LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => SCIENZE & TECNOLOGIA => Discussione aperta da: Admin - Agosto 12, 2010, 04:53:19 pm



Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. -
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2010, 04:53:19 pm
12/8/2010

Un futuro pieno di rischi per Internet

JUAN CARLOS DE MARTIN*

A parte gli addetti ai lavori, finora poche persone - soprattutto in Italia - hanno colto uno degli aspetti più importanti di Internet, ovvero la sua relazione con l’innovazione. Tutti sono testimoni - quando non beneficiari diretti - dello straordinario flusso di innovazioni prodotto grazie alla Rete in questi anni. Ma relativamente pochi hanno finora colto le ragioni di fondo che hanno reso possibile tale esuberanza.

Ragioni che non sono legate ad un’improvvisa maggior ingegnosità di informatici e imprenditori, ma piuttosto al fatto che per la prima volta gli innovatori avevano a disposizione una rete di telecomunicazione strutturalmente - potremmo dire: costituzionalmente - diversa dalle reti precedenti. La costituzione della Rete è caratterizzata, per esplicita volontà dei suoi inventori, da due aspetti essenziali: semplicità e apertura. Semplicità perché Internet, a differenza delle reti di telecomunicazione che l’hanno preceduta, è una rete «stupida», ovvero l’«intelligenza» - ciò che rende possibile i vari servizi online - è ai margini della rete stessa, nei nostri computer, non dentro la rete medesima, che si limita a smistare i bit il più velocemente possibile. Per introdurre un nuovo servizio, quindi, non è necessario aggiornare tutta l’infrastruttura di rete (come invece occorre fare nella telefonia), basta pubblicare un software.

Apertura perché non occorre chiedere il permesso a nessuno per innovare su Internet: una ragazza con una buona idea, un computer e una connessione a Internet ha tutto ciò che le serve per realizzare e poi lanciare la sua idea al mondo. Basta che il suo software parli la lingua di Internet, ovvero, il cosiddetto «Internet Protocol», liberamente e gratuitamente utilizzabile da chiunque. Inoltre, apertura perché la Rete, per il principio della cosiddetta «neutralità della rete» (o di «non discriminazione»), tratta tutti i bit (che siano un documento o un file MP3) e tutte le applicazioni (che sia posta elettronica o video streaming) allo stesso modo, indipendentemente da mittente e destinatario. In linea di principio, quindi, i bit della ragazza e quelli di una multinazionale viaggeranno in rete allo stesso modo, senza discriminazioni.

Questa rete strutturalmente aperta, senza guardie ai cancelli, ha reso possibile una stagione di innovazione senza precedenti, permettendo sia ad aziende affermate di evolvere, sia a brillanti innovatori di creare dal nulla applicazioni di grande successo, quando non addirittura nuovi mercati.

L’innovazione, però, è uno di quei concetti a cui tutti tributano grandi omaggi a parole, salvo poi risentirsi molto se l’innovazione altrui perturba interessi consolidati da tempo. Da questo punto di vista, da oltre un decennio registriamo il fastidio - quando non il furore - con cui settori industriali consolidati, spesso a bassissimo tasso di innovazione, hanno accolto l’innovatività dal basso, non controllabile, di Internet e dei suoi utenti.

Da un paio d’anni, però, diversi segnali suggeriscono che il confronto stia passando di livello, ovvero, non più battaglie di retroguardia da parte di attori incapaci di gestire il cambiamento, ma anche tentativi di apportare modifiche strutturali alla Rete da parte di alcuni grandi attori della Rete stessa. In particolare, da anni alcuni fornitori di servizio Internet vorrebbero essere autorizzati a far pagare un sovrapprezzo ai fornitori di contenuti o servizi (per esempio, YouTube o il sito di un quotidiano), che quindi si troverebbero a pagare più volte per gli stessi bit: una volta per accedere alla Rete tramite il fornitore A (come è normale) e poi di nuovo per raggiungere i clienti del fornitore B, quelli del fornitore C, e così via.

Lunedì, però, c’è stato un fatto oggettivamente nuovo: una delle aziende che rappresentano con maggior evidenza l’innovazione legata alla rete, Google (fondata nel 1998), ha emesso un comunicato congiunto con una delle aziende eredi dello storico monopolio telefonico americano, Verizon (fino al 2000 nota come Bell Atlantic). Comunicato reso ancora più visibile da un editoriale apparso martedì 10 agosto sul «Washington Post» a firma congiunta Eric Schmidt e Ivan Seidenberg, gli amministratori delegati delle due aziende.

In sostanza, con un documento molto conciso Google e Verizon chiedono al legislatore e al pubblico di includere in qualsiasi iniziativa normativa relativa a Internet nove punti a loro avviso ritenuti essenziali. Mentre la maggior parte di tali punti è in linea con l’ideale di una rete Internet aperta e non discriminatoria, due punti in particolare stanno invece sollevando pesanti interrogativi e critiche. Il primo punto riguarda l’esenzione dai vincoli di non discriminazione per l’accesso a Internet senza fili, richiesta giustificata con poco evidenti caratteristiche di «unicità» dell’accesso senza fili, nonché con la «dinamicità» di tali servizi. Se si considera che è proprio tramite l’accesso senza fili che si sta concentrando il maggior tasso di sviluppo di Internet, dall’accesso in mobilità da parte degli utenti alla cosiddetta «Internet delle cose», ci si rende conto che ciò che Google e Verizon stanno chiedendo di esentare dal rispetto del principio di non discriminazione è buona parte del futuro stesso di Internet.

Il secondo punto, almeno altrettanto problematico, riguarda la possibilità di offrire «servizi online aggiuntivi». In pratica, a quel che è possibile capire, la creazione di un Internet-premium che si affiancherebbe, con modalità tutte da definire, a Internet tradizionale per offrire - ovviamente a pagamento – servizi per i quali non varrebbe il principio di non discriminazione. Gli interrogativi che solleva un tale scenario, se confermato, sono molti, ma ci si concentri sui potenziali effetti sull’innovazione. Se oggi la barriera all’ingresso per innovare in rete è, come abbiamo descritto, bassissima, l’innovatore del futuro potrebbe invece dover affrontare una giungla contrattuale causata dal dover negoziare, con ogni fornitore d’accesso Internet, come e a che prezzo raggiungere i suoi utenti sulla rete «premium». Avendo come unica alternativa quella di rimanere sulla vecchia Internet, quindi, di offrire la propria innovazione con minori prestazioni rispetto ai concorrenti, che magari saranno multinazionali nate quanto Internet era davvero neutrale.

Google e Verizon avranno modo nelle prossime settimane di chiarire, se lo vorranno, l’effettivo significato delle parti più controverse del loro documento. Più in generale, però, è chiaro che per la Rete si sta per chiudere una prima fase della sua storia, caratterizzata dalle lungimiranti decisioni prese quarant’anni fa dai suoi inventori. Nei prossimi mesi starà a noi decidere se continuare a preservare con forza l’apertura di Internet anche per le prossime generazioni di innovatori.

* Docente al Politecnico di Torino

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7701&ID_sezione=&sezione=


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. -
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2010, 03:33:23 pm
31/8/2010

Le sfide per la neutralità di Internet
   
JUAN CARLOS DE MARTIN*

Il 9 agosto scorso Google (ricerca, pubblicità e altri servizi online, 22 mila dipendenti, 24 miliardi di dollari di fatturato) e Verizon (telefonia fissa e mobile negli Usa, 310 mila dipendenti, 157 miliardi di dollari di fatturato) hanno pubblicato una proposta congiunta relativa alla regolamentazione di Internet. Ora che sono passate tre settimane è possibile fare un primo bilancio delle reazioni. Innanzitutto, notiamo che raramente così poche parole, neanche due pagine, ne hanno causate così tante altre in così poco tempo: una ricerca con le parole chiave «google verizon proposal», infatti, restituisce più di tre milioni di risultati su Google e oltre un milione su Bing (il motore di ricerca di Microsoft). E se il web ha ruggito, la carta stampata non è stata da meno, con tutte le principali testate nazionali (questa inclusa) e internazionali impegnate a riferire gli estremi del dibattito - talvolta schierandosi, in genere su posizioni scettiche o critiche, come il New York Times. Perché una reazione così veemente a una proposta apparentemente così tecnica? I motivi principali sono due. Il primo motivo è che la proposta tocca, oltre al resto, un principio fondativo della rete, ovvero la sua cosiddetta «neutralità», proponendo di attenuarla in due contesti assai importanti (sia pure, come ha poi precisato Google, come mero compromesso temporaneo). Il secondo motivo è che, fino alla proposta con Verizon, Google era stata una sostenitrice «senza se e senza ma» della neutralità della rete, posizione rafforzata anche dall’avere come vice presidente dell'azienda uno dei padri storici di Internet, Vint Cerf. I cambi di direzione di una multinazionale, soprattutto se relativi ad argomenti scottanti, fanno ovviamente notizia, e quindi le reazioni alla proposta dei due colossi sono più che comprensibili.

Ma cosa è la «neutralità della rete» e perché è un argomento scottante? Una delle regole fondamentali di Internet è che gli utenti pagano esplicitamente solo per accedere alla rete, ovvero, per diventare - con il loro computer, smart phone o tavoletta - un nodo della rete stessa. L'accesso naturalmente costerà di più o di meno a seconda della dimensione del «tubo» dati e di altri aspetti del servizio. Ma una volta diventati nodi della rete, tutti gli utenti, che siano blogger o governi, possono raggiungere, sia in trasmissione sia in ricezione, qualsiasi altro nodo, senza più incontrare, ai guadi e ai valichi, gabellieri di sorta. L'importanza - e anche la naturalezza - di questo principio può essere illustrata da un'analogia automobilistica. Sarebbe concepibile che un operatore autostradale - oltre a far pagare a tutti, come è normale, l'accesso alla sua infrastruttura - stringesse anche accordi con marche automobilistiche, per esempio Renault e Toyota, e riservasse alle vetture di tali marche una o più corsie preferenziali, costringendo tutte le altre automobili ad affollarsi nelle corsie rimanenti? Oppure, sarebbe concepibile che ai caselli si ispezionassero i bagagliai, facendo accedere alla corsia preferenziale solo chi trasportasse, per esempio, libri Adelphi o banane Chiquita? Gli esempi fanno probabilmente sorridere tanto sono improbabili. Eppure, nonostante le naturali differenze del caso, è di qualcosa di simile che si sta parlando quando si discute di «neutralità della rete» e dei relativi punti della proposta Google-Verizon.

Ecco perché non condivido il collegamento che lo scorso 18 agosto su questo giornale Luca Ricolfi ha stabilito tra la proposta americana e problemi, per usare le sue parole, di eccesso di libertà positiva (la «libertà di») e di carenza di libertà negativa (la «libertà da»). Non condivido il collegamento perché la proposta Google-Verizon tocca in realtà altri aspetti (le Renault e le Toyota), ma non condivido neanche ampi tratti della sua analisi delle libertà in rete (tralasciamo la critica a Internet come «mondo aperto, magico e buono», dato che da più di un decennio è arduo trovare qualcuno con idee simili). I problemi, infatti, che lamenta Luca Ricolfi - le informazioni inaccurate, i contatti indesiderati, le interruzioni, eccetera - sono, da una parte, problemi naturali, per quanto a volte fastidiosi, in società che hanno scelto di essere aperte come le nostre, e dall’altra parte hanno già numerose soluzioni, a vari livelli. Soluzioni tecnologiche: filtri anti-spam, opzioni di privacy, sistemi di rating, filtri di classificazione automatica della posta elettronica e altro ancora. Soluzioni lato utente: in proposito cito solo, oltre all'ampia letteratura su come usare con efficacia e moderazione la posta elettronica, la possibilità, alla portata di chiunque, di imparare a valutare l'attendibilità di un sito Web proprio come nei secoli scorsi abbiamo imparato a valutare l'attendibilità di libri, case editrici, giornali, riviste e volantini. Soluzioni sociali: si stanno rafforzando e meglio articolando - basta dare tempo al tempo - norme di comportamento relative alle varie attività online, come già successo in passato per ogni invenzione largamente diffusa.

