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6211  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Io, il maestro e quella maschera. Ascanio Celestini, intervista a Dario Fo. inserito:: Ottobre 22, 2016, 11:33:27 am
   Opinioni
Ascanio Celestini   
@ascaniocelestin

· 14 ottobre 2016
Io, il maestro e quella maschera

Un giorno Ascanio Celestini andò a casa di Dario per intervistarlo. Gli chiese cos’è la memoria, lui raccontò della faccia, del corpo e della voce del personaggio

«Il riso che affiora negli spettacoli di teatro di narrazione è, al contempo, un contrassegno d’appartenenza, una forma di compensazione e l’indizio che il racconto accade in un contesto relazionale vivo» scriveva qualche anno fa Edoardo Sanguineti. Insomma raccontare una storia significa raccontarla in un posto dove ci stanno persone vive che vivono una vita vera fatta di tutte quelle cose semplici e complicate che appartengono alle persone veramente vive. E si ride di un racconto perché sentiamo che ci appartiene, che siamo esseri viventi tra altri esseri viventi. I teatranti lo sanno, i teatranti sono fatti così. Quando stanno sul palcoscenico si mascherano e diventano tanti personaggi, poi ti accorgi che quei personaggi sono tutti finti, che l’unico volto vero è quello dell’attore. Eppure quando l’attore muore se li porta via tutti quanti i personaggi finti, come in uno strano funerale. E Dario Fo era questa cosa. Un attore che ci mette la faccia, il corpo e la voce nel personaggio. Un attore che si muove e che canta, che saltella e rumoreggia, che scrive un testo e poi lo cambia e l’improvvisa.

Così un giorno vado a casa sua per intervistarlo. Gli chiedo cos’è la memoria. La memoria nei confronti della grande storia, ma anche la memoria per un testo, per un attore che se lo deve imparare. E lui si mette a parlare della “maschera”. Mi dice che l’attore deve recitare pensando alla maschera che potrebbe avere sulla faccia, anche se non ha nessuna maschera. «Personalmente cerco sempre di uscire dal personaggio. Nella vita, nella famiglia o con gli amici, non uso mai una maschera. Moretti, che è stato uno dei più grandi Arlecchini di questo secolo, ammoniva i giovani attori perché non si abituassero a vivere con la maschera in faccia. La maschera è importantissima, ma se la tieni troppo sulla faccia, quando la togli finisci per toglierti anche la faccia! Quindi bisogna saper abbandonare la maschera e imparare a recitare senza, ma come se ancora la si stesse indossando. Che cosa significa?». E infatti non lo capisco cosa significa, ma ci credo che sia una cosa importante, ci credo che mi sta dicendo qualcosa di significativo perché, come dice lui «il grande insegnamento della maschera è che ti obbliga a recitare col corpo, dal momento che ogni movimento dei muscoli facciali è cancellato, gli occhi stessi si vedono poco e appare solo la bocca, con il labbro inferiore e il mento. Tutto il resto del viso è quasi cancellato dalla maschera e questo ti costringe a sviluppare tutta un’azione mimica in sostituzione delle espressioni facciali».
Franca è nella stanza accanto e, ogni tanto, si affaccia per seguire il discorso di Dario. Lui dice che «è lei l’attrice di casa, lei che conosce queste cose». Sorridono tutt’e due. Poi Dario ricomincia il discorso. Ricomincia dalle mani. Si tocca la faccia. «Per esempio, se indossi la maschera e la tocchi con le mani, la maschera “sparisce”, non ha più senso. La maschera ha bisogno di gesti diversi rispetto a quelli che puoi sviluppare se reciti senza: ad esempio, non puoi piangere strofinandoti gli occhi veramente, il gesto deve essere compiuto lontano dalla maschera al punto che il movimento delle spalle e del bacino deve essere abnorme rispetto a quando reciti senza la maschera. I comici dell’Arte dicevano che il bacino è il centro dell’universo: non solo per un attore di teatro, ma anche per le persone comuni. Dimmi come cammini, come ti muovi, come respiri, come muovi la tua anca sopra la gamba, come ti giri, come ti atteggi, la posizione di tutto il tuo corpo in rapporto alla tua maschera e ti dirò chi sei! Diceva un grande poeta inglese che un uomo quando ha la maschera non riesce più a mentire. Perché? Perché parlando con la maschera non può servirsi delle espressioni facciali, ma deve servirti di qualcos’altro: il gesto delle braccia, delle mani e dei piedi. E quello del corpo è un linguaggio che non vive di ipocrisia: è un linguaggio diretto, spietatamente onesto. Tutte queste cose le impari usando la maschera, allora perché a un certo punto è necessario distaccarsene? Il burattino e la marionetta, che sono “parenti” stretti della maschera, sono mossi da schemi meccanici, non più di quattro o cinque, come in una danza: la rovesciata, l’inchino, il gioco, il saltello. Allo stesso modo ogni maschera ha il suo linguaggio di espressioni e di gesti stereotipati: guai se un attore conservasse questo repertorio una volta sfilata la maschera!».

E allora perché abbiamo pensato che Dario Fo facesse politica quando saliva sul palcoscenico? Perché non abbiamo capito che lì sopra faceva semplicemente teatro? Sul palco non c’è mai l’attore, ma sempre il personaggio, anche quando è incredibilmente simile all’attore che lo interpreta. Gli attori hanno sempre la maschera, anche quando non ce l’hanno sulla faccia. La maschera se la levano quando scendono dal palco.

«Tolta la maschera è necessario perdere anche la gestualità connessa a quella data maschera» mi dice. E infatti, quando se la leva torna ad essere una persona reale, non più un personaggio, e non stiamo più a teatro, torniamo nella stanza da pranzo o al bar.

Mi canta una canzone che dice di aver ascoltato a Venezia. Mi parla di Giovanna Marini e di “ci Ragiono e Canto”. Mi offre il caffè e dopo tante parole ci salutiamo. Dario Fo è stato uno straordinario inventore, un allegro falsario. Ha inventato per tutta la vita giocando con la maschera della sua faccia e della sua voce. La maschera che sta sulla faccia quando non sembra che ci sia “per dire qualcos’altro”. Con questa maschera ci ha raccontato che l’attore può raccontare di tutto se riesce recitare con la maschera fingendo di non averla. Fare teatro come se fosse televisione. Fare cinema come se fosse teatro. Fare musica come se fosse chissà cos’altro… Stare sempre da un’altra parte, portare in scena l’inaspettato. Se un artista riesce a essere “completamente folle”, come diceva lui, è possibile che sia anche incredibilmente credibile.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/io-il-maestro-e-quella-maschera/
6212  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / Sergio Staino. La sorpresa che aspettiamo inserito:: Ottobre 22, 2016, 11:28:46 am
Opinioni
Sergio Staino   @SergioStaino

· 14 ottobre 2016
Dario Fo, un uomo libero

Oggi, caro compagno Dario, ti salutiamo per l’ultima volta con affetto immenso e senza posare alcun bollino di proprietà sulla tua tomba, non possiamo e non vogliamo farlo, ma ti porteremo nel cuore e, spero vivamente, nelle nostre opere

Mi invitano a Sky TG24 per parlare di Dario Fo. «Lei lo ha conosciuto bene e qualche volta ha anche lavorato con lui», mi dicono, «ci porti la sua testimonianza…». Accetto volentieri, come potrei fare altrimenti? Anche per me, come per molti altri, Dario Fo è stato un amico, un collega, un compagno di strada ma, soprattutto, un grandissimo maestro. Lo conobbi nella mia lontana giovinezza attraverso quello strano film di Carlo Lizzani, Lo svitato, da allora non l’ho più perso di vista e, ogni volta che arrivava alla Pergola di Firenze, facevo una fila di ore fuori per assicurarmi un posto sufficientemente buono in loggione. Erano i tempi di “Chi perde un piede è fortunato in amore” o di “Isab ella, tre caravelle e un cacciaballe” e cose simili. Meravigliose. Fantasia, invenzione, poesia e satira tutte fuse insieme con grande maestria.

E poi lui era anche un compagno. Sì, lo sappiamo, da giovane era stato tra i repubblichini, ma si era ben riscattato, era una cosa che ormai non gli apparteneva più e noi lo seguivamo e lo amavamo tanto. Dentro il teatro, fuori del teatro, nelle piazze e, alcune rare volte, anche in televisione. Inaspettato, imprevedibile, stupefacente, curioso e straordinariamente capace di illuminarci sfuggendo ad ogni dogma.

Per questo non è per ipocrisia se questo nostro giornale dedica alla sua dolorosa scomparsa quattro pagine speciali. È un doveroso gesto di affetto e di riconoscenza che dobbiamo fare ad un grande artista, ad un grande agitatore culturale e politico, che è sempre stato con il cuore affianco degli umili e degli oppressi. Sappiamo bene che negli ultimi anni Dario Fo si è molto allontanato dalla nostra area per avventurarsi sul terreno assai scivoloso del populismo di Grillo. Forse la voglia di ribellismo, un ribellismo a tutto tondo, irriverente e senza limiti, lo ha portato a vedere cuori aperti e generosi laddove, almeno io, non trovo che egoismo e aridità. Eppure alla provocazione, alla critica e allo sberleffo ci aveva ben abituati anche negli anni passati. Però quelle incavature e quelle feroci critiche mescolate nei suoi spettacoli non ci ferivano, tutt’altro, ci facevano ridere e al tempo stesso pensare, pensare molto.

Probabilmente il rapporto tra Dario Fo e il partito non poteva essere che così: troppo anarchico per accettare un compromesso, troppo fantasioso per non vedere oltre la siepe, troppo geniale per non intuire le ipocrisie che qua e là ci accompagnavano, troppo libero per adattarsi, sia pur ad una parvenza, di centralismo democratico. Insomma, un vero compagno di strada geniale che, forse anche involontariamente, con le sue incazzature e con le sue cazzate, ci aiutava a trovare la strada giusta. Credo sinceramente che non avrei mai avuto il coraggio di mettere su un settimanale satirico come Tango, all’interno de l’Unità e con il Pci di Berlinguer, se non mi fossi abbeverato ampiamente alla fonte di Dario Fo. Così come da Gramsci ho imparato che la verità è sempre rivoluzionaria, da lui ho imparato che lo sberleffo è il modo migliore per denunciare l’ipocrisia.

Tutto questo avrei voluto dire a Sky TG24 se, come mi avevano assicurato, fossi stato intervistato su Dario Fo. Invece mi sono trovato con un grillino a cui si chiedeva ansiosamente di mettere un bollino di proprietà sulla figura di Fo. Probabilmente mi sono arrabbiato troppo ma era veramente un’immagine per me dura da sopportare. È un accostamento che non riesco a fare. Dario Fo è sempre stato l’opposto. Dario Fo è stata una figura luminosa come il sole dell’avvenire, una figura geniale e al tempo stesso solidale, sempre aperta al mondo e, anche nell’indignazione, sempre pronta al sorriso. Oggi, caro compagno Dario, ti salutiamo per l’ultima volta con affetto immenso e senza posare alcun bollino di proprietà sulla tua tomba, non possiamo e non vogliamo farlo, ma ti porteremo nel cuore e, spero vivamente, nelle nostre opere.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/dario-fo-un-uomo-libero/
6213  Forum Pubblico / L'ITALIA DEMOCRATICA e INDIPENDENTE è in PERICOLO. / L'INUTILE E DANNOSO manifesto-ricetta di Marino. inserito:: Ottobre 22, 2016, 11:26:52 am
L'intervento
All'Italia serve un cuore nuovo: il manifesto di Ignazio Marino
La Costituzione di Renzi fa solo danni. I grillini espongono Roma a figuracce globali. Adesso c'è bisogno di riforme serie. Il chirurgo "marziano" affida all'Espresso la sua ricetta

Di Ignazio Marino 
18 ottobre 2016

L’Italia ha estrema necessità di riforme, per snellire e rendere meno farraginose burocrazie che spesso paralizzano le amministrazioni, ma il voto del 4 dicembre non inciderà sui bisogni reali degli italiani. E congelare l’Italia per mesi su una riforma che modifica quarantasette articoli della Costituzione non è ciò che serve al Paese.

Un Paese che soffre da anni per la crisi economica, l’eccessiva pressione fiscale, l’azzeramento dell’assistenza ai più deboli. Partiamo da qui. La riforma dell’articolo 117 della Costituzione assegna maggiore potere al governo nazionale nello stabilire i livelli di assistenza, con l’intento di porre fine alle disparità della sanità regionale che ha creato ventuno sistemi, con cure gratuite in alcune parti d’Italia, a pagamento in altre o addirittura inesistenti in alcune regioni del sud.

