare le vele della nostra econo­mia, tutti potranno riprendere il lavoro che hanno dovuto temporaneamente sospen­dere, come i cuochi e gli scudieri del castel­lo della Bella Addormentata finalmente ri­svegliata dal bacio del principe.

Le cose, però, non andranno esattamen­te così. Il vento tornerà — magari anche im­petuosamente — a gonfiare le vele soltan­to di una parte delle nostre imprese. In al­cuni punti del tessuto produttivo sta già in­cominciando ad accadere: per esempio in settori in cui siamo leader mondiali, come quello del mobile, quello delle macchine utensili, o quello delle nuove tecnologie ferroviarie, dove i cinesi stanno investendo un sacco di soldi e si appresta a farlo anche l'America di Obama. La crisi, però, avrà an­che l'effetto di mutare i connotati della no­stra economia: un'altra parte delle nostre imprese resterà a secco. Il problema della protezione dei lavoratori è come guidarli e assisterli nell'itinerario che può condurli a trovare la nuova occupazione là dove si sta spostando la domanda di lavoro.

Spendere in trattamenti di integrazione salariale o di disoccupazione è giusto e ne­cessario, ma può persino avere qualche ef­fetto controproducente, di intorpidimento della ricerca della nuova occupazione. Per uscire bene dalla crisi occorre soprattutto attivare ingenti processi di mobilità intera­ziendale, offrendo ai lavoratori non solo so­stegno del reddito, ma soprattutto servizi di informazione, orientamento, formazio­ne professionale di alta qualità, mirata spe­cificamente agli sbocchi fin d'ora individua­bili, dove necessario anche assistenza e in­centivi alla mobilità geografica. Occorre, per questo, un ordinamento del lavoro in parte nuovo e un sistema di servizi nel mer­cato che consenta ai lavoratori di affronta­re serenamente il processo di aggiustamen­to industriale, non vedendo in esso un ri­schio di catastrofe economica personale, ma al contrario un'occasione in cui si inve­ste nel loro capitale umano, la premessa per una migliore valorizzazione del loro la­voro.

Protagonista di questa trasformazione deve essere la contrattazione fra imprese e sindacati. Il sistema di relazioni industriali deve accantonare per qualche tempo le po­lemiche di questi ultimi mesi e concentra­re tutte le energie e le risorse per dotarsi degli strumenti necessari nel mercato del lavoro. Come è accaduto a Bergamo, dove nei giorni scorsi Cgil, Cisl, Uil e associazio­ni imprenditoriali hanno firmato un accor­do locale che può essere per molti aspetti considerato un modello. Iniziative analo­ghe stanno maturando anche in altre zone del Centro-Nord. Questi accordi territoria­li chiedono spazio e — dove possibile — sostegno pubblico per sperimentare tecni­che e modelli di protezione del lavoro di­versi rispetto al passato. Una cultura indu­striale adatta ai tempi. Qualche cosa di molto diverso dalle politiche del lavoro pu­ramente passive che abbiamo conosciuto finora.


01 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: ICHINO. - Le conclusioni dell'indagine dell'Antitrust sugli ordini professionali
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 11:46:06 pm
22 marzo 2009


Le conclusioni dell'indagine dell'Antitrust sugli ordini professionali


di Pietro Ichino

I DECRETI BERSANI HANNO PRODOTTO ALCUNI RISULTATI IMPORTANTI, MA HANNO ANCHE INCONTRATO GRANDI RESISTENZE IN CIASCUNA DELLE CATEGORIE INTERESSATE DI LIBERI PROFESSIONISTI

Intervista a cura di Enrico Marro, pubblicata sul Corriere della Sera del 22 marzo 2009


Secondo l’Antitrust la riforma Bersani degli ordini professionali non ha portato a una reale liberalizzazione del settore né a una effettiva concorrenza a vantaggio degli utenti. Eppure era stata presentata come una rivoluzione. Che cosa non ha funzionato?

Un aumento della libertà di concorrenza tra liberi professionisti c’è stato ed è ben percepibile. Certo, non tutto quello che la riforma si proponeva. Come era prevedibile, ciascuna categoria oppone resistenza. Resistono, soprattutto, alcune restrizioni indebite all’accesso ad attività professionali e una scarsa trasparenza dei mercati di queste attività. Ma, soprattutto, gli organi collegiali dei vari ordini restano espressione esclusiva degli interessi della categoria e non degli interessi della collettività.

Se una riforma entra in parlamento in un modo e ne esce annacquata al punto da non poter essere più efficace, non è meglio disconoscerla? Non è meglio rinunciarvi anziché creare aspettative che poi andranno deluse?
È vero, c’è un rischio di effetto boomerang: quando una riforma è inefficace essa può generare un atteggiamento di rassegnazione, la convinzione che la riforma sia impossibile. Sovente si ha la sensazione che i grandi “gattopardi” annidati negli apparati ministeriali lavorino sui decreti attuativi delle leggi-delega proprio con questo intendimento. Però non è vero che le riforme Bersani abbiano fatto soltanto un buco nell’acqua: alcuni primi risultati, anche se parziali, si sono visti.

Per esempio? In materia di tariffe: l’abolizione della tariffa minima costituisce una innovazione molto incisiva, di cui si sono già visti alcuni effetti positivi, anche se non tutti quelli che possono essere ottenuti. Occorre proseguire su quella strada con determinazione, perché la tariffa minima non aiuta i professionisti più deboli, mentre favorisce le rendite di posizione dei più forti. E gli organi collegiali degli ordini devono smettere di agire come se fossero dei “sindacati unici nazionali” della categoria, ad iscrizione obbligatoria: essi devono agire soprattutto nell’interesse della collettività. L’Antitrust chiede al governo un nuovo intervento legislativo per una vera riforma.

Condivide le cinque richieste dell’Autorità?
Le condivido totalmente per quel che riguarda il perfezionamento dell’abolizione delle tariffe minime, la liberalizzazione della pubblicità e la composizione degli organi collegiali degli ordini: è indispensabile che questi vengano integrati in modo che gli interessi della collettività siano rappresentati in misura prevalente rispetto agli interessi della categoria. Su lauree abilitanti e tirocinio il discorso è un po’ diverso da settore a settore.

Visto che la resistenza delle corporazioni alla riforma è così forte, non sarebbe meglio un intervento drastico come l’abolizione pura e semplice degli ordini?
In alcuni casi decisamente sì: per esempio nel caso dei giornalisti. In molti settori, comunque, si dovrebbero eliminare le barriere di accesso, e affidare all’organo collegiale soltanto il controllo sulla rigorosa applicazione di un codice deontologico e l’irrogazione delle sanzioni per chi lo viola.

da francodebenedetti.it


Titolo: Perchè Ichino non è stato candidato da Berlusconi?
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 11:52:46 pm
26 febbraio 2008

Perchè Ichino non è stato candidato da Berlusconi?


di Giuliano Cazzola

Quando si è saputo che Pietro Ichino era disposto a candidarsi nelle liste del Pd (si veda lo scambio di lettere sul Corriere della Sera tra il giurista milanese e Franco Debenedetti che lo sconsigliava di accettare) è successa l’iraddiddio (pardon: della dea Ragione, visto che essere laici è più politacally correct). Gli esponenti della Cosa Rossa hanno fatto a gara nel coprire di insulti il povero professore, avvalendosi – sono parole di Lanfranco Turci – di argomentazioni simili a quelle che sono costate la vita a Massimo D’Antona e a Marco Biagi e che costringono Pietro a vivere "blindato" da anni. Più cauti e civili i sindacalisti della Cgil (Paolo Nerozzi e Nicoletta Rocchi andranno a riequilibrare in Parlamento i picchi di riformismo in cui si esibisce Veltroni). Ma la musica è sempre la stessa: giù le mani dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A tarda serata, dopo il lancio di un chilo di dispacci di agenzia carichi di contumelie nei confronti del giurista, è giunta la presa di posizione ufficiosa del Pd, all’insegna del veltroniano "ma anche" (che ha fatto la fortuna del comico Crozza). “Ichino è bravo – si diceva – e darà sicuramente un grande contributo, ma il programma del Pd contiene delle cose diverse dalle sue”. E Massimo D’Alema – su Il Sole-24Ore – ha chiuso il caso: Ichino “è intelligente – ha dichiarato – coraggioso e creativo. Fare il commentatore, però, è diverso che fare il politico”. In pratica, ragazzino lasciaci lavorare!

E adesso? Che cosa farà il professore? Rinuncerà all’arma potente dell’editoriale del Corriere della Sera per diventare un "profeta inascoltato"? Questa esperienza Ichino l’ha già archiviata più venti anni or sono (come deputato del Pci): era senz’altro più giovane e meno noto di adesso, ma si accorse ben presto che al suo pensiero innovativo nessuno dei suoi compagni prestava attenzione. Tanto che – e fu la sua fortuna – non venne rieletto. Sinceramente avremmo gradito che il Cavaliere - in un guizzo comunicativo – si fosse rivolto a Pietro Ichino – proprio nel giorno in cui subiva in solitudine la gogna delle Erinni e dei trinariciuti – offrendogli di capeggiare la lista del PdL in Lombardia e promettendogli di poter svolgere, a vittoria avvenuta, un ruolo di primo piano nel prossimo governo. “Caro professore – avrebbe dovuto affermare Berlusconi – perché si ostina ad essere trattato come un cane in chiesa? Le sue idee sono le nostre. Venga a prendere il posto che fu di Marco Biagi. In materia di lavoro avrà carta bianca”. Sicuramente – e purtroppo - Ichino avrebbe declinato l’invito, ma la mossa del leader del PdL avrebbe fatto discutere e preteso una risposta seria da parte dell’interessato. Ma se il Cavaliere non ha colto l’occasione una ragione ci deve essere. Basta scorrere le prime anticipazioni del programma del PdL che girano al largo delle tematiche “dure” del lavoro. Per non parlare – solo per carità di patria – della polemica di Giulio Tremonti contro la globalizzazione. L’handicap del centro destra continua ad essere il solito: con scarse propensioni riformiste il PdL non riesce a penetrare nell’intellighenzia del Paese. Così finisce per diffidare degli intellettuali e dei tecnici, in nome di un primato della politica tutto da dimostrare. Ed è un atteggiamento sbagliato, perché niente è più credibile sul piano internazionale di un civil servant di indiscusso prestigio, la cui influenza non dipenda dai voti del suo partito ma dalle competenze che gli sono riconosciute. Nessun ministro dell’Economia sarebbe meglio di Mario Monti. Se Prodi non avesse potuto contare sulla credibilità di Tommaso Padoa Schioppa, i circoli internazionali avrebbero sbattuto la porta in faccia alla sua compagine senza attendere nemmeno un minuto. Alla pregevole azione del governo Berlusconi è mancato proprio l’ésprit de finesse della competenza. Si prenda, per tutti i casi, la legge di riforma costituzionale, ottima nell’ispirazione di fondo (tanto da tornare di attualità), ma scritta coi piedi sul piano della tecnica legislativa. Si consideri, al contrario, la legge Biagi, una delle pagine più alte della legislatura, un provvedimento che ha fatto il giro del mondo e che fa testo ovunque si studi il diritto del lavoro. Dietro ad essa c’era la cultura non solo di uno studioso eccellente, ma della sua scuola, tanto che Michele Tiraboschi è stato pronto a prendere il posto del maestro caduto e a portarne a termine l’opera. Ma se Biagi non fosse caduto sul campo dell’onore, la CdL avrebbe avuto il coraggio di andare fino in fondo?
 
da francodebenedetti.it


Titolo: Pietro ICHINO. - Innse, i riti stanchi e gli operai traditi
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2009, 03:51:10 pm
Lettera sul lavoro

Innse, i riti stanchi e gli operai traditi

Le vicende di questo genere si sono susseguite sempre secondo lo stesso logoro schema


Caro Direttore, che brutto spettacolo quello dello sgombero della Innse di Lambrate, la gloriosa fabbrica della Lambretta alle porte di Milano, con le forze dell’ordine che per disposizione del giudice allontanano gli ultimi 49 lavoratori (dei 2.000 dei tempi d’oro) rimasti a difendere il posto con le unghie e coi denti! È mai possibile che, dopo mezzo secolo in cui vicende di questo genere si sono susseguite sempre secondo lo stesso logoro schema, ancora non abbiamo imparato ad affrontare le crisi industriali con metodi un po’ più moderni?
Oggi la Innse, domani forse la Ideal Standard di Brescia, ieri cento altri casi analoghi, primo per importanza quello dell’Alfa Romeo di Arese. E sempre lo stesso copione: con il titolare che vuole chiudere lo stabilimento o ridurre l’attività, i lavoratori che vedono la prospettiva del licenziamento come una catastrofe economica e professionale, i loro rappresentanti sindacali che denunciano il carattere speculativo della manovra e dimostrano dati alla mano gli orizzonti di riconversione ecologica e immancabile prosperità che si dischiuderebbero all’azienda se solo non fosse in mano a un imprenditore inetto e vorace.

Talora l’imprenditore è effettivamente incapace o inaffidabile; ma il problema si pone proprio perché non se ne trova uno migliore, pronto a rilevare l’azienda. Se l’imprenditore è incapace o inaffidabile, invitare i lavoratori a rimanergli attaccati a tutti i costi equivale a condurli in un vicolo cieco. Le crisi industriali vanno affrontate in modo totalmente diverso. Pensiamo a come potrebbero andare le cose se i lavoratori coinvolti non vedessero la sola possibilità di salvezza nell’aggrapparsi al vecchio posto di lavoro. Se, come accade nei Paesi del nord-Europa, la perdita del vecchio posto non significasse affatto una catastrofe personale e familiare, ma fosse accompagnata, al contrario, da un robusto sostegno del reddito e soprattutto da un investimento sulla professionalità del lavoratore capace di incrementare il suo appeal nel mercato del lavoro. In Italia questa prospettiva stenta a prendere piede, perché prevale l’idea che il mercato del lavoro funzioni malissimo, sia una trappola infernale per i lavoratori. Ma le cose non stanno così. In un articolo in corso di pubblicazione in un quaderno della rivista ItalianiEuropei.
Gabriella Lusvarghi — capo di una delle maggiori società italiane di outplacement— mostra convincentemente come, in tempi normali, qualsiasi lavoratore che abbia perso il posto possa essere ricollocato in modo appropriato nel giro di tre-sei mesi. Nel corso di una recessione grave come quella attuale questi tempi medi si allungano, ovviamente; ma anche nella congiuntura negativa il mercato del lavoro continua a produrre quotidianamente contratti in grande quantità. Solo in provincia di Milano, in un anno normale come il 2007, i nuovi contratti di lavoro sono stati 200mila. In un anno di crisi nera come il 2009 si stima che la riduzione sia intorno al 15 per cento: quest’anno a Milano le assunzioni risulteranno dunque pur sempre intorno alle 170mila.

Perché mai, in questo mercato, non dovrebbe essere possibile ricollocare appropriatamente gli ultimi 49 lavoratori della Innse? Perché non si tenta neppure di farlo, come se fosse un obiettivo irrealistico?
Pensiamo, per esempio, a un ordinamento e a un sindacato che, invece di proporsi di impedire i licenziamenti per ragioni economiche od organizzative, li subordinassero all’obbligo per l’imprenditore di attivare a sue spese un servizio efficiente di outplacement e di integrare il trattamento di disoccupazione dei lavoratori licenziati per il tempo necessario al reperimento della nuova occupazione: in questo modo si responsabilizzerebbe sul serio l’imprenditore riguardo al costo sociale delle sue scelte di ristrutturazione o di chiusura dell’azienda. E si attiverebbe un potente incentivo economico all’efficienza ed efficacia dei servizi di ricerca del nuovo posto e di riqualificazione mirata: se l’operazione sarà gestita bene, nel giro di sei mesi o un anno i lavoratori saranno tutti appropriatamente ricollocati e ampiamente indennizzati, con un costo accettabile per l’impresa.

Contro questa soluzione milita un’idea vecchia e molto inadeguata ai tempi: quella secondo cui le scelte di ristrutturazione o chiusura di un’azienda non dovrebbero essere lasciate all’imprenditore, perché spettano, in realtà, alla collettività. Di fatto, questa idea si traduce nell’antica prassi di ritardare il più possibile anche i licenziamenti inevitabili ricorrendo alla Cassa integrazione, così disincentivando i lavoratori dall’attivarsi per il reperimento della nuova occupazione e dando spazio alle loro illusioni circa la possibilità che il vecchio lavoro riprenda, anche quando le probabilità che questo accada sono ridotte a zero. Non sarebbe meglio per tutti rispettare la libertà dell’impresa, vincolando quest’ultima soltanto, ma seriamente, a farsi carico fino in fondo dei costi sociali delle sue scelte?

Pietro Ichino
05 agosto 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it


Titolo: Diritto del lavoro: il progetto di riforma di Pietro Ichino
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2009, 11:46:42 am
Diritto del lavoro: il progetto di riforma di Pietro Ichino

di Davide Colombo


ROMA - Per come si annuncia sembra una riforma destinata a piacere a tanti e non solo a sinistra. Sicuramente piacerà al ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che nel suo Libro Bianco sul Welfare indica come obiettivo della legislatura lo Statuto dei lavori. Ma non dovrebbe essere lontano anche dalle corde di Roberto Calderoli, che su provvedimenti di delegificazione pesante ha impostato il suo esordio, o di Renato Brunetta, fautore di deregolamentazioni che possono portare a una modernizzazione dei rapporti sociali. Il testo che presto presenterà il senatore del Pd Pietro Ichino punta infatti a riordinare in 64 articoli del Codice civile quella pletora di leggi che disciplinano i rapporti di lavoro (sono oltre un centinaio, varate dal 1923 a oggi, quelle che verrebbero abrogate), norme che si sono stratificate nelle duemila pagine che oggi si richiedono per una raccolta delle norme sul lavoro, e in cui tutti, imprenditori e lavoratori, sono destinati a perdersi senza l'ausilio d'un consulente.

Cuore di questo disegno riformatore, se si vuole trovarne almeno uno in un testo che contiene l'estensione pressoché universalistica degli ammortizzatori sociali nella direzione della flexsecurity di impronta nord-europea ma anche una riforma del diritto sindacale capace di chiudere con il "regime transitorio" in corso da sessanta anni (si prevede anche un ritocco dell'articolo 39 della Costituzione), è racchiuso nel concetto di "copertura conoscitiva". Oltre alla "copertura finanziaria" e a quella "amministrativa", si aggiunge cioè uno sforzo fondamentale di comunicazione delle norme semplificate per farle vivere nella cultura di tutti gli interessati, riducendo al minimo il bisogno delle costose mediazioni dei consulenti.

