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7666  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / MATTEO RENZI ... "Superare gli egoismi nazionali" inserito:: Settembre 15, 2015, 05:12:49 pm
L'Europa è a un bivio.
Non può più voltare le spalle o le sue ragioni spariranno
La lettera del premier a Repubblica: "Superare gli egoismi nazionali"

Di MATTEO RENZI
11 settembre 2015

CARO Direttore, all'improvviso tutti, proprio tutti, si sono accorti di ciò che stava accadendo. E davanti alla tragedia hanno capito che non c'era più modo di girarsi dall'altra parte. Non so se è stato un singolo evento: il tunnel di Calais, il TIR in Austria, la foto spezzacuore del piccolo Aylan in Turchia. So che nel giro di qualche giorno è cambiato tutto.

Per noi italiani è stato come quando stai guardando un film sull'iPad. Solo che hai le cuffie. E, dunque, soltanto tu stai vedendo e sentendo ciò che passa sullo schermo. All'improvviso ti staccano le cuffie. Tutta la stanza è improvvisamente invasa dal rumore. Non sei più solo. Ma questo non è un film. Sono donne, bambini, anziani. Uccisi; affogati dai trafficanti di uomini. Ne abbiamo visti a decine morire nel Mediterraneo. E ne abbiamo salvate a migliaia di vite con la Marina Militare, la Guardia Costiera, il nostro volontariato.

Vite come quella di Khalif. Sua madre ha 24 anni, si chiama Ester. E' partita due anni fa dalla Nigeria insieme al marito. Ha attraversato il deserto per raggiungere la Libia, dove è stata picchiata e imprigionata. Finalmente è riuscita a fuggire, imbarcandosi da sola per la Sicilia in una di queste carrette della morte. Sola, perché suo marito non aveva i soldi per due biglietti da pagare ai nuovi schiavisti. E quando è stata salvata da una motovedetta italiana, Ester ha partorito nel mezzo del Mediterraneo. Khalif ora è salvo, sano e vivo. Suo padre è ancora in Libia e sta mettendo da parte i soldi per sfidare la morte. Per raggiungere la vita.

Caro Direttore, l'Italia è orgogliosa dei propri figli che lottano contro le onde per salvare vite umane. Ma l'Italia sa anche che non basta commuoversi, bisogna muoversi. Le emozioni sono importanti, ma le azioni oggi servono di più. Che nessuno immagini di cavarsela con il solito rito del minuto di silenzio. Occorre più visione nella politica estera. Diciamo le cose come stanno: la comunità internazionale, e l'Europa, hanno sottovalutato il peso delle proprie iniziative in Libia e Siria. E sopravvalutato la propria capacità di costruire un futuro in quei territori. Non basta cacciare un dittatore o bombardare un nemico se poi non si vince la sfida educativa, culturale, economica, in quei paesi; e dunque la sfida politica.

In Medio Oriente, certo. Ma anche in Libia, ad esempio. Occorre maggiore attenzione all'Africa. E' il cuore del nostro futuro, ha straordinarie opportunità di crescita, è la miniera di una nuova speranza per chi crede negli ideali di un mondo globale. L'Europa si è concentrata negli ultimi anni molto sull'allargamento a Est, ottenendo risultati altalenanti. Personalmente credo che oggi sia un dovere morale proseguire nell'allargamento, cominciando con Serbia e Albania. Ma è anche arrivato il momento per l'Europa di fare un focus sul Mediterraneo, utilizzando tutti gli strumenti a sua disposizione (cooperazione internazionale, aiuti allo sviluppo, moral suasion) a cominciare dal prossimo summit a Malta dell'11 e 12 novembre fra i paesi dell'Unione e africani.

Occorre, infine, superare la logica dell'egoismo nazionale. E dunque superare Dublino. Giusto che gli hotspot siano gestiti a livello europeo, ma ciò sarà possibile solo se ogni Paese accoglierà un certo numero di ospiti (quote) e i rimpatri per chi non ha diritto di asilo verranno organizzati dall'Unione Europea, e non dai singoli Stati. L'Europa, del resto, è ad un bivio, e non lo dicono solo i giornali o la politica, è sotto gli occhi di ognuno di noi ogni giorno. O ritrova le ragioni, ideali, del proprio stare insieme. Oppure diventa un noioso condominio di regole astratte e sterili. Regole quasi sempre economiche, e per di più molto spesso sbagliate.

Chi ha studiato la storia della fine delle grandi civiltà, a cominciare dalla decadenza dell'Impero Romano, sa che il declino non inizia da un dato economico, ma culturale. Spirituale, vorrei dire, nel senso laico del termine.
L'Europa deve scegliere se continuare a voltare le spalle alla realtà o affrontarla. Con tutte le sue complessità. Con schiena dritta e sguardo visionario. Con coraggio e intelligenza, Direttore, come chiede lei e i suoi colleghi europei. Dopo mesi in cui noi italiani ci siamo sentiti soli a fronteggiare l'emergenza, non solo in mare, ma anche soprattutto ai tavoli di Bruxelles, oggi tutto sembra cambiato.

Sono molto fiero dei passi in avanti economici dell'Italia. Siamo finalmente fuori dalla crisi, il Pil torna a crescere e grazie alla riforma del Jobs Act aumentano i posti di lavoro stabili, di qualità. Tuttavia, so perfettamente che la storia non giudicherà la mia generazione dallo spread o dalle riforme. Ma dal modo con il quale avremmo tutelato e difeso la dignità delle persone. E noi siamo fieri e orgogliosi del modo con il quale in Austria, in Germania, e altrove, i nostri connazionali europei, i nostri fratelli europei, hanno accolto i fratelli rifugiati.

Noi lo stiamo facendo da mesi ormai. E non ci siamo stancati, e non ci stancheremo di salvare tutti coloro che guardano alla nostra Europa non più soltanto come a una bella storia del passato, ma come un futuro possibile. Insieme.

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11 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/11/news/l_europa_e_a_un_bivio_non_puo_piu_voltare_le_spalle_o_le_sue_ragioni_spariranno-122632224/?ref=HREA-1
7667  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / La minoranza interna vuole l'eleggibilità ... tanto per fare casino. inserito:: Settembre 15, 2015, 05:09:31 pm
Riforme, Renzi: "Gran parte impianto profondamente condiviso".
Resa dei conti in Senato
La minoranza interna vuole l'eleggibilità diretta dei futuri senatori.
Emendamenti restano. Bersani. "Non si vota per disciplina di partito".
Finocchiaro e Guerini: "Articolo 2 non si tocca".
Grasso: "Su emendamenti deciderò solo in aula"


08 settembre 2015

ROMA - "La grande parte dell'impianto di cui stiamo discutendo è profondamente condiviso. Avvertiamo la responsabilità di superare finalmente il bicameralismo paritario". Lo ha detto il premier Matteo Renzi all'assemblea dei senatori Pd sulle riforme.

Nessuna spaccatura nella minoranza dem dunque. Stando alle fonti interne, nessuna mediazione con la maggioranza del partito. Restano 17 gli emendamenti presentati. Tre sono quelli che si riferiscono al nodo dell'articolo 2, fra cui anche la proposta di diminuire da 630 a 500 i deputati. E il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi - ospite di Otto e mezzo a pochi minuti dalla riunione del gruppo al Senato dove è arrivata insieme al premier - dice: "La maggioranza c'è e l'auspicio del governo è che ci sia anche tutto il Pd". E ancora: "La gazzetta ufficiale è piena di provvedimenti del nostro governo che in teoria non dovevano avere i numeri per passare, e poi sono passati tutti. Abbiamo dimostrato che c'è ampia disponibilità al confronto, all'ascolto, abbiamo fatto tantissime riunioni di gruppo e del partito... Noi nei primi diciotto mesi abbiamo fatto 24 direzioni, Bersani ne aveva fatte nove".

Riforme, Renzi: "Gran parte impianto profondamente condiviso". Resa dei conti in Senato
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi al Senato, dov'è arrivato accompagnato dal ministro Maria Elena Boschi per incontrare i senatori del Pd sul tema della riforma della Costituzione

"Pronto a una intesa sulle riforme, ma nessuno pensi di ripartire da capo" aveva detto Matteo Renzi ieri sera a Porta a Porta, rivolgendosi soprattutto all'opposizione interna del Pd che sul nuovo Senato insiste per non eliminare l'eleggibilità diretta dei futuri senatori. Messaggio ricevuto e rinviato al mittente dopo poche ore da Pier Luigi Bersani: "Non si tocca l'articolo 2 della riforma (non eleggibilità dei futuri senatori, ndr)? Renzi ha ragione a chiedere che non si apra un vaso di Pandora, ma poi c'è il libero convincimento". E quindi la stoccata: "Non si può chiamare alla disciplina di partito davanti alla Costituzione. Non si è mai fatto in nessun partito".

Una premessa certo non incoraggiante per il premier in vista della decisiva riunione con i senatori Pd in programma questa sera. Insiste ancora Bersani: "Spaccare il Pd sulle riforme? Io sono per il sì, non per il no" alla riforma costituzionale. "Ma qui non è in gioco il superamento del bicameralismo perfetto, il doppio voto di fiducia. Tutti vogliono la riforma e intendono portarla in porto, qui è in gioco se, dopo la legge elettorale, noi possiamo avere un parlamento dove la grandissima parte dei membri viene scelta a tavolino".

"La questione è questa - prosegue - e qui non c'è Bersani ma il libero convincimento di un numero di senatori con i quali bisogna discutere e trovare una soluzione. Non mi risultano tentativi di mediazione". Quanto all'ipotesi listino, circolata in questi giorni come possibile terreno d'incontro, "è priva di sostanza", poiché, a detta di Bersani, "non si può scrivere una cosa in un articolo e poi correggerla in un altro". La questione è "sì a un ruolo degli elettori. Punto".

Passano le ore e sono gli stessi senatori della minoranza dem a rimarcare le posizioni. Al termine di una riunione convocata al ritorno dalla pausa estiva, oggi, si apprende che le posizioni espresse in queste ultime settimane dai due fronti restano le stesse. "L'articolo 2? L'impostazione non si capovolge", ripete Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali e relatrice della riforma del Senato, sul timing del ddl Boschi. E sulla disciplina di partito, ribadisce: "Abbiamo la responsabilità di un percorso riformatore che vogliono tutti senza distinzione: è possibile arrivarci con un accordo politico e istituzionale".

"Siamo disponibili a confrontarci, ma non siamo disponibili a tornare al punto di partenza", ripete vicesegretario Pd Lorenzo Guerini replicando a Bersani. "A noi interessa portare a compimento la riforma della Costituzione, una riforma che si aspettava da anni e ora è a portata di mano. Serve responsabilità".

Per il senatore Pd Vannino Chiti, esponente della minoranza, "senza modificare l'articolo 2 non è possibile un'intesa: non per pregiudiziali ma per serietà e rispetto della Costituzione. Ed anche per rispetto dei cittadini. Non si può avere un senato semi-elettivo. Non si può chiedere ai cittadini di partecipare a mezzo servizio, senza contare e decidere. Noi abbiamo fatto uno sforzo per un compromesso degno della costituzione: purtroppo ad ora abbiamo trovato un muro, una chiusura tanto dogmatica quanto assurda rispetto alle coerenze che deve avere la Costituzione". Insomma, alla vigilia della resa dei conti dei senatori in Senato, le posizioni restano cristallizzate.