Questa riforma si può condividere, ma non si può tacere sul fatto che in molti ospedali ormai manca di tutto, le liste d’attesa sono drammatiche al punto che una donna in gravidanza ottiene l’appuntamento per un’ecografia dopo che il suo bambino è già nato, che il costo dei ticket spesso è così alto che non conviene più rivolgersi al pubblico tanto il prezzo è uguale al privato. Qualche giorno fa, un primario di cardiologia della Capitale si è sfogato con me: «Nel nostro ospedale potremmo sostituire oltre 150 valvole cardiache all’anno ma abbiamo risorse solo per 50 interventi: come scegliamo i pazienti da salvare e quelli da scartare?». Ben venga un maggiore coordinamento della sanità a livello centrale, ma è soprattutto ora di intervenire sull’organizzazione territoriale, sul corretto finanziamento e sul funzionamento delle strutture.

Non si sentiva invece il bisogno di una riforma del Senato che non risolve nulla. Il Senato andava abolito e invece rimane con i suoi costi, bloccherà le leggi che vorrà bloccare, i senatori avranno l’immunità ma non saranno eletti dai cittadini, bensì da consiglieri regionali che dovranno anche scegliere venti sindaci-senatori sulla base di non si sa quale rappresentanza popolare.

Si è ripreso ad annunciare il Ponte sullo stretto di Messina. Invece di immaginare strutture miliardarie non sarebbe meglio intervenire per sanare i rischi idrogeologici delle nostre terre? Proprio vicino a Messina decine di persone sono morte per i disastri per i quali piangiamo, ci indigniamo e poi ci dimentichiamo. Se davvero ci sono miliardi per le opere pubbliche non dovremmo dare la priorità a ciò che può creare lavoro e al tempo stesso prevenire tragedie?
C’è poi il grande tema della stabilità, politica e amministrativa. Negli enti locali come a livello nazionale, i governi si susseguono, le amministrazioni cambiano con il rischio di rendere inefficaci le decisioni assunte. Prendiamo il caso emblematico di Roma - tralasciando le vicende politiche che conosciamo - la cui instabilità amministrativa ha prodotto enormi danni. Durante il mio mandato, bruscamente interrotto da un notaio, avevamo due progetti di lungo respiro che avrebbero modificato il volto della città: la costruzione del nuovo stadio della Roma e le Olimpiadi. Il primo avrebbe riversato sulla città circa due miliardi d’investimenti privati e creato più di cinque mila posti di lavoro nella fase di costruzione e quattromila a lungo termine. Che fine ha fatto il progetto con Virginia Raggi? Chi lo sa, tutto fermo, tutto bloccato. Nessuna certezza. Anche per questo gli imprenditori stranieri, con pragmatismo, decidono di spostare in altri Paesi i propri investimenti, lasciando a bocca asciutta una città che ha vitale bisogno di essere rivitalizzata nella sua economia.

Più moderni, ma per davvero
Per non parlare del capitolo Olimpiadi, una vera figuraccia a livello planetario e un’occasione persa per la Capitale. Virginia Raggi ha denunciato il rischio delle "Olimpiadi del mattone": un timore legittimo, ma se si ha l’ambizione di cambiare tutto, come sostengono i grillini, allora si doveva tener testa ai costruttori per fare prevalere un progetto olimpico utile alla città, con l’ammodernamento dei suoi obsoleti impianti sportivi e la riqualificazione di quartieri che avrebbero tratto beneficio dai Giochi. Rilanciare invece di rinunciare.

E invece il clamoroso passo indietro non ha fatto che confermare negli ambienti internazionali quelle critiche di inaffidabilità e incertezza che caratterizzano l’Italia. Un’etichetta che non riusciamo a scrollarci di dosso.
Roma, lo dico a ragion veduta, ha grandissime potenzialità, ma ha un altrettanto grande punto debole, rappresentato dalla sua condizione di Capitale con troppi oneri e pochi onori. Un esempio su tutti: il fondo nazionale dei trasporti assegna alla Regione Lazio ogni anno circa 570 milioni per tram, autobus, metropolitane, treni regionali. Il 70 per cento del trasporto pubblico si concentra su Roma che durante l’ultima fase dell’amministrazione Polverini, ha ricevuto zero euro e poi, con Zingaretti, si è passati a 140 milioni l’anno. Un aumento ma ancora lontano da una equa distribuzione dei fondi se si pensa che nel 2014 la Lombardia ha destinato a Milano più di duecento milioni e Milano ha un terzo della superficie servita dai mezzi pubblici rispetto a Roma. Il risultato è che gli autobus a Roma sono destinati a rimanere nei depositi invece che in strada.

Non è sui numeri che voglio soffermarmi ma sul sistema: trasporto pubblico, smaltimento dei rifiuti, dissesto idrogeologico, manutenzione delle scuole sono tutti ambiti in cui la Capitale non ha autonomia e tuttavia risulta responsabile delle inefficienze nell’erogazione dei servizi.

Ecco una riforma che servirebbe: dare a Roma lo status di Capitale non solo cambiando la carta intestata e le divise dei vigili urbani ma nei fatti e, così come accade in altri paesi europei, attribuirle fondi e responsabilità dirette affiancando una indipendenza amministrativa dei municipi, vere e proprie città delle dimensioni di Bologna o Firenze, ma senza un bilancio autonomo e privi di quelle competenze gestionali che invece può esercitare anche il sindaco di un piccolo comune di cinquemila abitanti.

Riforme che cambiano il volto di un Paese, lo rendono più moderno e al passo con il resto del mondo, più credibile e più vivibile. Un Paese che dia delle opportunità a quei centomila giovani che, secondo la Fondazione Migrantes, l’anno scorso hanno fatto le valigie per vivere altrove. Giovani talenti che realizzano i loro sogni nei centri di ricerca e nelle università straniere in luoghi che li valorizzano per quello che valgono e per l’impegno che dimostrano senza la spinta di un padrino che sia politico, universitario o familiare. L’assenza della cultura del merito è davvero un tarlo inestirpabile al punto che, in politica ma anche in tutta la pubblica amministrazione, scegliere i più fedeli e non i più bravi è un fatto talmente scontato da essere considerato normale. Una stortura diventata strada maestra, in cui i brillanti, i creativi, gli innovatori finiscono in panchina e così abbandonano una gara truccata. È anche così che il nostro Paese s’impoverisce, restando ancorato alle cose come si sono sempre fatte, senza rischi, senza miglioramenti, senza speranza.

La politica di questi anni è proprio il paradigma di questa cultura tutta italiana, con una classe dirigente che si è imposta forte della sua carica di cambiamento e in un batter d’ali ha restaurato una dopo l’altra le cattive abitudini del passato, arrivando a mettere in tutte le posizioni chiave dell’amministrazione pubblica e delle grandi aziende fedelissimi e amici. Alla faccia della rottamazione.

© Riproduzione riservata
18 ottobre 2016

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2016/10/17/news/all-italia-serve-un-cuore-nuovo-il-manifesto-di-ignazio-marino-1.285906?ref=HRBZ-1
6214  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Un Paese che si sente in svendita. (SI PREPARA ALL'USCITA DALL'EURO?). inserito:: Ottobre 22, 2016, 11:23:32 am
Un Paese che si sente in svendita

Di Vittorio Da Rold

Euclid Tsakalotos, il ministro greco dell’Economia, presentando la legge di stabilità in Parlamento ha previsto una crescita nel 2017 del 2,7% dopo sette anni di recessione.
Un atto di fiducia, in cambio però del varo di nuove misure di austerità che hanno provocato forti tensioni ad Atene nel giorno stesso della presentazione in Parlamento della legge di bilancio, il 3 ottobre scorso.

Le forze dell’ordine hanno fatto ricorso addirittura a spray lacrimogeni per disperdere la protesta di 1.500 pensionati contro i tagli della spesa contenuti nella manovra.
Ad Atene la tensione è rimasta alta per ore per l’ennesima fase di austerità con duri scontri tra la folla esasperata e le forze dell’ordine.


    Oggi eurogruppo decisivo 10 ottobre 2016

Dalla Grecia alla Spagna, l’amara medicina dei salvataggi

Una situazione delicata che si era inasprita quando il Parlamento greco aveva approvato il 29 settembre un nuovo pacchetto di riforme indigeste, che comprendeva, nei fatti, il via libera alla privatizzazione delle municipalizzate dell’acqua potabile di Atene e di Salonicco e della principale società elettrica del Paese (Dei) oltre ad altri tagli alla previdenza.

L’approvazione, con 152 voti favorevoli e 141 contrari, è giunta dopo quattro giorni di acceso dibattito. Le misure erano un requisito per ottenere una nuova tranche di aiuti, pari a 2,8 miliardi di euro. Il vecchio Fondo per le privatizzazioni (Hellenic Asset Development Fund, Taiped) verrà sostituito da un nuovo Fondo Eesp, in cui confluiranno le società oggetto di privatizzazioni e il cui presidente sarà Jacques le Pape, un funzionario francese, già assistente di Chistine Lagarde, attuale direttore generale del Fmi, quando era ministro delle Finanze francese. La troika ha preferito un francese come presidente per evitare nuove polemiche dopo la cessione dei 14 aeroporti regionali (tra cui Salonicco, Corfù, Mykonos, Santorini) alla tedesca Fraport, la società che gestisce l’aeroporto di Francoforte.

Il nuovo Fondo Eesp prenderà anche il controllo della metropolitana di Atene, un’azienda che produce veicoli militari (Elvo) e un fondo pubblico di gestione immobiliare. La troika sostiene che raccogliere gli attivi pubblici da privatizzare sotto un unico ombrello favorirà il rimborso del debito. Ma il voto si è svolto tra manifestazioni di piazza contrarie al trasferimento del controllo delle utilities al nuovo fondo. «Ora venderete anche l’Acropoli!», hanno gridato fuori dal Parlamento centinaia di manifestanti. «Stanno svendendo la ricchezza e la sovranità della nazione», ha tuonato George Sinioris, capo dei lavoratori dell’azienda dell’acqua potabile.

Il governo di sinistra di Tsipras ha cercato di minimizzare, promettendo di tenere le principali utilities come le municipalizzate dell’acqua potabile sotto il controllo dello Stato. Affermazioni che non hanno rassicurato l’opinione pubblica. Il ministro dell’Economia Tsakalotos prevede una ricapitalizzazione delle banche colpite dalle sofferenze sui crediti, una lotta all’evasione fiscale con l’uso dei pagamenti elettronici e il rilancio di agricoltura, turismo ed energie rinnovabili. «La sfida - sostiene Tsakalotos – è lottare contro le politiche clientelari».

Quest’anno Atene sarà ancora in recessione con una disoccupazione a quota 28%, la maggiore della zona euro. «Una situazione insostenibile» ha ammonito il direttore del quotidiano conservatore Kathimerini, Alexis Papachelas, che paventa un’uscita unilaterale di Atene dall’euro se non verrà ridotta l’austerità.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-10-10/un-paese-che-si-sente-svendita-080842.shtml?uuid=ADaLnvVB
6215  Forum Pubblico / L'ITALIA DEMOCRATICA e INDIPENDENTE è in PERICOLO. / Separatisti e uso della disinformazione o peggio della manipolazione di news. inserito:: Ottobre 22, 2016, 11:01:53 am
Grano duro/ GranoSalus attacca il Governo Renzi: “Viola le regole della concorrenza e crea rischi per la salute”
I Nuovi Vespri

Il ‘magico’ Governo Renzi ne ha combinata un’altra delle sue. E’ riuscito ad adottare una “misura anti-crisi” per i produttori di grano duro che, però – ma guarda che combinazione! – va a favorire le aziende granicole che non sono in crisi e la grande industria della pasta. Il tutto per agevolare la produzione di grano duro iperproteico che crea problemi alla salute umana! E che il glutine crea problemi alla salute lo ha spiegato benissimo un servizio di Speciale TG1

Il Governo Renzi interviene sulla crisi del grano duro, ma lo fa ora con una misura giusta, ora con una misura discriminante. Da qui il plauso per la prima iniziativa e le critiche per la seconda iniziativa. Ma andiamo al merito della questione.

La misura giusta – apprezzata dal mondo dell’agricoltura e, in particolare, da chi produce grano duro nel Sud Italia – è l’istituzione della Cun, sigla che sta per Commissione unica nazionale che prenderà il posto delle Borse merci delle Camere di Commercio: istituzioni che, in alcuni casi, hanno creato problemi nelle informazioni relative ai prezzi dei prodotti agricoli, grano in testa.

La misura che, invece, desta perplessità sono i 100 Euro per ettaro di terreno seminato a grano duro che il ministero delle Politiche agricole riconosce agli agricoltori impegnati nei cosiddetti contratti di filiera. In questo caso, fa notare l’associazione GranoSalus – organizzazione che raccoglie tanti produttori di grano duro del Mezzogiorno del nostro Paese – sia crea una discriminazione tra produttori, si favorisce la grande industria della pasta e non si tutela la salute dei consumatori.