Tecnologia, maggior discernimento e norme sociali più evolute renderanno forse l'esperienza Internet perfettamente «libera da»? Certamente no. E andrà benissimo così. Perché è di gran lunga preferibile muoversi tra il rumore e la polvere di una piazza Internet forse caotica, ma libera e vitale, decidendo ciascuno di noi individualmente a quale angolo fermarci e a chi dare ascolto (e credito), piuttosto che essere ridotti a scegliere da un menu patinato di contenuti (o di contatti) preconfezionato o, comunque, filtrato. E poco importa che il confezionatore sia lo Stato (la Cina ci prova da anni e non è purtroppo la sola) o entità private come Google, Verizon, Apple o Microsoft. Dopo l'invenzione di Gutenberg ci è voluto qualche secolo, ma alla fine abbiamo capito qual è la risposta giusta a simili proposte: grazie, ma no grazie.

demartin@polito.it
*docente del Politecnico di Torino

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7765&ID_sezione=&sezione=


Titolo: JUAN CARLOS DEMARTIN La nostra esistenza riflessa negli schermi
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2010, 05:52:25 pm
6/9/2010

La nostra esistenza riflessa negli schermi

JUAN CARLOS DEMARTIN

Una volta le tecnologie della comunicazione stavano al loro posto, sia come luogo fisico, sia come regole d’uso. Il telefono stava nell’ingresso, o comunque in una posizione centrale della casa, facilmente raggiungibile, e controllabile, da tutti. Il televisore era posizionato in salotto, davanti al divano, vicino a dove prima aveva troneggiato, nei decenni precedenti, la radio.
E le regole d’uso erano più o meno sviluppate, ma comunque piuttosto chiare. Ricordo ancora, per esempio, lo stupore - misto a un po’ di apprensione - che coglieva la mia famiglia se qualcuno per caso telefonava all’ora dei pasti: «Ma chi è il maleducato che telefona a quest’ora?», si mormorava. Mentre il televisore, col suo palinsesto, imponeva regole di fruizione rigide e, per un lungo periodo, senza alternative; per non parlare, a livello familiare, di regole come «a letto dopo Carosello» per i bambini.

Insomma: gli strumenti erano pochi, molto semplici da usare e con un rapporto con la nostra vita definito da decenni - se non generazioni - di abitudine all’uso.

Poi, tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo, c’è stato un «big bang» - silenzioso, ma dagli effetti ben visibili - che ci ha fatto entrare nell’Età degli Schermi. Da qualche anno siamo circondati da schermi in ogni camera della casa, schermi per strada, schermi sui mezzi pubblici, schermi nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti, schermi in automobile, schermi negli uffici pubblici, schermi sulle scrivanie e, soprattutto, schermi nelle tasche e nelle borse. Alcuni di questi schermi ci sono imposti - spesso non sono altro che veicoli per pubblicità o informazioni di servizio - ma altri sono oggetti del desiderio che vogliamo avere vicini, che vogliamo poter guardare in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione. Su tutti, il telefono, che ormai significa sempre meno, soprattutto per i giovani, «sentire e farsi sentire a distanza con la voce» e sempre più «schermo connesso», ovvero porta visiva verso il mondo lavorativo, affettivo e ricreativo. Rettangolo luminoso che, rispondendo al tocco di un dito, può mostrarci all’istante quasi qualsiasi immagine, fissa o in movimento, desideriamo vedere, per lavoro o per capriccio: un disegno di Leonardo, un messaggio del capo, le foto dei figli, la scena finale di «Casablanca», un sms della fidanzata, le poesie di John Keats, il backstage di un concerto.

Nei confronti di questa invasione di schermi siamo ancora palesemente nella fase dello stupore. La proliferazione, infatti, ha avuto luogo così in fretta da non darci il tempo né di capire le conseguenze di ciò che sta capitando, né di sviluppare una reazione sotto forma di regole d’uso mature e socialmente condivise. Cosa significa per ciascuno di noi e per la società nel suo complesso vivere nell’Età degli Schermi (invece che dello Schermo Unico, ovvero della televisione)? In che modo è opportuno comportarsi nei confronti dei propri schermi - telefono, tavoletta o notebook - sia da soli, sia soprattutto in presenza di altri?

Riguardo al secondo aspetto, quello delle regole di comportamento, prendiamo il caso della scuola. Come è opportuno trattare gli schermi in classe? In particolare - a parte eventuali schermi istituzionali, come le celebri «lavagne interattive multimediali» o i computer in dotazione alla scuola - come trattare gli schermi personali degli studenti e dei docenti, notebook, telefoni evoluti o tavolette che siano: proibirli? Tollerarli? O, addirittura, incoraggiarli? La domanda ricorre ormai da anni a ogni riapertura di anno accademico e scolastico.

L’avvento della prima tavoletta di successo, l’iPad della Apple, ci sta aiutando a rispondere con più consapevolezza alla domanda. Il problema, infatti, non è tanto lo schermo in sé, ma il fatto che lo schermo sia spesso privato, cioè visibile solo agli occhi dell’utilizzatore e non anche a chi sta condividendo con tale persona uno spazio e uno scopo, come quello di fare insieme lezione. La tavoletta, invece, per l’inclinazione con cui la si usa è molto più facilmente condivisibile di un computer fisso o portatile.

Permette al docente di vedere, anche solo con la coda dell’occhio, se lo studente sta facendo o no qualcosa di connesso (o comunque di, in qualche modo, compatibile) con la lezione, per esempio, una consultazione di Wikipedia. Un risultato analogo si potrebbe ottenere anche con i normali computer tramite un software che, all’interno dell’aula, preveda la condivisione degli schermi con i compagni e col docente, realizzando così un ragionevole compromesso tra la libertà (e il piacere) di muoversi secondo traiettorie di apprendimento almeno in parte individuali e lo scopo comune di passare alcune ore insieme a imparare qualcosa in maniera strutturata.

Questo è solo un esempio di come sia possibile iniziare a dare un ordine, né proibizionista né supino, alla tecnologia, agli schermi della nostra vita. Sforzi analoghi sono necessari anche negli altri contesti, visto che gli schermi saranno inevitabilmente sempre più numerosi e sempre più potenti (si pensi solo all’imminente diffusione di massa della tecnologia 3D). Con la riflessione, individuale e collettiva, riusciremo a mettere al loro posto anche queste colorate tecnologie della comunicazione, per arricchirci, a tutti i livelli, senza farci troppo sedurre o sviare.

demartin@polito.it
*docente al Politecnico di Torino

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7789&ID_sezione=&sezione=


Titolo: UAN CARLOS DE MARTIN. Il vero potere è calcolare velocemente
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2010, 12:10:15 pm
1/11/2010

Il vero potere è calcolare velocemente

JUAN CARLOS DE MARTIN

Giovedì scorso a Tianjin, una metropoli di 12 milioni di abitanti nel Nord-Est della Cina con non trascurabili tracce della ottocentesca presenza italiana, Tianhe-1A è diventato il più veloce calcolatore del mondo. Tianhe-1A, infatti, grazie a oltre ventimila microprocessori connessi in maniera innovativa, ha iniziato a effettuare più di due milioni di miliardi di operazioni al secondo, circa il 40% in più del precedente campione, un calcolatore americano ospitato in un laboratorio del governo Usa in Tennessee.

Non è la prima volta che la supremazia americana nel supercalcolo viene sfidata. Era già successo nel 2002 quando i giapponesi avevano inaspettatamente prodotto un supercalcolatore nettamente più veloce del campione americano dell’epoca.
Il successo giapponese non era però durato a lungo: già nel 2004 cospicui finanziamenti governativi avevano riportato gli Usa in prima posizione.

Ora la nuova sfida, questa volta da parte della cinese Università Nazionale di Tecnologia per la Difesa. È probabile che anche questa volta gli Usa, che ospitano più della metà dei 500 più veloci supercalcolatori al mondo contro gli appena 24 della Cina, recuperino rapidamente il titolo. Sia per motivi scientifici - le sfide sono spesso utili per portare avanti ricerche che altrimenti verrebbero condotte più lentamente, nonché per attrarre le migliori menti - sia per motivi simbolici: nell’età della conoscenza, infatti, possedere il più veloce elaboratore del mondo ha un valore difficile da quantificare, ma comunque non trascurabile.

Ci sono però anche motivi molto pratici per avere a disposizione le migliori capacità di supercalcolo possibili. I supercalcolatori sono, infatti, strumenti di notevole utilità in numerosi settori nei quali è essenziale elaborare grandi quantità di dati, come gli studi sul riscaldamento globale, le previsioni meteorologiche, la ricerca di idrocarburi, analisi finanziarie in tempo reale, ricerche molecolari, simulazioni militari e altro ancora. Chi dispone dei calcolatori più veloci arriva prima al risultato, acquisendo così un vantaggio competitivo rispetto agli altri.

Tuttavia, dovremmo prestare attenzione non solo a fuoriserie come Tianhe-1A, ma anche alle incarnazioni più prosaiche ma non meno importanti del supercalcolo, ovvero le «fattorie web» («web farms», in inglese). Dietro, infatti, alle risposte fulminee di motori di ricerca come Google o Bing, agli scorrevoli carrelli di negozi online come Amazon o Yoox, e dietro a molti altri servizi online, ci sono gigantesche «fattorie» di migliaia e migliaia di computer e di dischi fissi a basso costo abilmente connessi fra loro. Sono «fattorie» che possono arrivare a estendersi su spazi equivalenti a venti campi di calcio, che consumano energia come cittadine di medie dimensioni, e con costi di realizzazione che possono arrivare al miliardo di dollari.

È in queste «fattorie» che si stanno concentrando, per motivi economici, non solo i servizi di numerose aziende, ma anche i documenti di molti di noi, attratti dalla comodità di avere, spesso gratuitamente, accesso ai nostri dati da ovunque ci troviamo, senza doverci preoccupare di fare copie di sicurezza o di effettuare altre attività di manutenzione.

Dopo oltre tre decenni di decentralizzazione molto spinta di potenza di calcolo, dati e software in centinaia di milioni di computer sparsi nelle case e negli uffici di tutto il mondo e sotto il diretto controllo di tutti noi, è dunque in atto un poderoso processo di centralizzazione. Nelle mani degli utenti continueranno a esserci terminali sempre più potenti e intuitivi, ma anche sempre più dipendenti dalla loro connessione con alcune, poche grandi «nuvole» (il termine spesso usato in questo contesto è infatti «cloud computing») situate per lo più in altri Paesi, se non in altri continenti, e quindi soggette a norme diverse dalle nostre.

Non è, quindi, infondato aspettarsi che nei prossimi anni sentiremo parlare più spesso di «fattorie web» e di «cloud computing» più che dei pur importanti Tianhe-1A e fratelli. La concentrazione di potenza di calcolo e di immagazzinamento dati, infatti, sarà presto, se non lo è già adesso, uno dei principali fattori della geopolitica del XXI secolo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8026&ID_sezione=&sezione=


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN Agenda digitale l'Italia è in ritardo
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2011, 11:39:35 am
10/2/2011

Agenda digitale l'Italia è in ritardo


JUAN CARLOS DE MARTIN

Incalzata dalla competizione globale e con una popolazione sempre più anziana, come potrà l’Europa garantirsi un futuro all’altezza del suo passato recente? In altre parole, come fare a garantire un tenore di vita adeguato, uno sviluppo rispettoso dell’ambiente, società coese e inclusive, elevati livelli di occupazione? Per la commissaria europea Neelie Kroes non ci sono dubbi: il futuro dell’Europa passa per un governo delle trasformazioni digitali che stanno cambiando il mondo intorno a noi, un piano per cogliere fino in fondo le opportunità offerte dalla rete. È lì il motore non solo della nostra produttività futura, ma anche di una società più dinamica, più colta, più rispettosa dei diritti fondamentali. È per questo che nel maggio 2010 la Commissione Europea ha pubblicato «Un’Agenda Digitale per l’Europa», un documento strategico che articola intorno a otto temi principali un piano di azione, con obiettivi e scadenze, sia per la Commissione sia per i Paesi membri dell’Unione. A giugno si terrà già la prima assemblea plenaria, durante la quale verranno valutati i passi in avanti dei singoli Paesi rispetto a una serie di indicatori.

