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Autore Discussione: Le «nozze» di Hillary e Obama. Con avvocato  (Letto 2753 volte)
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« inserito:: Giugno 03, 2008, 12:04:50 pm »

3/6/2008
 
Perchè Hillary non molla
 
 
 
 
 
BORIS BIANCHERI
 
Con il voto di oggi in due poco popolosi Stati americani, il Montana e il South Dakota, si chiude il lungo carosello elettorale per la scelta del candidato democratico alle elezioni del Presidente degli Stati Uniti. Stando alla logica e al comune buon senso, dovrebbe chiudersi così la battaglia tra Barack Obama e Hillary Clinton, che da gennaio in poi ha colorato la vita politica americana e si è fatta più aspra e cattiva ogni giorno. Anche se l’attuale tornata non sarà sufficiente perché Obama raggiunga la numerica certezza della vittoria, gli basterà l’appoggio di un modesto numero dei circa 170 superdelegati del suo partito che non hanno ancora ufficialmente dichiarato la loro scelta per avere la necessaria maggioranza alla Convention democratica di Denver in agosto. E i vertici del partito spingono infatti affinché ognuno faccia la sua scelta al più presto, così che la lotta interna che divide l’elettorato democratico finisca e il sorprendente e carismatico Barack Obama possa cominciare già la sua battaglia contro il futuro rivale repubblicano John McCain.

Ma nella politica americana vi sono poche certezze.

Non c’è stato finora, ed è dubbio che ci sia domani, il minimo segno che la Clinton dichiari la sconfitta e si ritiri. Non è escluso, anzi, che avanzi contestazioni circa la decisione del suo partito di dimezzare i voti che lei ha ottenuto in Florida e Michigan per avervi tenuto le elezioni in anticipo sulla data fissata.

Non c’è analista politico che non si ponga oggi questa domanda: che cosa spinge l’ex first lady a ostinarsi a combattere quando la guerra è perduta e a continuare a profondere risorse finanziarie sue e di suo marito in una causa senza speranza, che oltre tutto lacera i democratici e rischia di dare ai repubblicani, usciti malconci da otto anni di era Bush, una reale speranza di successo?

Questo rischio, in effetti, c’è. Da taluni sondaggi fatti tra gli elettori democratici risulta che molti di coloro che sostengono la Clinton preferirebbero votare per il repubblicano McCain piuttosto che per Obama, quando sarà il momento di scegliere il prossimo Presidente degli Stati Uniti. Forse la risposta agli interrogativi sollevati dalla cocciutaggine di Hillary a non darsi per vinta e dalla sua ripetuta affermazione di essere ancora adesso il solo possibile candidato democratico con probabilità di uscire vincitore da una competizione contro McCain, la si può cercare proprio in quei dati. Se l’elettorato democratico restasse diviso, e anzi la divisione si aggravasse con il persistere dell’antagonismo tra i due, se Barack Obama venisse sconfitto nella corsa decisiva alla Casa Bianca, Hillary Clinton emergerebbe come il più che probabile candidato democratico alle elezioni presidenziali del 2012. Apparirebbe infatti come quella che avrebbe già vinto le elezioni precedenti, sol che la si fosse lasciata correre. Avrebbe allora 65 anni, un’età più che accettabile per un futuro presidente. McCain non sarebbe lontanissimo dagli ottanta.

Che la Clinton sia tenace e perseverante, non c’è dubbio. Che abbia un’alta concezione delle sue virtù e delle sue capacità, è altrettanto indubbio. Ha guardato lontano e si è preparata molto per tempo - anche se ha sbagliato la tattica iniziale - a questa battaglia elettorale. Non si può escludere che, dietro la sua attuale e apparentemente inspiegabile condotta, vi sia una strategia che mira non già alle elezioni presidenziali del prossimo novembre, ma a quelle di un novembre tutto di là da venire.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 28, 2008, 05:49:51 pm »

Un civilista di grido per il «contratto prematrimoniale»

Le «nozze» di Hillary e Obama. Con avvocato

Questioni aperte Chi pagherà i debiti della Clinton, quale sarà il suo ruolo e quello del suo staff, che ne sarà di Bill

