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« inserito:: Novembre 12, 2008, 12:30:32 pm » |
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12/11/2008 (7:3) - COLLOQUIO
Berlusconi: "Caos Alitalia, la sinistra soffia sul fuoco” Il premier: «Usa e Russia si parlino, o sarà Guerra Fredda»
AUGUSTO MINZOLINI
Lula è simpaticissimo. Lo conosco dal 2002. Ci siamo visti in tanti vertici internazionali. E’ capace e si è impegnato per il suo Paese, per difendere i poveri che sono tanti laggiù. Un vero amico. Il Brasile avrà un ruolo importante sulle scelte che il G20 dovrà prendere per affrontare la crisi finanziaria. E’ stato contentissimo di incontrare i suoi calciatori. Lui vorrebbe portare in politica Leonardo che è una persona intelligente, che ha a cuore i bambini. Ha messo su addirittura una Fondazione. E credo che in futuro anche Kakà si interesserà di politica. Io in Brasile andrò a febbraio. Per inaugurare un ospedale costruito in Amazzonia insieme a don Verzè che porterà il nome di mio padre. Da quelle parti fino a poco tempo fa operavano i bambini di appendicite stendendo un lenzuolo sui cofani delle jeep...». Osservando una spilla o un anello di bigiotteria tra le mani («li prendo perché mi viene a trovare una classe elementare e farò un regalino a ogni bambino») Silvio Berlusconi nel negozio di via del Plebiscito che è ormai una meta fissa sulla strada di ritorno a Palazzo Grazioli, parla dopo l’incontro con il Presidente del Brasile a Villa Madama sullo scenario internazionale e sui problemi che assillano l’Italia.
Presidente lei e Lula avete le stesse idee sulla crisi internazionale? «Per tutti e due la cosa più importante è risolvere la crisi missilistica tra Usa e Russia. Forse è ancora più importante della crisi finanziaria. Se i due Paesi continuano a puntarsi le armi l’uno contro l’altro rischiamo di fare un salto all’indietro, di tornare alla Guerra Fredda. Una cosa pazzesca. Obama mi ha detto che incontrerà Medvedev al più presto. Io mi sto impegnando in un’opera di mediazione. E Obama è il primo a sapere che nessuno come me può aiutarlo in questa impresa».
Che impressione le ha fatto Obama? «Solo la sinistra italiana poteva pensare che quella battuta, abbronzato, potesse avere qualcosa di razzista. Negli Usa non è scoppiato un caso. E lui con me si è fatto una risata. Ho detto che era intelligente, bello e abbronzato perché stavo per dire alto, ma ero con Putin e Medvedev che sono “alti” come me. Abbronzato per me è un complimento. Noi passiamo intere estati ad abbronzarci e di inverno ci mettiamo sotto la lampada. E poi lui è il primo a scherzare. E’ dotato di “sense of humour”, ha detto che cerca un cane che sia un incrocio come lui».
Carla Bruni, però, per quella battuta ha dichiarato: “sono contenta di essere francese...” «Preferisco non commentare».
A parte le polemiche, Obama che tipo è? «Non è il risultato di una campagna pubblicitaria come sostiene qualcuno. Non è assolutamente vero. Anzi, è una persona validissima. Certo ha di fronte una crisi difficile che negli Usa sta peggiorando. Deve imprimere subito una svolta. Come ho fatto io con i rifiuti e quasi con Alitalia. Altrimenti sapete che il consenso si può perdere da un momento all’altro».
Che consiglio gli darebbe? «Chi ha responsabilità di governo deve dare fiducia alla gente. Deve diffondere ottimismo. Perché la crisi nasce anche da un’ondata di pessimismo che si è diffusa nella popolazione. Obama comunque ha il vantaggio di avere un’opposizione diversa. Avete sentito il discorso di McCain che ha offerto il suo appoggio nell’interesse del Paese? Da noi invece la sinistra vuole fare 4 anni e mezzo di campagna elettorale: polemizza solo, soffia sulla protesta e se ne infischia dell’interesse del Paese. Ad esempio, chi pensa che soffi sulla crisi dell’Alitalia se non la sinistra?». Ma la Cgil ha firmato l’accordo. «Si ma l’opposizione soffia sulle polemiche lo stesso. Non si accorgono che le proteste di questi giorni sono irresponsabili, che non possono essere accettati certi ricatti».
Parla degli scioperi, di queste forme di lotta che bloccano il traffico aereo? «Io dico solo che i reati vanno puniti e che i diritti dei cittadini vanno garantiti. Comunque, se ne stanno occupando Gianni Letta e il ministro Matteoli».
Ma quale sarà l’epilogo di questa vertenza? «La nuova società dovrà andare avanti facendo le assunzioni individuali. La sinistra, invece, si accorgerà che sta sbagliando tutto senza acquisire consenso».
In Trentino, però, il centro-sinistra con l’Udc ha vinto le provinciali... «Era nelle previsioni ma in voti assoluti hanno perso consenso. Inoltre io non mi sono impegnato. Ho fatto solo un’intervista. In Abruzzo, invece, andrò almeno 3-4 volte e vedrete che la musica sarà diversa».
Insomma, questa opposizione, con Veltroni in testa, l’ha proprio delusa? «Con questi non tratto più».
Il presidente della Camera Fini, però, è tornato a rispolverare insieme a D’Alema l’ipotesi di una Commissione Bicamerale. Che ne pensa? «Non c’entro nulla. E’ cosa loro. Guardi io mi occupo delle relazioni internazionali, della crisi finanziaria. Di cose importanti... C’è però una cosa che non mi va giù».
Cioè? «Quello che non sopporto più è questo continuo dileggiarmi sulle Tv e sui giornali. In televisione, in prima serata e contemporaneamente su tutti i canali mi prendono in giro. Anche lì c’è la mano della sinistra. Questa abitudine sta diventando davvero insopportabile».
da lastampa.it
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« Ultima modifica: Aprile 09, 2009, 11:11:24 am da Admin »
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 22, 2008, 12:21:04 pm » |
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22/11/2008 Il peccato originale AUGUSTO MINZOLINI
Una fissazione. Una tentazione irresistibile. Per i politici la Rai è inevitabilmente l’oggetto del desiderio. Un comportamento paradossale visto che non mancano argomenti più importanti in questi tempi di crisi economica. E, invece, mamma Rai si ingoia tutto, catalizza l’attenzione, diventa il pomo della discordia o un terreno di dialogo. In questa legislatura è accaduto subito. Walter Veltroni pose il problema Rai nel primo incontro che ebbe a quattr’occhi con il Cavaliere dopo le elezioni: avrebbe potuto parlare di tante altre cose, ma in quei venti minuti il leader del Pd si occupò soprattutto dell’azienda del suo cuore. Dopo sei mesi siamo al punto di partenza. Basta pensare che due giorni fa per spingere il centro-destra a boicottare il presidente eletto alla Commissione di vigilanza, quel Riccardo Villari che sta facendo impazzire Veltroni, il centro-sinistra ha cominciato un’azione di ostruzionismo sul «decreto salva-banche» su cui aveva dato già il suo ok. Un atteggiamento, per usare un eufemismo, a dir poco discutibile. In questi giorni è successo anche di peggio: i presidenti delle due Camere, nel lodevole tentativo di sbloccare la situazione, hanno chiesto a Villari di dimettersi invitandolo ad anteporre le ragioni politiche a quelle giuridiche che, invece, gli consentirebbero di restare al suo posto.