Intanto fa sentire la sua voce il presidente del Senato, Piero Grasso, determinante per la decisione che prenderà sugli emendamenti al ddl Boschi: "Io mi potrò pronunciare solo in Aula, quando avrò gli emendamenti da valutare". Poi un invito al dialogo: “Ogni giorno che passa senza un confronto vero tra le parti, a tavolino e non sui giornali, è un giorno sprecato, e fra un mese comincia la sessione di bilancio.
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08 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/08/news/senato_bersani_attacca_non_si_vota_per_disciplina_di_partito_-122432992/?ref=HREA-1
7668  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EUGENIO SCALFARI. Sui migranti il premier c'è, ma non sogna un'Europa federale inserito:: Settembre 15, 2015, 05:03:38 pm
Sui migranti il premier c'è, ma non sogna un'Europa federale

Di EUGENIO SCALFARI
13 settembre 2015

RENZI ieri mattina ha disdetto tutti gli impegni che aveva preso nel fine settimana ed è partito per New York per assistere alla finale degli Us Open di tennis tra le due italiane Flavia Pennetta e Roberta Vinci che il giorno prima avevano sgominato le due giocatrici più forti del mondo. Non era mai accaduto che due italiane si contendessero la finale e il presidente del Consiglio ha voluto esser presente a questo confronto eccezionale che corona a suo modo la ripresa economica e politica del nostro Paese dopo anni di triboli e di recessione.

Un fatto analogo era accaduto molti anni fa quando, in occasione della finalissima dei mondiali di calcio in Spagna, Sandro Pertini, allora presidente della Repubblica, era andato a Madrid accolto dal re Juan Carlos ed era poi tornato ospitando nel suo aereo la squadra vittoriosa e giocando a carte con i giocatori. Del resto, in questi stessi giorni, Berlusconi è andato in Crimea ospite di Putin, ha deposto un mazzo di fiori davanti alla stele che ricorda i caduti italiani nella guerra di Crimea del 1853 in cui entrò Cavour per dare al regno di Piemonte un livello europeo e facilitare l'alleanza con Napoleone III nella guerra del 1859. Berlusconi, dopo questo improvviso sfoggio culturale, ha consigliato a Putin di battersi per sconfiggere in Siria i terroristi del Califfato. Dunque quando l'ex Cavaliere di Arcore dice che Renzi è il suo "figlio buono" non sbaglia: Renzi conosce benissimo il modo per sottolineare un evento che nulla ha a che vedere con la politica e con l'economia ma soltanto con il consenso popolare.

Un figlio buono, anzi buonissimo e non lo dico con ironia ma faccio una semplice constatazione. Una constatazione analoga ed anche più notevole debbo farla per la lunga lettera aperta da lui inviata al direttore del nostro giornale e da noi pubblicata venerdì scorso. È un documento che rivendica il ruolo dell'Italia sul tema degli immigranti dal Sud e dall'Est del mondo, la nostra presenza nel salvataggio di centinaia di migliaia di vite, nella pressione esercitata a Bruxelles affinché quel tema, quel riconoscimento dei valori e dei diritti dei quali gli immigranti sono portatori, diventassero l'impegno principale che l'Europa doveva assumere.

In un certo senso il nostro presidente del Consiglio ha preceduto la Merkel ed ora l'Italia è il Paese più vicino alla Germania e ovviamente il più lontano dai populismi antieuropei alla Salvini nonché alla "politica dei muri" dei quattro Paesi dell'Est europeo, della Danimarca e dei conservatori inglesi. Sono segnali  -  quelli di Renzi nella lettera a noi diretta  -  che finalmente, almeno sul tema dell'immigrazione, mettono in atto concretamente una politica nuova, moderna, positiva, che accomuna i partiti moderati e quelli di una sinistra riformatrice, dando voce all'Europa come noi la vorremmo e la vogliamo. Perciò: bene Renzi se continua così.

***

In quello stesso numero di venerdì scorso del nostro giornale c'è anche un'intervista del collega Andrea Tarquini con Lech Walesa, storico fondatore del sindacato Solidarnosc che fu un sindacato cattolico e rivoluzionario della Polonia dominata dall'Urss, della quale era allora arcivescovo Wojtyla, che poi fu eletto papa col nome di Giovanni Paolo II. Walesa accetta in pieno la politica aperta ai migranti seguendo in questo la predicazione e l'insegnamento di papa Francesco, ma pone anche un altro problema: quello dell'Europa unita e federale senza la quale gli Stati nazionali del nostro continente affonderanno. Conviene citarlo per capire fino in fondo il suo pensiero: "L'Europa sta perdendo i suoi valori solidali. Abbiamo coltivato i nostri valori solo nel giardinetto dei piccoli Stati nazionali. L'Europa deve saper dire addio agli Stati nazionali e farsi struttura globale, aperta, democratica, moderna. Lo Stato nazionale di oggi ben presto apparirà anacronistico folclore. Oggi servono su tutti i temi e problemi soluzioni europee e valori globali. Il passo finale di questa politica deve essere la Costituzione, la carta fondamentale che ancora manca all'Europa. L'America fece questo, oltre ad aprirsi ai migranti di tutte le provenienze ed oggi, non a caso, è il Paese numero uno del mondo intero".

Così dice Walesa, fondatore di quella Solidarnosc che rivoluzionò la Polonia e inferse la prima ferita alla dominazione dei sovietici in quegli anni ormai lontani. E così dice anche la nostra presidente della Camera, Laura Boldrini, che ha mobilitato su questo stesso tema i presidenti delle Camere di Francia, Germania e Lussemburgo che comunicheranno lunedì prossimo al presidente Mattarella questa loro risoluzione.

Renzi concorda con l'obiettivo qui delineato? Temo proprio di no. Gli piace l'Europa degli Stati nazionali confederati; ambisce di essere uno dei leader di quella Confederazione della quale l'Italia fu uno dei fondatori nel lontano 1957; ma non accetterà un declassamento degli Stati nazionali a membri d'uno Stato federale. Questo è un handicap molto grave. Purtroppo condiviso da gran parte dei capi di governo dell'Ue. Se la Germania si muovesse in questa direzione, se la sinistra europea facesse altrettanto, allora forse la Federazione europea diventerebbe possibile. Su questo punto Renzi non risponde e non ne parla. Ha fatto benissimo a volare a New York, meriterebbe d'essere accolto al ritorno da quella canzone cantata splendidamente da Frank Sinatra, ma il problema dell'Europa federale è alquanto più importante e da lui la risposta finora non è venuta.

***

È questa dell'Europa federata la sola carenza di Matteo Renzi di fronte alle esigenze d'una moderna democrazia e d'una moderna sinistra? Risponde con una frase molto chiara Piero Ignazi in un articolo di ieri sul nostro giornale: "La spada di Brenno appartiene ai barbari, l'"agorà" all'alba della civiltà. Se c'è una sfida da vincere, questa riguarda il profilo della leadership di Renzi perché una vera leadership si afferma per capacità di convinzione, non di coercizione. Questo è il tema e il problema e anche per questo un Senato potrebbe servire". Così conclude Ignazi e questa, a mio avviso, è la realtà dello scontro. L'arbitro della verifica è il presidente del Senato il quale deve giudicare ammissibile il voto del Senato sul contestato articolo 2 della legge di riforma costituzionale. Questo dispone la Costituzione, come Gianluigi Pellegrino ha dimostrato venerdì su "Repubblica". Grasso non ha in materia alcun margine di discrezionalità: quell'articolo dev'essere ridiscusso, quale che ne sarà il risultato. Qualora accadesse, quando si arriverà al voto, che il governo fosse battuto dalle opposizioni e dalla minoranza interna al Pd, dovrebbe dimettersi? L'obbligo in Costituzione non è previsto a meno che il governo non ponga la fiducia, il che su una legge di riforma costituzionale è del tutto improprio anche se esistono alcuni precedenti in proposito.

Comunque, ove mai il governo si dimettesse (cosa che mi sembra improbabile ed anche non auspicabile) il presidente della Repubblica ha fatto sapere, sia pure in forma non ufficiale, che non ha alcun motivo per sciogliere le Camere, il che del resto è evidente. Il problema riguarda soprattutto l'opposizione interna al Pd la quale, su una legge costituzionale, non ha alcun vincolo di mandato politico. Un Renzi battuto ma non dimissionario avrebbe probabilmente pieno appoggio dalla sua minoranza nelle leggi sul lavoro, sulla crescita e sull'equità sociale. Sarebbe, da tutti i punti di vista, un auspicabile risultato.

P. S. Alcuni giorni fa, in uno suo articolo editoriale in prima pagina del Corriere della Sera, Paolo Mieli ha segnalato un mio supposto errore con le seguenti parole: "Giova ricordare ad Eugenio Scalfari che l'estate scorsa ha sollevato dubbi circa l'opportunità di alcune prese di posizione di Giorgio Napolitano a favore del completamento dell'iter di riforma costituzionale, che nel 2006 a capo della campagna abrogazionista si pose l'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e poté farlo senza che in alcun modo il suo successore Carlo Azeglio Ciampi se ne dicesse turbato. Mieli è lui che sbaglia. Scalfaro si era messo a capo di una campagna referendaria e Ciampi non obiettò perché era un fatto del tutto lecito. I miei rilievi riguardano invece l'iter parlamentare di una legge di riforma che ancora non è stata approvata e neppure discussa fino in fondo. Questo mi sembra irregolare. Non guidare una campagna referendaria a legge già approvata dal Parlamento.

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13 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/13/news/sui_migranti_il_premier_c_e_ma_non_sogna_un_europa_federale-122767231/?ref=fbpr
7669  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / ALDO GRASSO. L’astro nascente che divide i Cinquestelle inserito:: Settembre 15, 2015, 05:01:43 pm
L’astro nascente che divide i Cinquestelle
Gelosia: il rude Roberto Fico ha bocciato l’investitura di Di Maio


Di Aldo Grasso

Che poi, gira e rigira, quando si tratta di presa di potere siamo tutti uguali, i grillini come noi. Succede questo: durante una conferenza stampa al Senato, Beppe Grillo si volta amorevolmente verso Luigi Di Maio, seduto al suo fianco, e lo gratifica di una spiccia investitura: «Maledetto, sei il leader».

Che Di Maio sia l’astro nascente dei Cinquestelle lo pensiamo tutti. Lasciamo perdere i sondaggi; basta vedere come veste, come si muove, come ha abbandonato i facili slogan populisti della ditta Grillo & Casaleggio per capire che è uno non insensibile alla leadership del M5S. Ma non aveva fatto i conti con la gelosia di Roberto Fico, il rude deputato napoletano, membro del direttorio e presidente della commissione di Vigilanza Rai. Fico di tv capisce poco (basta risentire le sue esternazioni sul caso Casamonica), ma gli piace comandare e tutta la mitologia della democrazia diretta, dell’uno vale uno, dei deputati come portavoce del popolo è già un lontano ricordo.

Quello che si ritiene il meglio Fico del bigoncio la prende male e precisa: «Il leader è il movimento, ogni persona all’interno del movimento fa la sua parte. Ognuno, in qualche modo, è leader degli argomenti che porta avanti e con la Rete riusciremo a prendere il governo del Paese». Traduzione: col cavolo che Di Maio è il leader! Grillo fa marcia indietro: sarà la Rete a decidere. Traduzione: maledetti, allora decideremo ancora io & Casaleggio.

13 settembre 2015 (modifica il 13 settembre 2015 | 09:19)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_settembre_13/astro-nascente-che-divide-cinquestelle-26ef1c8a-59df-11e5-b420-c9ba68e5c126.shtml
7670  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MICHELE AINIS. Senato, le liti sulla forma inserito:: Settembre 15, 2015, 04:57:15 pm

L’editoriale
Senato, le liti sulla forma

Di Michele Ainis

La riforma del Senato è in viaggio. Verso dove? Mentre i partiti s’accapigliano sull’elettività dei senatori, rimane sotto un cono d’ombra il senso stesso del procedere, la sua direzione. Eletti o negletti, che mestiere toccherà in sorte a lor signori? Qui sta il punto decisivo. Perché sono le funzioni di ogni organo, più ancora che il suo titolo d’investitura, a scolpirne il ruolo. Perché un Senato inutile costituirebbe altresì uno spreco: puoi togliere la busta paga ai senatori, ma il Palazzo ha un costo, bollette e funzionari devi pur pagarli. E perché le istituzioni possiedono una propria dignità, non meno delle persone. Senza, la vita non merita più d’essere vissuta. Vale per Welby, vale per il nuovo Senato.

