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Autore Discussione: Antonio Armellini. La prima volta di Varsavia  (Letto 2321 volte)
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« inserito:: Novembre 03, 2014, 05:54:49 pm »

La prima volta di Varsavia
Di Antonio Armellini

Con Donald Tusk, il moderato che da domani prenderà il posto di Herman van Rompuy come presidente del Consiglio europeo, la Polonia assumerà per la prima volta la responsabilità di una delle tre maggiori istituzioni brussellesi. Giunta al termine di un processo che ha visto sparire nomi di peso come quello di Enrico Letta, la sua scelta ha rispecchiato, insieme con quella dell’ex premier lussemburghese Claude Juncker, alla testa della Commissione, il rapporto di forza fra le due maggiori famiglie politiche europee: al gruppo socialista è stata riservata con Martin Schulz la presidenza del Parlamento. Non era mancato qualche mugugno intorno al suo nome: chi ne evocava il carattere meno accomodante del suo predecessore; chi osservava come il fatto di non parlare l’inglese costituisse un grosso handicap; chi lo riteneva troppo vicino alla Germania (un fatto quest’ultimo che, impensabile per un polacco solo una ventina d’anni fa, dimostra quanto sia cambiato grazie all’Ue il Vecchio Continente). L’arrivo di un presidente polacco era stato visto anche come una sorta di rassicurazione contro il rischio di derive filorusse nella politica estera comune dell’Ue, che si temeva potesse seguire l’arrivo di Federica Mogherini.

Tusk non ha perso tempo nel tranquillizzare gli scettici:
Si è messo di buona lena a studiare l’inglese;
Ha dato prova di buone capacità negoziali e si è mosso in sintonia con la nostra Lady Pesc. Mogherini dal canto suo ha smentito i timori residui mostrandosi, anche per la crisi ucraina, in linea con le posizioni del fronte capeggiato da Angela Merkel.

La nomina dell’ex premier polacco va al di là della contingenza politica ed è un segnale importante per l’Europa. La Polonia è il più grande fra i Paesi di recente adesione all’Ue, ed è stato il primo - grazie fra l’altro a Tusk - ad assumere una linea più aperta sui temi dell’integrazione superando le reticenze iniziali; ha evitato di fare passi troppo precipitosi (ad esempio, nel caso dell’euro) e ha convinto via via una pubblica opinione per cui l’approdo a Bruxelles rappresentava ad un tempo il coronamento di un sogno e un salto nel buio. Se mai si riprenderà il cammino verso l’Europa politica (e il «se» non è da poco), ciò dovrà avvenire grazie all’impulso di un «nucleo duro» ristretto, di cui dovranno fare parte la Francia e la Germania, ma non solo. Accanto all’Italia e forse alla Spagna, la Polonia potrebbe essere l’elemento nuovo capace di imprimere al processo una dimensione geopolitica più equilibrata. È ancora presto per fare pronostici, ma quello fatto con Tusk potrebbe essere il primo passo di un percorso che vedrebbe la Polonia passare dalla periferia al cuore dell’Europa.

31 ottobre 2014 | 07:32
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_ottobre_31/prima-volta-varsavia-21ac306c-60c7-11e4-938d-44e9b2056a93.shtml
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 01, 2014, 04:42:03 pm »

Non solo immigrati
Se Cameron gioca sull’Europa

Di Antonio Armellini

David Cameron non vuole convincersi che, inseguendo gli estremisti antieuropei dell’Ukip sul loro terreno, rischia di finire in un vicolo cieco. Le sue dichiarazioni sull’immigrazione sono state accolte con scherno da Nigel Farage - il quale ha in mente solo la secessione - e non gli consentiranno di recuperare granché dei voti perduti alla sua destra. I conservatori moderati che in Europa ci vorrebbero restare, anche se obtorto collo, potrebbero reagire negativamente ai suoi toni urlati e rivolgersi verso la linea euroscetticamente ragionevole del Labour di David Miliband.

