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Autore Discussione: ELEZIONI IN SPAGNA. A Madrid l’olé della folla «A sinistra, andiamo a sinistra»  (Letto 6445 volte)
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« inserito:: Marzo 07, 2008, 03:18:03 pm »

ESTERI

Alla vigilia delle elezioni politiche di domenica intervista a tutto campo al premier spagnolo che lancia la sfida: "Sugli immigrati no a sanatorie"

Zapatero: "Stop ai vescovi devono rispettare le nostre leggi"

"In questi anni sono diminuiti i contratti precari e sono aumentati quelli fissi"

"Vi sembrerà un paradosso per un presidente ma non ho mai parlato con Fidel Castro"

di JAVIER MORENO


Ci sono molti spagnoli convinti che i nazionalismi (Paesi Baschi, Catalogna) abbiano lanciato una sfida su grande scala allo Stato, con l'obiettivo finale a medio termine di un'indipendenza o una semi indipendenza di fatto. È cosciente di questo? La preoccupa?
"Sono nazionalismi, per definizione. E pertanto hanno un progetto che si propone di andare più in là dell'autogoverno. Fa parte della loro strategia politica. Ma non avremo nessun momento, nei prossimi anni, in cui non saremo in grado di armonizzare, di tenere in equilibrio la coesione".

Che ne è stato delle sue ambiziose proposte di riforma, del regolamento del Congresso, del Senato, della Costituzione...?
"Tutte le riforme che dipendevano solo da una maggioranza parlamentare le abbiamo portate avanti. Tutte. Dalle leggi sociali alla Radio Televisión Española [la televisione pubblica]. Non siamo riusciti a portare avanti quelle che esigono la partecipazione del Partito popolare (Pp), come i quattro punti della riforma costituzionale, o il regolamento del Congresso, che logicamente ha bisogno di una maggioranza e di un accordo ampio".

Sa con chi governerà?
"Con l'appoggio del mio partito".

E basta?
"Questo è il mio obiettivo".

Però secondo i sondaggi non avrà la maggioranza assoluta. Non crede che i cittadini abbiano diritto di sapere, prima di andare alle urne, con chi si alleerà?
"Il governo ha collaborato e ha avuto l'appoggio in pratica di tutti i gruppi parlamentari, salvo il Pp, e pertanto qualsiasi accenno a uno scenario di dialogo è prematuro".

È consapevole che i cittadini con redditi medi e medio-bassi sono in competizione con gli immigrati per accedere a servizi la cui qualità si deteriora a vista d'occhio, come ospedali, scuole...?
"La sanità è garantita a tutti gli spagnoli. Abbiamo uno dei migliori sistemi sanitari del mondo, per qualità e per funzionamento. Ha pensioni...".

Con tutto il rispetto, signor presidente, basta farsi un giro in alcuni grandi ospedali per verificare la congestione...
" ... dipende da quali comunità autonome, perché una delle cose che ho fatto in questa tappa è stato trasferire cinque miliardi di euro alle comunità autonome per la sanità..."

Quanti immigrati clandestini ci sono in Spagna?
"Circa 250.000".

Come lo sa? Con questa precisione, intendo...
"Ci sono i mezzi per saperlo. È una stima. E la stima è intorno ai 250.000".

Che cosa pensa di fare con queste persone?
"Nella misura del possibile, rimpatriarle. Non appena abbiamo un immigrante clandestino, lo rimpatriamo..."

Non farà una sanatoria...?
"No, no. Voglio precisare due cose. Quando abbiamo fatto la sanatoria è stata una sanatoria caso per caso. Con contratto di lavoro, con il consenso di imprenditori e sindacati e chiedendo i precedenti penali".

Economia. Il dato sulla disoccupazione registrato a febbraio è pessimo.
"Lo contesto. Anzi, oggi ho qui paio di dati positivi sull'economia spagnola che mi hanno dato stamattina. C'è stato un numero molto alto di contratti a tempo indeterminato. Non mi sembra che se avessimo un clima economico allarmante gli imprenditori continuerebbero a fare contratti, e tanto meno contratti a tempo indeterminato".

Quattro anni fa lei promise una legge sui termini di tempo entro cui poter praticare l'aborto. È una promessa che non ha mantenuto.
"Una sfumatura. Non l'ho mai promesso. Non è mai uscito dalla mia bocca".

È nel suo programma. Pagina 100 del Programma elettorale del 2004: "Riformeremo la legge sul diritto all'interruzione volontaria di gravidanza per adottare un sistema di termini di tempo".
"... non ho ritenuto conveniente modificare la legge".

Centinaia di migliaia, forse milioni di donne saranno deluse.
"Non lo so, non lo so. Io non parlo a nome delle donne. Non parlo a nome loro".

Avrebbe potuto farlo. Disponeva di una maggioranza sufficiente alla Camera.
"Sì, ma non ho ritenuto conveniente farlo e non l'ho fatto. Ritengo conveniente dialogare con il Pp".

Parliamo dei settori integralisti. I vescovi hanno appena eletto presidente il cardinale Rouco Varela, uno degli istigatori di tutte le manifestazioni di piazza contro il suo governo. È un cattivo presagio per i prossimi quattro anni?
"Non facciamo previsioni su quello che succederà. Probabilmente, il fatto che sia stato rieletto presidente della Conferenza episcopale... Per il momento, ha fatto una dichiarazione corretta, il primo giorno, e bisogna dare tempo al tempo".

Questa mattina hanno eletto anche García-Gasco come guardiano dell'ortodossia, che è stato il cardinale che ha detto che lei, con le sue leggi, stava dissolvendo la democrazia.
"È una dichiarazione inaccettabile. Inaccettabile".

Secondo lei è il clima adatto per andare a cena col nunzio apostolico?
"Io sono sempre a favore del dialogo. Sempre".

Tuttavia, ha dichiarato che nella prossima legislatura, se vincerà, metterà i puntini sulle "i" ai vescovi.
"A certi che hanno fatto dichiarazioni, sì".

Che cosa dirà loro?
"Una ragione molto evidente: che devono rispettare le leggi approvate dal Parlamento. Possono non essere d'accordo, ma non possono fare affermazioni come quelle sul fatto che sono una ferita per la democrazia, o che rappresentano un passo indietro per i diritti umani".

Crede che il problema del Kosovo si sia avviato verso la soluzione con l'indipendenza?
"Soluzione no, andrà ad aumentare le tensioni e le difficoltà. La mia posizione sul Kosovo è nota: risponde a esigenze di coerenza, il governo non sosterrà nessuna dichiarazione che non abbia l'appoggio delle Nazioni Unite".

Appoggerebbe l'ingresso del Kosovo nell'Unione Europea?
"No".

Quando ha parlato l'ultima volta con Fidel Castro?
"Non ho mai parlato in vita mia con Fidel Castro".

Non ha mai parlato con lui?
"No. Questi sono i paradossi con cui bisogna convivere, no"?
(L'intervista è stata realizzata dal Direttore de El Pais) (Copyright El Pais-la Repubblica/ Traduzione Fabio Galimberti)

(7 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 07, 2008, 03:22:22 pm »

Toni Fontana


Nicolas Sartorius, che ci accoglie nella sede della Fondazione Alternativas «spazio d’incontro dedicato al rinnovamento del pensiero progressista», è stato uno dei protagonisti della transizione spagnola. Nei sei anni trascorsi nelle carceri franchiste ha fondato le Comisiones Obreras, è stato quindi deputato e dirigente della sinistra. Ora scrive commenti e dirige la Fondazione. Sostiene che «Zapatero ha rinnovato la socialdemocrazia, ha posto il cittadino e i suoi diritti al centro dell’azione politica», e parla del «milleurista», il giovane laureato qualificato diventato un protagonista (precario) del «miracolo spagnolo».