L’Italia in tutto questo come si colloca? Le motivazioni addotte dall’Europa per un’ambiziosa Agenda Digitale sono ancora più valide per l’Italia. Anziano, senza importanti risorse naturali, infatti, e con un gravissimo gap di produttività, il nostro Paese ha un disperato bisogno di cogliere le opportunità offerte dal digitale - a tutti i livelli: nelle imprese (in media piccolissime), nella pubblica amministrazione, per i lavoratori e i cittadini. Eppure la sensazione diffusa di chi si occupa di digitale è che l’Italia stia clamorosamente mancando anche questo appuntamento. Gli altri Paesi pianificano, si pongono obiettivi, realizzano piani ambiziosi, mentre da noi la rete è perlopiù oggetto di polemiche estemporanee, non il focus di un’attenzione strategica, seria, sostenuta nel tempo. Un’attenzione che dovrebbe essere una priorità nazionale, indipendentemente dalla parte politica e dall’emergenza - vera o presunta - del momento.

È per questo che 100 persone di estrazione molto varia (tra cui chi scrive) - imprenditori, giornalisti, professori, esperti, ecc. - hanno creato un sito, www.agendadigitale.org, per lanciare un appello alla politica e alla pubblica opinione italiana, chiedendo qualcosa di semplicissimo, ovvero che entro cento giorni venga definita un’Agenda Digitale per l’Italia. Nel giro di pochi giorni, tra sito e Facebook, quasi ventimila persone hanno aderito all’appello: un risultato straordinario in assoluto, ma a maggior ragione per un’iniziativa su base volontaria, senza altre risorse che l’entusiasmo di alcuni appassionati. Ieri a Roma la prima presentazione pubblica: alcuni sottoscrittori hanno spiegato i motivi che li hanno spinti a pubblicare l’appello, hanno ricordato il contesto europeo e hanno descritto alcuni esempi di cosa si potrebbe fare nell’immediato per riagganciare l’Italia al futuro. La politica ha immediatamente risposto. Gli onorevoli Gentiloni, Lanzillotta, Berbareschi e Rao, presenti all’incontro, infatti, hanno non solo raccolto l’invito, ma anche iniziato a prospettare provvedimenti concreti potenzialmente attuabili già nelle prossime settimane. Negli stessi minuti da Bruxelles la commissaria Neelie Kroes via Twitter incoraggiava a proseguire. Mancano ancora novanta giorni, e c’è ancora molto lavoro progettuale da fare. E, dopo di quello, moltissimo lavoro per realizzare quanto deciso. Ma forse possiamo cominciare a sperare che il futuro digitale stia iniziando - finalmente - a delinearsi. È solo un inizio, ma è comunque una buona notizia.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. Internet e il potere
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2011, 04:25:10 pm
16/4/2011

Internet e il potere

JUAN CARLOS DE MARTIN

Quanto potere ha Internet? Quanto è in grado la Rete di influenzare o determinare comportamenti? E chi ha potere in Internet? Come si declina il concetto di potere sulla Rete? Chi lo detiene e in virtù di quali fattori?

Sono domande che è ormai ora di prendere in considerazione, anche per evitare che tali riflessioni stategiche vengano lasciate ai soli governi di alcuni paesi – come avverrà nel corso del prossimo G8, presieduto da Sarkozy e dedicato appunto a Internet - o ai soli addetti ai lavori. Sono infatti domande che toccano aspetti fondamentali delle nostre democrazie, come la formazione del consenso, la trasparenza dei poteri dello Stato, la libertà di espressione, il futuro dei partiti politici e altro ancora. Sul potere di Internet inteso come infrastruttura di comunicazione basta dire che nessun paese evoluto può più permettersi di spegnere la rete senza pagare un prezzo economico elevatissimo. L’economia, la pubblica amministrazione, persino le forze armate dipendono dalla Rete. È, quindi, semmai una questione di grado di libertà della Rete, come in Cina e in altri paesi autoritari; non più se averla o non averla.

Ma il potere di Internet sta crescendo rapidamente anche nel senso di capacità di influenzare o determinare i comportamenti. Capacità che deriva dalla grande facilità con cui la Rete veicola informazioni in tempo reale da persona a persona (email, chat, telefonia su Internet), da persona a moltitudini (blog, reti sociali) e da molti a molti (le matasse delle connessioni sociali). Un «big bang» che sta cambiando sia la dieta informativa dei cittadini, sia il modo in cui comunicano e si organizzano tra di loro - facilitando in particolar modo le mobilitazioni, come dimostrato dalla campagna elettorale di Obama del 2008. È l’onda di cambiamento che procede più rapidamente nei paesi amanti del nuovo, come gli States, ma che per motivi culturali e anagrafici sta arrivando ovunque, anche in paesi relativamente poveri come quelli del Nord Africa e del Medio Oriente.

È, quindi, importante cercare di capire chi ha potere su questa realtà. Col crescere del potere di Internet stanno crescendo le pressioni per ridisegnare la geografia del potere in Internet. Il potere ce l’ha chi costruisce i nostri computer e il software che li fa funzionare? O chi possiede i cavi e ci vende l’accesso alla Rete, potenzialmente monitorando tutti i nostri flussi? Chi ci permette di trovare cosa cerchiamo nell’oceano del virtuale? Chi ha tasche profonde per creare i siti più popolari e per garantire la miglior fruibilità dei contenuti? O chi gestisce le grandi piattaforme di aggregazione di blog, foto, video e le reti sociali? Ognuna di queste domande richiede risposte specifiche, spesso complementari e a volte tutt’altro che intuitive. Quel che è certo è che la libertà su Internet – ovvero un potere il più possibile nelle mani degli individui – richiede il mantenimento di uno strato trasversale di libertà a tutti i livelli, dall’effettivo controllo del nostro computer e dei nostri dati, alla possibilità di comunicare online riservatamente e senza discriminazioni.

Tale strato di libertà si può in parte assicurare con azioni dal basso, per esempio utilizzando software che protegga la riservatezza della corrispondenza elettronica e della navigazione. Ma l’intervento normativo rimane indispensabile. Da quelli volti a dichiarare l’accesso alla Rete un diritto costituzionale, come proposto dal giurista Stefano Rodotà e come ripetutamente richiesto anche dall’inventore del Web, Tim Berners-Lee, a una serie di interventi legislativi miranti a preservare le componenti fondamentali della libertà online a tutti i livelli. Se riusciremo ad applicare alla Rete i principi democratici, evitando in particolare le concentrazioni di potere, la Rete a sua volta potrà venire in aiuto delle nostre democrazie, spesso fragili, aiutandoci a renderle più compiute. In particolare, la Rete potrebbe aiutarci a riempire l’angosciante vuoto tra un evento elettorale e il successivo, articolando quel dialogo continuo tra eletti ed elettori che dovrebbe essere, al fianco dei dibattiti che avvengono tra eletti nelle istituzioni rappresentative, la fibra di ogni democrazia. Dialogo di cui c’è un urgente bisogno e che né i sondaggi né tanto meno il vociare spesso grezzo della televisione possono sostituire. È un tipo di dialogo – sia chiaro - che già avviene online tutti i giorni, coinvolgendo migliaia di cittadini. Ma sono ancora solo frammenti, avvisaglie di qualcosa che potrebbe essere e ancora non è. Occorre costruire su tali primi esperimenti, per dar loro forma e peso. In tal senso discutere del potere nella Rete coincide col parlare di una parte importante del futuro della democrazia.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - Missione di soccorso per l'Italia non digitale
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2011, 03:41:20 pm
14/7/2011

Missione di soccorso per l'Italia non digitale

JUAN CARLOS DE MARTIN


La direzione è quella giusta, ma i valori assoluti sono ancora tra i peggiori del mondo sviluppato, e per di più con forti diseguaglianze interne.

Si potrebbero riassumere così i numeri dell’ultimo rapporto del Censis, intitolato «I media personali nell’era digitale», di cui ieri è stata resa disponibile una sintesi. Un’Italia spesso a due velocità, come peraltro ci aveva già detto l’Istat: giovani e persone istruite a livelli nord-europei, ma anziani e classi svantaggiate ancora a livelli da Paese in via di sviluppo. I numeri sono chiari: una fascia sempre più ampia della popolazione – anche se ancora troppo limitata se si guarda al totale - vive immersa nel web. I giovani urbani, in particolare, sono quasi tutti sui social network, guardano sempre meno televisione (che giudicano nettamente meno affidabile di Internet), leggono meno giornali di carta preferendo le informazioni online, cercano strade e località grazie agli smartphone, ritengono che Internet sia un potente mezzo al servizio della democrazia. È quanto ci aspetteremmo all’arrivo di qualsiasi nuova tecnologia: i giovani hanno meno abitudini da rompere nonché una innata propensione al nuovo.

Tuttavia non possiamo adagiarci sull’anagrafe, delegando solo all’intraprendenza dei giovani il futuro digitale dell’Italia. Per due motivi: non solo i giovani diventano adulti troppo lentamente rispetto alle esigenze del Paese (e lì c’è poco da fare, alla natura non si comanda), ma i giovani italiani sono anche sempre di meno rispetto alla popolazione complessiva. Una pattuglia entusiasticamente digitale, ma con, purtroppo, un peso economico, sociale e politico in costante decrescita (almeno fino a quando la politica non si deciderà a fare qualcosa in proposito, come raccomandato, tra gli altri, dal demografo Alessandro Rosina).

Occorre quindi concentrare le energie sui gruppi sociali ancora lontani dal digitale: anziani, lavoratori non specializzati, persone con basso livello di istruzione, abitanti di piccoli centri. Sono gruppi eterogenei che chiedono strategie diverse a diversi livelli. Impresa non facile per un Paese come il nostro, poco abituato a dispiegare strategie complesse che su più anni, magari a cavallo di più legislature. Ma non impossibile. Soprattutto se riuscissimo a far capire alla politica che la questione è allo stesso tempo non di parte e di grande importanza per lo sviluppo economico e sociale dell’Italia. I dati in proposito sono eloquenti: secondo il Boston Consulting Group, l’Internet economy italiana valeva 31,6 miliardi di euro nel 2010 (il 2% del Pil), ovvero, il 10% in più rispetto al 2009, contro il circa 2% dei settori più tradizionali. Impatto che sale a 56 miliardi di euro se si tengono in conto anche gli effetti indiretti del Web sull’economia, come e-procurement e acquisti nel mondo fisico di merci ricercate online. Continuando così l’Internet economy italiana arriverà a rappresentare nel 2015 tra il 3,3% e il 4,3% del Pil, ovvero tra i 59 e i 77 miliardi di euro. In altri termini, 15 centesimi di ogni euro di crescita del Pil italiano da oggi al 2015 saranno riconducibili a Internet.

È una chance imperdibile per l’Italia, un Paese senza materie prime, ma con un immenso patrimonio culturale, commerciale, artigiano, industriale per il quale il web potrebbe rappresentare un volano eccezionale. A patto, però, di identificare la Rete come priorità strategica nazionale e di agire di conseguenza. A livello infrastrutturale, per rendere l’accesso a Internet più capillare e più facile in tutto il Paese. A livello economico, per favorire l’accesso alle tecnologie digitali e alla rete stessa. E, soprattutto, a livello culturale. È quest’ultimo l’obiettivo su cui concentrare le maggiori energie. Senza cittadini istruiti – e l’Italia, come ci ricorda spesso Tullio De Mauro, è il Paese sviluppato con la percentuale più bassa di cittadini che padroneggiano la loro lingua madre, appena il 20% - non avremo mai cittadini digitali. Non è facile recuperare, ma tutt’altro che impossibile. A beneficiarne sarebbe tutto il Paese, digitale e non.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8979


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - Spegnere il Web? Così l'Occidente fa un assist ai raiss
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2011, 07:19:03 pm
14/8/2011

Spegnere il Web? Così l'Occidente fa un assist ai raiss

JUAN CARLOS DE MARTIN

Giovedì scorso alle quattro del pomeriggio a San Francisco sta iniziando l’ora di punta per cui molte persone si dirigono verso le stazioni della Bay Area Rapid Transit (Bart) per prendere un treno per tornare a casa. In quattro stazioni, però, capita qualcosa di inaspettato: per ben tre ore, fino alle sette di sera, tutti i telefoni cellulari smettono di funzionare. Medici in reperibilità, manager, genitori ansiosi e tanti altri si riducono a fissare schermi muti e a interrogarsi sul motivo del black out. Loro non lo sanno ancora, si saprà solo il giorno dopo, ma la causa non è - come verrebbe naturale pensare - un serio problema tecnico. Piuttosto Bart, con una decisione senza precedenti, ha spento, senza preavviso, i cellulari dei propri clienti.

