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Autore Discussione: GIAN ENRICO RUSCONI  (Letto 57658 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Agosto 23, 2010, 06:00:26 pm »

22/8/2010

L'autocritica dei cattolici

GIAN ENRICO RUSCONI

Il mondo cattolico è turbato, la Chiesa è perplessa davanti al penoso spettacolo della politica. Ma quale mondo cattolico, quale Chiesa? Quelli che una volta si chiamavano cattolici democratici o «di base», diffamati come catto-comunisti perché avevano sempre sulla bocca «il sociale»?

O l’inossidabile Cl, che ancora oggi all’inizio del suo Meeting annuale, critica con toni perentori e con buoni argomenti la classe politica italiana come se le fosse estranea e non avesse da anni intensi legami con essa? Entrambi i raggruppamenti, anche se in Cl non ho visto sinora alcun cenno di autocritica da parte dei loro uomini che sono (stati) oggettivamente organici al berlusconismo.

Immagino subito l’obiezione: perché parlate di queste volgarità quando il nostro sguardo di fede punta in alto? I politici che interverranno anche quest’anno al Meeting, avranno davanti a sé una platea il cui applauso non esclude affatto il rimprovero per ciò che non è stato fatto o è stato fatto male. Peccato che sono decenni che questo scambio di critiche con simpatia si ripete con modesto risultato. Sono passati da Rimini tutti i politici che contano (nell’anno in corso), senza che la politica italiana sia migliorata. Anzi. Proprio oggi che la sinistra e il suo deprecabile laicismo sono ridotti all’impotenza politica, sembra che si sia toccato il fondo - lo dicono sia su «Famiglia cristiana» che nel Meeting di Cl.

Ma a questi cattolici, giustamente preoccupati per la politica, non viene il dubbio che occorre una diagnosi più esigente magari con un po’ più di autocritica? Che la soluzione vincente non è certo quella di rimpastare i cocci di un vecchio centro? O farsi tentare da una nuova formazione politica che fa della questione bioetica l’asse trasversale tra i due schieramenti? «La società italiana finora è riuscita a rigenerarsi indipendentemente dal potere. Ma quanto può reggere con una politica così distante, livida, ideologica?» - si chiede il responsabile di Cl.

Credo che la diagnosi debba essere più radicale e impietosa: è la società civile italiana che è allo sbaraglio e in pieno disorientamento. Molte patologie sociali (assenza di senso civico e di senso di appartenenza ad una comunità nazionale, complicità di molti gruppi sociali e di aree regionali con la criminalità organizzata, lassismo generalizzato verso le leggi, comportamenti antisolidali e razzismo latente) non provengono da fuori, dalla politica, ma dal ventre della società civile priva di anticorpi morali. Non si tratta naturalmente di negare l’esistenza di gruppi, settori e strati di «società civile» che reagiscono, che sono attivi per realizzare una democrazia decente. Certamente in prima fila ci sono i gruppi cattolici. Ma è il loro rapporto con la politica che è fallito. Questo è il punto. Altrimenti non sarebbe venuto fuori il berlusconismo che ha sedotto molti cattolici.

La leadership carismatica, che oggi si mette sotto accusa, non è un disvalore in sé (magari ci fossero in giro autentici leader carismatici!). Distruttiva è la sua costruzione fasulla attraverso il sistema mediatico, attraverso la disgregazione della comunità dei cittadini in un «popolo-di-elettori» che agisce in senso plebiscitario. La democrazia si è ridotta alla manifestazione del voto che delega tutto al leader. Più le differenze materiali di classe si confondono nella complessità delle fonti di reddito e delle (spesso precarie) posizioni di lavoro, più le differenze si mimetizzano nella pluralità degli stili di vita e di consumo - più si crea la finzione di un «popolo» unito che fa coincidere i suoi interessi con quelli (privati) del leader. Non c’entra il carisma, ma la complicità degli interessi.

Ancora più drammatica è l’assenza di una classe dirigente, che sia degna di questo nome. Il berlusconismo ha inciso in modo irreversibile sulla mutazione della democrazia italiana, creando un ceto politico chiamato solo a sanzionare (con il voto parlamentare) le decisioni del leader senza essere coinvolto nei processi deliberativi. Un ceto politico siffatto non è «dirigente» ma solo esecutore.

Ma dov’è la restante classe dirigente del Paese? La classe cui appartengono i responsabili dell’economia e della finanza, delle organizzazioni del lavoro, i responsabili del sistema educativo, i gerenti del sistema mediatico e i soggetti culturali in tutte le loro espressioni (quelli che una volta si chiamavano gli intellettuali). Dovremmo aggiungere anche gli esponenti della Chiesa, cui di fatto è demandata l’etica pubblica che sembra tuttavia essere in grado di mobilitare le coscienze soltanto quando si tratta delle questioni attinenti «la vita». Tutti i gruppi che costituiscono la classe dirigente sembrano appiattiti, intimiditi talvolta deferenti davanti al potente leader mediatico. Ma sono sottilmente suoi complici quando alla politica chiedono soltanto aiuti particolari, facilitazioni, concessioni, deroghe e sanatorie anziché un grande disegno di carattere generale.

È su questo sfondo che i cattolici italiani devono ripensare radicalmente il rapporto tra politica e società civile, di cui si sentono a ragione parte rilevante. Non possono limitarsi a scaricare la responsabilità sulla cattiva politica del presente. Una schietta autocritica sulla loro esperienza dell’ultimo quindicennio è la premessa per ricominciare con maggiore coerenza e credibilità. La società civile ha bisogno della politica.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7732&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #46 inserito:: Settembre 16, 2010, 10:15:05 am »

16/9/2010

Scusate non siamo britannici

GIAN ENRICO RUSCONI

A che cosa serve un sistema elettorale? A vincere le elezioni o a stabilire delle regole del gioco valide per tutti? Domanda ingenua.

La risposta «politicamente corretta» è ovviamente la seconda, ma i nostri politici sono fissati sulla prima. Questo spiega il frenetico discutere di sistemi elettorali a fasi intermittenti, ma soprattutto oggi. E insieme la certezza che non cambierà nulla. Infatti chi è beneficiario dell'attuale sistema elettorale non vuole rischiare, e non intende ragioni anche se ammette a denti stretti che l'attuale meccanismo è tutt'altro che ottimale. Siamo al brutto paradosso che per imporre eventualmente un sistema elettorale più intelligente, occorre prima vincere le elezioni.

Tutto questo è una patologia italiana? Lo pensano in molti, anche e soprattutto analisti stranieri. Ma parecchi di loro si sono ormai stufati di analizzarci. Hanno smesso di darci lezioni, perché siamo incorreggibili. Ci guardano con supponente benevolenza.

Meno male che c'è ancora un Bill Emmott che prende molto sul serio la situazione italiana e ci dà qualche consiglio. «Nessun sistema elettorale è infallibile - ha scritto l'altro ieri sulla Stampa - ma quello italiano con le sue "condizioni artificiali" è particolarmente fallimentare. Assolutamente sbagliato tuttavia sarebbe pensare di migliorarlo - dice - con l'introduzione del maggioritario puro all'inglese. Non soltanto perché questo non funziona neppure più in Inghilterra ma perché non risponderebbe alla "vera natura della società italiana"». L'intervento dell'analista inglese si conclude con una proposta pratica che - se ho capito bene - è una sorta di proporzionale dal basso, con scelta diretta dei candidati, senza la mediazione partitica, che rispecchi il pluralismo sociale, frenato tuttavia dallo sbarramento del 5%. Non è il caso ora di discutere della fattibilità di questa proposta operativa, mi preme invece andare alle premesse che stanno alla base del ragionamento.

Tutte portano al presupposto che esista una «Buona Italia» che attende soltanto il sistema elettorale adeguato, non artificiale o «naturale» per esprimersi. Mi sembra una simpatica ingenuità che non tiene conto delle ragioni che l'analista stesso porta per spiegare - da buon inglese - perché la vita politica in Gran Bretagna funziona nonostante si sia bloccato il suo classico (e un tempo ammirato) meccanismo maggioritario. La ragione è semplice ma decisiva. La vita politica inglese funziona perché esiste tradizionalmente «un'ampia accettazione delle regole politiche». Nel cuore profondo della società civile e della cultura politica. Ecco il punto. In Inghilterra esisteva «già il consenso perché il cambiamento fosse regolare e legittimo» - dice riferendosi al recente cambiamento di governo e di coalizione.

In Italia è esattamente l'opposto. Delegittimazione e ostilità verso l'avversario sono la sostanza della dinamica quotidiana che altera ogni rapporto. Ma dobbiamo porci la domanda: l'incapacità di avere il consenso di fondo sulle grandi regole è il prodotto di una classe politica irresponsabile e incapace o non riproduce qualcosa di più profondo? Malata è soltanto la politica o non piuttosto una società civile incattivita, desolidarizzata, disillusa, frammentata, ripiegata su interessi di parte? Come e perché si è arrivati a questo?