Ora il prima «buttiglioniano», poi «mastelliano», quindi «mariniano» Riccardo Villari può essere considerato una vittima o un furbone, ma in ogni caso l’iniziativa presa dai vertici istituzionali crea un precedente pericoloso. Le alte cariche, infatti, sono tali proprio perché sono garantite da regole giuridiche che consentono loro di essere al di sopra delle parti. Ebbene, subordinare queste regole alle opportunità politiche un domani potrebbe diventare imbarazzante: ad esempio, mutando il rapporto tra Pdl e Pd, qualcuno potrebbe chiedere a Fini o Schifani di lasciare il posto a un esponente dell’opposizione, facendo appello al loro senso di responsabilità, per aprire una nuova fase politica. Insomma, anche questa volta la Rai ha provocato una lunga serie di guai. I problemi, però, nascono sempre da un nodo politico irrisolto. La vicenda, infatti, poteva essere liquidata già un mese fa, c’era l’ipotesi di un accordo equanime che maggioranza e opposizione avrebbero potuto accettare magari turandosi il naso: l’opposizione avrebbe dato il via libera all’elezione di Gaetano Pecorella alla Consulta; Berlusconi avrebbe accettato obtorto collo l’elezione di Leoluca Orlando, che non gli ha mai risparmiato nulla in termini di accuse verbali, alla presidenza della Commissione vigilanza Rai. Invece, alla fine l’intesa è saltata: Veltroni - spinto da Antonio Di Pietro - ha posto un veto su Pecorella per la Consulta e Berlusconi è stato costretto a cambiare candidato; poi, il leader del Pd - convinto da Di Pietro - ha trasformato il nome di Orlando in un’icona senza alternative. Messa così, Berlusconi non avrebbe mai potuto accettare insieme un «veto» e un’«imposizione» di Di Pietro via Veltroni. Per cui siamo arrivati allo scontro e allo «showdown» sulla Rai che il Cavaliere avrebbe sicuramente evitato, non fosse altro perché qualcuno gli avrebbe ritirato o gli ritirerà fuori (Nanni Moretti docet) la solita questione del conflitto d’interessi. Insomma, un lungo elenco di errori. Troppi. L’accordo su Sergio Zavoli è stato siglato tardi. Magari tra qualche giorno la situazione sarà raddrizzata. Magari i commissari del centro-destra, come quelli del centro-sinistra, decideranno - scommette il veltroniano Goffredo Bettini - di non partecipare ai lavori di una Commissione di vigilanza presieduta da Villari. Magari quest’ultimo, abbandonato da tutti, si dimetterà pure. Resta, però, un problema politico irrisolto che produrrà altri guai visto che la politica non sarà precisa come la matematica ma ci si avvicina. Tutto questo «caos» nasce dai limiti di leadership di Veltroni e dalle contraddizioni della sua linea politica. Per dialogare con profitto i capi dei due schieramenti debbono rappresentare una leadership riconosciuta: in queste settimane Berlusconi promuoverà ministro della Salute Ferruccio Fazio, e al Turismo Michela Brambilla, e nessuno tra i suoi alzerà un dito: per Veltroni, invece, ogni intesa, ogni nomina si trasforma in un calvario, tutti ne contestano le decisioni. Ma è soprattutto la linea politica che è piena di ombre. Il «ma anche» veltroniano può essere applicato a tanti argomenti, ma non si può dire: dialogo con Berlusconi, ma sono anche alleato con il campione dell’«anti-berlusconismo» Di Pietro. È una posizione spericolata, foriera di incidenti di cui però ora Veltroni è rimasto prigioniero: il congresso del Pd è virtualmente aperto, si concluderà alle elezioni europee e Veltroni per sopravvivere, per raggiungere l’agognata soglia di salvezza del 30%, non potrà lasciare troppo spazio a Di Pietro sulla sua sinistra, dovrà coccolarselo. Contemporaneamente se Veltroni non romperà definitivamente con l’ex magistrato neppure le magiche doti diplomatiche di Gianni Letta potranno dare un senso al dialogo. Forse Zavoli farà il presidente della commissione di Vigilanza, ma inevitabilmente subito dopo si aprirà una polemica sul presidente Rai in attesa di uno scontro su qualcos’altro. È successo di nuovo ieri sulla giustizia. A un possibile accordo seguirà comunque una rottura. Così il leader del Pd continuerà a mordersi la coda fino alle Europee. Sulla Rai e non solo.
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 07, 2009, 10:57:07 am » |
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6/3/2009 (7:19) - RETROSCENA - LO SCENARIO PER IL PDL
E ora il premier punta a doppiare gli avversari Pier Ferdinando Casini: «Mi davano per morto»
L’ultimo sondaggio: 42 a 22. Casini: “Dario miope sul terreno dei radical, quelli lo batteranno sempre”
AUGUSTO MINZOLINI ROMA
Pier Ferdinando Casini può essere considerato un osservatore imparziale visto che occupa quel segmento elettorale che divide il Pdl e il Pd. E a sentirlo ragionare davanti all’ascensore di Montecitorio che porta ai gruppi parlamentari, ci si accorge che nutre più di una riserva sulla politica del nuovo segretario del Pd, Dario Franceschini. «Stanno - spiega - giocando con il fuoco. Immaginano che se si arriva alla rivolta sociale Berlusconi sarà spazzato via. Sbagliano perché un’ondata del genere spazzerebbe via l’intera classe politica e Casini, D’Alema, Franceschini sono parte della classe politica come, se non più, di Berlusconi». Ed ancora: «La storia dell’assegno di disoccupazione è una follia. Dario ha deciso di coprirsi a sinistra e sul fronte Di Pietro ma è una politica miope. Se accetta il loro terreno quelli vinceranno sempre, ne spareranno sempre una più grossa di lui». «Elmentare Watson!» direbbe Sherlock Holmes. Ma per il Pd di oggi, a quanto pare, nulla è elementare.
E Casini lì davanti all’ascensore è in un brodo di giuggiole visto che anche lui usufruisce dei voti in libera uscita dal Pd: «Mi davano per morto - ridacchia -. E invece... In fondo che colpa ne ho io se hanno messo Franceschini». Già, a parte il battage mediatico, sembra che il «rimedio» Franceschini serva a poco. L’ultimo sondaggio arrivato lunedì sulla scrivania di Berlusconi è impietoso. Si tratta di quei sondaggi che, uno può dire quel che vuole, hanno centrato le previsioni nelle due ultime elezioni politiche. Ebbene la novità è che assegna al Pdl quasi il doppio dei voti del Pd: il partito del Cavaliere è al 42% (il premier ha un indice di gradimento del 64%), quello di Franceschini è al 22%. Se il Pdl aumentasse di un punto e il Pd ne perdesse ancora mezzo, quest’ultimo, per usare il gergo automobilistico, verrebbe “doppiato”. Il dato interessante, quindi, è che l’operazione Franceschini, malgrado l’appeal televisivo tutto da verificare che gli assegna qualcuno, non ha bloccato l’esodo.
Anzi. Nel giro di una settimana (il campionamento è stato condotto venerdì scorso, cioè ad una settimana dall’elezione di Franceschini) il neo-segretario ha perso un punto. E in tutte le direzioni: il Pdl insieme alla Lega (10%) e all’Mpa (1%) raggiunge il 53%; l’Udc tocca il 5,9%; Di Pietro si posiziona sul 7,5%; la sinistra massimalista nel suo insieme raggiunge l’8,7% (4,5% Rifondazione-Diliberto e il resto sinistra democratica, verdi e gli altri soggetti dell’arcipelago). Quindi, i voti del Pd prendono le strade dell’astensione, della sinistra massimalista, di Di Pietro, dell’Udc e financo - sembra strano ma emerge dalla ricerca che è nelle mani del Cavaliere - della Lega.
Berlusconi non commenta e preferisce occuparsi della disputa tra An e Lega sulle candidature per le amministrative. «La verità - si limita però ad osservare - è che il Pd rischia di esplodere». Aggiungendo nel suo ragionamento un corollario: l’unico punto di riferimento per un’opinione pubblica confusa dall’impatto con la crisi resta il governo; mentre sull’altro versante c’è il vascello del Pd, in balia delle correnti e senza una rotta precisa. «Esploderanno - prevede Fabrizio Cicchitto, uno dei consiglieri - dopo la catastrofe elettorale delle europee. La realtà è che la fusione tra ex dc ed ex pci non funziona. In più il democristiano Franceschini per recuperare voti a sinistra ha cominciato a fare l’estremista. Perderà di qua e di là. Senza contare che Casini sta diventando insidioso per loro: gli toglie voti ma non si alleerà mai con il Pd, altrimenti perderebbe metà del suo elettorato».