Che cosa ha spinto Bart - che è un ente pubblico - a fare quello che la Rete in queste ore sta chiamando «un Mubarak», ricordando lo spegnimento dei telefoni cellulari e di Internet ordinato dal deposto raiss egiziano durante l’insurrezione di pochi mesi fa? Motivi di sicurezza, ha dichiarato ieri Bart. Giovedì in quelle ore e in quelle stazioni, infatti, era prevista una manifestazione di protesta contro l’uccisione il 3 luglio scorso di un senza tetto da parte di un agente della sicurezza Bart. Manifestazione che Bart ha cercato di ostacolare - apparentemente con successo, dal momento che non si è poi tenuta - spegnendo indiscriminatamente tutti i telefoni cellulari nelle zone previste come calde.

Riflettiamo un momento: un’azienda di trasporti, con un processo decisionale esclusivamente interno, decide senza preavviso di interrompere la capacità di comunicare di privati cittadini (capacità per la quale i cittadini peraltro pagano) invocando generiche opportunità di sicurezza.

Non sorprende che, oltre all’indignazione della Rete, le principali associazioni americane per i diritti civili, come Aclu e Eff, abbiano già severamente condannato le azioni di Bart, preannunciando battaglie legali. La compressione della libertà di parola, nella sua versione di poter manifestare pacificamente, è infatti evidente.

Tuttavia colpisce che proprio nelle ore in cui Bart si preparava a sconnettere i telefoni, il primo ministro britannico David Cameron annunciava che il suo governo avrebbe preso seriamente in considerazione l’ipotesi di sospendere i servizi di Facebook, Twitter e Blackberry in caso di «credibili minacce di violenza».

Una reazione ufficiale al ruolo della tecnologia nelle recenti violenze inglesi. Dopo il «Mubarak» californiano, avremo dunque presto un «Mubarak» londinese? Dopo piazza Tahir e Embarcadero Station, Trafalgar Square?

È urgente ricordare a tutti i coloro che sono tentati dal girare l’interruttore che appena pochi mesi fa quella stessa tecnologia - cellulari, Facebook, Twitter - era stata giustamente celebrata come importante fattore abilitante della primavera nordafricana.

L’Occidente in altre parole in questo momento sta correndo il grave rischio dell’ipocrisia: ciò che a Teheran o il Cairo è censura, sarebbe invece ragionevole misura di sicurezza se fatta a San Francisco o a Londra. Paesi autoritari come Iran e Cina non aspettano altro: per poter rispedire al mittente eventuali nostre critiche future e magari anche per comprare con maggior tranquillità le nostre migliori tecnologie di sorveglianza.

In questo momento, l’Occidente deve resistere all’emotività e mostrare coi fatti di credere in ciò che predica agli altri: ovvero, pieno rispetto dei diritti dei cittadini, anche se questo comporta apparentemente maggior lavoro e maggior complessità. In modo da garantire che se il telefono diventa improvvisamente muto è solo perché ci si è dimenticati di caricarlo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9092


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - Internet sfida e occasione per le librerie
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2011, 11:06:40 am
5/9/2011

Internet sfida e occasione per le librerie

JUAN CARLOS DE MARTIN

A volte dico, esagerando un po’, di essere cresciuto in una libreria. Una piccola libreria indipendente di Torino i cui proprietari, marito e moglie, per anni accettarono - sempre col sorriso sulle labbra - di aver tra i piedi, a volte per interi pomeriggi, un ragazzino che sfogliava molto e comprava poco. Ragazzino che quando non era da loro era a perlustrare gli scaffali della non lontana biblioteca civica. Quanta gratitudine nei loro confronti (che spero stiano bene) e anche nei confronti della mia città, che mi garantì, in un momento cruciale della mia formazione, il diritto di accedere gratuitamente a libri e riviste. Da allora sono diventato quello che gli analisti chiamano un «lettore forte», ovvero, qualcuno che sa fin troppo bene cosa significhi comprare libri, sia in Italia sia all’estero. Allo stesso tempo però sono diventato un forte utilizzatore di qualcosa che Rocco Pinto - e la cosa un po’ mi sorprende - non menziona mai nella sua lettera, ovvero, di Internet. E da utilizzatore di Internet mi sembra impossibile parlare oggi di libri, librerie e biblioteche senza prendere in considerazione l’impatto delle tecnologie digitali inclusi gli eBook, altra parola che non compare nella lettera di Pinto.

Come amante dei libri nonché utente Internet, non ho dubbi: le librerie dovranno cambiare. Dovranno infatti prima o poi inesorabilmente fare i conti con i vantaggi garantiti dalle librerie online tra cui un catalogo vastissimo consultabile dall’utente senza intermediari, consegna puntuale quasi ovunque nel mondo, liste dei desideri, suggerimenti personalizzati e recensioni spesso utili per orientarsi. Le librerie online più evolute consentono persino di sfogliare elettronicamente i libri prima di comprarli, proprio come in libreria.

In questo nuovo scenario le librerie - più che combattere una battaglia di retroguardia - dovrebbero a mio avviso provare a sfruttare il loro vero vantaggio competitivo, ovvero, quello di essere uno spazio fisico immerso nel tessuto urbano in cui i loro clienti vivono e lavorano. Spazio che cooperando con entità online (che offrono gli innegabili vantaggi di cui sopra) potrà offrire qualcosa che l’online non potrà mai dare, ovvero, esperienze umane dirette. Con librai intelligenti, ma anche con autori, critici e, soprattutto, con altri amanti della lettura nonché, perché no?, di altre arti. Insomma, spazi di socializzazione e di confronto mirati a vendere prodotti, certo, ma anche - e forse soprattutto - esperienze. Una metamorfosi tanto più importante in vista dell’inevitabile affermarsi degli eBook.

Da questo punto di vista il vero limite, anche se certamente non il solo, della legge Levi sul prezzo del libro è che sembra una legge degli Anni 70 del secolo scorso più che uno stimolo - come pure avrebbe potuto essere - ad affrontare il nuovo con intelligenza. Internet, però, piaccia o non piaccia a legislatori, editori e librai, non sparirà: sempre più persone useranno la rete, sempre più persone apprezzeranno gli eBook e i tablet e il flusso di innovazione, anche nei modi di fare business, non si interromperà. E’ quindi facile predire che non passerà molto tempo prima che si torni a discutere di libri e di librerie. Quando capiterà, però, questo amante dei libri sommessamente supplicherà di staccare gli occhi dallo specchietto retrovisore e di volgerli al parabrezza: c’è un mondo là davanti, diverso dal passato, ma probabilmente altrettanto entusiasmante, se non di più, per chi ama la parola scritta. Si tratta solo di capirlo e di costruirlo per tempo.

twitter @demartin

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9162


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - Dati pubblici per tutti, ecco la società aperta
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2011, 06:03:52 pm
15/12/2011
 
Dati pubblici per tutti, ecco la società aperta

JUAN CARLOS DE MARTIN

Lunedì scorso a Bruxelles la Commissaria europea Neelie Kroes ha lanciato un'iniziativa di quelle di cui l'Europa ha un enorme bisogno in questo momento, ovvero, a basso costo ma col potenziale di generare forti rendimenti. «Trasformare in oro i dati della pubblica amministrazione», questo il titolo dell'annuncio che, in concreto, consiste nella revisione della Direttiva europea del 2003 sui dati del settore pubblico.

Stiamo parlando dei dati prodotti, raccolti o acquisiti dalla pubblica amministrazione, dati che, se messi a disposizione di aziende e società civile, rendono possibili iniziative imprenditoriali, culturali e civili. Parliamo, per esempio, di dati cartografici, meteorologici, statistici, ambientali, turistici, marittimi, scientifici, culturali, sui trasporti. A Boston, dove mi trovo in questo momento, l'autorità dei trasporti locali (la MBTA) mette a disposizione i dati sulla posizione in tempo reale di bus, treni, metropolitana, permettendo a chiunque di usarli senza vincoli. Col risultato che sono state sviluppate ben trentacinque applicazioni per smartphone - alcune gratis, altre a pagamento - che permettono di usare i mezzi pubblici locali con intelligenza ed efficienza.

Siamo solo all'inizio di questo movimento dei «dati aperti». A Boston come a Torino man mano che nuovi dati verranno resi pubblici, sarà possibile incrociarli permettendo lo sviluppo di applicazioni ancora più efficaci nel facilitare la vita di cittadini e aziende.
Interessati, per esempio, ad andare in centro città a vedere uno spettacolo? Una applicazione potrà incrociare in tempo reale i dati - di diversa provenienza - relativi a cinema e teatri, mezzi pubblici, traffico, parcheggi e ristoranti, offrendo nel giro di pochi secondi soluzioni intelligenti per la serata. E' facile immaginare quanto un turista (e non solo) troverebbe utile un simile strumento. Altro esempio: la messa a disposizione di dati dettagliati sulla spesa pubblica permetterebbe ad associazioni e a singoli cittadini non solo di conoscere più a fondo in che modo vengono spesi i soldi delle tasse - e di identificare eventuali sprechi - ma anche di sviluppare una coscienza civica più matura.

Siamo solo all'inizio, ma l'annuncio di lunedì della Commissione Europea - annuncio che è uno dei pilastri dell'Agenda Digitale per l'Europa - alzerà certamente il livello di attenzione in tutti i Paesi membri, Italia inclusa. Anche perché il ritorno economico atteso è stimato dalla Commissione in ben 140 miliardi di euro l'anno per l'Europa a 27.

L'Italia in questo settore per una volta, però, non parte tra gli ultimi. Anzi, lunedì la Commissione europea ha citato, a fianco di Francia, Regno Unito e Catalogna, il portale «open data» della Regione Piemonte, dati.piemonte.it, il primo del suo genere in Italia e uno tra i primi in Europa. E sulla scia del Piemonte si sono attivate sia altre regioni italiane, come l'Emilia Romagna, sia il governo nazionale, che recentemente ha lanciato il portale dati.gov.it.

E' un buon inizio, ma c'è ancora molto da fare per catturare almeno parte di quei 140 miliardi: bisogna aumentare la quantità e la qualità dei dati disponibili, favorire alleanze tra pubblico e privato, e, soprattutto, superare le resistenze di molti funzionari pubblici che si comportano come se i dati fossero loro proprietà personale e non patrimonio della collettività.
Sfruttando l'iniziativa europea - che tra l'altro chiede agli Stati membri specifiche azioni - il governo Monti ha una splendida occasione per rafforzare il ruolo dell'Italia, facendola diventare davvero l'avanguardia d'Europa in questo settore. Un obiettivo che tutta la politica, senza distinzioni, dovrebbe appoggiare senza riserve.

twitter: @demartin

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9547


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - Diritto d'autore, niente scorciatoie
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2012, 05:58:56 pm
30/3/2012

Diritto d'autore, niente scorciatoie

JUAN CARLOS DE MARTIN

È certamente possibile attribuire all’Autorità delle Garanzie nelle Comunicazioni (AgCom) compiti in materia di diritto d’autore: basta cambiare la legge sul diritto d’autore.

Che il Parlamento, dunque, discuta liberamente dei diritti fondamentali in gioco - inclusa la libertà d’espressione - e di come meglio contemperarli. Poi, se lo riterrà, che modifichi la legge sul diritto d’autore assegnando specifici, circoscritti poteri ad AgCom. In una democrazia europea questa è l’unica strada percorribile - come sottolineato neanche un anno fa dall’Avvocato Generale presso la Corte di Giustizia Europea, Pedro Cruz Villalon. Qualunque alternativa sarebbe una scorciatoia politicamente inaccettabile e giuridicamente gracile.