Cominciamo con i meriti di Zapatero. Quali sono secondo lei i principali?
«Ha privilegiato il potenziamento dei servizi sociali pubblici, ha approvato la “ley de dependencia” (assistenza a disabili, famiglie con anziani a carico Ndr). Il Pp si schiera per le privatizzazioni nella sanità e nell’educazione. Il governo ha legalizzato 700mila immigranti, il Pp si è opposto e propone un “contratto di integrazione” inaccettabile».

Che stabilisce l’obbligo al rispetto dei “valori spagnoli”.
«Già, ma i valori sono plurali, i miei non sono quelli di Rajoy. Nel contratto saranno specificati i valori di Rajoy o i miei?»

È un’idea di Sarkozy.
«Certo, nel corso delle ultime elezioni Sarkozy ha strizzato l’occhio all’ultradestra, all’elettorato lepenista, e qui in Spagna non è diverso. Non è necessario firmare nessun contratto “integrativo”. La destra vuole aizzare gli immigrati latino-americani contro quelli arabi. Torniamo dunque al punto iniziale: Psoe e Pp presentano progetti opposti su welfare, immigrazione, economia. Ci sono i progressisti di centrosinistra e i conservatori che si sono spostati molto a destra. Rajoy si è avvicinato alla posizioni più retrive dei cardinali cattolici vicini al Papa e Zapatero ha accentuato la laicità dei suoi programmi, ha stabilito che l’insegnamento religioso non conta agli effetti accademici ed è volontario».

Zapatero, nei duelli televisivi, parla di una “Spagna europeista”. Intende “esportare” il suo programma?
«Persegue un progetto socialdemocratico moderno, non tradizionale: più diritti civili ed economici, più libertà per i cittadini. La Spagna sta crescendo ad un ritmo quasi del 4%, un punto e mezzo in più della media europea. Sono stati creati 3 milioni di posti di lavoro, la disoccupazione che era al 11,5% nel 2004 ed ora si attesta al 8,4%, l’eccedenza di bilancio è del 2,3%, il debito è al 38% del Pil, una dei piu’bassi in Europa».

Questo “miracolo” spagnolo si basa anche sul lavoro precario.
«Ci sono diverse chiavi di lettura. In Spagna lavorano 20 milioni di persone, 4 in più rispetto a quando Zapatero vinse le elezioni. Molte donne lavorano, il tasso di occupazione femminile è aumentato enormemente. Gli immigranti sono un fattore di crescita. In Spagna lavorano 4-4,5 milioni di immigrati, il 10% della popolazione. Le chiavi dei rilancio sono: più lavoro per tutti, inserimento degli immigrati, utilizzo con competenza dei fondi europei. La Spagna è il terzo paese del mondo in quanto a reti ferroviarie ad alta velocità, solo Giappone e Usa sono più avanti, la rete di autostrade è aumentata del 30% negli ultimi anni, sono stati potenziati porti e aeroporti. Le imprese spagnole hanno creato importanti multinazionali, il turismo è in crescita».

Insisto sul problema della precarietà. Quali regole sono state fissate in Spagna?
«Il lavoro precario è diffuso. Il negoziato con sindacati e imprenditori si è concluso con la firma di un patto. La precarietà 4 anni fa era al 33% ora è al 28%. Oggi si firmano piu contratti a tempo indeterminato che a termine. I contratti a termine sono tuttavia ancora molto diffusi. La domanda che ci siamo posti in Spagna è questa: è meglio che un giovane lavori e guadagni poco nella fase iniziale del suo inserimento o che non lavori affatto? Abbiamo scelto la prima strada: i giovani lavorano, ottengono un primo impiego ad un salario basso. Abbiamo coniato il termine “milleurista”, ce ne sono molti, sono giovani universitari che finiscono gli studi, hanno spesso due master, ed entrano nelle imprese della “nuova tecnologia” per 1000 euro al mese. Ci sono diverse modalità di contrattazione ovviamente. L’impegno è quello di dare loro una prospettiva».

Il Psoe vincerà le elezioni?
«Penso di sì. Per la prima volta si è approvata una legge per tutelare 3 milioni di lavoratori autonomi, sono stati varati provvedimenti in favore dei più deboli, ogni donna che partorisce un figlio riceve 2500 euro, è stato aumentato il salario minino (da 400 a 600 euro), coloro, soprattutto i giovani, che sono in difficoltà ad affittare una casa ricevono 220 euro al mese. Sono stati affrontati i grandi problemi sociali. La destra ha cercato di strumentalizzare il problema del terrorismo, ma negli ultimi quattro anni vi sono stati meno delitti (4) rispetto al passato. È stato approvato lo statuto di autonomia della Catalogna, ciò ha generato una reazione in una parte della società che teme che “la Spagna si rompa”, ma credo che gli elettori capiranno. Penso che il Psoe vincerà con un margine superiore a 4 anni fa».




Pubblicato il: 06.03.08
Modificato il: 06.03.08 alle ore 9.40   
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 08, 2008, 12:11:56 pm »

Le parole chiave: convivenza e riconoscimento delle identità

Il «socialismo amabile» di Zapatero alla prova della sfida terrorista

Nel 2004 i separatisti proposero la tregua.

Il premier allora offrì ai baschi il diritto all'autodeterminazione


Ha dovuto cambiarsi d'abito e rinunciare al comizio finale, proprio come l'altra volta. Nel marzo 2004 il terrore islamista diede a Zapatero una vittoria inattesa. Domani il terrore basco può rendere ancora più netto un successo annunciato da tutti i sondaggi, o capovolgere il verdetto. Soltanto la notte prima, al palazzo olimpico di Barcellona gremito di 40 mila militanti, Zapatero sorrideva in maniche di camicia mentre Felipe Gonzalez comiziava sull'Eta «che non è mai stata debole come ora, ma grazie alla destra non è mai stata tanto citata come ora». Ieri Zapatero è dovuto rientrare a Madrid in elicottero dall'Andalusia dove si era portato nel frattempo, ha preso il lutto – giacca nera, camicia bianca, cravatta scura –, raggiunto la Moncloa, sede del governo, e annunciato la morte politica dell'Eta. Per la seconda elezione consecutiva, la Spagna vede la campagna elettorale interrotta dal terrorismo. Stavolta però non è sull'azzardo iracheno di Aznar che giudicheranno gli elettori, ma sul «socialismo amabile » di Zapatero.

Il dialogo con l'Eta, l'apertura al nazionalismo basco non sono aspetti marginali della sua politica. Sono anzi conseguenze inevitabili. Bisognava sentirlo il premier, nell'ultimo comizio — in quella Catalogna che si è data uno Statuto in cui si definisce «nazione» —, ripetere le parole chiave di quattro anni di governo: convivenza, integrazione, riconoscimento delle diversità e delle identità che compongono la Spagna. Lo stesso principio che gli ha ispirato scelte discusse più all'estero che in patria — come il matrimonio omosessuale —, la stessa attenzione alle minoranze, il medesimo spirito irenico, pacificatore, tollerante, in una parola «amabile», l'ha indotto a infrangere il mito castigliano del centralismo, a teorizzare la «Spagna plurale», a cercare la pace con i separatisti.