Il contratto di filiera è uno strumento attraverso il quale i produttori di grano firmano un contratto di pre-semina con la grande industria della pasta. In base a tale contratto si impegnano a produrre grano duro con un alto valore proteico. Questo significa – giusto per fornire ai nostri lettori qualche ragguaglio tecnico – che si dovranno impegnare a seguire alcune pratiche agronomiche per aumentare la presenza di sostanze proteiche (leggere glutine) nelle cariossidi di grano. A cominciare da ricche concimazioni azotate (l’azoto, è noto, è un elemento indispensabile per la sintesi delle proteine nelle piante).

Normalmente, il grano duro del Sud Italia presenta un tenore in glutine, o tenore proteico, dell’11-12% (e, in alcuni casi, anche del 10%). La grande industria della pasta vuole invece un grano duro con un tenore proteico del 14% per produrre formati speciali da esportare.

“A noi – spiega Saverio De Bonis, presidente di GranoSalus – raccontano che l’alto tenore proteico, cioè l’alta percentuale di glutine nel grano duro serve per produrre una pasta che tiene durante la cottura. Ciò è anche vero, ma in questo caso l’esigenza della grande industria è un’altra. La presenza di un’alta percentuale di sostanze proteiche serve alla grande industria per accelerare il processo di essiccazione della pasta, risparmiando sui costi di produzione”.

“La robusta presenza di proteine – prosegue De Bonis – consente alla pasta di resistere alla stress termico. Invece di essiccare la pasta in ventiquattro ore, la grande industria essicca la pasta in appena due ore. Insomma, per dirla in breve, la resistenza alla stress termico della pasta durante il processo di essiccazione è direttamente proporzionale al tenore proteico. Ma questo mal si concilia con l’intestino delle persone. Perché una pasta con un così alto tenore proteico crea problemi all’organismo umano”.

Se volete approfondire il perché un grano duro con alta percentuale di glutine fa mala alla salute umana guardate questo video di Speciale TG1

GranoSalus fa notare che, attualmente, i contratti di filiera interessano il 6% della produzione di grano duro italiano. Il Governo nazionale li vorrebbe raddoppiare.

“Ma lo sta facendo violando le regole della concorrenza – dice sempre De Bonis -. Ed è per questo che ci rivolgeremo all’Antitrust”.

Chiediamo: perché verrebbe violata la concorrenza? La risposta di De Bonis non si fa attendere:

“Attualmente i granicoltori che, con i contratti di filiera, conferiscono il proprio prodotto alla grande industria della pasta vendono il proprio grano duro a prezzo fisso (28 Euro al quintale). Un prezzo molto remunerativo, se pensiamo che, quest’anno, il prezzo del grano duro è sceso a 14 Euro al quintale. Insomma, la grande industria, che fa solo i propri interessi, per risparmiare sui costi dell’essiccazione della pasta paga il grano duro a 28 Euro al quintale. Il tutto per produrre una pasta che crea problemi alla salute. Ora arriva il Governo nazionale e stanzia 100 Euro per ettaro da dare solo a chi produrre grano duro ad alto tenore proteico. Il tutto, ribadisco, per produrre pasta secca che crea problemi alla salute. In pratica, con la scusa del contratto di filiera, il Governo nazionale adotta una misura anticrisi per finanziare aziende agricole che non sono in crisi”.

“In questa storia veramente brutta – conclude De Bonis – non possiamo non notare come gli interessi del Governo si saldino con gli interessi della grande industria della pasta. Creando un’odiosa disparità di trattamento economico tra chi produce il grano duro con un normale tenore in proteine e chi, invece, produce un grano iperproteico che fa solo male alla salute. Tutto questo violando anche le regole della concorrenza. Insomma!”.

Consigliamo anche di leggere i seguenti articoli:
“Il grano canadese che arriva in Europa è un rifiuto speciale che finisce sulle nostre tavole”
“Che cosa c’è nel pane che mangiamo”? Nel Centro Nord c’è da rabbrividire. E nel Sud e in Sicilia?
Ecco a noi il grano canadese coperto di neve pronto per essere esportato in Sicilia!
Il grano duro canadese migliore di quello siciliano? Falso: è solo un grande imbroglio al glifosato

Da -  http://www.inuovivespri.it/2016/10/20/grano-duro-granosalus-attacca-il-governo-renzi-viola-le-regole-della-concorrenza-e-crea-rischi-per-la-salute/#more-15780


6216  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Fabio Salamida: ... Il Partito Democratico ancora non esiste inserito:: Ottobre 21, 2016, 02:10:52 pm
Il Partito Democratico non è diviso, Il Partito Democratico ancora non esiste

Fabio Salamida
11 ottobre 2016

Poco più di un anno fa, scrivevo un articolo assai franco su cosa pensavo del Partito Democratico, ovvero quella che anche io – come Pierluigi Bersani e tanti altri – considero “la mia casa politica”, luogo dove idealmente dovrebbe risiedere la mia visione del Mondo, almeno a grandi linee. Un’appartenenza che spesso mi viene contestata, sia da alcuni lettori che hanno idee diverse dalle mie, sia (soprattutto) da fieri esponenti di quelle legioni di imbecilli (mi piace sempre citare Umberto Eco quando parlo di loro) che dopo aver letto un titolo non gradito di qualche mio scritto, si prodigano di andare a controllare sui miei profili social chi sono, dove lavoro, chi sono i miei amici, come vesto e dove vado in vacanza, per poi appellarmi con colorite definizioni come “giornalaio”, “prezzolato”, “servo” e ovviamente altre offese non ripetibili scritte il più delle volte in un italiano prossimo all’analfabetismo.

Inutile cercare di spiegare a questi “signori” che tutti abbiamo delle idee nella testa e che l’onestà e la bravura di un giornalista è quella di saper distinguere chiaramente cosa è notizia e cosa è opinione. Il discorso sarebbe assai articolato e richiederebbe una profondità di pensiero inarrivabile per molti di questi soggetti. Mi accontento così di avere una sorta di ruolo sociale, fungendo da “sfogatoio” per molti di loro nella speranza che tanta rabbia repressa si sfoghi davanti a un Pc, un tablet o uno smartphone, restando così virtuale e non producendo azioni violente nelle vite reali.

Scusandomi per la digressione, torno al Partito Democratico, al “partito che non c’è”, diviso tra “vecchia ditta e Leopolda s.p.a” come scrivevo nel titolo di quell’articolo datato 21 settembre 2015. Se dovessi oggi redigere un commento alla direzione nazionale a cui ho assistito ieri pomeriggio, dalla “nervosa” relazione di Matteo Renzi all’evocativo intervento di Gianni Cuperlo, dalle impacciate riflessioni di Roberto Speranza alle urla sguaiate e condite da tanto di imprecazione di Roberto Giachetti, utilizzerei esattamente le stesse parole, abusando del copia/incolla.

Inutile girarci intorno. Tolto il cartello elettorale e un esercito di solisti eletti dai più piccoli comuni fino alla Camera e al Senato, la comunità sognata da Walter Veltroni ai tempi del Lingotto è rimasta una sommatoria di donne e di uomini provenienti dalle storie dei due partiti fondatori e l’unica vera amalgama è stata – purtroppo – quella delle cattive abitudini dei vecchi baronati post comunisti e post democristiani. E i pezzi di società che avrebbero dovuto trovare una “casa comune” nel Pd lo hanno guardato – e continuano a guardarlo – con sospetto, con l’idea di qualcosa di incompiuto e destinato prima o poi a finire. Non è un caso che la parola “scissione” risuoni periodicamente nelle stanze del Nazareno, oggi per le divisioni sul referendum costituzionale, ieri su altre questioni.

Uno stentare che è anche figlio di fenomeni mondiali, dal cavalcare di nuove forme di protezionismo ai populismi figli dell’impoverimento delle società occidentali. I partiti sono ormai dei contenitori di leader più o meno longevi e i loro supporter somigliano sempre più a frequentatori delle curve degli stadi che a persone libere che portano avanti delle idee o semplicemente dei ragionamenti figli di un pensiero. Notavo proprio ieri la preoccupante somiglianza tra alcuni “tifosi” del Pd e i “leoni da tastiera” agitati da leghisti e grillini, con la differenza che molti degli insulti più violenti erano rivolti a stessi esponenti del PD.

Vent’anni di berlusconismo hanno portato a questo: alla personalizzazione esasperata di ogni cosa, al definitivo sdoganamento della maleducazione e della volgarità nei palazzi del potere, a una società dove prepotenza viene confusa con risolutezza, dove la ragione è di chi urla più forte, anche se non ha nulla da dire.

Il Partito Democratico ancora non esiste e i toni della discussione interna sulle riforme ne sono solo l’ultima riprova. Tra gli eletti, i dirigenti e i semplici militanti (che sono sempre meno) la discussione – neanche troppo dissimulata – è tra chi deve essere “rottamato” e chi è visto come l’usurpatore di una gloriosa storia. Il timore, per chi come il sottoscritto sperava e continua a sperare in una nuova appartenenza a prescindere dagli interpreti stagionali, è che la contesa tra “Vecchia Ditta” e “Leopolda s.p.a.” si possa concludere all’italiana: con i libri in tribunale…

Da - http://www.glistatigenerali.com/partiti-politici/il-partito-democratico-non-e-diviso-il-partito-democratico-ancora-non-esiste/
6217  Forum Pubblico / PERSONE che ci hanno lasciato VALORI POSITIVI / Deng Xiaoping Politico cinese (Kuangan, Sichuan, 1904-Pechino 1997). inserito:: Ottobre 21, 2016, 02:08:53 pm
Deng Xiaoping
Dizionario di Storia (2010)

Deng Xiaoping Politico cinese (Kuangan, Sichuan, 1904-Pechino 1997). Studiò a Parigi e a Mosca e fu commissario politico durante la cd. Lunga marcia (1934-35). Dopo la proclamazione della Repubblica popolare cinese (1949) ricoprì vari incarichi di carattere economico, militare e politico. Membro dell’Ufficio politico del PCC dal 1955, segretario del Comitato centrale dal 1953, durante la Rivoluzione culturale fu accusato di revisionismo e destituito. Assente dal 1967 dalla scena politica cinese, nel 1973 rientro nel Comitato centrale e nel 1974 nell’Ufficio politico, divenendo uno dei più stretti collaboratori del primo ministro Zhou Enlai. Vice primo ministro dal 1975, nuovamente criticato e destituito nell’aprile del 1976, dopo il cd. incidente della festa dei morti, fu poi definitivamente riabilitato e nel luglio del 1977 assunse contemporaneamente le cariche di vicepresidente del partito e della sua Commissione militare, vice primo ministro e capo di stato maggiore delle forze armate. Gli anni successivi videro una sempre più netta affermazione della sua linea pragmatica ed efficientista e un progressivo rafforzamento della sua posizione egemone nell’ambito del gruppo dirigente cinese. Nel 1978, in occasione del terzo plenum dell’undicesimo Comitato centrale (12-18 dic.), fu infatti lanciato il programma di riforme e aperture (gaige kaifang), che portò, fra l’altro, a un miglioramento dei rapporti con l’estero (D.X. fu anche il primo leader cinese a visitare gli Stati Uniti, nel 1979). Il programma di riforme economiche prevedeva un piano di riorganizzazione interna: le Quattro modernizzazioni (dell’agricoltura, dell’industria, della scienza e della tecnologia e del settore militare), che sviluppavano un progetto originariamente risalente a Zhou Enlai, includendo inizialmente anche una certa liberalizzazione politica. Nel 1980 lasciò le cariche di capo di stato maggiore e di vice primo ministro (quella di vicepresidente del PCC fu abolita nel 1982); D.X. fu presidente dal giugno 1981 al novembre 1989 della Commissione militare centrale del partito, dal sett. 1982 al nov. 1987 della sua Commissione centrale di controllo e dal giugno 1983 al marzo 1990 della Commissione militare centrale dello Stato, assumendo di fatto il ruolo di massima autorità del Paese, malgrado il suo ritiro nel novembre 1987 dall’Ufficio politico e dal Comitato centrale del PCC. Tale ruolo si manifestò anche successivamente, con l’avallo della svolta intransigente del giugno 1989, culminata nella repressione del 4 giugno a Pechino (la cd. strage di piazza Tian An Men). Nell’ambito della successiva ristrutturazione del gruppo dirigente promosse l’ascesa di Jiang Zemin, che lo sostituì alla presidenza della Commissione militare del partito nel 1989 e di quella centrale dello Stato nel 1990. Nonostante il ritiro dagli ultimi incarichi ufficiali, D.X. mantenne una profonda influenza sulla vita politica della Cina, promuovendo, nel 1992, il rilancio e il rafforzamento della linea di liberalizzazione economica.