Alla luce di questi interrogativi il rapporto tra politica e società civile non può risolversi semplicemente nella ingegneria di un sistema elettorale che rifugga da «coalizioni artificiali», facendo emergere d'incanto «la vera natura della società italiana».

Non esiste una «Buona Italia» che attende di essere rivelata. Quello che manca è una classe dirigente nazionale come tale - non solo in politica ma nell'economia, nelle imprese, nel sistema mediatico e dell'istruzione - che si assuma l'onore di costruire il consenso (costituzionale) sulle grandi regole prima e oltre ogni formula di governo. Se non abbiamo questa tradizione (come in Inghilterra), non c'è più tempo da perdere.

Trovo sano che, a differenza di molti analisti stranieri, Emmott non faccia della figura di Berlusconi l'epitome dell'Italia.
Ma sbaglia a vedere il berlusconismo soltanto in chiave di «coalizione artificiale» in cui coesistono impulsi, attese e istanze contraddittorie che ora stanno implodendo. Il fatto che si stia vertiginosamente ridimensionando il mito del carisma comunicativo del Cavaliere e che oggi appaia come un affannato politico che deve tenere insieme i pezzi di un gruppo che era composto di zelanti «seguaci», non deve far dimenticare che - in questo modo - ha realizzato il ricambio di classe politica più radicale dal dopoguerra. Le conseguenze non sono ancora evidenti. Ma la sua è (stata) molto di più di una «coalizione artificiale». A ben vedere è stato anzi il tentativo di cancellare l'idea stessa di coalizione partitica per creare un «popolo di elettori», un nuovo demos che rivendicava addirittura il diritto di modificare le grandi regole costituzionali. In questo ha interpretato pulsioni profonde di settori importanti della società civile. Ora li lascia disillusi, frustrati per la sproporzione delle aspettative sollevate rispetto alla modestia delle cose realizzate. Ma non è ancora chiaro come finirà.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7838&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #47 inserito:: Settembre 20, 2010, 09:35:34 am »

20/9/2010

Gli anglicani possibili alleati per Benedetto
   
GIAN ENRICO RUSCONI


Se il successo mediatico è un criterio per giudicare la visita del Papa in Inghilterra, allora questa sembra aver raggiunto il suo obiettivo.

Il Pontefice ha trovato i toni giusti per farsi ascoltare in un Paese dal secolarismo maturo ed esigente. Ratzinger ha usato parole di profonda commozione e di forte dimensione religiosa per le vittime della pedofilia nella Chiesa ed espressioni di schietta riconoscenza di «tedesco» nel Paese che coltiva un ricordo vivissimo della guerra contro la Germania nazista.

Ma dietro all’emozione di Ratzinger e al suo «candore» c’è un teologo severo. Severo nel giudicare l’Occidente secolarizzato, che non è recuperabile con il semplice ricatto della minaccia dell’Islam o con la promozione di una religione-identikit, potente soltanto simbolicamente e mediaticamente - come invece vorrebbero molti. A lui stanno a cuore i contenuti dottrinari della religione.

In questa prospettiva si colloca la sua strategia di avvicinamento o di rapporto privilegiato con una Chiesa «separata» ma dogmaticamente ancora (apparentemente) salda come la Chiesa anglicana.

Ma questa Chiesa ha una pratica pastorale (sacerdozio femminile, celibato facoltativo) e una dottrina morale (unioni omosessuali) che sono considerate incompatibili con Roma. Mi chiedo quindi se l’avvicinamento tra le due Chiese non innescherà un corto circuito tra contenuti dogmatici e comportamenti morali con conseguenze imprevedibili per lo stesso cattolicesimo. Non è possibile che Ratzinger non abbia valutato questo problema.

La risorsa principale sulla quale l’attuale Pontefice punta è quella che oggi appare la più perdente: la fedeltà alla dottrina tradizionale della Chiesa. Professore di dogmatica fino al midollo, per anni defensor fidei nella struttura burocratico-istituzionale dell’ex Santo Uffizio, scelto al soglio pontificio per riportare un po’ di ordine teologico dopo le improvvisazioni wojtyliane - Ratzinger gioca tutto il suo pontificato sulla riproposta della dottrina tradizionale della Chiesa e della «razionalità della fede» con la convinzione che essa sia ancora all’altezza dell’Occidente secolare.

Apparentemente privo di carisma personale confrontabile con quello del suo predecessore, Ratzinger ne sta scoprendo uno suo personale in sintonia con il «carisma d’ufficio», basato fondamentalmente sulla autorità e sulla autorevolezza del suo ruolo.

Ma in lui si percepisce anche una sottile sofferenza interiore che ricorda quella di un suo (lontano) predecessore, Paolo VI. Ratzinger non ha l’esperienza politica né l’intelligenza problematica di Montini. Ma la passione, l’insistenza, la radicalità della sua condanna della pedofilia nelle file della Chiesa gli ha dato una statura morale e intellettuale rispetto alla quale appaiono miserabili e ridicoli i distinguo e i risentimenti vittimistici di molti uomini di Chiesa.

Dopo qualche anno di pontificato è evidente la doppia strategia ratzingeriana: lotta al «relativismo» e al «secolarismo» all’interno dell’Occidente, e tentativo di ricuperare le Chiese ancora dogmaticamente «ortodosse». Da questo punto di vista non stupisce la freddezza, spinta sino all’insofferenza, verso le Chiese riformate, protestanti tedesche che sono irrecuperabili per la Chiesa di Roma. Ma, a ben vedere, questo è un atteggiamento perfettamente coerente con la ricostruzione che Ratzinger fa dello sviluppo della modernità e del razionalismo occidentale di cui la Riforma luterana è stata uno degli impulsi (Non dimentichiamo la lezione di Ratisbona, che rimane a tutt’oggi l’esposizione più netta ma insieme più discutibile della visione ratzingeriana della modernità).

Diversa invece è la strategia verso l’anglicanesimo. È caratterizzata dalla insistenza sulla condivisione di valori comuni - paradossalmente incarnata dal «convertito» John Henry Newman ora dichiarato «beato» dalla Chiesa di Roma. Ciò che poteva sembrare un «dispetto» tra Chiese può diventare un motivo di comunanza? Forse. Ma queste sono soltanto congetture di una visita le cui conseguenze a lungo termine sono ancora molto incerte.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7854&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #48 inserito:: Ottobre 04, 2010, 12:18:15 pm »

4/10/2010

La seconda integrazione della Germania
   
GIAN ENRICO RUSCONI

All'appuntamento del ventesimo anniversario della sua riunificazione la Germania riceve un segnale forte e inatteso. «Io sono il presidente di tutti, anche il presidente dei tedeschi musulmani e dei musulmani che vivono in Germania. Io dico no a ogni scontro tra le fedi e le culture, il futuro appartiene alle nazioni che sanno essere multiculturali». Sono le parole del Presidente federale, Christian Wulff, alla sua prima importante uscita pubblica.

Di colpo, quella che rischiava di essere una celebrazione quasi di routine dell'anniversario della riunificazione ha acquistato un plusvalore nuovo. «Unità della nazione» non significa più soltanto definitiva e riuscita integrazione della popolazione delle regioni orientali, ma anche delle forti comunità di immigrati, soprattutto di religione islamica.

I tedeschi non saranno affatto sorpresi di questo allargamento di prospettiva e dell'energico intervento del loro Presidente. Da qualche tempo infatti sembra ritornata in Germania la paura che la grande comunità immigrata di religione musulmana non si lasci «integrare» come si vorrebbe o si sarebbe atteso. Naturalmente la questione non è né originale né semplice - e se ne dibatte da tempo. La novità è lo stupefacente divario che si è creato nelle scorse settimane tra la classe politica e milioni di cittadini di fronte alle provocatorie tesi di un libro scritto da Thilo Sarrazin (un politico socialdemocratico tutt'altro che privo di esperienza politica e amministrativa) sulla «non-integrabilità» degli immigrati di cultura islamica. Non è questa la sede per esaminare criticamente queste tesi che alla fine ricorrono ad una inconsistente teoria genetica per spiegare la mancata integrazione degli immigrati.

Fermamente respinte dal ceto politico e dalla stragrande parte della pubblicistica, le tesi di sapore razzista hanno incontrato un inaspettato e intenso consenso in molti strati della popolazione. Il libro è diventato un bestseller.

Sarebbe semplicistico qualificare tutto questo come un pericoloso ritorno di razzismo in Germania. La questione è complessa e delicata. Nonostante gli sforzi volonterosi e le dichiarazioni politicamente corrette, l'integrazione degli immigrati islamici sembra presentarsi oggettivamente di difficile soluzione. Molti si chiedono se la classe politica e dirigente tedesca nel suo insieme sia all'altezza della situazione.

Le parole del Presidente sono un segnale di attenzione e insieme una promessa di rinnovato impegno. In questo contesto ha coniato una nuova espressione: unverkrampfter Patriotismus - un patriottismo rilassato e fermo ad un tempo. Un concetto che potrebbe segnare simbolicamente una nuova fase di sensibilità pubblica. Essa integra e completa idealmente quel «patriottismo normale» che è emerso in questi anni in Germania ed è confermato dal clima che si respira proprio nel ventennale della riunificazione.