Appunto, la leadership di Franceschini si basa su un paradosso: un giovane e una politica vecchia. Il segretario del Pd, infatti, per turare le falle è stato costretto a puntare sulle vecchie identità delle forze che si sono unite nel partito, archiviando di botto quello che restava del nuovo che Veltroni aveva messo in campo al suo esordio. Per riprendere i voti attratti da Di Pietro ha giurato sulla Costituzione e ha definito Berlusconi «un pericolo per la democrazia». Per bloccare quelli in libera uscita verso la sinistra ha lanciato l’idea dell’assegno di disoccupazione («e pensare - ricorda l’ex segretario di Rifondazione Giordano - che ci avevano preso a pernacchie»). Per arginare il movimento di consensi verso l’Udc ha legato il possibile risparmio derivante dalla sua proposta sull’abbinamento tra le elezioni europee e il referendum elettorale, al bilancio delle forze dell’ordine. Franceschini, quindi, si sta agitando in ogni direzione. Ma questo rischia solo di peggiorare le cose. «In un momento di crisi - fa presente Mario Valducci, uno degli strateghi del marketing politico del Cavaliere - la gente si fida di persone di esperienza, che danno stabilità, non di uno che non ha né età né parte».
Né, secondo lo stato maggior del Cavaliere, queste carenze saranno superate grazie al supporto dei media. «Una volta - si lamenta il portavoce Bonaiuti - i quotidiani italiani quando venivano ipotizzate spese sociali, lodavano la prudenza e la parsimonia di Prodi. Adesso, invece, vanno tutti appresso a Franceschini e al suo assegno di disoccupazione che secondo Monorchio costerebbe un punto e mezzo del Pil. L’unico che ha posto qualche dubbio è stato Ricolfi...Probabilmente il solito establishment per colpire il Cavaliere sta puntando su Franceschini tant’è che Di Pietro è scomparso da giornali e Tv. Ma è un altro tentativo che finirà male come i precedenti».
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 21, 2009, 11:52:15 am » |
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21/3/2009 (7:48) - RETROSCENA
Silvio si trasforma patriarca del Pdl
Berlusconi: il congresso? Cambia solo che avrò più responsabilità
AUGUSTO MINZOLINI BRUXELLES
Forse il segnale più chiaro della metamorfosi che investe il centrodestra è in quell’ipotesi gettata lì da Silvio Berlusconi in una passeggiata tra i negozi di antiquariato della vecchia Bruxelles. «Alle elezioni europee non ci saranno manifesti - ha annunciato, quasi distratto mentre tentavano di rifilargli invano la statua di una danzatrice del ventre per 50 mila euro. Solo Tv e comizi dove è necessario». Magari alla fine - dipenderà dalla campagna elettorale - qualche manifesto ci sarà pure ma rappresenterà solo un personaggio, il Cavaliere, i visi degli altri candidati, invece, non si vedranno sui muri d’Italia. Insomma, ci sarà solo un santino in giro. Un partito fatto a sua immagine e somiglianza. Eh sì perché alla fine di questa dieci giorni di congressi (oggi si apre quello in cui An andrà in soffitta, domenica prossima si concluderà quello che sancirà la nascita del Pdl) il centro-destra avrà un unico Patriarca.
Forse è proprio questa espressione quella che descrive meglio il rapporto tra Berlusconi e la sua creatura, che ha voluto a tutti i costi, che considera «il regalo più prezioso - sono sue parole - che lascerà all’Italia». E’ inutile, quindi, cercare dialettiche interne, diversità. O meglio ce ne saranno pure, ma saranno rinchiuse in un recinto, in «quel teatrino della politica che mi fa schifo» per usare un’espressione coniata qualche giorno fa nel foyer di un teatro dal Cavaliere, perché non metteranno mai in discussione, appunto, la primazia del Patriarca: nessuno, infatti, neppure osa contendere a Berlusconi il presente, tutti puntano sul "dopo", quando sarà. La democrazia dentro il Pdl seguirà, quindi, ben altre regole rispetto a quelle classiche. Tutti potranno parlare, fare proposte, magari dissentire, ma alla fine sarà solo lui a tracciare la strada, magari condendo la decisione con qualche paternale. «In nessun partito - osserva il Premier passeggiando per le vie di Bruxelles - c’è tanta democrazia come nel nostro. Io non decido mai, dò consigli. Da noi chiunque può dire quello che vuole. Avete visto la lettera dei 101 sul decreto sicurezza? Io l’ho letta e l’ho condivisa subito».
Già, è il Cavaliere che avrà l’ultima istanza sia sulla linea politica, sia sulla scelta dei coordinatori regionali, dei membri della direzione, del consiglio nazionale e giù di lì. O, ancora, sui rimpasti di governo, o sulle nomine. Ascolterà proposte, suggerimenti, consigli e poi tirerà le somme. Non con il piglio del premier o del leader di partito, ma, appunto, del patriarca politico. In fondo ce ne sono stati tanti di personaggi del genere, amati e combattuti. Per Berlusconi addirittura si è scomodato anche uno scrittore liberale come Vargas Llosa per coniare l’immagine del caudillo democratico. Un’immagine che si richiama a De Gaulle o Peron. Già, loro non decidevano ma impersonavano loro stessi la «decisione». Il patriarca non sceglie ma interpreta il «bene comune» della famiglia, della tribù, del popolo e, in questo caso, del partito. «Fini è circondato - fa presente il Cavaliere - dalla stima di tutti, gli vogliamo tutti bene. Ora ricopre un ruolo istituzionale fra tre anni deciderà cosa fare». Come anche l’investitura a leader per chi ha creato il partito è un atto dovuto, scontato, naturale.
Ecco perché le polemiche delle settimane scorse sul come votare il Cavaliere per acclamazione o alzata di mano avevano del paradossale: si può votare un patriarca o un padre? «Per me - osservava ieri il Premier per le vie di Bruxelles - con il Pdl non cambia niente, avrò solo maggiori responsabilità. Il passaggio è importante formalmente ma è tanto tempo che con An siamo un’unica famiglia». E il patriarca naturalmente difende tutti i suoi, nessuno escluso. «Non ci saranno problemi nella scelta delle candidature - ha confidato ieri il Premier davanti ad un negozio di arte africana - perché intorno a Fini c’è tutta gente presentabile. Se c’è chi si oppone all’entrata di An nel Ppe? Assolutamente no. C’è solo l’invidia per un partito che già rappresenta il 42% degli italiani e può puntare al 51%. E comunque noi non siamo la destra estremista, radicale. Quella è rappresentata dalla fiamma tricolore».
C’è da chiedersi come tutto questo sia potuto accadere, come il Cavaliere sia riuscito a ritagliare un ruolo del genere per se stesso. Per gli errori degli altri, davvero tanti. E per un’indubbia capacità del personaggio di interpretare il baricentro del suo popolo, l’Italia moderata. «Sono 15 anni - ha spiegato lui stesso ieri a Bruxelles - che faccio da centro del centrodestra. Non ci sono mai state crisi. I rapporti con Fini e con Bossi sono rafforzati, non si è mai andati al di là di una discussione. Poi è chiaro che in vista delle elezioni ci sia competizione». La capacità, in sintesi, di essere il punto di equilibrio dell’Italia moderata, o se necessario di inventarsene un altro: un anno fa con la svolta del predellino lasciò fuori dalla porta l’Udc di Casini che ne aveva messo in dubbio la leadership. Oggi per calmare una Lega troppo intraprendente il Cavaliere è tornato ad usare il calcolatore: «Con l’Udc, che pure fa parte del Ppe, già oggi saremmo al 49%».