Nel 1946, al debutto della Costituente, i due maggiori partiti mossero da concezioni opposte del Senato. La Democrazia cristiana intendeva farne un’assemblea rappresentativa dei territori e degli interessi produttivi; questo perché - diceva Mortati - le istanze regionali prendono corpo in un tessuto economico e sociale, diverso da Regione a Regione. Viceversa il Partito comunista, in sintonia con la posizione dei comunisti francesi all’alba della Quarta Repubblica, puntava su un sistema monocamerale; ai suoi occhi il Senato - come la Consulta - non era che un «inciampo», per usare l’espressione di Togliatti.

Quelle due soluzioni avevano quantomeno il pregio della linearità, della chiarezza. Non è poco, perché se le idee sono confuse generano pasticci, e i pasticci si traducono in bisticci. Nel prossimo futuro potremmo ottenerne una riprova, circa il condominio legislativo d’un ventaglio di materie fra Camera e Senato, che spetterà ai loro presidenti districare. Anche se, per dirla tutta, i senatori avranno ben poche funzioni da rivendicare. Erano già misere nel testo concepito dal governo; al giro di boa la Camera le ha ulteriormente sforbiciate. Via la competenza sui temi etici, dalla sanità alla famiglia. Via l’attribuzione solitaria del controllo sulle politiche pubbliche, sull’attuazione delle leggi, sulle nomine decise dal potere esecutivo. Via l’esclusiva nei rapporti con l’Unione Europea. Via l’elezione di due giudici costituzionali. Via il concorso paritario del Senato perfino sulle leggi d’interesse regionale.

Un paradosso, giacché il Senato - scrive nero su bianco la riforma - «rappresenta le istituzioni territoriali». Già, ma come? Attraverso una caricatura della Camera dei deputati, con meno funzioni, meno componenti. Non una seconda Camera, bensì una Camera secondaria. Il cui modello sta nel Bundesrat austriaco, anch’esso eletto in secondo grado dalle Diete provinciali, come il Senato dai Consigli regionali. Da quelle parti lo ritengono insignificante, però almeno l’organo è coerente. Noi, invece, chiediamo ai poeti di rappresentare le Regioni, includendovi i 5 senatori nominati per meriti artistici dal capo dello Stato. E ne lasciamo fuori i parlamentari eletti all’estero, che rappresentano pur sempre un territorio. Nonché i governatori, che sono i portavoce delle comunità regionali.

Da qui l’esigenza di metterci rimedio. Comunque si risolva la querelle sull’elezione diretta del Senato, è ancora più importante restituirgli una missione, un’anima. Senza più il voto di fiducia sui governi, ma conservando la fiducia popolare su questa antica istituzione. Anche perché, altrimenti, nel referendum saranno i cittadini a sfiduciare la riforma.

9 settembre 2015 (modifica il 9 settembre 2015 | 07:50)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_09/senato-riforme-lite-forma-ainis-62c5b192-56b0-11e5-a580-09e833a7bdab.shtml
7671  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Antonio POLITO Con Corbyn si amplia il fronte populista inserito:: Settembre 15, 2015, 04:44:14 pm
Con Corbyn si amplia il fronte populista
Il nuovo leader del partito laburista britannico ha simpatie per il greco Syriza e lo spagnolo Podemos, ma il suo programma ha punti in comune con le formazioni antisistema di destra, compreso il francese Front National

Di Antonio Polito

Ora la Gran Bretagna non ha solo il Regno più vecchio, ma anche il Partito laburista più antico della sua storia. A dire il vero Jeremy Corbyn, leader di questa nuova era elisabettiana della sinistra inglese, fosse per lui licenzierebbe la monarchia; farebbe anche uscire il Regno Unito dalla Nato, nazionalizzerebbe ferrovie, gas ed energia, aumenterebbe le tasse, e si alleerebbe agli «amici» di Hamas ed Hezbollah. È difficile immaginare qualcosa di paragonabile nella pur variopinta sinistra italiana (anche se adesso diventeranno tutti corbyani). È come se Gino Strada fosse stato eletto leader del Pd. L’evento è così eccezionale che appena tre mesi fa i bookmaker lo davano 200 a 1. Blair aveva consigliato un trapianto di cuore ai militanti il cui cuore batteva per Corbyn. Detto fatto: da ieri il Labour si è davvero strappato dal petto il suo cuore blairiano.

Eppure, a pensarci bene, la svolta inglese è tutt’altro che sorprendente. Il voto dei circa quattrocentomila iscritti e simpatizzanti che a grande maggioranza hanno scelto Corbyn si iscrive anzi alla perfezione nella lunga serie di tsunami che ha scosso gli elettorati di tutto l’Occidente dopo il trauma della Grande Crisi. Lo stesso Corbyn si paragona a Bernie Sanders, il socialista del Vermont che sta dando nei sondaggi e nelle piazze filo da torcere alla moderata Hillary Clinton; o a Syriza, il rassemblement che ha letteralmente ucciso il partito socialista in Grecia e ha strappato il potere ai conservatori (anche se non è detto che lo conservi dopo le prossime elezioni); o a Podemos, il movimento che si candida in Spagna come discendente diretto delle piazze degli indignados. Vi si potrebbe aggiungere un altro formidabile fenomeno analogo, l’ascesa improvvisa dei Cinque Stelle in Italia da zero al 25 per cento (e forse, al momento, di più). Niente di tutto questo era prevedibile, eppure è successo.

Inutile scervellarsi su quale sia l’elemento programmatico comune alle forze che stanno letteralmente mandando in soffitta la tradizionale sinistra socialdemocratica, sbaragliata in Gran Bretagna, ansimante nei Paesi Nordici, minoritaria in Francia, gregaria in Germania. Non sono i programmi il forte dei nuovi populismi. Quello di Corbyn, poi, sembra del tutto irrealizzabile visto che dei 232 parlamentari laburisti il 90% lo considera un suicidio. Ciò che spinge questi movimenti è piuttosto la voglia di dar voce a un sentimento: la rivolta dei piccoli e deboli contro l’establishment, la rabbia contro l’uno per cento dei ricchi che l’hanno sempre vinta, l’insofferenza per una economia in cui, anche dopo la Crisi, c’è più ineguaglianza, meno lavori, e sempre più immigrati a contenderseli. Nessuno di questi nuovi demagoghi sa davvero dire come cambiare, ma tutti sanno dire molto bene che va tutto male.

È un problema davvero serio per il socialismo democratico. Ma attenzione, lo è anche per il capitalismo liberale. Non è che a destra, infatti, le cose vadano molto diversamente. Donald Trump tuona nel Partito Repubblicano contro i pescecani di Wall Street e gli sfruttatori degli hedge funds con argomenti non dissimili da quelli che usa Sanders nei Democratici. Il Front National in Francia o la Lega in Italia sono contro l’austerità quanto Corbyn in Gran Bretagna. E questo ampio fronte di nazionalisti e di socialisti (i due termini sommati possono diventare esplosivi, come la storia ci insegna) è unito da un forte ripudio dell’Unione europea e da una altrettanto forte simpatia per Putin e il suo autoritarismo.

Il Financial Times, che pure è la Bibbia della City, si è spinto a dire che se tutto questo accade è colpa del capitalismo finanziario, che mostra di voler proseguire sul cammino interrotto dalla Grande Crisi come se niente fosse accaduto e niente dovesse cambiare. Di certo la socialdemocrazia europea è uscita dalla recessione senza un’idea nuova: non a caso i leader di maggior successo elettorale in Europa sono Merkel e Renzi, due democristiani. E quando si apre un vuoto di futuro, la nostalgia dell’antico è uno sperimentato ed efficace balsamo.

13 settembre 2015 (modifica il 13 settembre 2015 | 07:26)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_13/corbyn-fronte-populista-commento-52eaa0fa-59d7-11e5-b420-c9ba68e5c126.shtml
7672  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Jeremy CORBYN, perde già i pezzi a causa del suo passato. Ma non è detto... inserito:: Settembre 15, 2015, 04:42:38 pm
Jeremy Corbyn leader dei Laburisti.
La missione del nuovo capo: mettere da parte il radicalismo per tenere unito il partito

Nicola Mirenzi, l'Huffington Post
Pubblicato: 12/09/2015 20:36 CEST Aggiornato: 2 ore fa

Jeremy Corbyn non aveva ancora finito il suo discorso da neo-leader del partito laburista quando alle 12.43 il ministro della salute ombra, Jamie Reed, consegna la sua lettera di dimissioni dall’incarico: troppo difficile tornare al governo con un leader radicale come quello appena eletto – argomenta nelle trentatré righe delle missiva Reed – dunque meglio farsi da parte e pensare a come sostituirlo il prima possibile.

Eletto a capo del Labour con una maggioranza del 59,5% dei voti, il socialista che vuole mettere tra parentesi il pensiero e le opere di Tony Blair ha un nemico feroce contro cui combattere: la previsione che alle prossime elezioni politiche (nel 2020) perderà di sicuro, consegnando la Gran Bretagna ancora in mano ai conservatori e il suo partito – il Labour – nell’angolo dell’opposizione, se non della pura testimonianza.

Nel giro di pochi mesi, Jeremy Corbyn è stato in grado di inanellare una serie di primati: essere il primo candidato a scendere in campo senza minimamente pensare di poter battere i suoi tre rivali (l’ex ministro ombra della Salute Andy Burnham, il ministro ombra degli Interni Yvette Cooper, la candidata moderata Liz Kendall); diventare il capo più di sinistra che il Labour si sia mai dato; ed essere eletto leader con il più basso consenso da parte dei suoi colleghi deputati (solo 14). Dettaglio, questo, che indica quella che George Eaton su New Stetesman ha definito "la sfida epica" di Corbyn: cioè ricomporre la frattura che si aperta tra i membri del partito laburista e i suoi rappresentanti in parlamento.

Finita la feroce campagna elettorale, l’incubo della scissione agitato dalla parte più centrista del Labour può considerarsi finito, o altamente meno pauroso: nessuno ha veramente voglia di andare fino in fondo a questa strada. Ma certo Corbyn dovrà lavorare duro per tenere unito il partito. Per farlo, come spiega all’Huffington Post Lazzaro Pietragnoli – ex sindaco laburista di Camden, nord di Londra, ora consigliere comunale – Corbyn deve "cambiare atteggiamento". Dopo aver dimostrato di sapere "interpretare al meglio un bisogno di cambiamento, accogliendo esperienze radicali cresciute sia dentro che fuori dal Labour – dice Pietragnoli – ora deve mostrare di essere capace di siglare un compromesso politico, di linguaggio, di tono: l’unico modo per potere essere davvero competitivo".

Per Corbyn, trentadue anni di politica vissuta ostinatamente all’opposizione, il ruolo di leader è una shock culturale. Mediare, trovare le convergenze, rinunciare alla purezza delle idee: sarà la parte più difficile del suo lavoro. E il primo passaggio in cui si valuterà la sua disponibilità ad aprire le porte della sua guida alle anime del partito che sono state sconfitte sarà la formazione del governo ombra.
Molti esponenti del vecchio shadow cabinet si sono già dichiarati indisponibili a collaborare con Corbyn, altri di loro, invece, hanno offerto la disponibilità a lavorare con lui. Ovvio che le due figure principali su cui si misurerà la volontà unitaria di Corbyn sono quelle dell’economia e della politica internazionale, i temi più importanti della politica britannica, ma anche quelli su cui Corbyn deve più rassicurare la parte del partito che non lo ha votato. Se sceglierà al Tesoro (come si è detto durante la campagna elettorale) un uomo come John McDonnell, il suo più fedele alleato parlamentare, è evidente che Corbyn opterà per una linea intransigente. Se deciderà di metterlo da parte, scegliendo personalità che non fanno parte della sua corrente politica e culturale, automaticamente si aprirà un’altra pagina. "Ed è quello che io credo che farà", dice Pietragnoli.

