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Autore Discussione: FRANCO BRUNI La crisi delle regole  (Letto 2550 volte)
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« inserito:: Settembre 09, 2008, 09:59:30 am »

9/9/2008
 
La crisi delle regole
 
 
FRANCO BRUNI
 
La disponibilità di aiuti pubblici per Fannie May e Freddie Mac, le due società parastatali di finanziamento immobiliare americane, è stata a lungo sottintesa. In luglio è diventata esplicita ma imprecisata. Domenica ha fatto un altro passo avanti: il governo ha preso impegni più precisi. Non è ancora nazionalizzazione. È invece sempre improvvisazione. La crisi finanziaria, come nel caso di Bear Sterns, di Northern Rock in Inghilterra, di alcune banche e fondi tedeschi e francesi, di altri casi che potrebbero succedere presto, è una fiera di provvedimenti di fantasia. Sembra non vi siano regole per giudicare la gravità dei casi e per decidere come procedere. L’opinione pubblica e i mercati non si oppongono alla fantasia. Anzi, la fantasia è popolare. La gente gradisce che le crisi vengano gestite da prestigiatori, presumendoli capaci di lenire ogni conseguente dolore. I politici incassano applausi e ne approfittano. In America si tratta di arrivare alle elezioni. La borsa Usa ha accolto favorevolmente le decisioni su Fannie & Freddie. Anche per iniettare liquidità nel sistema bancario le banche centrali hanno usato grande discrezionalità, accettando in garanzia titoli e attività di incerto valore. Più lo hanno fatto in modo spregiudicato, più complimenti hanno ricevuto dal mercato e dai politici. Anche la politica monetaria è stata usata, soprattutto in America, in modo spericolato, fuori dalle regole. I tassi di interesse sui fondi liquidi in dollari sono da tempo negativi, al netto dell’inflazione: chi riceve credito incassa interessi. Altri applausi: per la capacità di «uscire dagli schemi» nel fronteggiare la crisi. C’è poi la politica fiscale: in America sono stati inviati assegni a casa di alcune delle vittime della crisi immobiliare; in Europa fioriscono proposte per sbloccare la congiuntura avversa violando il Patto di Stabilità, indebitando Bruxelles o trovando altri modi fantasiosi per elargire fondi pubblici comunitari.

In Italia sia i privati che i politici sono notoriamente disinvolti con le regole. Le difficoltà della crisi e della globalizzazione sono un’occasione per applaudire colpi di fantasia e stragi di regole. Con Alitalia è stato clamoroso. Giustamente Alberto Bisin ha scritto su questo giornale che Alitalia e Freddie & Fannie hanno in comune soprattutto la socializzazione delle perdite di organizzazioni che sono state tenute dai loro governi al riparo della concorrenza. L’altro elemento comune è la rottura delle regole, particolarmente grave per società quotate. I politici come demiurghi, confortati da miopi applausi. Il salvataggio pasticciato di Northern Rock è avvenuto, forse per caso, quando il primo ministro inglese, appena nominato, era alla ricerca di effimero consenso.

La crisi finanziaria è il risultato di regole sbagliate, lacunose, non applicate, di politiche monetarie lontane dai canoni dell'ortodossia. La globalizzazione è un problema perché non è governata, non è accompagnata da regole forti e globali come lei. Crisi finanziaria e globalizzazione sono parenti. Sono crisi delle regole. Le loro sfide andrebbero affrontate curando le regole, migliorando le vecchie e mettendo a punto quelle che mancano, comprese migliori procedure per la gestione delle crisi. Si va invece nella direzione opposta: si affronta la situazione facendo le eccezioni invece delle regole. Slegandosi le mani dalle regole, con la scusa delle circostanze eccezionali, i politici guadagnano potere. A loro conviene esagerare le difficoltà, definire insopportabile la chiusura di una banca o di una linea aerea, piuttosto che un forte calo della domanda di consumi. Conviene esagerare la paura per proporsi come fonte di speranza. Ci sono senz’altro situazioni per le quali è bene siano previsti, scritti in chiaro nel libro delle regole, spazi di discrezionalità, possibili eccezioni. Ma l’opinione pubblica e i mercati dovrebbero lesinare applausi alle eccezioni. Dovrebbero chiedere regole, uguali per tutti, bene applicate e aggiornate, e che i politici si occupino di regole e non di eccezioni. Perché un sistema di regole funzioni occorre però che la gente sia disposta a pagare un prezzo di coerenza e fedeltà. Quando, nonostante le buone regole, capitano incidenti e difficoltà, entro certi limiti bisogna sopportare, senza pasticciare le regole. In economia le crisi, gli aggiustamenti costosi a situazioni nuove, sono in parte inevitabili. Portano anche benefici, se sgombrano il campo dalle conseguenze di scelte sbagliate e insegnano a non ripeterle. Le buone regole prevedono anche una accettabile distribuzione dei costi delle crisi. Val la pena di violare le regole, di consegnarci nelle mani di spregiudicati prestigiatori, per non far fallire qualche banca o una linea aerea, per non sopportare qualche trimestre di stagnazione del Pil?
franco.bruni@unibocconi.it
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 29, 2008, 10:09:58 am »

29/9/2008 - LA CRISI AMERICANA
 
I ricatti del piano Bush
 
 
 
 
 
FRANCO BRUNI
 
Il ministro del Tesoro americano tenta di trovare un accordo col Congresso sull’enorme fondo con cui vuole acquistare dalle banche i loro titoli «malati e tossici». E’ anche un tentativo di rimediare all’arroganza con cui Paulson ha inizialmente presentato un piano sul quale, oltretutto, si è mostrato impreparato e impreciso, non solo nei dettagli.