A questo proposito il bilancio retrospettivo non può essere che positivo. Viste a tanti anni di distanza le modalità politiche ed economiche dell'operazione della riunificazione confermano che non c'erano realistiche soluzioni alternative. Questo non vuol dire che non si siano commessi errori nella gestione della bancarotta economica della ex Ddr e soprattutto nell'approccio verso la popolazione dell'est, che aveva vissuto per quarant'anni «sotto» o «insieme con» il regime comunista. Vittima, complice o consenziente.

In realtà questo capitolo è ancora aperto. Si assiste ad uno straordinario riemergere delle memorie di quel periodo e alla loro verbalizzazione pubblica, stimolata e ripresa dai media - dopo anni di sussurri e di rimozione. Si tratta di memorie e storie personali molto diversificate, a seconda dell'età e delle generazioni, a seconda dei modi molto diversi in cui gli interessati sono stati partecipi o sono rimasti coinvolti, più o meno passivamente, nell'esperimento politico e sociale tentato dalla Germania comunista. Non si è trattato infatti semplicemente di un esperimento politico autoritario ma di un coinvolgimento profondo - volontario o coatto - di un intero modo di esistere.

Per ora non si capisce se tutto questo rimarrà un patrimonio riservato alla popolazione orientale, ancora una volta riconfermata nella sua diversità, o non venga lentamente acquisito come patrimonio comune di una intera nazione ritrovata.

Nazione ritrovata, nazione normale, e ora anche nazione impegnata verso una difficile multiculturalità.
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7911&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #49 inserito:: Ottobre 17, 2010, 03:45:26 pm »

17/10/2010

Ivan in curva l'apoteosi del feticcio

GIAN ENRICO RUSCONI

Quanto è accaduto allo stadio di Genova è stato un episodio estremo, che non è finito in tragedia per puro caso. Ma ormai il caso governa il rapporto violento tra stadio e politica.
Detto in termini più forti e preoccupanti: la politica non controlla più «lo spazio pubblico» più grande e più carico di passione che oggi esista. I responsabili dello sport e i politici continuano a fingere che la violenza sia una patologia estirpabile con misure di controllo amministrativo (le tessere) e di ordine pubblico. Certamente sono misure utili, anzi necessarie, ma non toccano il cuore del problema.

Si sta infatti modificando sotto i nostri occhi la qualità dello «spazio pubblico» in cui più direttamente si esprimono le emozioni, le identità e le loro simbologie. Legate al calcio come una «forma di vita» o un suo surrogato simbolico. Ecco perché prima di riparlare ancora dei fanatici serbi o dell’ammissione o no delle bandiere «politiche» negli stadi (come annunciato per la Stella di David a Milano) dobbiamo fare una riflessione più di fondo.

Il gioco del calcio, o meglio l’immaginario che lo accompagna con il suo intenso coinvolgimento emotivo e verbale, è probabilmente «lo spazio pubblico» più importante in cui si esprimono oggi milioni di uomini (e in misura minore di donne).

Se per ipotesi assurda dovesse essere eliminato, scomparirebbe l’argomento più frequente e coinvolgente dell’interazione quotidiana. Verrebbe meno persino un pezzo di identità di milioni di persone.

Si dirà che sto esagerando. Certo: di calcio si parla in continuazione nei rapporti quotidiani tra amici, sul lavoro, persino con sconosciuti, diventando un paradossale strumento di conoscenza. Ma - si obietta - si tratta pur sempre di spazi di intrattenimento, di relax, di gioco appunto. Quando si trasforma in qualcosa d’altro - in particolare in veicolo di violenza verbale sotto la forma di intolleranza di parte (pseudo-sportiva) o addirittura strumentalizzazione politica senza alcun nesso con il gioco - allora la passione per il calcio «degenera» letteralmente, diventa «altro dallo sport».

Queste sono osservazioni sagge ed edificanti che sentiamo da decenni ripetute seriosamente in tutti i talk-show - senza alcun risultato. Perché? Per cominciare, sin qui noi stessi abbiamo mantenuto la finzione di parlare di «sport», quando in realtà siamo dinanzi al «tifo», al coinvolgimento passivo in eventi sportivi giocati da professionisti che hanno perso ogni legame con una presunta comunità o comunanza d’origine (che dà senso alla squadra di «casa mia»). La maglia, la bandiera e la simbologia connessa sono il vero oggetto della passione e specularmente dell’odio per l’avversario. Apoteosi del feticcio, sul quale tutto può essere scaricato - in particolare quelle dinamiche identitarie che hanno le loro radici fuori, nella società, nelle attese e nelle frustrazioni da essa prodotte.

Ma che cosa c’entra la politica? Qui sta la differenza tra i ragionevoli spettatori (paganti) che si godono la partita come meritato intermezzo, magari per compensarsi dalle delusioni della politica. E gli energumeni o i ragazzi scatenati delle curve che vivono la partita non come «intermezzo» ma come rappresentazione della vita vissuta (politica compresa). E ci vogliono andare dentro, di brutto, picchiando, insultando. La confusione tra squadre e partiti fa parte del «gioco».

Tornando al brutto episodio di Genova di alcune notti fa, negli ultimi commenti la componente politica sembra ridimensionarsi. L’uomo nero, Bogdanov, da Ivan il terribile è declassato a Ivan il pentito, con l’aiuto di mamma. Quella che sembrava una spedizione politica programmata, per spostare la guerra civile serba in Europa, in polemica contro l’entrata nell’Ue, appare un trasferimento punitivo di «fans» sfuggito agli occhi della polizia. L’unica cosa certa è il dilettantismo delle autorità politiche e di polizia di entrambi i Paesi. Ma i fuochi e le violenze di quella notte rimangono ben impressi nella nostra memoria. Sono stati anch’essi frutto di quel «caso» di cui parlavamo all’inizio?

Stiamo ora bene all’erta per quello che non deve accadere a San Siro dove sventolerà la bandiera con la Stella di Davide accanto ad altri vessilli. È troppo sperare che «lo spazio pubblico» dello stadio sia più forte dei dubbi e delle resistenze della politica?

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« Risposta #50 inserito:: Novembre 05, 2010, 11:33:56 am »

5/11/2010

Se l'Italia fosse l'America

GIAN ENRICO RUSCONI

Berlusconi, Obama? L’accostamento è grottesco.
Ma ce lo impone la nostra infelice condizione. In realtà ci manca la sostanza su cui confrontarci - la grande politica. Al di là dell’Atlantico c’è una società vitale, aggressiva che fa persino paura nella sua volontà di affermare posizioni che dividono. Da noi c’è una società divisa ma ripiegata su se stessa, apatica sino alla tristezza. Costretta a lottare per la spazzatura.

Obama non è stato azzoppato da un antagonista diretto personale, non semplicemente perché non si è trattato di una elezione presidenziale. Ha dovuto fare i conti con una mobilitazione popolare eccezionale, da lui evidentemente sottovalutata. Ma questa mobilitazione - ecco l’aspetto più sorprendente della vitalità della società americana - ha trovato, inventato o fatto emergere dal basso una nuova classe politica. È esattamente l’opposto della società italiana.

Al di là dell’Atlantico c’è (stata) una politica coraggiosa che ha fallito un suo importante obiettivo: il riconoscimento popolare. Di qua c’è un pasticcio continuo di commistioni e collusioni di interessi - non del solo leader, ma di interi settori economici e sociali che pure hanno fallito.

Ma nessuno è in grado di verificarne l’effettivo gradimento popolare.

Di là abbiamo uno spettacolo imponente di classi politiche che si confrontano lealmente e duramente da far paura. Da noi l’avanspettacolo di nomenklature che si agitano per sopravvivere sullo sfondo della colonna sonora di «Giovinezza» e «Bella ciao», gabellata come conquista bipartisan. Di là la politica. Da noi la fine della politica.

I due protagonisti incarnano tutto questo: di fronte ad un gigante della comunicazione, proprio nel momento in cui è ferito profondamente, da noi c’è un comunicatore affannato. Tra qualche giorno le retoriche della «politica della famiglia» del governo stenderanno ancora una volta una pomata dermatologica su una piaga profonda.

Ma smettiamola di guardare ai Palazzi, guardiamoci attorno e dentro di noi. È la società italiana che è frustrata e ridotta all’apatia. È perfettamente inutile attendersi con cupi commenti quotidiani la dipartita di Berlusconi dal vertice politico. Non ci sarà alcuna dipartita. La classe politica, che gli italiani hanno scelto (con il noto pessimo sistema elettorale) si rivela per quella che è: incapace di autonomia e sostanzialmente immobile. È stata scelta per sostenere il leader, non per maturare come classe dirigente di tipo nuovo. Il leghismo sta facendo il suo pericoloso doppio gioco di sostegno a Berlusconi per sostenere se stesso. Ma l’esito di questa spericolata operazione potrebbe essere catastrofico: l’implosione del Nord.