La semplificazione è la via maestra per arrivare a uno Statuto dei lavori costruito come un sistema di protezioni a "cerchi concentrici", che parte dalle tutele fondamentali garantite a tutti (salute e sicurezza, assicurazioni antinfortunistica e pensionistica, retribuzione minima oraria, divieto di discriminazioni), per poi definire le protezioni specificamente necessarie per il lavoro dipendente e quelle parzialmente differenziate nei casi di rapporto di lavoro subordinato oppure nei rapporti di monocommittenza, fino ai casi dell'apprendistato o delle collaborazioni di pubblica utilità.

Vediamo qualche esempio della forza semplificatrice contenuta nel disegno di legge del professor Ichino, che verrà presentato per la prima volta in pubblico in occasione di un incontro Aspen che si terrà a Milano il 21 settembre. Per l'apprendistato si passa da un quadro normativo che oggi conta su 5 articoli del Codice più altri 33 articoli della legge 25/1955, cui si sono aggiunti i 7 lunghi articoli del decreto legislativo 276/2003 (solo questi ultimi constano di 1.859 parole) a una riscrittura del solo articolo 2130 del Codice (composto da 414 parole). Il part-time, oggi regolato da 13 articoli per 3803 parole (norme via via introdotte dal 2000 al 2007), verrebbe ridisciplinato in soli 3 commi del nuovo articolo 2108 del Codice (117 parole in tutto), mentre il lavoro intermittente passerebbe da un quadro regolatorio oggi composto da 8 articoli per 1443 parole a un solo capoverso (39 parole) del nuovo articolo 2097 del Codice.

Per la nuova cassa integrazione e l'assicurazione contro la disoccupazione che nascerebbero con l'abrogazione delle 34 leggi che oggi regolano la materia il disegno di legge ripropone lo scambio tra flessibilità per l'impresa e sicurezza per i lavoratori nel mercato che è alla base del progetto «per la transizione a un regime di flexsecurity» già presentato da Ichino con altri 35 senatori nel marzo scorso con il Ddl 1481. Il modello è quello danese: al lavoratore licenziato viene garantito il sostegno del reddito fino al massimo di 4 anni, dal 90 al 60% della retribuzione, ma soprattutto la prospettiva di una ricollocazione molto più rapida, incentivata proprio dal costo del trattamento di disoccupazione. Integrazione salariale e trattamento di disoccupazione sono dovuti a tutti i lavoratori dalle rispettive imprese, che per questo si assicurano presso l'Inps. Questa è certo la parte che più farà discutere del progetto, non solo in seno a maggioranza e opposizione, ma anche nel confronto tra le parti sociali. «Ciascuna delle soluzioni proposte – osserva Ichino – può essere modificata, aumentandone o diminuendone il contenuto protettivo; purché si tenga ferma la scelta della massima semplicità e comprensibilità del testo legislativo, indispensabili perché esso possa avere davvero applicazione universale».
   Disegno di legge sullo "Statuto del lavoro"
   Disegno di legge per il superamento del regime di diritto sindacale transitorio
   Il progetto per la semplificazione e l'ampliamento del campo di applicazione del diritto del lavoro

© RIPRODUZIONE RISERVATA
da ilsole24ore.com


Titolo: Pietro ICHINO Chi difende i clienti dai difensori?
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2010, 10:31:12 am
LETTERA SUL LAVORO

Nuove regole per gli avvocati

Chi difende i clienti dai difensori?

Il problema cruciale è il conflitto di interessi che il legale incontra quando può scegliere tra diverse opzioni


Caro Direttore, mentre la riforma dell’avvocatura muove i primi passi in Parlamento e gli avvocati fanno — legittimamente— sentire il loro fiato sul collo ai politici, sarebbe bene che gli utenti incominciassero a fare altrettanto. Il disegno di legge in discussione al Senato, dedicato alla promozione degli interessi economici di chi già appartiene al ceto forense, non affronta neppure di striscio quello che a me sembra il problema cruciale: il conflitto di interessi in cui l'avvocato si trova ogni volta che gli si aprono davanti due o più strade per la difesa del cliente e la strada più vantaggiosa per quest'ultimo non è la più vantaggiosa per l'avvocato stesso. Nella maggior parte dei casi, il cliente non è in grado di controllare efficacemente le scelte del difensore, come il paziente non è in grado di controllare le scelte del medico. Glielo impedisce la netta asimmetria informativa che caratterizza qualsiasi rapporto professionale: il professionista è colui che sa, il cliente è tale proprio perché nella materia specifica non sa. Per esempio, fra la transazione e il ricorso all’autorità giudiziaria, o a un arbitrato, la scelta dell’avvocato può essere dettata più dalle sue prospettive di guadagno che dall’interesse effettivo del cliente, il quale nella maggior parte dei casi non è in grado di valutare con piena cognizione i vantaggi dell’una o dell’altra scelta. Lo stesso accade nel rapporto tra medico e paziente, quando si tratta di scegliere tra diversi possibili mezzi diagnostici o protocolli terapeutici, di cui alcuni siano i più lucrosi per il terapeuta ma non i più appropriati nel caso specifico.

Mettiamoci nei panni di una persona che si è affidata a un avvocato e che si trova a nutrire un dubbio sull’adeguatezza o correttezza del suo operato. Oggi quella persona, se si rivolge a un altro avvocato per averne un parere e un consiglio, si sentirà rispondere che, a norma del codice deontologico forense, senza il consenso del primo legale la pratica non può neppure essere aperta, a meno che il rapporto con lui venga chiuso e la sua parcella interamente pagata: una norma che di fatto protegge l’avvocato incompetente o disonesto dalla «concorrenza» di quello competente e onesto. In questi casi il rapporto con il difensore può diventare, per il cliente, una trappola pericolosa. Anche perché litigare con il proprio avvocato è assai disagevole: a verificare la congruità dell’onorario per l’opera da lui svolta sarà un Consiglio dell’Ordine composto interamente da avvocati, comprensibilmente più propensi alla solidarietà con il collega-elettore che non alla sensibilità per le ragioni del cliente. È ben vero che nella grande maggioranza dei casi sono l’onestà e la correttezza dell’avvocato a garantire il cliente meglio di qualsiasi possibile forma di controllo dall’esterno del rapporto professionale. Ma anche l'avvocato più onesto e più competente può sbagliare ed essere tentato di non riconoscerlo; e anche nel ceto forense, come in tutti gli altri, qualche incompetente, qualche rapace e qualche disonesto c’è. Se la funzione essenziale dell’Ordine consiste nel garantire l’affidabilità dell’avvocato, la nuova legge destinata a disciplinare la materia non può eludere il problema del conflitto di interessi nel rapporto professionale.

Un modo per affrontarlo — sulla scorta delle esperienze che si offrono nel panorama internazionale—è innanzitutto quello di consentire a ciascun avvocato di rendere, con le dovute garanzie di riservatezza, una second opinion sul merito di qualsiasi pratica, nonché un parere sull’operato dell'altro avvocato che la segue, anche quando il rapporto tra quest’ultimo e il cliente è tuttora in corso. Ancor più efficace, poi, sarebbe l’attivazione da parte del Consiglio dell’Ordine, in ogni distretto, di un servizio gratuito, aperto a chiunque intenda controllare l’opera del proprio legale e svolto congiuntamente da un avvocato e da un magistrato competenti per materia, con garanzia di rigoroso segreto su tutto quanto viene loro sottoposto. A chiedere queste innovazioni non dovrebbero essere soltanto le associazioni degli utenti, ma prima ancora gli avvocati stessi (chi scrive è uno di loro): al prestigio della categoria non giova certo l'immagine di casta chiusa e avida, cui in passato hanno contribuito i comportamenti non irreprensibili di alcuni suoi membri, coperti di fatto da quella che poteva apparire come benevola indifferenza dei Consigli dell’Ordine.

Pietro Ichino

03 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/10_maggio_03/Nuove-regole-per-gli-avvocati-ichino_a762847c-56bd-11df-ae23-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pietro ICHINO. Chi difende i clienti dai difensori?
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2010, 10:22:41 pm
LETTERA SUL LAVORO

Nuove regole per gli avvocati

Chi difende i clienti dai difensori?

Il problema cruciale è il conflitto di interessi che il legale incontra quando può scegliere tra diverse opzioni


Caro Direttore, mentre la riforma dell’avvocatura muove i primi passi in Parlamento e gli avvocati fanno — legittimamente— sentire il loro fiato sul collo ai politici, sarebbe bene che gli utenti incominciassero a fare altrettanto. Il disegno di legge in discussione al Senato, dedicato alla promozione degli interessi economici di chi già appartiene al ceto forense, non affronta neppure di striscio quello che a me sembra il problema cruciale: il conflitto di interessi in cui l'avvocato si trova ogni volta che gli si aprono davanti due o più strade per la difesa del cliente e la strada più vantaggiosa per quest'ultimo non è la più vantaggiosa per l'avvocato stesso. Nella maggior parte dei casi, il cliente non è in grado di controllare efficacemente le scelte del difensore, come il paziente non è in grado di controllare le scelte del medico. Glielo impedisce la netta asimmetria informativa che caratterizza qualsiasi rapporto professionale: il professionista è colui che sa, il cliente è tale proprio perché nella materia specifica non sa. Per esempio, fra la transazione e il ricorso all’autorità giudiziaria, o a un arbitrato, la scelta dell’avvocato può essere dettata più dalle sue prospettive di guadagno che dall’interesse effettivo del cliente, il quale nella maggior parte dei casi non è in grado di valutare con piena cognizione i vantaggi dell’una o dell’altra scelta. Lo stesso accade nel rapporto tra medico e paziente, quando si tratta di scegliere tra diversi possibili mezzi diagnostici o protocolli terapeutici, di cui alcuni siano i più lucrosi per il terapeuta ma non i più appropriati nel caso specifico.

Mettiamoci nei panni di una persona che si è affidata a un avvocato e che si trova a nutrire un dubbio sull’adeguatezza o correttezza del suo operato. Oggi quella persona, se si rivolge a un altro avvocato per averne un parere e un consiglio, si sentirà rispondere che, a norma del codice deontologico forense, senza il consenso del primo legale la pratica non può neppure essere aperta, a meno che il rapporto con lui venga chiuso e la sua parcella interamente pagata: una norma che di fatto protegge l’avvocato incompetente o disonesto dalla «concorrenza» di quello competente e onesto. In questi casi il rapporto con il difensore può diventare, per il cliente, una trappola pericolosa. Anche perché litigare con il proprio avvocato è assai disagevole: a verificare la congruità dell’onorario per l’opera da lui svolta sarà un Consiglio dell’Ordine composto interamente da avvocati, comprensibilmente più propensi alla solidarietà con il collega-elettore che non alla sensibilità per le ragioni del cliente. È ben vero che nella grande maggioranza dei casi sono l’onestà e la correttezza dell’avvocato a garantire il cliente meglio di qualsiasi possibile forma di controllo dall’esterno del rapporto professionale. Ma anche l'avvocato più onesto e più competente può sbagliare ed essere tentato di non riconoscerlo; e anche nel ceto forense, come in tutti gli altri, qualche incompetente, qualche rapace e qualche disonesto c’è. Se la funzione essenziale dell’Ordine consiste nel garantire l’affidabilità dell’avvocato, la nuova legge destinata a disciplinare la materia non può eludere il problema del conflitto di interessi nel rapporto professionale.

Un modo per affrontarlo — sulla scorta delle esperienze che si offrono nel panorama internazionale—è innanzitutto quello di consentire a ciascun avvocato di rendere, con le dovute garanzie di riservatezza, una second opinion sul merito di qualsiasi pratica, nonché un parere sull’operato dell'altro avvocato che la segue, anche quando il rapporto tra quest’ultimo e il cliente è tuttora in corso. Ancor più efficace, poi, sarebbe l’attivazione da parte del Consiglio dell’Ordine, in ogni distretto, di un servizio gratuito, aperto a chiunque intenda controllare l’opera del proprio legale e svolto congiuntamente da un avvocato e da un magistrato competenti per materia, con garanzia di rigoroso segreto su tutto quanto viene loro sottoposto. A chiedere queste innovazioni non dovrebbero essere soltanto le associazioni degli utenti, ma prima ancora gli avvocati stessi (chi scrive è uno di loro): al prestigio della categoria non giova certo l'immagine di casta chiusa e avida, cui in passato hanno contribuito i comportamenti non irreprensibili di alcuni suoi membri, coperti di fatto da quella che poteva apparire come benevola indifferenza dei Consigli dell’Ordine.

Pietro Ichino

03 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/10_maggio_03/Nuove-regole-per-gli-avvocati-ichino_a762847c-56bd-11df-ae23-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pietro ICHINO Lettera sul lavoro
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2010, 09:54:26 am
Lettera sul lavoro

L’accordo possibile per lo stabilimento è un messaggio per gli investitori esteri

L'immagine del sindacato italiano che questa vicenda dà al mondo è quella di un sindacato profondamente diviso


Caro Direttore, quale che sia il risultato finale della partita che si sta giocando in queste ore alla Fiat di Pomigliano d'Arco, essa costituisce l'ennesima conferma della grave inadeguatezza del sistema italiano delle relazioni industriali rispetto alle sfide dell'economia globale. L'immagine del sindacato italiano che questa vicenda dà al mondo è la stessa che diede due anni fa l'inconcludente trattativa con Air France-KLM per il futuro di Alitalia: quella di un sindacato profondamente diviso, ma anche incapace di darsi le regole necessarie per evitare che la divisione generi paralisi.

In un sistema ispirato al principio del pluralismo sindacale, deve considerarsi normale che nella valutazione di un piano industriale a forte contenuto innovativo le associazioni sindacali si dividano. Il problema è che il nostro sistema non ha saputo dotarsi degli strumenti indispensabili per dirimere la questione. Accade così che, se non si arriva a un accordo che coinvolga tutti quanti, l'innovazione rispetto allo standard definito dal contratto collettivo nazionale è poco praticabile: i lavoratori dissenzienti potranno sempre ottenerne dal giudice la disapplicazione nei propri confronti; e i sindacati dissenzienti - anche quando rappresentino soltanto l'uno per cento dei lavoratori interessati - potranno sempre proclamare uno sciopero contro l'accordo, cui potrà aderire quell'uno per cento, ma anche il cinquanta o il cento per cento dei lavoratori, ivi compresi quelli aderenti ai sindacati che l'accordo l'hanno firmato.

Il risultato è che l'imprenditore se ne va altrove con il suo piano industriale innovativo e con la domanda di lavoro che esso porta con sé (è quello che - comprensibilmente - minaccia di fare Marchionne a Pomigliano, se l'accordo non sarà firmato da tutti). Questo gravissimo difetto del nostro sistema delle relazioni industriali non è - beninteso - la sola causa della scarsa attrattività dell’Italia per le imprese multinazionali; ma molti osservatori qualificati lo considerano come una delle cause principali, insieme alla complessità, ipertrofia e incomprensibilità del nostro diritto del lavoro, per gli stranieri e non solo per loro. Nel momento in cui ci proponiamo di curare il «male oscuro» che da due decenni impedisce al nostro Paese di crescere, faremmo bene ad affrontare e risolvere questo problema al più presto.

Pietro Ichino

14 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/10_giugno_14/ichino-investitori-esteri_71dfe48a-7778-11df-9d1c-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pietro ICHINO. - APPUNTI DI UN GIURISTA SU POMIGLIANO
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2010, 05:14:37 pm
APPUNTI DI UN GIURISTA SU POMIGLIANO

di Pietro Ichino* 18.06.2010

La protesta della Fiat di Pomigliano. Da Autoblog.it

 

Le due clausole dell’accordo che la Fiom-Cgil denuncia come contrarie alla legge, e per alcuni aspetti anche alla Costituzione, sono queste: una in materia di malattia, che esclude il pagamento della retribuzione per le giornate di astensione dal lavoro in cui si verifichino aumenti anomali dei tassi di assenza in corrispondenza con eventi esterni di natura diversa da epidemie (per esempio: la partita di calcio giocata al mercoledì); l’altra in materia di sciopero, che vieta la proclamazione di – e la partecipazione dei singoli lavoratori a – scioperi volti a “rendere inesigibile” l’attuazione dell’accordo stesso (per esempio: uno sciopero dello straordinario, che renda inesigibili le 80 ore annue di “straordinario obbligatorio” previsto in funzione della variabilità delle esigenze produttive).
A me sembra che possano esserci altri motivi di ragionevole rifiuto dell’accordo, come la pesantezza dei ritmi di lavoro o i turni notturni, ma che le clausole sui tassi anomali di assenze e la clausola di tregua sindacale siano, invece, non soltanto pienamente legittime, ma anche molto sensate, sia dal punto di vista dell’interesse dell’impresa, sia da quello dell’interesse dei lavoratori.

RETRIBUZIONE IN CASO DI MALATTIA

Sulla materia del trattamento economico del lavoratore assente per malattia, a carico del datore di lavoro, la sola norma legislativa generale oggi in vigore è l’articolo 2110 del Codice civile, che attribuisce alla contrattazione collettiva il compito di stabilire entità e limiti della retribuzione dovuta all’infermo. Fino ai rinnovi contrattuali del 1972, quasi tutti i contratti collettivi prevedevano che il trattamento retributivo decorresse dal quarto giorno di assenza: i primi tre giorni – detti “di carenza” – costituivano dunque un periodo di franchigia, nel quale il lavoratore non era retribuito. Dal 1972 quasi tutti i contratti collettivi hanno previsto invece la retribuzione anche per i primi tre giorni; ma in numerose occasioni si sono registrate disposizioni collettive che, al fine di incentivare la riduzione delle assenze per malattia, hanno limitato il relativo trattamento, istituendo dei “premi di presenza”, oppure voci retributive escluse dal trattamento stesso.
In questo ampio spazio che la legge attribuisce alla contrattazione collettiva rientra sicuramente anche la possibile reintroduzione di uno o più giorni “di carenza”, collegati o no a determinate circostanze oggettive. E’ quanto dispone la clausola n. 8 dell’accordo, che prevede il non pagamento della retribuzione nel caso in cui si verifichino dei tassi anomali di assenza dal lavoro “in occasione di particolari eventi non riconducibili a forme epidemiologiche”. La disposizione è strutturata in funzione di contrasto a forme di assenteismo abusivo che si sono registrate con notevole frequenza, in occasione della trasmissione televisiva di importanti partite di calcio, oppure della proclamazione di scioperi.
Tutti i numerosi giuslavoristi con cui ho avuto occasione di discuterne in questi giorni concordano sul punto che questa disposizione non contrasta con alcuna disposizione di legge. Certo, essa configura una deroga – seppur marginale – rispetto al contratto collettivo nazionale per il settore metalmeccanico, il quale non prevede eccezioni al pagamento dell’intera retribuzione nei primi tre giorni di malattia. Ma è pacifico in giurisprudenza e in dottrina che il contratto collettivo nazionale può essere validamente derogato da un contratto aziendale. Il problema riguarda soltanto il campo di applicazione di quest’ultimo: l’applicazione è estesa a tutti i dipendenti dell’azienda soltanto se esso è stipulato unitariamente da tutte le organizzazioni sindacali firmatarie del contratto nazionale stesso (ed è questo il motivo per cui la Fiat chiede che l’accordo aziendale sia firmato, appunto, da tutte).

