LA-U dell'OLIVO
Maggio 05, 2024, 07:29:18 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Enrico Pedemonte A Wall Street vincono i furbetti  (Letto 2622 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Settembre 26, 2008, 06:30:08 pm »

A Wall Street vincono i furbetti

di Enrico Pedemonte da New York


Il salvataggio delle Borse? Ha riempito le tasche degli speculatori. Sulla pelle dei contribuenti. è tutto il sistema della finanza Usa che va riformato. Parla il premio Nobel Joseph Stiglitz  Wall Street è morta, titola il 'Wall Street Journal' in un editoriale destinato a fare storia, ma una vecchia volpe della Borsa come Nariman Behravesh, capo economista della Global Insight, dice che sono solo chiacchiere: "Tutto questo clamore farà spazio agli hedge fund e ai private equity. Dopo la scomparsa delle vecchie banche di investimento si creeranno due mercati con diversa velocità: da una parte le banche commerciali a cui si rivolgeranno i piccoli investitori, dall'altra gli hedge fund e i private equity, cioè un mercato senza regole rivolto ai ricchi e a quelli che vogliono rischiare...".

La dichiarazione di Behravesh esprime bene il clima di incertezza che si respira nel mondo della finanza. Il terremoto che ha scosso Wall Street arriva al crepuscolo dell'amministrazione Bush, in un clima elettorale incandescente, in un'economia sull'orlo della recessione. In meno di due settimane due grandi istituzioni come Fannie Mae e Freddy Mac sono state nazionalizzate, le cinque grandi banche di investimento sono sparite (fallite o assorbite dalle banche tradizionali), la prima delle società di assicurazione americane - la Aig -è stata salvata grazie a una gigantesca iniezione di denaro pubblico.

Alla fine l'amministrazione Bush ha dovuto proporre un'operazione da 750 miliardi di dollari per evitare che l'intero sistema finanziario crollasse come un castello di carte, oppresso da una valanga di mutui ormai senza valore che ha invaso i mercati e devastato i bilanci delle società finanziarie. E nessuno sa dire se questo immane sforzo da parte dell'amministrazione pubblica sarà sufficiente a tamponare una crisi in larga misura incompresa anche dagli addetti ai lavori.

Alla fine i miliardi di dollari finiti in questa epocale operazione di salvataggio saranno oltre mille, forse 2 mila. Ma molti pensano che le operazioni proposte dall'amministrazione Bush serviranno a salvare gli azionisti lasciando però intatto il Far West del sistema finanziario.

Joseph Stiglitz, docente alla Columbia University di New York e premio Nobel per l'Economia, è tra i più critici: "L'operazione di salvataggio orchestrata dal ministro del Tesoro Henry Paulson potrebbe risolversi in un colossale trasferimento di ricchezza dalle tasche dei contribuenti a quelle degli uomini di finanza", afferma nel corso di una lunga intervista a 'L'espresso': "I capi delle banche di investimento stanno stappando bottiglie di champagne perché pensano di avere finalmente trovato qualcuno così stupido da comprare i loro mutui senza valore a spese dei contribuenti".

La sede di Morgan StanleyStiglitz non lo dice, ma la sfiducia manifestata da molti esponenti democratici nei confronti di Paulson, che in un lungo braccio di ferro con il Congresso ha chiesto carta bianca per distribuire 750 miliardi di dollari al mondo finanziario, viene proprio dalla sua storia personale. Paulson ha lavorato per 32 anni alla Goldman Sachs e ne è stato presidente per sei anni, proprio nel periodo in cui le banche di investimento americane si inventavano gli incomprensibili strumenti finanziari che oggi stanno affossando l'economia. Molti pensano che non sia lui, nonostante la sua sapienza tecnica, l'uomo giusto per risanare Wall Street e cambiarne le regole.

D'altra parte questa crisi finanziaria esplode negli ultimi mesi di vita di un'amministrazione che ha creato un buco devastante nelle casse dello Stato. Stiglitz ha studiato a lungo il problema e ha appena pubblicato 'The Three Trillion Dollars War', un libro in cui sostiene che la guerra in Iraq è destinata a costare agli Stati Uniti 3 mila miliardi di dollari. Quando Bush divenne presidente, il debito federale Usa ammontava a circa 5.700 miliardi. Ma negli otto anni di Bush, prima la guerra in Iraq, poi il salvataggio delle società finanziarie hanno triplicato quella cifra, portandola a 15-16 mila miliardi di dollari. "Si tratta di undebito colossale destinato ad abbassare per un lungo periodo il nostro livello di vita".

