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Autore Discussione: MATTIA FELTRI.  (Letto 75502 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Gennaio 18, 2013, 11:34:00 pm »

Politica
18/01/2013

Voto, Berlusconi da record: 63 ore in tv, dietro Monti, staccato Bersani

Svolta dopo Natale: oltre due apparizioni al giorno

Mattia Feltri

ROMA


Ogni lasciata è persa: l’applicazione alle trasmissioni televisive di una filosofia di vita è la carta così poco segreta e così redditizia di Silvio Berlusconi. Non c’è microfono o telecamera trascurabile, in questa campagna elettorale tambureggiante, non soltanto per le liti di ringhiera e le zuffe di cortile. Dalla vigilia di Natale a lunedì scorso, 14 gennaio, e cioè in ventuno giorni disseminati di festività, il capo del Pdl ha accettato cinquantaquattro ospitate, in televisione, alla radio, alle dirette in Rete; una media di oltre due al giorno, Natale e Capodanno compresi, e pedalare anche alla Befana: tutto fa brodo. Una tournée debordante a occhio nudo, con Servizio Pubblico come tappa scintillante, e tante altre già nella memoria di questa nostra breve stagione: l’inedito bisticcio con Bruno Vespa a Porta a Porta, la cruciale cartellata in testa a Marco Damilano a Omnibus, l’abbordaggio a Ilaria D’Amico malinconicamente toppato a Lo Spoglio. Se pare un’invasione, figurarsi a guardare col binocolo. 

 

Dal telegiornale di Alto Adige Tv all’approfondimento di Tele Molise fino agli spazi politici di La Nuova Tv, emittente lucana, Berlusconi ha sfidato le latitudini e si è offerto agli ascoltatori (ed elettori) dell’ultima contrada e della valle più remota. Una performance di straordinaria generosità e di ammirevole tenuta fisica, da cui gli avversari dovrebbero imparare qualcosa, se non è troppo tardi. Si è sentito il Grande Arzillo promettere la mutilazione delle tasse a Teleradiostereo, opporre un ritrovato orgoglio nazionale a Radio Norba, tratteggiare scenari gloriosi a Canale Italia, infuocarsi per il poliziesco redditometro a Bergamo Tv.

È lui che fa il contesto: vengono buoni i dieci minuti dell’agonista a Studio Sport su Italia 1, il quarto d’ora quasi introvabile a Tvrs, rete marchigiana, i venti minuti d’allegria a TeleEspansione Tv, la mezzora a pacche sulla spalle ad AntennaTre Nordest. Un bomber come lui si butta affamato nell’etere di Radio Goal e ha l’aria di attraversare le galassie della propaganda e della sopravvivenza per raggiungere Radio Marte. Non si è ancora fermato né si fermerà: fuori dal periodo da noi compulsato, si è concesso al direttore di Tv Parma, Giuliano Molossi, e alla fine non s’è trattenuto dallo sfiorare la figura lacrimosa del vecchio zio abbandonato: «Tornate a trovarmi prima delle elezioni, mi raccomando». E però in questo modo, centesimo dopo centesimo, il suo forziere paperonesco si sta di nuovo riempiendo. «I sondaggi lo galvanizzano, ora non lo ferma più nessuno», dicono dalla sede del partito. 

 

I dati Auditel rielaborati dalla Geca Italia (società di indagine audiovisiva) sono spettacolari: il condottiero del centrodestra - dal 24 dicembre al 13 gennaio (un giorno in meno del periodo analizzato dalla Stampa) - è stato in tv per ventotto ore, cinquantasei minuti e trentadue secondi; fra gli avversari nemmeno Mario Monti, uno che ha capito come gira la giostra e non disprezza il mezzo, sa tenergli il passo: nello stesso periodo si è fermato a venti ore e tredici minuti. Il povero Pierluigi Bersani, forse spiazzato, forse meno cinico, sta addirittura a dodici ore e venti minuti. Sono numeri che dicono molto, ma non tutto, poiché il conteggio considera un terreno vastissimo, con le tre reti Rai, le tre Mediaset, La7, i canali satellitari di Rai e Sky, i siti dei maggiori quotidiani, qualche radio nazionale, ma non tiene conto di Vista Tv e Tv Umbria, pure alle quali Berlusconi ha consegnato i piani di guerra. 

 

Un altro dato esibito da Geca dimostra che, in quelle tre settimane scarse, il Cav. è stato seguito al telegiornale (Rai, Mediaset e La7) da 395 milioni di persone, il che significa che ognuno di noi, neonati e decrepiti compresi, lo ha visto sei o sette volte. Monti segue con un distacco di oltre 120 milioni di spettatori, terzo è Pierferdinando Casini a 184 milioni di totale, solo quarto Bersani, pure lui a 184 e qualche spiccio in meno. Soltanto sullo share (la percentuale sui telespettatori che guarda la tv in quel momento), Berlusconi non rade al suolo gli avversari. Anzi, Monti ha prestazioni migliori delle sue: a Unomattina il bocconiano batte il brianzolo 24.26 per cento a 23.09; a Otto e Mezzo lo batte 8.68 a 6.48. Anche qui si sono perse le tracce di Bersani, che a Otto e mezzo tira insieme un buon 8.06, ma a Porta a Porta resta di sette punti dietro a Berlusconi: 16.23 contro 23.10. Un trionfo, se si pensa che il leader del centrodestra, da premier, abbatteva i telespettatori uno a uno, tutti in fuga precipitosa ogni volta che lui appariva sullo schermo a elencar miracoli. Ma adesso che è battaglia, che soprattutto è pagliacciata e sarabanda, e cioè è il terreno ideale per questo raider della politica, parecchio è cambiato. Il 33 per cento cumulato la sera di Servizio Pubblico (magari paragonato al 7.19 di Antonio Ingroia a Piazza Pulita, stessa emittente) ci fa mostra l’inesauribile vecchietto che non ha paura né vergogna di niente, ed è pronto a ribaltare tutto una volta ancora.

da - http://lastampa.it/2013/01/18/italia/politica/voto-berlusconi-da-record-ore-in-tv-dietro-monti-staccato-bersani-HwBB3xdfAbOrN774vYcX0K/pagina.html
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« Risposta #76 inserito:: Febbraio 03, 2013, 11:56:00 am »

Paesi & buoi
02/02/2013

Implicazioni

Mattia Feltri

Nello scandalo del Monte dei Paschi sono implicati: i vertici della Banca, i vertici del Pd, la Curia e l’Università di Siena, il Vaticano, lo Ior, la massoneria, le grande imprenditoria, la grande finanza, i grandi investitori, la famiglia Berlusconi coi vertici del Pdl, la Banca
d’Italia, la Consob, vari organismi di controllo, la stampa compiacente, schegge della magistratura, i soliti faccendieri e i poteri forti in genere. 

Osserva un turno di riposo Marcello Dell’Utri.

da - http://lastampa.it/2013/02/02/cultura/opinioni/paesi-e-buoi/implicazioni-gPlbengCDrmWv2YCOFvWBJ/pagina.html
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« Risposta #77 inserito:: Marzo 02, 2013, 03:27:44 pm »

Politica
02/03/2013

Il guru inafferrabile che ama Tex e Asimov e non parla coi baristi

Al centro delle manovre senza far trapelare nulla di sé

Mattia Feltri
ROMA


Finché la questione riguardava i giornalisti, pazienza. C’era uno ogni tanto, pare, che chiamava a casa di Beppe Grillo cercando il segretario generale del Movimento. «Il segretario generale?! Gli ho passato mio figlio Ciro che ha dodici anni», diceva Grillo. Però appunto riguardava noi su questioncelle tipo interviste o malinconici retroscena, ma adesso che riguarda i partiti alla ricerca del fantasioso accordo di governo, o quantomeno per comprendere che giri nella testa di Grillo prima che gli esca dalla bocca sotto forma di contumelia, ecco, adesso è un guaio serio. A chi bisogna telefonare se il segretario generale è Ciro, dodici anni? Come scriveva ieri Giuliano Ferrara - e come ha imparato chi ha a che fare col grillismo - «gli alieni sono introvabili, non sai con chi parlare, sono inafferrabili». Non è neanche vero che si rimanga fuori dalla porta, perché la porta proprio non c’è. E se si materializza, come ieri, Grillo è mascherato da ghostbuster, e non è detto che sotto la maschera ci fosse lui. 