Zapatero si è illuso di potersi avvicinare agli estremisti baschi con lo stesso animo insieme scaltro e generoso con cui ha nominato 9 ministri donna su 18, ha stabilito che i transessuali possano cambiare sesso all'anagrafe anche senza passare per la clinica, e ha portato con sé per tutta la campagna elettorale un gruppo entusiasta di sostenitori sordi, che hanno inventato un segno (l'indice ad arco sopra l'occhio, a mimare un sopracciglio arcuato proprio come il suo) divenuto simbolo universale di Zapatero e della forza amabile fattasi ieri — forse al momento giusto, forse troppo tardi — brusca, decisa, ferma.
Era stata l'Eta a proporre la tregua. Dieci giorni dopo la strage islamica dell'11 marzo, una settimana dopo la vittoria del Psoe, i baschi si fanno vivi con un comunicato al quotidiano Gara,
offrendo al nuovo premier una trattativa. Zapatero risponde ufficialmente di no, ma in cuor suo decide di andare a vedere le carte, pensa di potersi fidare, e un anno dopo ottiene dalle Cortes il via libera al negoziato. Offre parecchio: legalizzazione del braccio politico dell'Eta, che non si chiama più Batasuna ma Anv, Azione nazionale basca; liberazione graduale dei prigionieri; riconoscimento del principio di autodeterminazione, che consentirà ai baschi di scegliere il proprio destino.

Il 29 dicembre 2006, Zapatero si lascia andare a una delle ingenuità che gli vengono rimproverate: annuncia che le cose si mettono bene, e «tra un anno staremo meglio». Il giorno dopo l'Eta alza la posta, fa esplodere una bomba che sventra il terminal 4 dell'aeroporto di Madrid, da poco inaugurato, uccide due ecuadoregni e decreta il fallimento del premier. La tregua è infranta. I terroristi fanno saltare l'auto di un dirigente socialista ferendo la sua guardia del corpo, poi nascondono una bomba sul percorso di re Juan Carlos, quindi uccidono due agenti in Francia. Ieri, per la prima volta in quarant'anni, colpiscono alla vigilia delle elezioni. Zapatero e Rajoy rinunciano al comizio finale, partono per Mondragon, il paese dell'agguato — dove l'Anv legalizzato da Zapatero è al governo — e chiedono agli spagnoli di decidere senza farsi condizionare. Né hanno elementi per capire quale influenza avrà stavolta il terrorismo.
Il Paese basco è terra di misteri. I fiumi scorrono dalla foce alla sorgente (è un effetto dell'alta marea dell'oceano), vi si parla una lingua enigmatica («per favore » si dice mesedez, «grazie» eskerrik asko, il resto è conseguente).

E' possibile che il sangue sparso dall'Eta (Euskadi Ta Askatasuna, Terra basca e Libertà) induca gli spagnoli a stringersi attorno al governo in carica; dopotutto, la vittima è un socialista. Ma è possibile anche che gli elettori vedano nel Partido Popular la forza più intransigente verso separatisti e terroristi. Deve pensarla così la mano sconosciuta che la scorsa notte ha deposto, nei cinquantuno angoli di Madrid in cui l'Eta ha colpito dal '68 a oggi, un mazzo di fiori e una scritta: «Ricordatevene, quando andrete a votare». E' stato commemorato anche l'ammiraglio Carrero Blanco, il primo ministro di Franco che nel '73 il tritolo basco scaraventò in cima a un palazzo. Felipe Gonzalez, che allora si chiamava Isidoro e viveva in clandestinità, confessò di non aver pianto, quella volta. Zapatero aveva appena tredici anni. Il suo non è stato un tempo di guerra ma, per usare le sue parole, di «rispetto», «integrazione », «convivenza», «tolleranza ». «Siamo il Paese al mondo più avanzato sulla strada dei diritti civili», è stata l'ultima frase della campagna che ha potuto pronunciare. Se la Spagna è davvero soddisfatta di lui, o anche solo di se stessa, il tempo di Zapatero continuerà.


Aldo Cazzullo
08 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 08, 2008, 12:13:51 pm »

Intervista: Lo storico e giornalista Vidal

«Altro che miracolo: i soldi dello Stato finiscono per alimentare la violenza»

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI


MADRID — Il sangue del terrore e l'arena del voto: ci risiamo? «No. La situazione è completamente diversa rispetto alle elezioni 2004. Allora, si temeva da un paio d'anni un grande attentato. E la strage di Atocha arrivò quando la tensione era molto alta. I media ebbero molta influenza sull'opinione pubblica. Questa volta, no. Qui c'è uno sforzo di tutti a non strumentalizzare le azioni dell'Eta». Le pallottole basche sorprendono lo scrittore Cesar Vidal a radio Cope, dov'è a preparare una delle sue popolarissime trasmissioni. Concede qualche minuto: «Non credo che questo attentato influirà sul voto. Lo vedo già dai commenti sul mio sito. Anche se un primo effetto c'è: il timore dei socialisti, spaventati da una possibile smobilitazione dei loro elettori. Dopo Atocha, ci fu una grande mobilitazione al voto. Stavolta potrebbe giocare un'astensione».

L'attentato è un messaggio a Zapatero?
«Quelli dell'Eta sono terroristi, ma non sono stupidi. Il messaggio è molto chiaro: chiunque vinca domenica, noi abbiamo un obiettivo e lo raggiungeremo coi mezzi di sempre».

Ma com'è possibile che la Spagna dei miracoli non venga a capo d'un terrorismo vecchio di quarant'anni?
«Fondamentalmente, per due ragioni. La prima è che il terrorismo basco gode da almeno 25 anni dell'appoggio economico e politico dei partiti nazionalisti. C'è una ricerca dell'università di Madrid, condotta dal professor Mikel Buesa Blanco (il fratello del quale fu assassinato dall'Eta,
ndr), che dimostra quanti soldi del governo basco sono arrivati al braccio militare. La Spagna è il primo Paese al mondo che paga il suo terrorismo. Le istituzioni partecipano di fatto a un progetto di lotta armata».

E l'altra ragione?
«Il terrorismo si sconfigge solo se c'è una strategia unica. Nell'ultima legislatura di Aznar, quest'unità s'è vista. C'era stata una rottura netta con l'Eta e con tutto il mondo dell'autonomismo che vi gira intorno. Tanto che l'Eta era moribonda. Adesso ce la troviamo nel parlamento e nelle municipalità baschi! È stato il grande errore di Zapatero: come fanno giudici e poliziotti a strangolare il terrorismo, se poi il governo si siede a un tavolo e apre una trattativa?».

Crede se ne sia pentito?
«Non credo che uno Zapatero 2, se ci sarà, cambierà molto la sua politica verso i baschi. Lui ha un progetto politico chiaro. E i partiti nazionalisti ne fanno parte, perché gli servono».