1904 Nasce a Kuangan, Sichuan
1934-35 Commissario politico durante la Lunga marcia
1967 Destituito durante la Rivoluzione culturale
1974 Richiamato all’Ufficio politico, è uno dei più stretti collaboratori del primo ministro Zhou Enlai
1977 Vicepresidente del partito, vice primo ministro e capo di stato maggiore delle forze armate
1979 Primo leader cinese a visitare gli Stati Uniti
1981 A capo del Paese, manterrà di fatto tale ruolo anche dopo il ritiro nel 1987 dall’Ufficio politico e dal Comitato centrale del PCC
1989 Avalla la svolta repressiva culminata nel massacro di Tian An Men; sostiene l’ascesa di Jiang Zemin
1992 Promuove la linea di liberalizzazione economica
1997 Muore a Pechino

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Note da approfondire:

Jiang Zemin‹... zemin›. - Uomo politico cinese (n. Yangzhou 1926). Sindaco di Shanghai dal 1985, fu chiamato a sostituire Zhao Ziyang (1919-2005) come segretario generale del Partito comunista cinese  (PCC) nel 1989, dopo i disordini di piazza Tian An Men. Dal 1993 al 2003 è stato presidente della Repubblica cinese. ...

Cina Stato dell’Asia centrale e orientale. Il nome proviene dal portoghese China, che i primi esploratori portoghesi appresero dagli Indiani o dai Malesi, e con ogni probabilità deriva da quello della dinastia cinese Qin (221-206 a.Cina) sotto il cui dominio la Cina venne unificata. I Cinesi chiamano il loro ...

Zhou Enlai‹... ënlai›. - Uomo politico cinese (Huai'an Xian, Jiangsu, 1898 - Pechino 1976). Comunista e sostenitore di Mao Zedong, guidò l'alleanza (1937) tra il suo partito e i nazionalisti nella guerra contro il Giappone. Primo ministro (dal 1949 alla morte) e ministro degli Esteri (1949-58) della Repubblica ...

Rivoluzione culturale Movimento politico e culturale sviluppatosi in Cina tra il 1965 e il 1969 sotto la direzione di Mao Zedong. Finalizzato alla radicalizzazione del processo rivoluzionario e alla lotta contro la burocratizzazione del partito, il movimento vide protagonisti masse di giovani maoisti fanatizzati, che diedero ...

Da treccani.it
6218  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Walter VELTRONI. Il Partito democratico, nove anni dopo inserito:: Ottobre 21, 2016, 12:56:28 pm
Il Partito democratico, nove anni dopo
Io ho messo un seme, con milioni di italiani, in quel tempo ormai lontano.
Tocca a voi, oggi, far crescere la pianta. Fatelo insieme, viene meglio

Sono passati nove anni da quel giorno di metà ottobre del 2007 in cui nacque il Pd. Nove anni di esistenza di un partito, per questi tempi paradossali, sono quasi un record. Ormai i partiti sono come i Kleenex, usa e getta. Sono proiezioni di ambizioni personali, sono del tutto privi di radici storiche e culturali, per non parlare dell’esistenza di valori comuni di riferimento. Nascono, in generale, da continue scissioni, fino a quella dell’atomo. Si costituiscono in parlamento gruppi parlamentari dai nomi fantasiosi, riempiti da Fregoli del trasformismo. Si dice che siano quasi trecento i parlamentari che hanno cambiato casacca in questa legislatura.
Un fenomeno di crisi della politica che racconta i prodromi di una crisi istituzionale.

Il Partito democratico nacque invece da ciò che è più difficile nella vita politica, da sempre: una fusione. Si misero insieme culture diverse, si sciolsero due partiti eredi di tradizioni profonde nel novecento. Fu doloroso e meraviglioso, come un parto. Solo per un attimo voglio ricordare il clima, quasi di festa, di quei giorni, quelli successivi al Lingotto. Non dimentichiamo – perché la storia non è un tweet e semplificarne la complessità è un reato culturale grave – che il nuovo partito nacque nel momento forse più difficile della storia recente del centrosinistra italiano. Nasce dopo lo choc delle amministrative del 2007, quando il centrosinistra che governava – in verità con un solo voto di maggioranza al Senato – subì quella che tutti i giornali definirono una “batosta storica”, perdendo decine di amministrazioni.

Giustamente Prodi, commentando quel voto, rivolse l’indice nella direzione corretta, verso i partiti e i ministri della sua coalizione che partecipavano grottescamente a manifestazioni contro il governo del quale facevano parte: «Come si fa a dare un’immagine di buongoverno, quando i ministri e gli alleati della tua maggioranza sono i primi a smontare i provvedimenti che prendi? Ormai il dissenso precede addirittura il provvedimento da cui si dissente. Basta che lo annunci, e c’è subito qualcuno che si ritiene titolato a criticare, per aumentare la visibilità sua e quella del suo partito».

Il Pd nacque, diciamoci la verità, per fronteggiare un’emergenza politica, in un momento di tracollo del consenso attorno ai suoi partiti. E nacque, anche questo va detto, con dieci anni di ritardo. Il Pd doveva essere la prosecuzione dell’Ulivo. Doveva nascere sulla scia della inaspettata e entusiasmante vittoria del 1996. Come Prodi propose, inascoltato ed avversato da molti. Il Pd, lo ha scritto benissimo Ezio Mauro, ha radici solide, che non deve dimenticare.

Quando presentai i lineamenti della mia candidatura a segretario, al Lingotto, cercai di far capire quale miracolo politico dovevamo compiere. Assumere con orgoglio la parte migliore di storie politiche diverse, Moro e Berlinguer, e la meravigliosa vicenda umana di milioni di persone che avevano fondato associazioni di volontariato o cooperative di braccianti, che avevano combattuto ed erano morti insieme per liberare l’Italia dal fascismo, di operai comunisti che avevano migliorato la vita dei loro compagni di lavoro battendosi per i loro diritti, di militanti cattolici che facevano vivere l’idea della pace o della moralità, da La Pira a Don Milani a Tina Anselmi.

Nel nostro cuore, non solo nella nostra mente, queste storie di vita e di sofferenza, di lotte e di valori, dovevano coesistere. Incontrandone altre, culture vitali, la cui dimensione minoritaria ha pesato come un macigno nella storia italiana: l’azionismo, il socialismo riformista, quello che nel ’56 aveva ragione, l’ambientalismo, il femminismo. Come si poteva fare tutto questo? Come si potevano far incontrare culture così diverse e, nella storia conflittuali? Ma il mondo, dopo il 1989, era un mondo nuovo ed era possibile farlo. Era necessario farlo. Diciamoci la verità: singolarmente nessuna di quelle culture, fondate nel novecento europeo, era in grado di affrontare una società in radicale e repentino mutamento di figure sociali, di modi di pensare, di meccanismi di produzione e distribuzione della ricchezza e del lavoro. Un mondo globalizzato, dopo un mondo separato in blocchi. Una rivoluzione. Non poteva farcela nessuna delle culture del novecento europeo.

E, d’altra parte, consentite di dirlo a chi ora continua in altra forma il suo impegno civile e politico, co s’altro deve succedere per farlo capire? Quanti tentativi di tenere in vita forme di sinistra tradizionale, estrema, massimalista, ideologica sono stati realizzati e sono falliti? E quanto è profonda la crisi dei partiti socialisti europei, purtroppo ridimensionati dall’incapacità di trovare risposte al cambiamento in atto? Erano egemoni negli anni novanta ora sono quasi ovunque all’opposizione. E che fine hanno fatto i partiti di ispirazione cattolica? Bisognava, nel far nascere il Pd, essere capaci di saldare il senso di una storia e una cultura politica tutta nuova, tutta nuova. Non la giustapposizione di ciò che preesisteva ma lo sforzo di portare un sistema di valori in un mondo nuovo con una posizione politica e programmatica forte e dei valori riconoscibili.

L’idea che mi muoveva era quella di fondare un partito riformista di massa, un inedito nella storia italiana. Doveva avere una propria cultura autonoma, una struttura di partito aperto, idee coraggiose per coniugare crescita e equità, doveva essere discontinuo per introdurre una nuova etica pubblica. Questo è stato il lavoro intenso di quei mesi: la carta dei valori, la creazione di comitati che in tutta Italia fecero nascere, anche oltre i partiti tradizionali e le loro strutture e dirigenti, la nuova forza che raccoglieva ed esprimeva un entusiasmo che porto ancora negli occhi e nel cuore.

Il movimento di Grillo, in quella prima metà del 2007, prima della nascita del Pd, aveva già mostrato la sua forza, con decine di migliaia di persone che partecipavano alle manifestazioni del cosiddetto vaffa day. Ma, anche qui voglio essere schietto, la nascita del Pd, per la sensazione di novità che trasmetteva, arginò quel fenomeno. Lo vedemmo nelle urne, alle elezioni di Aprile, il cui esito era purtroppo, in termini di governo, scritto nei sondaggi da più di un anno. Il Pd raccolse, alla sua prima uscita, dodici milioni di voti, e raggiunse una percentuale di più del 33 per cento. Un dato storico, finora ma spero per poco tempo ancora, mai più raggiunto in elezioni politiche. E conquistato dopo una campagna elettorale davvero entusiasmante. Quale era, sul piano politico, la novità rappresentata dal Pd? Era la “vocazione maggioritaria”, cioè l’ambizione di dimostrare che, in questo tempo nuovo, alla sinistra riformista non fosse riservata la sola possibilità, per governare, di trovare alleanza funamboliche, come quella da Mastella a Ferrero, che magari potevano affermarsi di un soffio alle elezioni ma poi non riuscivano a governare.

Per il Pd delle origini vincere le elezioni era un mezzo, non un fine. Avevamo verificato, torno alle parole di Prodi, come la eccessiva eterogeneità di una coalizione impedisse l’azione riformista e persino la stabilità necessaria. Bisognava voltare pagina e costruire le condizioni politiche e istituzionali della democrazia dell’alternanza. Quelle politiche prevedevano l’idea di una sinistra riformista a vocazione maggioritaria, innovativa nei programmi e radicale nelle ambizioni di cambiamento sociale. Sinistra, che non è una brutta parola. Sinistra moderna, sinistra del cambiamento possibile. La sinistra conservatrice è un ossimoro. Così come lo è l’idea di un partito democratico che non sia di sinistra. Le elezioni americane ci stanno ricordando il valore di una differenza che bisogna far emergere. Il Pd esiste solo se è a vocazione maggioritaria e la vocazione maggioritaria esiste solo se il Pd è una forza aperta della sinistra riformista moderna. Né un partito di centro modernizzato, né una forza di sinistra tradizionale possono aspirare a nulla di utile in questo paese smarrito.

Ma la nascita del Pd portava con sé anche il completamento di un percorso travagliato di innovazione del sistema politico e istituzionale. Non ho cambiato idea: credo in una democrazia dell’alternanza, in un sistema maggioritario, in un governo autorevole controllato da un parlamento forte, in regolamenti delle assemblee che assicurino diritti alle minoranze. Ma, in una democrazia moderna, devono essere gli elettori a scegliere il governo, il governo deve essere messo in condizioni di attuare pienamente il mandato ricevuto, le opposizioni devono controllare l’azione di governo e prepararsi alle elezioni successive. Davvero vogliamo tornare ai governi fragili, prodotti dalle trattative tra partiti deboli, esposti ai giochi delle imboscate politiche e parlamentari? Non ci rendiamo conto che viviamo un tempo in cui è la stessa idea di democrazia ad essere messa in discussione? E l’idea di tornare al proporzionale, il gioco dell’oca del quale ho già parlato qui, è secondo me foriera di una pericolosa instabilità di governo. Oggi davvero pericolosa per le istituzioni. Una democrazia che non decide, la storia lo dimostra, è destinata ad essere travolta, specie in tempi di crisi, da qualcuno che interpreta il bisogno di decisione privandolo della democrazia. Il Partito Democratico, non smetto di pensarlo, è la principale risorsa di governo europeo e riformista per l’Italia.

Deve essere liberato dai capicorrente e dai capobastone che hanno fatto fuggire tante persone che volevano aiutare. Deve essere aperto e deve rispettare e capire chi è diverso da sé. Deve includere e mettere in movimento. Deve essere orgoglioso delle sue radici e farsi parte del futuro possibile. Deve combattere e non indulgere o inseguire populismi e demagogie. Deve avere valori, morali e politici, che lo facciano sentire dalle persone oneste e dalle persone che soffrono come la loro casa. Buon compleanno a tutti coloro che hanno vissuto questi nove anni, che hanno discusso, che litigano, che hanno passione politica. Io ho messo un seme, con milioni di italiani, in quel tempo ormai lontano. Tocca a voi, oggi, far crescere la pianta. Fatelo insieme, viene meglio

Da - http://www.unita.tv/opinioni/il-partito-democratico-nove-anni-dopo/
6219  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Ingrao: Le vecchie regole ci soffocano inserito:: Ottobre 21, 2016, 12:53:53 pm
Ingrao: Le vecchie regole ci soffocano

Roma, 20 dicembre 1985

Caro Bobbio,
seguo l’ordine della tua lettera. E parto dalla proposta di un «governo costituente», che mi è capitato di fare prima in un recente convegno romano del «Gramsci» e del Centro per la riforma dello Stato, e poi nel Comitato centrale del mio partito (è chiaro che «governo costituente» pretende di essere solo un’immagine: non mi sogno mica di proporre che sia il governo a fare la Costituzione…).