Lo smarrimento dei vecchi leader, alla ricerca dell’olio buono per l’ingranaggio, si è espresso perfettamente nell’offerta al M5S della presidenza di una camera da parte di Massimo D’Alema. È che il M5S non è un partito, né solido né liquido, ma un’entità gassosa con la quale una classe dirigente novecentesca non riesce a mettersi in sintonia, non sul linguaggio e nemmeno sulla prassi.

Gli unici luoghi fisici dei quali è consentito suonare il campanello sono casa di Grillo e l’ufficio milanese di Gianroberto Casaleggio, sempre che aprano. La coppia porta il titolo di «fondatori del movimento», altre cariche non ne ha, se non quelle suggestive e non codificate di capopopolo e guru. Chi prende le decisioni - se si è capito, poiché la struttura non è poi così trasparente come le intenzioni del Movimento presuppongono - è Casaleggio, l’uomo più inavvicinabile dell’emisfero. La sua biografia è circondata dalla nebbia e dal mito. Si sa della sua brillante carriera dalla Olivetti sino alla sua Casaleggio Associati passando per Telecom. Brillante più per sentito dire che altro.

Sfiancanti lavori da 007 hanno fornito ai cronisti dettagli di pallido colore: dietro alla scrivania, Casaleggio ha copertine di Tex incorniciate, ama la fantascienza di Isaac Asimov e la sociologia di Marshall MacLuhan, si inebria delle gesta di Gengis Kahn e Re Artù al punto (ma qui siamo alla leggenda metropolitana) da convocare riunioni attorno a una tavola rotonda. Nessuno dei suoi ex colleghi sa fornire dettagli personali appena più solidi del marginale pettegolezzo. Casaleggio è uno che non parla con gli estranei, non parla coi baristi, non parla nemmeno coi conoscenti. Eppure sarà lui (o Grillo o più probabilmente entrambi) ad andare alle consultazioni dal presidente Giorgio Napolitano e a ragionare con i boss degli altri partiti.

Per essere il movimento più democratico (partecipazione dal basso eccetera) e trasparente del mondo (riunioni sul web, rendicontazioni on line di ogni spesa e ri-eccetera), il M5S ha un vertice sfuggente, proprio perché nega se stesso e si dichiara un non vertice, ed ermetico per altalenanti ragioni gerarchiche e per una dichiarata diffidenza; sebbene, guardando le cose dall’angolazione grillina - la stampa è al servizio della politica per manipolare l’informazione e sostenere il regime - sarebbe stupefacente un approccio diverso. 

E però gli aspetti settari e i legami irrituali saltano fuori anche dal codice di comportamento steso per gli onorevoli (anzi, cittadini) che davanti al non statuto del non leader del non partito devono un’obbedienza senza non, altrimenti li si allontana discutendone poco o niente. All’ultimo punto del codice, poi, c’è la regoletta secondo la quale i contributi per l’attività parlamentare, le funzioni di studio e la comunicazione saranno sottratti agli onorevoli/cittadini e dirottati a «due gruppi di comunicazione» la cui «costituzione sarà definita da Beppe Grillo in termini di organizzazione, strumenti e scelta di membri» (la prosa formalista è di Casaleggio). Con tutto il rispetto per Ciro, sarebbe più trasparente darsi un capo e pure un indirizzo.

da - http://lastampa.it/2013/03/02/italia/politica/il-guru-inafferrabile-che-ama-tex-e-asimov-e-non-parla-coi-baristi-t21Bv2nSK4am2yIoWirvCM/pagina.html
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« Risposta #78 inserito:: Marzo 07, 2013, 05:16:26 pm »

POLITICA
07/03/2013 - la storia

La solita Italia, tutti di corsa sul carro di Grillo

Dopo le accuse, ora tutti si scoprono vicini a Beppe Grillo

Da Artom a Vendola ai giovani turchi improvvisamente aperti

Lavia, Venditti, Allevi e Battiato: volevo telefonargli, ma poi...

Mattia Feltri
Roma

Oh che bello Beppe Grillo! Quanto piace, Beppe Grillo: all’intellettualità più vitale, all’imprenditoria più illuminata, agli artisti più impegnati e naturalmente ai politici che si assumono le loro responsabilità e scoprono un ruolo da pontieri. Di colpo, in fondo. Diciamo da una decina di giorni, da lunedì sera/martedì mattina della settimana scorsa, si svelano quotidianamente fervidi sostenitori della rivoluzione dal basso. L’altra sera, per dire, Arturo Artom - uomo di telecomunicazioni con fama di innovatore - è comparso a Piazzapulita portando il titolo di imprenditore grillino, sebbene fosse alleato di Silvio Berlusconi sino alla vigilia del voto. Lo stesso Artom che quando era leader del suo Rinascimento italiano rimproverava Grillo perché «anche il M5S chiude la selezione per i candidati alle Politiche unicamente ai militanti». La febbre però è salita. Le elezioni sono andate come sono andate. Uno pragmatico, Nichi Vendola, successivamente ad analisi è evoluto da «Grillo è un populista», «Grillo appartiene alla cultura delle macerie» e la sua parabola ricorda «il preludio al fascismo» - mica niente - a «Grillo non rappresenta nessuna delle varianti del passato», quindi «va preso sul serio» e anziché Mussolini «ricorda Pannella». 

 

È una febbre, sì, e percorre la Puglia. Il sindaco di Bari, Michele Emiliano, uno che per la verità Grillo lo ha sempre guardato con occhio curioso, è ora giunto al parallelo funambolico: «Il premier deve essere Grillo, rappresentante del primo partito italiano. Sarebbe come Ronald Reagan». Forse l’obiettivo era la suggestione, e allora raggiunto. Ma qui si scaldano cuori che si credevano di marmo. Uno come Stefano Fassina a settembre descriveva Grillo pari al ceffo che «ha imparato benissimo la lezione dell’aggressione e del vittimismo», un «totale irresponsabile», «come Berlusconi»; fermi tutti, ora c’è da fare un governo, assumersi le responsabilità, di nuovo e per sempre, e dunque il Fassina di oggi è con Matteo Orfini (un altro transitato da «per me Grillo e Berlusconi sono la stessa cosa» a «ora a Grillo faremo proposte chiare per risolvere alcune emergenze del Paese») l’offerente dell’esecutivo all’ex mostro, e se dice no si torni a elezioni. Ma un’intesa così è persino poco, «non basta allearsi - dice Salvatore Settis, prestigioso storico dell’arte - è arrivato il momento che la sinistra italiana si sieda a un tavolo con Grillo per rileggersi insieme la Costituzione», e magari rileggere i passaggi sull’assenza di vincolo di mandato. 