Qualifiche che certamente si applicano anche alla bozza di decreto sull’AgCom, che a quanto pare qualcuno nel Governo sta spingendo con gran forza. Confidiamo che il presidente Monti abbia una connaturata avversione per le scorciatoie. Soprattutto se con le gambe corte.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9944


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - Nomine Agcom, chance da non sprecare
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2012, 03:59:29 pm
14/5/2012

Nomine Agcom, chance da non sprecare

JUAN CARLOS DE MARTIN

Immaginiamo di essere nel maggio 2019, sette anni da oggi. Negli Usa, dopo gli otto anni di Obama, la prima presidente donna degli Stati Uniti potrebbe star già pensando alla rielezione. Il presidente francese Hollande potrebbe essere già nel secondo anno del suo secondo mandato.

Gli esseri umani sulla terra saranno circa 7,6 miliardi, ovvero, 600 milioni in più rispetto a oggi.

In Italia, invece, sappiamo per certo che saranno ancora in carica i presidenti e i commissari delle autorità per le comunicazioni (AgCom) e per la privacy che Governo e Parlamento eleggeranno nelle prossime settimane. Sette anni, infatti, dura il mandato dei componenti delle Autorità. Un tempo molto lungo che ha i suoi buoni motivi - in particolare per garantire stabilità al variare delle maggioranze - ma che allo stesso tempo richiede un altissimo senso di responsabilità da parte di coloro che li sceglieranno. Oggi ancor più che in passato. Quei presidenti e quei commissari, infatti, presiederanno con ampi poteri regolatori un periodo non solo lungo in termini di anni, ma quasi certamente cruciale dal punto di vista storico. Molti elementi, infatti, fanno ritenere che nei prossimi anni faremo collettivamente scelte decisive in merito sia al futuro di Internet, la tecnologia del XXI secolo, sia della protezione dei dati personali, il nuovo petrolio che fa gola a interessi colossali.

Mi concentrerò su Internet e quindi sulla nomina del nuovo consiglio AgCom. È ormai chiaro a tutti che Internet è il mezzo di comunicazione su cui stanno inesorabilmente convergendo stampa, radio e televisione: regolare Internet, dunque, significherà molto presto regolare tutti i media. Ma quello che invece sfugge a molte persone provenienti dal mondo dei media tradizionali è che Internet è anche molto altro. Internet, infatti, è la piattaforma che permette a più di due miliardi di persone di esprimersi, di istruirsi, di conoscersi a vicenda, di fare commercio, di usufruire di servizi, di fare politica, di associarsi, di fare volontariato, di innovare. Guardare questo universo con i soli occhiali della televisione o della stampa è tanto miope quanto come guardare una metropoli piena di attività e di persone come New York e di essa vedere solo le edicole o i cartelloni pubblicitari per strada.

Al di là delle occasionali iperboli Internet offre davvero possibilità inedite: in Rete non più frequenze limitate, non più la scarsità del mondo fisico che aveva giustificato buona parte degli edifici normativi dei secoli precedenti. In un certo senso è davvero un Nuovo Mondo, come suggerito per esempio dal giurista americano David Post. E come nel Nuovo Mondo del 18˚ secolo, sta a noi contrastare l’impulso a importare - per pigrizia o per proteggere interessi esistenti - le strutture dell’ancien régime e pensare in maniera nuova. È dunque essenziale che il nuovo presidente e i nuovi commissari AgCom conoscano a fondo il nuovo mondo di Internet, i suoi limiti, il suo potenziale, le sue leggi, la sua storia, la sua cultura ormai pluridecennale. È inoltre essenziale che, considerata la posta in gioco - che non è solo economica, ma anche culturale, civile e politica - che vengano scelte - in maniera aperta e trasparente - persone manifestamente indipendenti, ovvero, senza traccia di conflitti di interesse politici o economici. A seconda delle scelte che faranno partiti, Parlamento, governo e Presidente della Repubblica nelle prossime settimane, nel maggio 2019 potremmo ritrovarci a lamentare le scelte AgCom del 2012 come un’ulteriore causa del persistente declino italiano o, come è possibile e fortemente auspicabile, come uno dei punti di partenza della ripresa.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10098


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - Qui ci vuole una costituzione dei diritti digitali
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2012, 03:39:09 pm
13/9/2012

Qui ci vuole una costituzione dei diritti digitali

JUAN CARLOS DE MARTIN

Gli smartphone, quei minuscoli computer che consentono anche di telefonare, stanno portando nelle tasche di milioni di persone i due pilastri della rivoluzione digitale: un computer tutto-fare in grado di elaborare qualsiasi informazione rappresentabile sotto forma di uni e di zeri e una connessione a Internet. Chi i computer già li frequenta apprezza gli smartphone perché permettono, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento, molte, anche se non tutte, delle operazioni tipiche di un computer. E gli altri apprezzano subito, anche grazie alle interfacce intuitive, il marchingegno che si ritrovano in tasca. La legge di Moore - quella che sancisce il raddoppio delle capacità di calcolo dei computer ogni 18 mesi - ha contribuito: gli smartphone sono sempre più potenti, veloci e versatili. Pochi anni fa, era impensabile che un dispositivo tascabile riuscisse a registrare e magari anche a montare video ad alta definizione: oggi è la norma. Così per le prestazioni fotografiche, per la navigazione stradale, per le funzioni di pagamento, in un crescendo imperialista che porta lo smartphone ad assorbire nella sua flessibile anima di computer un numero crescente di dispositivi una volta a sé stanti.

Le conseguenze sono chiare. La prima è che lo smartphone diventa sempre di più «il» dispositivo personale. Per molti è più probabile dimenticare a casa il portafogli (che serve solo a pagare) che il proprio smartphone (che fa tante cose, tra cui pagare). La seconda è un netto aumento della produttività. Produttività lavorativa (e non solo perché il tempo del lavoro sembra espandersi senza limiti) e personale: gestione degli impegni, appunti, shopping, social network, email, tempi di arrivo dei mezzi pubblici, lettura notizie, pagamenti, e molto altro ancora.
Tutto bene, dunque? Viviamo in un mondo meraviglioso che non fa che diventare sempre migliore? Non esattamente.

E non solo perché questi strumenti contribuiscono a insinuare il lavoro in ogni momento della vita. Una parte importante della popolazione non può permettersi l’acquisto di oggetti costosi come questi, e del relativo abbonamento dati. Si tratta di un divario digitale che rischia di penalizzare proprio chi avrebbe più bisogno di aiuto.

In secondo luogo, stiamo concentrando in quegli scintillanti parallelepipedi di vetro, metallo e silicio una parte sempre più importante e sempre più intima di noi. Chi riesce ad accedere ai nostri smartphone riesce a penetrare nella nostra vita in modi che le costituzioni non potevano prevedere. Che si tratti di criminali informatici, di aziende senza scrupoli o di governi alla ricerca di scorciatoie, il pericolo è potenzialmente grande.

La soluzione non sono solo nuovi lucchetti tecnologici, ma anche e soprattutto una nuova concezione della persona che deve includere anche i dispositivi digitali della persona stessa. Alla legge di Moore, che continuerà a migliorare le prestazioni degli smartphone, dobbiamo urgentemente affiancare un «Habeas corpus et smartphone» che protegga i diritti nell’era digitale.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10524


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - La rete deve restare libera
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2012, 05:33:55 pm
Editoriali
18/10/2012

La rete deve restare libera


Al ministro degli Affari Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata e al ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera

Nei decenni scorsi chi ha progettato, sviluppato e gestito Internet è stato fautore di una struttura di “governance” che, grazie alle sue caratteristiche fortemente evolutive basate su una logica ‘dal basso’, ha contribuito in maniera determinante al successo della “la più grande invenzione del XX secolo” (definizione del Premio Nobel Rita Levi Montalcini). 

Una “governance” improntata al coinvolgimento diretto di tutti i portatori di interessi, alla trasparenza, al rispetto per l’innovazione e alla creatività, anche quando suscettibile di modificare paradigmi politici ed economici consolidati. Un modello di “governance” sicuramente perfettibile, ma che - a oltre 40 anni dalla nascita di Internet e a 20 anni dall’invenzione del Web - non può non essere considerato, nella sua unicità, uno dei principali fattori dello straordinario successo planetario della Rete, quale risorsa globale irrinunciabile proprio nella sua originalità rispetto agli altri mezzi di telecomunicazione.

Nonostante un bilancio così fortemente positivo, però, c’è chi auspica oggi un ritorno a un mondo in cui le tecnologie delle comunicazione siano saldamente nelle mani di pochi e potenti gruppi economico-finanziari e dei governi, con scarso spazio per le ragioni degli individui, della società civile e degli innovatori.

Da questa visione anacronistica nasce la proposta, portata avanti con veemenza, di attribuire all’International Telecommunications Union (Itu), con sede a Ginevra, istituto specializzato delle Nazioni Unite, potere e competenza su aspetti rilevantissimi della policy della Rete, che esorbitano la dimensione strettamente tecnica che dovrebbe caratterizzare Itu.

E’ una proposta spalleggiata da importanti operatori telefonici, che hanno l’ambizione di poter decidere del traffico sulla Rete in una logica di massimizzazione del profitto, e da governi nazionali, tra cui non a caso si annoverano molti di quelli che hanno finora mal sopportato le libertà che Internet ha donato ai cittadini.

Si discuterà della proposta che vorrebbe attribuire a Itu tali poteri regolatori sulla Rete alla conferenza intergovernativa Itu nota come World Conference on International Telecommunications (Wcit-12), che si terrà a Dubai il dal 3 al 14 dicembre.

Noi chiediamo al governo italiano, e in particolare a voi ministri Terzi e Passera, di schierare l’Italia dalla parte della Rete, dell’innovazione, della libertà, come peraltro già raccomandato dalla Commissione europea. Per guardare al XXI secolo con fiducia riconoscendo la novità assoluta rappresentata da Internet anche nel campo dei modelli di regolazione internazionale.

Promotori: Juan Carlos De Martin, Alberto Oddenino e Stefano Rodotà 

Adesioni: Andrea Comba, Edoardo Greppi, Angelo Raffaele Meo, Ugo Pagallo e Marco Ricolfi 

da - http://lastampa.it/2012/10/18/cultura/opinioni/editoriali/la-rete-deve-restare-libera-nF16iQKl0ZzE7eGXGjfrOM/pagina.html


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - Il rischio guerra fredda su Internet
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2012, 03:58:39 pm
Editoriali
17/12/2012

Il rischio guerra fredda su Internet

Juan Carlos De Martin

Dopo mesi di discussioni accorate sul futuro di Internet e dieci giorni di lavori con 1600 delegati, Wcit, la conferenza internazionale sulle telecomunicazioni organizzata dall’Itu a Dubai, si è conclusa con un sostanziale fallimento. Ben 55 paesi, infatti, tra cui l’Europa al completo, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, il Giappone e l’India, si sono rifiutati di firmare il nuovo trattato sulle telecomunicazioni, compromettendone, forse irrimediabilmente, il futuro.

 

E’ vero che ben 89 paesi hanno invece firmato, ma la forza economica e politica degli oppositori, a partire dagli Stati Uniti, pesa come un macigno.

Cosa ha deragliato una conferenza attesa e preparata da anni? Non è facile capirlo. 