Riandando indietro con la memoria, Stiglitz dice che uno dei grandi responsabili della crisi è stato il capo della Federal Reserve Alan Greenspan, scelto da Ronald Reagan per diffondere il mantra della deregolamentazione. Fu Greenspan a incoraggiare la diffusione dei mutui subprime, fu lui ad assicurare che la bolla immobiliare non esisteva, sempre lui a guardare dall'altra parte quando l'edificio della finanza cominciava a scricchiolare. "Poi arrivarono i tagli alle tasse di Bush, la guerra in Iraq che ha fatto salire il prezzo del petrolio e ha indebolito l'economia. Per rispondere alla crisi che incombeva, l'amministrazione Bush ha usato la politica monetaria, facendo scendere il valore del dollaro". Ma alla fine i nodi sono venuti al pettine. E adesso che cosa si può fare?

Le proposte avanzate da Stiglitz rivestono grande interesse perché lui viene indicato da più parti come uno dei probabili consiglieri di Barack Obama se questi salirà alla Casa Bianca. Secondo Stiglitz la finanza deve essere riformata in modo profondo: "Primo: bisogna impedire che i presidenti delle società finanziarie se ne vadano a casa con enormi bonus. Gli incentivi annuali hanno dimostrato di non funzionare perché spingono a rischi eccessivi a breve termine: meglio un sistema di premi quinquennali".

Il secondo punto debole del sistema, secondo il premio Nobel, è costituito dalle regole sulla concorrenza. Il campanello d'allarme più grave è scattato con la crisi della Aig, la più grande compagnia assicurativa americana: la Federal Reserve e il ministero del Tesoro hanno giustificato il salvataggio della società, costato 85 miliardi di dollari alle casse dello Stato, sostenendo che si trattava di un'azienda così grossa e importante che il suo fallimento avrebbe portato il sistema economico al collasso. Ma questa stessa dichiarazione, secondo Stiglitz, rappresenta un'ammissione di fallimento da parte delle autorità che regolano la concorrenza: se un'azienda è talmente grande da non poter fallire senza gravi rischi per la stabilità del sistema, allora quella azienda va spaccata, o regolamentata in modo molto rigido. E la stessa sorte dovrebbe toccare alle tre società che dominano il mercato delle carte di credito, che oggi campano su regole che soffocano la concorrenza.

Ma è la mancanza di trasparenza del sistema finanziario Usa il punto su cui Stiglitz concentra la sua polemica: "Sapevamo da sei mesi che era necessario salvare la Bear Stearns. Ma ancora oggi non sappiamo quanto sia alto il rischio del salvataggio, né quanto ci abbiano rimesso i contribuenti. E soprattutto non sapevamo che in quel modo stavamo in realtà dando soldi alla JP Morgan". Stiglitz propone di creare una 'commissione per la sicurezza dei prodotti finanziari' per accertare il grado di sicurezza di quello che le banche e i fondi pensioni vendono ai consumatori: "Ognuno può correre i rischi che vuole, ma deve conoscerli. Non si può giocare alla roulette con i soldi degli altri". Ma è sul- l'intero sistema regolatorio della finanza Usa il giudizio più pesante: "Abbiamo avuto la prova che il sistema non funziona né per l'economia, né per i contribuenti americani, né per il resto del mondo. Funziona solo per un piccolo gruppo di persone che si sono riempite le tasche".

(25 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Settembre 27, 2008, 05:31:47 pm »

Il peso della crisi finanziaria


Loretta Napoleoni


Hollywood non avrebbe potuto produrre una sceneggiatura migliore di quella che da due settimane Wall Street offre al mondo. Come definirla? Avvincente, esilarante e totalmente imprevedibile. Peccato che non si tratti di un film ma della vita di 250 milioni di americani. La sensazione è che se non arrivano gli effetti speciali, l’economia americana, pari al 22% di quella mondiale, retrocederà in serie B, tra i paesi in via di sviluppo. Con il salvataggio delle banche l’indebitamento nazionale salirà al 70% del Pil e questo senza spendere un soldo per soccorrere i 35 milioni di americani, e cioè l’11% delle famiglie, che già sono sul lastrico.

Ma Washington non può permettersi gli effetti speciali, non ha neppure i soldi per salvare le banche, figuriamoci arginare la recessione!