 

Tutti vogliono Grillo. Tutti amano Grillo. Aiuto, ci scrivono mail «allo scopo di ottenere un qualche tipo di legame», cioè di raccomandazione, dicono dal MoVimento. Di ogni febbre il termometro più straordinario è la Rai, dove sta nascendo un gruppo dei Giornalisti Liberi a Cinque Stelle. Liberi di essere grillini, niente di nuovo: li guida un redattore del Televideo, Fabrizio De Jorio, che indica in Maria Grazia Capulli del Tg2 il suo volto più noto (lei però smentisce: «Non ho niente contro Grillo, ma da una vita dico che dobbiamo svincolarci dai partiti: se c’è un diretto riferimento al M5S io non ci sto»). E poi il vento soffia sempre in faccia ad attori, cantanti e acrobati. Franco Battiato dice che Grillo «ha un’intelligenza politica notevole», e prima del voto voleva anche chiamarlo ma poi... Gabriele Lavia nutre una incondizionata simpatia e conserva una sola perplessità: «Non so usare il computer». Raffaella Carrà crede fermamente «nella sua rivoluzione e spero la porti avanti». Antonello Venditti condivide «l’aspetto morale» del MoVimento. Il compositore Giovanni Allevi vive una nuova identità: «Sono il Beppe Grillo della musica». Le iscrizioni sono aperte.

da - http://lastampa.it/2013/03/07/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/la-solita-italia-tutti-di-corsa-sul-carro-di-grillo-a8UzFvGcYI3PDg9oXDJ5LN/pagina.html
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« Risposta #79 inserito:: Marzo 29, 2013, 10:55:53 pm »

Politica

29/03/2013 - il punto sulle consultazioni

L’offerta impossibile di Berlusconi

Ma si apre uno spiraglio sul Quirinale

Il Cavaliere chiede un governo di grande coalizione con dentro tutti tranne i grillini.

Bersani costretto a dire no. Si tratta ancora

Mattia Feltri


Tutto così logico, tutto così complicato. Silvio Berlusconi fa i conti della brava massaia e, uscendo dall’incontro con Giorgio Napolitano, dice che, siccome non c’è una maggioranza, l’unica possibilità è rappresentata da un governo di grande coalizione con dentro tutti (tranne i grillini ma soltanto perché non ci vogliono stare): Pd, Pdl, Scelta civica e Lega. 

 

Il premier, naturalmente, lo indicherà il Pd e nessuna preclusione nemmeno per Pierluigi Bersani. Di altri governi tecnici, il capo del centrodestra non ne vuole sapere. Quanto al Quirinale nessuna richiesta specifica, semplicemente la ovvia considerazione che, se si fa il governo tutti insieme, tutti insieme si sceglierà il prossimo presidente della Repubblica. 

 

C’è qualcosa che non torna? In teoria no. In pratica, come si sa, la soluzione squadernata da Berlusconi fa venire i brufoli a Bersani che di impiantare qualcosa con Berlusconi non ne vuole sentir parlare. O almeno: non vuole impiantarla en plen air poiché i suoi elettori gli tirerebbero il collo. E glielo tirerebbero pure nel partito. Lui vorrebbe un sostegno dai pidiellini ma un pochino di nascosto (magari se uscissero dall’aula al momento del voto di fiducia…), e soprattutto senza che ci metta la faccia Berlusconi, l’impresentabile degli impresentabili. Una richiesta che ha risvolti bizzarri e difficilmente conciliabile con quella espressa del centrodestra poco fa al Quirinale.
Anche se i toni niente aggressivi del Cav e la correzione sul nuovo Capo dello Stato (scelto insieme e non indicato dal Pdl) fanno pensare che con Napolitano un piccolo spiraglio si è aperto. Fra poche ore lo sapremo.

da - http://lastampa.it/2013/03/29/italia/politica/l-offerta-impossibile-di-berlusconi-ma-si-apre-uno-spiraglio-sul-quirinale-vXMwh1Uy8dgqqThqyQoxNJ/pagina.html
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« Risposta #80 inserito:: Settembre 15, 2013, 05:26:34 pm »

POLITICA
14/09/2013 - Cercando una via d’uscita


“Scappa”, “No, devi resistere” La Babele dei consigli a Silvio


I suggerimenti di segno opposto dei suoi fedelissimi su governo, grazia e domiciliari


Mattia Feltri
Roma


L’ultimo consiglio a Silvio Berlusconi - forse il meno interessato e senz’altro il più praticabile - l’ha dato Ilona Staller, in arte Cicciolina: «Accetti la condanna e faccia sesso a go go». Il sesso, ha spiegato l’ex pornostar (forse non informatissima sugli hobby notturni del destinatario), è «gioia». E poi la vita «è breve». Purtroppo per Berlusconi, è stato lunghissimo quest’ultimo mese e mezzo: da che ha ricevuto la condanna definitiva per evasione fiscale (1 agosto), metà mondo esulta e l’altra metà si spende in suggerimenti senz’altro amorevoli, talvolta originali, ma raramente ingegnosi. 

Anche perché si trascura un dettaglio: che a seguirli dovrebbe essere un altro. Per esempio: è con sforzo laico che si riconosce la presunzione della buona fede a Daniela Santanché, la quale, col battagliero spirito di cui gira armata, ha detto di non trovare calzanti al personaggio gli arresti domiciliari: «Lo vedo in carcere perché è persona che ha amore e coraggio». Lei lo vede in carcere. Chissà come ci si vede lui. E infatti altri più prudenti si sono trattenuti proprio sull’alternativa dei domiciliari. Giuliano Urbani dice che da lì potrebbe fedelmente «sostenere il governo», e questa pare la soluzione migliore anche a Ennio Doris e Flavio Briatore, mentre Antonio Martino sostiene che, dal salotto, Silvio condurrebbe una «campagna elettorale formidabile». 

Molto viva l’ipotesi dei servizi sociali, che per il professor Giovanni Sartori costituirebbero «un’onorevole ritirata». Con dei vantaggi, nell’opinione del deputato pidiellino Paolo Romani: «Gli consentirebbero l’agibilità politica».

I benefici non sarebbero soltanto personali ma un po’ per tutta l’umanità, secondo Francesco Nitto Palma: «Spronerebbe i ragazzi a rinunciare alla droga». Se poi l’ex premier fosse indeciso, c’è sempre la richiesta della grazia, caldeggiata da un po’ tutte le colombe e osteggiata da un po’ tutti i falchi, qui sostenuti dal boss. Dunque siamo in una posizione prodigiosamente illustrata dal leghista Roberto Calderoli: «Se fossi in lui non chiederei mai la grazia a nessuno, soprattutto a Napolitano, non chiederei i domiciliari, non chiederei i servizi sociali». E così si torna al lodo Santanché. A meno che non si voglia prendere in considerazione una linea curiosamente lanciata dalla coppia Beppe Grillo-Giancarlo Galan (con un diverso grado di sarcasmo): «Scappa!». Sul lato grillino, ha approfondito il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti: «Antigua potrebbe essere per lui una località adatta». Sul lato di centrodestra ha provato a fare dignità alla soluzione il presidente di F.lli d’Italia, Guido Crosetto: Berlusconi conduca una battaglia politica dall’estero «alla Pertini o alla De Gasperi». Però, se la cosa non lo attirasse, la conduca dalla cella «alla Havel o alla Mandela». E così, di nuovo, siamo punto e a capo.