Sull’uscita della Gran Bretagna dalla Nato, la sua posizione anti-monarchica, il suo scetticismo riguardo all’Unione Europea, Corbyn ha già mostrato di non voler insistere: tanto è alto il rischio di condurlo al margine della scena politica. E secondo Pietragnoli, il problema di unire il partito, "non dovrà essere solo un’esigenza sentita del nuovo leader, ma deve essere avvertita come necessaria anche dai leader che a lui si oppongono, che dovranno dichiararsi disponibili a dare una mano".

L’alta percentuale di voti con cui Corbyn è stato eletto (più del 57% con cui fu eletto Blair nel 1994) ha mostrato una debolezza del fronte che a lui si oppone: i centristi del Labour, l’aria di sinistra più moderata non ha una figura carismatica, un vero leader dietro al quale coagulare la sua diversità. Perciò molti analisti sono d’accordo nel dire che il vero avversario di Corbyn – più che i nemici interni – sono le urne.

Il referendum sull’Europa, le elezioni del prossimo maggio in Galles, in Scozia e per la scelta del sindaco di Londra, saranno il primo banco di prova per lui. Perderle tutte, o comunque deludere, significherebbe rimettere tutto in discussione, «benché far fuori un leader da poco eletto - ragiona Pietragnoli – non è mai un buon segnale che si lancia agli elettori».

I voti – cioè l’alto mare aperto dell’intero elettorato – sono il macigno che pesa sulle spalle di questo leader che riscalda i cuori della base Labour, ma corre il rischio di rinchiuderla in un ghetto. Tanto che sul Guardian Andrew Sparrer ha compilato una lista in dieci punti per spiegare perché le scarse possibilità di Corbyn di essere eletto primo ministro sono diventate un tema della politica nazionale britannica. «Corbyn è veramente ineleggibile?» si domanda Sparrer. «Molto probabilmente sì», si risponde, concedendosi solo un piccolo beneficio del dubbio. Lo stesso margine d’incertezza che è disposta a concedere il primo ministro scozzese Nicola Sturgenon, prima di scrivere un tweet preoccupante per il futuro della Gran Bretagna: «Se il Labour non dimostrerà velocemente di avere un chance credibile di vincere le elezioni inglesi – scrive – molti concluderanno che l’indipendenza della Scozia è l’unica alternativa al governo dei Tory». Le tensioni in Irlanda, le insofferenze scozzesi, le sempre più forti pressioni a favore di un parlamento autonomo inglese: sono solo alcuni dei movimenti, «potenzialmente esplosivi» – osserva Pietragnoli – su cui Corbyn non ha una ricetta credibile. Per questo in ballo non c’è solo il futuro del partito laburista: c’è anche quello – più grande – del Regno Unito.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/09/12/corbyn-leader-laburisti_n_8127584.html?1442083016&utm_hp_ref=italy
7673  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / FABIO CAVALERA. Jeremy, un altro che vuol far piangere i ricchi... inserito:: Settembre 15, 2015, 04:39:56 pm
Jeremy, il ribelle vegetariano che odia l’austerity e la Nato
Il Labour deve essere un partito socialista. Magari con qualche correzione, di sicuro dobbiamo riscoprire il valore della proprietà pubblica nei settori chiave dell’economia
Di FABIO CAVALERA

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA Orti per tutti. A Jeremy Corbyn piace sognare. Anche nell’ultima dura battaglia per conquistare la leadership laburista ha messo in campo la sua prolifica immaginazione. E per ringalluzzire il popolo stanco del centrosinistra ha rispolverato un vecchio pallino: un giardino in ogni casa e un pezzo di terra da coltivare «in modo che ciascuno abbia la possibilità di piantare patate e pomodori». Lui stesso, Jeremy Corbyn, è un appassionato di tuberi, bulbi e foglie. Nel 2003, dopo una lunga trafila, gli recapitarono l’autorizzazione a curare un minuscolo appezzamento a Islington, nord londinese, il suo collegio elettorale che da 32 anni lo conferma parlamentare alla Camera dei Comuni. Al mattino sale in bicicletta e provvede direttamente a semine, tagli e innaffiature.

Non si prenda Jeremy Corbyn per un pazzo eversore o per un nostalgico e patetico ex figlio dei fiori, visto che ha tagliato il traguardo delle sessantasei primavere. È così: idealista, cortese, di modi semplici. E testardo, tanto testardo da divorziare dalla moglie quando lei decise di spedire uno dei figli alla grammar school, le scuole più selettive. Anche Jeremy aveva frequentato una grammar school ma voleva per la prole, tre ragazzi, una secondaria popolare. Perse la partita in famiglia e il matrimonio finì. Le rigidità di un tempo sono svanite ma il DNA politico di Jeremy Corbyin non ha subito alterazioni: piaccia o non piaccia è di sinistra, senza sbavature e senza ripensamenti. In Parlamento per più di 500 volte, dal 1997 ovvero da quando partì la modernizzazione targata Tony Blair, ha votato contro le indicazioni del partito: no alla guerra in Iraq, no all’aumento delle tasse universitarie, no alle privatizzazioni. «In Germania sarei più moderato dei socialdemocratici», replica alle critiche.

Lo hanno dipinto come un «rosso» pericoloso. «Ci porterà al disastro», hanno minacciato i guru della terza via centrista. Ma il feroce fuoco di sbarramento degli architetti del New Labour prima trionfanti oggi tramortiti, i Tony Blair, i Peter Mandelson, i Gordon Brown, accantonate le loro dilaganti rivalità e gelosie personali, non è servito a nulla. Hanno tirato fuori qualche scheletro dall’armadio di Corbyn: ad esempio le simpatie per «gli amici di Hamas e degli Hezbollah» o l’invito a Westminster rivolto a Jerry Adams, capo dell’Ira, dopo le bombe a Brighton nel 1984. Un buco nell’acqua. «Se Tony Blair stringe la mano ai capi di Hamas è una grande leader. Se io dico che occorre dialogare con ogni parte in causa nei conflitti sono un amico dei terroristi».

Jeremy Corbyn non è un estremista con le armi nascoste sotto il letto. È un melting pot di correnti, di movimenti, di convinzioni, di radicalismo educato. È un pacifista, è un repubblicano in un paese di ferventi monarchici, è un euroscettico in un partito europeista, è un No Tav, è abbagliato dai greci di Syriza e dagli spagnoli di Podemos, è nemico del nucleare, sostiene la piena eleggibilità dei Lord e non la nomina di casta, è un uomo di piazza che nel 1984, già sui banchi dei Comuni, fu arrestato per un corteo non autorizzato contro l’apartheid in Sudafrica. Non è mai cambiato dimostrando una coerenza ferrea.

Un eretico, questo sì, che ha sbaragliato il campo sia per il manifesto grigiore degli altri contendenti, percepiti come una fotocopia in bianco e nero dell’establishment laburista targato Blair, sia per via di quel suo motto che ha ripetuto all’infinito, trovando consensi specie fra i giovani e le donne: «Se siamo laburisti è perché vogliamo che il partito laburista sia il veicolo del cambiamento sociale». Sottinteso: l’omologazione ai Bush che vanno in Iraq (leggi Blair), gli inchini alla City e alla finanza «creativa» (leggi Blair e Brown), le balbuzie sul bilancio statale da sfoltire coi tagli mirati (leggi Ed Miliband) hanno regalato sconfitte. «È autodistruttivo opporre l’austerità morbida all’ austerità dura di Cameron». La svolta presuppone una forte caratterizzazione. «Altrimenti destra e sinistra sono uguali».

Jeremy Corbyn è piantato nel solco della tradizione formatasi con gli insegnamenti dei genitori, che si erano conosciuti nelle proteste antifranchiste durante la guerra civile spagnola, e consolidata al termine degli studi liceali quando stracciò l’iscrizione all’università e partì per due anni di volontariato in Giamaica seguiti dall’arruolamento nel sindacato. «Ma non guardo indietro, io guardo avanti con idee nuove». Gli piacerebbe ristabilire la clausola dello statuto che vincola i laburisti al socialismo. «Magari con qualche correzione. Di sicuro dobbiamo riscoprire il valore della proprietà pubblica nei settori chiave dell’economia». Propone di rinazionalizzare le poste, le ferrovie e le società che producono e distribuiscono energia.

È uno choc. Esistono due partiti laburisti: Corbyn e i corbynisti, gli eredi e gli orfani del New Labour blairiano. Tenerli assieme è la prima scommessa di Jeremy Corbyn. «Io intendo collaborare con tutti, però con obiettivi chiari». Il che significa ribaltare la linea di marcia e cancellare gli ultimi venti anni di storia laburista. In politica estera è per la distensione con la Russia di Putin, per l’uscita dalla Nato, per l’accantonamento dei missili nucleari. Sull’Europa minaccia: «Sono per l’Europa che armonizza le condizioni di lavoro. Contrarissimo all’Europa del libero mercato». Il referendum incombe e Corbyn sbandiera la possibilità di schierarsi per l’uscita dall’Unione. Dirompente. Come pure sull’economia. Ha scritto dieci punti, ricevendo l’appoggio di 50 economisti capitanati da David Blanchflower, un ex membro del comitato per le politiche monetarie della Banca d’Inghilterra. Il succo è: basta tagli alla spesa pubblica, più tasse per ricchi, banche, fondi. Poi «il quantitative easing del popolo», l’ha chiamato così, ossia l’istituto centrale che stampa moneta da destinare alle infrastrutture e all’occupazione. «Il dovere dei governi è assicurare che l’economia lavori per l’intera comunità e che riduca le diseguaglianze».
In fin dei conti, al nuovo leader interessa di più la coerenza che l’ufficio a Downing Street. Se gli andrà male ha sempre il suo orto da coltivare. Una cosa è certa: con il «sovversivo» buono il laburismo cambia pelle.

@fcavalera
13 settembre 2015 (modifica il 13 settembre 2015 | 10:11)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_settembre_13/jeremy-ribelle-vegetariano-che-odia-l-austerity-nato-8da33442-59e5-11e5-b420-c9ba68e5c126.shtml
7674  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ILVO DIAMANTI - In salita Pd e Renzi, M5s al 27%, massimo storico. inserito:: Settembre 15, 2015, 04:36:21 pm
In salita Pd e Renzi, M5s al 27%, massimo storico.
Crolla Forza Italia
Atlante politico.
Stabile al 14% la Lega di Salvini. Il partito di Berlusconi è al minimo da quando è nato: 11%.
Nel centrodestra in ascesa Giorgia Meloni. Immigrati, cala la paura

Di ILVO DIAMANTI
12 settembre 2015
   
LA MARCIA di Matteo Renzi al governo procede senza scosse e senza accelerazioni particolari. Da tempo non riesce più a sollevare entusiasmo. Le speranze, attorno a lui, si sono raffreddate. Ma, per ora, non sembra in pericolo. Le vicende politiche interne e le emergenze esterne - per prima: la vicenda drammatica dei profughi - non hanno indebolito il sostegno al governo. Questa, almeno, è l'idea che si ricava dal sondaggio dell'Atlante Politico condotto nei giorni scorsi da Demos per Repubblica. Oggi, infatti, Renzi appare un leader senza alternativa, anche se è incalzato da opposizioni che hanno basi ampie e radicate. Il PD resta, comunque, il primo partito, fra gli elettori. Conserva il livello di consensi rilevato prima dell'estate. Anzi, lo migliora, seppure di poco. Supera, infatti, il 33%. Seguito, a distanza, dal M5s. Che si avvicina al 27%, il dato più elevato, da quando è sorto (secondo l'Atlante Politico). Dietro di loro, la Lega di Salvini staziona, intorno al 14%. Ma supera, per la prima volta, in modo netto, Forza Italia. Più che per meriti propri, per demerito del partito di Berlusconi, che scivola all'11%. Il minimo da quando, oltre vent'anni fa, è "sceso in campo", trainato dal suo leader e padrone. Tra le altre forze politiche, si osserva il declino dei centristi NCD e Udc. Ormai ridotti ai minimi termini (meno del 3%).