LA CLAUSOLA DI RESPONSABILITÀ

La disposizione n. 13 della bozza, denominata “clausola di responsabilità”, commina la decadenza dai diritti previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro per l’organizzazione sindacale firmataria dell’accordo aziendale che proclami uno sciopero (o altra forma di agitazione) volto a “rendere inesigibili” le condizioni di lavoro previste nell’accordo stesso. Si tratta, in sostanza, di un patto di tregua sindacale, che è oggi considerato pacificamente valido e vincolante per il sindacato che lo stipula. La Fiom-Cgil contesta tuttavia la parte della disposizione che qualifica come illegittimo anche il comportamento dei singoli lavoratori i quali aderiscano a uno sciopero (o altra forma di agitazione) proclamato in violazione del patto di tregua. A me sembra che, se la proclamazione dello sciopero è illegittima per violazione di un patto di tregua validamente sottoscritto dal sindacato proclamante, debba considerarsi illegittima anche l’adesione del lavoratore a quello sciopero: mi sembra pertanto che anche quest’ultima parte della disposizione proposta debba considerarsi pienamente valida.
Osservo, peraltro, che la pretesa inefficacia della clausola di tregua nei confronti dei singoli lavoratori priverebbe i lavoratori stessi e il sindacato che li rappresenta della principale “moneta di scambio” di cui essi dispongono al tavolo delle trattative. Non è un caso che in nessun altro ordinamento europeo si applichi una regola che esenti i singoli lavoratori da responsabilità per l’adesione a uno sciopero illegittimo.
La tesi contraria – sostenuta da una parte dei giuslavoristi italiani ma priva di qualsiasi fondamento testuale nella legge vigente – secondo cui il diritto di sciopero costituirebbe una prerogativa del singolo lavoratore, di cui il sindacato non potrebbe disporre con il patto di tregua, è smentita dalla legge che regola lo sciopero nei servizi pubblici essenziali (L. n. 146/1990), dove si attribuisce alle organizzazioni sindacali il potere di negoziare i codici di regolamentazione settore per settore, con effetti direttamente vincolanti anche per i singoli lavoratori. Quella tesi è comunque funzionale a un modello di relazioni industriali – quello della cosiddetta “conflittualità permanente” – che in Italia sopravvive, a dispetto di quella legge, nel solo settore dei trasporti, ma è ormai quasi completamente superato in tutti i settori manifatturieri.    

LA PRIORITÀ? ATTRARRE GLI INVESTIMENTI

Lo scenario in cui questo dibattito si colloca è quello di un’Italia affamata di investimenti, indispensabili per tornare a crescere; e penultima in Europa (davanti alla sola Grecia) per capacità di attirarli: vedi la tabella che segue. Questa “fame” è fortemente accentuata nel Mezzogiorno, dove il bisogno di crescita economica è assai maggiore che nel resto del Paese e le condizioni del mercato del lavoro assai peggiori.
L’Italia ha un solo modo per ricominciare a crescere e per tirar fuori le proprie regioni meridionali dal sottosviluppo che le caratterizza: riuscire a ingaggiare il meglio dell’imprenditoria mondiale e a intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali in misura molto superiore all’attuale. Per questo non occorrono soltanto amministrazioni pubbliche più efficienti, infrastrutture meno difettose e servizi alle imprese meno cari, ma occorre anche un sistema di relazioni industriali nel quale i patti di tregua garantiscono la tregua per davvero, come tutto il resto d’Europa; e sindacati disposti a negoziare con gli imprenditori le misure (legittime) idonee a contrastare efficacemente abusi radicati come quello del “mettersi in malattia” per assistere alla partita.
Per questo la vicenda di Pomigliano è di importanza cruciale per tutto il Paese: basti pensare a quale messaggio verrebbe dato alle imprese multinazionali di tutto il mondo, se la vicenda dovesse concludersi con il rigetto, da parte del nostro sistema di relazioni industriali, di un investimento di 700 milioni motivato con l’intangibilità della prassi della conflittualità permanente e con il rifiuto di disposizioni – in sé legittime e del tutto ragionevoli – volte a contrastare l’assenteismo abusivo.


FLUSSI DI INVESTIMENTI ESTERI NEI PRINCIPALI PAESI EUROPEI
                    
VAI a leggerli su:
 
http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001784.html


Titolo: Pietro ICHINO. - Sulla manovra metodi e modi del Pd
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2010, 04:29:17 pm
19/7/2010

Sulla manovra metodi e modi del Pd
   
PIETRO ICHINO*

Caro Direttore,
su «La Stampa» di venerdì Luca Ricolfi, dopo avere illustrato molto convincentemente meriti e (prevalenti) difetti della manovra finanziaria approvata dalla maggioranza in Senato il giorno prima, ha accennato a quella che gli è apparsa una «imbarazzante inerzia» dell’opposizione in questo passaggio politico. Se riferita ad altre vicende e altre materie, non avrei avuto nulla da obiettare a questa notazione; ma poiché ho partecipato personalmente, come senatore, a questa prima fase della discussione della manovra in Parlamento, posso testimoniare che qui l’opposizione si è fatta sentire vigorosamente con i propri interventi e le proprie proposte di emendamento lungo tutte le cento ore di discussione molto tesa in commissione e in aula; fuori del Palazzo lo ha fatto con i modesti mezzi di comunicazione di cui i partiti di minoranza dispongono; e, in particolare, il Pd lo ha fatto, sia dentro sia fuori del Palazzo, su di una linea in larga parte coincidente con quella esposta dallo stesso Ricolfi nel suo editoriale.

Così stando le cose, se un opinionista equilibrato e informatissimo come è Ricolfi ha percepito i partiti di opposizione e il Pd in particolare come inerti e afasici anche in questo passaggio politico, le spiegazioni possibili mi sembrano soltanto due. La prima è che lo strapotere televisivo del presidente del Consiglio abbia determinato una sostanziale distorsione dell’informazione sulla vicenda della manovra finanziaria, facendo apparire inerti e afasiche forze politiche che – almeno in questa occasione – non lo sono state affatto. La seconda è che, indipendentemente dallo strapotere televisivo del premier, il meccanismo mediatico faccia sì che venga data notizia soltanto di un’opposizione «dura e pura», «senza se e senza ma», che si manifesta con rifiuti totali e indistinti, magari rafforzati da qualche rissa in Parlamento; quando invece, come ha fatto il Pd sulla manovra di Tremonti, l’opposizione propone ragionamenti, distingue ciò che è condivisibile da ciò che va rifiutato nelle scelte della maggioranza, facendosi carico dei vincoli oggettivi che nel contesto attuale si impongono a qualsiasi governo, allora la cosa non fa notizia; quindi, fuori del Palazzo, finisce coll’essere invisibile. In altre e più semplici parole: se Enrico Morando – invece che guidare in questa battaglia i senatori del Pd con la stessa onestà intellettuale, lo stesso rifiuto della faziosità e lo stesso rigore concettuale con cui Ricolfi fa il suo mestiere di opinionista – avesse urlato insulti e inscenato un tentativo di aggressione al capogruppo di maggioranza in Commissione, o al ministro Tremonti in aula, tv e giornali avrebbero dato a questo fatto un rilievo infinitamente maggiore rispetto a quello (nullo) che è stato dato alle decine di suoi interventi pesantemente e incisivamente – ma non faziosamente – critici sulla manovra, svolti nei giorni scorsi. Forse entrambe le spiegazioni colgono un aspetto importante della realtà. In ogni caso, Ricolfi tenga conto del fatto che, se nei giorni scorsi fosse stato lui al posto di Enrico Morando a condurre la battaglia in Senato dai banchi dell’opposizione, anche i suoi interventi sarebbero stati ignorati dai media. Quindi, anche la sua opposizione sarebbe apparsa afasica e inerte.

*senatore Pd

***

Caro Ichino,
hai perfettamente ragione, le cose vanno proprio come dici tu, però c'è forse anche un altro aspetto da considerare.
Il Partito democratico esprime spesso posizioni molto ragionevoli nelle commissioni, in Parlamento, più in generale nei luoghi in cui si discutono i dettagli delle leggi: penso alla riforma Brunetta-Ichino della pubblica amministrazione, alle proposte sulla manovra economica, al dialogo in corso sull’università. Poi però nei luoghi di lavoro, nelle piazze, nelle interviste a giornali e tv tutto il lato «costruttivo» del quotidiano lavoro di opposizione evapora, per cedere il posto ad analisi semplicistiche, slogan aggressivi, falsificazioni delle cifre, manipolazioni della realtà. E’ come se l’opposizione del Pd, incalzata da Di Pietro e dalla propria stessa base, si vergognasse di mostrare a tutti il suo volto dialogante e ragionevole.
Detto in altri termini: i media hanno molte colpe, ma forse è anche il tuo partito che - nelle occasioni pubbliche - preferisce scaldare i cuori dei suoi simpatizzanti piuttosto che parlare alle loro menti. Secondo me è un errore, ed è una delle ragioni per cui l'immagine della sinistra che arriva nelle case non è quella della sinistra che fa il suo lavoro - spesso un ottimo lavoro - nelle aule del parlamento.
Con ammirazione e stima

Luca Ricolfi

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7610&ID_sezione=&sezione=

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16/7/2010

La fine di una stagione
   
LUCA RICOLFI

Come ampiamente previsto, ieri la manovra economica ha ottenuto la fiducia in Senato e, salvo sorprese molto improbabili, entro fine mese otterrà la fiducia anche alla Camera.

È una buona manovra?

Dipende dai punti di vista. Sul piano macroeconomico era una manovra necessaria, e se una critica si può avanzare è semmai che è stata troppo leggera: si poteva tagliare di più la spesa pubblica corrente, e fare qualcosa di incisivo per la crescita, ad esempio più investimenti in istruzione e meno tasse sui produttori.

Se però andiamo ai dettagli della manovra, e in particolare alla distribuzione dei risparmi di spesa, il bilancio si fa decisamente negativo. Dico questo non dal mio personale punto di vista, che è di nessuna rilevanza, bensì dal punto di vista del governo stesso, o meglio della cultura politica di cui il centro-destra ha provato in questi anni a farsi interprete. Secondo questa visione, la missione centrale di questo governo era di introdurre nel Paese massicce dosi di meritocrazia, di premialità, di responsabilità, di equità, a partire dalla scuola, dall’università, dai bilanci degli enti locali.

Ebbene, rispetto a questo ideale, per cui non pochi ministri si sono coraggiosamente battuti in questi anni, le manovre degli ultimi anni rappresentano un mortificante salto all’indietro.

Nelle università i tagli sono stati sostanzialmente lineari, senza alcun riguardo alle enormi differenze di efficienza fra i diversi atenei e le diverse facoltà. Nella scuola, la promessa di destinare il 30% delle risorse risparmiate con i tagli della prima manovra (estate 2008) ad un premio per gli insegnanti più meritevoli è stata sospesa per salvare gli scatti stipendiali automatici del corpo insegnante. Quanto alle Regioni, il governo si è ben guardato dallo specificare in che modo i tagli dovranno risparmiare le Regioni più virtuose (l’art. 14 è un capolavoro di vaghezza). Per non parlare dei ripiani più o meno parziali dei debiti degli enti locali, che hanno visto via via graziati Catania, Palermo, Roma. O della possibilità, concessa solo alle Regioni a statuto speciale (notoriamente più sprecone delle altre), e in particolare alla Sicilia, di prorogare i contratti a tempo determinato. E infine, dulcis in fundo: la dilazione del pagamento delle multe per le quote latte, un favore a un manipolo di allevatori del Nord che mortifica tutti i produttori onesti, che hanno rispettato le quote.

Si può obiettare, naturalmente, che la politica è l’arte del possibile, e che per presentarsi in Europa con i conti in ordine e salvare la pace sociale il governo ha dovuto fare qualche concessione alle lobby e alle forze politico-sindacali che lo tengono sotto scacco. Può darsi, ma il punto è che così facendo il governo ha purtroppo contribuito con le proprie stesse mani a segnare la fine di una stagione, anzi di quella che doveva essere la «sua» stagione. I segnali iniqui e antimeritocratici contenuti nelle tre grandi manovre che si sono succedute in questi primi due anni e mezzo sono così intensi che ben difficilmente il governo potrà, su questo terreno, riguadagnare la credibilità perduta. Se è bastato il fronte delle Regioni a impedire tagli selettivi, sarà ben difficile che quel che non è stato possibile oggi - premiare i territori virtuosi - divenga possibile domani in conferenza Stato-Regioni, o con i decreti attuativi del federalismo. Se la decisione già presa di premiare gli insegnanti migliori ha dovuto essere sospesa per salvare gli automatismi di carriera, non si vede quando mai sarà possibile introdurre un po’ di meritocrazia nella scuola. E se poche decine di allevatori sponsorizzati dalla Lega sono stati sufficienti a introdurre una norma iniqua come quella sulle quote latte, non si vede come sarà possibile agire domani, quando si dovranno colpire interessi ben più estesi e organizzati.

Ma forse la verità che sta dietro tutte queste vicende è che - nonostante i benefici di un’opposizione imbarazzante nella sua pochezza - il governo è debole, molto più debole che qualche mese fa. Così debole che basta la fronda dei finiani a costringerlo a una raffica di dimissioni (Scajola, Brancher, Cosentino), che ancora poche settimane fa venivano sdegnosamente escluse. Così debole che ogni alzata d’ingegno della Lega, dalla difesa delle Province alla tutela corporativa degli allevatori, è in grado di condizionare la politica economica. Così debole che non riesce a introdurre tagli veramente selettivi nelle università, nelle Regioni, negli enti locali. Così debole da prendere in seria considerazione sia l’ipotesi di allargare la maggioranza all’Udc, sia l’ipotesi di riportare il Paese al voto nonostante una maggioranza parlamentare senza precedenti.

Chi è abituato a ragionare in termini ideologici o di schieramento potrà rallegrarsi che il governo Berlusconi sia entrato in una fase di stallo, se non di crisi aperta. Chi sogna il «grande centro» o governi di «responsabilità nazionale» potrà pensare che l’ora delle terze forze è finalmente arrivata. Io sono molto più scettico e penso invece che la triste parabola del governo Berlusconi confermi solo che il rebus italiano non ha soluzioni, come la quadratura del cerchio. Il centrodestra non ha la forza per fare le riforme che mille volte ha promesso al Paese, prime fra tutte la riduzione delle tasse, il federalismo, la riforma meritocratica della Pubblica amministrazione. Un governo più largo, di responsabilità nazionale, avrebbe forse la forza di parlare al Paese ma sarebbe paralizzato dalle divisioni interne e dai veti incrociati. Quanto alla sinistra, basta il ricordo del governo Prodi per toglierci ogni illusione. Così quel che ci resta è solo una montagna di parole, e la stanchezza di constatare che sono sempre le stesse.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7602&ID_sezione=&sezione=


Titolo: Pietro ICHINO. - Giusto un contratto per il settore auto:...
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2010, 04:48:20 pm
L'INTERVISTA

Ichino: "Il diritto di sciopero va limitato da accordi sindacali"

Il giuslavorista e senatore Pd: "La nostra cultura del diritto del lavoro è arretrata, ancor più della legge".

"Giusto un contratto per il settore auto: le norme per i metalmeccanici sono le stesse dal 1972"

di PAOLO GRISERI


Pietro Ichino, senatore del Pd, è uno dei principali esperti italiani di diritto del lavoro.
Professor Ichino, si aspettava che la Fiat di Marchionne potesse essere condannata per comportamento antisindacale?
"Sono cose che accadono anche nelle migliori famiglie. Del resto, la Fiat avrebbe potuto anche vincere la causa: il giudice ha ritenuto, in via provvisoria, il licenziamento ingiustificato solo perché ha considerato che l'istruttoria sommaria non avesse dimostrato il dolo dei lavoratori, cioè la loro volontà di ostruire il flusso dei carrelli automatici. Con questo, lo stesso giudice implicitamente avverte che, se invece nel giudizio di merito quella volontà risultasse dimostrata, il licenziamento potrebbe essere convalidato".

Il Lingotto chiede ai sindacati la certezza che il ciclo produttivo si possa svolgere senza interruzioni. È possibile in una democrazia occidentale avere questa certezza?
"Certo che sì: proprio a questo serve la clausola di tregua sindacale, che in quasi tutti gli altri Paesi occidentali vincola non soltanto il sindacato stipulante, ma anche i singoli lavoratori cui il contratto si applica. Se Italia questa regola non vale, non è perché lo stabilisca la legge, ma perché nella nostra cultura giuslavoristica prevale ancora un'idea vecchia. Molti giuslavoristi, comunque, non la condividono più".

Quale idea?
"Quella secondo cui il contratto collettivo non può disporre del diritto del singolo lavoratore di aderire in qualsiasi momento a qualsiasi sciopero, anche se proclamato da un mini-sindacato. È l'idea della "conflittualità permanente", i cui fasti si sono celebrati negli anni '70, e che oggi in Italia è praticata ancora soltanto nel settore dei trasporti e in quello metalmeccanico. Dobbiamo chiederci se ci conviene continuare a difendere questa peculiarità del sistema italiano di relazioni industriali. La sfida di Marchionne ha il merito di farci toccare con mano quanto questa idea possa essere costosa per gli stessi lavoratori".