Incredibile poi è l’impotenza delle forze di opposizione interne, semi-interne ed esterne. Quando mai nella storia della nostra Repubblica c’è stata un’occasione più favorevole per farsi sentire? Qual è la loro strategia oggi? Perché non riescono ad attivare una mobilitazione analoga a quella americana - al di là del paradosso che dovrebbe avere segni politici opposti a quelli repubblicani? Oppure sta proprio qui la differenza? Che fa la leadership del partito democratico, al di là del lamento quotidiano?

Ma teniamo i nervi saldi e tentiamo ancora un confronto con gli eventi della democrazia americana. Nel suo editoriale di ieri Bill Emmott ha parlato della «genialità della Costituzione americana» che impedisce qualunque traumatica interruzione della politica di fronte al mutamento degli equilibri di forza tra le sue grandi istituzioni. Saggiamente tocca alla politica tenere conto degli spostamenti di forza politica. È quello che sta per fare Obama affermando apertamente la sua disponibilità a collaborare con gli avversari repubblicani.

A ben vedere anche la nostra Costituzione pur costruita su una logica istituzionale diversa - tanto malvista e maltrattata dai berlusconiani - è contraria ad ogni rottura traumatica perché prevede passaggi istituzionali concordati per tenere conto delle variazioni degli equilibri politici. Questo implica non già «inciuci» - come subito vengono a torto diffamati - ma convergenze condivise e ben motivate. Altrimenti si ritorna alle urne. Non c’è nulla di traumatico, nessun «tradimento» - almeno per una classe politica responsabile che sappia riconoscere i propri errori o inadempienze. Ma è troppo chiederlo alla nostra attuale classe politica. Siamo daccapo con la nostra miseria.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8044&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #51 inserito:: Novembre 14, 2010, 09:53:56 am »

14/11/2010

Pompei, metafora nazionale

GIAN ENRICO RUSCONI

Il telegiornale tedesco informa con sobria soddisfazione come Angela Merkel, al G20, abbia trattato da pari a pari con i Grandi del mondo. Poi, dopo alcuni istanti, sullo stesso schermo il panorama muta drasticamente: un amaro servizio dall’Italia parla di Pompei che si sbriciola, metafora della società italiana che si sfalda. L’accostamento mediatico dei due eventi colpisce. Dopo la fase della critica, dello sdegno, del sarcasmo verso il nostro Paese, è rimasto soltanto lo stupore che chiede - invano - spiegazioni. Chi avrebbe immaginato l’abisso che nel giro di pochi anni si sarebbe creato tra Germania e Italia, a livello di opinione e di immagine pubblica? Chi poteva prevedere l’attuale indifferenza reciproca delle classi politiche?

E l’enorme fatica dei rapporti culturali? La stagione dei rapporti costruttivi tra Germania e Italia - al di là delle ovvie differenze -, la stagione politica degli Andreotti e dei Genscher, per citare due testimoni viventi, sembra preistoria.

Conosco le irritate reazioni degli alti funzionari ministeriali a quanto sto dicendo: elencano i comunicati degli incontri bilaterali italo-tedeschi, rituali e sempre più rari. O l’elenco delle manifestazioni di arte e spettacolo. O le cifre degli ottimi rapporti commerciali tra i due Paesi. Certo, gli affari vanno bene e l’arte italiana attira sempre. Ma è nettissima la percezione che si è rotto qualcosa di profondo.

Conosciamo le ragioni storiche oggettive di quanto è accaduto nell’ultimo quindicennio: il mutato equilibrio geopolitico in Europa che ha portato la Germania verso un nuovo ruolo continentale e ha spinto l’Italia alla periferia Sud-europea. L’allargamento dell’Ue, che ha declassato l’Italia tra le nazioni di media rilevanza. Ma dietro queste spinte e fatti oggettivi ci sono uomini e politiche di governo che hanno la loro responsabilità.

Da un lato c’è la Germania della Merkel che sta orientando autorevolmente di fatto la politica europea senza pretendere di comandarla. Dall’altro c’è l’Italia (post) berlusconiana che arranca per non precipitare nel vuoto. Ma non è più soltanto un problema di prestazione economica, bensì di tenuta spirituale (se mi è consentito questo impegnativo termine, diventato obsoleto).

Non è colpa di un solo uomo ma della compartecipazione di una classe politica, di un ceto dirigente e della complicità di una parte consistente della società civile. Ora l’edificio si sta sfaldando?
La metafora di Pompei-Italia, diventata mediaticamente potente, merita di essere presa sul serio.

Mettiamoci nei panni dello spettatore tedesco che guarda con doloroso stupore all’accaduto. Gli viene detto che la colpa è del governo che ha tagliato indiscriminatamente i fondi per il mantenimento del patrimonio artistico; viene messo sotto accusa il ministro dei Beni culturali, che si difende in modo maldestro e patetico; si denuncia la incompetenza delle autorità locali preposte. Ma lo stato d’abbandono e di degrado dell’area di Pompei (messa impietosamente in luce dai media ma da tempo ben nota ai visitatori) mostra un livello di indecenza e di diseducazione civica che va ben oltre la responsabilità dei singoli amministratori. È la metafora della società italiana - indifferenza e inciviltà alla base, incompetenza nell’amministrazione, incapacità della politica.

Da che parte incominciare per invertire la rotta? Dal vertice? Se si cambia un governo rivelatosi incapace, si rimette tutto a posto? L’eccesso di personalizzazione che ha caratterizzato la politica di Berlusconi rischia di trasformarsi in un boomerang di aspettative eccessive per un suo ipotetico allontanamento.

Per questo l’opinione pubblica tedesca è sconcertata. Non riesce a capire che cosa sta succedendo a Roma e si chiede se è davvero pronta una nuova classe politica capace e competente per un dopo-Berlusconi frettolosamente preannunciato. Questa nuova classe politica può uscire dalla composizione attuale del Parlamento? O saranno necessarie nuove elezioni? E se invece tutto si ricompattasse come prima?

Il pubblico tedesco è in attesa. In altri tempi la solidarietà tra le «famiglie politiche» europee - democristiana, socialista e anche verde - avrebbe portato spontaneamente a forme di consultazione e sostegno reciproco. Ora non è più così. Gli italiani sono soli. E sotto scettica osservazione.

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« Risposta #52 inserito:: Novembre 22, 2010, 01:23:17 pm »

22/11/2010


   
GIAN ENRICO RUSCONI

Dopo il Caimano avremo il Camaleonte. L’animale che cambia il colore della pelle per muoversi con sicurezza in un ambiente diventato ostile ed attaccare il nemico. Se l’obiettivo di Berlusconi è rimanere al potere, deve solo trovare il modo di ricompattare con operazioni cosmetiche (di cui è maestro) le forze necessarie. E nel parterre politico italiano ce ne sono a sufficienza.

C’è una singolare contraddizione nelle analisi che da mesi enfaticamente annunciano la fine di Berlusconi. C’è incongruenza nelle conclusioni. Se il berlusconismo non è semplicemente espressione di una persona ma sintomo di una profonda mutazione della società, del costume e della mentalità diffusa presso ampi strati sociali, perché dovrebbe sparire d’incanto? Bastano davvero le senili sciocchezze personali del Cavaliere? Se dietro ad esse funziona sempre «il far finta di fare» (Fini) che consente il «fare i propri affari», che sta a cuore ai sostenitori di Berlusconi, perché dovrebbero abbandonarlo?

Basta che milioni di telespettatori assistano maliziosamente divertiti alla messa in berlina o al match di alcuni potenti, per segnalare un potenziale risveglio alternativo?

Ma questa è semplicemente l’ultima versione mediatica di un antico (mal)costume italico. Ridere dei potenti e stare a guardare come va a finire, senza esporsi.

Dov’è il soprassalto morale dell’«altra» società, dov’è la fantomatica «società civile» con le sue energie sane e alternative? Che fanno i cattolici che sono la parte più consistente e qualificata della «società civile»? Ma di quali cattolici parliamo? Di quelli che condividono i giudizi severi di «Famiglia cristiana»? Una severità per altro che va in tutte le direzioni (anche contro il «vanitoso» don Gallo). O parliamo dei cattolici che sostengono le tesi di mons. Rino Fisichella, disposto a tutto comprendere e perdonare pur di avere nel berlusconismo una sponda antilaica e antisinistra? O semplicemente quei credenti (forse la maggioranza) che a Messa o fuori sono infastiditi da qualunque allusione considerata «politica»? Nella gerarchia poi sembra prevalere una mentalità iper-istituzionale: pur nei suoi espliciti rimproveri morali deve stare attenta a non mettere a repentaglio le risorse finanziarie e il sostegno in campo giuridico che le offre il governo più «compiacente» (parole di Berlusconi) mai avuto dopo il Concordato. Molti alti prelati non sopportano l’idea di dover fare di nuovo i conti con i «cattolici adulti». Sin tanto che il mondo cattolico è diviso e politicamente opportunista, Berlusconi può stare tranquillo.