Altro dilemma: aspettare le decisioni della Giunta sulla decadenza o mollare prima, con gesto virile? Di questo avviso è Marco Pannella: «Silvio, ti chiedo di dimetterti per sbaragliare i tuoi nemici, i Robespierre “epifanici”». È un po’ la sollecitazione che arriva dalle colombe alla Fabrizio Cicchitto, che non per nostalgia vedrebbero benissimo il capo a Palazzo Madama mentre pronuncia un discorso storico, in stile Bettino Craxi. Giuliano Cazzola, ex pidiellino ora in Scelta civica, il discorso gliel’ha pure steso (e l’ha pubblicato su Formiche): ho combattuto i comunisti perché non usurpassero il potere, ma mi hanno fermato le toghe rosse; e poi: «Aveva ragione mia moglie Veronica, quando scrisse che io ero un uomo malato» a causa «della mia ossessione per le donne, soprattutto se giovani e belle». Alla fine, conclude Cazzola, il condannato dovrebbe dimettersi con piglio plateale e garantire fedeltà all’esecutivo. Anche qui l’unanimità è improbabile. Sandro Bondi ieri ha scritto un commento sul Giornale titolato: «Stacchiamo la spina». Non in caso di decadenza: comunque, e subito. È quello che sostiene il segretario leghista, Bobo Maroni: «Silvio, stacca la spina o ti faranno fare la fine di Craxi». Per questo, forse, c’è chi come il ministro Mario Mauro l’ha buttata lì: «E l’amnistia?». E un altro vecchio sodale, l’avvocato Raffaele Della Valle, ha proposto di sollecitare al Quirinale la «commutazione della pena» con una giustificazione cara a Napolitano: «Salverebbe la pacificazione» (questa è di Cicchitto). 

Ogni tanto, nella vertiginosa babele, fanno capolino anche quelli del Pd e dell’opposizione intera, stretti in una rara concordia. Matteo Renzi: «Se ne vada a casa» («per sempre», aggiunge prudentemente Famiglia Cristiana). Walter Verini: «Faccia un passo indietro». Nicola Latorre: «Faccia un passo indietro». Nichi Vendola: «Faccia un passo indietro». Massimo D’Alema: «Faccia un passo indietro». Rosi Bindi: «Faccia un passo indietro». Leggermente più sfumata la posizione del segretario, Guglielmo Epifani: «Faccia un passo di lato».

da - http://lastampa.it/2013/09/14/italia/politica/scappa-no-devi-resistere-la-babele-dei-consigli-a-silvio-pnLrw0ehgEFqVrQ0D18JgI/pagina.html
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« Risposta #81 inserito:: Settembre 28, 2013, 04:37:53 pm »

POLITICA
28/09/2013 - PERSONAGGI

Gianni ricevuto da Enrico

E per la prima volta zio e nipote trattano “alla luce del sole”

Vertice a Palazzo Chigi: l’emergenza fa cadere l’ultimo tabù

MATTIA FELTRI
ROMA

Dice il saggio: perché vedersi a Palazzo Chigi quando prudenza e vincoli di sangue renderebbero consigliabile e particolarmente agevole trovare un’altra sede? Perché non scambiarsi una telefonata, quando i due conservano da lustri, in agenda, e magari a memoria, il recapito dell’altro? La sterminata soap dello zio e del nipote ha riservato nel finale – come lo spettacolo vuole – il colpo di scena. 
 
Chissà quante volte Gianni ha incontrato Enrico, in segreto. E chissà quante volte Enrico ha telefonato a Gianni, se serviva. Chissà, per esempio, e per restare ai fatti recenti, qual è stato il ruolo di Letta il vecchio quando Letta il giovane ospitò in casa sua al Testaccio i capi di centrodestra e centrosinistra, Silvio Berlusconi e Pierluigi Bersani, perché si accordassero sulla presidenza della Repubblica a Franco Marini. E poi ci sono anche le foto ufficiali, le occasioni di protocollo, quando la coppia si scambiava di ruolo e dunque il testimone al passaggio da un governo all’altro. Però, così come ieri, mai. Così, in trattativa ufficiale, a cielo aperto, ognuno per conto della sua parrocchia, proprio mai. E sarà stata la gravità del momento, o forse persino la necessità delle colombe di mostrare ai falchi che sono vive e in lotta, a relegare ai margini l’eleganza delle forme. Ci avevano sempre tenuto, i due, all’eleganza. A un nobile distacco. A una forma impeccabile, perché la commistione molto italiana fra cosa pubblica e cosa privata non intrappolasse anche loro. Tutto sfumato in una sera di fine settembre e di fine impero.
 
La disperazione, dunque, si sa che induce alla sfacciataggine. Se c’è un margine per rimettere assieme le cose non era un margine da affidare ad Angelino Alfano, né falco né colomba, né governativo né oltranzista, amico dei siciliani sempre indicati come traditori, però braccio destro del capo. Braccio sempre più intorpidito. Il faccia a faccia familiare segnala anche questo. Ricorda che l’ambasciatore di Silvio Berlusconi, quello vero, quello delle questioni supreme, rimane Gianni Letta, sebbene questa abbia tutta l’aria di essere l’ultima ambasciata. L’uomo delle altissime sfere, che le cronache e i retroscena hanno indicato come il garante nel Pdl (o in Forza Italia) dell’accordo col Quirinale, non pare più in grado di garantire molto. Anche perché ciò che Berlusconi vuole, Giorgio Napolitano non glielo può offrire. 
 
In realtà Letta ha cercato continuamente di costruire una civiltà di rapporti fra gli schieramenti, e questo è il succo dell’estremo tentativo di ieri: salvare il salvabile, tenere in piedi un governo che è il pochissimo che ci rimane, preparare un’uscita di scena dignitosa al capo del centrodestra. Un’uscita di scena che lo stesso capo vede nebulosa, e talvolta pare non veda più: e allora si mette in testa di dirigere le operazione belliche dal cupo bunker di palazzo Grazioli. Un qualcosa che sta prendendo la scenografia dell’ok corral. Ma che rimane dell’inciucio alla meglio? Forse che i forzisti terranno a piazza Farnese, luogo delle adunate radicali e di sinistra, la manifestazione del 4 ottobre? (Che poi piazza Farnese ha soprattutto il pregio di essere piccola e di non richiedere folle oceaniche). Forse che un manipolo di negoziatori ha innalzato il pennacchio di Gianni Letta per lasciare traccia della sua ostilità allo sfascio generale, che sembra l’unico possibile capitolo conclusivo della Seconda repubblica? 
 
In queste ore confuse – e in queste settimane, in questi mesi – è complicato individuare una logica dietro le azioni e le parole. La rottura di un tabù – Letta che vede con Letta nel palazzo del governo – ha giusto il sapore della mossa terminale, ma che doveva essere fatta. Berlusconi vuole ancora bene al consigliere di una vita, l’ultimo rimasto della squadra originaria, costellata di liberali, storici e filosofi. I suoi consigli non suonano la musica che lui vorrebbe, ma sono gli unici che sente sinceri. Se le cose sono andate come il buon senso suggerisce, Gianni Letta ha portato a termine l’incarico finale. Con che risultato, si vedrà.

da - http://www.lastampa.it/2013/09/28/italia/politica/gianni-ricevuto-da-enrico-e-per-la-prima-volta-zio-e-nipote-trattano-alla-luce-del-sole-MzESNHxFtdPkSpM79M954L/pagina.html
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« Risposta #82 inserito:: Settembre 28, 2013, 04:45:00 pm »

Paesi & buoi
28/09/2013

Epitaffio

Mattia Feltri

I l sindaco di Bari, Michele Emiliano, scrive su Twitter l’epitaffio della Seconda repubblica: «Se un leader della sinistra viene indagato o condannato va a casa. Punto». Bene, si faccia il caso del senatore pugliese Alberto Tedesco, collega di partito (Pd) di Emiliano che gli ex colleghi di procura di Emiliano vogliono arrestare per corruzione. Lui non si dimette. In Senato il Pd vota per il suo arresto. Lo salvano i voti del Pdl. Tedesco è espulso dal partito di Emiliano e quando finisce la legislatura è finalmente arrestato dalla (ex) procura di Emiliano. Infine viene prosciolto.

da - http://lastampa.it/2013/09/28/cultura/opinioni/paesi-e-buoi/epitaffio-QzxLIaAJ793WLUdGjM0yuL/pagina.html
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« Risposta #83 inserito:: Ottobre 28, 2013, 10:03:05 am »