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 28, 2009, 12:33:00 pm » |
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28/3/2009 (7:14) - NASCE IL PDL
Balena bianca, l'ambizione del premier Il premier pensa a una sovrapposizione con l'azione di governo
Così Berlusconi immagina il partito del 51 per cento
AUGUSTO MINZOLINI ROMA
Alla fine il paragone azzardato lo accetta anche Ignazio a Russa, ex-reggente An, uno dei coordinatori del nuovo partito e neo-membro del Ppe. «No - fa presente - non siamo la dc delle correnti, delle congiure, delle crisi di governo. Quella proprio no. Ma se, invece, qualcuno accosta il partito del Popolo delle Libertà alla dc degli albori, quella di Don Sturzo, di De Gasperi, quella che si identificò con lo Stato, anzi lo ha costruito, il paragone va benissimo anche a me».
E’ sempre rischioso fare dei paragoni con il passato, si sa, ma in fondo il partito che Silvio Berlusconi sta fondando, può avere, con le dovute cautele, dei riferimenti a quell’esperienza. E non solo per l’adesione al Ppe. Certo il nuovo partito è calato in un sistema bipolare. E’ attrezzato secondo le esigenze della società di oggi che pretende, impone leadership forti. Come pure raccoglie le esperienze diverse di quei partiti laici (la citazione di Craxi è stata estremamente affettuosa nell’intervento del premier) che governarono l’Italia per quarant’anni, visto che ha l’ambizione di ricomporre, riveduto e corretto, lo stesso blocco politico-sociale. Ma nel giorno in cui Umberto Bossi, dopo aver fatto penare non poco il Cavaliere a due ore dall’inizio del congresso accetta di sedere in prima fila ratificando ancora una volta la solidità dell’alleanza, i paragoni con quel partito democristiano delle origini non sono pochi.
Intanto nei maestri che Berlusconi cita: appunto, Don Sturzo e De Gasperi. Poi nel riconoscimento delle radici cristiane, la citazione del Papa nel discorso di ieri, l’attenzione verso le gerarchie cattoliche, il no al collateralismo (di cui Berlusconi ha parlato giorni fa), ma anche i frequenti incontri con il cardinal Bertone che hanno portato all’approvazione di una legge sul testamento biologico che ha fatto brindare il giornale dei vescovi italiani, Avvenire. Ed ancora il battesimo del fuoco contro un cartello delle sinistre: la Dc nel ’48; il Pdl negli anni che vanno dal ’94 oggi. Ma il paragone più vicino è il rapporto stretto con il governo, con lo Stato. Berlusconi forgia il Pdl sulla sua esperienza di governo. Allora De Gasperi lo fece per far risalire l’Italia in ginocchio del dopoguerra. Berlusconi ci prova ora per superare la più grave crisi economica globale degli ultimi venti anni.
E in questo schema, oggi come allora, c’è un’identità totale tra partito e governo, tra partito e un nuovo Stato che nella testa del Cavaliere va costruito, se è necessario cambiando anche la Costituzione con il consenso del popolo (altro termine fondamentale nel vocabolario democristiano), «per renderlo più rapido nelle decisioni, più attrezzato per affrontare i problemi di oggi». Non per nulla nella testa di Berlusconi, sempre attento all’impatto mediatico, il congresso è stato anticipato da un lungo «prologo» congressuale di tre giorni che ha celebrato l’azione del governo: il viaggio sulla Freccia rossa per inaugurare l’altra velocità sulla rotta Milano-Roma; l’inaugurazione del termovalorizzatore di Acerra, al grido «lo Stato c’è, è tornato»; nei desideri del premier c’era anche il varo del piano casa (stretto parente per ammissione dello stesso Cavaliere del «piano» di Fanfani che fu uno dei grandi volani del boom italiano del dopoguerra), che non è andato in porto - sono sue parole - «perché la sinistra ha cambiato la Costituzione in peggio, attribuendo alle Regioni poteri vitali togliendoli allo Stato, che non può intervenire su questioni fondamentali». Una tre giorni che ha preceduto una relazione congressuale incentrata tutta sull’azione del governo e su quello che - secondo il Cavaliere - il governo avrebbe potuto fare se non ci fossero istituzioni arretrate e un’opposizione miope.
Appunto, popolo, governo, Stato. E su queste tre parole chiave che Berlusconi sta plasmando il Pdl. «Tutti gli italiani - ha rimarcato dalla tribuna il Premier - dovrebbero stringersi attorno al governo che è l’elemento chiave per superare la crisi». E il paragone non va confuso con la dc del drammatico epilogo finale, quella dilaniata dalle correnti, dalle clientele dalla questione morale. La dc delle origini era un partito innovativo, era il partito delle riforme, che disegnò l’Italia del dopoguerra. «Anche i dati elettorali sono simili - ricorda un deputato piemontese di Forza Italia Osvaldo Napoli - : tra gli anni 50-60, a parte il ’48, la dc viaggiava su percentuali che andavano tra il 43-45%». E in fondo anche il modo di atteggiarsi di Berlusconi ricorda, in parte, la dc di allora: De Gasperi mediò con gli alleati ma tentò anche la cosiddetta «legge truffa» per governare in maggiore libertà assicurandosi il 51%. Il Cavaliere in questi anni ha fatto lo stesso. «Sono stato sempre al centro - non si stanca di ripetere -, ho mediato tra gli alleati». Ma ha anche cercato una semplificazione. Oggi la fusione di Forza Italia e di An nel Pdl; poi l’obiettivo di ricoinvolgere, con le buone o calamitandone i voti, l’Udc, perseguendo il sogno ripetuto ieri di raggiungere il mitico 51%. Lo stesso di De Gasperi. E il paragone non dispiace neppure ai laici.
«E’ una suggestione - osserva Cicchitto, uno dei consiglieri del Premier - forse un po’ azzardata, ma vera». «Come la dc di allora - spiega addirittura l’ex-radicale, Benedetto Della Vedova - è un partito-Paese. Un partito plurale com’è plurale la società di oggi». E in fondo questo accostamento è dimostrato anche dalle piccole cose. In un partito del genere, a quanto pare, il repubblicano Nucara, erede del laicismo italiano, non entrerà (ieri ha dato forfait sul palco del Cavaliere). Mentre il ministro ex-dc Rotondi si trova a casa sua: «Togliamo - spiega - l’aggettivo origini. Questa è la dc del 2009. Pure nei colori. Mi ricordo di una circolare in cui Fanfani vietava di utilizzare sui manifesti il colore rosso e consigliava l’uso del colore della libertà, l’azzurro. Il colore del Pdl». Resta da vedere se un partito del genere, del 40%, non contrarrà il virus delle correnti e delle nomenklature. «Ma sono problemi - sospira uno dei consiglieri del Cavaliere - che si porranno nel dopo-Berlusconi. Semmai arriverà».
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 02, 2009, 03:59:08 pm » |
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2/4/2009 (7:22) - AL VIA IL G20
"Le regole? Ci penseremo noi al G8" La scommessa di Berlusconi "Un nuovo codice per la finanza"
AUGUSTO MINZOLINI INVIATO A LONDRA
Mentre Silvio Berlusconi incontra il primo ministro giapponese, Taro Aso, in una delle salette del Claridges di una Londra attraversata da gruppi di contestatori contro il G20, in una giornata che alla fine sarà segnata anche dalla morte di uno dei manifestanti, nella hall dell’albergo il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, spiega da osservatore quello che c’è dietro al braccio di ferro che divide Londra, e più formalmente Washington, da Parigi e Berlino su quello che dovrebbero fare i governi dei grandi della terra per fronteggiare la crisi economica. «Forse a qualcuno potrà sembrare strano - racconta - ma i governi di destra sono quelli che vogliono intervenire con maggior forza, stabilire regole ferree per evitare che si ripeta quanto è successo, mentre quelli di sinistra, specie gli inglesi, non toccherebbero nulla. Anche Tremonti è un convinto interventista».