Il Cavaliere è riuscito a creare o a saldare attorno a sé una nuova classe politica, reinventandola o riciclandola dai vecchi partiti, al punto che non si vede all’orizzonte una nuova classe politica alternativa. Questa infatti rischia di essere «ciò che resta» delle vecchie forze politiche nebulosamente orientate verso il centro. Per non parlare di ciò che resta della sinistra masochisticamente ripiegata su se stessa.

Rimane la Lega, ora diventata baluardo del berlusconismo. Strano destino, basato su un patto di reciproco interesse. A Berlusconi interessa la sopravvivenza politica, a Bossi sta a cuore il federalismo. Ma che cosa significhi concretamente questo progetto, non è chiaro. Lo ripetono anche quei pochi analisti che cercano seriamente di andare a fondo del progetto bossiano. In realtà i leghisti lo sanno benissimo: federalismo significa che «ci teniamoci i nostri soldi», «paghiamo meno tasse», «non dipendiamo più dalla burocrazia romana». Più chiaro di così...

Il problema adesso è che cosa è disposto a concedere su questi punti il governo, e soprattutto Tremonti. Bossi fa il gioco di sempre: sta con Berlusconi, ma insieme pensa al dopo; lo sostiene ma dice apertamente (a suo modo lealmente) che non condivide le sue opinioni. Vuole le elezioni perché è l’unico modo di tenere sulla corda gli elettori che vogliono il federalismo che non arriverà certamente da un governo che ha di mira la sola sopravvivenza.

Ma forse sottovalutano il camaleonte Berlusconi che diventerà più verde per mimetizzarsi con i leghisti, sarà azzurro per tenere attorno a sé il malconcio «popolo delle libertà» e sarà sempre bianco per rabbonire i cattolici di chiesa. Chi si aspettava la sua fine imminente, deve riaggiustare le previsioni.

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« Risposta #53 inserito:: Dicembre 08, 2010, 05:22:44 pm »

8/12/2010

L'euro sfida la leadership tedesca

GIAN ENRICO RUSCONI

Ragionevole prudenza? Diffidenza per una sospetta innovazione? Diffidenza verso (alcuni) partner europei? O malcelata ambizione di guidare la politica europea esclusivamente secondo i propri criteri? Che cosa c’è dietro alla opposizione del governo tedesco contro le proposte avanzate dai ministri economici dell’Eurozona che dovrebbero «porre fine alla crisi» e «rendere irreversibile l'euro» - come assicurano i promotori? Forse che i tedeschi non hanno gli stessi obiettivi? In realtà dietro a quello che rischia di apparire un conflitto di strategie economico-finanziarie tra la Germania e l’Unione europea c'è innanzitutto l’incertezza della classe dirigente tedesca sul proprio ruolo in Europa. Dalla crisi internazionale è uscita - inaspettatamente - una Germania più autorevole di prima sul piano europeo e mondiale. E’ diventata una potenza «egemone suo malgrado» in Europa. Che sul Continente non succeda nulla di importante senza il consenso di Berlino, è un fatto da tempo assodato.

Ma una nazione davvero egemone non può limitarsi a bacchettare i Paesi indisciplinati e a far pesare la sua generosità nel riparare, di tasca propria, le malefatte dei cattivi Paesi europei. Dopo tutto l’invidiabile tenuta e sviluppo della sua economia è pur sempre debitrice alla costellazione europea. In realtà non è chiaro se la classe dirigente tedesca abbia in testa una grande strategia, o non miri invece sostanzialmente a mantenere i meccanismi che hanno funzionato sino ad ieri. Così almeno sembra illudersi. Nella convinzione - ovviamente non detta ad alta voce - che la prevalenza del punto di vista tedesco sia il più vantaggioso anche per l’intera Unione europea. Questo atteggiamento «conservatore» ha una spiegazione. La popolazione tedesca infatti non nasconde più la sua aperta disillusione nei confronti dell’Europa. I discorsi sull’abbandono dell’euro sono irrealisti e provocatori, ma confermano che la gente guarda indietro. La cancelliera Merkel è sensibilissima agli umori dell’opinione pubblica.

Alla disaffezione dei tedeschi verso l’Europa e l’euro, la Merkel reagisce assumendo un atteggiamento fermo contro ogni iniziativa europea che ritiene «lassista» a favore di Paesi che non danno garanzie di politiche fiscali ed economiche tali da evitare in futuro l’intervento delle economie forti (ovvero di quella tedesca) a loro sostegno. Detto brutalmente, la cancelliera è preoccupata di rassicurare i suoi concittadini che non dovranno (più) pagare per gli altri europei. Naturalmente è una preoccupazione ragionevole, ma la Merkel non è né populista né ingenua: sa benissimo che l’euro è insostituibile per l’economia e per il benessere stesso della Germania se dietro ad esso c’è una comunità solidale. Se finisce l’euro solidale, finisce l’Europa politica e con essa la Germania di oggi. E la Merkel sa bene anche che la crisi, che ora sta rientrando, ha messo a nudo difetti di costruzione o debolezze di struttura che non possono più essere ignorati. Questa è la sfida per la classe dirigente tedesca, per il suo ritrovato senso di responsabilità europea.

La leadership che gli europei sono verosimilmente disposti a riconoscerle, in forza della posizione oggettiva della Germania (senza bisogno di proclamarlo sui tetti) presuppone un atteggiamento opposto a quello che - a torto o a ragione - si sta diffondendo nell’opinione pubblica europea: l’immagine di una virtuosa e efficiente Germania ma irritata e irritabile per ogni iniziativa che non risponde al suo punto di vista. Vedremo nelle prossime settimane se si tratta di una immagine sbagliata e passeggera e se la Germania saprà tirar fuori una classe dirigente in grado di guidare - d'accordo con le altre - l'Europa «realmente esistente».

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« Risposta #54 inserito:: Dicembre 28, 2010, 06:19:27 pm »

28/12/2010

Le amnesie dei cattolici in politica

GIAN ENRICO RUSCONI

I cattolici torneranno a condizionare direttamente la politica?
Ma hanno forse mai smesso di contare nel berlusconismo in tutte le sue fasi: dal trionfo di ieri sino alla sua virtuale decomposizione? Dentro, fuori, contro. Grazie al berlusconismo hanno creato un consistente «pacchetto cattolico», con scritto sopra la perentoria frase «valori non negoziabili». Nel contempo hanno mantenuto aperti spazi giornalistici di franco dissenso.

Che cosa ci si aspetta ora da Pier Ferdinando Casini, che ha preso parte diretta e indiretta a tutte le fasi del berlusconismo? Anche quando se n’è tenuto lontano, è riuscito ad essere lo spauracchio della Lega e dei post-fascisti incorreggibili.
Ma soprattutto a farsi rimpiangere dal Cavaliere.

E' ovvio che ora, nella fase attuale di latente disarticolazione e disgregazione del berlusconismo, Casini riacquisti profilo. Si badi bene: non sto parlando affatto della fine del berlusconismo, tanto meno dell'esaurirsi dello stile politico-mediatico che ha prepotentemente segnato la vita politica italiana e ha deformato il modo di guardare e di giudicare la politica. Questo costume andrà avanti, sotto altre spoglie. Ma assistiamo alla disarticolazione dei pezzi della classe politica che il Cavaliere ha tenuto insieme sino ad ieri.
Ma questa classe politica non sparirà affatto. Anche se sentimentalmente legata ancora a Berlusconi, è fermamente determinata a non finire con lui.

In questo contesto, Casini si presenta come l'uomo politico in grado di ricompattare l'intero segmento dei cattolici in politica, cominciando con il mettere al sicuro «il pacchetto cattolico» da un’ipotetica ripresa laica. E' questo ciò che sta a cuore alla gerarchia ecclesiastica.

Se questa operazione riesce, i cattolici continueranno a costituire una «lobby dei valori» (come se quegli degli altri fossero disvalori) senza riuscire ad essere una vera classe politica dirigente. Forse non se ne rendono neppure conto. Comincio a pensare che le ragioni di questa debolezza siano da ricercare anche nell’elaborazione religiosa di cui si sentono tanto sicuri. Cerco di spiegarmi - a costo di dire cose sgradevoli.

Non c'è bisogno di evocare «il ritorno della religione nell'età post-secolare» per constatare nel nostro Paese la forte presenza pubblica della religione-di-chiesa (cioè dell'espressione religiosa mediata esclusivamente dalle strutture della Chiesa cattolica). Ma la rilevanza pubblica della religione, forte sui temi «eticamente sensibili» (come si dice), è accompagnata da un sostanziale impaccio comunicativo nei contenuti teologici che tali temi dovrebbe fondare. O meglio, i contenuti teologici vengono citati solo se sono funzionali alle raccomandazioni morali. Siamo davanti ad una religione de-teologizzata, che cerca una compensazione in una nuova enfasi sulla «spiritualità». Ma questa si presenta con una fenomenologia molto fragile, che va dall’elaborazione tutta soggettiva di motivi religiosi tradizionali sino a terapie di benessere psichico. I contenuti di «verità» religiosa teologicamente forti e qualificanti - i concetti di rivelazione, salvezza, redenzione, peccato originale (per tacere di altri dogmi più complessi ) -, che nella loro formulazione dogmatica hanno condizionato intimamente lo sviluppo spirituale e intellettuale dell'Occidente cristiano, sono rimossi dal discorso pubblico. Per i credenti rimangono uno sfondo e un supporto «narrativo» e illustrativo, non già fondante della pratica rituale. La Natività che abbiamo appena celebrato è fondata sul dogma teologico di Cristo «vero Dio e vero uomo». Si tratta di una «verità» che ha profondamente inciso e formato generazioni di credenti per secoli. Oggi è ripetuta - sommersa in un clima di superficiale sentimentalismo - senza più la comprensione del senso di una verità che non è più mediabile nei modi del discorso pubblico.