Cronache
20/10/2013

L’eterno ritorno della Dc

Balena bianca ormai spiaggiata

La spaccatura dentro Scelta civica è solo l’ultimo dei tentativi di rifare la Democrazia cristiana

Mattia Feltri
Roma

La mamma è sempre la mamma. Le braccia calde della Democrazia cristiana, del bel tempo della nostra infanzia, sono le braccia a cui tendiamo le nostre. Non c’è niente da fare: non si diventa grandi, il lavorio attorno a Mario Monti e a Silvio Berlusconi è quello, e gli ultimi rifondatori sono Angelino Alfano e Mario Mauro, Maurizio Lupi e forse qualche esule del Pd – se Matteo Renzi non garba – e come fare a meno di Pier Ferdinando Casini e di Roberto Formigoni, che la ricetta ce l’hanno nello scrigno da tempi imberbi? Sono venti anni, dalla sepoltura officiata da Mino Martinazzoli, che la Dc è un punto di arrivo. Non ci si rassegna. Poco più di un anno fa, su questo giornale, l’allora ministro Andrea Riccardi, di Sant’Egidio, provò a buttare lì qualche ingrediente, il piatto poteva venire fuori ancora appetibile: «Bisogna trovare un linguaggio meno gridato, ma che faccia riferimento a una cultura. Un po’ più colto, un po’ più concreto. Seconda cosa, non possiamo più ragionare parlando soltanto di Italia, ma dobbiamo farlo parlando di Europa».  

Erano i giorni in cui Berlusconi ancora pensava di offrire a Monti la leadership del «rassemblement dei moderati» (espressione che precisava il declino), in una non confessata tensione al moroteismo, altro che rivoluzione liberale. Riccardi poi si è tirato fuori, Monti con Berlusconi non ha condiviso neppure un caffè, e la Dc due punto zero si è dimostrata quasi più una percentuale che un progetto.  

Niente da fare, la mamma è sempre la mamma ma ci si va a cena giusto una volta al mese. Tutti questi inesausti e ripetuti tentativi – sarà oggi quello buono? Mah – non hanno retto alla prova della strada. Guardate che davvero è una storia vecchia come il cucco. Bisogna ritornare a Giovanni Paolo II, che a Loreto esortò all’impegno pubblico dei cattolici – era il 1994 – e l’ottimo professore Rocco Buttiglione, che di Germania ne capisce ma sull’Italia arranca nel pantano, chiamò al raccoglimento: «Un’alleanza politica dei cattolici può portare solo benefici all’unità del paese». Eh bè, diciannove anni fa, abbondanti. Diciannove anni lastricati di buone intenzioni, e si sa che le buone intenzioni producono i danni peggiori. In questo caso danni collaterali, viste le gite fuori porta – al contrario: verso il centro – di Casini e Gianfranco Fini, che per liberarsi della dittatura berlusconiana hanno pensato di riagganciarsi a qualche fuoriuscito di sinistra, e nella terra di nessuno. Magari la colpa è proprio di Berlusconi, lui che la Dc l’ha rifatta davvero, con la sua teoria di essere concavi coi convessi e convessi coi concavi, per cui l’ex democristiano era una campo già arato.  

Vista oggi, da qui, è impressionante la miopia di quei freschi nostalgici alla Buttiglione, come Roberto Formigoni, che in quel formidabile 1994 disse: «Un paese non si governa dagli estremi, e quindi emerge la ricerca di uno spazio centrale di governabilità». Ci sperava anche Mario Segni, trionfatore del referendum sull’uninominale e poi sbaragliato nel primo tentativo neodemocristiano, proprio quello delle elezioni della primavera 1994 (a proposito, solo i maniaci hanno a memoria il comico Elefantino di Fini-Segni a un giro di Europee di lustri fa). Mica era finita lì. Anzi. Ogni due anni rispunta l’ideuzza, il Grande Centro, la Balena Bianca. Leggete questa del 1997, dal settimanale «Oggi», una rubrica di Antonio Di Pietro: «Mi offro come garzone del nuovo Grande Centro». Uno spettacolo infinito. Nel 2001 si incarnò direttamente il messia, Giulio Andreotti, con la sua Democrazia europea (oddìo, questa Europa…) messa su con l’ex cislino Sergio D’Antoni. Deputati: zero. Senatori: due col recupero proporzionale. Eppure si sono scannati per la legittima eredità. Ci sono stati anni, intorno al 2005, in cui ci si è occupati di liti da ballatoio fra personaggi intraducibili, Giuseppe Pizza e Angelo Sandri, che si disputavano sede e simbolo dello Scudocrociato; il cui significato, per i ragazzi di oggi, equivale alla Stele di Rosetta. Il resto sono nomi, ambizioni vaporose, da Clemente Mastella a Paolo Cirino Pomicino, da Giuseppe Fioroni a Marco Follini. Coraggio, è solo un altro round.  

Da - http://www.lastampa.it/2013/10/20/italia/cronache/leterno-ritorno-della-dc-balena-bianca-ormai-spiaggiata-h0ILWMqd0wBurVw9VYLHuL/pagina.html
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« Risposta #84 inserito:: Novembre 03, 2013, 07:22:09 pm »

Politica
30/10/2013 - personaggio

Alfano tra eretici e lealisti in cerca dell’ultima mossa

Berlusconi lo tenta, i fedelissimi vogliono rompere

Mattia Feltri
Roma

Il problema (uno dei problemi) sono i diversamente alfaniani. Perché ci sono gli alfaniani osservanti, di cui, almeno per il momento, fa parte lo stesso Angelino Alfano, oltre a Maurizio Lupi e forse Beatrice Lorenzin. E poi ci sono gli alfaniani eretici, cioè i diversamente alfaniani, indicati in Gaetano Quagliariello, Carlo Giovanardi e Roberto Formigoni. La discordanza fra gli osservanti e gli eretici, è che gli osservanti cercano il modo di conciliare Silvio Berlusconi ed Enrico Letta, mentre gli eretici mollerebbero subito il partito per mettere su un gruppo che tenga in piedi il governo. Se non lo fanno, è perché vogliono con sé il vicepremier, a dare un’apparenza di blasone all’impresa. E così, l’altra sera, dopo l’inchino davanti al Sire (il capo è lui), Alfano ha dato prova di silente lucidità: «Mi sono umiliato un’altra volta», ha detto. E ha spiegato: «Non si può litigare ogni due minuti con delle teste di rapa», laddove l’espressione «teste di rapa», riferita ai diversamente alfaniani, fu pronunciata in versione più pedestre. Tutti lo desiderano e tutti lo affliggono, ecco il dilemma.

La mobile geografia pidiellina, o forzitaliana, non può che rendere incerto e sofferto ogni passo di Alfano, il quale già di suo non è l’uomo più risoluto d’inizio millennio. Infatti non lo reclamano soltanto i diversamente alfaniani, ma in buona parte anche i berlusconiani, proprio lui, che si definì diversamente berlusconiano. Una babele. Ma, come spiega l’ex ministro Giancarlo Galan, e come è chiaro a molti, «se Angelino se ne andasse a noi costerebbe, e questo vale per lui e non vale per gli altri. Se se ne vanno Formigoni e Quagliariello, non muore nessuno». Berlusconi (che ad Angelino dice tesoruccio e figliolo, ma è ancora imbufalito per la figura rimediata in Senato a inizio ottobre, quando si alzò a sostenere che l’idea della sfiducia era evaporata) sarebbe tanto contento se il giovane segretario restasse con lui, e abbandonasse gli altri congiurati nella melma centrista. Non si parlerebbe di scissione, ma di fuoriuscita di quattro democristiani. 