So che tu in proposito sei, più che incredulo, «miscredente». Ma non mi è chiaro un punto. Ricorderai che nel nostro dialogo pubblico a Torino sull’interessante libro di Pasquino Restituire lo scettro al principe, Zagrebelsky mise in campo le due categorie di «desiderabilità» e di «fattibilità»: dichiarò la riforma istituzionale altamente desiderabile, ma espresse molti dubbi sulla sua praticabilità, io non ho ancora compreso: tu consideri la riforma desiderabile, ma non fattibile; oppure ritieni che si debbano lasciare le cose come stanno, perché così stanno bene (o almeno piuttosto bene), o perché – pur stando parecchio male – non vedi strada per cambiarle? Ti pongo questa domanda perché, ancora nel nostro dialogo pubblico a Torino, tu sollecitasti molto caldamente una riforma non piccola: il cambiamento del sistema elettorale, come problema di oggi, tema concreto e attuale di questo momento.

So bene che il sistema elettorale non sta nella Costituzione, e non ha bisogno perciò di procedure straordinarie per il suo cambiamento. Ma questo non toglie nulla al peso costitutivo che esso ha nel sistema politico generale. E nessuno – mi sembra – potrebbe ragionare su quella riforma senza fare riferimento subito al tipo di parlamento, o al rapporto tra parlamento ed esecutivo, o al nesso (oppure no) con sistemi di democrazia diretta, o all’incidenza sul sistema dei partiti che il cambiamento proposto comporta.

Ecco allora la mia domanda. Sollecitando, con la passione e l’urgenza con cui l’hai fatto a Torino, una riforma elettorale, tu davvero pensi che sia possibile oggi scorporare questa delicatissima e così intrigante questione dall’insieme della riforma istituzionale? Ritieni che ci sia una forza politica oggi in Italia disponibile ad accettare di discutere una riforma elettorale così scorporata, e fuori dal contesto? Insomma a me sembra che tu stesso – sia pure da «miscredente» – al momento in cui poni sul tappeto la questione della riforma elettorale, dai conferma dell’attualità di una riforma delle istituzioni.

Qualche volta ho l’impressione di muovermi in un mondo strano. Appena non molto tempo fa il presidente del Consiglio parlò di Grande Riforma con la maiuscola, e il segretario politico del maggior partito di governo pose anche lui la questione di una riforma elettorale, che spostava l’asse del sistema di rappresentanza. Parole? Ecco allora i fatti. Si è costituita, più di un anno e mezzo fa, una commissione bicamerale composta di 41 membri, designati da tutti i partiti rappresentati nel parlamento nazionale. La commissione ha avuto come esplicito mandato non solo di studiare, ma di formulare proposte di revisione istituzionale. E ha spaziato, nella sua indagine e nelle sue proposte dal parlamento alla struttura del governo, dalla pubblica amministrazione agli statuti dei partiti e dei sindacati, dal sistema dell’informazione all’ordinamento giudiziario, ai diritti di libertà.

Sono stati confrontati programmi. Sono state delineate soluzioni. È vero che le conclusioni hanno ottenuto un magrissimo consenso: sedici voti su quarantuno membri. Ma è anche un fatto che le rappresentanze di tutti i partiti hanno presentato la loro gamma di proposte, su un arco vastissimo. Ed è vero che ancora oggi si discute dell’esito da dare a quel confronto.
E allora bisogna pensare che o quei quarantuno della commissione Bozzi erano impazziti e si divertivano a un gioco senza senso; oppure è vero che la riforma istituzionale, piaccia o no, è entrata nell’agenda politica.

Essa si è bloccata – a mio avviso – anche e proprio per la difficoltà di procedere per «tavoli separati»: con un governo che sul suo tavolo tendeva a procedere a una riforma di fatto, a mutare, per colpi di forza almeno alcuni dei delicatissimi equilibri fra esecutivo e assemblee. E allora ecco la questione: si può discutere e decidere di riforma istituzionale, mancando un quadro politico che crei le precondizioni della sua realizzabilità e dia alle diverse parti le garanzie politiche perché quel compito possa essere assolto? lo non lo credo.

Qui è la ragione, il senso del «governo costituente». Tu vedi in esso l’ossessione dell’unità ad ogni costo, e in ogni momento. Al contrario io ho parlato di un’iniziativa a termine, che ha il dichiarato obiettivo di superare il blocco della democrazia esistente oggi in Italia e di aprire la strada a un processo di alternanza e a strategie alternative.

Si può soprassedere? Consentimi un cenno a un avvenimento che si è svolto nella tua città, a Torino, al Lingotto, un luogo classico della storia dell’Italia industriale moderna e dei suoi conflitti. Confesso di essere rimasto colpito dalla tranquilla (ma si potrebbe dire anche: «rozza») arroganza con cui la crema del grande padronato italiano ha teorizzato in quella sede l’assolutismo dell’impresa, la sua supremazia affidata a una innovazione tecnologica, al tempo stesso presentata come fatto oggettivo e come fiore esclusivo dell’iniziativa imprenditoriale.

Mi è parso di sentire, nei discorsi pronunciati, l’eco di processi profondi aperti su scala mondiale – e al tempo stesso – la manifestazione di un vuoto impressionante. I processi in atto li abbiamo sotto gli occhi: la mondializzazione dell’economia, l’avanzata della società dell’informazione, la concentrazione dell’intelletto scientifico mondiale e i correlativi processi di militarizzazione. Mi domando se è possibile che il nostro paese possa reggere all’onda di questi processi senza una riforma della macchina pubblica, e un rilancio dell’iniziativa politica in senso grande. Quei processi hanno già colpito molta parte dell’edificio degli Stati nazionali, che hanno avuto la loro culla in Europa. Tutto un modo di mettere in circolo l’innovazione culturale, economica sociale tramite il veicolo degli Stati nazionali, e dei mercati nazionali che alla loro ombra sorgevano, è già per larga parte in frantumi. Perciò parliamo dell’urgenza di un’Europa politica. Perciò le diseguaglianze di sviluppo – mi sembra – investono ormai in modo impetuoso la stessa fascia dei paesi industrializzati. Le multinazionali hanno sfondato frontiere, sconvolto società e processi formativi, drenato e riordinato forze culturali.

Al Lingotto predicavano l’autosufficienza. Io invece mi domando come è possibile rispondere alla sfida delle cose senza ripensare la trama delle istituzioni e delle loro funzioni. La ragione della riforma dello Stato la colloco lì: non solo e non tanto nelle distorsioni del passato, quanto nella sfida di domani. Proprio perché l’innovazione non è più la grande ciminiera, ma una rete di competenze, una diffusione di cultura, una articolazione di servizi, una complessità di figure sociali, abbiamo bisogno di ripensare il «pubblico» e il privato, il loro rapporto.

Spesso mi sono sentito dire: «Ma perché riforme istituzionali? Ci sono tante cose da fare». Io rovescio il ragionamento: come fare tante cose urgenti, senza riforme istituzionali? Come affrontare il tema del tutto inedito di una disoccupazione massiccia connessa all’innovazione e allo sviluppo, senza dare una dimensione sovranazionale a tutta una serie di funzioni, e al tempo stesso decentrarne con audacia tante altre all’interno degli Stati nazionali, riformando da due parti la macchina dello Stato? Come gestire la trasformazione dell’economia senza ripensare la struttura del governo? Rischiare di stare fermi persino sulle questioni ultramature: perché raddoppiare inutilmente il tempo di elaborazione delle leggi (con i connessi giochi trasformistici), in un bicameralismo parlamentare che non sta più in piedi?

Non credo insomma a una possibilità dell’ordinaria amministrazione, della gestione dell’esistente. Non è questa la fase. E se il problema è posto, temo che iniziative da altre sponde possano risolverlo in modo sbagliato: il che può voler dire anche una lenta, sepolta degradazione che muta però il senso delle regole e il tessuto della convivenza. E c’è modo e modo. Ci sono crisi di regime che precipitano convulsamente; ci sono invece occulti spostamenti del potere che scavano caverne.

Credo che in questo mio ragionamento stia anche la risposta a tutta una serie di questioni importanti poste nella tua lettera. Sostengo che il farsi così urgente della riforma istituzionale, dice quanto poco basti l’affermazione, pure così importante, dell’uguaglianza dei cittadini nel voto.
Tu mi ricordi quanto è essenziale che Agnelli conti nel voto allo stesso modo di un operaio. Eppure questo non ci è bastato e non ci basta. E non solo a te e a me. Alludo a come sono andate le cose, alla storia di questo secolo. Giustamente non ci è bastato. Perché subito è emersa la questione del come si vota, del per che cosa si vota, di ciò che accade dopo il voto: in quali condizioni di conoscenza, di rapporti sociali reciproci, di controllo sulla stampa, sull’informazione, sugli apparati di governo, sui mezzi materiali. E su che cosa si vota: su quali poteri, strutturati come, affidati a chi, secondo che formule e regole. E che succede dopo il voto, per ciò che riguarda la decisione o le decisioni (al plurale), gli organi stessi della decisione, gli apparati di attuazione, le competenze. Non parlo qui degli «errori» e delle «violazioni» a cui tu alludi alla fine della tua lettera. Parlo delle forme articolate e storiche delle istituzioni, che ne definiscono la sostanza.

Del resto ti prendo in parola. Tu stesso dici di individui che si raccolgono in associazioni volontarie quali i partiti e i sindacati. E perché allora mi chiedi spiegazioni circa la democrazia di massa? Questa è la moderna democrazia di massa, se poco poco mettiamo mente a ciò che è diventata, in un insieme sempre più vasto di paesi, la trama dei partiti, la rete dei sindacati, lo sviluppo di movimenti sociali nettamente diversi anche da partiti e sindacati: i Verdi, le donne, i pacifisti, i movimenti giovanili. E si dà anche una rete di associazioni che non hanno un volto di rivendicazione generale, ma un proclamato carattere corporativo, o addirittura di lobby. Si discute molto sulle vicende di questi così articolati e complessi tipi di associazioni. Possiamo noi oggi ragionare sugli «individui», senza vedere le loro connessioni con questa trama associativa che fa la storia politica moderna?

E non so proprio vedere i partiti solo come una somma di individui: altrimenti sarebbero solo un elenco di elettori. E invece noi abbiamo conosciuto partiti che prevedono attività continue, che si strutturano organizzativamente, che si danno ideologie e progetti, e discutono di strategie politiche per realizzarli. Abbiamo visto gli stessi sindacati ambire e rivendicare il volto di «soggetto politico». Di questi processi facciamo la storia: proprio in quanto partiti, sindacati, movimenti, non in quanto «elenco» di elettori.

E la ragione di questo cammino – lo sai cento volte meglio di me – sta nel fatto che determinati individui hanno sentito che non bastava il certificato elettorale né la regola di maggioranza, e nemmeno il diritto di presentare insieme liste di candidati. E hanno pensato insieme al durare di un programma, di iniziative comuni, di vincoli reciproci, che si prolungavano prima e dopo il voto. E ognuno di noi conosce bene la storia dell’intreccio (e anche delle disgiunzioni) fra diritto di voto e diritti di associazione, e le forme inedite e straordinarie che l’associazionismo ha preso nel corso del nostro tempo, sino anche a cristallizzazioni burocratiche, e partitocratiche, dove la stessa fisionomia individuale si è trovata a essere spenta o scavalcata. Perché allora non dovremmo parlare di società di massa, al di là del significato valutativo che si voglia dare a questo termine?

No, non sono d’accordo con la definizione che dai del concetto di egemonia: non mi pare riducibile alla semplice acquisizione del consenso degli elettori che si esprime attraverso il voto. L’egemonia suppone ben di più. Suppone un consenso attivo che può andare anche oltre l’immediatezza del programma: un agire oltre il voto, un agire con gli altri e verso gli altri per ottenere l’adesione dell’intiera lettura di uno stato di cose. E suppone anche che chi ha l’egemonia si presenti come fautore di interessi generali, che vanno oltre i singoli e i gruppi, e che molto spesso ambiscono a un sistema di valori. La Dc la sua egemonia l’ha realizzata non solo chiedendo l’appoggio alla lista dei suoi candidati e promettendo determinate elargizioni, ma presentandosi come partito dirigente di tutta una fase dello sviluppo nazionale, richiamandosi a una ideologia, mobilitando forze, creando alleanze internazionali. Tanto ciò è vero che essa si è rapportata per un lungo tempo a una trama di associazioni collaterali, alcune delle quali (e niente affatto minori) non erano né sindacati né partiti. E per un breve tratto del suo cammino si è collegata direttamente con la Chiesa stessa.