Lei scrive per giornali conservatori: perché per quattro anni avete sostenuto che le bombe del 2004 le aveva messe anche l'Eta, quando non era vero?
«Il punto è che sull'attentato dell' 11 marzo, la versione ufficiale non convince. E a dirlo sono gli stessi giudici del processo: non sappiamo chi sono i mandanti della strage, sappiamo che non c'entrava con l'Iraq, sappiamo che ci sono stati errori giudiziari, non conosciamo tutti gli esecutori materiali... Anche la gran parte dei condannati è stata condannata per altri delitti. La verità non la sappiamo ancora».

Quei morti sancirono la fine del governo Aznar. Questi attentati dell'Eta appannano la scintillante immagine della Spagna nel mondo?
«Quest'immagine non è sempre corretta, però non penso che il terrorismo possa danneggiarla sul serio. Ha fatto peggio la politica di Zapatero nei confronti delle imprese straniere, quando in sede europea è stato condannato per aver impedito a una società tedesca di comprare la Endesa, la società elettrica di Spagna. Questo è stato un segnale tremendo: la Spagna che chiude le porte a chi vuole investire! Un'immagine da repubblica delle banane: qui si fanno affari se si è amici d'un certo giro politico...».

Francesco Battistini
08 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 08, 2008, 04:44:17 pm »

Quella spina chiamata Eta

Gianni Marsilli


Gli è riuscito quasi tutto, a Zapatero, in questi quattro anni di governo. Crescita, occupazione e redditi hanno continuato ad aumentare, malgrado qualche recente colpo di tosse. La società civile, al centro della sua azione riformatrice, si è attestata ai massimi livelli di modernità e di rispetto dei diritti individuali.

Il confronto con la Chiesa è stato rude ma rispettoso, e il premier spagnolo non ha ceduto di un millimetro. La sinistra spagnola ha confermato la sua maturità e la sua capacità di governo. La democrazia, forte dell´alternanza, non ha nulla da temere. Tranne per una spina che la fa soffrire, e che porta in sé i pericoli di un´infezione. La spina si chiama Eta, ed è tuttora conficcata nel corpo della Spagna.

Era jihadismo quello di quattro anni fa, quando una scheggia della galassia qaedista fece saltare per aria i treni in arrivo a Madrid, 192 morti. È jihadismo quello che si è manifestato ieri, facendo del socialista Isaias Carrasco la 820esima vittima del terrorismo basco in quarant´anni di attività. I contesti sono diversi, ma la cecità è la stessa. Come i loro omologhi binladiani, gli assassini dell´Eta non vedono alcunché del mondo che li circonda. All´inizio erano antifranchisti, poi sono stati del tutto indifferenti all´avvento della democrazia, in seguito vagamente attratti da un marxismo radicale, oggi sono immersi in un delirio che mescola antimondialismo ed ecologismo reazionario. Per tutto ciò, un solo collante: la lotta all´«oppressione» dello Stato spagnolo. Ecco, forse l´errore di Zapatero è stato di aprire un dialogo con questa gente, o meglio con il loro braccio politico. Non voleva credere, il premier spagnolo, che l´accecamento ideologico e la povertà culturale perdurassero in tale misura. Lui parlava alla Spagna degli individui e dei cittadini, accelerava il divorzio e garantiva tutti i diritti agli omosessuali, regolarizzava i clandestini e riformava la scuola. Mentre quelli pensavano alla Spagna dei «popoli», come dieci secoli fa.

Dal 2006 il negoziato è interrotto. Di esso rimane però l´impressione di aver regalato all´Eta lo statuto di interlocutore. È stato il cavallo di battaglia della destra, naturalmente, ma non per questo è meno fondato. Anche perché i socialisti spagnoli, per ragioni di governabilità, flirtano qua e là con altre forze nazionaliste. Confidano, come in Catalogna, di limar loro così gli artigli più acuminati, e di includerle pienamente nel rito democratico. Ma sono costretti a giocare con le parole: autonomia, separatismo, indipendenza... Si coltiva, in questo gioco di alleanze, uno spazio piccolo ma pericoloso. Quello spazio in cui, la sera stessa in cui il Kosovo si proclamava indipendente, i catalani di Esquerra, il partito più nazionalista, si riunivano e festeggiavano stappando bottiglie di «cava», l´eccellente spumante regionale. Niente di male, se non fosse che del manipolo di deputati di Esquerra a partire da lunedì, con buone probabilità, Zapatero avrà bisogno per governare. E infatti la Spagna ha finora rifiutato ogni riconoscimento al Kosovo neonato. Se l´Eta è la spina, il nazionalismo è dunque l´infezione. Che prenderebbe nuovo vigore qualora la destra spagnola, sempre più nazional-cattolica e sempre meno liberale, quasi in odore di tardofranchismo, dovesse tornare al governo. Soprattutto per questo la vittoria di Zapatero sarebbe preziosa, per la Spagna e per l´Europa.

Pubblicato il: 08.03.08
Modificato il: 08.03.08 alle ore 13.30   
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 09, 2008, 11:57:37 pm »

9/3/2008
 
Zapatero il precursore
 
BARBARA SPINELLI

 
Scrive El País, giornale fiancheggiatore di José Zapatero nelle elezioni che si svolgeranno oggi in Spagna, che ancora una volta il terrore e la militarizzazione del pensiero hanno soppiantato il pacifico duello democratico, esattamente come accadde quattro anni fa, quando un attentato islamico colpì Madrid seminando 191 morti: ancora una volta è la pistola contro il voto, l’irrazionalità violenta contro la razionalità della meditazione cittadina. L’editorialista del quotidiano parla di maledizione: ieri fu l’Islam radicale a colpire, oggi è stata l’Eta a uccidere un ex consigliere comunale, il socialista basco Isaias Carrasco.

L’attentato è vissuto come una maledizione perché sembra fatto apposta per screditare e distruggere la svolta che Zapatero da tempo impersona: svolta di natura politica e culturale. La maledizione è spagnola ma non solo. È come se qualcuno avesse deciso che si torna alla casella di partenza, prima che l’alternativa-Zapatero s’imponesse: qualcuno che ripropone la complicità fra nuove destre e terrore. Questa volta Zapatero non osserva da fuori gli eventi, è dentro il tifone. Sotto tiro c’è quel che incarna da quando, il 14 marzo 2004, sconfisse Aznar: la grande e prima alternativa nella lotta antiterrorista inaugurata dopo l’11 settembre 2001. Per questo il voto spagnolo di questa domenica è così importante, per l’Europa e l’America. Quando negli Stati Uniti ancora non era apparso Obama, fu Zapatero infatti il primo segno che la democrazia può produrre qualcosa di diverso dalla politica della paura e delle menzogne, dall’arroccamento che consiste nel dare più sicurezza e meno libertà, meno diritti. Zapatero è precursore, è il primo a mostrare come sia possibile contrastare lo Spirito dei Tempi, la rivoluzione conservatrice americana culminata nell’esperienza Bush.