In questi giorni i tecnici di Federmeccanica stanno preparando un'ipotesi di contratto nazionale del solo settore auto. La considera una strada praticabile?
"Mi sembra una scelta non solo praticabile, ma anche auspicabile, oggi il contratto nazionale dei metalmeccanici si applica ad aziende diversissime, dal settore aerospaziale, alle fonderie e alle case di software. E, nella sua parte normativa, quel contratto è rimasto fermo al 1972".

Quali sono gli attuali diritti dei lavoratori che una nuova normativa contrattuale nelle fabbriche potrebbe modificare e quali invece quelli che, a suo parere, sono intoccabili?
"Di regola, il contratto collettivo può disporre di tutto ma non di diritti o standard di trattamento garantiti ai lavoratori da una legge".

Nel caso dell'accordo di Pomigliano questi diritti sono stati toccati?
"No. Si può rifiutare quell'accordo perché non lo si ritiene abbastanza vantaggioso per i lavoratori, ma non perché esso violi la legge, né nella parte sulle punte di assenza per malattia, né nella parte sulla tregua sindacale".

Ma deroga al contratto nazionale del settore.
"Questo è il problema: nel nostro sistema attuale non sono chiari i requisiti e le condizioni per la validità della contrattazione al livello aziendale di deroghe rispetto al contratto nazionale. Questo è un grave difetto del sistema, che dobbiamo correggere al più presto, se non vogliamo che le divisioni tra i sindacati paralizzino la sperimentazione di piani industriali innovativi".

(12 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/08/12/news/intervista_ichino-6234092/?ref=HRER2-1


Titolo: Pietro ICHINO. - Melfi, perché questa volta Fiat sbaglia
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2010, 05:57:27 pm
L'intervento / la sfida sui 3 operai

Melfi, perché questa volta Fiat sbaglia

Il nodo è il rischio di paralisi del progetto per il veto di un sindacato minoritario

   
Caro direttore,

è davvero difficile capire il comportamento della Fiat a Melfi. Questo scontro sulla reintegrazione dei tre lavoratori licenziati pone al centro del dibattito una scelta nella quale l'azienda ha probabilmente torto, perché l'ordinanza cautelare del giudice deve essere rispettata integralmente, anche se la si ritiene sbagliata. Lo scontro di Melfi distoglie invece l'attenzione dell'opinione pubblica dalle questioni assai più importanti sollevate - con piena ragione, queste - dall'amministratore delegato della Fiat, quando ha proposto al nostro Paese il suo colossale piano industriale.

Nella vertenza esplosa in seno allo stabilimento lucano l'azienda può forse avere ragione sul merito della questione: non si può affatto escludere - neppure il tribunale di Melfi, nella sua ordinanza del 9 agosto scorso, lo esclude - che effettivamente i tre sindacalisti durante lo sciopero del 7 luglio abbiano operato deliberatamente per ottenere il blocco dei carrelli automatici, in modo da paralizzare l'attività dello stabilimento, nonostante che la maggioranza dei lavoratori avesse rifiutato di aderire all'agitazione. Ma già la scelta del licenziamento, in un caso in cui avrebbe potuto adottarsi anche una sospensione disciplinare, ha l'effetto di radicalizzare lo scontro; ora non si comprende davvero la necessità dell'ulteriore inasprimento conseguente alla scelta di ottemperare in modo cavilloso all'ordine provvisorio del giudice (la direzione aziendale non impedisce ai tre licenziati l'ingresso in azienda, né l'esercizio da parte loro dell'attività sindacale, ma li esonera dalla prestazione lavorativa). Le stesse Cisl e Uil, che in questa vicenda appoggiano il piano industriale di Marchionne, sono messe in difficoltà da questa scelta dell'azienda.

Vero è che la Fiat probabilmente annette all'episodio del blocco dei carrelli verificatosi durante lo sciopero del 7 aprile un significato di portata più generale, vedendo in esso la prima manifestazione di una guerriglia con cui la Fiom - pur minoritaria tra i dipendenti Fiat - potrebbe proporsi di impedire l'attuazione dell'accordo sul piano industriale, approvato dalla coalizione sindacale maggioritaria. E questo è proprio il nodo cruciale della questione che Marchionne ha il merito di aver posto apertamente all'Italia: non è pensabile che una multinazionale investa miliardi su di un piano industriale se questo è esposto al rischio di essere paralizzato dal veto di un sindacato minoritario. E non soltanto dal veto della Fiom, che qui rappresenta pur sempre un quinto dei lavoratori interessati, ma anche da quello del mini-sindacato o del comitato di base che ne rappresenti, in ipotesi, l'1 per cento. Non si può dimenticare che i Cobas alla Fiat di Pomigliano hanno proclamato lo «sciopero permanente dello straordinario» fino al 2014 e che, secondo il nostro diritto sindacale attuale (caso unico in Europa) qualsiasi dipendente potrà in qualsiasi momento aderire a questo sciopero, perché il patto di tregua contenuto nell'accordo per il nuovo piano industriale non vincola i singoli lavoratori: con questo si toglie ogni certezza di efficacia a una delle clausole che costituiscono la chiave di volta della nuova organizzazione del lavoro prevista dal piano.

Se a questo aggiungiamo la guerriglia giudiziaria che, nel nostro ordinamento attuale, può essere scatenata anche contro altre clausole di importanza cruciale per il piano industriale (in quanto stipulate in deroga rispetto al contratto collettivo nazionale) si comprendono le ragioni di Marchionne, quando ci chiede di adeguare il nostro sistema di relazioni industriali rispetto agli standard dell'Occidente industrializzato. La sua richiesta esplicita e ruvida scandalizza chi, nella vecchia sinistra politica e in quella sindacale, è rimasto legato a un'idea del diritto di sciopero ispirata al modello della conflittualità permanente «anni '70». Invece l'amministratore delegato della Fiat ci fa un servizio prezioso: le altre multinazionali non perdono tempo a discutere di queste cose quando decidono di starsene alla larga dal nostro Paese. Se rifiutiamo di prendere sul serio quello che Marchionne ci propone, e che è normale in quasi tutti gli altri Paesi industrializzati, chiudiamo gli occhi su una delle cause principali (non l'unica, certo, ma sicuramente una delle più importanti) dell'incapacità dell'Italia di attirare gli investimenti stranieri: in Europa solo la Grecia fa peggio di noi, su questo piano. E dimentichiamo che correggere questo nostro difetto e aprirci agli investimenti delle multinazionali costituisce la leva più efficace di cui oggi possiamo disporre per ricominciare a crescere, dopo un quarto di secolo di stagnazione, fare crescere la domanda di lavoro e le retribuzioni.

Pietro Ichino

23 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/10_agosto_23/una-radicalizzazione-che-oscura-il-piano-marchionne-ichino_77194904-ae79-11df-92e9-00144f02aabe.shtml


Titolo: Pietro ICHINO. - «L'alternativa al modello Marchionne è la camorra»
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2010, 06:01:20 pm
La provocazione di Ichino: «L'alternativa al modello Marchionne è la camorra»

Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2010 alle ore 14:10.

   
«Marchionne ci fa un servizio prezioso». Questo il parere di Pietro Ichino, giuslavorista senatore del Pd, intervenuto a "24 Mattino" su Radio 24 dopo le contestazioni emerse alla festa del Pd. Parlando del caso Fiat e di Pomigliano, il giuslavorista ha detto: «Marchionne pone una questione: le nostre regole in materia di relazioni sindacali e lo stesso ordinamento del lavoro non corrispondono agli standard dell'occidente avanzato e costituiscono un ostacolo per l'Italia di aprirsi agli investimenti delle multinazionali».

«Marchionne dunque ci fa un servizio prezioso perché le multinazionali stanno alla larga dell'Italia senza dirci qual è il problema, lui invece ci avverte: ci dice che qui ci sono attriti da risolvere e che non attengono ai diritti fondamentali, come dicono la vecchia sinistra o la Fiom». Sul caso Pomigliano Ichino aggiunge: «Sul piano sindacale la maggioranza dei lavoratori ha accettato la nuova organizzazione del lavoro proposta da Marchionne. Credo che abbiano fatto bene i loro conti. E a chi (Fausto Bertinotti, ndr) parla di modalità concentrazionarie, bisogna valutare le alternative dei lavoratori di Pomigliano. Le alternative sono quelle descritte da Saviano in "Gomorra", il lavoro nei sottoscala controllati dalla camorra a 800 euro al mese senza contributi e alcun minimo diritto sindacale. Questa è la realtà del mercato del lavoro nella periferia di Napoli. La deroga peggiore al contratto collettivo tollerata da decenni é quella governata dalla camorra, altroché le deroghe che chiede Marchionne».

Quanto alla contestazione subita due giorni fa alla festa del Pd a Milano. Ichino, da anni sotto scorta perché minacciato dalle nuove Br, ha aggiunto: «È la stessa tecnica usata per Marco Biagi, porta a ignorare le idee altrui e in definitiva la realtà. In questo tentativo di non farmi parlare ci vedo una tecnica del demonizzare chi dissente. È il tentativo di creare un cordone sanitario perché delle tue idee non si deve discutere. Il nesso tra questa aberrazione politica e l'aberrazione terroristica è molto labile, non voglio mescolare i due discorsi. Certo che la vecchia sinistra in Italia non ha abbandonato il vecchio costume per cui su determinate questioni non si deve discutere. Per esempio parlare della derogabilità o rigida inderogabilità del contratto nazionale in Italia non è ammesso, è un tabù».

Ichino poi ha affrontato il tema dei salari in Italia: «La prima risposta che deve dare la politica è detassare i redditi di lavoro fino a mille euro e spostare il carico dell'Irpef sui redditi medi e alti. Questo è un punto drammatico, una questione che non viene affrontata dalla politica».

©RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2010-09-15/provocazione-ichino-alternativa-modello-141033.shtml?uuid=AYEgZAQC


Titolo: Pietro ICHINO Il lavoro e i veti che non aiutano
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2011, 12:40:59 pm
Riforme

Il lavoro e i veti che non aiutano

Non è affatto impensabile, per tutti i nuovi rapporti di lavoro, coniugare flessibilità maggiore con sicurezza professionale


Caro Direttore,
nel dibattito sulla riforma del mercato del lavoro che si è aperto dopo l'intervista del ministro Elsa Fornero al Corriere del 18 dicembre, si osserva una straordinaria divaricazione tra la sostanza politico-economica della questione, che viene per lo più sottaciuta, e gli argomenti sui quali ci si accapiglia. Il primo tema caldo sollevato a sproposito è stato quello del rischio che l'introduzione di una nuova disciplina del lavoro in un periodo di recessione economica scateni un'ondata di licenziamenti.

Il capo del governo Mario Monti è stato chiarissimo, fin dal discorso programmatico del 17 novembre, sul punto che la riforma non deve toccare i rapporti di lavoro già costituiti, bensì soltanto quelli destinati a costituirsi da qui in avanti. Nella congiuntura attuale, dunque, la riforma potrà influire soltanto sul flusso delle assunzioni, non certo su quello dei licenziamenti.
Un altro tema caldo, anzi caldissimo, sollevato a sproposito per chiudere il discorso prima ancora che si apra, è quello dell'intangibilità dell'articolo 18 dello Statuto, come chiave di volta della protezione della libertà e della dignità dei lavoratori. Ora, la questione che il ministro del Lavoro ha posto nella sua intervista al Corriere è proprio quella del come voltar pagina rispetto a una situazione che vede le nuove generazioni per lo più escluse da quella protezione. E tutti i progetti di riforma oggi sul tavolo prevedono che per questo aspetto - cioè in particolare quello della tutela antidiscriminatoria - il campo di applicazione dell'articolo 18 venga esteso a tutta la vasta area di lavoro sostanzialmente dipendente che ne è attualmente esclusa.

Molto più serie sono le questioni sollevate da chi, come Cesare Damiano, nell'intervista al Corriere di ieri, entra nel merito del problema. Le obiezioni dell'ex-ministro del Lavoro alla prospettiva enunciata da Mario Monti di imitare in Italia il modello scandinavo sono essenzialmente tre: i Paesi scandinavi sono molto più piccoli del nostro; il loro mercato del lavoro è dotato di servizi molto più efficienti dei nostri; essi infine dispongono di molte più risorse economiche per il sostegno del reddito dei lavoratori che perdono il posto. A ben vedere, è sostanzialmente lo stesso discorso che su queste pagine ha proposto Mario Fezzi, avvocato della Cgil, il 30 novembre scorso. Entrambi questi interventi, molto ragionevolmente, lasciano intendere il vero nodo politico: affrontiamo e risolviamo prima la questione della sicurezza economica e professionale dei lavoratori, e la questione di come estenderla davvero a tutti i lavoratori; risolta quella, un accordo sulle regole della flessibilità del lavoro non faticheremo a trovarlo.

Esaminiamo dunque una per una le questioni di merito sollevate. Sulle dimensioni geopolitiche, in realtà, il problema non dovrebbe porsi. La Svezia ha la stessa popolazione - e lo stesso identico reddito pro capite - della Lombardia; all'incirca lo stesso può dirsi della Danimarca in riferimento a Regioni come il Piemonte, il Veneto o l'Emilia Romagna; le altre per la maggior parte sono più piccole. E dal 2001 le nostre Regioni hanno piena competenza legislativa e amministrativa in materia di servizi al mercato del lavoro. Certo, i nostri servizi pubblici in questo campo sono gravemente inefficienti. Ma non è che in Italia manchi il know-how specifico: abbiamo anche noi le agenzie che sanno offrire servizi eccellenti di outplacement (assistenza intensiva per la ricollocazione) e di riqualificazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti. Il problema è che sono agenzie private, le quali chiedono di essere pagate a prezzi di mercato. Nulla impedisce, però, di pensare che le Regioni incomincino a spendere meglio i fiumi di denaro che oggi sperperano in questo campo, ivi compresi i cospicui contributi del Fondo sociale europeo oggi poco e malissimo utilizzati, per rimborsare il costo standard di mercato di questi servizi alle imprese che se ne avvalgano per ricollocare i propri lavoratori.

Resta il problema del sostegno del reddito ai lavoratori stessi. Qui non sarebbe difficile riconvertire una parte dell'enorme spesa oggi sostenuta dall'Inps per la cassa integrazione «a zero ore» attivata a fondo perduto per congelare le crisi occupazionali aziendali, destinandola invece a estendere a tutti i settori il trattamento di disoccupazione speciale oggi riservato ai lavoratori dell'industria: 80 per cento per il primo anno successivo alla perdita del posto. Per arrivare ai livelli danesi di entità e durata del sostegno del reddito al lavoratore disoccupato occorre aggiungere un trattamento complementare; questo oggi può essere chiesto alle imprese stesse, in cambio di una flessibilità di livello danese. In questo modo non è affatto impensabile, per tutti i nuovi rapporti di lavoro, coniugare una flessibilità delle nostre strutture produttive molto maggiore con una sicurezza economica e professionale dei lavoratori di livello scandinavo. E a questo punto i veti politico-sindacali sono destinati a cadere, o quanto meno a stemperarsi.

Pietro Ichino

22 dicembre 2011 | 8:06© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_22/ichino-lavoro-veti_a3d585e2-2c69-11e1-a06d-72efe21acfe6.shtml


Titolo: Andrea Ichino e Paolo Pinotti. - RESTA UNA ROULETTE
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2012, 06:24:27 pm
RESTA UNA ROULETTE

di Andrea Ichino e Paolo Pinotti 20.03.2012

Ringraziamo Nicola Persico per aver portato nuova linfa al confronto di opinioni tra economisti e magistrati originato dai nostri articoli, confronto che, per inciso, forse non avrebbe avuto luogo senza gli articoli stessi.

UN ESEMPIO CHIRURGICO

Può essere utile, per chiarire il nostro pensiero alla luce dei commenti di Nicola Persico, considerare il caso di una malattia che, allo stato attuale delle conoscenze mediche, possa essere curata solo con un intervento chirurgico eseguibile in diverse varianti tutte molto incerte. I pazienti arrivano al pronto soccorso e casualmente trovano in servizio uno dei tanti chirurghi di un ospedale. I chirurghi sono tutti bravissimi, ma hanno legittime opinioni diverse su quale sia la variante migliore di intervento a seconda delle peculiarità specifiche del malato. I cittadini, quindi, senza alcuna “colpa” dei medici, si trovano esposti a una lotteria, riguardo ai risultati dell’operazione, che in parte deriva dall’incertezza stessa della tecnica chirurgica e in parte deriva anche dai legittimi orientamenti del medici. È perfettamente possibile che la variante A preferita dal medico X generi mediamente esiti più infausti, ma, in caso di successo, dia risultati migliori. Viceversa, con la variante B preferita dal medico Y.
In questo contesto, ipotizziamo che venga scoperta una terapia farmacologica che riduce notevolmente la variabilità degli esiti terapeutici, anche senza assicurare guarigione certa. La terapia farmacologica riduce solamente l’incertezza a cui sono esposti i cittadini che devono ricorrere al pronto soccorso. Per quale motivo l’ospedale non dovrebbe prendere in considerazione la terapia alternativa, che implicherebbe di non affidare più ai chirurghi il trattamento dei casi corrispondenti?