Rivendicando il diritto di limitare il welfare per i lavoratori dell’Unione europea in Gran Bretagna, Cameron è stato attento a non attaccare il principio comunitario della libera circolazione. Lo ha anzi ribadito, sia pure in linea generale, al fine di ricavarsi una zona grigia per una trattativa al cui esito ha subordinato la possibilità che Londra resti nell’Ue. Non che nelle cose che ha detto sia tutto sbagliato: eccessi nel ricorso a un sistema sociale generoso come quello inglese ce ne sono anche altrove, ma i Trattati esistenti offrono gli strumenti per contrastarli. Nel proporre misure unilaterali egli ha adombrato un mercato del lavoro in cui ai cittadini europei verrebbe riservato un trattamento differenziato a seconda della loro provenienza e delle convenienze politiche (incurante delle battute sugli «idraulici polacchi», si è subito affrettato a rassicurare la Primo ministro di Varsavia, Ewa Kopacz, che le nuove misure non avrebbero discriminato i suoi cittadini). Papa Francesco è in Turchia per celebrare insieme al Patriarca ecumenico Bartholomeos la festa di sant’Andrea. È una visita usuale dopo che le relazioni fra la Chiesa della nuova Roma (Costantinopoli) e della antica Roma sono diventate fraterne, con la levata delle scomuniche decretata alla fine del Vaticano II. Ma la Turchia è anche la memoria di un Islam conquistatore, quello che espugnò Costantinopoli nel 1453, poco dopo il fallito Concilio di Firenze, al termine del quale i monaci bizantini teorizzavano che fosse meglio essere soggetti al turbante del Sultano che alla tiara del Papa. In Turchia c’è la memoria della diplomazia cristiana saggia di monsignor Angelo Roncalli, mandato in quella terra laicizzata a viva forza da Atatürk, dove, anziché fare il «funerale del passato», aprì una via di amore e, durante la Shoah, seppe far evadere dalla grande prigione dell’Europa nazifascista migliaia di israeliti in fuga verso la Palestina.

Questo insieme di memorie può sembrare schiacciato oggi da una gigantesca, densa nube che oscura l’orizzonte del Levante turco ed europeo. È la nera nube della guerra di religione che avvolge tre decenni di conflitti nei quali sono morti milioni di credenti, in gran parte musulmani di diversa denominazione. È la nube dell’orrore dalla quale è uscita la forsennata prepotenza dei tagliagole del sedicente Stato islamico, che sterminano le vite di cui nessuno si cura e quelle dei cooperanti e dei giornalisti, la cui decapitazione colpisce l’immaginario con una ferocia ostentata. Assassini di inermi, stupratori di bambine e di donne. Piccola minoranza dentro quel mosaico che la nostra ignoranza chiama «l’Islam», alla quale errori politici e negligenze teologiche hanno permesso di radicarsi ideologicamente tra le nuove generazioni: ma capace di contagiare parti distanti del grande corpo dei musulmani e di accendere il demone della paura.

La nube scura, che si intravede da Ankara, avvolge anche il destino dei cristiani, vittime di questa lotta senza quartiere e senza pietà. Profughi che fuggono dalle città dove hanno abitato per secoli, lontani dalle cristianità latina e bizantina. Prede uccise oppure - come i vescovi di Aleppo o il gesuita Paolo Dall’Oglio - rapite per poter essere esibite, vive o morte, come argomento che corrobori le tesi di chi pensa che serve guerra per spegnere la guerra e violenza per troncare la violenza.

Francesco, il Papa che teorizza il contrario, non evade la domanda che pone la immensa scurissima nube. Non è un uomo ingenuo né lo sono i diplomatici - Parolin, Caccia, Filoni, Tauran - con i quali si confronta. Quando due anni fa fermò con un digiuno il bombardamento di Damasco che avrebbe aggiunto caos nel quadrante siriano, quando giusto dodici mesi or sono cercò di coinvolgere la Russia in una situazione che non potrà essere equilibrata dai soli interessi strategici dell’amministrazione americana, surclassò la superficialità di tanti.

Papa Francesco sa che c’è chi sfida su questo ambito la sua decisione di essere voce inerme degli inermi, musulmani e cristiani, soprattutto cristiani. Perché chi dice la più ovvia delle cose - cioè che non si possono ignorare le innumerevoli vittime cristiane della guerra, derubate di tutto - finisce fatalmente per chiedere che chi ha la forza militare di farlo liquidi gli assassini. Con una guerra, insomma: o se mai con una «crociatina». Chi non li ama sostiene che salverebbe i cristiani, chi li ama sa bene che un’altra guerra lascerebbe proprio ai fedeli un conto da pagare sempre più salato.

Il Papa va inerme a dire che quello che salverà i cristiani è solo la pace: la pace di tutti, dei musulmani e dei cristiani. Una pace che ha bisogno di politiche per far rientrare in scena attori esclusi (il decimo rapporto Nomisma su «Nomos e Chaos» lo spiega in dettaglio), e ha bisogno della fede dei credenti. Francesco ha detto che l’aggressore ha il diritto (proprio così: il diritto) di essere fermato prima che la sua bestialità idolatra lo perda: ma non ha fornito soluzioni facili dietro le quali una politica senza idee si possa nascondere. E ha chiamato a pregare per questo viaggio nel quale la comunione delle Chiese non costituisce un altro tema (non fu il dilemma del concilio di Firenze?), ma parte del problema.

Perché in un mondo dilaniato dal demone della divisione e dell’odio, l’unica soluzione possibile è la più alta: affermare l’unità del genere umano. Farlo richiede una autenticità profonda che Francesco ha, che ha anche Bartholomeos. Gli altri la facciano vedere, se sanno cos’è.

29 novembre 2014 | 08:17
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_novembre_29/se-cameron-gioca-sull-europa-95da44c6-7790-11e4-8006-31d326664f16.shtml
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