Anche il PD di Renzi, in caso di elezioni con il nuovo sistema elettorale, l'Italicum, appare comunque lontano dal 40%. La soglia prevista per conquistare la maggioranza dei seggi al primo turno. Dovrebbe, dunque, affrontare un ballottaggio, nel quale, secondo le stime del sondaggio di Demos, nessuno dei possibili sfidanti sembra in grado di batterlo. Tuttavia, solo nei confronti della Lega il distacco del PD appare largo. Quasi 30 punti. Di fronte al M5s oppure contro un "cartello" di destra, che riunisse Lega e FI, il PD si affermerebbe, ma non di larga misura. Sfiorando il 54%.

Nell'insieme, non si colgono segni di svolta né di grande cambiamento, in questo sondaggio. Semmai, la conferma di una fase di fragile stabilità. Ribadita dagli orientamenti verso i principali leader. Anche in questo caso, Matteo Renzi primeggia. Ma si attesta sugli stessi livelli degli ultimi mesi. Il 42%. È, dunque, il "preferito" fra gli elettori. Davanti a Matteo Salvini, in sensibile calo di gradimento personale. E a Giorgia Meloni. Che dispone di un consenso assai maggiore del proprio partito. È, invece, interessante osservare come Luigi Di Maio ottenga un indice di fiducia superiore a Beppe Grillo, fra gli elettori nell'insieme. Nella base del M5s, il fondatore -  e "amplificatore” -  risulta, però, ancora il più apprezzato (da circa il 70%). Ma Di Maio, il successore più accreditato, dispone anche qui di un livello di gradimento, comunque, ampio, prossimo al 60%. Segno che il M5s si è, in parte, autonomizzato da Grillo. Comunque, non è più identificato solo con la sua figura. E, probabilmente, anche per questo mantiene una base di consensi molto ampia.

Così, Renzi e il suo governo procedono in mezzo a molte difficoltà, ma non ne sembrano penalizzati in misura eccessiva. Il gradimento del governo, come quello personale del premier, è sceso di oltre 10 punti rispetto a un anno fa. Ma dall'inizio dell'anno appare stabile. E, negli ultimi mesi, perfino in lieve crescita. Sopra il 40%. La valutazione sulle principali politiche del governo, peraltro, non è peggiorata. In alcuni casi, anzi, è perfino migliorata. In tema di lavoro, di fisco. Ma, soprattutto, in tema di immigrazione. Argomento della lettera inviata dal premier a Repubblica. L'ondata degli sbarchi, l'emergenza dei profughi, negli ultimi mesi, non sembrano aver danneggiato l'immagine del governo e di Renzi. Al contrario. Infatti, la quota di cittadini che vede negli immigrati un "pericolo per la sicurezza" oggi è poco più di un terzo della popolazione. Il 35%. In giugno era il 42%. Le immagini del grande esodo dall'Africa e dalla Siria verso l'Europa hanno modificato il sentimento popolare, oltre che l'atteggiamento di molti leader di governo (per prima: Angela Merkel). Così, alla paura e all'ostilità si sono sostituite l'apertura e la pietà. E se, fino a pochi mesi fa, tra gli italiani gli sbarchi erano considerati un'invasione, da respingere, erigendo muri e barriere, oggi prevale il sentimento -  e l’orientamento -  di "accoglienza". Sostenuto da oltre il 60% degli intervistati: ben 20 punti in più rispetto a giugno. Una vera "svolta d'opinione".

Nella politica italiana, dunque, si annuncia un autunno tiepido. Con un leader solo al comando, circondato da opposizioni che faticano a presentarsi come vere alternative di governo. Il M5s: è canale dell'insoddisfazione popolare. Ma anche soggetto di controllo democratico a livello centrale e locale. La Lega di Salvini: appare sempre più Ligue Nationale. Versione italiana del Front National di Marine Le Pen. Che, tuttavia, si è affermata interpretando le paure degli elettori moderati. Forza Italia, infine, declina, in modo inevitabile e inesorabile, insieme al leader che l'ha inventata. E da cui non può prescindere.

Matteo Renzi, dunque, prosegue la sua marcia. Aiutato dalla ripresa positiva del mercato e dell'economia. Dalla timidezza degli avversari. Visto che l'opposizione più insidiosa, oggi, appare quella "interna" al PD.
Così, il 46% degli elettori, ormai, ritiene che governerà fino alla scadenza naturale della legislatura. Il dato più elevato da quando è in carica. A differenza del passato, paradossalmente, ciò avviene proprio quando sembra avere smesso i panni del velocista. Del leader ipercinetico, sempre in movimento, una riforma dopo l'altra, un "fatto" dopo l'altro. Mentre, al contrario, ha rallentato la corsa, ridimensionato le pretese. Il linguaggio. Renzi. Un premier (più) lento, che riflette il sentimento di un Paese stanco. Di miracoli e di promesse.

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12 settembre 2015
Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/12/news/in_salita_pd_e_renzi_m5s_al_27_massimo_storico_crolla_forza_italia-122705989/?ref=HREA-1
7675  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / LUCIA ANNUNZIATA - I salotti-chic hanno un nuovo Bertinotti ... vecchio. inserito:: Settembre 15, 2015, 04:34:27 pm
Magari Corbyn non andrà al governo ma ne è valsa la pena

Pubblicato: 12/09/2015 20:24 CEST Aggiornato: 2 ore fa

Si, lo sappiamo, ma vuoi mettere il divertimento.

Sappiamo che Jeremy Corbyn che ha vinto con il 60 per cento la leadership del Labour , con quella piattaforma antiguerra, antibanche e antiausterità non è certo ben posizionato per andare al Governo.

Come del resto Bernie Sanders in America, Podemos in Spagna, e come probabilmente lo stesso Tsipras in Grecia, la prossima settimana. Che tutti loro rappresentino una sinistra irrealistica, fuori dal tempo e dai tempi, ce lo hanno detto in tanti, i migliori giornalisti del pianeta, dai grandi Italiani come Paolo Mieli , ai grandi Americani come David Brooks, per non parlare delle grandissime firme Inglesi come il Direttore del Financial Times Lionel Barber. Ma come si può essere cosi' infantili - dicono queste firme- così persi dietro a piattaforme cosi' antibusiness, antisistema, proprio quando la rivoluzione global-tecnologica ha svuotato vecchi schieramenti e vecchie ideologie?

Il Financial Times in particolare sembra essersi molto agitato per la ascesa di Mr Corbyn: nei mesi scorsi ha mobilitato sulle sue pagine, intervento dopo intervento, editorialisti simpatizzanti Labour che mettevano in guardia contro Corbyn, fino a quello che si può definire il fin qui più nobile e famoso avvertimento politico, firmato Peter Mendelson, principe della campagna di rinnovamento del Labour negli anni ottanta, esperto di comunicazione che ha reso famoso nel linguaggio politico corrente il termine spinning, diventato nel frattempo Lord: "Se vince Corbyn sarà un disastro epocale, la fine del Labour", ha detto, nientemeno.

Come dicevo, è molto probabile che Mendelson abbia ragione e che con Corbyn il Labour non tornerà al governo. Ma già aver creato tutta questa agitazione nei piani alti, non valeva forse la pena?

E chissà che significa, e chissà com'è successo - aspettiamo le dotte disquisizioni della lista di cui sopra - che tutti quegli insegnanti, quegli operai, quei sindacati, quei giovani, martellati negli ultimi anni dalle accuse di essere finiti, morti ( politicamente, ovvio), si siano improvvisamente risvegliati, seppellendo sotto le vecchie richieste di sempre (si parla di "giustizia sociale" pensate), il miglior pezzo di teoria politica nata a sinistra negli anni ottanta, il "Si vince solo al centro".

In effetti, il rifiuto del "centrismo democratico" è un po' il punto e il collante politico di tutti questi nuovi orientamenti a sinistra. È il rifiuto del realismo che ha coperto per i passati venti anni la marcia verso il centro e verso l'establishment da parte della sinistra. Non a caso la rottura si presenta oggi innanzitutto come atto dentro i gruppi dirigenti degli stessi partiti democratici, avvertiti come parte ormai più del sistema che della propria area politica. Oltre il caso Inglese, anche quello Americano fa scuola: Hillary è oggi vissuta da una parte dei suoi elettori soprattutto come establishment; lo stesso svantaggio già messo in luce dalla vittoria di Obama, e che otto anni dopo sembra essere diventato un elemento strutturale.

Un tratto di rottura dentro la classe politica di sinistra che si ritrova sia in Podemos, che in Syriza. E anche in Italia, con la rottamazione renziana, ma con una eccezione: dopo la rottura Renzi ha virato in senso ancora più centrista del passato, mentre la sinistra democratica e' entrata in affanno. Il perché della eccezione italiana mi sfugge.

È populismo quello dei Corbyn, dei Sanders, di Syriza, o semplice "ignoranza dell'economia" come ha scritto il Financial Times? O è possibile oggi che una piattaforma radicale abbia qualcosa da rifondare in politica? Questo credo sia oggi lo sviluppo cui prestare attenzione.

Non è difficile vedere come la attuale rivoluzione global-industriale abbia aumentato il senso della cittadinanza, allargato la platea dei diritti e della partecipazione, ma abbia anche, contemporaneamente, sottolineato la mancanza di eguaglianza.

La crisi dei migranti in corso è lo specchio di questo divario: siamo tutti simili in un mondo globale, ma siamo tutti profondamente diversi nella fruizione dei diritti umani di base. Così come, va ricordato, in tutti i nostri paesi industrializzati, si fa sempre più doloroso il divario fra chi ha e chi non ha, a partire dall'impoverimento della classe operaia e media che una volta era la spina dorsale delle nostre società.
Certo, il nuovo mondo è un fatto, un processo che non si può negare solo perché fa male.

Ma è davvero questo l'unico possibile corso di sviluppo, come si chiedono anche tanti economisti e pensatori, che già da oggi allertano sulle possibili conseguenza di un sistema così unidirezionale? E se cosi anche fosse, non è forse proprio compito della politica correggere, equilibrare un sistema socialmente scompensato?

Va ricordato oggi che quelle che sono sembrate per tanto tempo domande utopiche per il funzionamento del sistema - l'ecologia, il ruolo del consenso, un diverso uso delle risorse, l'accesso universale, e , infine, proprio le tecnologie - sono diventate poi le vere forze propulsive del rinnovamento del sistema in cui viviamo. E se la richiesta di "giustizia sociale" invece che essere un vecchio arnese fosse un nuovissimo strumento di espansione?

Forse il vero fallimento della sinistra del passato ventennio è quello di non aver saputo anticipare le nuove forme della disuguaglianza. Oggi, viceversa, potremmo osare dire che forse in questo riemergere della sinistra a' la Corbyn, in questa domanda di più "giustizia sociale" c'è qualcosa da ascoltare, qualcosa di utile da cogliere. Anche da parte dei suoi più feroci, o più cinici, oppositori.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/corbyn-labour_b_8127694.html?1442082308&utm_hp_ref=italy
7676  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FEDERICO RAMPINI. La seduzione del caos globale inserito:: Settembre 15, 2015, 04:31:17 pm

La seduzione del caos globale
La "distruzione creatrice" di Silicon Valley è alimentata da tattiche di guerriglia. Nel mondo di Internet la parola "virale" è utilizzata sempre in senso positivo. Dalle teorie matematiche alla geopolitica: l'analisi del disordine nel saggio di Federico Rampini

Di FEDERICO RAMPINI
15 settembre 2015

Vista dagli Stati Uniti l'Italia fa notizia quando vi approdano ondate di disperati, costretti ad attraversare il Mediterraneo. La Germania è un colosso economico dai piedi d'argilla, non riesce a dare all'Europa un progetto nuovo, forte e convincente. Un altro paese era il simbolo del miglior modello europeo: il politologo americano Francis Fukuyama ha coniato l'espressione "diventare Danimarca", per illustrare la transizione a una liberaldemocrazia esemplare; ebbene, anche la Danimarca non è più sicura di voler essere Danimarca, a giudicare dall'ascesa di partiti xenofobi, dal diffondersi di nuove paure in un paradiso scandinavo che si sente sotto assedio.