Non mi pare si tratti solo di una storia nostra italiana. La storia europea, in forme diverse, ci dà la trama di altre presenze egemoniche. Non parlo delle dittature dell’Est. Parlo delle vicende del movimento operaio occidentale, delle sue strutture e delle sue varianti, in Germania, in Inghilterra, Francia, Svezia, Austria, Olanda, Belgio.

Insomma, il problema di un’espansività della democrazia mi sembra dominare il secolo, e non è riducibile alla questione del suffragio universale e del principio di maggioranza, ma va oltre di essi. Si tratta dei contenuti della democrazia e della storicità delle sue forme. Altrimenti perché sarebbe stato scritto l’articolo 3 della nostra Costituzione e quel capoverso sugli ostacoli all’accesso dei lavoratori alla direzione politica del paese?

Tu dici che non è stato risolto in alcun modo il problema dell’estensione della democrazia al modo di produzione. Ed è vero. Ma il problema è lungi dall’essere cancellato. Anzi. Tutti gli sviluppi del processo produttivo, di cui parlavo prima, nella misura in cui mostrano i limiti e il consumarsi delle strategie redistributive dello Stato sociale, riacutizzano il problema anche in Occidente. Il secolo si chiude sulla fine dell’equazione fra sviluppo industriale e occupazione: lo sviluppo industriale sembra addirittura, nell’immediato, scandire l’espulsione di forza lavoro, e insieme con essa produrre un’impressionante ristrutturazione dei ruoli, delle competenze, delle figure sociali. Non sono convinto che questo non apra problemi al capitalismo. Certo ne apre per ciò che riguarda il rapporto storico tra capitalismo e democrazia politica.

Quanto alle nostre illusioni o delusioni, io sto all’immagine che tu adoperi. Tu dici che oggi la democrazia sembra «riaprire» al capitalismo. E intendi riferirti, credo, al rilancio di politiche neoconservatrici, che sono tuttora sul campo (anche se con un certo affanno rispetto all’immediato ieri). Ma allora vuoi dire che c’è stata tutta una fase in cui la democrazia si era «chiusa» al capitalismo: aveva insomma intaccato poteri, spostato regole, instaurato compromessi dinamici. È quanto mi basta per concludere che siamo dunque dinanzi a sviluppi storicamente determinati dalla democrazia, che storicamente via via la ridefiniscono nelle sue forme e nei suoi contenuti. E vuoi dire anche che, in questo farsi della democrazia, si ridefinisce dinamicamente e continuamente il rapporto con strutture sociali date, le quali subiscono modifiche, varianti, spostamenti. C’è conflitto.

E però lasciami dire che trovo un po’ forzata e deviante la tua imputazione ai comunisti di una ossessione unitaria. Non nego per nulla che la parola unità ricorra assai spesso nel vocabolario politico dei comunisti italiani: ma non solo dei comunisti italiani. In definitiva è un richiamo a quel momento associativo e aggregante, che si presenta come la principale «risorsa di potere» (per adoperare una densa definizione del socialdemocratico svedese Korpi) per incidere nelle strutture in atto e nei rapporti sociali e politici sfavorevoli. In fondo non facciamo che imparare dai borghesi, e dal modo con cui essi hanno costruito una egemonia non solo sommando voti, ma esercitando una funzione dirigente nazionale. O meglio sommando (raccogliendo) voti attraverso l’immagine di una funzione dirigente nazionale: almeno sino a dove l’hanno saputa assolvere.

L’assillo unitario è una ragione dell’egemonia. Ma il quadro è conflittuale: anzi parte dalla convinzione di contraddizioni antagonistiche. Togliatti quando parla dell’unità lo fa in ragione di un conflitto, che a suo vedere spacca il mondo e le cose: è l’unità in funzione di una lotta. E il compromesso stesso, come accordo, è visto come parte di una lotta. Ma qui vengo a parlare di cose di casa mia; e può darsi che io prenda abbagli.

Caro amico, se non ti dispiace questo dialogo a distanza (che segue ad altri, in altri momenti), ti sarò grato di una risposta.

Con l’antica stima.
Pietro Ingrao
.........................................
Copia e incolla (parziale) dalla rassegna stampa: laudellulivo.org
Topics: PERSONAGGI e PROTAGONISTI, che LASCIANO VALORI POSITIVI.
Post: Auguri a Pietro Ingrao che compie un secolo! Il suo dialogo con Norberto Bobbio.
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6220  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Giovanni Berlinguer. Cara sinistra, svegliati e datti una mossa. inserito:: Ottobre 21, 2016, 12:52:29 pm
Giovanni Berlinguer - Cara sinistra, svegliati e datti una mossa.

«Il: Ottobre 17, 2007, 11:38:56 »
Steccati. Gruppi dirigenti troppo isolati (Da il Riformista del 16 ottobre 2007)

Cara sinistra, svegliati e datti una mossa.
Il Pd ci indica che occorre unire le forze

Di Giovanni Berlinguer*

Nell’arco di pochi giorni, due eventi politici previsti e a lungo preparati sono esplosi per numero, qualità ed entusiasmo dei partecipanti e anche di molti non partecipanti. La prima constatazione è che quando la rappresentanza sindacale e politica si apre coraggiosamente all’ascolto, e presenta ai cittadini una libera e schietta opportunità di esprimersi, essi l’accolgono generosamente, e avviano non solo una fase di apertura di credito, ma anche una prospettiva di impegno. La seconda è che da questi eventi può rinascere la speranza, dopo un anno e mezzo di tormenti e di delusioni, che l’Italia possa uscire dal groviglio di interessi particolari, dalla spinta lenta ma altrimenti irresistibile al declino economico, culturale e morale, dalle sistematiche contrapposizioni frontali, dallo scadimento del prestigio della politica. La terza è che l’Italia ha espresso, nel quadro europeo, a volte il peggio (a partire dal fascismo) ma anche il meglio della democrazia, dalla Resistenza alla creazione di partiti originali, dalla vivacità delle lotte del lavoro alla funzione politico-culturale che ha avuto spesso la migliore intellettualità. Ancor oggi, come testimoniano sempre le cifre dell’Eurobarometro, l’Italia ha la più alta percentuale di votanti alle elezioni e il più alto indice di iscrizione alle organizzazioni sindacali.

Ma anche, purtroppo, il maggior numero di partiti. E questo è uno dei tanti motivi per cui io (e altri), pur non votando alle primarie, abbiamo visto con simpatia la nascita del Partito democratico e la candidatura, alla sua guida, di Walter Veltroni, come una forte novità e un possibile pilastro di una coalizione solida, e possibilmente più ampia di quella esistente. Lo dico perché la vedo come un’esigenza nazionale, e perché da troppo tempo si sono allentati i collegamenti tra le diverse forze dell’Unione, che è l’alleanza che ha vinto le ultime elezioni.

 Comprendo che l’impegno verso la nascita del Partito democratico abbia potuto assorbire le maggiori energie dei suoi costituenti, e non penso ovviamente che in esso possano manifestarsi serie tentazioni di egemonia, in un contesto numerico e politico nel quale c’è bisogno di tutti (e di più). Fra i tutti ci sono anche le forze di sinistra, con origini e sigle diverse, che hanno espresso la volontà di associarsi e che hanno anche avviato un coordinamento parlamentare e a volte locale.

Stride però, anche nel confronto con la creazione del Partito democratico, più che la comprensibile disparità delle opinioni, la reticenza a uscire dai diversi steccati e la propensione a pensare che la sinistra possa essere soprattutto (o soltanto) la somma di quattro sigle: Rc, Pdci, Sd e Verdi.
Vedo con preoccupazione le tendenze all’isolamento fra gruppi dirigenti, e più ancora la mancanza di collegamenti di base, la debolezza di forme di apertura e di partecipazione diffusa. Il processo che ha preso le mosse mesi fa, prevedeva una federazione, ma questo obiettivo non mi pare più sufficiente. Penso piuttosto che si debba avviare un processo costituente, capace di attrarre altre forze, per enucleare gli orientamenti strategici di un nuovo soggetto e per affrontare alcuni temi di maggiore urgenza. Il primo è il posto, il merito, il reddito e la dignità che dobbiamo rivendicare al lavoro. Il secondo è varare una legge elettorale che riconsegni ai cittadini il potere scegliere i parlamentari (e gli altri eletti). Il terzo é ridurre drasticamente i costi della politica, senza imbrogli e tentennamenti. Il quarto è quello di porre la ricerca e il sapere (come disse Prodi in campagna elettorale) al centro della politica, soprattutto per i giovani. Ma l’elenco può essere ancora più ampio.

*Parlamentare Europeo e componente il Direttivo di Sd
Da sinistra-democratica.it

Copia e incolla da - LAU
6221  Forum Pubblico / L'ITALIA DEMOCRATICA e INDIPENDENTE è in PERICOLO. / MASSIMO PISA. Dario Fo e Franca Rame, un fascicolo di polizia lungo 50 anni inserito:: Ottobre 21, 2016, 12:50:36 pm
Dario Fo e Franca Rame, un fascicolo di polizia lungo 50 anni
Per più di mezzo secolo le questure italiane hanno aggiornato il dossier annotando spostamenti e amicizie. Siamo andati a leggere quelle carte

Di MASSIMO PISA
18 ottobre 2016

"Caro Lorenzo, ti prego di voler disporre la redazione di una biografia, il più possibile dettagliata, sul noto comico Dario Fo, anche dal punto di vista politico (ad esempio, la asserita appartenenza alla R.S.I.). La richiesta perviene dall'alto e mi permetto, quindi, di raccomandarti un lavoro che sia fatto presto e bene". Lo scandalo a "Canzonissima" è deflagrato da meno di un mese, alla cacciata di Dario Fo e Franca Rame sono seguite due interrogazioni parlamentari (Davide Lajolo del Pci, Oreste Lizzadri e Luciano Paolicchi del Psi) e al Viminale sono in fibrillazione. Il 21 dicembre 1962 il capo della Divisione Affari Riservati, Efisio Ortona, scrive al questore di Milano Lorenzo Calabrese. Quelle informazioni sono preziose, servono ad arginare la tempesta. Il giorno di Santo Stefano il solerte questore ("Le notizie sono state raccolte e selezionate con scrupolosa attenzione") spedisce quattro pagine di riservata. Le origini, gli studi, i successi in teatro. Poi la polpa: "Il Fo, nel 1944, aderì alla r.s.i., arruolandosi volontario in una formazione di cc.nn. di stanza a Borgomanero (Novara), aggregata al battaglione paracadutisti "Folgore"". La notizia resterà inedita per altri due anni. "È noto l'orientamento comunista - prosegue il documento - si orienta verso la corrente di sinistra del P.s.i. Non consta, però, che aderisca a tale partito". Da Dario a Franca. "La Rame risulta decisamente orientata verso il P.c.i., al pari di tutti i membri della sua famiglia originaria". Chiosa finale: "Sia il Fo che la Rame serbano regolare condotta e sono immuni da precedenti penali".

Per più di cinquant'anni le questure e le prefetture di mezza Italia hanno aggiornato i loro fascicoli e quelli del Ministero dell'Interno sul Maestro. Schedato, controllato, "attenzionato" come voleva il gergo poliziesco dell'epoca. Siamo andati a leggere quelle carte inedite, conservate negli archivi. E, a consultarle, si legge una storia in controluce di Fo, vista attraverso le lenti di uno Stato occhiuto. Già dal 19 febbraio 1960, quando un appunto della questura di Firenze annota che "ha partecipato a una manifestazione indetta da un Circolo culturale controllato dal partito comunista". Nelle schede che la polizia gli dedica, Fo "ha terrore della "macchinizzazione" e di qualsiasi oggetto meccanico e la sua formazione politica subì, per colpa della moglie accesa comunista, una spinta verso la corrente carrista del partito". Tiene mostre di quadri con "scarso successo a causa, soprattutto, del valore artistico dei quadri esposti". Compra una pistola - è già il 1975 - "Flobert marca Franchi calibro 4,5 mediante esibizione del passaporto". Fa teatro e militanza, e i fascicoli si gonfiano.

Ha già fondato da due anni "La Comune", la compagnia con cui poi occuperà la palazzina Liberty a Milano, quando al Viminale arriva una riservata del questore di La Spezia Ferrante, datata 3 ottobre '72. "I noti attori Dario Fò (sic) e Franca Rame hanno trascorso un periodo di ferie estive a Vernazza", insieme a "una quindicina di giovani capelloni", cioè i loro attori, che "per il loro abbigliamento trasandato hanno suscitato un certo malcontento tra la popolazione". Ma c'è di più: la polizia scopre che da Vernazza "la Rame ha spedito a più riprese una serie di vaglia telegrafici ad estremisti ristretti in varie carceri". Tra i destinatari ci sono il brigatista Umberto Farioli, Augusto Viel della XXII Ottobre, Sante Notarnicola della banda Cavallero. È l'inizio del filone di indagini sul "Soccorso Rosso", la rete di assistenza legale ed economica ai detenuti politici della sinistra extraparlamentare. Il primo a voler vederci chiaro è il sostituto procuratore genovese Mario Sossi, la polemica con Fo finirà con accuse reciproche e un processo per diffamazione sospeso durante il sequestro del magistrato da parte delle Br. Intanto indaga Milano, e il 6 settembre 1973 al Viminale arriva una riservata del questore di Milano Allitto: sta nascendo il Comitato unitario del Soccorso Rosso e "i coniugi Franca Rame e Dario Fo - scrive - a quanto si è appreso sarebbero i promotori dell'iniziativa".