Sul fatto che il ministro dell’Economia italiano sia uno dei campioni della scuola che vuole a tutti i costi delle nuove regole efficaci non ci sono dubbi. Su questa posizione il nostro paese è schierato da tempo. Lo stesso Cavaliere qualche settimana fa in un incontro con il Presidente Napolitano aveva fatto questo ragionamento: «Soldi per intervenire non ne abbiamo tanti. Quello che dovevamo fare lo abbiamo fatto. Quello, invece, su cui noi italiani possiamo lavorare con efficacia, sono le regole». Una tesi che ha tra i suoi ispiratori proprio Tremonti, il quale considera questo capitolo fondamentale per mettere in piedi una strategia efficace contro la crisi. Né il ministro dell’Economia si sorprende più di tanto dell’atteggiamento di Londra. Anzi. «I laburisti - osserva - sono succubi della cultura della City. Fa parte della cultura inglese. La preghiera della City, è del ’700, si conclude con la richiesta a Dio di mantenere la "financial stability". Seguita dall’amen. A quell’epoca invece di pensare ai raccolti già pensavano a questo». Già, non potrebbe essere altrimenti: l’economia inglese è la finanza. Se Obama tenta di essere più autonomo, gli inglesi non possono.
E quello che sta avvenendo al G20 è la fotografia di questa condizione: Brown preferisce spostare l’attenzione più sull’aumento di risorse al Fmi, sulle politiche di stimolo fiscale; svicola, invece, il tema delle regole e la questione dei paradisi fiscali. Loro ce l’hanno in casa. Esattamente il contrario del cancelliere Merkel e del presidente francese Sarkozy. Quest’ultimo ha addirittura minacciato di lasciare Londra se non sarà data una soluzione alla questione. La reazione ha anche una sua ratio mediatica: «Il presidente francese - confida uno dei membri della delegazione italiana - ha bisogno di portare a casa un risultato che anche al bar capiscano: è più facile parlare alla gente della fine dei paradisi fiscali che non dei nuovi soldi a disposizione del Fmi». Un atteggiamento più che comprensivo se si pensa che in questo momento in Francia gli operai rapiscono padroni e manager.
E l’Italia? Siamo vicini a francesi e tedeschi. In fondo anche noi ci siamo battuti per la creazione di blacklist che facciano la radiografia della condizione di ciascun paese: nella lista nera i paradisi fiscali senza controllo, isole Cayman e dintorni; in quella grigia paesi come la Svizzera, il Lussemburgo, l’Austria; in quella bianca le anime candide. Solo che in quella grigia finirebbero tanti paesi europei. E potrebbe essere un problema: qualcuno, come la Svizzera, potrebbe ricordare che si è attenuta agli standard europei. «La verità - racconta Tremonti - è che quando siamo arrivati all’intesa è l’Europa che si è avvicinata alla Svizzera, non il contrario». Per cui dal punto di vista dei contenuti non ci sono dubbi sulla nostra collocazione. «Quella franco-tedesca - fa presente Berlusconi - è la nostra linea, siamo noi che stiamo preparando il cosiddetto ’legal standard act’». E’ probabile, però, che nel vertice manterremo una posizione più defilata rispetto a tedeschi e francesi. Almeno in apparenza. Questa almeno sembra essere l’intenzione del Cavaliere che ha una sua logica. Intanto se il G20 non porterà a casa un piano efficace, l’appuntamento del G8 diventerà ancor più fondamentale.
In secondo luogo, proprio per poter strappare di più a La Maddalena, proprio per poter svolgere il ruolo di mediatore al meglio, il Cavaliere ora non può raffreddare più di tanto i rapporti con gli inglesi. Ecco perché Berlusconi non si lascia andare alle dichiarazioni plateali di Sarkozy. «In questo vertice - si è limitato a dire - credo che qualche decisione sarà presa. Vi ricordo però che al G8 noi porteremo come nostra proposta il Global Standard e cioè una legislazione internazionale per il mondo della finanza e dell’economia. Quindi il G20 qualche cosa la comincerà a fare ma è al G8 che si pensa verrà redatto il nuovo codice». Il premier italiano, quindi, almeno in questa occasione non sembra intenzionato a partecipare più di tanto alle polemiche tra i grandi. Ha una posizione defilata come quella che ha Obama per altre ragioni: in fondo al Presidente Usa farebbe più che comodo che Sarkozy e la Merkel gli regolassero i conti con Wall Street. Un atteggiamento che il premier italiano può permettersi. Non è sotto i sondaggi come il presidente francese: «Sono al 66,4%» è il dato con cui ha salutato il primo ministro giapponese. Tant’è che ieri ha voluto dimostrare di non essere per nulla interessato alla solita corsa tutta europea dell’incontro bilaterale con Obama: «Non lo abbiamo chiesto perché non ci sono argomenti nuovi su cui intrattenerci». «Comunque nella cena di ieri sera - conclude il Cavaliere - ho avuto con Obama scambi di battute molto simpatiche. Lui si è definito il “ragazzo nuovo che deve imparare molto dall’esperienza degli altri”».
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 25, 2009, 10:31:11 am » |
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25/4/2009 (7:31) - 25 APRILE
Un elogio ai comunisti
La tentazione di Silvio Oggi a Roma e in Abruzzo la prima volta del premier alla festa
AUGUSTO MINZOLINI ROMA
L’idea suggestiva è circolata in questi giorni e l’interessato ne ha parlato con i collaboratori più stretti ma non è detto che alla fine Silvio Berlusconi la lancerà. Fa parte di quelle invenzioni con cui il Cavaliere supera «impasse» e contraddizioni, facendo un passo in avanti o un salto nel futuro. Nella sua prima volta alla Festa della Liberazione il Cavaliere vorrebbe che il 25 aprile diventasse la Festa della Libertà. Un modo per chiudere finalmente i conti con il passato pensando al futuro. In fondo - spiega Gaetano Quagliariello, uno dei suoi consiglieri - Berlusconi ha tutti i titoli per pacificare ciò che è stato ed immaginare il futuro». Si può dire quel che si vuole, infatti, ma Berlusconi non ha un passato da dimenticare. Non è stato comunista, né fascista. Il suo primo approccio alla politica sono stati i manifesti attaccati sui muri per la Dc nel ’48.
Quindi ha sempre avuto un atteggiamento laico, non ideologico verso il 25 Aprile. Ha sempre riconosciuto l’importanza della Resistenza, ne ha avuto la memoria in famiglia, ma non ne ha mai accettato l’interpretazione ideologica per incasellare o, addirittura, mummificare il presente. L’ha sempre considerata un moto di popolo per la riconquista di un diritto naturale come la libertà. Un moto di popolo come quello che ha spinto oggi gli italiani a cimentarsi in una gara di solidarietà per soccorrere e aiutare i terremotati abruzzesi. E non è un caso che il Cavaliere abbia deciso come luogo del suo primo 25 Aprile Onna, il paesino abruzzese epicentro del sisma, che l’11 giugno del ’44 fu teatro di un massacro ad opera dei nazisti. In questi giorni in cui si è tanto discusso della sua partecipazione alla festa della Liberazione, il premier ha tentato, quindi, di darne una sua interpretazione originale.
Riassumendo tutti i passi compiuti da chi ha militato in campi avversi per arrivare alla pacificazione, ad una Festa condivisa. A partire dalle parole che l’ex comunista Luciano Violante pronunciò a Montecitorio nel ’96: «Dobbiamo capire i vinti di Salò». Appunto, Berlusconi riconosce e comprende i punti di vista di tutti. Lo ha spiegato ieri ai suoi che lo hanno aiutato a limare e rivedere il discorso di oggi: bisogna ricordare quelli che hanno combattuto dalla parte sbagliata, che sono morti per i loro ideali; ma va riconosciuto innanzitutto l’impegno di chi di fronte ad un dramma nazionale come la guerra e l’occupazione nazista, ha reagito per riconquistare il paese alla libertà. E sono stati tanti: ci sono stati i partigiani cattolici, socialisti, liberali, ma anche una resistenza comunista a cui il Cavaliere potrebbe addirittura riconoscere il merito di aver partecipato a questo moto di popolo. Non si sa con quali parole Berlusconi, divulgatore del libro nero del comunismo, affronterà questo argomento delicato.