C’è lo stesso elemento gioioso, in Zapatero e Obama, lo stesso sprezzo verso alcune certezze dell’establishment: la certezza che la democrazia vada ristretta, che il politicamente corretto sia una minaccia, che lo Stato perda forza morale se è pienamente laico. Un evento analogo ha fatto nascere la risposta di Zapatero, e poi quella di Obama: l’attentato madrileno dell’11 marzo 2004 nel primo caso, l’11 settembre e la guerra in Iraq nel secondo. Li accomuna anche lo sguardo fiducioso verso il futuro: senza cedimenti all’apocalittico, cupo pensiero dominante. Anche di Zapatero, nel 2004, Hillary Clinton e McCain avrebbero detto: quest’uomo non ha esperienza, è troppo nuovo per i nostri paesi, quel che ci vuole non è lo sperimentale ma il collaudato. Aznar, che aveva l’esperienza ma cui mancava tragicamente la capacità di giudizio, vedeva nell’avversario una nullità, debellabile con qualche furbizia. Il nomignolo che veniva dato a Zapatero è significativo. Per aver teorizzato un’Oposición Tranquila lo soprannominarono Bambi, o peggio Sosoman. A differenza di Superman, quest’ultimo era un irrimediabile soso: un insipido, senza sale. Accuse simili colpiscono oggi Obama, o Veltroni in Italia. Non sono ritenuti abbastanza aguzzi, aggressivi.

Non condividono quello che fino a ieri sembrava il moderno ma che Zapatero ha d’un colpo fatto invecchiare: l’arroganza bellicosa, l’apocalittismo politico, il terrore usato per aumentare i poteri dei governanti. Prima di Obama, fu Zapatero a insorgere contro i mali che l’apocalittismo secerne: l’uso cinico della paura. Il pessimismo sprezzante con cui si guarda al cittadino-elettore, spaventato e infantilizzato. Egualmente significativo è che Zapatero sia divenuto bersaglio tra i più temuti delle gerarchie cattoliche: soprattutto da quando Ratzinger è Papa. Con Benedetto XVI una parte della Chiesa ha scoperto l’utilità della paura, dello sguardo aggrondato e disastroso sul mondo e sulle libere coscienze. In fondo si è congedata da Giovanni Paolo II, che fu un conservatore sulle questioni morali ma che aveva saputo dire: «Non abbiate paura», come se identificasse in questa passione paralizzante, rattristante, uno dei mali contemporanei maggiori. A loro modo Zapatero e Obama hanno ripreso quell’appello, e fa impressione vedere come la Chiesa oggi li avversi, interferendo nelle loro politiche. La presa di posizione della Conferenza episcopale spagnola contro Zapatero è netta, soprattutto da quando Rouco Varela, arcivescovo di Madrid e molto conservatore, è stato eletto ­ il 4 marzo ­ presidente della Conferenza al posto del più moderato vescovo di Bilbao, Ricardo Blázquez.

Ma già prima, il 30 gennaio, la Conferenza episcopale aveva diffuso una nota in cui il cittadino veniva invitato a punire chi aveva screditato la Chiesa nazionale con la legge sulla memoria franchista, l’aveva offesa con i matrimoni gay e il divorzio facile, aveva pensato di poter dialogare con l’Eta se l’Eta avesse rinunciato alla violenza. Se gli attacchi a Zapatero sono stati così diffusi in Spagna ed Europa vuol dire che non era così Sosoman, insulso. Che indicava una via temibile, perché praticabile. Come Obama dopo di lui, come Prodi e poi Veltroni, egli impersonava quel che sembrava improponibile a tanti: la possibilità di avere speranze anche se l’insperabile dilaga; di rispondere con più democrazia alla democrazia inferma; di integrare immigrati e diversi; di governare con pazienza e non in continua tensione. Non stupisce che Zapatero sia un estimatore di Borges, perché la grande letteratura aiuta ad avere un sguardo meno momentaneo: che adori in particolare il Libro di Sabbia. Juan Cruz, condirettore del País, ricorda il racconto sull’Utopia di un uomo che è stanco, che narra dell’incontro con un probabile uomo del futuro e gli fa dire: «I fatti non interessano più nessuno. Sono semplicemente dei punti di partenza per l’invenzione e il ragionamento. Nelle scuole ci insegnano il dubbio e l’arte dell’oblio. La stampa, ora abolita, è stata uno dei peggiori mali dell’Uomo, giacché la sua tendenza è stata quella di moltiplicare fino alla vertigine testi inutili». Zapatero qualche esperienza nel frattempo la possiede.
Non pochi elementi della sua alternativa si sono rafforzati (separazione ferrea Stato-Chiesa, legge sulla memoria franchista, educazione civica insegnata a scuola, riformismo nei costumi) ma ha fatto anche concessioni. Contrariamente a quel che vien detto in Italia, ha concesso molto anche alla Chiesa: troppo, secondo suoi estimatori. Soprattutto quando ha cercato di ammansirla finanziariamente, o ha patteggiato sull’insegnamento, inviso a tanti vescovi, dell’educazione civica. Nell’accordo col Vaticano del dicembre 2006, in cambio dell’impegno del clero a pagare l’Iva, la quota versata alla Chiesa dal contribuente viene aumentata, passando dallo 0,52 allo 0,7 per cento. L’opposizione del Partito popolare è stata singolare, in questi anni. Nominato da Aznar, Mariano Rajoy ripete i suoi slogan, ne è inerte prigioniero: stesso catastrofismo, stessa strumentalizzazione della paura, stessa incapacità ad accettare la perdita del potere (un’incapacità condivisa con la destra italiana: anche in Spagna il potere di sinistra è giudicato illegittimo, innaturale). Rajoy ripete Aznar, sposa addirittura i suoi fallimenti, compresa la guerra in Iraq. Anche dopo l’attentato Eta reagisce slealmente: invece di solidarizzare con i governanti, Rajoy ha subito intravisto un profitto. Ha chiesto che nel comunicato congiunto di venerdì venisse revocata la decisione approvata dal parlamento, favorevole a futuri negoziati con l’Eta. Può darsi che la maledizione avvantaggi stavolta i Popolari, dando loro un’inaspettata vittoria. Tutto è possibile, quando la cultura dell’accountability ­ del render conto ­ viene applicata ai governanti e non vale per chi ha fatto l’opposizione più o meno onestamente. Tutto è possibile, quando la politica della paura torna a occupare il palcoscenico, senza alternative.

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« Risposta #6 inserito:: Marzo 10, 2008, 02:51:14 pm »

Tra i cattolici di radio Cope

L’allarme dei vescovi: «Il Paese si disgrega»

«A rischio l’unità nazionale, vince la cultura del '68. È cominciata la seconda Transizione»

Il direttore, José Luis Restan: «Non siamo a una nuova guerra civile, ma è cominciata la seconda Transizione»

 
MADRID — L’usciere peruviano sgrana il rosario. Gli exit-poll sono attesi con la devota tensione con cui in Vaticano Pio V aspettò – per 16 giorni – la notizia della vittoria cristiana a Lepanto. Stavolta però hanno vinto i turchi. E sotto la redazione della Cope, la radio dei vescovi baluardo di una Spagna oggi sconfitta, non vengono i simpatizzanti del Partido popular, come dopo le grandi manifestazioni della destra che si tengono qui vicino, a piazza Alcalà o a piazza Colon; passano beffarde le auto degli elettori socialisti, a suonare il clacson in segno di vittoria e di sfregio. «Ma non siamo noi ad aver perso. E’ la Spagna che ha scelto di correre seri pericoli, consegnando il potere per altri quattro anni a Zapatero» dice grave il direttore, José Luis Restan.