Le relazioni pericolose della coppia vengono vivisezionate. Fo, scrive il 14 giugno 1974 il questore di Pisa, viene "incluso nel noto elenco ministeriale di extraparlamentari di sinistra che operano eversivamente in direzione delle carceri".

Il numero di telefono del gran giullare circola parecchio. È nell'agenda di Petra Krause, arrestata in Svizzera nel 1975 ("il più importante e al tempo stesso inafferrabile ufficiale di collegamento del terrorismo continentale ed extracontinentale", la definirà nel 2001 la relazione finale della Commissione Stragi), di militanti dell'Autonomia Operaia, di appartenenti all'Olp arrestati ad Alessandria, di brigatisti rossi marchigiani coinvolti nel rapimento di Roberto Peci. Le polizie di mezza Italia si affannano a cercare la pistola fumante a conferma di quel vecchio appunto del Sid (fonte "Anna Bolena", nome in codice dell'impresario Enrico Rovelli, datato 1974), che voleva Dario Fo come "grande vecchio" delle Br, ma non la trovano mai. Nemmeno quando, il 29 gennaio 1980, il Maestro smarrisce un foglio manoscritto a quadretti dentro una cabina telefonica della stazione di Cesenatico. Il vicequestore di Forlì, Della Rocca, telegrafa immediatamente al Viminale il contenuto: "Cara Franca, mi è stato chiesto di farti un'ambasciata per Tino Cortiana e Maria Tirinnanzi (militanti Fcc, ndr) detenuti a Novara, che chiedono l'aiuto di Soccorso Rosso. Si farà una riunione venerdì sera al Circolo Turati a Milano".

Ci va un brigadiere, e non trova nessuno: "Si presume - scrive - che non è stata svolta nessuna riunione". Ci prova allora il Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza a seguire la pista dei soldi ai detenuti, cercandone la provenienza. Tra il 29 aprile e il 28 luglio 1980, le Fiamme gialle producono tre relazioni classificate "riservatissimo" sugli introiti di Fo, Rame, di Nanni Ricordi e dei loro compagni della "Comune": ne elencano gli incassi degli spettacoli, le spettanze Siae e Rai, le "possidenze immobiliari".

Gli anni Ottanta e Novanta glaciano la febbre rivoluzionaria ed eversiva e le notizie su Fo da spedire al Viminale si diradano. Eccolo nell'83 polemizzare con gli Usa che gli negano il visto, e nell'87 a riproporre al Teatro Cristallo Morte accidentale di un anarchico: "Hanno assistito 800 persone - annota la Digos - per lo più giovani gravitanti nella nuova sinistra. Esplicita è stata la critica al sindaco Paolo Pillitteri, definito "uomo bicicletta"".

Nel 1993, il nome di Fo è ancora in un elenco di "aderenti alla sinistra extraparlamentare di Milano e provincia". Partecipa a manifestazioni per Sofri, Bompressi e Pietrostefani, viene invitato al Leoncavallo, sfila contro il Cpt di via Corelli. Poi tramonta anche la stagione dei "disobbedienti". L'ultimo appunto è del 2006, una formalità per la presentazione delle Liste Fo alle comunali milanesi del 2006 e del 2011. Il Maestro non fa più paura.

© Riproduzione riservata
18 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/10/18/news/dario_fo_franca_rame_polizia-150012221/?ref=HREC1-6
6222  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FEDERICO RAMPINI. Intervista a Obama: "L'austerità blocca la crescita europea" inserito:: Ottobre 21, 2016, 12:48:50 pm
Intervista a Obama: "L'austerità blocca la crescita europea"
Il capo della Casa Bianca incontra oggi a Washington il presidente del Consiglio italiano. "Voi siete in prima linea e avete un ruolo di leadership nell'affrontare la crisi dei rifugiati, che è una catastrofe e rappresenta un test della nostra comune umanità". La sfida. "Occorrono politiche economiche inclusive, che investano fortemente nei nostri cittadini dando loro istruzione, competenze e la formazione necessaria per aumentare gli stipendi e ridurre le disuguaglianze"

Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI
18 ottobre 2016

WASHINGTON - "L'AUSTERITY ha contribuito a rallentare la crescita europea". Barack Obama parla in quest'intervista esclusiva a La Repubblica in occasione dell'arrivo del premier italiano. Affronta il fenomeno Trump e tutti i populismi, indicando come risposta una politica economica che "riduca le diseguaglianze, aumenti i salari, investa nell'istruzione". Rende omaggio al ruolo dell'Italia nell'affrontare l'emergenza profughi nel Mediterraneo ma avverte che "un piccolo numero di Paesi non possono sostenere quest'onere da soli". Invoca più collaborazione tra i servizi segreti occidentali "per prevenire gli attacchi terroristici". E offre un "pieno sostegno alle riforme di Renzi".
 
Signor Presidente, all'inizio del suo primo mandato l'economia americana e quella europea erano in una profonda recessione. Da allora l'economia Usa ha goduto di 7 anni di crescita, mentre l'Europa soffre ancora: bassa crescita e alta disoccupazione. È ora di rivalutare il ruolo della politica fiscale, gli investimenti pubblici? In altri termini, hanno fallito le politiche di austerità?
"Prima di tutto, vorrei dire quanto io e Michelle siamo lieti di ospitare il primo ministro Renzi e la signora Landini. L'Italia è da lungo tempo uno degli alleati più forti e vicini dell'America. Credo che l'esperienza degli Stati Uniti nel corso degli ultimi otto anni dimostri la saggezza del nostro approccio. Poco dopo il mio insediamento, abbiamo passato il Recovery Act, (la manovra di investimenti pubblici, ndr) per stimolare l'economia. Ci siamo mossi rapidamente per salvare la nostra industria automobilistica, stabilizzare le nostre banche, investire in infrastrutture, aumentare i prestiti alle piccole imprese e aiutare le famiglie a non perdere le loro case. I risultati sono chiari. Le imprese americane hanno creato oltre 15 milioni di nuovi posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione è stato dimezzato. Abbiamo ridotto il deficit. I lavoratori stanno finalmente vedendo un aumento nelle loro retribuzioni. I redditi sono aumentati, e i tassi di povertà sono caduti. Abbiamo ancora molto da fare per aiutare i lavoratori e le famiglie a migliorare, ma ci stiamo muovendo nella giusta direzione.

"Altri Paesi hanno adottato un approccio diverso. Credo che le misure di austerità abbiano contribuito al rallentamento della crescita in Europa. In certi Paesi, abbiamo visto anni di stagnazione, che ha alimentato le frustrazioni economiche e le ansie che vediamo in tutto il continente, soprattutto tra i giovani che hanno più probabilità di essere disoccupati. Ecco perché penso che la visione e le riforme ambiziose che il primo ministro Renzi sta perseguendo siano così importanti. Lui sa bene che Paesi come l'Italia devono proseguire il loro percorso di riforme per aumentare la produttività, stimolare gli investimenti privati e scatenare l'innovazione. Ma mentre i Paesi si muovono in avanti con le riforme che renderanno le loro economie sostenibili a lungo termine, lui riconosce che hanno bisogno di spazio per effettuare gli investimenti necessari a sostenere la crescita e l'occupazione e ampliare opportunità. L'economia italiana ha ricominciato a crescere. Più italiani stanno lavorando. Matteo sa bene che il progresso deve essere ancora più veloce, e un tema centrale delle nostre discussioni sarà come i nostri Paesi possano continuare a lavorare insieme per creare più crescita e occupazione su entrambe le sponde dell'Atlantico".

Il "fenomeno Trump" negli Stati Uniti è stato prefigurato dai movimenti populisti e nazionalisti in Europa. Qual è il suo suggerimento per i suoi alleati europei, su come affrontare lo scenario post- Brexit? Come rispondere ai movimenti che vogliono isolare l'Europa, costruire muri, ridurre l'immigrazione, limitare la nostra esposizione al commercio internazionale?
"Nei nostri Paesi, le stesse forze della globalizzazione che hanno portato tanto progresso economico e umano nel corso dei decenni, pongono anche sfide politiche, economiche e culturali. Molte persone ritengono di essere svantaggiate dal commercio e l'immigrazione. Lo abbiamo visto con il voto nel Regno Unito per lasciare l'Unione Europea. Lo vediamo nella crescita dei movimenti populisti, sia a sinistra che a destra. In tutto il continente, vediamo mettere in discussione il concetto stesso di integrazione europea, insinuando che i Paesi starebbero meglio fuori dall'Unione.

"In momenti come questi, anche se riconosciamo le vere sfide che abbiamo di fronte, è importante ricordare quanto i nostri Paesi e le nostre vite quotidiane traggono vantaggio dalle forze di integrazione. La nostra economia globale integrata, incluso il commercio, ha contribuito a rendere la vita migliore per miliardi di persone in tutto il mondo. La povertà estrema è stata drasticamente ridotta. Grazie alle collaborazioni internazionali nel campo della scienza, della salute e della tecnologia, le persone vivono più a lungo e hanno più opportunità rispetto al passato. L'Unione Europea rimane uno dei più grandi successi politici ed economici dei tempi moderni. Nessun Paese dell'Unione ha alzato le armi contro un altro. Le famiglie in Africa e nel Medio Oriente rischiano la vita per dare ai loro figli la qualità della vita e i privilegi di cui godono gli europei, e che non dovrebbero mai essere dati per scontati.

"La nostra sfida, quindi, è quella di fare in modo che i benefici dell'integrazione siano condivisi più ampiamente e che eventuali problemi economici, politici o culturali, siano affrontati correttamente. Ciò richiede politiche economiche inclusive, che investano fortemente nei nostri cittadini dando loro istruzione, competenze e la formazione necessaria per aumentare gli stipendi e ridurre le disuguaglianze. Richiede un sistema di scambi commerciali che protegga i lavoratori e l'ambiente. Richiede di tenere alti i nostri valori e tradizioni in quanto società pluraliste e diverse; e di rifiutare una politica di "noi" contro "loro" che cerca di fare di immigrati e minoranze un capro espiatorio".

Su entrambi i lati dell'Atlantico, i negoziati per il trattato Ttip sono in fase di stallo. Il protezionismo è in aumento in tutto il mondo. Conosce bene le obiezioni americane sul libero scambio, ma la prospettiva europea è leggermente diversa: molti dei nostri cittadini, anche in Paesi come la Germania, che hanno goduto di enormi surplus commerciali, ritengono che un nuovo trattato con gli Stati Uniti abbasserebbe la protezione dei nostri consumatori, i nostri lavoratori, la nostra salute. Per molti europei, il suo Paese è diventato un simbolo di un capitalismo senza freni in cui le multinazionali dettano le regole. Qual è la sua risposta a queste preoccupazioni europee?
"Sì, nei nostri Paesi è complicata la politica in materia di commercio. Ma la storia dimostra che il libero mercato e il capitalismo sono forse la più grande forza per la creazione di opportunità, stimolando l'innovazione e alzando il tenore di vita. Lo abbiamo visto nell'Europa occidentale nei decenni dopo la seconda guerra mondiale. Lo abbiamo visto nell'Europa centrale e orientale dopo la fine della guerra fredda. E lo abbiamo visto in tutto il mondo, dalle Americhe all'Africa all'Asia. Allo stesso tempo, abbiamo anche visto come la globalizzazione possa indebolire la posizione dei lavoratori, rendendo più difficile la possibilità di guadagnare uno stipendio decente, e causare il trasferimento di posti di lavoro nell'industria manifatturiera in Paesi con costi di manodopera più bassi. E ho messo in guardia contro un capitalismo senz'anima che avvantaggia solo i pochi in alto e che contribuisce alla disuguaglianza e a un gran divario tra ricchi e poveri.

"Nella nostra economia globale in cui molto del nostro benessere dipende dagli scambi tra i nostri Paesi, non è possibile tirarsi indietro e alzare il ponte levatoio. Il protezionismo rende le nostre economie più deboli, danneggiando tutti, in partico- lare i nostri lavoratori. Invece, dobbiamo imparare dal passato e fare commercio nel modo giusto in modo che l'economia globale sia in grado di offrire vantaggi a tutta la popolazione e non solo i pochi in alto. Gli imprenditori hanno bisogno di sostegno per aiutare a trasformare le loro idee in un business. Abbiamo bisogno di forti reti di sicurezza per proteggere le persone in tempi di difficoltà. E dobbiamo continuare a lavorare per frenare gli eccessi del capitalismo adottando standard più severi per il settore bancario e in materia fiscale, e una maggiore trasparenza, per aiutare a prevenire le ripetute crisi che minacciano la nostra prosperità condivisa.