La Nato si riarma per far fronte a Putin, ma le opinioni pubbliche europee distolgono gli sguardi dal rullare dei tamburi di guerra. Gli europei hanno altro a cui pensare: i figli senza lavoro o sottopagati; i tagli alle pensioni; i servizi pubblici in declino. Non sta molto meglio la mia America. Per essere la nazione più dinamica sotto molti aspetti - economia, demografia, energia, scienza, tecnologia - soffre di un'insicurezza sorprendente: dopo sei anni di crescita dell'occupazione, una maggioranza di americani continua pensare che "il paese è sulla strada sbagliata". Anche qui molti giovani, pur avendo sbocchi professionali migliori che in Europa, non possono aspirare al tenore di vita dei propri genitori. La prossima rivoluzione tecnologica - il balzo in avanti nella robotica e nell'intelligenza artificiale - minaccia di rendere inutili o subalterne molte professioni intellettuali. La più grave crisi economica dopo la Depressione degli anni Trenta lascia delle ferite aperte. Questa crisi è stata "sprecata", non ha portato a cambiamenti risolutivi; si parla apertamente di una stagnazione secolare. Pesa anche la perdita di una missione. L'America, anche quella parte che rimane convinta della propria "eccezionalità", non crede più che sia possibile una Pax Americana nel mondo.

Siamo le prime generazioni testimoni di un evento inaudito, la chiusura di una fase storica durata mezzo millennio, quel dominio dell'uomo bianco sul pianeta che si aprì con l'epoca delle grandi scoperte, a cui seguirono le conquiste coloniali. Il pendolo della storia torna inesorabilmente dove lo avevamo lasciato cinque secoli fa, almeno dal punto di vista delle gerarchie e dei rapporti di forze: quando era Cindia il baricentro del mondo, l'area più ricca e avanzata, oltre che la più popolosa. Ma il pendolo è lento. Siamo nella transizione, in uno di quei periodi instabili e pericolosi: dove l'ordine antico sta franando, di un ordine nuovo non c'è neppure una traccia. Il declino relativo dell'America, non è compensato dal sorgere di un avvenire radioso sotto altri egemoni. Chi di noi brama di vivere sotto una Pax Cinese o Russa? Modelli alternativi non ce n'è in circolazione; prevalgono coalizioni occasionali fra risentimenti anti-occidentali. Cinesi o russi, arabi o africani, possono elencare facilmente i lunghi torti storici che hanno subito dall'Occidente. Non hanno elaborato la visione di un altro mondo da costruire.

L'Età del Caos esplora le linee di frattura che attraversano il mondo in cui viviamo, ne traccia le frontiere più aggiornate, le forze che lo stanno plasmando. Dalla geopolitica all'economia, dall'ambiente alla crisi delle democrazie, dalla rivoluzione tecnologica al futuro di Cina e India. Conoscere il Caos, è la condizione essenziale per padroneggiarlo... o almeno galleggiare, sopravvivere, adattarsi?

C'è una seduzione del Caos. La sua attrazione fatale, malefica e demoniaca, l'avvertiamo in un sottile slittamento del linguaggio. Prendete la parola virus.

Virale è diventato un segno di successo. Se un video su YouTube attira un pubblico immenso definiamo virale la sua diffusione. Se una start-up lancia una app per cellulari che conquista gli utenti, tipo Uber o Instagram o Whatsapp, è promossa a fenomeno virale. C'è chi estende il vocabolario medico-biologico alla geopolitica e alla religione. L'avanzata dello Stato Islamico per la sua rapidità viene descritta come un "contagio". Autorevoli esperti fanno parallelismi con le epidemie. Ancora i virus.

Il Caos come principio dinamico. Da una parte ci sono delle classi dirigenti, l'establishment, i governanti, la cui formazione è radicata nel passato, incapaci di capire il futuro. Questi tendono a pensare in modo "lineare"; come se fosse possibile ripristinare qualche tipo di status quo, di stabilità. Dall'altra parte ci sono le nuove élite, i veri protagonisti del futuro: guerriglieri o imprenditori delle start-up, vedono nell'instabilità la nuova norma, pensano al Caos come a un'opportunità. La "distruzione creatrice" della Silicon Valley californiana è alimentata da tattiche di guerriglia: gli innovatori sono minuscoli, quando partono all'assalto dei poteri costituiti. In quel mondo dell'imprenditorialità più dinamica, a San Francisco, il vocabolo in voga è "disruptive". Per essere un protagonista devi essere dirompente, devastante, distruttivo.

Il Caos può diventare per noi un'opportunità? Che cosa possiamo imparare dalla mappatura del Disordine dominante? Crisi e opportunità sono una parola sola, in mandarino. Il filosofo greco Socrate, nel ritratto che ci tramanda Aristofane con la commedia Le Nuvole, considerava il Caos come una divinità.

Più vicina a noi, è la matematica post-newtoniana ad avere fatto della Teoria del Caos uno dei suoi sviluppi più importanti. La direzione imboccata dagli scienziati è assai diversa dall'accezione negativa e catastrofista del disordine, dell'anarchia e dell'assenza di regole "lineari". Chiedo aiuto al matematico Leonard Smith, docente alla London School of Economics. "Uno dei miti del caos che va denunciato -  dice -  è che esso renda inutile il tentativo di fare previsioni. Il caos riflette dei fenomeni nella matematica e nelle scienze: dei sistemi dove delle piccole differenze nel modo in cui sono le cose oggi, possono avere conseguenze enormi su come le cose saranno in futuro". Lo studio del caos si è allargato all'astronomia, alla meteorologia, alla biologia, e ovviamente all'economia. La differenza rispetto alla matematica e alla fisica di Newton? "In base alle leggi di Newton, il futuro del sistema solare è completamente determinato dal suo stato attuale... Un mondo è deterministico se la sua situazione attuale definisce compiutamente ciò che sarà il suo futuro".

Non c'è da stupirsi, se i più giovani, i più trasgressivi, i più creativi tra di noi sentono nel Caos una promessa di illimitate possibilità. Un mondo non-determinato, un mondo dove minuscoli cambiamenti oggi possono produrre grandi conseguenze domani: perché mai dovremmo vederne solo il negativo?

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15 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2015/09/15/news/l_a_seduzione_del_caos_globale-122893594/?ref=HRER2-1
7677  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Corbyn: Dare speranza alla gente comune... (vecchio specchietto per allodole).. inserito:: Settembre 15, 2015, 04:27:56 pm
Jeremy Corbyn è il nuovo segretario del Labour Party inglese.
Tom Watson eletto vicesegretario

Redazione, L'Huffington Post
Pubblicato: 12/09/2015 12:40 CEST Aggiornato: 12/09/2015 13:21 CEST

Terremoto nella sinistra inglese. Jeremy Corbyn è il nuovo segretario del Labour Party e prende il posto di Ed Miliband, dimessosi dopo la sconfitta alle elezioni politiche di maggio. Corbyn ha preso il 59,5 per cento dei voti. Il vicesegretario è Tom Watson, 'bestia nera' di Rupert Murdoch. Il primo atto del nuovo leader del Labour sarà una manifestazione in favore dei rifugiati, e contro la linea dura del governo conservatore. "Vogliamo dimostrare come i rifugiati devono essere trattati" e accolti, ha detto nel discorso della vittoria.

Dare "speranza alla gente comune che è piena fino qui di ingiustizie, disuguaglianza, povertà non inevitabile". È questo l'obiettivo di Corbyn. Il suo è stato un discorso unitario, ma con chiari riferimenti a temi come ambiente, pace, welfare, parità e immigrazione. Rivendicato il legame "organico" con il sindacato e denunciata come un "attacco alla democrazia" la riforma messa in cantiere dal governo conservatore per limitare il diritto di sciopero.

Corbyn "il rosso", 66 anni, incarna poco il politico tradizionale, un esponente di sinistra che divide il partito, uscito scosso dalla sconfitta alle elezioni di maggio. Il barbuto esponente anti-austerità, secondo gli analisti, ha raccolto le preferenze di chi vuole dare una scossa ai laburisti britannici. Ma secondo un sondaggio pubblicato in esclusiva dell'Independent, per il 66% degli intervistati non sarebbe in grado di portare alla vittoria il partito nel voto del 2020. Corbyn, che condivide le idee dei greci di Syriza, vuole porre fine alla politica di austerità del governo, imporre più tasse ai più ricchi e rinazionalizzare alcune industrie come quella ferroviaria.

Tra i principali oppositori di Corbyn ci sono i grandi nomi del passato del Labour come l'ex primo ministro Tony Blair, che è sceso apertamente in campo contro la sua candidatura e che ha consigliato a quanti si sono lasciati conquistare il cuore dal "vecchio socialista": "Fatevi un trapianto". Venerdì un duro attacco al partito laburista è arrivato dal primo ministro britannico David Cameron, che si è detto "esterrefatto" dalla campagna per la leadership del Labour e in particolare dalle sue proposte economiche.

"Chiunque sia il vincitore, il Labour è un partito che ha completamente abbandonato il dibattito sulle idee e che non rappresenta più i lavoratori", ha detto Cameron nel corso di una visita a Leeds, nel nord dell'Inghilterra. "Il suo discorso estremista promette solamente più spese, più debiti e più tasse", ha aggiunto, affermando che i laburisti "costituiscono una minaccia per la sicurezza finanziaria di tutte le famiglie nel Regno Unito".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2015/09/12/jeremy-corbyn-segretario-labour_n_8126496.html?1442054435&utm_hp_ref=italy
7678  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La Destra che l’Italia non ha inserito:: Settembre 15, 2015, 04:24:13 pm
La Destra che l’Italia non ha

Di Ernesto Galli della Loggia

Sulla Destra italiana il ventennio berlusconiano ha agito come una droga. L’ha euforizzata con successi insperati, le ha fatto credere di essere sulla cresta dell’onda, che ormai il futuro era suo: per poi lasciarla stremata e a pezzi come appunto appare oggi. Ma in realtà la colpa di Berlusconi è stata quella dell’illusionista, nulla di più. In Italia, infatti, il problema di una Destra che non c’è, della sua inesistente identità politica, c’è da ben prima di lui: solo che è rimasto nascosto finora dall’assoluta egemonia della Democrazia cristiana prima, e poi da quella altrettanto assoluta del Cavaliere. Svanite entrambe, ora esso ritorna.

Nella sostanza il problema della Destra italiana, io credo, è il problema della difficoltà che incontrano nel nostro Paese un’antropologia e una cultura politica conservatrici, analoghe cioè a quelle che più o meno caratterizzano in Europa le Destre di governo. Non tragga in inganno l’apparenza. È vero infatti che in larga maggioranza la società italiana appare conservatrice. È vero che è diffidente delle novità, non ama i cambiamenti sostanziali, le svolte di alcun tipo; che è una società di antico e consolidato pessimismo, innestato su un fondo smaliziato fino al cinismo. Ma il suo - questo è il punto - è un conservatorismo nullista, solo negativo: inutilizzabile politicamente se non per bloccare i riformatori e i progressisti, per fermare la Sinistra. Serve magari a evitare i salti nel buio, come nel ‘48, ma tutto finisce lì. Quello spontaneo della società italiana è un conservatorismo senza ambizioni, senza progetto, senz’alcun orizzonte istituzionale vero, sul quale è impossibile costruire nulla, o è possibile costruire tutto: perfino il sovversivismo fascista o le fortune di un governo che si vuole di sinistra.