Rede Cope, tre milioni di ascoltatori, seconda radio del Paese, è diventata protagonista della campagna elettorale non tanto per scelta propria quanto della sinistra. Attaccare i vescovi in Spagna porta voti. «Indeciso? Ascolta la Cope ogni mattina » era scritto sui manifesti del partito socialista a Barcellona. Sono diventate star o bersagli i due commentatori che per settimane hanno massacrato Zapatero: Cesar Vidal, divorziato e accanito difensore della famiglia, e Federico Jimenez Losantos, che Felipe Gonzalez nei comizi chiama Losdemonios. Ma la mente politica di Cope è Restan, il direttore. Autore di un pamphlet antisocialista («Diario de una legislatura »), cultore di storia patria, la sua non è una polemica virulenta, è un lamento per la Spagna che da tempo considera minoritaria, e quindi perdente.
 
Arrivano qui in calle Alfonso XII le prime chiamate degli ascoltatori, spaventati più che arrabbiati. La domanda si ripete: «Che ci succederà ora?». Sostiene il direttore, davanti a una tazza di caffè senza zucchero, che i rischi sono molti. «Il processo di disgregazione nazionale, che Zapatero ha accelerato trattando con Eta e approvando lo Statuto catalano, proseguirà. A ottobre i baschi voteranno per l’autodeterminazione, e il Psoe non avrà la forza di fermarli. Certo non accadrà in pochi mesi, ma la Spagna unita come l’abbiamo conosciuta rischia di non esistere più». Le ferite che si riaprono, è la linea della Cope, sono le stesse del ’36: Madrid contro i separatisti; e lo Stato contro la Chiesa. «Ovvio che non siamo alla vigilia di una guerra civile — sorride amaro Restan —. Però con Zapatero è cominciata una seconda Transizione, che non pretende solo di riscrivere la storia, ma di rimodellarla. Molti nel Psoe non la pensano come lui, ma tacciono, a maggior ragione ora. Zapatero e i suoi non amano la storia spagnola. La considerano triste. Detestano i Re Cattolici che hanno costruito il Paese. Rinnegano l’evangelizzazione delle Americhe, narrata come impresa criminale. Rifiutano la tradizione cristiana, ridotta a Inquisizione e autodafé. Rappresentano la guerra civile come scontro tra buoni e cattivi. E mettono in discussione pure la monarchia: Zapatero è arrivato a dire che Juan Carlos va bene perché è un re quasi repubblicano! ».

Il conduttore legge i primi dati e tenta di consolare il pubblico: «Coraggio, la maggioranza assoluta forse non ci sarà, il Pp non è andato così male…». Il direttore commenta: «Il Pp non è un partito cristiano. E’ un partito laico, che non ha ingaggiato una battaglia culturale con la sinistra. Zapatero ora potrà continuare la sua rivoluzione culturale laicista, basata sul capovolgimento della Scrittura: non "la verità vi farà liberi", ma "la libertà vi farà veri". E’ un motto della Gioventù socialista, ed è la linea del governo che la maggioranza degli spagnoli ha approvato. I desideri si convertono in diritti: matrimonio omosessuale, divorzio lampo, aborto. L’uomo e la vita sociale sono una pagina bianca, materia informe da plasmare a piacimento, grazie a un consenso tremendamente malleabile dal potere politico e mediatico. Un potere come quello descritto da Pasolini, che non si impone più con la violenza ma in modo sottile, abile, ambiguo; un potere come quello dipinto da Goya nelle Pinturas Negras. Lo Stato, oltre alla storia, rimodella l’individuo, educandolo al laicismo fin dalla scuola. La vittoria di Zapatero è la vittoria, quarant’anni dopo, della cultura del ‘68».

I dati regione per regione confermano che il voto di stanotte si regge su radici storiche: la mappa politica della Spagna continua ad assomigliare a quella del luglio 1936; il Pp vince là dove il pronunciamento di Franco riuscì, in Galizia, nella Vecchia Castiglia, in Navarra, altrove arretra, in Catalogna quasi non esiste. «A Barcellona Rede Cope è ascoltata quasi clandestinamente, come da voi un tempo Radio Londra— racconta Restan —. Ci sono imprenditori che comprano la pubblicità a patto che non venga trasmessa in Catalogna. Ma noi giornalisti non siamo politici; siamo "provocatori", nel senso positivo in cui ci definiva don Giussani; rappresentiamo la minoranza che resiste. Alcuni miei amici parlano di Zapatero come di un marziano. Questi risultati confermano che non è così. Più che cercare lo scontro con un governo vincitore, per i vescovi e i credenti è tempo di ricominciare l’evangelizzazione, di lavorare alla riconquista della società».

Aldo Cazzullo
10 marzo 2008

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« Risposta #7 inserito:: Marzo 10, 2008, 02:52:33 pm »

ELEZIONI IN SPAGNA

A Madrid l’olé della folla «A sinistra, andiamo a sinistra»

Il premier accolto tra barili di birra. Nervoso e felice, sale e scende le scale. Un po’ di pizza, molta acqua


MADRID — Un grido: «A sinistra! Mettetevi a sinistra! Mai a destra!». Tutti si spostano da quella parte e fanno passare l’onda rossa che riempie presto il cuore di Madrid e la sua pancia socialista, in calle de Ferraz. Le bandiere, le trombe da stadio arrivano subito. I primi a capire come andrà sono i vigili: bloccano la strada. Poi s’accende la videata, venti plasma accesi, 700 giornalisti appesi. Trionfo, è la parola. Zapatero aspetta due ore prima di goderselo con la folla che non lo lascia nemmeno parlare, prima di dire la cosa più importante: governeremo, ma dialogando, «con mano ferma ma tesa». Prudenza inutile, stasera e stavolta. Gli exit sono l’esito che aspettava. Non l’assoluto, ma quanto basta. E perfino al cauto José Blanco, il segretario che avrebbe preso lo scettro di Zp se le cose fossero andate male, pure a lui scappa alla fine quell'urlo: a la izquierda, signori, meglio mettersi a sinistra, «oggi sappiamo che il cambiamento è valso la pena e speriamo che la Spagna del 2012 sia migliore della Spagna del 2008».
 
Ri-Zapatero. Con qualche se e qualche ma. Proiezioni della tv di Stato, olé. Sondaggi di Antenna 3, olé. Exit poll di Telecinco e della Cuatro, olé olé. Va male l’Andalusia, zoppica la Catalogna, qualche brivido finale quando la forbice si stringe e il trionfo diventa una vittoria. Numeri netti, però. Il Bambi, come lo chiamavano quattro anni fa e ora nessuno osa più, si gode la rivincita chiuso fino all’ultimo nel suo ufficio del quarto piano, al numero 70 della calle. Stremato dalle due settimane di comizi, dai quindici regioni senza stop e dai 13.547 chilometri percorsi. Nervoso e felice, sale e scende le scale. Un po’ di pizza, molta acqua. L’ultimo appello di giornata era stato contro l’astensione, «il Paese è più forte se tutti vanno a votare».