CONCILIAZIONE E TRASPARENZA

I nostri articoli non erano finalizzati a stabilire quanto della variabilità dei tempi e degli esiti osservati nei tribunali considerati sia dovuta a “errore” del giudice. Questa è la domanda studiata nel saggio americano citato da Nicola Persico, ma non è quella che a noi interessa. (1) Anche se la variabilità fosse interamente dovuta a validissimi motivi (cause pregresse nel caso dei tempi, legittimi orientamenti nei casi degli esiti), il nostro punto rimarrebbe valido: l’attuale assegnazione casuale dei processi ai giudici, per ottemperare all’articolo 25 della Costituzione, genera una lotteria per i cittadini anche senza colpe per i magistrati. La lotteria è inevitabile per molti processi in cui l’accertamento giudiziale è insostituibile, ma almeno per quelli dovuti a giustificato motivo oggettivo esiste una “terapia” alternativa che assicura al cittadino meno incertezza.
E questo a maggior ragione nei casi di licenziamento per motivo economico e organizzativo, nei quali i giudici non devono interpretare “uno stesso fatto” come ritiene Persico. Devono invece esprimere una valutazione sul futuro, ossia sulla probabilità che il posto di lavoro in futuro generi una perdita e su quanto grande la perdita sia. E, alla luce di queste valutazioni, devono decidere se la perdita attesa (data dalla probabilità di perdita moltiplicata per la sua entità) sia sufficientemente alta da potersi considerare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Per inciso, val la pena di ricordare anche che, nell’attuale disciplina, il lavoratore (sfortunato) per il quale il licenziamento venga considerato legittimo per motivo economico-organizzativo (e quindi senza nessuna sua colpa) si ritrova con un pugno di mosche in mano. Con il metodo del risarcimento, potrebbe in ogni caso godere di una somma di denaro che lo aiuterebbe a transitare ad altra occupazione. Anche solo per questo motivo, non sembra preferibile la “terapia alternativa”?
Riguardo ai casi conciliati, il nostro articolo dice chiaramente che: “sotto l’ipotesi che la frazione di sentenze favorevoli al lavoratore emesse da un giudice sia proporzionale al grado in cui le conciliazioni indotte dallo stesso giudice siano favorevoli al lavoratore, possiamo concludere che, anche tenendo conto dell’elevato numero di conciliazioni, la lotteria derivante dall’assegnazione casuale dei processi ai magistrati di un tribunale implica probabilità di vittoria molto differenti a seconda della sorte”. Ci sembra un ragionamento basato su un’ipotesi plausibile, da verificare ovviamente se fossero disponibili dati precisi sugli esiti delle transazioni conciliative. Anche in questo caso servono dati e trasparenza per una ricerca che sarebbe utilissima.
Infine colpisce, sempre a proposito di trasparenza totale, come sia interpretata negli Stati Uniti: lo studio americano riporta addirittura la performance dei differenti giudici con il loro nome.

(1) Fischman, Joshua B., “Inconsistency, Indeterminacy, and Error in Adjudication” (February 27, 2012). Virginia Public Law and Legal Theory Research Paper No. 2011-36. Available at SSRN: http://ssrn.com/abstract=1884651
 
da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002949.html


Titolo: Nicola Persico. - IL GIUDICE E LE SUE STATISTICHE
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2012, 06:25:42 pm
IL GIUDICE E LE SUE STATISTICHE

di Nicola Persico 16.03.2012

Studiare l'eterogeneità nelle decisioni giudiziarie è importante oltreché legittimo. Ma i dati statistici sui quali si fonda il ragionamento devono essere completi e interpretati con attenzione. Soprattutto quando si tratta di questioni delicate come l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Una certa differenza nelle decisioni dei magistrati su uno stesso argomento è inevitabile, e anche opportuna, perché riflette diverse interpretazioni della legge. E la giurisprudenza deve essere plastica ed evolversi nel tempo, per adattarsi ai mutamenti nella società.

In un recente articolo sul Corriere della Sera, e in un altro, connesso, scritto per lavoce.info, si mette l’accento sulla variabilità dell’esito delle decisioni di diversi magistrati all’interno dei singoli tribunali: alcuni magistrati decidono più velocemente, o più a favore del convenuto, rispetto ad altri colleghi. Nei due articoli si argomenta che la variabilità dovrebbe indurre il legislatore a ripensare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che assegna al giudice la responsabilità di accertare se la causa del licenziamento sia giusta.

MAGISTRATI E ARTICOLO 18

Gli articoli hanno creato un certo rumore nell’ambiente giudiziario per (almeno) due motivi. Primo, perché propongono dati che sembrano mettere in discussione l’operato della magistratura. Secondo, perché l’obiettivo retorico dell’articolo sembra essere principalmente l’articolo 18, e quindi la magistratura sembra essere una “vittima casuale” all’interno dell’architettura dell’articolo.
Ho studiato alcuni degli stessi dati utilizzati in questi articoli, vorrei perciò aggiungere una mia prospettiva. Spero sia utile a chi si interessa della efficienza della giustizia, una importante questione per l’Italia.
Una prima osservazione è che la durata dei processi riflette il pregresso oltre all’operosità di un singolo magistrato. Se a un nuovo arrivato in sede viene addossato un forte carico di casi aperti, questo magistrato sarà necessariamente più lento in tutti, anche quelli futuri, nella misura in cui il pregresso si trascina e si accumula. Quindi, salvo un’analisi approfondita della durata dei processi basata sull’intera storia lavorativa del magistrato, i dati hanno un valore limitato.
Secondo: l’articolo 18 può piacere o non piacere, ma comunque richiede al giudice di rendere un giudizio sui fatti. È naturale aspettarsi qualche variabilità nel modo in cui giudici diversi interpretano uno stesso fatto; non foss’altro perché la giurisprudenza (applicazione delle norme ai fatti) deve essere plastica e si deve evolvere nel tempo, per adattarsi al mutare dei rapporti produttivi. La plasticità, ragionevolmente, non può realizzarsi istantaneamente e uniformemente fra i vari giudici. Quindi, non solo dobbiamo aspettarci qualche differenza fra i diversi giudici, ma è anche opportuno che ci sia. La vera questione è quanto sia grande la divergenza.

DIVERSE INTERPRETAZIONI DELLA LEGGE

È proprio la questione affrontata in un recente articolo accademico americano. (1) L’articolo inizia con la notazione che “certamente, l’esistenza di differenze di comportamento fra giudici refuta l’asserzione che il processo di aggiudicazione sia obiettivo e meccanico, ma questa asserzione non ha mai avuto molti sostenitori”. In altri termini, è ben noto che vi siano discrepanze nei tassi di aggiudicazione. Il contributo dell’articolo è di cercare di quantificare quante di queste discrepanze siano dovute a errori di applicazione della legge, e quante invece siano dovute a legittime differenze di interpretazione. L’analisi statistica proposta è troppo complessa per essere descritta qui, ma il risultato è che differenze anche grandi non necessariamente riflettono errore. Si guardi alle enormi discrepanze nella figura che segue e che si riferisce alle decisioni in materia di immigrazione del tribunale di New York. Si noti che il giudice Bain consente l’immigrazione in quasi il 90 per cento dei casi, mentre il giudice Jankun in meno del 5 per cento. E l’analisi statistica permette di concludere che, se più del 25 per cento dei casi è aperto a differenze di interpretazione, allora il tasso di errore desumibile dalla figura può essere inferiore al 10 per cento.
 
Le discrepanze italiane evidenziate dagli articoli sul Corriere della sera e lavoce.info sono molto inferiori a quelle dei giudici americani. Dunque il tasso di errore desumibile sarà inferiore al 10 per cento.
Ma, nel caso italiano, c’è un punto ancora più delicato, che ha a che vedere con la misurazione del fenomeno. Le statistiche addotte a supporto della discrepanza sono parziali. Per esempio, su lavoce.info si legge “A Milano, ad esempio, [il giudice meno favorevole al lavoratore] decide il 7 per cento dei casi a favore del lavoratore, mentre il suo collega all’estremo opposto decide a favore del lavoratore il 27 per cento dei processi”. Vero. Però è vero anche che la maggioranza delle decisioni (90 per cento per il primo giudice, e più del 60 per cento per l’altro) sono classificate come “altri esiti” o “conciliate”. Non è possibile sapere se le decisioni in queste categorie favoriscano il lavoratore o l’impresa. E quindi il dato statistico è parziale. In assenza di maggiori informazioni, è opportuno essere cauti nel rilevare una discrepanza.
Insomma, l’argomento degli articoli sul Corriere e lavoce.info è interessante. È legittimo e importante studiare l’eterogeneità nelle decisioni giudiziarie. È però necessario farlo in modo approfondito, data l’importanza di queste questioni.

(1) Fischman, Joshua B., “Inconsistency, Indeterminacy, and Error in Adjudication” (February 27, 2012). Virginia Public Law and Legal Theory Research Paper No. 2011-36. Available at SSRN: http://ssrn.com/abstract=1884651.

da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002937.html


Titolo: Pietro ICHINO. - La riforma del mercato del lavoro. Imperfetta ma funziona
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2012, 11:12:55 pm
La Lettera

Imperfetta ma funziona

La riforma del mercato del lavoro

Caro direttore,
del progetto di riforma che il governo ha presentato al Paese una cosa è indiscutibile: esso tende ad allineare il nostro sistema di protezione del lavoro a quelli dei nostri maggiori partner europei.

L'allineamento riguarda sia la disciplina dei licenziamenti, sia il riassetto dei cosiddetti ammortizzatori sociali; ed entrambi questi capitoli presentano qualche difetto, dovuto anche alle asperità e ai tempi stretti del confronto svoltosi nelle ultime settimane con le parti sociali, che possono e devono essere corretti. È importante però distinguere bene il dissenso sui dettagli dal dissenso sull'ispirazione di fondo della riforma.

In materia di licenziamenti, il progetto propone di riservare la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, cioè l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ai casi nei quali è in gioco un diritto assoluto del lavoratore: quello alla pari dignità e alla libertà morale. Dove invece siano in gioco soltanto interessi professionali ed economici delle persone coinvolte, propone una tecnica protettiva diversa, pacificamente praticata in tutti gli altri ordinamenti europei, fatta di indennizzo economico e sostegno del reddito: in questo, oltre che nel superamento del dualismo fra protetti e non protetti, sta essenzialmente il senso della riforma. Se fosse ben chiaro il consenso su questa scelta da parte di tutte le forze politiche che sostengono il governo, non sarebbe affatto difficile trovare nelle prossime settimane l'accordo sulla correzione di alcuni aspetti del progetto che appaiono un po' troppo tagliati a colpi di accetta. Vediamone alcuni.

Innanzitutto, l'indennità prevista nel caso di licenziamento per motivi economici dovrebbe essere garantita al lavoratore sempre e automaticamente, per evitare l'alea della controversia in tribunale e al tempo stesso per farne un efficace filtro automatico delle scelte imprenditoriali; per altro verso, in coerenza con l'idea di una tutela della stabilità che cresca col crescere dell'anzianità di servizio, si potrebbe rimodulare l'indennità di licenziamento in modo che essa consenta una maggiore facilità di recesso nella prima fase del rapporto e protegga invece di più il lavoratore che è da più tempo in azienda.

Quanto al trattamento riservato al lavoratore disoccupato, occorrerebbe valutare attentamente la possibilità di arricchirne il contenuto in termini di assistenza intensiva secondo le tecniche più progredite, responsabilizzando in proposito le imprese che licenziano e stimolando le Regioni a farsi carico della maggior parte del relativo costo, anche con il contributo del Fondo sociale europeo. Una volta stabilita l'entità complessiva dell'onere a carico dell'impresa che licenzia, sarebbe bene che solo una parte di esso consistesse nell'indennità dovuta immediatamente al lavoratore licenziato, mentre un'altra parte dovrebbe consistere in un trattamento complementare di disoccupazione che incentivi l'impresa stessa ad attivare i servizi migliori di outplacement , capaci di accelerare al massimo il percorso verso la nuova occupazione.

Questi potrebbero essere alcuni dei contributi positivi del Parlamento al miglioramento del progetto governativo. Si profila invece una discussione di tutt'altro genere tra le parti politiche. Con la Lega - del tutto dimentica della propria politica del lavoro negli ultimi dieci anni - che si incaricherà della difesa «senza se e senza ma» del vecchio assetto dell'articolo 18, in contrapposizione frontale con il PdL, suo alleato di ieri, schierato con la stessa determinazione nel senso opposto.

Quanto al Pd, esso dovrà innanzitutto chiarire a se stesso e all'opinione pubblica se condivide la scelta di fondo di armonizzare il nostro ordinamento del lavoro rispetto al resto d'Europa, cercando in particolare di allinearsi agli standard dei Paesi più avanzati. L'incertezza del Pd su questo terreno è tanto più incomprensibile, se si considera che questo progetto del Governo è in gran parte costruito con materiali programmatici prodotti proprio dal dibattito interno di questo stesso partito. È stato soprattutto il Pd, in questi ultimi anni, a denunciare il regime di apartheid fra lavoratori protetti e non protetti nel tessuto produttivo italiano. È frutto di una elaborazione proposta in quattro disegni di legge democratici di questi anni la tecnica normativa adottata nel progetto del Governo per contrastare l'abuso delle collaborazioni autonome in posizioni di lavoro sostanzialmente dipendente. È stata lanciata nell'assemblea programmatica di Genova del 2010 la proposta di far costare il lavoro a tempo indeterminato un po' meno di quello a termine. Infine, non ultima per importanza, è enunciata nel manifesto di politica del lavoro del Pd del marzo 2008 la parola d'ordine «coniugare il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza di tutti i lavoratori nel mercato».

La riforma proposta dal governo non realizzerà quella coniugazione nella misura «massima possibile»; così come non supererà del tutto il dualismo fra protetti e non protetti, ma per la prima volta nella storia della Repubblica muoverà un passo molto deciso in entrambe le direzioni. Il Pd è nato anche per promuovere questo cambiamento, questo spostamento di equilibrio complessivo del sistema; sarebbe curioso che ora rinnegasse la propria vocazione originaria.

Pietro Ichino

22 marzo 2012 | 10:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da -


Titolo: ANDREA ICHINO e Paolo PINOTTI LA ROULETTE RUSSA DELL'ARTICOLO 18
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2012, 04:43:17 pm
LA ROULETTE RUSSA DELL'ARTICOLO 18

di Andrea Ichino e Paolo Pinotti

03.03.2012

La protezione di un diritto fondamentale della persona è affidata alla roulette russa che si attiva con l’assegnazione casuale dei processi per cause di lavoro a giudici molto diversi tra loro per tempi e orientamento della decisione. È quanto emerge da una ricerca sulle cause tra lavoratori e datori di lavoro nei tre maggiori tribunali italiani: Milano, Roma e Torino. Gli esiti di ogni azione sono affidati, in ultima istanza, al caso.

“Monetizzare i diritti” è considerato un segno di inciviltà da una parte dell’opinione pubblica italiana, che in alternativa preferisce affidare la loro tutela ad un procedimento giudiziale. Ad esempio, per difendere il lavoratore da licenziamenti ingiusti si preferisce chiedere al giudice di valutare l’esistenza di un giustificato motivo o di una giusta causa, invece di stabilire, come accade in altri paesi, un prezzo monetario, magari molto alto, che l’azienda debba pagare al lavoratore per essere libera di sciogliere il rapporto di lavoro.

I TRIBUNALI DI MILANO, ROMA E TORINO

Ma, fanno bene i lavoratori ad affidare ai giudici la tutela dei loro diritti? Abbiamo selezionato i casi di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo o soggettivo, iscritti a ruolo nei Tribunali di Milano, Roma e Torino negli anni 2003-2005.  Si tratta, rispettivamente, di 3419, 6444 e 1736 casi nelle tre città, affidati a 22, 56 e 14 giudici, con un carico medio per giudice di 155, 115 e 124 di questi casi. Abbiamo escluso i giudici (e i relativi casi) che in questi tre anni hanno ricevuto in assegnazione meno di 50 processi per licenziamento. Queste esclusioni ci consentono di confrontare tra loro solo giudici che abbiano trattato un campione statisticamente significativo di casi. (1) Per il 98 per cento  di queste controversie osserviamo la storia completa, dall’iscrizione a ruolo alla conclusione che normalmente coincide con il deposito della sentenza (in primo grado) o con la conciliazione. (2) Quindi possiamo calcolare la durata completa della quasi totalità di questi processi per licenziamento.
La Tabella 1 mostra che la durata media è molto diversa nei tre tribunali: 266 giorni a Milano, 429 a Roma e 200 a Torino. Se le cause di licenziamento fossero simili nelle tre città, verrebbe naturale chiedersi per quale motivo i lavoratori di Roma (e i rispettivi datori di lavoro) debbano aspettare il doppio di quelli di Torino e oltre un terzo in più di quelli di Milano per conoscere la loro sorte.
Però è possibile che i casi di Roma siano più complessi di quelli delle altre città e quindi richiedano più tempo per essere decisi. Il confronto corretto può solo essere fatto tra giudici di uno stesso tribunale, perché, all’interno di ciascuna sede, i processi iscritti a ruolo sono assegnati a sorte tra i diversi magistrati. Quindi, per la legge dei grandi numeri, ogni giudice di uno stesso ufficio dovrebbe avere, mediamente, casi di pari complessità. Per questo motivo consideriamo solo giudici che abbiano ricevuto almeno 50 assegnazioni nel periodo considerato. E questo ci consente di verificare statisticamente che, in effetti, le caratteristiche osservabili dei processi assegnati ai diversi giudici sono mediamente simili. Ad esempio, lo sono le proporzioni di ricorsi per giusta causa o giustificato motivo.

C’È GIUDICE E GIUDICE

Nella Figura 1, ogni barra verticale corrisponde ad un giudice e l’altezza della barra misura la durata media dei processi per licenziamento a lui o lei assegnati casualmente. È evidente che, all’interno di ciascun tribunale, i tempi medi di conclusione dei processi non sono simili per i diversi giudici, nonostante i casi loro assegnati abbiano complessità comparabili. La Tabella 1 indica, ad esempio, che a Roma il lavoratore e l’impresa che per sorte vengano assegnati al giudice mediamente più veloce possono sperare di veder decisa la loro causa in 179 giorni. I giorni diventerebbero invece 693 se venissero assegnati al giudice più lento: un incremento di quasi 4 volte. Se, prudenzialmente, vogliamo escludere i giudici più lenti o più veloci del 10 per cento dei  loro colleghi, il lavoratore e l’impresa fronteggerebbero, sempre a Roma, una forbice di durate che varia da 284 a 569 giorni: un incremento di oltre 2 volte tra la durata inferiore e quella maggiore. A Milano e Torino le differenze tra giudici veloci e lenti non sono meno sorprendenti: escludendo gli outliers, si passa da 193 a 333 giorni nel capoluogo lombardo e da 97 a 318 in quello piemontese. Anche in questi tribunali, quindi, le durate dei processi possono, rispettivamente, quasi raddoppiare o più che triplicare a seconda del giudice a cui il caso viene per sorte assegnato.