 

Il punto di sensibile, infatti, era Internet, eppure la parola Internet non compare mai nelle dieci pagine del trattato (compare in una risoluzione allegata al trattato, ma le risoluzioni non hanno alcun valore vincolante). Inoltre l’articolo 1 specifica esplicitamente che il trattato «non riguarda gli aspetti relativi ai contenuti delle telecomunicazioni», espressione ritenuta da tutti significare: «no Internet». Né compare la proposta, avversata dagli Usa, di alcuni grandi operatori telefonici di far pagare il traffico Internet a Google, Facebook e gli altri grandi servizi Internet. L’unica perplessità di un certo peso la suscita l’articolo 5B, dedicato al contrasto della cosiddetta «spam» (posta elettronica indesiderata inviata a moltissimi indirizzi): con l’obiettivo di eliminare lo «spam», infatti, non si corre il rischio concreto che l’articolo 5B venga usato per legittimare pratiche invasive di ispezione dei messaggi, le stesse usate anche per censurare e sorvegliare? E poi chi decide cosa è «spam» e cosa no? L’obiezione è fondata. Ma appartiene alla categoria dei motivi che portano al deragliamento di una conferenza intergovernativa? Forse - ma c’è ragione di ritenere che i motivi dell’opposizione del blocco guidato dagli Usa siano anche, e forse soprattutto, altri. In particolare è probabile che gli Stati Uniti abbiano scelto di far capire a tutti, nella maniera più esplicita possibile, che l’attuale sistema di governo di Internet non si tocca. Il sistema di governo attuale, infatti, è articolato su organismi come Icann, Ietf e Internet Society, entità emerse nei decenni scorsi dal mondo Internet, ma proprio per questo - nonostante i numerosi tentativi di renderle sempre più rappresentative - di chiara matrice Usa.

 

Saranno i prossimi anni a dire se la scelta degli Usa e degli altri paesi che non hanno firmato il nuovo trattato è stata positiva per lo sviluppo di Internet o se invece ha dato al via a una Guerra Fredda digitale. Se da una parte, infatti, è ragionevole concentrare gli sforzi su un miglioramento del sistema attuale di governo di Internet, che finora ha assicurato alla Rete un successo straordinario, dall’altra parte è ora di iniziare a dar maggior voce a questioni che finora sono rimaste spesso fuori dalla porta. In quale sede discutere efficacemente, per esempio, di chi vince e di chi perde a livello economico con Internet? Dove decidere in tema di diversità culturale? In quale sede globale porsi seriamente il problema di come portare Internet a quella larga parte della popolazione mondiale che ne è ancora esclusa?

 

Sono temi importanti e se l’Itu, con la sua logica intergovernativa, non è l’entità adatta per trattarli, ciò non vuol dire che si possano sostanzialmente ignorare. Qualunque sia la sede, comunque, la chiave per superare sia le pulsioni egemoniche dei governi sia i concreti interessi delle multinazionali è la società civile. E’ la società civile globale, infatti, con le sue organizzazioni non profit, le università, gli intellettuali, che può meglio assicurare che Internet rimanga uno strumento al servizio delle persone, nonché, come da anni dice Stefano Rodotà, il più grande spazio pubblico della storia dell’umanità.

da - http://lastampa.it/2012/12/17/cultura/opinioni/editoriali/il-rischio-guerra-fredda-su-internet-XKC7Udht3AVuqM9Hu7VULJ/pagina.html


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - Il digitale non può aspettare
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2013, 05:17:05 pm
Editoriali
02/01/2013

Il digitale non può aspettare

Juan Carlos De Martin

In questa convulsa campagna elettorale si parla molto di liste, schieramenti e candidati, ma troppo poco di contenuti. Come se l’attenzione per nomi e simboli potesse sostituire quel confronto serrato sui problemi senza il quale non si capisce come gli elettori possano votare in maniera informata. E relativamente a poco servono i programmi elettorali, documenti spesso generici e comunque quasi mai oggetto di un vero dibattito pubblico. 

 

Tra le molte, pressanti questioni che deve affrontare l’Italia c’è anche quella del digitale. Uso apposta il termine «digitale» invece che Ict (Information and Communication Technologies) perché intendo qualcosa di decisamente più ampio delle tecnologie in quanto tali. Mi riferisco alla profonda trasformazione di società, cultura ed economia provocata dal digitale; trasformazione che è già uno dei fenomeni distintivi del presente, ma che caratterizzerà ancora di più i prossimi anni. Una rivoluzione che, pensando alla prossima legislatura toccherà trasversalmente tutti i Ministeri e tutte le commissioni legislative. Le forze politiche che tra meno di due mesi chiederanno il voto agli italiani cosa pensano di fare affinché l’Italia sia pronta a usare il digitale - la tecnologia chiave del XXI secolo - a proprio vantaggio? I loro esperti nei vari settori, - dall’istruzione ai trasporti, dalla difesa ai media - che idee hanno sul digitale? Non basta avere qualcuno che si occupi di «innovazione» o di Ict: il tema è ben più vasto e trasversale, e richiede consapevolezza e competenze nuove. Non a caso grandi Paesi come gli Usa e la Cina si sono dati, e non da ieri, vere e proprie strategie digitali a 360 gradi. Le ricadute, infatti, riguardano tutti i settori. Ricadute che è importante che le forze politiche siano in grado di analizzare con risorse interne sia per evitare di essere troppo influenzabili da interessi particolari, sia per articolare la loro propria visione politica in merito al digitale. Perché se è vero che certi obiettivi, come il superamento del divario digitale, sono sostanzialmente condivisi da tutti, altri sono suscettibili di venir declinati diversamente a seconda delle diverse visioni politiche. Si pensi in particolare alla scelta, squisitamente politica, di come bilanciare tra loro diversi obiettivi di fondo, come per esempio sicurezza e riservatezza. Oppure se e come dare peso al diritto stesso di accedere a Internet. Stefano Rodotà ha proposto di inserire un nuovo comma nell’articolo 21 della Costituzione: «Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale». 

 

Cosa ne pensano le forze politiche della proposta Rodotà? Ce n’è qualcuna pronta a sostenerla concretamente nella prossima legislatura? O, ancora, quali forze politiche sono disposte a prendere sul serio Internet nel ripensare i propri processi decisionali e i propri rapporti con iscritti, simpatizzanti e pubblica opinione? Non si tratta solo di andare su Facebook o di usare Twitter: il potenziale è molto più grande, c’è in gioco la possibilità di realizzare per la prima volta sul serio forme avanzate di democrazia partecipativa. E’ importante che su questi e altri temi le forze politiche si esprimano adesso: nel redigere i programmi, nel selezionare i candidati e poi quando formeranno il prossimo governo.

 

Nel digitale, infatti, l’Italia parte già in forte svantaggio, regolarmente collocata verso il fondo di tutte le classifiche europee e Ocse. Con gli altri Paesi che continuano a investire risorse - intellettuali oltre che economiche - sul digitale, non possiamo permetterci di non sfruttare al massimo l’occasione rappresentata dalla prossima legislatura.

da - http://lastampa.it/2013/01/02/cultura/opinioni/editoriali/il-digitale-non-puo-aspettare-ATNgncClJSfz1ekAHoJe1J/pagina.html


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - La nuova sfida: educare chi va sul web
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2013, 11:47:32 am
Editoriali
05/05/2013

La nuova sfida: educare chi va sul web

Juan Carlos De Martin

Prima archivieremo la contrapposizione fumettistica tra perfidi cavalieri neri che vogliono azzittire la Rete e candidi cavalieri jedi che ne difendono l’immacolata libertà e prima ci faremo tutti un grande favore. La questione, infatti, è quella della libertà di espressione, uno dei cardini della modernità e della democrazia - questione troppo importante per permetterci semplificazioni.

In Italia il dibattito su libertà di espressione e Web è in corso da anni, ma ora è stato rilanciato dai Presidenti Grasso e Boldrini, rispettivamente seconda e terza carica dello Stato. Accogliendo il loro autorevole invito, tentiamo allora di articolare una «cognizione delle cose particulari» (Machiavelli, «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio», I, 47) evitando contrapposizioni e generalità. Con grande rispetto per il ruolo dei Presidenti, ma ancor di più per i fatti.

 

Primo fatto: il Web non è mai stato e non è una terra senza leggi. Tutti gli articoli del codice penale che regolano le espressioni umane (tra cui diffamazione, istigazione a delinquere, sostituzione di persona e trattamento illecito di dati personali) si applicano ai puntini luminosi che compaiono sugli schermi esattamente quanto alle goccioline di inchiostro sulla carta e alle onde sonore di voce, radio e televisione. Quindi non aiuta il pensiero, e men che meno l’azione politica, parlare di «anarchia» o evocare il «Far West». Si ritiene che gli attuali articoli del codice penale non siano sufficientemente precisi o esaurienti per coprire tutta la casistica dei comportamenti criminali? Se ne discuta; ma il primo passo della discussione dovrebbe essere l’identificazione delle specifiche attività non ancora contemplate dal codice che si ritiene che debbano diventare penalmente rilevanti.

 

Tuttavia, a leggere con attenzione le interviste e le dichiarazioni sembrerebbe che il problema in realtà consista nella carente applicazione delle norme esistenti, più che in carenze legislative. In particolare si lamenta la frequente lentezza del percorso giudiziario. Tale lentezza è in parte legata alle ben note caratteristiche del sistema giudiziario italiano, ma nel caso del Web si sommano altri due fattori: il carattere internazionale della Rete e la vastità del fenomeno, ovvero, l’elevato numero delle persone che ogni giorno sul Web diffamano, minacciano, incitano a delinquere, eccetera.

 

Riguardo al primo fattore, è un dato di fatto che il percorso che porta alla rimozione di un contenuto illecito può essere lungo, soprattutto se i server sono all’estero o se gli intermediari (quando ci sono) pretendono, come peraltro è giusto che sia, il pieno rispetto dei diritti dei loro utenti. Tuttavia non è un caso che non basti una semplice segnalazione per rimuovere un determinato contenuto: occorre infatti bilanciare diritti fondamentali contrapposti, bilanciamento che da molto tempo abbiamo collettivamente deciso di demandare, per la sua delicatezza, ai giudici e non, per esempio, a procedure amministrative.

 

Il secondo fattore, ovvero, l’elevato numero delle persone coinvolte, è a mio avviso quello decisivo. Le reti sociali, infatti, hanno improvvisamente permesso a chiunque con un accesso alla Rete (circa un italiano su due) di dire con estrema facilità quel che gli passa per la testa. Di conseguenza i pensieri meschini, violenti, ignoranti, razzisti, misogini (ma anche gentili, colti, poetici) che fino a ieri rimanevano confinati nell’ambito ristretto di pianerottoli, bar e tram ora compaiono su bacheche di portata potenzialmente planetaria. In altre parole, il contenuto delle teste di molti italiani (non tutti, tendenzialmente i più estroversi e disinibiti) si è riversato online. Il risultato può commuoverci o informarci, ma anche lasciarci allibiti, indignati o addirittura feriti. Ma, che ci piaccia o meno, sono nostri concittadini che pensano quelle cose - non alieni. Il Web mette loro in mano carta e penna e offre una bacheca a cui appendere i loro foglietti: sta agli utenti decidere come usare questa possibilità.

 

A mio avviso, quindi, la vera sfida che abbiamo davanti è educativa. Parafrasando d’Azeglio: abbiamo fatto la Rete, ora dobbiamo fare gli internauti. Sfida educativa non solo nel senso di Tullio De Mauro, ovvero, di portare a livelli di civiltà la percentuale di italiani - al momento appena il 20-25% - dotati degli strumenti cognitivi per orientarsi ed esprimersi in una società moderna. Ma anche nel senso specifico di istruire gli italiani (semplici cittadini ma anche insegnanti, magistrati, giornalisti, politici) su possibilità e limiti della comunicazione online, sui principi etici che dovrebbe regolarla, sulle norme sociali che la Rete stessa ha prodotto fin dagli Anni 70 (la cosiddetta «netiquette») e, infine, sui limiti invalicabili imposti dalla legge.