Tirato di qui e tirato di là, Alfano cerca un centro di gravità pure provvisorio. Non è facile. Sentite che dice Sandro Bondi: «Sono certo che Alfano ha un profondo rapporto umano e personale con Berlusconi, che non può non farlo soffrire nelle decisioni politiche che deve assumere. Questo rapporto secondo me lo porterà a trovare un accordo per restare nella nuova Forza Italia». E quello che dice Galan: «La retromarcia di Angelino è evidente. Che sia sincera, non lo so. Tanto è vero che a me risulta che sia corso a rassicurare i suoi, a spiegargli che si tratta di tecniche, di strategie».

In questo paesaggio, ieri, nel suo eccellente Mattinale, Renato Brunetta è riuscito a scrivere che lì dentro non ci sono correnti. La qual cosa è anche tecnicamente vera, perché la scena somiglia piuttosto alle partite di calcio dei bambini: tutti contro tutti. Gira un’aneddotica irresistibile. Si racconta che Quagliariello e Lorenzin, quando vanno verso il Quirinale, scandiscono per gioco e per fedeltà «Avanti Savoia!». E si racconta che l’altro giorno Fabrizio Cicchitto, con un libro in mano, abbia incontrato in ascensore Renata Polverini e, sollevato lo sguardo dalla pagina, l’abbia salutata con un uggioso «salve». Per dire quali sentimenti animino un partito che fino a un anno fa era una testuggine. L’unica certezza, diciamo così, resta Berlusconi. Il saggio Bondi ricorda: «È ancora lui il depositario del consenso degli elettori di centrodestra. Altri sbocchi politici, e continuando a sostenere il governo, non ce ne sono». Ecco, appunto. Lui, Alfano, diversamente berlusconiano, con addosso i diversamente alfaniani, che cosa può fare - per indole e per contingenza - se non appollaiarsi nella terra di nessuno, aspettando di individuare la trincea migliore (e sempre che intanto non gli sparino addosso)? 

Da - http://lastampa.it/2013/10/30/italia/politica/alfano-tra-eretici-e-lealisti-in-cerca-dellultima-mossa-jwMS9iqY4Y6rDZwDlVHvUM/pagina.html
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« Risposta #85 inserito:: Novembre 13, 2013, 04:22:42 pm »

Politica
08/11/2013 -

Il generale di silvio Verdini al fianco del capo raduna le truppe fedeli per la battaglia finale

Gli alfaniani minacciano di dare forfait

Al consiglio nazionale 650 delegati con il Cavaliere, 130 con Alfano

Mattia Feltri
Roma

Ieri, quando ha letto la birichinata di Fabrizio Cicchitto secondo cui lui sbaglia i numeri, Denis Verdini ha commentato da toscano: e Cicchitto sbaglia gli uomini.

A parte che questa cosa dei numeri gli sta sul gozzo. Il 2 ottobre, al Senato, è andata come è andata. Ma nel computer conserva la mail che inviò a Silvio Berlusconi il giorno prima del fallito attacco di Gianfranco Fini al governo, il 14 dicembre 2010, e spesso la mostra: si vanta di non aver toppato un nome. In questi giorni, raccontano nella sede di Forza Italia in piazza San Lorenzo in Lucina, va allo stesso modo. Verdini sfoglia un voluminoso fascicolo contenente tutti i nomi degli 863 delegati al Consiglio nazionale di sabato della settimana prossima. Il numero non è definitivo, perché fra i delegati ci sono assessori e capigruppo di comuni e province, e qualcuno nel frattempo magari ha perso la carica. Varierà di poco, in ogni caso. I nomi sono segnati in colori diversi: verde chi sta con Berlusconi, e sono 650, rosso chi sta con i governativi di Angelino Alfano, e sono poco più di 130, bianchi gli indecisi, un’ottantina. Sono stati chiamati tutti, molti personalmente da Verdini, altri dai deputati, a seconda di dove sono stati eletti, perché fosse ben chiaro qual è la questione. A fine giornata, Denis scorre gli elenchi, ci rimugina sopra, poi va a Palazzo Grazioli e aggiorna il capo.

Verdini è un mulo, lo sanno tutti. Alla mattina arriva alle 8.30, fa colazione con Antonio Angelucci - deputato e signore delle cliniche romane - al bar Ciampini. Poi va nella sua stanza, nemmeno tanto grande, una scrivania, cinque potrone per gli ospiti, il tricolore, la bandiera europea e quella di Forza Italia. Posa il pacchetto di Marlboro sul tavolo e comincia. Gli squillerà il telefono un centinaio di volte. Non legge i giornali, se non gli editoriali più importanti, perché si perde tempo e si finisce col correre dietro ai pettegolezzi. Due condizionatori mantengono una temperatura baltica, a diciassette gradi. La chiamano la Siberia, la sua stanza. Un po’ perché Denis ha la fama del gelido esecutore di sentenze capitali. Uno da Lubjanka. A proposito di numeri e di uomini (e di candidature) sbagliate, nel suo giro ricordano nel dettaglio il giorno in cui Verdini impegnò più tempo del solito per convincere Berlusconi che «quelli di Italia popolare» - i parlamentari che avevano partecipato alla kermesse montiana del teatro Olimpico - non dovevano essere candidati. Chi tradisce una volta tradisce di nuovo, diceva. Erano grosso modo i governativi di oggi. Avevo ragione, dice Verdini agli amici. 

Adesso, però, il suo compito è di fare mediazione. Non è vero che dopo il disastro del 2 ottobre Verdini sia stato fatto fuori. Chiunque, nel partito, spiega che Berlusconi di lui si fida, sa che non combatte per vantaggio personale o per i galloni. Lo incontra quotidianamente. È stato iscritto nei retroscena alla corrente dei falchi e ora a quella dei lealisti, ma Verdini dice di essere berlusconiano in quanto incaricato di servire l’azionista di maggioranza. I parlamentari a lui vicini raccontano che sin dal primo giorno diceva a Berlusconi che la grazia non gliel’avrebbero mai concessa. Di conseguenza, falco. E gli diceva anche di non fare il governo di corsa, di prendersi tre o quattro settimane, come succede in Germania, perché fosse steso un programma dettagliato, a cui non si sfugge. Ancora falco.

Ora cerca soluzioni perché i governativi, al Consiglio nazionale del 16, non procedano con la scissione. Gli preme soprattutto che Alfano rimanga dentro. Se se ne vanno gli altri, pazienza. Anzi meglio. Non è nemmeno così certo che il punto d’accordo sia tanto lontano. Intanto c’è la variabile di Matteo Renzi, che lui conosce bene seppure non lo senta da anni, e sa che la sua elezione alla segreteria del Pd costituirebbe un rischio per il governo. E poi la questione - sottolineano i collaboratori di Verdini - non risiede negli incarichi della nuova Forza Italia. Verdini ha fatto sapere che non c’è problema, che ne ha anche le tasche piene. Se non lo vogliono più lì, ci rimarrà soltanto su ordine di Berlusconi. Dice ai numerosi ospiti che il suo è un lavoro infame. Se qualcuno lo vuole, prego. Capirà che significa stare alla scrivania dodici o tredici ore al giorno, ad accogliere ogni lagna, a pacificare i litiganti, a far di conto. A un certo punto Berlusconi gli appioppò persino l’incarico di contenere Daniela Santanché, perché non esagerasse. Era una missione impossibile, e ora Daniela è fuori gioco. Le mostrine attirano, ma poi? Poi si finisce con la fama del cattivo, del sicario, perché qualcuno deve pur mettere la sua firma sulle candidature, sugli avvicendamenti nei ruoli di responsabilità. Ciò di cui Verdini si duole davvero, però, e di aver messo su pancia, perché il lavoro sovente prosegue al ristorante, pranzo e cena. Talvolta la scampa, e di sera va a casa, dietro al Senato, e si prepara una pastina in brodo.