Magari sarà solo un elenco dei tanti che hanno avuto un ruolo in un’impresa, come si conviene quando si consegnano errori e medaglie di ciascuno alla Storia. Ma è un passaggio importante per chi vuole individuare una memoria comune del passato, in cui si riconosca l’intero Paese, punto di partenza indispensabile per scrivere un futuro anch’esso comune che coinvolga tutto il Paese. Di questi argomenti il Premier ha parlato e discusso in tante occasioni in questi giorni. E la sua suggestione, quella di passare da una Festa di Liberazione ad una festa della Libertà, parte dall’idea di aggiornare quel momento importante, di coniugarlo al presente, superando il carattere «antifascista» che ne ha caratterizzato il substrato ideologico in un monito più ampio, che contenga in sé gli anticorpi necessari per fronteggiare tutte le tragedie del secolo scorso e quelle che sono ancora presenti nel mondo d’oggi, cioè l’«anti-totalitarismo».
Non si tratta solo di un passaggio lessicale ma del tentativo di costruire - come dicono i suoi consiglieri - «una coscienza nazionale», «un sentimento nazionale», in cui possano riconoscersi tutti: nella storia non c’è stato solo il fascismo, ma anche lo stalinismo, il regime sovietico, Pol Pot, Saddam Hussein e tanti altri. Quella coscienza nazionale, quel sentimento nazionale condiviso, indispensabile per chi vuole modernizzare il Paese. In fondo la decisione del Cavaliere di partecipare per la prima volta alle celebrazioni del 25 Aprile sul piano dell’immagine è un modo per tendere la mano anche a chi l’ha sempre osteggiato e combattuto più come un nemico che come un avversario. Una premessa essenziale per chi vuole riformare un Paese, per chi considera necessario e non più eludibile un aggiornamento della sua Carta Costituzionale, dettato dalla constatazione pragmatica e concreta che in questi sessant’anni il mondo è cambiato profondamente, che i tempi delle decisioni per chi vuole davvero incidere nella realtà, cogliere occasioni e fronteggiare crisi, si sono fatti terribilmente più veloci. Il primo 25 Aprile del Cavaliere è essenzialmente un atto di fiducia.
DA lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 13, 2009, 10:23:36 am » |
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13/5/2009 (7:12) - RETROSCENA
Dal Cavaliere un colpo a Fini e uno alla Lega «An non esiste più e Maroni esegue i miei ordini»
AUGUSTO MINZOLINI ROMA
Forse l’occasione per precisare la posizione del governo sull’immigrazione non poteva essere più adatta per Silvio Berlusconi. Davanti al presidente, Hosni Mubarak, esponente di primo piano del mondo arabo e dei Paesi non allineati, durante il vertice italo-egiziano a Sharm el Sheik. Nel vertice in cui sono stati firmati 14 contratti di collaborazione tra i due Paesi, il Cavaliere ha rimarcato il carattere globale del problema: nel giro di qualche decennio la popolazione mondiale aumenterà di 2 miliardi di persone, concentrate nelle aree più povere del mondo, e «senza una democratizzazione questi Paesi non usciranno dall’indigenza e la pressione migratoria sarà più intensa». Ecco perché la soluzione dell’immigrazione con la «I» maiuscola riguarda le organizzazioni sovrannazionali a cominciare dalla Ue. E’ un punto su cui anche Mubarak si è trovato d’accordo e che rende tutte le polemiche nostrane un po’ paradossali, almeno per il Cavaliere.
La nostra legislazione in materia non è infatti molto diversa da quella degli altri Paesi (basta guardare alla Francia), il problema semmai è se deve essere applicata o no. Ogni volta che da noi un barcone di immigrati clandestini viene riportato al porto di provenienza, cioè che certe misure si rivelano efficaci, comincia una polemica politica senza fine, che addirittura coinvolge anche gli organismi internazionali. Se poi «i casi» scoppiano in campagna elettorale gli echi, secondo una vecchia tradizione italiana, si moltiplicano. C’è chi esagera, chi si intesta il merito in solitudine, chi invece cavalca la posizione contraria che piace alla Chiesa, per ovvi motivi, e ad una certa sinistra. Anche in questa occasione il ministro Maroni ha rivendicato il merito dei rimpatri, Fini ha cavalcato il tema della difesa degli immigrati clandestini con diritto di asilo e la sinistra, a parte Fassino e Rutelli, è andata ancora più in là. A Berlusconi, quindi, nella «querelle» non è rimasto che difendere una posizione mediana.
Scelta facile rispetto a quelle che il premier è costretto a prendere di questi tempi, perché se c’è una posizione prevalente nell’opinione pubblica italiana, che non lascia dubbi (basta guardare i sondaggi), riguarda proprio la politica sull’immigrazione, quella che il premier ha sintetizzato con un’espressione studiata: la «porta socchiusa» da contrapporre a quella della «porta spalancata» cara, secondo Berlusconi, alla sinistra. Il premier, convinto che questo sarà ancora una volta uno dei temi «forti» della campagna elettorale, ha voluto rimarcare il suo primato in quella politica del governo che, grazie anche agli accordi con la Libia, sta permettendo all’Italia di riportare nei porti di partenza gli immigrati clandestini intercettati nel Canale di Sicilia. «Sono intese - ha spiegato - che ho gestito io. Le ho sottoscritte, Maroni esegue quegli accordi che sono stati assunti direttamente da me. E Gheddafi sta rispettando gli accordi che aveva preso con me». Una rivendicazione dei propri meriti rivolta anche agli elettori settentrionali, i più sensibili al tema dell’immigrazione.
Contemporaneamente il premier ha negato ogni polemica dentro il Pdl (Fini) sull’argomento, arrivando a negare l’esistenza di una posizione diversa. «An - ha spiegato il Cavaliere - è un partito che non esiste più nominalmente perché è confluito nel Pdl. Per cui c’è una sola politica, quella del Pdl». Un modo per smorzare polemiche interne che danno un’immagine distorta della posizione della maggioranza su questo, come su altri temi. «Certamente - ha precisato in proposito - la Lega esagera. Ma sono esagerazioni più di facciata che di sostanza. Poi sono le polemiche interne a dare dei pretesti all’opposizione. Basta pensare a quello che è avvenuto sulle ronde». La stessa cosa sta avvenendo ora sul respingimento degli immigrati clandestini. Berlusconi ha sottolineato che l’Italia darà sempre asilo «a chi fugge da una situazione pericolosa, ma non a chi si affida ad un’organizzazione criminale che offre di venire in Italia a chi paga un biglietto». Una posizione analoga a quella degli altri Paesi dell’Unione Europea. «Se noi non avessimo questo atteggiamento - fa presente il premier - diventeremmo una groviera», cioè l’itinerario preferito di chi organizza l’immigrazione clandestina. Del resto i dati della «Frontex», l’agenzia Ue sull’immigrazione clandestina, sono indicativi e dimostrano che la politica messa in piedi dall’Italia è in linea con quella Ue: dal 2005 al 2008 ci sono stati 150 mila respingimenti di immigrati clandestini da parte della Ue.
Insomma, l’immigrazione clandestina è un problema che dovrebbe essere affrontato senza demagogia se non si vuole ottenere l’effetto contrario a quello che si vuole. Ad esempio, per le polemiche interne alla maggioranza (franchi tiratori) qualche mese fa sparì da un decreto legge un emendamento che dava la possibilità di trattenere per sei mesi nei Centri di identificazione e di espulsione gli immigrati clandestini e che sarà reintrodotto dal disegno di legge del governo: ebbene, è evidente che in due mesi non si può fare nessuna identificazione per cui la politica di respingimento deve essere più intransigente; con i sei mesi, invece, potrebbe essere modulata diversamente. Così un’iniziativa condotta per rendere meno rigida la disciplina sull’immigrazione clandestina in questi mesi ha prodotto un risultato opposto.