È questo il nocciolo degli scontri politici di questa settimana, zuffe inferocite perché a ridosso delle elezioni americane. La capitale è ormai teatro di lotte fratricide tra le lobby di tutti i tipi e i membri del congresso, invece di fare quadrato come i Padri Fondatori, sono trascinati in negoziazioni che sono violente baruffe elettorali. Le sorti dell’economia, dunque, decideranno chi sarà il nuovo presidente.

Eppure nessun partito è più responsabile dell’altro per l’impoverimento dello Stato e per il cataclisma finanziario che da Wall Street si sta abbattendo sul capitalismo occidentale. Dalla caduta del Muro di Berlino tutti i capi di stato occidentali, da Blair ad Aznar, da Clinton a Berlusconi, hanno progressivamente abbandonato la manovra fiscale. Come dimenticare la celeberrima frase di Bush padre: «guardate bene le mie labbra, non aumenterò le tasse». Il Tacherismo e la Reagonomics poggiavano sullo sgravio fiscale e la privatizzazione dello Stato, da allora l’incidenza delle imposte dirette sui redditi alti è scemata fino a diventare ridicola. Lo Stato quando ne ha bisogno si indebita, solo la follia irachena è costata all’America 3.000 miliardi di dollari, quasi cinque volte il costo del salvataggio delle banche proposto dalla Riserva Federale e dal Tesoro. Questa filosofia è anche alla base della delega del funzionamento dell’economia a un branco di laureati delle business school americane ed europee, giovanotti imbottiti di teorie neo-liberiste. Sono state queste stesse scuole che negli anni 80, per giustificare tasse universitarie di 100mila dollari l’anno, hanno diffuso nel mondo l’idea che i loro laureati dovevano percepire stipendi da favola perché in possesso di doti manageriali «speciali». Ecco i numeri di questa straordinaria campagna pubblicitaria: secondo l’Economic Policy Institute di Washington, nel 2007 i compensi dei manager alla guida delle maggiori società americane erano 275 volte più alti del salario medio degli impiegati, negli anni 70 erano solo 35 volte più alti. Questa concezione è talmente radicata che la proposta di equiparare i salari di questi signori a quelli dei grandi manager del settore statale è stata criticata da alcuni membri del congresso perché «per far funzionare il piano di salvataggio c’è bisogno delle menti migliori e se riduciamo loro lo stipendio da 5 milioni a 50,000 dollari l’anno le perderemo». C’è da chiedersi dove andranno tutte queste menti, quale banca è oggi in grado di garantire stipendi da pre-crollo? E non sarebbe forse meglio liberarsi di chi ha portato alla bancarotta i pilastri del capitalismo finanziario? L’ultimo a crollare questa settimana è la Washington Mutual, la maggiore banca americana a fallire, acquistata in extremis da J.P. Morgan Chase, la stessa che la scorsa primavera comprò con i soldi della Riserva Federale la Bearn Stearns. Nella giungla finanziaria quotidiana gli scenari cambiano in un batter d’occhio, ecco cosa rende questa sceneggiata imprevedibile. Chi è costretto a recitarci, però, per fare previsioni tiene d’occhio alcuni indicatori economici chiave, come il mercato interbancario. Qui le banche si prestano soldi a tassi più alti del tasso d’interesse. Ebbene questo mercato sta giorno dopo giorno scomparendo e il poco contante disponibile è ormai a tassi proibitivi. Chi ha soldi li deposita nei forzieri delle banche centrali, dove percepisce meno dell’1% d’interesse o compra titoli di stato. Il motivo è semplice: il mercato non si fida più del management privato, alla guida del processo di salvataggio vuole uno stato che si accolli tutte le responsabilità. E la Riserva Federale ed il Tesoro sanno bene cosa vuol dire questo voto di sfiducia, è per questo che hanno chiesto 400 miliardi di dollari per rivitalizzare il mercato interbancario ma nessuno ha raccolto la richiesta perché invendibile all’elettorato a cinque settimane dal voto. Eppure il pericolo più immediato per l’economia americana e per quella mondiale è che si prosciughi la liquidità interbancaria e le banche si ritrovino senza soldi per far fronte alle operazioni di cassa giornaliere. Cosi iniziò l’assalto alle banche dopo il ’29. A Wall Street c’è già chi sta studiando come meglio inserire questo ricordo nella scenografia della prossima settimana.

Pubblicato il: 27.09.08
Modificato il: 27.09.08 alle ore 10.20   
© l'Unità
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!