COME UNA LOTTERIA

Per l’impresa, la lotteria generata da questa forbice di durate è particolarmente costosa perché qualora il giudice decidesse in favore del lavoratore, il datore di lavoro dovrebbe versare a lui o lei non solo la retribuzione non pagata nelle more del giudizio e i relativi contributi sociali. Dovrebbe anche pagare all’Inps una multa sostanziosa per gli omessi contributi sociali, multa che aumenterebbe o diminuirebbe a seconda di quanto tempo impiega il giudice a decidere.
Però la domanda che ci siamo posti è se convenga ai lavoratori affidarsi ai giudici per tutelare i loro diritti e, da questo punto di vista, i costi per le imprese legati ai tempi di decisione possono apparire poco rilevanti. Sebbene sia difficile pensare che questi tempi siano irrilevanti per un lavoratore, essendo in gioco la possibilità di rimanere senza stipendio per 693 giorni invece che 179, come ad esempio accade a Roma, è probabile che ciò che conta maggiormente per i lavoratori sia la probabilità che il loro ricorso contro il licenziamento sia accolto. Ma anche in questo caso, dai dati emerge che l’accertamento giudiziale del giustificato motivo è una roulette russa.
La Figura 2 descrive la probabilità dei diversi esiti di un processo per licenziamento nei tribunali di Milano e Roma (il dato non è disponibile per Torino). Per ogni giudice, fatto 100 il numero totale dei processi a lui o lei assegnati, le quattro parti della barra verticale misurano le proporzioni di sentenze favorevoli al ricorrente (ossia il lavoratore nella stragrande maggioranza dei casi), (3) di sentenze favorevoli al convenuto (il datore di lavoro), di conciliazioni e di altri esiti.

L’INCERTEZZA DELL’ESITO

A Milano, ad esempio, l’ultimo giudice sulla destra della tabella è favorevole al lavoratore circa 4 volte più frequentemente che il primo giudice sulla sinistra. Quest’ultimo infatti decide il 7 per cento dei casi a favore del lavoratore, mentre il suo collega all’estremo opposto decide a favore del lavoratore il 27 per cento dei processi. L’incertezza di esito a seconda del giudice assegnato è ancora maggiore per l’impresa che può passare da un giudice a lei favorevole solo nel 2 per cento dei casi fino ad un giudice che invece le da ragione nel 20 per cento dei casi, con un incremento di ben 10 volte della probabilità di vittoria. A Roma, è la probabilità di vittoria del lavoratore che può aumentare di  10 volte a seconda del giudice: dal 4 per cento del primo giudice a sinistra nella Figura 3, al 40%  dell’ultimo giudice sulla destra. La forbice per le imprese è invece più contenuta, ma sempre considerevole, passando dal 4 per cento al 19 per cento di probabilità di vittoria. È interessante notare che mentre a Milano nessun giudice emette sentenze favorevoli alle imprese più frequentemente di quelle favorevoli al lavoratore, a Roma i lavoratori non possono certamente contare su una totalità di giudici a loro favorevoli.
Purtroppo non abbiamo dati sufficienti per valutare quale delle due parti possa considerare la conciliazione come una quasi-vittoria. Ma, in ogni caso, anche la probabilità di questo esito varia molto tra i giudici nonostante il loro portafoglio di casi sia simile. A Milano si passa infatti da giudici che inducono le parti ad una transazione nel 49 per cento dei casi, fino a giudici per cui questo esito si verifica nel 76 per cento delle controversie, mentre a Roma la differenza tra le percentuali corrispondenti è ancora più ampia, passando dal 27 per cento al 69 per cento.
Sotto l’ipotesi che la frazione di sentenze favorevoli al lavoratore emesse da un giudice sia proporzionale al grado in cui le conciliazioni indotte dallo stesso giudice siano favorevoli al lavoratore, possiamo concludere che, anche tenendo conto dell’elevato numero di conciliazioni, la lotteria derivante dall’assegnazione casuale dei processi ai magistrati di un tribunale implica probabilità di vittoria molto differenti a seconda della sorte.

QUEL CHE I SINDACATI NON SANNO

Se a tutto questo si aggiungono i risultati di uno studio del 2003 di Michele Polo, Enrico Rettore e Andrea Ichino, secondo cui giudici diversi decidono diversamente casi molto simili a seconda della regione in cui il rapporto di lavoro ha luogo e in funzione del tasso di disoccupazione locale, viene naturale chiedersi se davvero affidarsi alla magistratura sia un buon modo per tutelarsi dal punto di vista dei lavoratori, data l’alea che questo affidamento implica.
Forse i lavoratori e i sindacati pensano che sia meglio così solo perché non hanno mai visto questi numeri. Ma la nostra impressione è che questo stato di cose serva solo ad arricchire gli avvocati e costringa i giudici ad occuparsi di controversie che potrebbero benissimo essere risolte in altro modo: ad esempio stabilendo un prezzo adeguato per la possibilità di licenziare, quando ovviamente il motivo non sia discriminatorio e il lavoratore non abbia commesso colpa grave.
In ogni caso, se davvero la disciplina attuale dei licenziamenti fosse posta a protezione di un diritto fondamentale della persona, come può ammettersi che questa protezione sia affidata alla roulette russa che si attiva con l’assegnazione casuale dei processi a giudici così diversi tra loro per tempi e orientamento della decisione.
 
 
 
 

(1) Il numero totale di giudici che in qualche momento dei tre anni considerati hanno prestato servizio nelle Sezioni Lavoro dei tre tribunali è stato quindi superiore a quello indicato:  di 6 unità a Milano, di 10 a Roma e di 1 a Torino.
(2) In una minoranza di casi sono possibili anche altri esiti, come ad esempio la dichiarazione di incompetenza territoriale da parte del giudice. In questi casi la durata del processo viene calcolata dall’iscrizione a ruolo alla data dell’evento di chiusura del caso.
(3) Per il Tribunale di Roma, ad esempio, possiamo verificare che il ricorrente è persona fisica nel 97.2% dei casi.
(4) “Are judges biased by labor market conditions”  European Economic Review, 2003. In particolare, i giudici decidono in modo più favorevole al lavoratore quando il tasso di disoccupazione è alto e viceversa. Lo studio è basato sui dati di una grande banca italiana con sedi sparse sull’intero territorio nazionale e analizza non solo i casi che arrivano in giudizio ma la totalità delle controversie tra questa azienda e i suoi lavoratori, così come identificate dalle lettere con cui l’azienda ha contestato ai lavoratori le loro mancanze. Lo studio mostra anche che i casi che arrivano a sentenza non sono necessariamente rappresentativi dei casi potenziali, proprio per via dell’orientamento atteso dei giudici. Se le aziende si attendono giudici maggiormente orientati a favore dei lavoratori, licenziano solo in casi estremi che possono essere vinti in giudizio.

da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002912.html


Titolo: ANDREA ICHINO e Paolo PINOTTI LA RISPOSTA DEGLI AUTORI A LEONE E TORRICE
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2012, 04:46:38 pm
LA RISPOSTA DEGLI AUTORI A LEONE E TORRICE

di Andrea Ichino e Paolo Pinotti 12.03.2012



Ringraziamo la Dr. Margherita Leone e la Dr. Amelia Torrice per il loro importante contributo al dibattito originato dal nostri articoli su Lavoce.info e sul Corriere.  Stiamo imparando moltissimo da questo dibattito grazie ai magistrati che vi stanno partecipando, dedicandovi tempo prezioso. Siamo molto grati a loro e speriamo che questo dibattito possa essere loro utile come lo è a noi economisti. Certamente non per avere l’ultima parola, ma solo per continuare questa fertile interazione interdisciplinare, proponiamo le riflessioni che il commento di Leone e Torrice ci hanno suggerito.

RIDURRE LE VARIBILITÀ

Ridurre la variabilità dei tempi di decisione dei giudici di una stessa sede attraverso la concentrazione del processo e una migliore organizzazione dell’agenda delle udienze, è l’obiettivo primario delle sperimentazioni (alle quali Andrea Ichino lavora insieme a Nicola Persico e Decio Coviello) iniziate presso la Corte d’Appello e il Tribunale di Roma grazie all’eccezionale impegno e disponibilità a mettersi in gioco di alcuni magistrati romani, tra cui in particolare le Dr. Leone e Torrice.  La durata media dei processi di un ufficio, infatti si può ridurre soprattutto diminuendo le durate di maggiore entità dei singoli magistrati. Quindi, in questo caso, ridurre la variabilità significa anche ridurre la durata media dei processi. In qualsiasi campo dell’attività umana individui diversi si comportano in modi diversi. Perché allora porre il problema per i giudici? Normalmente, è difficile misurare quanto della variabilità osservata nei risultati dipenda dalla variabilità dei comportamenti individuali o dalla variabilità dei compiti a assegnati agli individui. Nel caso dei giudici di una stessa sede, però, i processi sono essenzialmente assegnati a sorte proprio per assicurare il rispetto dell’articolo 25 della Costituzione. Per la Legge dei Grandi Numeri, questo implica che gli insiemi di casi assegnati a giudici diversi siano “simili”, ma non nel senso che “di notte tutti i gatti sono neri”.
Supponiamo di avere un processo “Testa” e un processo “Croce” e di assegnarne il primo a Ichino e il secondo a Pinotti: essi quindi dovranno lavorare su processi diversi tra loro, che potrebbero evidentemente originare, in modo del tutto giustificato, tempi di decisione ineguali.  Supponiamo invece di avere 100 processi ciascuno dei quali possa essere - con pari probabilità - di tipo “Testa” o di tipo “Croce”. Se ne assegnamo “a caso” 50 a Ichino e 50 a Pinotti, ciascuno di loro avrà circa 25 processi “Testa” e 25 processi “Croce”. Quindi, anche se i processi continuano ad essere distinti in due categorie (i gatti possono essere bianchi o neri), Ichino e Pinotti hanno complessivamente una quantità e qualità di lavoro comparabili. Se i loro tempi di decisione differiscono, il motivo non può essere il carico di lavoro, ma solo il loro modo di lavorare. Nulla cambia in questo ragionamento se i processi, invece di essere “monete a due facce” sono “dadi a 6, 12, 24 o N facce”.
Dal punto di vista del cittadino che va in giudizio, questa situazione genera una variabilità casuale di risultati analoga a quella del paziente che venga assegnato a caso al medico di un pronto soccorso o a quella dello studente che non possa scegliere il docente da cui imparare.  Qualsiasi organizzazione, però mira a ridurre queste variabilità, proprio perché costose per il cittadino, se il cittadino non può scegliere da chi farsi servire.
Come già detto, le sperimentazioni in corso a Roma hanno proprio come obiettivo di ridurre la variabilità nei tempi cercando di trovare, insieme ai giudici, i modi organizzativi più efficaci per diminuire soprattutto le durate più lunghe, dato ovviamente non si può comprimere ciò che invece è già ai minimi possibili.
Per quel che riguarda invece la variabilità delle decisioni, le Dr. Leone e Torrice ci ricordano che i magistrati già mettono in campo strategie finalizzate alla “formazione di orientamenti comuni, condivisi” e che comunque la Cassazione (seppure in tempi ancor più lunghi) dovrebbe assicurare l’uniformità dei risultati finali a parità di fattispecie. Ne prendiamo atto: ecco un esempio di quello che anche noi stiamo imparando da questa eccezionale interazione tra discipline.

IL PROBLEMA DELL'OGGETIVITÀ

Ma, almeno per quel che riguarda i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, esiste anche un altro modo di risolvere il problema. Ed è quello di non ricorrere al magistrato per queste controversie e di istituire, invece, un filtro automatico, costituito da un costo per l’impresa pari alla perdita futura la cui previsione si ritiene possa giustificare il licenziamento, lasciando al giudice il solo controllo – questo si davvero insostituibile - circa l’eventuale motivo occulto discriminatorio o comunque illecito. La valutazione dell’esistenza di un giustificato motivo oggettivo è paradossalmente ... molto soggettiva, e certamente non dipendente da sofisticate valutazioni di tipo giuridico, dato che la legge non dice proprio nulla su che cosa sia un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Ossia non dice: “se la perdita attesa dall’impresa per la prosecuzione del singolo rapporto è X allora il licenziamento è giustificato, mentre se è meno di X è ingiustificato”. La perdita X sarà giudicata sufficiente per il licenziamento da qualche giudice e insufficiente da altri (per non dire della ineliminabile aleatorietà di qualsiasi “accertamento” – che in realtà sarebbe una valutazione “prognostica”,  avente per oggetto un evento futuro: la perdita attesa, appunto).
In questi casi quindi, la variabilità di decisioni è inevitabile, essendo dovuta all’oggetto stesso della decisione. Almeno per questi casi ci sembra che valga la pena di riflettere sull’opportunità di sostituire il ricorso al giudice con altri strumenti, come quelli peraltro in uso normalmente in altri paesi: i cosiddetti “Severeance payments”. Ossia trasferimenti monetari, elevati a discrezione del legislatore, che l’impresa deve effettuare a vantaggio del lavoratore per poter sciogliere il rapporto evitando una controversia giudiziale.
Non siamo sicuri che questo metodo sia preferibile, ma suggeriamo ai magistrati e al legislatore che, almeno per i casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa essere preso in seria considerazione come ipotesi da valutare. Se non altro perché così accade in molti altri Paesi. E nella valutazione circa i pro e i contro di questa soluzione rispetto alla disciplina attuale della materia ci sembra che sia indispensabile l’evidenza fornita da ricerche come quella resa possibile dalla disponibilità dei dati sul funzionamento degli uffici giudiziari.

da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002931.html


Titolo: Pietro ICHINO. - In Veneto l'81% di chi perde il posto lo ritrova in un anno.
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2012, 12:04:44 pm
Inchiesta sui contratti

Se otto su dieci ritrovano un posto

In Veneto l'81% di chi perde il posto lo ritrova in un anno.

Il mistero dei numeri


Caro Direttore,

Monti e Fornero hanno dalla loro un argomento fortissimo: il progetto di riforma che il governo sta per presentare in Parlamento allinea il nostro diritto del lavoro a quello degli altri Paesi europei. Ma a questo argomento gli italiani che difendono l'articolo 18 ne contrappongono uno altrettanto forte: l'Italia non è come gli altri Paesi europei, perché da noi il lavoro manca; chi lo perde ha una enorme difficoltà a ritrovarlo.

Ora, la difficoltà a ritrovarlo - e ancor più a trovarlo per la prima volta -, in Italia, è indiscutibile; e ne vedremo i motivi specifici nella prossima puntata. Ma di lavoro da noi ce n'è molto più di quanto si pensi, anche in questo periodo di vacche magre (e potrebbe essercene ancor di più se fossimo capaci di abbattere il diaframma che separa domanda e offerta di manodopera: sarà questo il tema della terza puntata).
La prima tabella mostra il numero dei contratti di lavoro dipendente che sono stati stipulati nel corso del 2010 in ciascuna delle nove Regioni che sono in grado di fornire questo dato. Un numero sorprendentemente alto: nell'occhio del ciclone della crisi più grave dell'ultimo secolo, queste Regioni hanno fatto registrare in un anno circa quattro milioni di contratti di lavoro.

Vero è che, se si disaggregano questi dati, ne risulta solo un milione circa di contratti a tempo indeterminato. Ma anche solo un milione è un bel numero, se si considera che le persone rimaste nello stesso periodo senza il posto per crisi occupazionali aziendali si misurano con uno o due zeri di meno. Per esempio: in Veneto, tra l'ottobre 2010 e il settembre 2011, gli assunti a tempo indeterminato sono stati 145.600. Nel corso del 2011, coloro che hanno perso il posto per licenziamenti collettivi sono stati 11.807; e per licenziamenti individuali (quasi tutti in imprese sotto i 16 dipendenti) 22.671. Dunque: nella stessa regione, pur in un periodo di grave crisi, per ogni licenziato sono stati stipulati quattro contratti a tempo indeterminato.

Ancora nel Veneto - la regione che fornisce i dati più aggiornati, completi e analitici - risulta che negli ultimi anni quattro persone su dieci che hanno perso il posto lo hanno ritrovato in tre mesi, otto su dieci lo hanno ritrovato entro un anno. È all'incirca la stessa cosa che emerge, da una ricerca della Banca d'Italia su dati Inps per il periodo 1998-2005, in riferimento all'intero territorio nazionale: anche da quei dati, sorprendentemente, risulta che otto italiani su dieci ritrovavano il lavoro entro un anno da quando lo avevano perso. La differenza, fra prima e dopo lo scoppio della grande crisi, è che appare molto peggiorato il rapporto tra assunzioni a tempo indeterminato e a termine, o comunque con contratti precari.

Se le cose stanno così, come si giustifica il fatto che diamo normalmente per scontata la prospettiva di anni e anni di cassa integrazione per chi perde il posto? Per esempio: in quello stesso Veneto nel quale sono stati stipulati 145.000 contratti a tempo indeterminato nel corso dell'ultimo anno, ci sono due aziende - la Iar Siltel di Bassano del Grappa e la Finmek di Padova - dove poche centinaia di lavoratori sono in cassa integrazione da sette anni. Non è forse questo il segno di un modo profondamente sbagliato di affrontare il problema della perdita del posto di lavoro nel nostro Paese?

Sento già l'obiezione: questi sono dati riguardanti il Centro-Nord, ma nel Mezzogiorno le cose vanno in modo molto diverso. È vero; ma al Sud le cose vanno in modo meno diverso di quanto si pensi. La seconda tabella ci fornisce il dato complessivo dei rapporti di lavoro attivati al Nord, al Centro e al Sud.

Anche al Sud, dunque, le occasioni di lavoro ci sono. Certo, ne occorrono di più, perché anche così il tasso complessivo di occupazione in Italia è troppo basso; perché se aumenta la domanda aumentano le retribuzioni e la forza contrattuale dei lavoratori; ma già oggi i nuovi contratti si contano a milioni ogni anno. La ricerca del posto dovrebbe apparirci come un succedersi di gare di dieci concorrenti per nove posti; perché invece abbiamo questa percezione del nostro mercato del lavoro - e soprattutto di quello meridionale - come di un grande «buco nero», di una trappola infernale dalla quale tenersi il più possibile alla larga? Come si spiega che, con tutti questi contratti di lavoro stipulati ogni anno, sia effettivamente così difficile per i disoccupati trovare un posto nel tessuto produttivo italiano?
Cercheremo di rispondere a questa domanda nella prossima puntata, mettendo a fuoco il muro - più alto e più spesso rispetto ai Paesi del Centro e Nord Europa - che da noi separa la domanda dall'offerta di lavoro. Qui c'è ancora spazio per un'osservazione: dalla riforma costituzionale del 2001, le nostre Regioni hanno una competenza legislativa e amministrativa piena in materia di servizi al mercato del lavoro e tutte ovviamente spendono risorse rilevanti per questo capitolo di bilancio; ma, dal Lazio in giù, nessuna delle nostre Regioni è in grado di fornire neppure il numero dei contratti di lavoro stipulati sul proprio territorio. Per non dire di tutti gli altri dati disaggregati che sarebbero indispensabili per governare efficacemente l'incontro fra domanda e offerta. Se esse stesse non conoscono nulla del proprio mercato del lavoro, come possono farlo conoscere ai lavoratori che ne avrebbero bisogno?