Ricordo il commento di un illustre prelato davanti alla capanna di Betlemme: lì dentro - disse - c'era «la vera famiglia», sottintendendo che tali non erano le coppie di fatto e peggio omosessuali. Si tratta naturalmente di un convincimento che un pastore d'anime ha il diritto di sostenere, ma che in quella circostanza suonava come una banalizzazione dell'evento
dell’incarnazione, che avrebbe meritato ben altro commento. Ma viene il dubbio che ciò che soprattutto preme oggi agli uomini di Chiesa nel loro discorso pubblico sia esclusivamente la difesa di quelli essi che chiamano «i valori» tout court, coincidenti con la tematica della «vita», della «famiglia naturale» e i problemi bioetici, quali sono intesi dalla dottrina ufficiale della Chiesa. Non altro. La crescita delle ineguaglianze sociali e della povertà, la fine della solidarietà in una società diventata brutale e cinica (nel momento in cui proclama enfaticamente le proprie «radici cristiane»), sollevano sempre meno scandalo e soprattutto non creano impegno militante paragonabile alla mobilitazione per i «valori non negoziabili».

Un altro esempio è dato dalla vigorosa battaglia pubblica condotta a favore del crocifisso nelle aule scolastiche e nei luoghi pubblici.
Una battaglia fatta in nome del valore universale di un simbolo dell'Uomo giusto vittima dell’ingiustizia degli uomini. O icona della sofferenza umana. Di fatto però, a livello politico domestico il crocifisso è promosso soprattutto come segno dell'identità storico-culturale degli italiani. E presso molti leghisti diventa una minacciosa arma simbolica anti-islamica.
In ogni caso, l'autentico significato teologico - traumatico e salvifico del Figlio di Dio crocifisso, oggetto di una fede che non è condivisa da altre visioni religiose, tanto meno in uno spazio pubblico - è passato sotto silenzio. I professionisti della religione non riescono più a comunicarlo. E i nostri politici sono semplicemente ignoranti.

Se i cattolici hanno l'ambizione di ridiventare diretti protagonisti della politica, dovrebbero riflettere più seriamente sul loro ruolo.
Il discorso politico, soprattutto quando porta alla deliberazione legislativa, rimane e deve rimanere rigorosamente laico, nel senso che non può trasmettere contenuti religiosi.
Ma nello «spazio pubblico», che è molto più ampio e può ospitare discorsi di ogni tipo, si deve misurare la maturità di un movimento di ispirazione religiosa che sa essere davvero universalistico nell'interpretare e nel gestire l'etica pubblica. Non semplicemente una lobby in difesa di quelli che in esclusiva proclama i propri valori.

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« Risposta #55 inserito:: Gennaio 23, 2011, 06:16:38 pm »

23/1/2011

Democrazia contrattata

GIAN ENRICO RUSCONI

Sin tanto che al suo fianco rimangono i Letta, i Tremonti, i Bossi, e la gerarchia ecclesiastica si limita ad ammonire con toni alti ma politicamente elusivi, Berlusconi ce la farà anche questa volta. Al resto penserà una comunicazione mediatica selvaggia, creando nei prossimi giorni grande confusione. Poi c’è la complicità di una classe politica di maggioranza che è terrorizzata dall’idea di «andare a casa». E da ultimo c’è l’invincibile ostilità verso la sinistra di una parte considerevole dell’elettorato che la rende ricettiva della campagna contro la magistratura.

Il destino di Berlusconi non è deciso dalla questione morale, ma dalla concretezza degli interessi in gioco. E questi interessi sono per il mantenimento del Cavaliere a Palazzo Chigi. Ogni altra alternativa fa paura più della sua totale perdita di credibilità. I berlusconiani e i beneficiari del suo sistema di governo non si sentono ancora tanto forti da fare a meno di lui. Soprattutto perché ora lo tengono in pugno. Alzeranno il prezzo del loro sostegno.

Il resto lo farà l’incredibile impotenza dell’opposizione politica, inesorabilmente minoritaria e strutturalmente divisa. Se questo è il quadro politico, ci resta soltanto la vergogna.
Tra qualche settimana si ricomincerà da capo, con il tira e molla del Terzo Polo su come condizionare il governo, con i leghisti che manipoleranno il federalismo in chiave secessionista, con i cattolici preoccupati soltanto del pacchetto dei loro «valori non negoziabili»? Oppure qualcosa è cambiato irreversibilmente?

Un fatto è certo: il governo berlusconiano sopravviverà intensificando la contrattazione con due suoi punti di appoggio indispensabili. Uno interno, la Lega; l’altro esterno, la Chiesa. In un momento in cui il mondo cattolico è turbato e scandalizzato come non mai, in un momento in cui ha la chance di tradurre in politica la sua tanto decantata centralità nella «società civile», la gerarchia ecclesiastica avrà un ruolo oggettivamente ambiguo. Certo, nei prossimi giorni la sua voce si alzerà alta e forte, ma sarà rigorosamente impolitica.

Il paradosso è che la Chiesa si vanterà di svolgere il suo magistero morale senza interferire nella politica. Ma è una finzione. Come se le fortissime pressioni esercitate in questi anni sulla legislazione a proposito delle questioni bioetiche o sulla scuola cattolica non fossero politiche. In realtà presso alcuni influenti esponenti della gerarchia c’è la reticente volontà di mantenere in vita il governo «più compiacente verso la Chiesa», a costo di abbandonare alla frustrazione e all’impotenza quella rilevante parte del mondo cattolico che vorrebbe valorizzare in termini politici efficaci il soprassalto morale e civile di questi giorni. Invece il tutto si tradurrà in qualche nuovo favorevole patteggiamento del governo.

Siamo ridotti ad una democrazia contrattata. Mai come in coincidenza del 150° anniversario della sua fondazione, come Stato unitario, l’Italia appare una «nazione contrattata». Al Nord una Lega nervosa e ricattatrice patteggia, a suon di concessioni fiscali e cedimenti simbolici con un governo debolissimo, per decidere quanta e quale nazione siamo ancora e saremo.

Berlusconi che vuole sopravvivere ad ogni costo (mai espressione è stata più corretta) è magari già disposto a fare di Arcore la seconda residenza ufficiale del governo dopo Palazzo Chigi, pur di essere sempre il premier. Bossi, che sta giocando la carta più difficile della sua carriera, gli ha detto in faccia di «riposarsi». Ci penserà lui a sistemare le cose, ormai da leader virtualmente nazionale: se il suo progetto federalista vuol avere un futuro, deve fare i conti non solo con il Terzo Polo ma con la stessa sinistra.

Rimane l’enigma Tremonti. Il ministro intende piegare la sua politica nazionale di rigore finanziario agli interessi di una parte che non nasconde le sue tentazioni secessioniste? Intende avallare un federalismo come paravento del governo del Nord e dal Nord sull’intera nazione? Chiesa permettendo, naturalmente. Si sta preparando ad una nuova Italia contrattata?

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« Risposta #56 inserito:: Febbraio 08, 2011, 12:28:20 pm »

8/2/2011 - CRISI IN EGITTO

La vera partita comincia soltanto ora


GIAN ENRICO RUSCONI

In Egitto siamo alla vigilia di una transizione quasi-istituzionale verso la democrazia? Oppure ad un tentativo di normalizzazione che elude la richiesta di dimissioni di Mubarak con conseguenze imprevedibili? Siamo al punto di svolta della crisi. La questione delle dimissioni del presidente autocratico diventa decisiva, non solo simbolicamente ma politicamente. Dietro a lui infatti c’è un’intera classe dirigente, intimidita, ma decisa a giocare la sua partita. La posta in gioco ora è il consenso di milioni di egiziani che non dispongono ancora di strumenti di espressione democratica - salvo la protesta.

Lo spettacolo straordinario di centinaia di migliaia di persone che coraggiosamente e pacificamente hanno messo in ginocchio un regime, è stata una grande lezione di spontaneità politica. Ma ha tenuto nascosto l’altro spettacolo di quartieri impauriti, di negozi sbarrati, di mercati deserti - l’altra città che stava a guardare - verosimilmente con simpatia. Ma adesso aspetta la soluzione. Ecco perché è diventato decisivo governare questa fase di transizione.

E’ facile per i governi occidentali dare agli egiziani saggi consigli per una strategia graduale. In fondo è una nuova versione della raccomandazione per l’unica cosa che sembra stare a cuore all’Occidente: la stabilità nella regione.