Da - http://lastampa.it/2013/11/08/italia/politica/verdini-al-fianco-del-capo-raduna-le-truppe-fedeli-per-la-battaglia-finale-tASA112qWxbYfZydUdw5fL/pagina.html
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« Risposta #86 inserito:: Novembre 30, 2013, 05:29:09 pm »

politica
29/11/2013

Alla corte del Cavaliere la vecchia guardia non ha più udienza
Gianni Letta ha accesso a ogni residenza di Berlusconi, ma non è più ascoltato
Da Gianni Letta a Bonaiuti si sono dileguati i consiglieri storici, ma nessuno li ha sostituiti

Mattia Feltri
Roma
Il giorno della decadenza, Daniela Santanché si è affacciata al balcone di Palazzo Grazioli nell’esatto momento in cui, sul maxischermo, appariva la faccia di Massimo D’Alema. All’improvviso urlo con accompagnamento di fischi, persuasa di esserne il destinatario, Daniela s’è ghiacciata di stupore. Sarà che nella ruota panoramica di Forza Italia, in cui un giorno stai in basso e quello dopo al cielo, ora le tocca di vedere il mondo da sotto. Una sera della scorsa settimana, a cena, Silvio Berlusconi ha detto che Daniela gli ha fatto danno perché è una che litiga e divide. Il nuovo responsabile della comunicazione di Forza Italia, Deborah Bergamini, è stata incaricata di smistare leader e parlamentari nella trasmissioni televisive, e di mandarci Daniela il meno possibile. Anzi, quasi mai, ché l’ultima cosa di cui Berlusconi ha bisogno è di toni focosi e stabilità di rissa. Ma lei, Daniela, non ne vuole sapere: «Andare in tv è la mia forza». Così scavalca la Bergamini e si fa invitare direttamente dai conduttori, che una del genere in studio la vogliono sempre.
Anche a questo giro di ruota, come a ogni altro, si liberano e si occupano le stanze del cuore di Berlusconi. Una, come vedete, l’ha occupata la Bergamini, che al capo dà ancora del lei, e di cui lui si invaghì, come spesso gli capita quando vede ragazzi secchioni e beneducati. Nel 2003 (Deborah aveva 35 anni) la mise nel cda Rai e naturalmente lì cominciarono le grane: fu coinvolta nella storia della Struttura Delta e accusata di aver tardato l’emissione dei dati delle Regionali 2005 per condizionarne il risultato. Polemiche, paginate, indagini della magistratura (sollecitate dai Ds) e assoluzioni piene. Il ritorno della Bergamini coincide col garbato sollevamento di Paolo Bonaiuti, a dimostrazione che i collaboratori più sono storici più se li ingoia la storia. 
Dicono che un giorno, in espressione di fedeltà massima, Bonaiuti abbia detto a Berlusconi di non condividere la politica pugilistica con governo e Quirinale. Da vecchio socialista (c’è chi lo ricorda trentenne e coi capelli alle spalle) non ce la poteva fare. E però, aggiunse, ubbidirò. Berlusconi fu riconoscente, ma da quel momento qualcosa è cambiato. Come molto è cambiato con Gianni Letta, amato come un fratello, e però i sentimenti non chiudono gli occhi: il vecchio Mazarino non ha più il tocco di una volta. Non ha ottenuto risultati con il capo dello Stato né in Corte costituzionale né in Cassazione. Palazzo Grazioli è casa sua, ma finisce lì.
E allora? Scarta questo, scarta quello, chi sono i consigliori del Decaduto? Semplicemente non ce ne sono più. O almeno non ce ne sono del livello dei vecchi. Il partito, si sa, è in mano a Denis Verdini, uno che pedala mangiando il manubrio da mattina a sera. Le grandi strategie, diciamo così, sono piuttosto in mano a Franco Coppi e soprattutto a Niccolò Ghedini, nonostante quest’ultimo non abbia raccolto risultati brillantissimi, e per la ragione che le cosiddette grandi strategie oggi collimano sempre più con le questioni giudiziarie; Ghedini deve trattare con le procure, e piuttosto i problemi sorgeranno quando, da indagato nel Ruby ter, sarà investito da un nuovo tipo di conflitto di interessi. 

 

Così, quando si chiede da chi sia costituito l’inner circle, ti rispondono: «Da Francesca Pascale e da Mariarosaria Rossi». Cioè dalla fidanzata e dalla matrona. Della politica pura, non c’è più nemmeno da discutere: è roba di Berlusconi, sarà lui a occuparsi della proliferazione dei Club Forza Silvio e di condurre il partito alle Europee. Certo, un ruolo l’ha riconquistato Raffaele Fitto, un altro ex enfant prodige, oltre che ex ministro; Berlusconi era incantato da questo ragazzo e dalla sua ottima famiglia pugliese, ma non gli piace che, superati i quaranta, abbia messo su qualche chilo e soprattutto non gli perdona di essersi opposto ai suoi piani, col risultato che alle Regionali ha rivinto Nichi Vendola. 
Non va male neanche Daniele Capezzone, anche perché, a furia di passi indietro degli altri, lui si è ritrovato avanti. E poi ha risolto il suo problema con Dudù, che gli abbaiava sempre mettendolo in cattivissima luce. Capezzone, che è sveglio, ha corrotto la bestia a suon di leccornie, e ora ce l’ha dalla sua parte. Probabilmente, Renato Brunetta non lo sa: da vero amante dei cani, si permette di rimproverare a Berlusconi l’indulgenza alimentare con cui vizia il barboncino. La cosa dimostra anche che Brunetta è tornato in gloria: lo si vede spesso su un palco, da capogruppo è più saldo che mai e poi anche a Berlusconi piace parecchio il suo Mattinale, una rassegna stampa con supplemento di agonismo che arriva ogni giorno per mail. Molti parlamentari lo cestinano all’istante il che dimostra, commenta Berlusconi, «quello che ho sempre pensato: Dudù è più intelligente della metà dei miei». 

Da - http://lastampa.it/2013/11/29/italia/politica/alla-corte-del-cavaliere-la-vecchia-guardia-non-ha-pi-udienza-SRRZvpe0kHDZE449J0V0QO/pagina.html
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« Risposta #87 inserito:: Gennaio 19, 2014, 12:18:44 am »

Politica
18/01/2014
La prima «vittoria» del segretario Renzi Berlusconi arriva puntuale al Nazareno
L’ex premier, famoso per i ritardi, è giunto alla sede del Pd alle 16 in punto.
Ed è riuscito a resuscitare il popolo viola: lancio di uova contro la sua auto
Folla di manifestanti in largo S.Andrea delle Fratte per contestare l’incontro sulla legge elettorale tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi nella sede PD,

Mattia Feltri
Roma

Il primo risultato Matteo Renzi lo ha ottenuto: Silvio Berlusconi, che da qualche decennio ci aveva abituato a puntualissimi ritardi, anche di ore, è arrivato alla sede del Pd alle 16, non un minuto più né uno meno. In questo periodo di resurrezioni, si registra quella del popolo viola, sebbene in poche unità e nemmeno tanto agguerrite: un lancio di uova che ha colpito l’auto con vetri oscurati che trasportava il capo del centrodestra è stato infatti attribuito a contestatori occasionali e non organizzati. 

Qualche urla di chi non arriva a fine mese, qualche strillo di chi ritiene non si tratti con un pregiudicato, qualche lamentela dei commercianti per la chiusura della strada; e intanto Berlusconi entrava da un ingresso laterale di modo che i giornalisti, naturalmente numerosi, non hanno avuto nemmeno il piccolo privilegio di vedere la faccia del Cav all’esordio in una sede del partito democratico. Renzi era invece arrivato a piedi, dalla stazione Termini, con un’ora di anticipo.