Pietro Ichino senatore Pd
www.pietroichino.it

( 1 - continua )


http://www.corriere.it/economia/12_aprile_01/ichino-lavoro-inchiesta_50932c7c-7bc4-11e1-95a2-17cafbbd8350.shtml


Titolo: Ichino ai senatori: “Se il partito fattura online guadagnerà più fiducia”
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2012, 04:53:26 pm
politica

21/11/2012


Ichino ai senatori: “Se il partito fattura online guadagnerà più fiducia”


Nel dibattito sulla rendicontazione dei gruppi politici il professore Pd spiega che “bastano pochi secondi” per una maggiore trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica

 Francesco Grignetti

 Roma


Nel corso del dibattito al Senato sulla rendicontazione dei gruppi politici, contro le resistenze di chi non vorrebbe assolutamente pubblicare on-line le fatture del proprio gruppo parlamentare, e si appella a questioni di privacy, o di complessità, il professo Pietro Ichino, Pd, stamattina ha svolto di fronte ai paludati senatori una brillante sintesi sulle operazioni digitali che si richiederebbero ai tesorieri dei gruppi.
 
 
 
“Qualcuno - ha detto Ichino - ha criticato i nostri emendamenti, osservando che può essere eccessivamente oneroso costringere l’amministratore del Gruppo a mettere on line ogni fattura ed ogni contratto. Mettiamoci d’accordo su questo punto: mettere on line una fattura, uno scontrino o un contratto richiede pochi secondi. Si tratta semplicemente di fare una fotocopia digitale, un file in formato pdf, e con un clic collegare quel file in pdf alla voce di spesa che mettiamo on line in altrettanti pochi secondi: è un minuscolo aggravio di fatica, ma è un enorme svolta nei confronti dell’opinione pubblica. So che è stato sollevato qualche dubbio sull’ammissibilità di questi emendamenti sotto il profilo della protezione della privacy. Chiedo in modo accorato alla Presidenza del Senato di riflettere a fondo su questo punto, perché la tutela della riservatezza è un diritto costituzionale riservato alla persona fisica; usare il principio della riservatezza per impedire la visibilità della cosa pubblica è una delle ipocrisie e delle storture più gravi che possono essere compiute oggi a danno dalla democrazia del nostro Paese”.
 
 
 
Gli ha risposto indirettamente il senatore Lucio Malan, Pdl: “Abbiamo sentito delle descrizioni fantascientifiche su quanto avviene in altri Paesi. La realtà è che nel nostro Parlamento già oggi vi è una trasparenza che non ha paragoni con l’accessibilità ai dati che c’è nella quasi totalità degli altri Parlamenti, a cominciare da quelli dei Paesi membri dell’Unione europea. Con il provvedimento approvato dalla Giunta per il Regolamento - e che noi approveremo in questa o in altre sedute - si vuole estendere ulteriormente questa trasparenza ai bilanci dei Gruppi, che fino ad oggi non hanno avuto forme di pubblicità o di riscontro, nel rispetto di un principio di riservatezza che i partiti di allora - pensiamo che queste regole nascono negli anni Quaranta vollero introdurre, in un’epoca in cui nessuno si sentiva tutelato rispetto a eventuali accessi esterni a questioni interne ai Gruppi”.


DA - http://www.lastampa.it/2012/11/21/italia/politica/ichino-ai-senatori-se-il-partito-fattura-online-guadagnera-piu-fiducia-MIr4yBtl5PyUWaQhon99xJ/pagina.html


Titolo: Pietro ICHINO. - Il senatore ha lasciato il Pd e rivela: "Molte delle tesi ...
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2012, 06:50:27 pm
Pietro Ichino, il web lo attacca "Chieda scusa per essere passato a Monti"

Il senatore ha lasciato il Pd e rivela: "Molte delle tesi esposte nell'agenda di Monti sono le stesse di un documento che presentai lo scorso 29 settembre.

I due scritti sono praticamente sovrapponibili"


"Dietro Monti c'è Pietro Ichino". Il senatore ormai ex democratico, è al centro di una vivace polemica su Twitter. Il social network dedica al giuslavorista un hashtag, #scusatipietro, molto frequentato, in cui si chiede ad Ichino di scusarsi con il Pd per essere passato con Monti.
Il professore, secondo la maggioranza degli interventi, avrebbe tradito il partito che lo ha eletto in parlamento, decidendo di candidarsi al Senato con la lista dell'agenda Monti nella circoscrizione della Lombardia. "Senza polemiche, ma penso che elettori e volontari delle primarie meritino una spiegazione". Lo scrive, ad esempio, Matteo Orfini, responsabile cultura del Pd, su Twitter, partecipando al dibattito innescato dall'hashtag.

A rinfocolare la polemica era venuto fuori anche un piccolo giallo, a metà tra politica e tecnologia. Dagospia osserva che il file con estensione 'pdf' dell'agenda Monti, pubblicato sul sito del Corriere della Sera, è stato creato dal 'prof. Pietro Ichino'.
La coincidenza tra questo fatto e l'abbandono del Pd da parte di Ichino ha alimentato in rete numerosi sospetti.

Ma lo stesso Ichino precisa che non c'è nessun mistero: l'Agenda Monti è anche farina del sacco del senatore, che proprio oggi ha annunciato di essere pronto a guidare una lista che sostiene il premier dimissionario in Lombardia, perchè,  spiega, "la risposta negativa di Bersani al bellissimo discorso di Monti di ieri è per me decisiva".

"Non c'è nessun mistero, nè alcun giallo: tutto è stato fatto alla luce del sole. Molte delle tesi esposte nel "manifesto" di Monti - dice Ichino all'Adnkronos - sono le stesse di un documento che ho presentato il 29 settembre scorso in un'assemblea pubblica e sottoscritto da diversi parlamentari del Pd. Per quel che riguarda il lavoro, ad esempio, il documento di Monti e il nostro, che si chiamava "l'Agenda Monti al centro della prossima legislatura", sono praticamente sovrapponibili".

Ma sul Web si è scatenata anche l'ironia, pur non sottovalutando la polemica politica, per questa "sovrapposizione" tra i due documenti. "Hanno usato il pc a sua insaputa?". chiede ironicamente un utente. Molti commenti sono sulla stessa falsariga: "Che un senatore del Pd scriva un documento programmatico in competizione con il suo partito è perlomeno imbarazzante", twitta un altro utente. E' corretto, è la domanda di molti, "fingere di voler fare le primarie nel proprio partito mentre si sta scrivendo l'agenda di un altro schieramento"?, scrive un'altra.

Come se non bastasse, a rendere ancora più tortuosa la dinamica del divorzio tra Ichino e i democratici ci sono i fatti delle ultime ore.
Sei giorni fa Ichino aveva deciso di candidarsi alle primarie per i parlamentari. A rivelarlo era stato proprio Matteo Renzi, punto di riferimento del giuslavorista. Di più: Renzi s'era detto addirittura orgoglioso di stare nello stesso partito con una persona che non era in cerca di un posto sicuro, ma che preferiva affrontare la sfida elettorale.

Il quadro è cambiato tre giorni dopo, quando Ichino, in un'intervista al Corriere della Sera, ha minacciato di non correre alle primarie se Bersani non avesse smentito la linea di politica economica intestata a Stefano Fassina. In quella intervista, peraltro, Ichino si diceva già disponibile a fare il ministro di Monti.

In ogni caso, nelle successive 48 ore - come ha spiegato lo stesso Ichino - il silenzio di Bersani e la conferenza stampa di Monti hanno convinto il senatore democratico non solo a non correre più le primarie, ma ad optare per i centristi, lasciando di fatto il Pd.
Detto fatto, Ichino ha già anche un posto sicuro, come spiega sul suo sito. Sarà capolista dei montiani al senato in Lombardia.
Col porcellum, in quella regione si tratta di un posto praticamente blindato.

(24 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/24/news/pietro_ichino_il_web_lo_attacca_chieda_scusa_per_essere_passato_a_monti-49388368/?ref=HREA-1


Titolo: Pietro ICHINO. - “Pomigliano? Ce ne vorrebbero 100 di stabilimenti così”
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2013, 10:56:10 pm
 Sei in: Il Fatto Quotidiano > Lavoro & precari >

Ichino: “Pomigliano? Ce ne vorrebbero 100 di stabilimenti così”

Il giuslavorista, passato dalle file del Pd a quelle del premier Monti si è espresso a Torino durante un appuntamento organizzato da Italia Futura Giovani: "Marchionne non meritava di essere trattato così"

di Redazione Il Fatto Quotidiano | 28 gennaio 2013


“Abbiamo bisogno in Italia non di uno ma di 100 stabilimenti come quello di Pomigliano”. Così il giuslavorista Pietro Ichino - da poco transitato dal Pd alle liste del premier uscente Mario Monti - partecipando a Torino ad una iniziativa della lista “Scelta civica Con Monti per l’Italia”, organizzata da Italia Futura Giovani. “A Pomigliano – ha aggiunto Ichino – in un anno e mezzo di lavoro non c’è stato neanche un infortunio. E’ un risultato straordinario”. Secondo Ichino “Marchionne non meritava di essere trattato così. Pomigliano – ha aggiunto – è stato premiato dall’Unione Europea come modello di stabilimento e noi vogliamo demonizzare Marchionne?”.

Ragionando in termini generali, per Ichino il problema è l’abbattimento del “muro tra domanda e offerta”. “In ogni regione italiana – ha aggiunto Ichino – ci sono decine di migliaia di posti di lavoro che restano scoperti per mancanza di manodopera qualificata. In Piemonte, per esempio, sono tra i 40 e i 50mila. Ciononostante, per assurdo, si tengono i lavoratori in cassa integrazione”. Secondo Ichino “occorre un sistema di formazione e orientamento concentrato sugli interessi dei lavoratori e delle imprese e non su quelli dei formatori”. Inoltre, per Ichino occorre mettere in campo “azioni per aumentare l’occupazione femminile dove siamo inchiodati al 46% da dieci anni quando l’obiettivo fissato dalla Ue è del 60%” . Infine, “và cambiata – ha detto ancora il giuslavorista/ la legislazione del lavoro che oggi è assolutamente illeggibile per gli stessi addetti ai lavori”.

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/28/ichino-pomigliano-ce-ne-vorrebbero-100-di-stabilimenti-cosi/482613/


Titolo: Pietro ICHINO. - Se avesse vinto Renzi sarei rimasto. Ora con Monti anche ...
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2013, 11:20:17 pm
IL GIUSLAVORISTA E CANDIDATO AL SENATO CON IL PREMIER A CORRIERE.IT

Ichino: «Se avesse vinto Renzi sarei rimasto. Ora con Monti anche all'opposizione»

«Berlusconi racconta favole, ci sta riportando a un anno fa. Vendola e Fassina hanno smontato la carta d'intenti del Pd»



«Ci sta riportando all'autunno del 2011. Sta smontando tutto quello che ha fatto il governo Monti». E ancora: «Risarcire gli italiani dell'Imu significa ritornare a quando Berlusconi è stato costretto a dimettersi. Dove prende i 60 miliardi di euro in più che ci costerebbe lo spread a 500, con il tasso d'interesse sul Btp al 7%».
RIMODULARE L'IMU - Parole e pensieri di Pietro Ichino, giuslavorista candidato al Senato con Scelta Civica per Monti nella videochat di Corriere.it moderata da Daniele Manca e Massimo Rebotti. In quel momento così difficile nella storia recente italiana Ichino evidenzia come il Cavaliere non si parlasse neanche con il suo ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, «in una situazione di marasma generale». «Non è più tempo di credere alla sue favole», rincara Ichino replicando alla proposta-choc di Berlusconi lanciata domenica. La priorità è per il giuslavorista è, invece, rimodulare l'Imu sui redditi più bassi, tagliare l'Irpef sulle persone e l'Irap alle imprese.

«PERCHE' HO LASCIATO IL PD» - Sulla scelta di abbandonare il Partito Democratico condividendo la linea del premier uscente, Ichino ha risposto: «Se avesse vinto Renzi sarei rimasto e l'intera politica italiana ne avrebbe giovato. Io avevo sottoscritto solo una carta d'intenti all'inizio delle primarie del partito che impegnava a rispettare gli impegni presi con l'Europa su debito e deficit, ma il giorno dopo le consultazioni del Pd Nichi Vendola e anche il responsabile economico del partito (Fassina, ndr.) hanno smontato quella carta d'intenti».

«NON CON IL PD» - «Speriamo di aggregare tutte le forze che vengono da destra e sinistra che vogliano condividere la nostra agenda, sulla strada intrapresa dal governo Monti rispettando i sacrifici che abbiamo fatto in questo ultimo anno. Non è scritto da nessuna parte che dobbiamo per forza far parte di una maggioranza. Possiamo tranquillamente stare all'opposizione», dice Ichino contestando l'ipotesi di un accordo post-elezioni con il Partito Democratico in caso di impasse a Palazzo Madama.

LA RIFORMA DELLA PREVIDENZA - «E' stata fatta una riforma necessaria per riequilibrare la più grave ingiustizia fatta negli ultimi trent'anni. Fatta nei confronti dei nostri figli e a vantaggio degli attuali 50enni mandati in pensione troppo presto. Non dimentichiamo che era la richiesta dell'Europa, la condizione necessaria per far decollare il fondo Salva-Stati. E la contropartita era mettere in ordine i nostri conti pubblici», dice l'ex senatore dei democratici appoggiando l'ultima riforma Fornero in tema di previdenza.

LA LEGGE SUL LAVORO - E anche la riforma del lavoro dell'ultimo ministro del Welfare incontra il giudizio positivo di Ichino, soprattutto perché «ha attenuato la rigidità della flessibilità in uscita imposto dall'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e ha modificato la disciplina degli ammortizzatori sociali, finora sbagliata perché spesso mette in ghiacciaia per anni i lavoratori con le risorse della cassa integrazione in caso di crisi aziendale». «Sperimentiamo invece la riduzione del cuneo contributivo sul lavoratore», dice Ichino. «Il tempo indeterminato per tutti, ma meno rigidità in entrata e uscita. In caso di perdita del lavoro reddito e assistenza per la ricollocazione del lavoratore», sulla falsariga della flexsecurity di cui il giuslavorista è il maggiore teorico in Italia. «La priorità è non abbandonare nessuno, ma gli ammortizzatori sociali devono essere funzionali al reinserimento del lavoratore nel tessuto produttivo», spiega. «In più un trattamento di disoccupazione per i non salvaguardati subordinato alla disponibilità totale del lavoratore a riconvertirsi professionalmente», aggiunge.

Fabio Savelli

4 febbraio 2013 | 14:55

© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/13_febbraio_04/ichino-videochat-lavoro-monti_d66f2048-6eb8-11e2-87c0-8aef4246cdc1.shtml


Titolo: Pietro Ichino - Gli ostacoli che non aiutano il cittadino onesto
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2013, 06:11:24 pm
Lettera sulla burocrazia Gli ostacoli che non aiutano il cittadino onesto

«La mia odissea per pagare una tassa» Marca da bollo, notaio, modulo F23, Pin...

Quando una burocrazia da Stato arrogante trasforma i cittadini in sudditi. Avanti e indietro tra gli sportelli


Caro direttore, la burocrazia che affligge il nostro Paese fa molto danno ai cittadini, ma forse ne fa ancora di più allo Stato stesso che la produce. Nei mesi scorsi ho ereditato con mio fratello l'appartamento in cui ha abitato mia madre; e lo abbiamo affittato. Da aspirante buon cittadino, decido di andare a registrare il contratto, per poterlo poi indicare nella denuncia dei redditi.

Uffici pubblici. Per ottenere risposte semplici dalla pubblica amministrazione in Italia occorre, incomprensibilmente, tempo e denaro.Uffici pubblici. Per ottenere risposte semplici dalla pubblica amministrazione in Italia occorre, incomprensibilmente, tempo e denaro.
L'impiegato che esamina la pratica osserva che sul contratto avrei dovuto apporre due marche da bollo, da 14,62 euro l'una. Vado dunque a comprarle e torno con le marche da bollo; sennonché l'impiegato osserva che le marche avrebbero dovuto recare una data anteriore a quella della stipulazione del contratto e ci aggiunge una sanzione di euro 3,65 (ma perché mai, dal momento che la registrazione, per legge, può avvenire fino a 30 giorni dopo la stipulazione?).

A questo punto, l'impiegato rileva che i proprietari sono due: non si può procedere alla registrazione senza che siano presenti entrambi. Ma mio fratello abita in un'altra città! Allora deve inviare una procura perché io possa rappresentarlo. Obietto che, se anche mio fratello non mi avesse incaricato di questo adempimento, lo Stato dovrebbe essere contentissimo del fatto che io lo compia. Niente da fare: occorre la procura. Perché? Perché anche su quella si paga l'imposta di registro: altri 168 euro. E se mio fratello fosse venuto di persona? Altri 168 euro anche in quel caso, senza rimedio. E se mio fratello non ne volesse proprio sapere? L'impiegato non risponde; ma i suoi occhi parlano da soli: «Vuole smetterla di formulare ipotesi totalmente estranee a quelle contemplate dal regolamento?».
Chiedo dunque a mio fratello di prendere appuntamento con un notaio per stipulare la procura. Costo: 300 euro per il notaio più i 168 della registrazione dell'atto.

Torno quindi all'Agenzia delle Entrate, convinto di avere superato l'ultimo ostacolo. A questo punto viene effettuato il computo dell'imposta di registro da pagare: di base 472 euro. Ma l'impiegato osserva che nel contratto abbiamo inserito una penale - peraltro assai modesta - per il caso in cui l'inquilino ritardi nei pagamenti. Per questa sola clausola aggiuntiva l'imposta di registro aumenta di 168 euro (e se poi non ci saranno ritardi nei pagamenti? Non importa: l'imposta aggiuntiva va pagata lo stesso). Insomma, alla fine l'imposta da pagare viene determinata in 640 euro più i 168 per la procura. E mi spiegano che per pagarla devo compilare un modulo F23 e andare a fare il pagamento in Banca.