"Abbiamo anche bisogno di accordi commerciali di alta qualità come il Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership. Anche se l'interscambio tra gli Stati Uniti e l'Unione Europea sostiene circa 13 milioni di posti di lavoro nei nostri Paesi, ci sono una serie di tariffe e regolamenti diversi, regole e standard che impediscono di aumentare gli scambi, investimenti e posti di lavoro. Eliminando le tariffe e le differenze nelle normative, renderemo il commercio più facile, soprattutto per le nostre piccole e medie imprese. Il TTIP non abbasserà gli standard. Al contrario, alzerà gli standard in materia di protezione dei lavoratori e dei consumatori, tutela dell'ambiente e garantirà una rete Internet aperta e gratuita, elemento essenziale per le nostre economie digitali. Per tutte queste ragioni, gli Stati Uniti rimangono impegnati a portare a conclusione i negoziati sul Ttip, e ciò richiederà la volontà politica di tutti i nostri Paesi".

Stiamo vincendo la guerra contro l'Isis in Iraq e in Siria? E per quanto riguarda l'"altra" guerra contro l'Isis, la prevenzione di attacchi terroristici all'interno dei nostri Paesi?
"La nostra coalizione continua ad essere implacabile contro l'Isis su tutti i fronti. I raid aerei della coalizione continuano a martellare obiettivi dell'Isis. Continuiamo ad eliminare alti dirigenti e comandanti Isis in modo da impedire loro di minacciarci di nuovo. Continuiamo a colpire le loro infrastrutture petrolifere e reti finanziarie, privandoli del denaro per finanziare il loro terrorismo. Sul terreno in Iraq, l'Isis ha perso oltre la metà del territorio popolato che controllava una volta, e le forze irachene hanno iniziato le operazioni per liberare Mosul. È da più di un anno che l'Isis non è riuscita a portare avanti una grande operazione di successo in Iraq o in Siria. Insomma, l'Isis rimane sulla difensiva, la nostra coalizione è sull'offensiva, e anche se questa continuerà ad essere una lotta molto difficile, io ho fiducia che vinceremo e l'Isis perderà.

"L'Italia è un partner essenziale della nostra coalizione. L'Italia da uno dei più grossi contributi in formatori e consulenti sul terreno in Iraq. I carabinieri italiani stanno addestrando migliaia di poliziotti iracheni che contribuiranno a stabilizzare le città irachene una volta liberate dall'Isis. Inoltre, l'Italia è un partner indispensabile per quanto riguarda la Libia. La diplomazia italiana ha avuto un ruolo importante nel processo che sta portando alla creazione del Libyan Government of National Accord. Gli Stati Uniti e l'Italia stanno lavorando per aiutare il governo libico a rafforzare la sua capacità di respingere le forze dell'Isis e riprendere possesso del suo Paese.

"Detto questo, anche se l'Isis continua a perdere terreno in Iraq, Siria e Libia, ha ancora la capacità di condurre o ispirare attentati, come abbiamo visto nel Medio Oriente, Nord Africa, negli Stati Uniti e in Europa. Prevenire gli individui solitari e le piccole cellule di terroristi che progettano di uccidere persone innocenti nei nostri Paesi rimane una delle nostre sfide più difficili. Anche se all'interno di ognuno dei nostri Paesi si lavora per sventare possibili attentati, dobbiamo fare di più insieme: condividere informazioni e intelligence, prevenire gli spostamenti dei terroristi stranieri e rafforzare la sicurezza alle frontiere".

A volte sembra che il nostro Paese sia quasi lasciato solo ad affrontare l'emergenza profughi nel Mediterraneo. Come valuta l'importanza della solidarietà europea su questo tema?
"L'Italia è in prima linea nell'affrontare la crisi dei rifugiati, che è una catastrofe umanitaria e un test della nostra comune umanità. Le immagini di tanti migranti disperati, uomini, donne e bambini che affollano piccole imbarcazioni e annegano nel Mediterraneo, sono più che strazianti. L'Italia continua a svolgere un ruolo di leadership. La forza navale europea nel Mediterraneo, comandata dall'Italia, ha salvato la vita di centinaia di migliaia di migranti. Renzi si adopera per arrivare ad una risposta compassionevole e coordinata alla crisi, mettendo in evidenza la necessità di dare assistenza ai Paesi africani dai cui tanti di questi migranti provengono. Molti italiani hanno dimostrato la loro generosità accogliendo i rifugiati nelle loro comunità. Ma come ho detto al vertice dei rifugiati che ho convocato alle Nazioni Unite il mese scorso, poche nazioni in prima linea non possono sopportare da solo questo peso enorme. È per questo che la Nato ha accettato questa estate di aumentare il nostro supporto alle operazioni navali dell'Unione Europea nel Mediterraneo. È il motivo per cui gli Stati Uniti ritengono che l'accordo tra l'Unione Europea e la Turchia sia importante per condividere i costi di questa crisi e garantire un approccio coordinato che rispetti i diritti umani dei migranti e garantisca una politica migratoria ordinata e umana. Ed è il motivo per cui gli Stati Uniti continueranno ad essere il più grande donatore di aiuti umanitari in tutto il mondo. Lo saranno anche nei confronti dei rifugiati con il nostro nuovo impegno di accogliere e reinsediare 110.000 profughi nel corso dei prossimi dodici mesi.

"Data l'enormità di questa crisi, tutto il mondo deve fare di più. Il vertice dei rifugiati del mese scorso è stato un importante passo avanti. Quest'anno più di 50 nazioni e organizzazioni hanno aumentato di circa 4,5 miliardi di dollari i loro contributi all'Onu e alle Ong. Collettivamente le nostre nazioni stanno raddoppiando il numero di rifugiati accolti nei nostri Paesi, arrivando quest'anno a più di 360.000. Aiuteremo più di un milione di bambini rifugiati ad andare a scuola, e aiuteremo un milione di profughi ad ottenere una formazione e trovare un lavoro. Però abbiamo bisogno che ancora più nazioni diano assistenza e accettino più rifugiati. E abbiamo bisogno di riaffermare il nostro impegno verso la diplomazia, lo sviluppo e la tutela dei diritti umani, contribuendo in tal modo a porre fine ai conflitti, alla povertà e all'ingiustizia che portano così tante persone ad abbandonare la propria casa. In questo lavoro cruciale, siamo grati per l'importante collaborazione dei nostri amici e alleati italiani".
* (Traduzione dall'inglese di Daria Masullo)

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18 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/10/18/news/obama_intervista-150003856/?ref=HREA-1
6223  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / GOFFREDO DE MARCHIS. Renzi rottama House of cards: "Ho smesso di guardarla... inserito:: Ottobre 21, 2016, 12:46:42 pm
Renzi rottama House of cards: "Ho smesso di guardarla già dalla seconda stagione"
Il presidente del Consiglio, alla direzione del Pd nel 2014, aveva lanciato l'idea di creare una scuola di partito studiando anche le serie tv americane.
L'autore del libro Michael Dobbs all'epoca inviò al segretario dem un messaggio: "È solo intrattenimento e non un manuale di istruzioni"

Di GOFFREDO DE MARCHIS
20 ottobre 2016

ROMA - La House of Cards è crollata, almeno agli occhi di Matteo Renzi. "In realtà ho smesso di guardare la serie già dalla seconda stagione, quando Frank Underwood uccide la giornalista. Va bene appassionarsi agli intrighi di potere, ma non esageriamo, mi è sembrato un po' troppo…".

La sera della cena di Stato, il premier e la moglie hanno avuto l’occasione di visitare la parte privata della Casa Bianca. Sono scesi dalla Yellow Oval insieme con Michelle e Barack Obama e nelle stanze dell’appartamento si sono preparati prima di presentarsi agli invitati. Proprio in quell’area, ricostruita in studio, si consumano le trame della coppia presidenziale, per fiction, Frank e Claire Underwood impersonati da Kevin Spacey e Robin Wright. Cinici, spietati, ambiziosi, senza scrupoli, pronti veramente a tutto, anche all’omicidio, per raggiungere l’apice.

La serie in verità piace moltissimo a Obama. Ma Renzi fece di più che giudicarla da spettatore. La indicò, con altri prodotti la cui trama ruota intorno al mondo della politica, come un elemento di formazione delle nuove classi dirigenti. "Proporrei - disse alla direzione del 29 maggio 2014 - di creare una scuola di partito". Ma non usando solo gli strumenti tradizionali. "Bisogna studiare - spiegò - anche le serie tv americane, so che qualcuno si mette le mani nei capelli ma imparare da un racconto è importante". Ma pochi giorni dopo fu lo stesso autore del libro Michael Dobbs che raccontò: "Quando ho saputo che Renzi aveva acquistato una copia in libreria di House of Cards ho ritenuto prudente inviargli una nota per ricordargli che il libro è solo intrattenimento e non un manuale di istruzioni".

Renzi non citò esplicitamente House of Cards, ma tutti pensarono a quell’opera. Lo fecero soprattutto gli avversari interni, che scambiarono l’interesse di Renzi per un’immedesimazione nel carattere del personaggio di Spacey: spregiudicatezza, cinismo, ambizione sfrenata. Ci tornò sopra Enrico Letta, detronizzato proprio da Renzi, con parole di totale disprezzo verso la serie. "Io detesto House of Cards, credo che sia la peggiore delle fiction televisive che si possa far passare, l’idea di politica che esce da lì è una politica tutta fatta di intrighi, di cose terrificanti". Parlava di Renzi usando la metafora del telefilm?

Adesso però, complice la visita a Washington, si scopre che anche il premier, dopo aver pensato di farne un modello, ha abbandonato Underwood. E forse vuole abbandonare anche un’immagine di sé.

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20 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/10/20/news/renzi_house_of_cards-150224839/?ref=HREC1-4
6224  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Arlecchino. Pensavo: se noi elettori agissimo infischiandoci delle diatribe ... inserito:: Ottobre 21, 2016, 12:43:48 pm
Pensavo: se noi elettori agissimo infischiandoci delle diatribe tra politici antiRenzi e il loro pensiero-non-pensiero sul referendum, e votassimo pragmaticamente tenendo in bella-vista gli effetti pratici e concreti del Nuovo (quel poco che ha osato) che Renzi sta portando al paese.

In ogni caso tutti pensano che è un passo avanti sotto molti aspetti. Con Renzi ce la potremmo vedere in seguito per tutti i miglioramenti fattibili.

Oltre-tutto i politici che alzano polveroni per ragioni loro godono in generale di pessima stima, sotto diversi punti di vista. Pensiamoci con il "Cervello". Ciaooo

Da FB del 13/10/2016
6225  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / "Patti chiari, amicizia lunga": Renzi, Obama e il senso delle parole inserito:: Ottobre 21, 2016, 12:41:36 pm
"Patti chiari, amicizia lunga": Renzi, Obama e il senso delle parole
La visita del premier a Washington: quando si parla una lingua che non è la propria, occorre usare frasi idiomatiche che spesso vanno intese non in maniera letterale ma estensiva.
Un po' come 'stai sereno'

Di STEFANO BARTEZZAGHI
18 ottobre 2016

INCONTRANDO Matteo Renzi, Barack Obama gli ha rivolto un saluto e una frase gentile in italiano. Con questo sforzo ospitale ha così contribuito alla settimana della lingua italiana nel mondo. L'aveva inaugurata il giorno prima proprio Renzi, a Firenze, con un discorso sulla necessità di diffondere di più la conoscenza della nostra lingua e anche dei nostri prodotti.

"Non dobbiamo fermarci alla letteratura", ha concluso: ma è quel che ha fatto lui stesso, il giorno dopo, quando ha risposto a Obama con un excursus culminante nell'Ulisse dantesco, che sta bene su tutto: "Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza". Si poteva temere che scegliesse in funzione referendaria: "Le genti / del bel paese là dove 'l sì suona". Ma si è trattenuto in tempo, meglio così.
           
Il problema è stato invece un altro. Quando si parla una lingua che non è la propria occorre usare frasi idiomatiche che spesso vanno intese in senso non letterale ma estensivo. Va così per quella scelta da Obama: "Patti chiari, amicizia lunga". Non poteva sapere che non è l'affettuosa constatazione che potrebbe sembrare: in Italia la usiamo in senso minaccioso. Un po' come "stai sereno", insomma.
Obama riceve Renzi parlando in italiano: ''Patti chiari, amicizia lunga''

© Riproduzione riservata
18 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/10/18/news/_patti_chiari_amicizia_lunga_renzi_obama_e_il_senso_delle_parole-150069198/?ref=HREA-1
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