Capisce presto, leggendo fra le cifre dell’affluenza: molta gente alle urne, buone notizie per lui. Al quinto piano, nella stanza di Blanco, c’è la più fedele delle sue ombre, Sonsoles, diciott’anni di matrimonio. Le due bambine a casa, ancora in piedi ma ancora troppo piccole per buttarsi in questa notte. Arriva l’ingrigito Felipe González. Festa grande, quattordici barili di birre, settanta damigiane di vino, mille lattine di Coca, seimila panini, si fanno le due, le tre. Festa di pueblo con la vecchia Felipa Plaza, novant’anni d’età e sessanta di tessera Psoe, che grida «bello!» appena Zp si fa vedere da una finestra, che dice «sono venuta perché le elezioni sono come il calcio, e vincere sul campo è molto più bello che batterli guardando la tv!». Festa spontanea, coi volontari socialisti scesi a dare una mano dalla Romania, dal Belgio, dall’Estonia, dall’Inghilterra. Festa di potere con i mille nani e le tante ballerine che s’affollano sul carro del trionfatore. S’abbracciano i cantanti Ana Belén, Victor Manuel, Rosa Leòn. Si spellano le mani gli attori Fran Perea, Alvaro De Luna, Roberto Alvarez. Ride rumorosa Elena Benarroch, celebre matita.

 «Buenas tardes y buena suerte!», è il saluto. L'ha inaugurato Zapatero, se lo ripetono tutti. Buonasera e buona fortuna perché adesso ce n'è bisogno, con questa cambiale in bianco che la Spagna ha firmato. Le cifre della vittoria non cancellano il nero degli 800mila nuovi disoccupati. Gli applausi di calle de Ferraz non coprono i fischi di Bilbao, la vergogna degli ultrà dell’Atletico che poche ore fa hanno interrotto il minuto di silenzio per l’ultimo assassinato dall’Eta. Ri-Zapatero, celebre nel mondo per i matrimoni gay e le risse con la Chiesa, in casa s’è giocato tutto sull’economia. È da lì che riparte. «Non ci aspettiamo grandi impatti sulle borse», dice un economista, Antonio Zamora. «La campagna elettorale è finita — commenta Gilles Moec, della Bank of America —, adesso partirà una politica fiscale molto aspra. La Spagna ha poco tempo. E per Zapatero, non avere ottenuto la maggioranza assoluta complica le cose. Dovrà trattare ancora con gli alleati. Quando tutti sanno che i tagli si fanno meglio, se si è da soli».

Francesco Battistini
10 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 10, 2008, 03:00:49 pm »

Intervista a Sergio Cofferati

«Segreto? Grandi partiti e decisioni veloci»

«Non hanno mai introdotto nel sistema elettorale soluzioni volte a favorire la frammentazione»

Non è questione di leader: lì la politica si è semplificata

 
MILANO —La Spagna è un Paese più «di sinistra» dell’Italia?
«Direi di no».

Magari meno cattolico?
«Nemmeno».

Devono esistere altre radicali differenze...
«La configurazione sociale e l’appartenenza alle grandi famiglie di valori e idee non sono molto diverse».

Ma allora, Sergio Cofferati, perché a Madrid la sinistra riesce a governare, approva leggi che qui provocherebbero discussioni infinite — diritti civili, diritti di genere, procreazione assistita—litiga coi vescovi, e poi vince di nuovo?
«La differenza più rilevante è nella struttura della politica. Loro, già dopo Franco, hanno creato un modello in cui i partiti erano pochi e ben definiti. E non hanno mai introdotto nel sistema elettorale soluzioni volte a favorire la frammentazione. Una scelta facilitata dal fatto che lì la presenza dei cattolici è storicamente collocata nel partito di centro e la cultura riformista è da sempre di area socialista, mentre da noi c’è un’antica e radicata cultura riformista che è stata parte importante della Dc. Resta il fatto che oggi in Spagna c’è una semplificazione più netta fra area liberale e riformista».

Questo vuol dire che Zapatero può essere un modello per il Pd italiano oppure no?
«È qualcosa a cui guardare con simpatia, perché i valori ai quali ci si riferisce sono gli stessi, quelli del riformismo».

Ma Zapatero a Palazzo Chigi potrebbe realizzare ciò che ha fatto in Spagna?
«No. Con tutta la stima che ho per lui, a Roma non avrebbe potuto governare. Il nostro problema non era il profilo politico o la determinazione del leader, ma le condizioni nelle quali operava».

Vale a dire?
«Un esempio: in Spagna il rapporto tra governo e Chiesa è stato spesso aspro, certo più che da noi, ma questo non ha mai prodotto la "non decisione", il rinvio, il prolungarsi della polemica senza giungere ad atti formali. Proprio questo, invece, è il tratto italiano. Noi troppe volte ci siamo fermati. È un problema serio, e non imputabile all’ingerenza della Chiesa: è interno alla politica».

Quale origine ha?
«Si torna al modello strutturale che scegli. Più si è prigionieri della frantumazione, e dunque bisognosi di restare attaccati a piccole maggioranze, più è alto il rischio di uno stallo prolungato. Tendenza che si è vista plasticamente in un Senato senza maggioranza. Il nostro Parlamento è stato messo in condizione di legiferare meno di quanto fosse possibile. E non penso solo ai temi etici, sui quali di solito facciamo i raffronti. Penso, ad esempio, alla politica economica, o alla fatica di Bersani sulle liberalizzazioni».

Vie d’uscita?
«In Italia è in corso un lento processo che porterà a una semplificazione simile a quella spagnola. Questa tornata elettorale, paradossalmente con la peggiore legge immaginabile, può rappresentare un’accelerazione. Grazie a un gesto di coraggio di Veltroni che può funzionare perché ha trovato dall’altra parte, sia pure un po’ confusa, eguale disponibilità».

Mario Porqueddu
10 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 10, 2008, 03:02:14 pm »

10/3/2008 - La Stampa
 
Il leader per caso è cresciuto
 
ANDREA ROMANO

 
La tranquillità al potere paga spesso, soprattutto quando è sostenuta dalla solidità dei buoni risultati. E il voto degli spagnoli ha largamente ricompensato la forza tranquilla di Zapatero, all’indomani di un omicidio terrorista che avrebbe potuto rivelarne le fragilità di leader. Al contrario, la bastonata che le elezioni municipali francesi hanno inferto allo stile di governo di Sarkozy è anche la certificazione della distanza che corre tra l’annuncio di una rottura salvifica e la pratica di una turbolenza continua e fatalmente molesta. Il voto francese e quello spagnolo ci costringono al confronto tra due stili di leadership, tra due modi di concepire la responsabilità e l’esibizione del potere. L’uno guidato da una pacatezza tenace, l’altro pervaso dalla sacra furia della volontà politica. L’uno rivolto al cambiamento graduale e costante, l’altro dominato da una promessa di onnipotenza che in mancanza di risultati conduce fatalmente alla delusione.

Fino a ieri Zapatero ci era apparso quasi un leader per caso, arrivato al governo nella sorpresa dei più e ancora atteso alla prova della maturità. Al di là delle facili mitologie con cui una parte della sinistra italiana si è precipitata a riconoscervi l’ennesimo vangelo dottrinario, il suo «socialismo dei cittadini» poteva apparire come una fumisteria post-ideologica.

Poteva apparire la nobile coperta dietro la quale il nuovo leader spagnolo sceglieva di ripiegare le proprie ambizioni all’interno dei confini nazionali, dopo l’ubriacatura internazionalista degli anni di Aznar. Basta non solo con le missioni militari all’estero, ma anche con la pretesa di segnalare al mondo la vitalità universale di una «via spagnola» allo sviluppo economico e alla vitalità sociale.