 
 
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE

WASHINGTON — «The road to Unity», la strada verso l'unità o verso Unity, il luogo- metafora del New Hampshire dove gli ex nemici Barack Obama e Hillary Clinton celebrano stamane il primo evento elettorale congiunto, è cominciata ieri sera. Ma contrariamente alla massima del generale De Gaulle, sempre convinto che «l'intendenza seguirà», il cammino della riconciliazione si annuncia accidentato e soprattutto non condiviso da tutto il popolo democratico. All'Hotel Mayflower, lo stesso dove l'ex governatore di New York Eliot Spitzer si trastullava con signorine da 5 mila dollari l'ora, il candidato democratico alla Casa Bianca e l'ex first lady sconfitta nelle primarie hanno fatto causa comune di fronte a 200 paperoni progressisti, quasi tutti finanziatori di Hillary, che li ha invitati ad aprire i portafogli, se non i loro cuori, all'ex rivale. Ma quello dei donatori è forse il problema più semplice di una trattativa complessiva, iniziata già da qualche giorno, così complicata e insidiosa, da aver richiesto i buoni uffici di uno dei migliori avvocati di Washington: Robert Barnett, lo stesso «brasseur d'affaires» che ha già procurato contratti miliardari con le case editrici, sia per i libri di Obama che per quelli dei coniugi Clinton. L'idea di affidargli l'arbitraggio è stata di Hillary. E in ballo c'è di tutto: il pagamento dei debiti lasciati dalla sua campagna; l'integrazione di parte dello staff clintoniano nella squadra di Obama; il ruolo che la senatrice di New York avrà da qui a novembre, per esempio se avrà uno staff e un aereo per andare in giro a perorare la causa di Barack; quale e quanto spazio le verrà riservato alla convenzione democratica di Denver, quando parlerà, che rilievo le verrà dato. Ultimo ma non ultimo, forse il capitolo più delicato, che ne sarà di Bill Clinton, l'incontrollabile ex presidente, che molti indicano fra le principali ragioni della sconfitta della moglie. I soldi vengono per primi. Anche se Hillary ha ormai rinunciato a recuperare i 10 milioni di dollari che ha sborsato di tasca sua, restano sempre 12 milioni di dollari di conti da saldare. Il fronte di Obama si dice pronto a dare una mano. Ma il campo dei Clinton è scontento che Barack non abbia finora fatto il gesto simbolico, quello di firmare un assegno personale di 2.300 dollari (il massimo consentito per legge) in favore della campagna di Hillary, dando così l'esempio. Né appare disposto a chiedere esplicitamente al suo milione e mezzo di piccoli donatori di contribuire a sanare il debito dell'ex avversaria: «Hanno bilanci ristretti — ha detto martedì —, sanno che lavorerò con il senatore Clinton, se vogliono contribuire possono farlo, io posso incoraggiarli ». E' un atteggiamento che alimenta ancora di più l'ostilità degli ultras clintoniani, minoranza bene organizzata e molto rumorosa, raccolta sotto la sigla «Just say no deal» che riunisce più di 100 siti Internet anti-Obama. Ci sono le donne di «Nobama Mamas», convinte che Hillary sia stata vittima di un'alleanza misogina e che si dicono decise comunque vada a votare per John McCain. Ci sono i Done (Democrats Over Nominating Elitist) e i Puma (Party Unity My Ass) che affibbiano al candidato ogni genere di nomignolo, come Barky, Obambi, Oblahblah. Oppure gli ex membri dello staff di Hillary, quelli che non ci pensano neppure a lavorare per Barack e continuano a chiamarlo spregiativamente come facevano al quartier generale di Arlington durante le primarie: Bho, per Barack Hussein Obama, con l'accento sul secondo nome. Nonostante pubbliche dichiarazioni di lode ed encomio verso Hillary, alcune recenti uscite di Obama hanno sparso altro sale sulle loro ferite. Lunedì mattina, incontrando alcuni congressisti che avevano appoggiato Clinton e parlavano dello shock subito, Obama ha invitato una deputata a get over it, a metterselo alle spalle. «C'è gente ancora arrabbiata, ci vuole tempo», ha detto Terry McAuliffe, ex capo della campagna di Hillary. Ma non è detto che basteranno i quattro mesi rimasti da qui a novembre.