Solo così potremmo superare con successo questa primissima fase dello sviluppo di massa della Rete, questa tumultuosa adolescenza. Con gli italiani un po’ più consapevoli e senza scorciatoie potenzialmente dannose per la democrazia.

da - http://lastampa.it/2013/05/05/cultura/opinioni/editoriali/la-nuova-sfida-educare-chi-va-sul-web-lSPPIHDJmwrx60VG3j37dJ/pagina.html


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - Quello scambio fra libertà e sicurezza
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2013, 06:14:07 pm
Editoriali
08/06/2013

Quello scambio fra libertà e sicurezza

Juan Carlos De Martin


Per capire il senso delle rivelazioni di questi giorni, è opportuno fare un passo indietro, fino ai campus americani di metà Anni 60. Allora, a Berkeley e altrove, gli studenti protestavano contro una macchina che per loro era il simbolo del Sistema che volevano riformare, ovvero, il computer. Nato durante la Seconda Guerra Mondiale, infatti, il computer era rapidamente diventato una delle macchine cardine della Guerra Fredda. Cardine perché strumento in grado di effettuare i calcoli balistici e scientifici necessari a garantire la supremazia militare americana. E cardine perché il computer consentiva di padroneggiare, tramite l’acquisizione e l’elaborazione di informazioni, sia lo scacchiere internazionale, sia, in parte, la società.

Appena pochi anni dopo, però, negli Anni 70 e 80, la situazione sembra

ribaltarsi: il computer, infatti, da macchina grande, costosa e controllata dal «Sistema», diventa piccolo, economico e personale. Il simbolo del controllo e persino dell’oppressione viene celebrato da molti, e non senza ragione, come strumento di liberazione e di «empowerment» dell’individuo. Col decollo di Internet, poi, l’entusiasmo dei libertari digitali è alle stelle, come dimostra in modo emblematico la Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio del 1994.

Ma proprio a metà degli Anni 90 diversi fattori convergono per cambiare lo scenario.

Il primo è l’emergere delle grandi piattaforme che da una parte rendono molto più facile pubblicare online, blog, foto, video, ecc., ma che dall’altra rendono possibili forme altamente efficienti di sorveglianza delle attività degli utenti. Con l’emergere di piattaforme dominanti, poi, i Governi - e in particolare quello americano, visto che quasi tutte le piattaforme sono basate negli Usa - tornano ad avere la situazione preferita ovvero alcuni, pochi interlocutori a cui chiedere favori o dare ordini.

Il secondo fattore è la diffusione di massa degli «smartphone», computer sempre connessi che contengono e producono una quantità enorme di dati sulla nostra vita personale e professionale.

Il terzo fattore è l’incredibile riduzione dei costi di immagazzinamento dati, costi così bassi che a un certo punto diventa possibile, anche per governi non particolarmente dotati di mezzi, memorizzare le tracce digitali prima di alcuni cittadini, poi di milioni di cittadini e infine di tutti i cittadini.

Con l’11 settembre 2001 la politica americana (e non solo), consapevole dei fattori di cui sopra, reagisce all’attentato cambiando il corso della storia digitale. Torna prepotente il desiderio, nato con la Guerra Fredda, di sviluppare una «consapevolezza informativa totale», che però questa volta si realizza davvero, visto che è diventato economicamente sostenibile ciò che una volta avrebbe richiesto risorse che nemmeno il Paese più ricco del mondo poteva mettere in campo.

Al posto dell’Unione Sovietica, c’è ora il terrorismo. Al posto di pochi «mainframe», ci sono miliardi di telefoni e di computer nelle tasche e nelle case di molti. Al posto del web decentralizzato degli esordi, c’è una manciata di grandi piattaforme, usate da miliardi di persone e praticamente tutte americane.

Se oggi gli studenti tornassero a protestare avrebbero, quindi, un bersaglio molto più difficile dei loro predecessori degli Anni 60. Un bersaglio nelle tasche di ciascuno di loro, un bersaglio profondamente ambiguo perché portatore anche di grandi benefici personali e collettivi.

La protesta dovrebbe allora necessariamente abbandonare l’attenzione alla macchina in quanto tale per concentrarsi sulle grandi questioni della democrazia e dei diritti. Ponendo con forza soprattutto due domande: quanta libertà siamo pronti a sacrificare in cambio di (forse) più sicurezza? E quanto a lungo può sopravvivere la democrazia se le attività dei governi non sono soggette a limiti e a controlli?

da - http://lastampa.it/2013/06/08/cultura/opinioni/editoriali/quello-scambio-fra-libert-e-sicurezza-byK5Zs6QCih72lbQoO9FeN/pagina.html


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - Un passo avanti, ma nella banda larga l’Italia è ferma
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2013, 08:46:45 am
Editoriali
14/06/2013

Un passo avanti, ma nella banda larga l’Italia è ferma

Juan Carlos De Martin


Il presidente del Consiglio, con un tweet, ha annunciato la nomina di Francesco Caio a “Mr Agenda Digitale”. Al di là delle innegabili competenze della persona, la creazione di un Mister Digitale che risponde direttamente a Enrico Letta è un passo potenzialmente importante per almeno due motivi: perché supera il rischio di conflitti tra ministeri e perché aumenta la rilevanza politica dell’agenda digitale. Era decisamente ora.

 

Proprio ieri, infatti, la Commissione europea ha pubblicato i dati relativi alla situazione dell’Agenda Digitale europea e l’Italia, ancora una volta, arranca. Qualche dato: in Italia le connessioni a banda larga mediamente veloci (sopra i 10 milioni di bit al secondo, Mb/s) sono appena il 14%, contro una media europea del 59%; solo Cipro fa peggio di noi. Per non parlare delle connessioni veloci (sopra i 30 Mb/s) e velocissime (sopra i 100 Mb/s), quasi inesistenti in Italia, ma che in Europea sono già rispettivamente il 15% e il 2%. Basso anche il numero di utenti che usano Internet almeno una volta alla settimana - sono il 53%, contro il 70% della media europea - e la percentuale di individui che hanno usato servizi di eGovernment: solo il 19%, ultimi in Europa dopo Bulgaria, Croazia e Cipro. Deprimenti anche quasi tutti gli indicatori sul commercio elettronico e sull’uso di servizi Internet.

 

E’, dunque, impegnativa l’agenda finita nelle mani di Francesco Caio, che dovrà articolare una strategia di intervento con almeno tre filoni principali. Il primo è quello infrastrutturale: portare la larga banda dove ancora non c’è e aumentare velocità e qualità di tutte le connessioni. Se ne discute da anni, ma ora è tempo di passare ai fatti per evitare che il distacco rispetto al resto d’Europa aumenti ulteriormente. Il secondo filone è quello economico: particolarmente nel mezzo di una recessione economica di portata storica, davvero speriamo di portare online quella considerevole parte della popolazione che fa fatica ad arrivare a fine mese senza qualche forma di aiuto? Sia attrezzando biblioteche e spazi pubblici con computer e Wi-Fi sia con sostegni all’acquisto dobbiamo trovare modi efficaci e sostenibili per chiudere il divario economico. Infine il terzo filone, ovvero, quello della lotta al divario culturale. Sono milioni, infatti, gli italiani ai quali mancano gli strumenti culturali per beneficiare della Rete. Mr Agenda Digitale, d’intesa col Ministro dell’Istruzione, dovrà occuparsi anche di loro. Cavi e schermi, infatti, servono a qualcosa solo se ci sono cittadini e lavoratori in grado di metterli a frutto.

 DA - http://lastampa.it/2013/06/14/cultura/opinioni/editoriali/un-passo-avanti-ma-nella-banda-larga-litalia-ferma-BgpJCuYEUWFJs7HqFubevO/pagina.html


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - La palla al piede del Wi-Fi italiano
Inserito da: Admin - Luglio 23, 2013, 04:28:48 pm
Editoriali
23/07/2013

La palla al piede del Wi-Fi italiano

Juan Carlos De Martin


Il Wi-Fi in Italia sembra affetto da una maledizione. Ogni volta, infatti, che il suo uso sembra sul punto di venir finalmente liberalizzato qualche contraddizione nelle norme, qualche codicillo ignorato, qualche lacciolo ancora vigente salta fuori e si mette di traverso.

 

Ritardando, quindi, il diffondersi in Italia di un’esperienza che all’estero è da anni normale, mentre da noi è ancora rara, ovvero, sedersi in un caffè, una biblioteca o un aeroporto e connettersi direttamente, semplicemente a Internet. Senza compilare moduli più o meno complessi, senza fornire i dati della propria carta di credito, senza doversi iscrivere a servizi di autenticazione. Sembra scontato, ma in Italia non lo è. E non da ieri: sono, infatti, ben otto anni che l’Italia ci tiene a far sapere al mondo che il Wi-Fi - la modalità di accesso a Internet più semplice, più economica, la più disponibile in dispositivi di tutti i tipi - proprio non le garba.

 

Otto anni inaugurati nel luglio 2005, quando, subito dopo l’attentato di Londra, il governo Italiano fece, emanando il cosiddetto decreto Pisanu, una scelta senza paragoni nel mondo sviluppato, ovvero, impose non solo l’identificazione con documento d’identità di chiunque accedesse a Internet da una postazione pubblica (Wi-Fi o fissa), ma anche la preservazione delle relative tracce della navigazione. Così facendo, veniva, in nome della sicurezza, affibbiata una palla al piede del Wi-Fi italiano precisamente nel momento in cui il Wi-Fi si accingeva a esplodere in tutto il mondo, nelle catene di negozi come nelle biblioteche, nei campus universitari come nei giardini pubblici. In Italia, infatti, il bar o la biblioteca che avesse voluto offrire connettività ai propri utenti doveva non solo dotarsi di connessione a Internet e degli appositi punti di accesso Wi-Fi, ma doveva anche preoccuparsi di identificare in maniera forte ogni singolo utente e di dotarsi di apposito software per l’archiviazione dei relativi dati di navigazione.

 

Troppo per un paese già poco digitale di suo come l’Italia.

 

Veniva quindi a mancare il terzo pilastro che, a fianco dell’accesso fisso e del cellulare, altrove è servito e tuttora serve a diffondere Internet, appunto, il Wi-Fi. Lasciando agli italiani in mobilità una sola scelta, ovvero, l’accesso a Internet tramite la rete cellulare, non a caso uno dei pochi ambiti dove gli Italiani primeggiano nel panorama digitale internazionale.

 

Nel maggio 2010, però, il lancio dell’Agenda Digitale europea aumenta la consapevolezza dell’arretratezza digitale dell’Italia, che secondo un gran numero di indicatori oscilla intorno al 24° posto su 27 paesi. Si rafforzano, quindi, le voci che sottolineano l’assurdità del decreto Pisanu in un paese in così grave ritardo digitale come il nostro.

 

A fine 2010 parti cruciali del decreto Pisanu non vengono prorogate, aprendo varchi importanti verso la piena liberalizzazione del Wi-Fi in Italia. Ma rimangono ancora alcuni dubbi normativi, sufficienti a spaventare la maggior parte degli esercizi commerciali e la quasi totalità delle pubbliche amministrazioni (con la lodevole eccezione della Regione Piemonte).

 

E’ da allora, quindi, che si attende un intervento legislativo che spazzi via gli ultimi ostacoli e dia il via libera definitivo al Wi-Fi italiano. Ancora nei giorni scorsi un emendamento al decreto del governo ha riproposto i vecchi ostacoli. Il presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia ieri sera ha promesso che le difficoltà saranno superate e l’accesso diventerà finalmente libero. Sarà vero? Oggi lo sapremo.

da - http://www.lastampa.it/2013/07/23/cultura/opinioni/editoriali/la-palla-al-piede-del-wifi-italiano-ycZk3jrLxJ65pEaEwwvTTJ/pagina.html


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - Crowdfunding, le “collette” per il rilancio
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2013, 10:33:11 am
Editoriali
27/07/2013

Crowdfunding, le “collette” per il rilancio

Juan Carlos De Martin


Da oggi arriva in Italia il regolamento Consob sul finanziamento delle start-up col «crowdfunding». È il primo regolamento del genere in Europa.
I cittadini potranno finanziare le nuove imprese innovative che abbiamo determinati requisiti. «Crowdfunding» e «crowdsourcing» sono due tra le parole più di moda del momento. Indicano, rispettivamente, finanziamenti (funding) o contributi di altra natura (outsourcing) provenienti da semplici individui (crowd, ovvero, la folla). 