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 21, 2009, 02:47:40 pm » |
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21/5/2009 (7:10) - PERSONAGGIO - AUGUSTO MINZOLINI
Il cronista da marciapiede nella stanza dei bottoni
Augusto Minzolini prende il posto di Gianni Riotta
L'inviato e le notti insonni per raccontare la politica
MARIA CORBI ROMA
Il giornalista meno ufficiale d’Italia sul trono del tg più paludato. Augusto Minzolini al Tg1, dalla carta stampata alla tv, da inviato a direttore, da libero battitore a capitano: una scommessa, ma con la certezza che al timone del più importante tg italiano arriva un giornalista inusuale, un cronista dal cui cognome si è coniato un neologismo: minzolinismo. Ossia, come spiega il vocabolario, una «forma di giornalismo che si basa sulla raccolta di dichiarazioni anche informali di uomini politici, senza alcuna verifica delle affermazioni raccolte». La passione della notizia origliata, rubata ai potenti italiani nelle loro riunioni segrete come ai congressi, o per strada: il retroscena. E se qualcuno smentisce, “Minzo” ci passa sopra con disinvolta sicurezza: «Confermo quello che ho scritto».
Tutti conoscono la tecnica ma continuano a cascare nella sua rete pregandolo sempre allo stesso modo: «Mi raccomando quello che ti dico non lo scrivere», quando neanche un bambino gli rivelerebbe mai un segreto. Stesso trattamento con tutti, anche con Berlusconi. Quando nel 2000 il Cavaliere si recluse alle Bermuda per dimagrire e prepararsi al ritorno in campo è l’unico inviato a violare la privacy di quella villa. Riesce a farsi invitare all’aperitivo con l’ospite che si scusa: «Queste due settimane mi voglio tirar fuori da tutto. Mi sono negato a tutti, e non voglio far torto a nessuno. Eppoi non voglio parlare di politica». Solo una chiacchiera. Ma alla fine quella paginata su La Stampa è piena di anticipazioni e retroscena con una frase di chiusura che è in puro stile Minzolini: «E’ stato di parola, ha sorvolato sul tema Italia ma nei monasteri, si sa, anche le mura parlano». E tra i corridoi della redazione romana della Stampa la frase è un tormentone. Come il giocoso «te lo dico con franchezza... me so rotto» con cui tronca una conversazione. O la battaglia col caporedattore per qualche riga in più, o per mandare il pezzo oltre il tempo imposto dalle rotative e poter aggiungere l’ultimo particolare. E qualcuno oggi ci scherza: «Chissà se il Tg1 andrà in onda alle 20.15...».
Non è facile parlare di una persona con cui si è condiviso tanto per tanti anni, ma certo non è indulgenza ripetere che il nuovo direttore del Tg1 è stato un grande cronista parlamentare, che ha avuto come maestro Guido Quaranta, retroscenista storico dell’Espresso, dominato dall’ansia di arrivare prima sulla notizia, dare il «buco» ai colleghi. E ne ha dati tanti, da quando nella prima Repubblica aveva scoperto che salendo sulla tazza del bagno nella sede del Psi di via del Corso si potevano origliare le riunioni della direzione. Craxi fece murare la toilette. Mentre dai democristiani, dietro una tenda pesante, venne scoperto perché spuntavano le sue scarpe. Inglesi, ovviamente, come gran parte dei pezzi del suo abbigliamento a cui tiene moltissimo.
Amante della forma fisica (che cura ogni giorno in palestra) e degli abiti ben tagliati, con qualche dettaglio da gagà come i pantaloni a tubo, strettissimi, o gli spolverini con il colletto di fustagno. Certamente è stato fra i primi a capire che quando Berlusconi annunciò la scesa in campo faceva sul serio e, soprattutto, gli italiani lo avrebbero preso molto sul serio. Da quel momento non ha mollato l’osso, anche quando «emigrò» come corrispondente negli Stati Uniti e continuò a battere sul suo computer scoop sulla politica interna rubati ai politici arrivati oltre oceano in viaggio di affari e di piacere. Tanti gli aneddoti che possono spiegare il nuovo direttore del Tg1, come quando nel ‘97, a notte fonda, era ancora ad aspettare fuori casa Letta il risultato di una cena tra leader del Polo e dell’Ulivo. «Mi chiamò come sempre agitatissimo - ricorda Enrico Zanetti, per anni anima della segreteria di redazione - perché gli era finita la batteria. Corsi da lui con una nuova». E tutti poterono sapere del «patto della crostata». Chissà se Massimo D’Alema ricorda quando, arrabbiatissimo, disse a Minzolini: «La verità è che su di te un sacco di giornalisti hanno fatto fortuna e sono diventati direttori, mentre tu sei sempre qui a pestare il marciapiede». Ora la carriera l’ha fatta anche lui, che negli ultimi anni non ha mai mollato la marcatura a uomo del Cavaliere. Adesso si dice felice, ma forse a Saxa Rubra gli mancherà davvero il marciapiede.
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 21, 2009, 11:43:26 pm » |
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Scheda/
Da "Ecce Bombo" a Montecitorio chi è Minzolini
Con l'arrivo di Augusto Minzolini al Tg1 arriva alla direzione della testata ammiraglia della Rai una figura storica del giornalismo parlamentare italiano. Per lui, romano, 51 anni, è stato coniato perfino un termine, il "minzolinismo", che sta a significare un giornalismo che ricostruisce il "dietro le quinte", basato anche su dichiarazioni spesso informali di esponenti politici. Lo storico cronista politico dell' Espresso, Guido Quaranta, decano di Montecitorio, gli affibbiò un nomignolo eloquente "lo squalo". Un soprannome dalla valenza positiva visto che per Quaranta i cronisti parlamentari si dividono in due categorie: gli squali, che lavorano da soli, fiutano gli eventi, pedinano i protagonisti e spesso provocano la notizia, e i tonni, la maggioranza dei cronisti parlamentari, che seguono gli eventi politici, li riportano con scrupolo, ma non fanno notizia.
Editorialista politico del quotidiano La Stampa, dove lo chiamò l'attuale direttore di Repubblica Ezio Mauro, nel 1992 Augusto Minzolini fu promosso inviato da Paolo Mieli. Incarico per cui volò a Washington per seguire le elezioni Usa che si conclusero con la vittoria di Bill Clinton.
Minzolini divenne giornalista appena ventenne, entrando all'agenzia Asca dopo la maturità classica conseguita al liceo Dante Alighieri. E dalle aule dell'istituto del quartiere romano di Prati finì sul set di Ecce bombo girato da Nanni Moretti nel 1977: era uno degli amici di Lotta studentesca di Valentina, la sorella del protagonista Michele, impegnata nell'occupazione della scuola.
Già in precedenza lavorò con il regista culto della sinistra nel lungometraggio d'esordio di Moretti, Io sono un autarchico, del 1976.
20 maggio 2009 ilsole24ore.com
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« Risposta #10 inserito:: Maggio 22, 2009, 11:49:51 am » |
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Fronte del video
di Maria Novella Oppo
Arriva Minzo: la tv trema
Accidenti. Non si fa in tempo a scandalizzarsi per una bestemmia di papi che ne arriva un’altra ancora peggiore. Se un giorno dice che la magistratura gli fa schifo, il giorno dopo sostiene che il Parlamento è inutile, anzi dannoso. Ma, per volare davvero così basso, limitiamoci allo specifico televisivo e cioè a Porta a porta, la cui puntata dedicata al caso Mills è stata una vera e insopportabile schifezza.