Da - http://lastampa.it/2014/01/18/italia/politica/la-prima-vittoria-del-segretario-renzi-berlusconi-arriva-puntuale-al-nazareno-J1GtjbEbsNHTZnK6fAaYMI/pagina.html
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« Risposta #88 inserito:: Febbraio 20, 2014, 11:22:56 am »

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 20/02/2014.
Le foto e l’automobile Beppe cambia strategia e imita il grande rivale

Il primo indizio era stato diffuso da Beppe Grillo medesimo in tarda mattina: su twitter aveva postato una foto che lo ritraeva al volante diretto a Roma. Sarà stato un caso, ma fin qui il grande capo a cinque stelle si era fatto scorrazzare su auto e camper mentre attendeva ai doveri on line o alla post-ideologia orizzontale. Forse s’era accorto di avere perso qualche colpo - lui che attraversò lo Stretto a nuoto e fece della frugalità politica una religione - nel vedere Matteo Renzi alla guida verso il Quirinale, o spostarsi a piedi fra la sede del Partito democratico e Montecitorio, e da un palazzo all’altro senza autisti, senza scorta, talvolta senza accompagnatori. E qui ci era parso che quel Grillo pilota avesse cominciato un percorso di renzizzazione. 

Poi, durante l’allucinogeno incontro di Montecitorio, il comico ha proseguito con una strategia parallela (oddìo, non vorremmo metterla giù troppo dura). E cioè ha rimproverato a Renzi l’opposto di ciò che rimprovera agli altri: gli ha dato del «bambino», gli ha detto che lui è ben più grandicello, che ha quarant’anni di carriera, che se solo gli fosse girata lo avrebbe messo nel sacco in dieci minuti. E cioè fino a ieri la colpa era di essere vecchi e muffiti, mummie ambulanti e morti inconsapevoli; ora di essere puttini, sbarbatelli in mano ai «poteri forti e alle banche». «Val la pena di starti a sentire?», ha chiesto Grillo.

Ed è andato avanti così, in un ribaltamento delle prospettive piuttosto scontato e non del tutto efficace. Gli altri erano dei gran farabutti perché non schiodavano il sedere dalle loro auto blu coi vetri fumé, e Renzi molto peggio, furbino, infidello, era salito anche lui sul camper, «e chi te l’ha insegnata questa cosa del camper, eh?». Invece di rallegrarsi d’essere spunto per una politica meno boriosa, il comico si avvelena. «Vai in giro a piedi, vai in giro con la bicicletta», gli ha detto sibilante. Di modo che per l’idrofobo elettorato grillino se ti sposti con l’auto blu sei casta, se ti sposti a piedi sei un dritto. E lo stesso per la faccenda della scorta rifiutata: «Hai detto che la tua scorta è la gente?», ha chiesto Grillo con tono apertamente ironico (e lì Renzi, che dritto lo è davvero, gli ha risposto: «Questa ti è piaciuta, eh?», e aveva un approccio complice, come dire che lì di santi non ce n’erano, e nel ramo-paraculate lui è un avversario di livello). Chissà se il nervosismo di Grillo dipendesse dalla consapevolezza che il giovinastro non è un ingenuo, conosce le ragioni dell’anticasta, non si fa ingolosire dagli status che ancora incantano i suoi colleghi. È un vero guaio per l’altoparlante dei cinque stelle, che rende indisponibile a qualsiasi compromesso la sua pretesa diversità, mentre Renzi la mette al servizio del governo. Grillo ha capito che la sua inesorabile ascesa ha incontrato un ostacolo: se Renzi va avanti con questo stile di strada, se porta a casa la legge elettorale, infila un paio di riforme ammiccanti e magari recupera qualche soldino, il Movimento perde di ragione sociale. Certo, se invece Renzi dovesse fallire, alla successive elezioni ci troveremo proiettati nel mondo di Gaia.
 
mattia feltri

da - http://lastampa.it/2014/02/20/italia/politica/le-foto-e-lautomobile-beppe-cambia-strategia-e-imita-il-grande-rivale-RE9XjBOBzN8RVC81M0JXvI/premium.html
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« Risposta #89 inserito:: Marzo 10, 2014, 06:20:18 pm »

Editoriali
10/03/2014

Il nuovo Pd si scopre garantista

Mattia Feltri

L’ex sindaco di Pescara, Luciano D’Alfonso, ha vinto le primarie del Partito democratico abruzzese, di cui è stato segretario, e sarà candidato alla presidenza della Regione. L’altra particolarità di D’Alfonso è che è in attesa del processo d’appello dopo essere stato assolto in primo grado per i suoi rapporti con il costruttore Carlo Toto.

La polemica è classica: D’Alfonso parla di macchina del fango e si fa forte dell’assoluzione (non definitiva); gli avversari, specialmente interni, ritengono più serie le ragioni di presentabilità e di opportunità: sarebbe piuttosto imbarazzante se, eletto presidente, D’Alfonso fosse condannato in secondo grado. Tentando complicate incursioni sui terreni della filosofia politica, i nuovi comandanti del Pd si chiedono se prevalga una visione etica della politica, con inchino alla magistratura, e doppio inchino alla furia antipolitica degli elettori, oppure se sia più prezioso il garantismo, oltre che un’idea crociana secondo cui i politici è bene che siano onesti, ma è meglio se sono capaci (senza contare che D’Alfonso ha vinto le primarie, e cioè il popolo del Pd lo ha votato nonostante i processi). 

In fondo è ciò che pochi giorni fa ha detto il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, spiegando alla Camera dei deputati i motivi per cui Francesca Barracciu, indagata in Sardegna per i rimborsi spese, non è stata candidata alle regionali ma successivamente promossa a sottosegretario. Il governo, ha detto la Boschi, non chiede dimissioni a sottosegretari o ministri sulla base di un avviso di garanzia. Un’inattesa novità. Anzitutto perché negli ultimi vent’anni il Pd (in ogni sua precedente denominazione) è stato piuttosto sensibile alle aspettative della pubblica accusa, soprattutto le molte volte in cui riguardavano gli avversari politici. Poi perché alla visione magistrato-centrica della vita avevano ceduto un po’ tutti (si pensi a Claudio Scajola che esulta, comprensibilmente, per essere stato assolto nella vicenda della casa vista Colosseo, e nessun imbarazzo, che abbia rilievi penali o no, se la casa gliel’hanno pagata a sua insaputa). Aveva ceduto persino il resistente eterno, Silvio Berlusconi, che all’ultimo giro elettorale non ha candidato l’amico prediletto, Marcello Dell’Utri: la gente non capirebbe, disse. Più che dalle toghe, Berlusconi era stato costretto dal grillismo, una condizione dell’animo colta benissimo dagli ultimi governi, che hanno allontanato ministri per colpe veniali: il sottosegretario Carlo Malinconico, del governo Monti, fu costretto a lasciare perché gli avevano pagato due notti di riposo in resort. E Renzi pareva proprio di quella pasta: ci si ricorderà lo scandalo da cui fu scosso per il salvataggio del ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, colpevole di relazioni pericolose con la famiglia Ligresti.

Ora che è capo del governo, oltre che del partito, Renzi si dimostra diverso. Per dirlo male, ma chiaramente, se ne frega della magistratura. Viva la Barracciu, viva D’Alfonso. La supremazia della politica. Anzi, della politica forte. Certo, per uno come Renzi, così attento ai sentimenti degli elettori, sarebbe molto grave se la svolta si limitasse a così poco. La politica forte non fa soltanto i muscoli, soprattutto fa le riforme, e sul terreno delle riforme sfida la magistratura come sfida il sindacato e qualsiasi altra casta. Sennò non è politica forte, è politica bulla. E dura poco. 

Da - http://lastampa.it/2014/03/10/cultura/opinioni/editoriali/il-nuovo-pd-si-scopre-garantista-WHDUAY9w0Cov0Efe7duv7K/pagina.html
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