Eseguito diligentemente anche questo passaggio, torno fiero all'Agenzia delle Entrate con il mio F23 timbrato dalla banca. Penso dentro di me: «Ho pagato, ora devono soltanto prendere atto ed effettuare la registrazione». Effettivamente, a questo punto l'impiegato prende a digitare intensamente sul suo terminale. Ma subito aggrotta la fronte: «Lei ha più di nove proprietà immobiliari». «No», rispondo «ne ho solo tre: oltre alla prima casa, un appartamentino in montagna e una casa in Toscana». Già, ma se si contano anche due pezzetti di terreno che vi sono attaccati, due box e due soffitte di cui una adattata a mansarda, si arriva proprio a nove. E ora con l'appartamento della mamma fanno dieci. Devo riconoscere che l'impiegato ha ragione; ma ancora non comprendo dove voglia andare a parare. Me lo spiega impietosamente lui stesso: chi possiede più di nove unità immobiliari non può fare la registrazione allo sportello; può farla solo per via telematica.

Oddio, e ora come si fa? Mi spiegano che devo andare a un altro sportello per chiedere un codice Pin, necessario per eseguire la pratica online. Ma mi avvertono anche del fatto che, eseguendo la pratica in questo modo, il pagamento dell'imposta non può essere effettuato per mezzo del modulo F23: va fatto anche quello online. E io che ha già pagato con l'F23 in banca? Non c'è altro modo per rimediare che quello di chiedere il rimborso e intanto procedere a pagare una seconda volta con l'altro sistema.
Mi sento vessato e persino schernito per questa mia pretesa di registrare da solo (senza consulenti!) un contratto di locazione. In questa gimkana costosissima (più ancora di tempo che di denaro) a cui ho dovuto sottopormi vedo l'arroganza di un'amministrazione alla quale tutto è dovuto dal cittadino-suddito, mentre nulla essa stessa al cittadino deve: non la semplificazione degli adempimenti che un management minimamente capace e attento al benessere del contribuente onesto dovrebbe essere capace di garantire con intelligenza e sollecitudine; non l'informazione completa e tempestiva che un impiegato minimamente diligente e ben addestrato dovrebbe fornire fin dal primo contatto con il contribuente; non l'attenzione a evitare tutti i piccoli e grandi aggravi degli adempimenti, le piccole e grandi complicazioni gratuite, che costano al cittadino sproporzionatamente di più di quanto rendono allo Stato.

Che stupido, questo Stato! Quanto più volentieri pagheremmo le tasse, se avessimo la sensazione che l'amministrazione pubblica si comporta verso di noi con la stessa diligenza, sollecitudine e buona fede che da noi essa pretende!

15 luglio 2013 | 8:11
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Pietro Ichino -

da - http://www.corriere.it/economia/13_luglio_15/mia-odissea-per-pagare-tassa-ichino_0ca29258-ed12-11e2-91ec-b494a66f67a7.shtml


Titolo: Pietro ICHINO - I furbetti delle pensioni d’oro e la formula del giusto compenso
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2013, 11:24:09 pm
LETTERA SULLA BUROCRAZIA

I furbetti delle pensioni d’oro e la formula del giusto compenso


Caro Direttore,

nei giorni scorsi il Corriere ha dato conto dettagliatamente di alcuni trattamenti pensionistici davvero impressionanti: molte decine di migliaia di euro al mese. Di fronte a notizie come questa l’uomo della strada — che considera la pensione soltanto una forma di assistenza — rimane attonito e si chiede come queste pensioni possano essere state liquidate e perché esse possano essere mantenute in vita anche in un periodo di «vacche magrissime» come quello che stiamo attraversando.

La realtà è che ci sono «pensioni d’oro» di due tipi, molto diversi tra loro. Se non mettiamo a fuoco la differenza tra i due tipi, la nostra battaglia contro le rendite indebite è destinata a nuove sconfitte, come quella subita ultimamente davanti alla Corte costituzionale: la quale ha ritenuto incostituzionale il «contributo straordinario» del cinque per cento che il Governo Monti aveva imposto sulle pensioni superiori a 90.000 euro annui (dieci per cento su quelle superiori ai 150.000). I casi — dicevo — sono due. Il primo è quello di chi percepisce una pensione molto elevata perché per tutta la propria vita lavorativa ha percepito retribuzioni molto elevate, e ha versato contributi previdenziali in proporzione. In questo caso, la «pensione d’oro» non è altro che una porzione, differita nel tempo, della «retribuzione d’oro» che l’ha generata.

È sbagliato che ci siano retribuzioni d’oro? In certi casi sì (anche se esse tornano comunque subito, per metà, a beneficio di tutti i cittadini, attraverso le tasse); ma in molti altri casi no. Se il signor Rossi ha la capacità di aumentare del dieci per cento la produttività dei mille dipendenti di un’impresa, è interesse anche di questi ultimi che l’impresa stessa ingaggi il signor Rossi pagandolo un milione all’anno.
Staranno meglio sia i mille dipendenti, sia gli azionisti, sia i contribuenti (il problema dell’enorme disparità di reddito che così si determina, e dell’«obbligo di restituzione» che ne deriva, non è di natura giuridica, ma di natura esclusivamente morale e riguarda soltanto il signor Rossi e la sua coscienza). Se poi su quel milione di euro ogni anno per trent’anni vengono versati 330 mila euro di contributi all’Inps, non c'è proprio niente di male nel fatto che, quando il signor Rossi va in pensione, l’Inps calcoli sulla base di quella ingente contribuzione la parte del suo trattamento maturata in quei trent’anni: si tratta solo di una restituzione. E lo Stato? Si accontenti di prelevarne il 45 per cento a titolo di Irpef, come su tutti i redditi personali di quell’entità: questo dice la Corte costituzionale; se poi lo Stato ritiene che questa aliquota sia troppo bassa, la aumenti per tutti. Effettivamente, non si vede il motivo per cui il signor Rossi dovrebbe essere penalizzato più di chiunque altro abbia un reddito dello stesso livello, solo perché il suo è costituito da una retribuzione differita. Il discorso cambia radicalmente se il signor Rossi ha avuto la retribuzione di un milione di euro soltanto negli ultimi dieci della sua vita lavorativa, ma la sua pensione è stata calcolata per intero in proporzione alla retribuzione e contribuzione di quell’ultimo decennio. In questo caso, il signor Rossi si è effettivamente guadagnato soltanto un terzo o un quarto della pensione d’oro che gli viene erogata, mentre la parte restante è sostanzialmente regalata. Questo si chiama «sistema retributivo» di calcolo della pensione; ed è quello che è stato in vigore fino alla riforma Monti-Fornero del dicembre 2011, per tutti i fortunati che hanno incominciato a lavorare e versare contributi previdenziali prima del 1978 (cioè per la generazione di quelli che oggi hanno cinquanta o sessant’anni).

Oggi la maggior parte delle pensioni d’oro nasce proprio dall’applicazione di questo vecchio e sbagliatissimo metodo di calcolo: il signor Rossi incomincia a guadagnare il super-reddito soltanto nell’ultimo periodo della sua vita lavorativa, ma si vede poi calcolata la pensione per intero in riferimento a quell’ultimo periodo. Ecco: questa è la parte della pensione non effettivamente guadagnata; la differenza tra la pensione calcolata in proporzione alle ultime retribuzioni e quella calcolata in stretta proporzione ai contributi versati nel corso di tutta la vita lavorativa.
Su questa differenza può e deve applicarsi un contributo straordinario, che, applicandosi solo su questa parte, può essere determinato anche in misura molto superiore rispetto a quella del cinque o del dieci per cento fissata dal Governo Monti l’anno scorso e poi bocciata dalla Corte costituzionale.

Se il contributo straordinario sarà riferito soltanto a questa differenza, la Corte non potrà non approvarlo, poiché esso non creerà una disparità di trattamento, bensì al contrario ridurrà un privilegio indebito, in un momento di straordinaria necessità. Questo è — insieme ad altre cose — il contenuto di una proposta che ho elaborato con Giuliano Cazzola e Irene Tinagli. Il Governo Letta avrebbe tutto da guadagnare nel farla propria; e nel farla camminare in fretta.

13 agosto 2013 | 11:02
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Pietro Ichino

www.pietroichino.it

da - http://www.corriere.it/opinioni/13_agosto_13/ichino-furbetti-pensioni-oro_5f7ad144-03f5-11e3-b7de-a2b03b792de4.shtml


Titolo: Pietro ICHINO: "Serve il reddito minimo di inserimento"
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2014, 05:27:15 pm
Ichino: "Serve il reddito minimo di inserimento"
Il Jobs Act arriva al Senato, ma la riforma del lavoro esclude partite Iva e autonomi.
Il giuslavorista di Scelta Civica dice: "Non ha senso escludere dal taglio delle tasse coloro che vivono del loro stipendio e hanno redditi bassi"


Di GIULIANO BALESTRERI

MILANO - Al Senato è arrivato il disegno di legge delega al Governo di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, di riordino dei rapporti di lavoro e di sostegno alla maternità e alla conciliazione. Si compone di due capi e sei articoli. E' l'altro tassello, dopo il disegno di legge su contratti a termine e apprendistato, del Jobs Act. Il disegno di legge mette mano alla riforma dei più importanti istituti legati al welfare e ai servizi di lavoro, oltre che al riordino dei contratti. Il problema, d'altra parte, è quanto mai urgente e anche gli ultimi dati legati al tasso di disoccupazione - al massimo dall'inizio delle serie storiche Istat con il 13% - mostrano come sia necessario intervenire.

La riforma così come è stata concepita, però, esclude partite Iva e autonomi: "Il decreto è ancora in gestazione. È vero che nell'annuncio iniziale dato dal Presidente del Consiglio il 14 marzo scorso lo sgravio Irpef era indicato come destinato ai soli lavoratori subordinati; ma è anche vero che non avrebbe alcun senso escludere dalla riduzione del prelievo Irpef i lavoratori autonomi della fascia bassa, i quali in molti casi guadagnano meno dei subordinati regolari" dice Pietro Ichino, giuslavorista e senatore di Scelta Civica che aggiunge: "Basti pensare ai giornalisti, i subordinati guadagnano in media più di 40mila euro l'anno; i cosiddetti free lance non arrivano in media ai 10mila euro l'anno".

C'è margine per un intervento in questo senso oppure non ci sono le risorse?
Quali che siano le risorse, esse devono essere destinate prioritariamente a ridurre l'Irpef per tutti coloro che vivono del loro lavoro e hanno redditi di fascia bassa.

Tra vere e finte partite Iva pagare rischiano di essere i piccoli imprenditori e i giovani costretti ad accettare forme contrattuali di qualunque tipo pur di lavorare: le riforme del Jobs Act possono essere una risposta?
Per ora c'è il decreto-legge n. 34 che ha concentrato tutta la flessibilizzazione sui contratti a termine. Forse, in questa fase, per il Governo è stata una scelta politicamente obbligata; ma in Parlamento è probabilmente possibile correggerla e integrarla, introducendo nel decreto anche il contratto a tempo indeterminato a protezioni crescenti; e istituendo un'indennità di cessazione del rapporto proporzionata all'anzianità di servizio, uguale per il contratto a tempo indeterminato e per il contratto a termine senza motivazione: l'ipotesi è una mensilità per ogni anno di durata effettiva del rapporto. In questo modo si aumenterebbe la quota di assunzioni a tempo indeterminato, altrimenti destinate a ridursi ulteriormente.

Alcuni degli economisti che hanno lavorato al Piano Renzi hanno collaborato anche al documento per il reddito d'inclusione attiva: può rientrare davvero nei programmi di governo?
L'Italia ha bisogno urgente dell’istituzione del reddito minimo di inserimento, per allinearsi su questo terreno ai maggiori Paesi europei. Ma questa importantissima riforma è possibile soltanto se si realizzano due condizioni. La prima è che i nostri servizi per l'impiego acquisiscano il know-how necessario per rendere effettiva la condizionalità del sostegno del reddito alla persona disoccupata: "Ti sostengo, ma a condizione che tu sia davvero disponibile per tutto quanto è ragionevolmente necessario per reinserirti nel tessuto produttivo". In altre parole, occorre avviare subito la sperimentazione del metodo del "contratto di ricollocazione". Altrimenti quel sostegno si traduce in un aumento del periodo di disoccupazione, o, peggio, in una sostanziale uscita dei beneficiari dal mercato del lavoro.

Qual è l'altra condizione?
L'altra condizione è che siamo capaci di destinare al finanziamento del reddito minimo di inserimento tutti i fiumi di denaro che fin qui abbiamo speso per fini sostanzialmente assistenziali, in varie forme, ma con effetti prevalentemente dannosi sul mercato del lavoro: cassa integrazione in deroga, pensioni di invalidità fasulle, compensi per "lavori socialmente utili" che in realtà non sono tali, e così via.

(06 aprile 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/04/06/news/lavoro_jobs_act_autonomi-82904989/?ref=nrct-4


Titolo: Pietro Ichino. Meglio non fratturarsi una gamba (soprattutto alla vigilia di...
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2015, 03:42:09 pm
Lettera sul lavoro

Meglio non fratturarsi una gamba (soprattutto alla vigilia di Natale)
L’odissea di un paziente tra la mancata operazione, le ore passate ad aspettare gli antidolorifici, l’impossibilità di trovare sollievo per mancanza di personale


Di Pietro Ichino

Caro Direttore, la vicenda natalizia del signor Bianchi merita una riflessione sulle falle che il nostro sistema sanitario talvolta presenta anche nei suoi punti di eccellenza. 24 dicembre 2014 - una banale caduta in casa, un dolore all’anca sempre più acuto. Il signor Bianchi si fa portare al pronto soccorso del maggiore ospedale ortopedico della città. Una solerte infermiera lo invita a non lamentarsi troppo: «Se fosse una frattura del femore, il piede sarebbe storto»; e così dicendo storce il piede, facendo impazzire dal dolore il titolare. La radiografia smentisce l’infermiera: frattura del collo del femore. Occorre un intervento chirurgico: ricovero immediato.

La prima notte passata con dolori fortissimi
«Ma - avverte subito il medico di guardia rivolto all’infortunato - lei ha scelto il giorno sbagliato per rompersi il femore: domani è Natale, poi c’è Santo Stefano, poi c’è il sabato e domenica, insomma l’operazione si può fare solo lunedì 29. Però non si preoccupi: la sua non è di quelle fratture per le quali occorra proprio intervenire entro quarantott’ore, altrimenti apriremmo la sala operatoria anche di Natale. La sua non è un’urgenza e l’intervento può senz’altro attendere cinque giorni». E il sig. Bianchi viene sistemato nel suo letto, con la prospettiva di restare lì in attesa per tutto il lungo ponte. «Non sarà un’urgenza - dice il paziente all’infermiera che lo assiste in reparto, a notte inoltrata -, ma a me la gamba fa molto, molto male. E questo Toradol che mi avete iniettato mi sembra acqua fresca». «Eh, il primo giorno le fratture del femore fanno sempre molto male - risponde lei, pur gentile e premurosa - bisogna avere pazienza. A me è stata data solo questa prescrizione per il dolore, non posso proprio darle nient’altro». «Allora, per favore, chiami il medico di guardia, che mi prescriva qualche cosa di più efficace. Io così non resisto». «Lo chiamo subito, vediamo se può darle la morfina. Però guardi che non potrà venire molto presto, perché è la notte di Natale ed è solo».

Il dolore fisico dei pazienti viene comunemente considerato quasi irrilevante
Passano le ore, viene ripetuta la flebo di Toradol, il sig. Bianchi si macera nel suo dolore insopportabile. E alle prime luci dell’alba decide che altri quattro giorni così non è il caso di passarli. Neppure se il dolore dovesse ridursi un po’: aspettare non ha senso. Cerca un amico medico e gli chiede di aiutarlo a trovare altrove un’équipe chirurgica disposta a operarlo e una sala operatoria aperta nonostante il ponte. La vicenda - integralmente vera, anche nei dettagli - è molto significativa di come il dolore fisico dei pazienti viene comunemente considerato nei nostri ospedali. Irrilevante lo considera l’infermiera del pronto soccorso, compiendo senza alcuna necessità la «manovra diagnostica» che abbiamo visto. Irrilevante lo considera l’organizzazione sanitaria del grande istituto ortopedico, il cui protocollo non contempla, nell’attesa dell’intervento chirurgico, una terapia del dolore adeguata. Ma - e questo è l’aspetto più sconcertante dell’intera vicenda - irrilevante è considerato il dolore di una persona anche dal collettivo dei dirigenti, medici, paramedici e loro rappresentanti quando stabiliscono che nel grande istituto ortopedico tra Natale e Capodanno, se non è proprio in gioco la vita del paziente, le sale operatorie devono rimanere chiuse per cinque giorni di fila.

Una vicenda su cui riflettere
Nel grande istituto che è teatro di questo racconto arrivano da ogni parte d’Italia circa mille fratture di femore all’anno: mediamente tre al giorno. Oltre al signor Bianchi c’è dunque presumibilmente un’altra decina di persone, femore più femore meno, che hanno «sbagliato giorno» per infortunarsi. Non sono considerate «un’urgenza»: se non hanno la possibilità di andare a farsi curare altrove, stiano pure lì a macerarsi nella loro sofferenza per due o tre giorni in più; non si muore per così poco. Quest’ultimo è - a ben vedere - il risvolto più grave della vicenda. Perché nei giorni tra Natale e Capodanno i treni e gli aerei vanno ininterrottamente, i ristoranti servono pasti, sono aperti i cinema e le sale da concerto. Dunque si ritiene che far godere le feste alla generalità delle persone sia «un’urgenza» sufficiente per giustificare il sacrificio delle feste stesse per alcune di esse. Non è invece considerata «un’urgenza» di pari rango l’esigenza di togliere una persona dall’alternativa tra un dolore lancinante e continuo e la morfina che sospende la vita di dodici ore in dodici ore. Per lo meno, non la considerano tale gli estensori dei regolamenti e contratti che regolano il lavoro nell’istituto ortopedico metropolitano d’eccellenza. Una cosa è certa: l’eccellenza sanitaria dovrebbe misurarsi non solo sul successo nel procurare la guarigione, ma anche sui tempi e modi in cui ci si prende cura del puro e semplice dolore del malato.

3 gennaio 2015 | 16:13
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Da - http://www.corriere.it/salute/15_gennaio_03/meglio-non-fratturarsi-gamba-soprattutto-vigilia-natale-463058b8-9359-11e4-8973-ae280e1dba84.shtml