Speriamo che questa crisi finanziaria accresca la consapevolezza che occorre predisporre e concordare per tempo le procedure politiche e tecniche per gestire le crisi finanziarie, quando capitano. Concordare queste procedure è ancora più difficile e importante per l’Europa, priva di unità politica, dove il mercato dei capitali è molto integrato ma manca un governo federale dotato di risorse per intervenire.

Il fondo Paulson presenta molti problemi. Non è detto che l’accordo col Congresso vada al cuore di quelli principali. Usare 700 miliardi di dollari pubblici per togliere attività malate dal bilancio delle banche implica l’individuazione di tali attività e la fissazione del loro prezzo di acquisto. Il Tesoro chiede una forte discrezionalità nel prendere queste decisioni, che si prestano ad arbitrii e ingiustizie gravissime. L’idea è che «non si può aspettare un’altra settimana», lasciando i mercati nell’incertezza. La fretta e la prefigurazione di un irresistibile, enorme disastro, in mancanza del provvedimento proposto, diventano le armi di un ricatto, esercitato dal governo insieme alle banche.

E’ paradossale che le autorità finanziarie Usa, che dovrebbero cercare di sdrammatizzare la situazione e infondere fiducia nei mercati, siano indotte a fare esattamente l’opposto, per ottenere più facilmente l’approvazione dei provvedimenti di emergenza che propongono.

Vittime del ricatto sono i contribuenti, che dovranno pagare il conto, e coloro che soffriranno dell’inflazione derivante dall’aumento della liquidità che seguirà al salvataggio. C’è anche un’altra categoria di vittime: le componenti sociali più deboli, che rimangono ferite dalla crisi finanziaria ed economica e che potrebbero beneficiare di un diverso uso del pubblico denaro, più vicino al concetto di ammortizzatori sociali. Fra costoro molte famiglie, che sono state indotte in modi scorretti a fare debiti che non avrebbero potuto ripagare. E i disoccupati, che saranno generati dall’inevitabile rallentamento dell’economia. Negli Usa il Welfare e, in generale, le reti di protezione per i più deboli, hanno profonde e diffuse lacune: usare la finanza pubblica per aiutare i banchieri, perché «altrimenti salta tutto», potrebbe prima o poi rivelarsi un boomerang politico ed economico.

Il Congresso ha chiesto uno scaglionamento del finanziamento del fondo: in modo da aver tempo di controllarne l’utilizzazione. Se ci fosse meno fretta si potrebbe mettere a punto un misto di almeno due diversi tipi di provvedimenti straordinari per la crisi. Il primo è l’acquisto, da parte del governo, di azioni appositamente emesse dagli istituti di credito in difficoltà. Azioni ordinarie, non semplici diritti di opzione su azioni privilegiate, come prevede la bozza di accordo in via di definizione. Una forma parziale di nazionalizzazione, che responsabilizzerebbe il governo, sotto il controllo del Congresso, nel risanamento, ristrutturazione e ri-privatizzazione delle banche. Così sarebbe anche più facile regolarizzare le remunerazioni del management delle banche: cosa che i parlamentari stanno invece cercando di ottenere come condizione per approvare il piano Paulson.

Il secondo tipo di provvedimento straordinario sarebbe invece a costo zero per i contribuenti: la trasformazione in azioni di alcune categorie di debiti delle banche che hanno attivi malati. A rimetterci, almeno temporaneamente, fino a quando la ristrutturazione non avrà rilanciato la redditività delle banche, sarebbero allora i loro creditori. Spaventa il fatto che fra questi vi siano autorevoli creditori esteri, comprese importanti banche europee e autorità cinesi? Creditori che diverrebbero in parte proprietari. Spiace per lo spavento, ma c’è chi ha ancor più paura delle conseguenze del salvataggio proposto da Paulson.

I provvedimenti straordinari non risolvono il problema alla radice, né impediscono il suo ripetersi futuro. Per una vera, duratura soluzione ci vorrebbe, innanzitutto, una riforma profonda della regolamentazione e della vigilanza finanziarie. Paulson ne è consapevole, ma l’altro giorno ha scongiurato: «Per favore, non questa settimana». Anche su questo fronte c’è impreparazione e il rischio dell’improvvisazione. Servirebbe inoltre il ritorno della fiducia nella strategia delle banche, che induca in tutto il mondo un nuovo flusso di investimenti nel loro capitale. Senza il quale il credito non riprenderà mai a fluire normalmente. Perché torni la fiducia deve cessare al più presto la demonizzazione della finanza, che è di gran moda e che i «regali» alla Paulson potrebbero invece prolungare.

franco.bruni@unibocconi.it
 
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