Oggi questa Spagna più spagnola e meno globale ha trasformato Zapatero in un leader adulto, mettendolo in condizione di competere con l’eredità di governo di González e di Aznar. Perché da oggi e per i quattro anni del suo secondo mandato la sua leadership potrà dimostrare la sua vera sostanza, trovandosi tra l’altro alle prese con un ciclo economico che si annuncia assai meno favorevole di quello appena concluso. Davanti a un’economia in fortissimo rallentamento, per la fine del peculiare boom edilizio spagnolo oltre che per le ripercussioni della più generale frenata internazionale, Zapatero difficilmente potrà limitarsi a insistere sui temi dei diritti civili e sugli altri tasti essenzialmente nazionali su cui ha costruito la propria popolarità. Chiamato a guidare un paese in forma meno smagliante di quello che aveva ereditato da Aznar, dovrà mostrare la stoffa di un leader capace di avere mano adatta anche ai tempi difficili. Ma guardando a come ha saputo costruire nel tempo il suo secondo successo elettorale, c’è da scommettere che riuscirà ad applicare anche a questa legislatura il metodo tenace e pacato che lo ha reso quello che è.

Per un leader che arriva all’età adulta, un altro che rischia di rimanere impigliato nei turbamenti dell’adolescenza politica. Questa sembra essere la lezione che il voto municipale ha indirizzato alla presidenza Sarkozy. Perché è vero che la tradizione politica francese registra fin dai primi Anni Ottanta un pendolo perfetto ad ogni elezione, con un voto che ha sempre punito il partito che aveva vinto le elezioni precedenti. Ma è altrettanto vero che la sorprendente rinascita socialista – di quel socialismo francese privo di leader e di idee sul quale negli ultimi mesi si sono accaniti amici e nemici – è stata quantomeno favorita dall’autolesionismo presidenziale. Niente è davvero perduto per Super-Sarko, viene da pensare. In fondo non sarebbe la prima volta che leader destinati a lasciare il segno partono con il piede sbagliato. E forse l’inquilino dell’Eliseo si consolerà pensando all’esempio di Margaret Thatcher, che nei primi due anni di governo era riuscita a collezionare i peggiori indici di popolarità mai registrati da un leader britannico prima di decollare verso la fama universale. Sarebbe una consolazione ben più efficace, se il bagno di umiltà ricevuto ieri lo convincerà che il tempo della propaganda è finito e che anche le più ardite promesse di rinnovamento devono prima o poi tradursi in risultati.

 
 
OPINIONI Il senno di poi ANDREA ROMANO 

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« Risposta #10 inserito:: Marzo 11, 2008, 09:12:40 am »

11/3/2008 - VOTO IN SPAGNA
 
Il laico Zapatero
 
GIAN ENRICO RUSCONI

 
Una serena, ferma e dignitosa difesa dello Stato laico vince elettoralmente in una democrazia matura. Questa è la semplice lezione del successo di José Luis Zapatero.

Sappiamo che le varianti in gioco nelle elezioni spagnole erano e sono molte. Sappiamo che le differenze tra l’Italia e la Spagna sono grandi. Ce ne siamo dimenticati, anche per una certa provinciale supponenza che per decenni ci ha illuso di «essere più avanti» degli spagnoli. Adesso ci stanno dando molte lezioni: dal dinamismo economico all’impegno nelle istituzioni europee. Da qualche tempo ci offrono pure l’esempio di uno Stato che ha riscoperto il gusto della propria autonomia e dignità nel dimostrare con i fatti di essere l’unico depositario dei criteri dell’etica pubblica.

Il plusvalore della laicità ha certamente rafforzato la prospettiva «socialista» della politica zapateriana, che punta sulla valorizzazione della «cittadinanza sociale». Solo l’eutanasia del socialismo nel nostro Paese impedisce di cogliere il nesso fecondo tra socialismo della cittadinanza e diritti civili.

Nel merito si può essere d’accordo o no su questa o su quella iniziativa di legge (dalle nuove regole sul divorzio ai matrimoni gay), ma non c’è dubbio che il governo socialista sta sviluppando una strategia efficace. Consente all’opposizione cattolica ed ecclesiastica di dispiegare tutto il suo potenziale di protesta pubblica, senza farsi intimidire. Soprattutto non si lascia dettare lezioni su che cosa sia la «vera laicità dello Stato». Il risultato è che nulla fa infuriare di più i clericali spagnoli del sorriso disarmante di Zapatero quando annuncia e ribadisce le sue misure di laicità.

Con buona pace dei nostri clericali, non si può dire che «la sfera pubblica» spagnola sia condizionata dal laicismo di Stato. Nulla impedisce ai cattolici spagnoli, che seguono le direttive della gerarchia, di manifestare senza restrizioni i loro convincimenti con il massimo di pubblicità. Ma le loro ragioni non convincono la maggioranza degli spagnoli. È quindi sbagliato affermare che le iniziative di Zapatero fanno violenza alla buona popolazione spagnola. Semplicemente la gente, credente o non credente, è laicamente più matura dei suoi rappresentanti clericali.

Non so se il risultato elettorale spagnolo cambierà qualcosa nel nostro Paese nelle strategie politiche (tali sono anche quelle della Cei) in previsione di misure di legge che rientrano sotto i criteri della laicità dello Stato. Oggi in Italia è in atto una tregua elettorale, dettata dalla convenienza politica e da un calcolo di aritmetica elettorale. È il segnale di un intreccio intimo e strumentale tra i meccanismi democratici e la volontà di una parte del mondo cattolico di condizionare dall’interno (a cominciare dal Pd) i processi della decisione politica.

Non siamo dunque in una situazione spagnola, neppure per quanto riguarda «la sfera pubblica», che da noi è saldamente presidiata dalle forze cattoliche in linea con la dottrina o meglio con la strategia della Chiesa. Ma la linea intransigente dettata dalla parola d’ordine della «non negoziabilità dei valori», confondendo la dottrina della Chiesa con una strategia politica, mette in difficoltà la democrazia o quanto meno la sua funzionalità.

Non ci stancheremo di ripetere che in democrazia «non negoziabili» sono soltanto i diritti fondamentali, tra i quali al primo posto c’è la pluralità dei convincimenti, pubblicamente argomentati. Ad essa deve essere subordinato l’impulso a far valere i propri valori (per quanto soggettivamente legittimi) nei confronti degli altri cittadini. Dopo di che, evidentemente, si apre lo spazio al confronto - anche duro - delle ragioni che sono condivise o che dividono, e quindi alle regole del gioco democratico.

Non so se un futuro ipotetico governo Veltroni proporrà leggi non gradite alla gerarchia ecclesiastica, sostenendo il principio dell’autonomia dello Stato laico e il primato costituzionale del pluralismo etico. Dovrà prima fare i conti con alcune componenti interne del suo stesso partito, che non mancheranno di ricattarlo. Da questo punto di vista, anche se lo volesse, Veltroni non potrebbe agire con la fermezza di Zapatero. Si è già messo nelle condizioni politiche di non poterlo imitare, ammesso che lo voglia fare. Non aspettiamoci dunque un Veltroni-Zapatero. Non potrà e non saprà farlo. Lo apprezzerà magari a parole, ma da lontano. Nel suo stile.

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