Si tratta di una giusta preoccupazione, naturalmente. Ma non è per questo che sono in piazza migliaia di uomini e di donne. Loro vogliono cambiare radicalmente. Per loro la parola «democrazia» ha ancora il sapore esplosivo della rivoluzione. Non è quindi per testardaggine poco diplomatica che esigono l’allontanamento di Mubarak E’ il loro modo di dire un chiaro no ad una classe politica complice con il regime mubarakiano che ora pretende di gestire il passaggio verso una democrazia, di cui non sa tracciare alcun profilo convincente, Nessuno sa esattamente che cosa succederà. E’ un momento sospeso tra voglia di normalizzazione della vita quotidiana e attesa di innovazione politica ancora tutta da inventare.

Protagonisti speciali di questo momento sono due soggetti che per ragioni diversissime sono ancora un po’ misteriosi: i giovani e il movimento dei «Fratelli musulmani». Parlare dei giovani come di soggetto collettivo è un’abitudine che abbiamo preso in occidente e che sembra confermata dalla vicenda egiziana. Anzi questa ha inventato un nuovo pezzo di mito - quella della irresistibile forza espressiva e comunicativa dei nuovi mezzi Internet, Facebook ecc. assurti a indicatori dell’identità giovanile.

Ma la dura sostanza della questione giovanile va ben più in profondità del nuovo mito Facebook. La contraddizione tra la maturità espressiva della gioventù egiziana e la sua miseria materiale - la mancanza di futuro - ha innescato una rivolta che non si fermerà tanto facilmente. Chi saprà incanalare, governare e guidare le aspettative giovanili oltre una provvisoria transizione istituzionale?

A proposito di espressione e comunicazione, non ci è sfuggita l’insistenza con cui le televisioni occidentali hanno mostrato e intervistato, durante le manifestazioni di protesta, donne e ragazze con il corpo e il volto coperto dal velo nero. Sembravano del tutto a loro agio nella folla a fianco degli altri manifestanti. Accostate magari intenzionalmente dai cameramen a barbuti giovani copti con un crocifisso sul petto. Vuol essere un segnale rassicurante all’Occidente: la domanda di democrazia politica, la libertà religiosa e l’adesione ai precetti più rigorosi dell’Islam sono compatibili. Così si afferma in Tunisia. Cosi è accaduto in Turchia.

Ebbene questo ruolo - davvero rivoluzionario - di movimento di ispirazione islamica che si fa interprete delle libertà democratiche viene ora assegnato in Egitto ai Fratelli musulmani. In realtà sulla natura effettiva e soprattutto sull’orientamento strategico di questo movimento le opinioni sono molto controverse. In Egitto e in Occidente. Non è chiaro quindi se l’aspettativa di un suo contributo alla democratizzazione sia un augurio o non piuttosto uno scongiuro. Molti temono che si tratti di mero tatticismo, ma altri ricordano esperienze di altri movimenti radicali che hanno attraversato felicemente fasi di trasformazione. E’ presto per saperlo. La storia politica del nuovo Egitto incomincia appena ora.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
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« Risposta #57 inserito:: Marzo 02, 2011, 06:49:28 pm »

2/3/2011

La Germania non perdona le bugie

GIAN ENRICO RUSCONI


In Germania un ministro non può mentire impunemente, neppure su una questione (apparentemente) privata.

Il ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg ha lasciato il governo per l’insostenibilità della sua posizione a proposito del plagio della sua tesi di dottorato. Contestualmente la cancelliera Angela Merkel non ha fatto una bella figura nel corso dell’intera vicenda. Ha vinto invece la protesta di una parte significativa della società civile e dei media. Il governo sembra scosso ma incassa: così funziona una democrazia.

Giorni fa davanti all’incredibile trascinarsi della vicenda Guttenberg, ho temuto che «la Germania che amiamo (nonostante tutto)» stesse finendo in un indecoroso miserabile scandalo.

Sembrava che una classe politica di governo difendesse un ministro considerando il suo «errore» (aver copiato molte parti del suo lavoro di dottorato) una faccenda personale che non tocca la sua competenza istituzionale. Come se il deplorevole incidente non dovesse assolutamente fermare una brillante carriera politica lanciata verso i più alti traguardi. Come se l’ammissione di quell’«errore» (Guttenberg ha sempre evitato di parlare di «bugia») potesse dirottare la faccenda sul piano della umana debolezza. In questo modo un errore pubblicamente e apertamente riconosciuto sarebbe diventato paradossalmente la conferma della grande qualità dell’uomo che lo ha commesso.

Ma la cancelliera Merkel ha aggiunto di suo una dichiarazione infelice. Guttenberg - ha detto - stava al governo per le sue eccellenti competenze di ministro, non in forza di titoli (veri o presunti) di «assistente scientifico» del governo stesso. Il contesto politico dava alla dichiarazione un involontario tono di presa di distanza dal sistema universitario e scientifico e dal suo sistema di valori. Questo atteggiamento ha rinforzato la reazione di protesta della migliore società civile tedesca, non solo di quella universitaria.

La società civile - o meglio una parte di essa (come vedremo) - ha mostrato di avere ancora due principi fermi. Primo: un uomo politico non deve mentire mai, in nessuna circostanza, anche privata. Secondo: l’attività scientifica, con le sue procedure e i suoi criteri di giudizio, non è un valore sociale di secondo livello. I lavori accademici non sono rituali che lasciano il tempo che trovano (comprese le famose «note a piè di pagina»). Naturalmente non siamo tanto ingenui da non vedere nella vicenda Guttenberg anche una forte dimensione di competizione politica e partitica. L’opposizione ha sfruttato a fondo (ma legittimamente) gli errori di comportamento dell’ex ministro e il sostegno acritico che il suo partito gli ha assicurato per settimane. Sino all’altro ieri.

I media si sono divisi, anche se la stampa nazionale più importante e influente ha subito preso una posizione critica verso Guttenberg, sempre più severa a mano a mano che il ministro modificava e manipolava le spiegazioni per giustificare e difendere il suo operato - sino alla pubblica tardiva rinuncia volontaria al titolo di dottore. Contemporaneamente si è assistito all’irresistibile impatto delle comunicazioni via Internet, riprese dai media televisivi, che implacabili ogni sera elencavano le pagine copiate della dissertazione del ministro.

Eppure nonostante questo si è formata una consistente parte di opinione pubblica, guidata da alcuni giornali popolari, che prendevano le difese del ministro, presentato come la vittima di una campagna politica dell’opposizione di sinistra, invidiosa e ostile. Ma tra le righe passava anche il messaggio, in fondo apolitico e anti-intellettuale, che non è poi così grave imbrogliare nelle cose di scuola e accademiche - perché ciò che conta è la capacità politica o comunque «il fare», non i titoli universitari.

Sullo sfondo di questo tentativo di politicizzare un problema di etica personale e pubblica e di banalizzare il valore del lavoro intellettuale e dell’attività accademica come tale, diventa istruttiva la vicenda dell’ex ministro zu Guttenberg. Soprattutto diventa esemplare la reazione della protesta civile e della stampa che le ha posto fine.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
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« Risposta #58 inserito:: Marzo 05, 2011, 04:41:57 pm »

5/3/2011

I valori del laico

GIAN ENRICO RUSCONI

In democrazia vale il principio secondo cui il credente può esporre nel discorso pubblico e quindi introdurre nel processo deliberativo posizioni che (formulate in codice religioso o no) non pregiudicano l’autonomia di comportamento degli altri cittadini che hanno convinzioni diverse o contrarie alle sue. Naturalmente vale anche il reciproco. Da parte sua il laico deve falsificare l’inconsistente luogo comune che considera la laicità, nel migliore dei casi, soltanto una procedura o un metodo mentre la religione offrirebbe contenuti di senso sostanziali. Va fermamente respinta l’idea che la percezione del mistero della vita e della contingenza del mondo, l’emozione profonda davanti all’universo, il senso del limite dell’uomo siano prerogative del sentimento religioso. È sciocco scambiare come indifferenza verso il senso della vita la discrezione, la riservatezza, il silenzio che il laico prova dinanzi alla finitezza, alla miseria umana e alla morte. La cultura laica rifugge da ogni omologazione culturale ma possiede una concezione della «natura umana» ragionevole e scientificamente fondata, a fronte di visioni antropologiche strettamente intrecciate con culture religiose storicamente debitrici a saperi pre-scientifici.