Ma un moderno conservatorismo politico è altra cosa. Innanzi tutto è liberale. Cioè in economia è contro ogni strettoia corporativa o monopolistica a vantaggio di gruppi privilegiati e interessi protetti, senza per ciò essere sempre e comunque contro l’intervento pubblico. Ideologicamente, poi, esso dovrebbe essere interessato soprattutto a promuovere e difendere la diversità delle opinioni. Cercando altresì di essere culturalmente anticonformista e quindi simpatizzando con le minoranze e il loro punto di vista: sicché oggi, per esempio, diffiderà dello scientismo e dell’idolatria tecnologica imperanti, così come del pregiudizio egemone secondo cui ogni desiderio soggettivo può diventare un diritto. E si asterrà, naturalmente, dall’omaggio universale a tutte le idee, le mode e le «diversità» politicamente corrette.

Proprio l’anticonformismo culturale e la simpatia per le posizioni di minoranza spingono un liberalismo così inteso a stare in guardia verso l’attuale modernità trionfatrice e travolgente dovunque: e proprio per questo a orientarsi in senso conservatore. Il che oggi vuol dire mostrarsi attenti alla tradizione, cauti nel disfarsene sempre e comunque secondo quanto invece comandano i tempi. Mostrarsi attenti, per esempio, a non indulgere a un certo materialismo e ateismo di maniera, e invece a considerare cosa preziosa il retaggio giudaico-cristiano iscritto nei nostri costumi e nelle nostre istituzioni; attenti, ancora, a non stravolgere la scuola, la trasmissione culturale - come invece accade da decenni - sotto una valanga di innovazioni dei programmi una più sciocca e inutile dell’altra, di rilassatezza disciplinare e di democraticismi distruttivi. Avere un orientamento conservatore significa anche, infine, voler conservare l’orizzonte entro cui si è nati, custodire per le generazioni future i paesaggi, i luoghi, i tesori d’arte, che il passato ci ha trasmesso.

Detto tutto ciò rimane però il punto fondamentale: in Italia una vera cultura politica conservatrice non può che essere soprattutto una cultura orientata allo Stato: allo Stato come garante da un lato dell’interesse generale (che alla fine è sempre l’interesse dei più deboli), e dall’altro dell’obbligo dell’adempimento da parte di tutti dei doveri verso questo interesse: tanto per cominciare pagando le tasse. Tutela dell’interesse generale significa pure cercare di assicurare la snellezza e la chiarezza delle normative, l’imparzialità delle procedure amministrative, le competenze delle burocrazie, premiare il merito anziché i raccomandati, non lasciare la porta aperta agli sperperi o al furto del pubblico denaro.

E significa da ultimo prendersi cura della macchina dello Stato, delle sue articolazioni al centro e specialmente alla periferia, mantenendone le capacità di controllo sul territorio attraverso le prefetture, le sedi della Banca d’Italia, le intendenze di Finanza, le sovrintendenze alla tutela dei Beni culturali, eccetera. Dal momento che in Italia, bisogna convincersene, la rinuncia a questa funzione dello Stato non innesca quasi mai una benefica esplosione degli animal spirits della società civile, bensì quasi sempre quella dei porci comodi della medesima, sotto l’egida delle oligarchie locali quando non della malavita organizzata.

Tutto questo corrisponde a quella cosa che si chiama autorità e sovranità dello Stato, le quali a una qualunque Destra dovrebbero forse stare a cuore; e che - c’è bisogno di dirlo? - fanno tutt’uno con l’idea di sovranità nazionale. Anche questa un’idea oggi abbastanza desueta ma che, sentendo l’aria che tira in Europa, è stata forse messa da parte un po’ troppo affrettatamente.

Lascio giudicare ai lettori se la Destra italiana si sia mostrata capace di essere conservatrice nel modo che si è fin qui detto. A me pare di no, assolutamente di no. Per lo più infatti essa appare tuttora la pedissequa rappresentante della pancia di un elettorato confusamente prepolitico, custode di interessi settoriali, modernista o reazionario secondo le convenienze. Si può capire la Lega, la quale punta al tanto peggio tanto meglio e non si considera certo forza di governo. Il problema sono tutti gli altri. E negli altri regna l’assenza di qualunque cultura politica strutturata in grado di dar vita a una discussione vera, a un tentativo di bilancio, a uno straccio di ipotesi sul futuro. Nulla. Tutti sembrano sperare solo nella resurrezione di Lazzaro Berlusconi o nelle risorse trasformistiche proprie unite a quelle del Pd: in realtà due speranze entrambe pallidissime. Così la Destra italiana si avvia a diventare politicamente il proprio fantasma: qualcuno, ogni tanto, riferisce di averla avvistata in un talk show televisivo.

15 settembre 2015 (modifica il 15 settembre 2015 | 07:07)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_15/destra-che-italia-non-ha-a69fd9ea-5b62-11e5-8007-cd149b0f5512.shtml
7679  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Walter Veltroni Il rischio dell’estremo inserito:: Settembre 14, 2015, 06:59:26 pm
Il rischio dell’estremo


Walter VELTRONI
Viviamo una stagione in cui prevalgono le posizioni “contro” e l’opinione pubblica spaventata ha bisogno di trovare un nemico contro cui scagliarsi


Donald Trump sta scalando le vette dei sondaggi sul prossimo candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 2016. Sta sbaragliando i suoi avversari usando un armamentario retorico che ci è ormai noto: l’essere un imprenditore che si è fatto da solo, il proporre soluzioni disumane per il fenomeno della migrazione, l’insultare le donne. Il tutto condito da un linguaggio estremo, dalla totale indifferenza per ogni coerenza e praticabilità reale delle proposte, e da una buona dose di antipolitica.

In nome del rifiuto dell’ormai usurato “politically correct” si fa strada un frasario della politica barbaro e violento, che parla alla pancia dell’elettorato e sollecita intolleranza e estremismo. In effetti candidati simili si sono già visti, nella storia del dopoguerra americano: Barry Goldwater per i repubblicani e George Wallace per i democratici. Quest’ultimo, partito da posizioni ultra liberal, approdò, per ottenere voti, a una linea di sostegno alle posizioni segregazioniste e discriminatorie nei confronti dei neri. La motivazione che fornì per questo radicale cambiamento, cinica e spregiudicata, è riassunta in queste parole, terribilmente attuali, «Sa, ho cercato di parlare di buone letture e di buone scuole e di queste cose che sono state parte della mia carriera, e nessuno ascoltava. Poi ho cominciato a parlare di negri, e si sono messi a battere i piedi sul pavimento». Tutti e due questi candidati non ebbero successo e tutto fa dire agli osservatori che lo stesso sarebbe se davvero Trump ottenesse la nomination repubblicana. E che Hillary Clinton sarebbe la più felice se davvero si candidasse il miliardario americano perché, con le sue posizioni così estreme, libererebbe uno spazio politico enorme, come spesso è stato nelle elezioni americane. Può essere sia così. Così è stato, si pensi al trionfo di Nixon contro George Mc Govern. I prossimi mesi ci daranno il responso. Io però non ne sarei più tanto sicuro. Infatti si vanno affermando, in tutto l’Occidente, pulsioni del tutto nuove, fenomeni carsici che spingono fasce di elettorato all’impegno o al disimpegno a seconda del grado di mobilitazione che l’estremizzazione delle posizioni determina.

I n un sondaggio svolto in North Carolina, gli elettori hanno risposto che preferirebbero Trump, con il 40% dei voti, alla Clinton con il 38%. Ma la cosa più strana e interessante è che il 9% si pronuncia per un candidato, Deez Nuts, che in realtà non esiste. È infatti lo pseudonimo, preso da una canzone di un gruppo che ama, di un ragazzino di quindici anni che, per gioco, si è iscritto alla competizione e che, lavorando su Facebook, ha raggiunto un consenso singolare. Lo cito solo per dire quanto sia grande la confusione e per questo sia sbagliato guardare l’evoluzione degli orientamenti dell’opinione pubblica solo con le lenti tradizionali della politica tradizionale.

E, d’altra parte, il partito Laburista inglese non sta per eleggere un suo leader che ha posizioni, sui temi sociali e politici, molto lontane dalla più recente tradizione laburista, quella di Kinnock, Blair, Brown e dello stesso Miliband? In Spagna e in altri paesi non si vanno affermando posizioni simili? Persino in Grecia non si sono sollecitate elettoralmente spinte estreme, fino al referendum, salvo poi virare su soluzioni meditate e su accordi che un tempo venivano bollati con il marchio dell’infamia? Prendere voti è un conto, governare un altro.

Ma come mai, nel tempo più complesso della storia, si vanno affermando posizioni così semplificate? Si potrebbe dire che viviamo una stagione in cui prevalgono, persino nelle primarie dei partiti, le posizioni “contro”, in cui un’opinione pubblica spaventata e preoccupata ha bisogno di trovare sempre un nemico contro cui scagliarsi. In cui la paura ha preso il posto della speranza e l’odio quello della ragione. È già successo, nella storia. A questo contribuiscono certamente più fattori. Il primo è l’estenuante prolungarsi della più lunga crisi economica dal dopoguerra che, a dispetto di annunci ottimistici, si estende in tutto il mondo e, lo vediamo in questi giorni, colpisce anche economie forti e paesi emergenti. La recessione si sposa poi con l’altrettanto infinita catena di attacchi e minacce terroristiche e con l’esplodere, anche in conseguenza delle decine di conflitti che devastano il mondo, di un fenomeno di migrazione di proporzioni enormi di cui vediamo non solo a Lampedusa ma in Macedonia, in Grecia, a Calais le dimensioni umanamente incalcolabili.

La politica si dibatte, ovunque, in una crisi devastante di autorevolezza e di prestigio, legata certamente ai due fattori strutturali prima richiamati. Una crisi che ha effetto persino sul significato della parola democrazia. Chiunque, agendo su questa debolezza, si sente autorizzato a dileggiare la politica, come in televisione ho ascoltato fare persino da partecipanti al funerale di Casamonica, un evento che ha ferito la città e il paese in modo molto profondo. Ma la perdita di stima e di consenso dipende anche dalla trasformazione dei partiti e dei luoghi istituzionali. L’ho richiamata varie volte e non ci torno, se non per dire che senza la riapertura di un grande dibattito politico, culturale, di valori tra le persone che militano in un partito, non importa quale, i criteri di selezione del personale politico saranno sempre più confusi: estremismo verbale (e disponibilità a compromessi deleteri), capacità di portare voti (spesso non importa in quale modo), fedeltà assoluta al leader di turno (in attesa di pugnalarlo alla prima difficoltà).

La politica, quella vera, o rinascerà o sarà travolta da questo impasto di populismo e furbizia di potere che costituisce per me, la miscela più pericolosa in questo tempo del tutto originale che siamo chiamati a vivere. Credo infatti che ci sia una pericolosa sottovalutazione degli effetti, persino antropologici, della rivoluzione tecnologica che ha cambiato il mondo con ancora maggiore velocità di quella industriale. Pochi si fermano a ragionare sugli effetti di lungo periodo, positivi e negativi, che si stanno determinando nel profondo della società. Cose importanti, che cambiano il nostro rapporto con gli altri, con le relazioni umane, con il sapere, con il formarsi del senso, con il mutare degli orientamenti dell’opinione pubblica. D’altra parte non fu così con la televisione? Non fu lo stesso Sessantotto, sul piano culturale, il prodotto dell’ingresso, nelle case dei cittadini di tutto il mondo di una scatola che mostrava universi, linguaggi, esperienze sconosciute e, nel momento stesso in cui lo faceva, le rendeva universali? La televisione e la cultura di massa hanno creato fenomeni collettivi, hanno modificato linguaggi pubblici. E hanno cambiato la stessa politica. È ormai straconosciuta l’analisi della barba lunga di Nixon e dell’aspetto fresco e giovanile di John Kennedy nel dibattito televisivo del 1960. E nel grande successo del Pci, in Italia, contò la semplicità di linguaggio e il carisma personale di Enrico Berlinguer veicolate, dalla tv, anche nelle case di chi era più lontano dalle sue idee.