Non appena parlavano gli esponenti dell’opposizione Tenaglia (Pd) e Donadi (Idv), Gasparri e l’avvocato Ghedini starnazzavano per oscurare le notizie sui processi del premier; tutte cose che in tv non devono assolutamente passare. E Vespa interveniva solo per peggiorare il tutto coi suoi filmati. Come quando ha annunciato un profilo del giudice Gandus che cominciava con l’urlo del premier: È uno scandalo!
E, se le cose in Rai già stanno così, che cosa ci dobbiamo aspettare (e soprattutto: che cosa si aspetta Berlusconi) dall’arrivo di Minzolini al Tg1?
da unita.it
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 30, 2021, 02:55:38 pm » |
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 01, 2021, 11:27:37 pm » |
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Magistrati, "Lo Sciopero del vaccino" Avanti! avanti@centrobrera.it tramite hellomailing.com CORPORAZIONI E VACCINAZIONI Ma i magistrati non ci stanno e minacciano lo "sciopero del vaccino" se non passano avanti Draghi ha cambiato metodo: prima le fasce deboli, poi le categorie Il sindacato delle toghe (L'ANM, che nomina i membri del CSM) invita i dirigenti degli uffici giudiziari "ad adottare misure organizzative per rallentare immediatamente tutte le attività senza escludere, nei casi più estremi, la sospensione dell’attività giudiziaria non urgente”. Il motivo? "Il governo considera il servizio giustizia con carattere di minore priorità rispetto ad altri servizi essenziali già sottoposti a vaccinazione, tanto da non ritenere doveroso rafforzare le condizioni che ne consentano la prosecuzione senza l’esposizione a pericolo per gli operatori" IL COMMENTO Di Andrea Barbano Si fa fatica a crederci: i magistrati non sanno che il nostro Paese ha lasciato scoperti dall’immunità i più fragili per proteggere le categorie? Non sanno quale prezzo di morti e di dolore paghi l’Italia al suo inguaribile corporativismo? Allora sarà il caso di rinfrescar loro la memoria con qualche dato. La scorsa settimana, quando il premier Mario Draghi ha censurato in Parlamento il ritardo nella vaccinazione degli anziani, gli “over 80” immunizzati rappresentavano meno del 40 per cento. Un milione 800 su 4 milioni e mezzo. Eppure in questa fascia di età si conta il 62 per cento di tutti i decessi per Covid. Che vuol dire? Che nella settimana tra il 15 e il 22 marzo 1.700 dei 2.800 pazienti morti si sarebbero potuti salvare, se solo tutti gli anziani avessero ricevuto almeno una dose di siero. Ce n’era la possibilità, poiché 8 milioni di fiale erano state già somministrate. Ma, come si legge sul sito del Ministero della Salute, due milioni e mezzo erano state destinate al personale sanitario, stimato per eccesso in un milione 400 mila unità, 700mila al personale scolastico, e un milione a una categoria definita genericamente “Altro”, nella quale alcune Regioni hanno infilato di tutto, e tra questo tutto c’erano anche i magistrati. Tant’è vero che il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, preoccupato di smentire chi lo dipinge come un no-vax, assicura che i pm del suo ufficio sono tutti vaccinati. Com’è accaduto? Tu dici “personale sanitario” e il vaccino finisce ai diciottenni iscritti al primo anno di medicina o ostetricia. Tu dici “personale scolastico”, e a immunizzarsi sono i docenti a contratto di sociologia dei pesci rossi all’Università di Vattelappesca, in smart working da un anno. Tu dici “caregiver”, e chi non ha un genitore anziano da assistere, anche se abita a centinaia di chilometri di distanza e magari lo si va a trovare una volta all’anno? Così gli anziani sono finiti in coda. Ancor meno protetti erano e sono tutt’ora gli “over 70”. Che in Italia sfiorano i 10 milioni e mezzo e rappresentano l’86 per cento delle morti per Covid. La percentuale di vaccinati una settimana fa era sotto il 20 per cento. Se invece di distribuire vaccini secondo le pressioni delle categorie sulle istituzioni, si fosse scelto il solo criterio anagrafico, i morti per Covid sarebbero stati già da tempo quasi azzerati. Come del resto è accaduto in Gran Bretagna, dove prima hanno vaccinato gli “over 90” al 95 per cento, poi con gradualità anagrafica hanno coperto l’intera popolazione sopra i 65 anni. Dopo l’intervento di Draghi in Parlamento qualcosa è cambiato. Gli “over 80” immunizzati con almeno una dose sono oggi tre milioni, circa due su tre. Ma resta ancora un milione e mezzo di loro senza alcuna copertura. Per risparmiare altre morti si dovrebbe sospendere la vaccinazione di tutte le categorie, e procedere unicamente per diritto di anzianità e di accertata vulnerabilità. Se Draghi avesse potuto disporlo, lo avrebbe certamente fatto. Ma il rispetto dell’autonomia delle Regioni e le difficoltà organizzative di riprogrammare l’intero piano lo hanno indotto a una mera raccomandazione. Un Paese che ha pagato al Covid un tributo di 108mila morti deve interrogarsi se le sue inefficienze e i suoi egoismi non siano complici della strage. Non per aprire inutili inchieste, che pretendano di risolvere con il diritto penale ciò che invece spetta alla responsabilità politica e civile di una comunità. Ma per comprendere senza ambiguità che il corporativismo è stato in Italia il primo alleato della pandemia. Fin da quando il virus è dilagato nei nostri confini grazie a una medicina di base inesistente. A tutt’oggi la partecipazione dei medici di famiglia alla lotta al Covid è marginale. Ma la rigidità delle categorie ha impedito anche di aprire le scuole in estate, di rafforzare i trasporti pubblici, di adeguare molte strutture dell’economia e della società all’emergenza. E, da ultimo, di evitare che la campagna dei vaccini fosse sporcata e ridimensionata dai privilegi. Nessuno perciò può provare “disagio” e neanche “sconcerto” se la macchina della Salute rimette gli anziani nel suo radar. I tribunali civili sono in smart working da tempo. Nel penale alcune Corti d’appello svolgono le loro cause da remoto. Ciò non ha impedito rallentamenti e ritardi che i cittadini già pagano duramente. Rivendicare in questo clima una priorità assistenziale come un diritto sindacale vuol dire vivere sulla luna e tradire il ruolo che l’emergenza assegna alle élite. Le quali mai come oggi sono utili al Paese, se condividono responsabilità, non se estraggono e distribuiscono dividendi sull’economia di guerra di una pandemia. La magistratura scelga finalmente di farsi rappresentare dai più degni. --- Huffingtonpost.it e liberato dall'autore per Avanti! CENTRO INTERNAZIONALE DI BRERA Via Formentini 10, Milano, MI, 20121 - avanti@centrobrera.itAVANTI! reg. Tribunale di Milano n.181 del 2/09/2019 (Ex reg. n.617mdel 26/11/1994) Nome e Marchio registrati Copy n. 0001499832 Direttore: Claudio Martelli Direttore responsabile: Stefano Carluccio Editore: Biblioteca di Critica Sociale
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 02, 2021, 11:27:09 am » |
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Una volta si diceva: sono dei "mangia pane a tradimento".
La scuola e la sanità regionale ne sono affollati.
Oggi peggio di una "volta" alla pochezza di capacità di ruolo, si aggiungno i corrotti dalla partitocrazia di parte. Coloro che storpiano la storia negando la Shoà, diffondono l’odio razziale in modo subdolo e vile, si agitano sotto le bandiere dei vari “NO- “, e speriamo non tornino a fare di peggio.
Qualche decennio fa di cattivi maestri ne era zeppa la società sessantottina. ciaooo
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« Risposta #14 inserito:: Aprile 02, 2021, 11:28:23 am » |
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Chi controlla che le dosi di vaccino manchino realmente?
Esaltare fintamente la loro mancanza è una ottima tattica separatista antiStato.
ciaooo
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