 

Ma se entrambe le parole hanno solo pochi anni di vita (sono state coniate nel 2006), i due concetti sono antichi di secoli. I più disincantati infatti potrebbero dire che invece di «crowdfunding» si potrebbe semplicemente dire colletta e citare le raccolte di fondi che hanno permesso di realizzare, per esempio, sia molti monumenti (da quelli dedicati a eroi del Risorgimento alla Statua della Libertà) sia numerosi libri (come l’edizione dei lavori di Martin Lutero pubblicata da Johann Heinrich Zedler nel ’700). E potrebbero ridimensionare anche la novità del «crowdsourcing» ricordando, per esempio, i 6 milioni di contributi inviati da persone di tutto il mondo per arricchire l’Oxford English Dictionary a partire dalla metà dell’800.

 

Tutto vero. Eppure rispetto al passato qualcosa di nuovo c’è davvero e quel qualcosa è, come spesso capita in questi anni, una conseguenza della rivoluzione digitale. Grazie a Internet, infatti, raccogliere sia fondi sia contributi di altra natura (purché rappresentabili sotto forma di bit) è diventato immensamente più facile rispetti ai tempi di Johann Zedler o dell’Oxford English Dictionary.

 

E’, infatti, diventato più facile comunicare, raccogliere i contributi e restare in contatto con i contributori. E’ diventato più facile comunicare che cosa si chiede e perché lo si chiede: basta un sito web, magari arricchito da video accattivanti. E’ diventato più facile ricevere i contributi: per i soldi basta saper accettare carte di credito o bonifici, mentre per i contributi basta la posta elettronica, un «wiki» o una cartella condivisa.
E’ diventato più facile rimanere in contatto con la comunità dei contributori: basta un sito web o anche solo Facebook.

 

Processi vecchi di secoli vengono dunque fortemente democratizzati, permettendo a chiunque in grado di usare con un minimo di abilità la Rete di chiedere a una platea potenzialmente mondiale aiuto per la realizzazione di un proprio progetto. Per fare cosa? I campi di applicazioni del crowdfunding sono moltissimi.

Nel 2008 Obama nel corso della sua prima campagna elettorale sfrutta con sapienza il Web per raccogliere milioni di piccoli contributi; un chiaro segnale, fortemente politico, di affrancamento dai poteri forti e dai loro assegni. L’anno dopo viene fondata Kickstarter.com, che diventa in breve tempo la più famosa piattaforma di «crowdfunding». Grazie a Kickstarter vengono incisi album, girati film, scritti libri, realizzati prototipi innovativi e molto altro ancora. Parliamo di oltre centomila progetti, di cui quasi la metà realizzati, per contributi che ammontano complessivamente a 717 milioni di dollari (quasi 540 milioni di euro).

 

L’evoluzione continua e oggi le piattaforme di crowdfunding si stima che siano quasi cinquecento, tra cui alcune italiane, per un giro di contributi di circa tre miliardi di euro nel 2012, e di circa il doppio, secondo alcune stime, per il 2013. Si è, quindi, stabilmente affermato un nuovo, importante canale per il finanziamento di iniziative di vario tipo, che si affianca ai canali tradizionali, come il finanziamento pubblico e gli sponsor. E’, però, bene aver presente che il crowdfunding richiede non solo una generica competenza nell’uso degli strumenti digitali, ma anche e soprattutto la capacità di catturare l’attenzione dei navigatori e di convincerli a contribuire.

 

Obiettivo non facile in generale, ma che col crescere del numero dei progetti, e quindi della competizione, diventerà per forza di cose sempre più difficile da raggiungere. Tanto più se l’economia non riprenderà a girare, rimettendo qualche soldo in tasca a tutti noi, folla di potenziali finanziatori di poeti e ricercatori.

da - http://www.lastampa.it/2013/07/27/cultura/opinioni/editoriali/crowdfunding-le-collette-per-il-rilancio-Bxn2UuqOFQ51bzGrL4Ub6H/pagina.html


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - La soluzione vera si chiama democrazia
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2013, 06:43:26 pm
Editoriali
03/11/2013 - L’analisi

La soluzione vera si chiama democrazia
Juan Carlos De Martin

Vecchio contro nuovo, generazione dei «padri» contro quella dei «figli»: una formula che funziona alla meraviglia nei media come in politica. E’ quello che devono aver pensato quelli del «Financial Times» quando hanno deciso di enfatizzare le differenze tra Bill Gates e Mark Zuckerberg in materia di priorità sociali.

Da una parte il principale esponente della prima generazione di imprenditori digitali, quella del personal computer, il fondatore di Microsoft, 58 anni, secondo uomo più ricco del pianeta. Dall’altra forse il più visibile rappresentante della generazione Web, il fondatore di Facebook, 29 anni, quasi 17 miliardi di dollari di patrimonio personale.

Un confronto «padre-figlio» tra miliardari famosi in tutto il mondo: come resistere? Al di là degli aspetti mediatici, però, il tema dello scontro Gates-Zuckerberg è importante. Si tratta, infatti, di decidere come spendere quei miliardi di dollari che i magnati digitali decidono - seguendo una meritoria tradizione anglosassone - di restituire ogni anno alla società. Dedicarli al digitale portando online i cinque miliardi di esseri umani che ancora non lo sono, come vorrebbe fare, per altro in buona compagnia, Zuckerberg? D dedicarli a combattere piaghe devastanti come la malaria, come invece si è impegnato a fare, oltre al resto, Bill Gates con la sua potente fondazione?

Sono due modi, radicalmente diversi, di intendere le priorità sociali del nostro tempo: tecnocentrico il primo, più umanista il secondo. Tutti, Gates incluso, concordano che dare Internet a ogni essere umano sia un obiettivo molto importante (a proposito: Mark, per favore ti occupi anche dell’Italia? Da noi quasi una persona su due è ancora offline. Grazie!). Ma ha ragione Gates quando dice che la priorità dovrebbe essere data ai «bisogni umani», ai «bambini che non devono morire», alle persone che hanno bisogno di istruzione.

Bisogna insomma avere l’umiltà di mettersi al posto delle persone che si vogliono aiutare e capire che il loro bisogno di acqua potabile, cibo, cure mediche, protezione dalle discriminazioni per motivi sessuali, religiosi o politici vengono in generale molto prima del loro bisogno di smartphone e banda larga. O, in ambito educativo, che viene prima il bisogno di un’aula pulita, un insegnante preparato e di avere 20 alunni invece di 60, e poi - solo poi - il bisogno di tablet e «app».

Tuttavia, nonostante queste differenze, Gates e Zuckerberg (e molti altri come loro) sono in realtà molto simili. Sono, infatti, dei tecnocrati. Per loro conta solo l’organizzazione, l’evidenza scientifica, la logistica. E così non si accorgono del carattere profondamente politico delle loro scelte. È più importante combattere la malaria o la fame nel mondo? È socialmente più utile dare telefoni cellulari alle donne a rischio violenza o carrozzelle ai paralizzati? L’algoritmo per rispondere a queste domande, cari amici digitali, semplicemente non esiste. O meglio, esiste, ma non è quello a cui pensano Gates, Zuckerberg, Page e Bryn. Si chiama democrazia. Imparate a sostenerla e ad apprezzarne la sua saggezza.

Da - http://lastampa.it/2013/11/03/cultura/opinioni/editoriali/la-soluzione-vera-si-chiama-democrazia-7zYXFwJhHWHInoR3LYCO8J/pagina.html


Titolo: JUAN CARLOS DE MARTIN. - Le condizioni per l’Internet europeo
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2014, 07:15:36 pm
Editoriali
17/02/2014

Le condizioni per l’Internet europeo
Juan Carlos De Martin

Fa un po’ sorridere l’idea che un capo di governo europeo - come la Cancelliera Merkel ieri - scopra all’improvviso che molto traffico Internet europeo passi fisicamente per gli Usa. 

O che i giganti del Web basati oltre-Oceano non siano pienamente soggetti alle regole sulla privacy dell’Unione Europea. E’ possibile, infatti, che i suoi analisti non l’abbiano mai informata che per motivi economici da molti anni, forse da sempre, spesso è più conveniente passare dagli Usa anche se si vuole mandare una email da, per esempio, Torino a Berlino? E’ possibile che il suo ministro che si occupa di privacy non l’abbia mai informata che dal lontano 2000 esiste un accordo Europa-Usa (approvato anche dalla Germania) chiamato «Safe Harbor» («porto sicuro») che di fatto consente alle aziende web Usa di operare in Europa senza il pieno rispetto delle rigorose norme europee sulla privacy?

Ovviamente un politico attento come la Cancelliera Merkel non può non conoscere questi dati di fatto fondamentali relativi a Internet e ai dati personali dei cittadini europei. Tuttavia, da politica navigata qual è, sa bene che in questi casi è politicamente conveniente fingersi ignari del passato in modo da poter chiudere un occhio sulle responsabilità - sue, dei suoi predecessori e dei suoi colleghi europei - e guardare avanti. 

Ma veniamo al merito delle intenzioni che Angela Merkel ha espresso alla vigilia del suo incontro col presidente francese.

La prima intenzione è quella di far sì che il traffico Internet che collega mittenti e destinatari europei non esca, lungo la strada, dall’Europa, e in particolare non passi dagli Stati Uniti. Così come una raccomandata da Voghera a Lione di norma non passa per Dallas, così come una telefonata da Amsterdam a Barcellona di norma non passa per Mosca, allo stesso modo si vuole che la posta elettronica e gli altri flussi dati tra europei non passino per New York o Pechino. Ora non è così. 

Come già accennato, infatti, per motivi che sono quasi sempre banalmente economici - ovvero, di minimizzazione dei costi - il traffico Internet tra due destinazioni europee passa non infrequentemente per l’estero, e in particolare passa per gli Stati Uniti che, anche per aver inventato e sviluppato Internet, hanno una infrastruttura di trasmissione dati molto competitiva. Tenere il più possibile in Europa i flussi dati intra-europei è un obiettivo ampiamente condivisibile. Paesi come Usa, Cina e Russia sono probabilmente da sempre attenti alle traiettorie fisiche dei propri dati web, ed è un bene che anche l’Europa si ponga finalmente il problema. L’effettiva implementazione, però, non sarà semplice. Da una parte, infatti, bisognerà mettere da parte il dogma che la mano invisibile del mercato sia la risposta, sempre e comunque, a qualsiasi problema. Dall’altra, bisognerà accuratamente evitare di «balcanizzare» la Rete, ovvero, di spezzare l’attuale Rete globale in sotto-reti nazionali o macro-regionali. A mio avviso è possibile farlo adottando un appropriato mix di «moral suasion», incentivi e regole, ma, ripeto, non sarà semplice: occorrerà molta accortezza, anche tecnica, e un acuto senso per le possibili conseguenze inattese di scelte in apparenza innocue.

Il secondo obiettivo della Cancelliera Merkel riguarda i dati personali. 

Tutti gli addetti ai lavori sanno benissimo che in Europa esiste un’asimmetria tra le aziende Usa e quelle europee. Le prime, infatti, possono usufruire del «Safe Harbor», l’accordo Usa-Europa sopra ricordato, che di fatto consente loro di operare con regole sulla privacy meno stringenti di quelle che invece valgono per i loro concorrenti europei. Questa asimmetria - che struttura il mercato dei dati personali a favore degli Usa - deriva, però, da una precisa politica europea, Germania inclusa. 

Si è trattato all’epoca - con ogni probabilità - del risultato di qualche compromesso tra i molti dossier che giacciono sempre sul tavolo Usa-Europa. Ora Merkel sta forse segnalando l’inizio della messa in discussione del «Safe Harbor» sulla privacy. Se questo annuncio avrà seguito dipenderà dal sostegno che la Cancelliera riceverà dagli altri Paesi europei, sostegno che a sua volta dipenderà in larga misura dal prezzo che inevitabilmente ci sarà da pagare in qualche altro settore degli scambi Usa-Europa. Nei prossimi mesi vedremo se i nostri governi, italiano incluso, saranno disposti a sacrificare qualcosa in nome di una più stringente tutela dei dati dei cittadini europei.

Twitter: @demartin 

Da - http://www.lastampa.it/2014/02/17/cultura/opinioni/editoriali/le-condizioni-per-linternet-europeo-bwwi0SY2cAs3k5i0jSsCCO/pagina.html