Oggi la nuova rivoluzione culturale produce un effetto molto diverso. Intanto proprio per la velocità e la pervasività delle informazioni che in tempo reale giungono, a noi. Nicole Aubert ha scritto che «le strutture temporali della “ tarda modernità” sono oggetto di una triplice accelerazione: l’accelerazione tecnica, che rinvia al ritmo crescente dell’innovazione nel campo dei trasporti, della comunicazione, e della produzione; l’accelerazione del cambiamento sociale, che riguarda i mutamenti nelle istituzioni sociali, in particolare la famiglia e il lavoro, la cui stabilità appare sempre più minacciata; infine l’accelerazione del ritmo della vita, di cui risente l’esperienza quotidiana degli individui contemporanei che sentono in modo sempre più acuto che manca loro il tempo o che il loro tempo è contato». Di qui, dice il sociologo americano Richard Sennett, il fatto che «l’angoscia del tempo spinge le persone a sfiorare le cose, più che ad attardarsi su di esse» o, anche, che i new media determinano una condizione che si potrebbe definire di “soli, insieme” e cioè la sensazione di essere integrati in un sistema di relazioni esclusivamente virtuali, rapporti che vengono sperimentati dalla propria stanza, isolati dal mondo ma convinti di esserne il centro. D’altra parte solo chi ha un lavoro fisso, una famiglia solida, può forse permettersi il lusso di progettare lentamente. Chi vive in una dimensione di permanente precarietà che investe i rapporti personali e la sfera occupazionale ha come imperativo quello di sopravvivere e cerca nell’oggi, qui e subito, soluzioni. Tutta la società cambia così velocità. E la stessa politica viene investita da tsunami emotivi sotto i quali delibera in fretta e furia. Pronta però a decidere una cosa e/o il suo contrario se, ad esempio, un fatto di cronaca scuote l’opinione pubblica o attiva interessi di gruppi sociali specifici. A questa altezza di problemi la nuova politica è chiamata. Invece continua come ha sempre fatto, con i suoi riti, magari riverniciati, con le sue guerre di potere, con le sue parole che rischiano di sembrare vuote. Se non si vuole che questo diventi definitivamente il tempo dell’estremo, con i rischi che Papa Francesco e il Presidente Mattarella hanno correttamente indicato, spetta alla forza della ragione, alla sua capacità di suscitare emozioni e passioni di indicare una soluzione possibile. Gli esempi di bellezza, anche terribile, della propria missione civile e umana, non mancano. L’ ultimo, per me struggente, è quello di un intellettuale di ottantadue anni, Khaled Asaad, che ė stato torturato e poi decapitato per non aver voluto rivelare dove aveva nascosto, per salvarli, alcuni dei reperti archeologici più preziosi di Palmira, testimonianza essenziale di storia e di civiltà. Asaad ha difeso con la sua vita qualcosa che apparteneva non a lui, ma alla umanità intera. Qualcosa che i massacratori dell’Isis vogliono distruggere, come facevano i nazisti con i libri. Noi siamo, con tutti i nostri difetti, i difensori di quel bene supremo che è la libertà del pensiero. Non dimentichiamolo mai, in questo tempo complesso e confuso.

DA - http://www.unita.tv/opinioni/il-rischio-dellestremo/
7680  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Walter Veltroni I segnali di allarme di questi tempi devono chiamare la sinistra inserito:: Settembre 14, 2015, 06:55:59 pm
Il giorno della marmotta
Pd   

Walter Veltroni
I segnali di allarme di questi tempi devono chiamare la sinistra a una doppia responsabilità.
La chiama a non compiere i due errori nei quali è storicamente più facile che ripiombi



Gaber, genio irregolare e dunque genio, cantava «Cosa è la destra, cosa è la sinistra». Forse oggi è il giorno giusto per soffermarsi su questa storica, reale, profonda distinzione. Un confine da ritrovare non per ergere un muro ma per riconoscersi, per capire che un sistema di valori è diverso dall’altro. Rispettabili e legittimi entrambi, ma diversi.

Si oscilla spesso tra due estremi pericolosi: la demonizzazione dell’altro, in primo luogo. Se non sei di sinistra sei fascista, generalizzazione nella quale si è caduti spesso, salvo dover capire, in ritardo, quanto ci fosse di integralista e di autoritario in questo. Indro Montanelli non era certo di sinistra ma era un galantuomo che credeva in valori – quelli sì che dovrebbero essere universali – come la probità, come la piena libertà di impresa e di opinione. Renzo De Felice aveva le sue opinioni sul fascismo, la genesi del fenomeno e il consenso di cui ha goduto, e meritava di essere rispettato e considerato, non certo bollato come un revisionista, etichetta che ha una lunga e tragica storia. E che io ricordo essere stata spesso applicata, dagli estremisti di turno, persino a Enrico Berlinguer.

Ma, in verità, la sinistra si è affrancata nel tempo da questi difetti che pure talvolta, come in un riflesso pavloviano, tendono a riemergere.

La destra, regnante Berlusconi, ha invece tenuto in vita gli anni cinquanta fino a oggi. Chiunque era critico era comunista. Anche i liberali più socialmente moderati e magari legittimamente intransigenti sul piano della morale pubblica venivano equiparati a Stalin, Beria e se ne auspicava, ricordiamoci l’editto bulgaro, la defenestrazione. Enzo Biagi, certamente non un pericoloso esponente dell’Armata Rossa, è stato sovente inchiodato sul banco degli eversori dell’ordine costituito.

Il linguaggio politico ha così recuperato la truculenza degli anni peggiori, senza neanche l’alibi delle ideologie.

E il Paese è stato inchiodato così al suo eterno “giorno della marmotta”, quello che fa da pretesto ad un famoso film americano, “Ricomincio da capo”, in cui tutti gli eventi del giorno sono identici a quelli del giorno prima. Siamo scesi in tutti gli indici di competitività, compresi – come darsene pace? – quelli che riguardano la cultura, la formazione, la scuola. Cioè l’Italia e la sua storia. Però l’essere contro l’altro giustificava l’assenza di riforme e schieramenti eterogenei e stravaganti si paralizzavano a vicenda, in un surplace infinito ed estenuante.

Ho pensato, dopo la caduta del muro di Berlino, che potesse aprirsi, per l’Europa, un tempo storicamente unico. Che est e ovest potessero unirsi, che essere europei sarebbe diventato più naturale e che la politica di questo continente si sarebbe liberata dalle scorie ideologiche e avrebbe potuto mostrare, in termini di valori e di programmi, le nuove, splendide e profonde differenze tra destra e sinistra, tra conservatorismo e riformismo. C’ è stato un momento, l’Ulivo di Prodi, Clinton e la Terza via del primo Blair, in cui questo sembrò possibile. Almeno a sinistra. E ora?

Il mio timore è che si stia tornando nel “giorno della marmotta”. A destra non si è certo fatto strada un nuovo conservatorismo, moderno e liberale. Reagan sembra un miraggio di responsabilità, pensando all’impasto micidiale di Orban, Trump, Salvini, Le Pen e destra xenofoba del Nord Europa che si va affermando come modello ricostituivo del fronte opposto alla sinistra. Un micidiale cocktail di integralismi, di razzismo neanche tanto mascherato, di populismo esagitato, di spirito antieuropeo.

Seminagione costante di paura sociale, di diffidenza nei confronti dell’altro. La nuova ideologia di questa destra non è l’anticomunismo, ormai palesemente grottesco, ma purtroppo l’intolleranza. Il nuovo linguaggio di questa destra, qualcosa che tende a definirla, è il populismo più sfrenato.

Questo vale anche per il mondo conservatore italiano che deve decidere se scegliere la Merkel o Marine le Pen. Una sola scelta non è praticabile: essere le due cose insieme. Altrimenti si propone al Paese qualcosa di ambiguo e pericoloso.

Angela Merkel è sostanzialmente la guida, nello scacchiere europeo, dello schieramento dei popolari, in storico conflitto con quello socialista. In questi giorni, di fronte al tema dei migranti, ha mostrato coraggio politico e capacità di rifiutare la facile suggestione populista. Lo ha fatto in un momento in cui, se avesse preso la posizione opposta, tutto, compreso la costruzione europea, sarebbe andato in una crisi drammatica e irreversibile.

Conservatori da rispettare. Come lo furono Winston Churchill o Helmut Kohl, statisti il cui nome è scritto in modo indelebile nella storia del Novecento.

Due uomini politici, ruolo tra i più nobili possibili, specialismo di spessore intellettuale che, come tale, andrebbe rivalutato. Se vogliamo che non siano i peggiori a occuparsi di politica, i più spregiudicati o i più disonesti; se vogliamo che la gestione della cosa pubblica non sia in mano a incompetenti e ladri bisogna alzare l’asticella, alla ricerca, nelle persone, delle motivazioni profonde e dei talenti più puri.

Ma siamo sicuri che dal virus moderno del populismo sia al riparo anche la sinistra? Siamo certi che anch’essa non partecipi dell’“eterno ritorno” della politica , del suo ripararsi nei confini più sicuri, quelli dell’ideologia, quando tutto intorno si fa più complesso?

Voglio dirlo chiaramente: se la sinistra torna indietro, se riscopre nel passato non le sue radici migliori ma i suoi difetti peggiori, è destinata a sconfitte storiche. Tanto più gravi se consumate a fronte di quella destra.

La vittoria del nuovo leader laburista, al quale auguriamo buon lavoro, è secondo me il segno di questo rischio. Spaventata dalle nuove sfide e dai processi di globalizzazione, smarrita in un labirinto di nuove figure sociali e di inediti meccanismi di comunicazione e formazione del senso comune, la sinistra rischia di arroccarsi, di cercare indietro ciò che deve essere trovato davanti a noi, se siamo davvero figli di quella storia complessa e affascinante. È sinistra quella che, non rinunciando a sé, proietta il suo sistema di valori nel suo tempo. È sinistra un’idea di futuro, non una nostalgia di passato che non tornerà, ammesso che lo si debba auspicare.

Molte parole di Corbyn sarebbero state, diciamoci la verità, considerate datate anche nel dibattito della sinistra europea degli anni ottanta. La recente vicenda greca, le scelte arrischiate ma coraggiose di Tsipras, ieri idolo fuggevole di tutti i più “radicali”, hanno dimostrato che il passato e le ideologie non possono sfuggire alla sfida della realtà.

Ho già scritto qui, e ripeto, che non sopporto l’indistinto, l’idea che in fondo, ormai, esista un unico pensiero, parola grossa, che tutto dissolve e cancella, a cominciare dalle differenze tra destra e sinistra, ritenute ormai stupidi sbaffi a quadri contemporanei.

Il populismo e l’intolleranza per le diversità politiche e culturali sono gemelli. Ma chi la pensa diversamente da te non è mai un eretico, è una risorsa.

La sinistra che serve in questo momento è orgogliosa dei suoi valori, ma non è cultrice del vintage. È severa nel difendere le opportunità, i diritti, l’inclusione come la stessa ragione della sua esistenza. Non è un volto senza identità e cerca di stare immersa nel suo tempo per dare risposta alle sfide e alle diseguaglianze di oggi. Che non saranno affrontate, non dico vinte, tornando indietro.

E attenzione perché anche la sinistra può farsi populista, quando semplifica ideologicamente la complessità sociale ed umana di questi tempi complicati. L’ ideologia, nemica degli ideali, è stata spesso la forma di sinistra del populismo. Stretta tra il populismo di destra e quello ideologico di sinistra l’Europa rischia di essere travolta. I muri di Orban e le frontiere chiuse della civile Danimarca devono accendere segnali di allarme.

E devono chiamare la sinistra a una doppia responsabilità. La chiama a non compiere i due errori nei quali è storicamente più facile che ripiombi: la suggestione rassicurante delle vecchie coperte ideologiche o del camuffamento e il naturale istinto a farsi del male da sola, a non sapersi ascoltare, a dividersi. Tutto già visto, già subito, con dolore. Noioso, persino nel “giorno della marmotta”.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/walter-veltroni-il-giorno-della-marmotta/
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