Paolo Valentino
27 giugno 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 30, 2008, 09:23:45 am »

OBAMA E IL SOCIAL NETWORK

La politica rifondata


di Massimo Gaggi


Chris Hughes, Mark Gorenberg, Nadine North e altri ancora. Nomi che non dicono nulla, ma che negli ultimi 18 mesi hanno fatto la storia cambiando il genoma della politica Usa, investita dal ciclone Obama. Che non è solo il primo candidato nero alla Casa Bianca, un leader carismatico capace di emozionare e raccogliere molti soldi. Grazie ai pionieri tecnologici della Silicon Valley che hanno costruito una macchina elettorale digitale fatta su misura per lui, oggi il senatore democratico dispone di una rete di un milione e mezzo di finanziatori pronti a sostenerlo con contributi piccoli ma ripetuti, 750 mila volontari attivi in tutto il Paese e 8 mila affinity group (club di sostenitori) che hanno organizzato 30 mila eventi pro Obama in ogni angolo d'America. Una rivoluzione della politica che ridimensiona — e forse un giorno manderà in soffitta — il sistema basato sui partiti. Non è solo saper sfruttare Internet o andare su YouTube, come ormai fanno tutti i candidati: «geni della rete» e venture capitalist californiani hanno portato in dote a Obama la capacità di penetrare nei social network come Facebook o MySpace che hanno ormai centinaia di milioni di iscritti, il fenomeno più esplosivo del web.

Il candidato rifiuta il finanziamento pubblico che aveva promesso di accettare (e per questo paga un prezzo alto in termini di immagine) perché non vuole chiudere in garage la poderosa macchina appena costruita. «Barack è la start up di maggior successo mai concepita dalla Silicon Valley», sentenzia il mensile progressista The Atlantic. L'intuizione iniziale fu di Mark Gorenberg e Nadine North, un venture capitalist di San Francisco e una «cacciatrice di teste ». È stato il primo passo di una rivoluzione: oggi solo Facebook (il cui cofondatore, Chris Hughes, si è preso un sabbatico ed è andato a lavorare per il senatore) garantisce a Obama ben 950 mila «amici» (contro i 141 mila pro McCain).

Cambia il finanziamento della politica, ma anche il modo di organizzarla: la vecchia forma-partito perde terreno. Succede in America, dove quelle di democratici e repubblicani sono scatole onnicomprensive senza strutture territoriali permanenti; potrebbe accadere anche nell'Italia del «partito personale» di Berlusconi e del Pd che alla prima assemblea registra la defezione di due delegati su tre. Ci sono i delusi e gli opportunisti, certo, ma forse comincia ad affacciarsi anche da noi l'idea che si può incidere di più con un blog ben fatto che parlando per tre minuti a una platea distratta.

Una forma di democrazia dal basso non priva di inconvenienti: è vulnerabile al populismo, dà voce solo a una fetta della società, quella digitalizzata e, in quanto termometro sensibile dei cambiamenti d'umore, può ritirare all'istante un mandato magari entusiasticamente conferito solo pochi mesi prima. Ma è comunque democrazia, in un mondo nel quale, coi partiti sempre più sclerotizzati, si moltiplicano le votazioni di pura ratifica di sistemi di potere verticistici che, come in Russia, scelgono i leader per cooptazione.
Quella che transita per Internet e i social network è una formula che dà voce soprattutto ai giovani (ma, almeno negli Usa, anche 40enni e 50enni e molti anziani sono ormai frequentatori abituali della rete) e che ha bisogno di un leader vero, di grande spessore e tenuta. Il «grillismo» è la dimostrazione delle potenzialità del nuovo modo di fare politica, ma anche della difficoltà di compiere un salto di qualità. Serve un Obama carismatico, calcolatore, tecnologico.


28 giugno 2008

da corriere.it
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