Contrastando ogni forma comunitarista che fa appello a «tradizioni» o «radici» con pretese vincolanti, il laico fa valere il principio universalistico della cittadinanza costituzionale. Tutto ciò è congruente con l’idea di democrazia intesa come lo spazio istituzionale entro cui tutti i cittadini, credenti, non credenti e diversamente credenti confrontano i loro argomenti, affermano le loro identità e rivendicano il diritto di orientare liberamente la loro vita – senza ledere l’analogo diritto degli altri. Che questo difficile equilibrio sia etichettato oggi come post-secolare anziché semplicemente laico poco importa. Ciò che conta è che esso sia garantito da un insieme di procedure consensuali che impediscono il prevalere autoritativo di alcune pretese di verità o di comportamento su altre. L’età post-secolare non può cancellare l’acquisizione essenziale della secolarizzazione: la piena legittimità etica del non credere, oltre che la legittimità e la plausibilità intellettuale del non credere. Tutte le opzioni morali hanno pari dignità quando sono pubblicamente argomentate, accolte e sottoposte al vaglio dei procedimenti democratici nei casi in cui hanno rilevanza pubblica e richiedono di farsi valere come norme di valore giuridico.

La libertà di coscienza individuale e la sua autonomia non sono affidate a insindacabili valutazioni soggettive bensì a motivazioni che sono aperte allo scambio di ragioni degli altri, accolte con pieno rispetto. Da qui la necessità di legiferare in modo da non offendere chi – nei meccanismi della rappresentanza – non riesce a far valere il suo punto di vista. [...] Questa democrazia è definibile come laica nel senso che quando in essa si manifestano credenze e convinzioni incompatibili tra loro, ai fini dell’etica pubblica e delle sue espressioni normative, non decidono «verità sull’uomo» (riferite a una «parola di Dio» interpretata in modo autoritativo da un ceto di professionisti religiosi) ma le procedure che minimizzano il dissenso tra i partecipanti al discorso pubblico. «La verità» – se vogliamo usare questo impegnativo concetto – è contenuta nello scambio amichevole di argomenti che motivano le proprie convinzioni e nella lealtà di comportamenti che non sono reciprocamente lesivi. Chi accetta questo, realizza la cittadinanza democratica.

Questo brano è tratto da «Democrazia post-secolare» nella raccolta di Letture di Biennale Democrazia pubblicata da Einaudi.

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« Risposta #59 inserito:: Marzo 13, 2011, 05:15:44 pm »

13/3/2011

GIAN ENRICO RUSCONI

L'Europa ancora non ci capisce


Centocinquant’anni fa gli europei come guardavano l’Italia? Con stupore, con incredulità e con ammirazione. Ai loro occhi gli italiani avevano realizzato un’impresa - l’unità nazionale - ritenuta quasi impossibile e in modi che apparivano ammirevoli. E oggi? Gli europei guardano l’Italia ancora con stupore, con incredulità ma con disincantata diffidenza. Come se non la riconoscessero più.

L’unità d’Italia è stato un evento europeo di prima grandezza. L’Europa non è stata semplicemente il palcoscenico dell’impresa, il suo ambiente, ma un ingrediente essenziale. Naturalmente non parliamo dell’Europa come entità politica così come la vediamo noi oggi, ma dell’Europa come sistema di Stati nazionali. Anzi come «potenze» nazionali. L’Italia diventava Stato-nazione come gli altri - alleandosi con alcuni di essi e combattendo contro altri, anzi con i più potenti. L’Italia insomma si è «fatta» lottando politicamente e militarmente per divenire nazione europea a pieno titolo.

Per un altro popolo europeo che aveva lo stesso problema, il popolo tedesco, l’Italia offriva addirittura il modello da seguire per la sua unificazione nazionale. Così pensavano i liberali tedeschi che invocavano il loro «Cavour tedesco». Quando nel 1866 la Prussia si muoverà per realizzare a suo modo il progetto nazionale sotto la guida di Otto von Bismarck, questi non userà certo la strategia di Cavour, ma vorrà fermamente al suo fianco l’Italia per combattere il nemico comune - l’Austria. Nasce così il mito della «alleanza naturale» tra Piemonte/Italia e Prussia/Germania.

Sembra archeologia storica, invece in quel tempo si gettano alcune basi di future convergenze che porteranno molto lontano.
Nel bene e nel male.
Per l’Italia post-unitaria non è facile trovare la sua posizione tra le grandi potenze europee che per molto tempo la guardano con una certa benevola supponenza. Le enormi insospettate difficoltà di costruire effettivamente le strutture di uno Stato moderno a partire da pezzi di Stati regionali, caratterizzati da sviluppo molto diseguale e soprattutto da una incredibile arretratezza economica di molte aree meridionali, assorbono gran parte delle energie di una classe politica generosa ma impari all’impresa. Detto brutalmente, all’improvvisa morte di Cavour l’Italia si scopre sprovvista di una classe politica all’altezza del compito. Ma è facile per noi oggi tranciare giudizi negativi sui suoi limiti, impreparazione tecnica, inadeguatezza culturale - persino su qualche loro canagliata.

Ma non meno ardua è la collocazione internazionale dell’Italia unita. Le potenze europee hanno un atteggiamento strumentale nei confronti del nuovo fragile Regno italiano, sfruttando spesso cinicamente anche il suo fatale conflitto con la Chiesa cattolica. Vogliono asservirlo o quanto meno utilizzarlo per i propri interessi - tutti, francesi, inglesi, tedeschi. La collocazione geopolitica della Penisola fa il resto. Proiettata nel Mediterraneo, deve tenere conto innanzitutto degli interessi delle due grandi potenze «occidentali» che vi fanno da padrone - Inghilterra e Francia. È soprattutto la dura competizione e la guerra economica della Francia, con i suoi appetiti coloniali nel Nord Africa, a spingere la diplomazia italiana a riprendere e approfondire i rapporti con le potenze settentrionali continentali - Germania e Austria. Il punto d’approdo è la Triplice Alleanza che spesso nella storiografia italiana di stampo nazional-nazionalistico (dopo gli eventi della Grande Guerra) verrà guardata con sospetto, se non con sdegno come presunta «alleanza innaturale».

Non entro qui nel merito di questa controversia storiografica. Mi preme sottolineare che è la posizione oggettiva geopolitica dell’Italia, non una qualche caratteristica antropologica o caratteriale degli italiani, che costringe la diplomazia italiana nella lunga fase post-unitaria a muoversi con destrezza e con qualche opportunismo tra le potenze europee. In fondo l’Italia non vuole schierarsi senza riserve con l’una o l’altra potenza europea, che lentamente ma inesorabilmente si muovono verso la formazione di due rigidi blocchi contrapposti che si scontreranno mortalmente nel 1914.

In questi anni ci sono episodi gustosi ma serissimi nella sostanza. Il cancelliere tedesco von Bülow, grande amico dell’Italia, cercava di sdrammatizzare davanti al parlamento tedesco l’atteggiamento oscillante italiano fra la Triplice e Francia-Russia con la famosa battuta che non era il caso di allarmarsi più di tanto se l’alleato italiano «faceva qualche giro di valzer» con la Francia, nemica della Germania, stringendo con essa un «patto di amicizia». Impagabile a questo proposito è l’affermazione serissima dell’allora ministro degli Esteri, Giulio Prinetti, che diceva che l’Italia aveva a cuore sia i suoi «alleati» (i tedeschi) che i suoi «amici» (i francesi).

Ma le belle battute si dissolvono con lo scoppio della guerra del 1914, quando l’Italia, sempre formalmente alleata con le potenze centrali tedesca e austriaca, dichiara prima la propria neutralità, per passare poi l’anno successivo sull’altro fronte, anglo-francese, provocando l’accusa di tradimento da parte degli austro-tedeschi. A dispetto delle buone ragioni italiane, è in questo preciso momento storico che per la prima volta apertamente, appassionatamente (e oserei dire irreversibilmente) gli europei si dividono nel giudicare l’Italia. Da questo punto di vista, la (buona) retorica del compimento del Risorgimento italiano nella Grande Guerra trascina con sé un trauma profondo in Europa - anche spesso ritoccato in molte ricostruzioni storiografiche - che è la radice di tutti i successivi controversi giudizi
sull’Italia e sugli italiani.

Sembra di cattivo gusto evocarlo ancora oggi, a tanti anni di distanza, soprattutto dopo i felici anni di conciliazione europea del secondo dopoguerra e dopo gli sforzi di educazione a una memoria comune matura. Ma i tempi della memoria storica reale (in cui si sedimentano e trovano alimento veri e propri pregiudizi) non sono i tempi della cronaca politica.
Concludo con un’ultima riflessione. Gli europei fanno fatica a capire perché noi oggi discutiamo con tanta passione e amarezza se e come dobbiamo rimanere una nazione unita.

Non riescono a capire perché da noi si dica che «non ci sentiamo italiani». Per loro è così evidente «l’italianità» dell’intera penisola, al di là del tanto esibito regionalismo, al punto da non rendersi conto che non sono in gioco il costume, la tradizione, la cucina e la (pseudo) religiosità degli italiani, ma un deficit di senso di comunità statuale. In realtà purtroppo alcuni europei considerano questo deficit un peccato veniale di italianità. Di conseguenza non capiscono perché il tanto strombazzato federalismo leghista sia carico di risentimento antinazionale. Per un tedesco, che gode da decenni di un federalismo funzionante, è inconcepibile che esso sia politicamente promosso con motivazioni anti-nazionali. Ma in Italia è così. È un altro motivo di difficile comprensione reciproca.

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